Per terminare la foce della Sapienza
era necessario commuoversi sulle tue
labbra, attendere il basamento nella
tua bocca; la lingua a scavare nei
tuoi occhi verdi. Quasi al mezzo tono
noi due ci amiamo: simili ad illimitati toni,
in fuga dal pentagramma, le lettere noi
sedimentiamo nel pianto. Sulla lanterna
in cima alla Sapienza l’ottava si trapassa,
nella carcassa sospesa, le bocche sfiniscono.
Tu sei nella cariatide arcaica, nel mio fluido
sfoghi il sangue. Non attendere la fine della
Sapienza. Ascolta il canto della mia confessione.
*
– S. Maria della Vittoria
L’incenso adesso invoca le gote pallide; la bocca
trabocca di baci, trabocca la brocca di baci. Non
basta attendere un tempo intero per saturarsi, le
cime scivolano sulle fronti, di cento in cento s’
addensano sulle gote, di mille in mille vogliono
sacrificarsi in lacrime, obliare le fonti vuote. I
bianchi nembi celano la tua arcana nudità, senti
come lievemente trafiggo il candido, ti vengo
incontro. Dopo, io e te tenuti per mano io
con te felici insieme fioriamo nella Luna pallida.
*
Martirii ( Sacro cuore di Gesù)
Sono stato in alcuni posti, senza di te
che grattavi la pelle via dal volto.
Di sasso in sasso, non ti giravi più di
spalle per farti mordere, non velavi
più le lacrime sul viso dissetato, le contrazioni
del depressore, dell’orbicolare affrescati
sulla parete. Una volta apertosi il cielo
il ventre si distenderà ad accogliere l’
intradosso, la luce divaricherà i piedritti, la
steppa che ti correva dietro. Sono stato epodico
senza di te. Il Michele era seduto sul trono
in pietra, si infilzava gli occhi verdi
con la punta della spada. Nell’istante passato
a 20 metri mortifichiamo la salsedine, il ferro freddo.
Tra 20 metri guardami: io sarò tornato da te.
*
Dispersioni (S. Maria Immacolata)
Non tutto l’essere può essere presente, ci si
ostina ad attraversare le spoglie tanto da
disperdere l’immagine apparsa di
recente. Ora già rinasciamo coperti dalla
sacra melma secreta dai riposi della Lucia,
ora anche il Danubio si soffre immerso
nell’amniotico. Tu dici portami, resistimi
al guado, io velato d’un zendado. Tu dici
offrimi nell’abside, forami con le trifore,
versami nella tua gola –sulle navate
incise le tue grida, sulle navate sofferti
i rari esametri. Vieni, un giorno siamo
giovani, ci ricordiamo nei salici all’
angolo dei nostri corpi. Il giorno
dopo, la notte si sveste tra la luna
e il fuoco, incide il velo, scopre il capo.
A tratti poi, il tuo sorriso intimorisce
la parola, germogliano i distici miei
tra le tue labbra, vivono nel tuo blando
respirare. Ci si disperde certe volte.
*
Eliotropio (S. Susanna alle Terme)
Sono rimasto sperduto nelle tue spoglie,
mi radico inconsapevole nella città lontana,
quasi tu fossi il mondo. Là uno sguardo
resiste il fondo. Attendo, persisto il confine,
sconfino nel pianto. Nelle lacrime noi
mortifichiamo i vent’anni, sfioriremo
nel perdonarci delicatamente all’una
e mezzo di notte. Saremo Cassandre sole.
Biografia di Elena Denisa Alexandru ha pubblicato poesie su varie riviste e blog letterari, tra i quali Inverso, Avamposto online e cartaceo (n.1), Margutte, ed Euterpe.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
adesso che non ho più il silenzio
ma un fischio senza fine
sento solo il silenzio degli altri
quello a fare solitudine
la lingua incagliata tra i denti
della parola non detta
quella di un mondo del lavoro
a negare la dignità senza dire
orfano di terra di madre
parlo con te acufene
un ascoltare te
che non ascolti me
*
sono una conchiglia di terra
muovo passi sul mattino alpino
alla finestra lo sguardo
fa il cielo mare piatto
sono una conchiglia
l’orecchio porta nella testa
l’eco degli oceani e dei mari
tutti quelli possibili dell’emigrante
l’acufene seduto sul lobo
canta mille lingue e terre
in un solo fischio
*
sento il canto delle sirene d’Ulisse
il richiamo dell’onda mediterranea
il frangersi della spuma degli oceani
il muoversi lento del lago
il vento a spazzare le strade d’Europa
il ciclone a scuotere le palme caraibiche
il turbinio delle foglie d’autunno
il pizzicare della cetra sull’incendio di Roma
il ritmo del charango sulla povertà dei barrios
il ballo del tango e delle balere di periferia
il suono dell’arte continuo
come Van Gogh lascio
l’orecchio sul comodino
a sentire lo scorrere del Rodano
a passare senza posa come un acufene
*
non mi perderò nella nebbia densa di Londra
trafitta dal canto perduto di Trafalgar
né in quella spessa dell’Eridano
a riecheggiare le urla della batracomiomachia
né in quella impigliata alle cime andine
attraversata dal fischiettare del Libertador
né in quella versata da Atena sulle coste d’Itaca
a nascondere lo sguardo d’Ulisse
né in quella dolce addormentata sulle Highlands
tessuta dagli elfi dell’acqua
il fedele acufene destriero dello stridio
dalle nebbie richiama alla terra
e non si può perdere il cammino
solo seguire l’infinito sibilo
*
ho un dio nella testa
sicuramente ortodosso
non scende mai dal pulpito
o dal minareto
la sua chiamata è costante
si è rubato il silenzio
confonde le parole sulla lingua
e gioca a girarmi intorno a farmi girare
è un demiurgo che non smette di battere
uno stakanovista dimenticato in miniera
sbatte come il vento le finestre
e si porta via i pensieri
anche quelli amorosi soffia via
lasciandomi in una solitudine piena
piena di lui ovviamente
e non è neanche bello
sembra un neon impazzito
che non smette di vibrare la luce
tutti mi dicono di non pensarci
ma lui non smette di pensarmi
acufene l’allarme che
un ladro non sa spegnere
Biografia di Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963). Giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collezioni di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici. Ha pubblicato le sillogi: Amore migrante e l’ultima sigaretta (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), Corpi Fumanti (Uniediciones, Bogotá, 2019) e Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021), La dittatura dell’amore (Edizioni Delta 3, collezione Aeclanum, Italia, 2022). Un libro di racconti brevi: Odore a (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e il libro di cronaca e poesia: Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017). Suoi testi sono stati pubblicati in differenti lingue su riviste e antologie nazionali e internazionali.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
http://www.atelierpoesia.it La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Con grande dispiacere apprendiamo la notizia della scomparsa di Pietro Polverini, giovanissimo autore, poeta e filosofo.
Pietro era nato nel 1992 a Fiastra, in provincia di Macerata, ed era laureato in Filosofia all’università di Macerata con una tesi incentrata sulla figura e la poesia di Amelia Rosselli. Molti i suoi contributi critici pubblicati su diverse riviste e libri.
La sua era una scrittura elegante, elaborata in ogni sua parte. Il suo esordio, Indicesommario di sbiadimento pubblicato dalla Casa Editrice Italic Pequod, porta con sé un lavoro di grande attenzione durato anni. Una lirica non affatto semplice nella sua immediatezza di lettura, piena di ricordo, presenze tastate, pathos.
Vogliamo quindi ricordare con voi questo fine poeta leggendo alcuni suoi testi tratti proprio da Indice sommario di sbiadimento:
Poesie di Pietro Polverini
Da sempre l’eternità è china su di voi: per commozione straniera vi slegate dagli oggetti, dall’ultimo lenzuolo verderame di cui sarete ospiti.
E dal velo della cresima cosparso sulla fronte, l’incidenza dell’aria vi sottrae dalla posa.
È questo poco sole nostro vero ricovero o fresca croce d’oblio l’obliquo uscio dalla nebbia latebra: la vita ch’era diventata seria al principio dell’azzurro dove s’assiepa il gelo parla stanca e scompare.
Vorrei sapere delle parole il numero: apprese obliate, annotate. Ora ho una corolla di nomi che si spunta e sbiadisce: non lasceranno traccia sulle increspature delle labbra. Delle parole vorrei sapere forse fiato, forse voce quale sarà la mia ultima: tutto pieno di sonno e nebbia potrei dire “acqua” o “lenzuolo”.
È uno stelo, non una selva che si imbianca, perde liquore ora stilo senza vena.
È uno stelo poi torna in questo acquario terso senza selva
con luce che non torna: resta in un piccolo punto riportami là, lì ero tutto.
spesso a voi ritorno col pensiero che siate vivi o morti poco conta: circondati in un cerchio di betulla, senza ago di luce, ma di foschia solo lo spazio ha dovere di mischiare le acque, sporgersi di fronte ad un bosco – “locus a non lucendo” per dirti che se gli occhiali si fanno appannati di coltre biancofumo o di bruma senza visione, resti ancora in controcampo.
Fiastra piange la scomparsa di Pietro Polverini a soli 30 anni: comunità in lutto.
La comunità di Fiastra piange la scomparsa di Pietro Polverini, a soli 30 anni. Il giovane si è spento questa notte, intorno alle 5, a seguito dell’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute mentre era ricoverato all’istituto Santo Stefano di Porto Potenza Picena. Pietro lascia la mamma Maria Grazia, il papà Emilio, il fratello Martino e la nonna Angela. Grande appassionato di poesia, ricopriva il ruolo di senior tutor all’università di Macerata.
“Di Pietro dovrei ricordare quella sua sensibilità uscita da un altro tempo, dominata dal presentimento di ciò che misteriosamente poi è accaduto e che non era solo un limite, erano le tenebre dentro cui vegliare quelle parole così dense ed eleganti che ha fatto appena in tempo a donarci in forma di poesie – così lo ricorda in un toccante post su Facebook il professor Sergio Labate, docente di filosofia teoretica dell’università di Macerata -. Ma non è solo questo che mi commuove. Mi commuove pensarlo mentre giocando a tennis si ostinava a giocare il dritto in back solo perché il suo modello tennistico era l’improbabile stile di Marion Bartoli, oppure quando ostentava il suo tifo per il Sassuolo. Una vita pesante che improvvisamente diventava leggera come quella dei bambini e si scioglieva in un sorriso”.
Il rito funebre si svolgerà martedì 14 novembre, alle ore 10:30, nella Basilica di San Nicola di Tolentino, muovendo dalla casa funeraria Rossetti in via La Malfa, a Tolentino. La salma verrà poi accompagnata al cimitero di Camporotondo di Fiastrone. Anche la redazione di Picchio News si stringe attorno al dolore della famiglia per l’improvvisa quanto dolorosa scomparsa di Pietro, ricordandone il sorriso e la competenza per il periodo in cui ci siamo pregiati della sua collaborazione.
“La notizia di una giovane vita spezzata crea sempre sgomento e smarrimento – sottolinea il rettore dell’università di Macerata, John McCourt in una nota di cordoglio -. Con ancora più forza vorrei far sentire ai genitori e a tutta la famiglia di Pietro la vicinanza dell’intera comunità universitaria e mia personale. Uno studente brillante e di spirito generosissimo, un ragazzo gentile il cui sorriso resterà per sempre nel ricordo dei suoi compagni di studio e dei professori che hanno avuto il privilegio di condividere con lui gli anni universitari, dentro e, soprattutto, fuori le aule”. Fonte–PICCHIO.news
Addio a Pietro, poeta e filosofo
Pietro Polverini, poeta e filosofo originario di Fiastra, è scomparso a soli trent’anni. L’ultimo saluto sarà reso oggi a Tolentino. L’intero territorio si stringe alla famiglia. Ricordato con le sue parole, Pietro lascia un capolavoro e un pensiero profondo.
Se n’è andato a soli trent’anni il poeta e filosofo Pietro Polverini (nella foto), originario di Fiastra. Laureato in Filosofia all’università di Macerata, dove era diventato anche Senior Tutor, era anche redattore di MediumPoesia. In passato aveva lavorato anche alla scuola media di Fiastra. Si è spento domenica all’alba all’istituto Santo Stefano di Porto Potenza, dove era ricoverato a seguito di una malattia che affrontava da tempo. L’ultimo saluto è stato fissato per questa mattina alle 10.30 a Tolentino, basilica di San Nicola, muovendo dalla casa funeraria Rossetti; poi Pietro sarà accompagnato al cimitero di Camporotondo. L’intero territorio si stringe a mamma Maria Grazia, papà Emilio, al fratello Martino, a nonna Angela. In tanti hanno ricordato il giovane con le sue stesse parole, prese dal libro di esordio “Indice sommario di sbiadimento” (Pequod, 2022). “Ci hai lasciato tutti senza parole, dopo un anno sospeso e muto – scrive per lui un amico –. Si perdono una mente e una sensibilità rare, perdiamo un poeta e un pensatore visionario e profondo, perdo una delle poche persone davvero corrette e leali che ho incontrato nel mio percorso letterario. Ci resta tutto di te, i tuoi sguardi, i tuoi pensieri, i tuoi articoli critici per MediumPoesia e soprattutto il tuo breve unico capolavoro Indice sommario di sbiadimento”. Sullo stesso manifesto funebre ci sono alcuni versi di Pietro: “Dovremmo perdonarci tutto alla stregua dei giorni che si cancellano l’uno nella luce dell’altro”.Fonte- “Il Resto del Carlino”
In lacrime per Pietro, poeta morto a soli 30 anni-
Il cordoglio del professore Labate dell’Università di Macerata
Fiastra piange la scomparsa di Pietro Polverini a soli 30 anni. Si è spento questa notte, a seguito dell’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute mentre era ricoverato all’istituto Santo Stefano di Porto Potenza Picena. Grande appassionato di poesia, ricopriva il ruolo di senior tutor all’Università di Macerata. “Di Pietro dovrei ricordare quella sua sensibilità uscita da un altro tempo, dominata dal presentimento di ciò che misteriosamente poi è accaduto e che non era solo un limite, erano le tenebre dentro cui vegliare quelle parole così dense ed eleganti che ha fatto appena in tempo a donarci in forma di poesie – così lo ricorda in un post su Facebook il professor Sergio Labate, docente di filosofia teoretica dell’Università di Macerata -. Ma non è solo questo che mi commuove. Mi commuove pensarlo mentre giocando a tennis si ostinava a giocare il dritto in back solo perché il suo modello tennistico era l’improbabile stile di Marion Bartoli, oppure quando ostentava il suo tifo per il Sassuolo. Una vita pesante che improvvisamente diventava leggera come quella dei bambini e si scioglieva in un sorriso“.
Pietro lascia la mamma Maria Grazia, il papà Emilio, il fratello Martino e la nonna Angela. I funerali si terranno domani 14 novembre alle ore 10:30 nella Basilica di San Nicola di Tolentino.Fonte –yoy/tvrs
Rivista L’Altrove :Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Iulita Iliopulu-Il mosaico della notte- tradotta da Paola Maria Minucci-
-Donzelli Editore-Roma
Cinque poesie in anteprima da “Il mosaico della notte” di Iulita Iliopulu, da poco uscito per Donzelli, a cura di Paola Maria Minucci, che comprende la raccolta “Il mosaico della notte” tradotta da Paola Maria Minucci e la raccolta “La casa” tradotta da Chiara Catapano.
Da “Il mosaico della notte”(traduzione di Paola Maria Minucci)
STELLE
Tanto piccole che appena tira vento
Rotolano giù
Dal cielo le stelle quasi a precipizio
Riportando di nascosto, in notti simili,
L’oro spento delle statue
Insieme a tracce violette di baci
Negli incavi, nell’ondeggiare leggero dei tessuti
Nelle sillabe di parole rimaste soffocate in bocca
In fretta nello splendore di un attimo
Perché nessuno le veda e si svegli
Spaventato per quella strana luce.
SEGNO
Nessun segno del tempo
Terreno intatto la memoria
A volte l’attraversa, come acqua, un bacio
Torna rinnovato
Affonda – passo nella sabbia –
Pensieri, immagini, sentimenti
E poi con più forza
Riporta
Il desiderio del mio sguardo
Che ti trovò nella folla
«Domani, domani»
Come la prima volta
Senza nessun segno del tempo
Il nostro vecchio amore
Più nuovo
«Domani. Nelle mie braccia. Di nuovo».
MOSAICO DELLA NOTTE
Si offusca l’aria, è scuro dentro la stanza
o fuori?
Immagini lontane, si odono appena
Il viola dei sospiri e il bianco – come di statue –
Che un tempo erano di un azzurro e rosso accesi
Segni, carezze, tagli che sulla pelle lasciano
Gioie vere e veri dolori
La bufera di un mare sempre estivo
Vuole distendere il suo lungo blu
Sui tetti, dentro i sogni
Rendere il vecchio più nuovo
L’amore più appassionato
Aprendo con timore i suoi petali
Nella prigione del piccolo vaso
Il tempo, come un vento
Si rinforza
Sotto i dirupi verticali del sonno
Un cielo con le sue stelle eufoniche
Cantilene, risatine, gemiti, brusii, baci
Frammenti di luce di un dio clemente, un’enorme sala da ballo
Come memoria illumina
Immagini lontane, si odono appena:
Bambini che saltano con la corda
E altre senza peso nelle pieghe dell’amaca
Altre ancora che prima di nascere promettono
– Con la fame di un abbraccio materno –
Voti d’argento, d’oro e di cera
Fiammelle che accendono altre fiammelle
Nel grande mosaico della notte
Con respiro sempre più affannoso
Per poco, solo per poco vive.
Si fa giorno?
Da “La Casa”
(traduzione di Chiara Catapano)
PRENDE QUALCOSA. Cose da niente. Un bicchiere, un
golf fatto a maglia. «Il bricco, prendi il bricco», le
grida la madre. E lei lo prende e dentro ci nasconde
una bambola di pezza, piegata in quattro. E la croce
d’osso di sua nonna. Poi avvolge la coperta, la sua
casa. Tutta la casa. E iniziano tre giorni di marcia
fino al mare. Di notte, passando sotto il filo spinato
la coperta s’impiglia, rimane agganciata. E resta per
sempre indietro la casa. Ora sale con gli altri sulla
barca, reggendo tra le mani solo la sua sorte. Ignota.
Biografia di Iulita Iliopulu, poetessa greca nata nel 1965,ha studiato letteratura bizantina e neogreca all’Università di Atene e teatro alla Scuola d’arte drammatica dell’Accademia di Atene. Scrive poesie, saggi e fiabe per bambini. Suoi componimenti sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, italiano in antologie e riviste letterarie. Autrice di otto raccolte poetiche, ha tradotto In difesa della poesia di Percy B. Shelley e ha scritto diversi saggi e uno studio critico sulla poesia del Premio Nobel Odisseas Elitis. Si è occupata dell’opera del poeta anche con numerose conferenze e letture di suoi versi in Grecia e all’estero, oltre a curare l’edizione di molti suoi libri.
Donzelli Editore Srl
Via Mentana 2b
00185 Roma
tel. +39 06.444.06.00
e-mail info@donzelli.it
Ed è dunque tornato ancora il tempo di ritrovare le cose perdute di risentire con le fitte a un braccio il tuo umore, Novembre. Dalla mia terra bruciata di sale ho risalito tutte le contrade qui ho chiesto nebbia e pane. So cosa dite, so le querele che mi fate, amici. Voi non sapete cosa voglia dire nascere a Novembre; voi non sapete cosa voglia dire riconquistare le cose perdute.
Le due rive
Attorno ai globi rossi sulle due rive era ogni sera uno sciamare astioso di zanzare che saliva dagli argini e ronzava sopra le nostre teste.
Così cresceva il segno dell’estate, il rifiorire d’erbe e canne sul fiume la mia ansia d’intendere il fluttuare delle maree ad ogni nuova luna.
Rifugio della notte
Su questi alberi, queste siepi sempreverdi di pitosfori si è allungato il tuo oblio, e il mare tigrato là davanti è specchio fangoso, obliquo rifugio della notte.
In teoria tutto dovrebbe
In teoria tutto dovrebbe andare benissimo.
Egli è seduto a un tavolo. Sta scrivendo un libro, sta leggendo il giornale, sta guardando fuori dalla finestra.
Egli è seduto al tavolo, sta facendo parole incrociate. Una parola due parole molte parole difficili.
Quanto di me è rimasto
Quanto di me è rimasto – di quel poco che ero, di ciò che avevo – ha solo senso nel tuo ricordo, nascosto nel cuore del mio cuore, che pace per sé non chiede al Dio in cui hai creduto fino all’ultimo istante, quando dicevi, gli occhi a me rivolti: “Non ho paura, non ho più paura.”
L’AUTORE
Basilio Reale è nato a Capo d’Orlando il 22 novembre 1934-È morto a Milano il 6 febbraio 2011.
Nel 1953 si trasferisce a Milano per frequentarvi la facoltà di giurisprudenza. I suoi primi componimenti, risalgono al ’50.
Ha pubblicato: Forse il mare, Schwarz Editore, Milano 1956. Le quotidiane abitudini, Rebellato Editore, Padova 1959. La vita attiva, “Il Menabò” n. 6, Einaudi, Torino 1963. I ricambi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968. L’esistenza amorosa, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989. Travasare il miele, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1996. La balena dighiaccio, Nino Aragno Editore, Torino 2000. Da un ricordo di Daniele. Pulcinoelefante, Ed.788 Osnago 1994. Dove è verde l’ombra. Poesie inedite e sparse (1956-2000), L’arcolaio, Forlimpopoli 2019. Ha pubblicato anche diverse pubblicazioni di saggi.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Vittorio Sereni (1913-1983)-Poeta italiano, è il capostipite della variante lombarda del novecentismo poetico, detto “Linea Lombarda”. Ufficiale di fanteria, viene fatto prigioniero dopo l’8 settembre 1943. Nel dopoguerra è direttore letterario di Mondadori e cura la prima edizione dei Meridiani.
Non ha più limite la mia pazienza. Non ho pazienza
più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.
C’è chi, al contrario di me, non dispera,
che con salute e forza e virtù e buona
fortuna, si arrivi a morire dopo
tanti bei giorni, pieni di tantissime
cose di questo mondo o di un altro mondo;
o dopo tanti giorni e quella gioia soltanto
povera dei giorni. Io son felice,
a questo mondo, solo di questo e spero
che a me il destino procuri con le sue
pesti e la pietà e i suoi dolori
un solo giorno più bello di tutti questi
miei dolorosi giorni; o di questo mio
dolore si dimentichi per un solo
giorno.
M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale,e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.
la mia cultura è poca e la mente fioca,
non ho conosciuto regole e leggi e nessuno
dell’ordine dell’universo m’ha insegnato
ad amare la sua natura grande
e umile. Ho offeso con la mia stupidità
la legge della vita, l’infinita innocenza
della sua crudeltà. Adesso ho un cuore
nobile ma la mia carne è pietra.
e imparo da solo con stenti l’errore
d’essere solo. E padre e madre vorrei
essere di questa solitudine.
non l’abitudine filiale, ma il segreto esempio
la natura dolce delle parole vere
io voglio dedicare questo corpo magro,
attraversato dal tremendo folgore
del coltello e dell’innaturale pietà
della preghiera. E spezza da sé e su
se stesso l’acqua rigida del suo vero.
Conosco adesso il tempo certo
degli abissi e la parola povera
della vita, e l’esclusione e l’essere
e il pentimento e la colpa. E tutto
dura nel mio corpo eterno, e io
non posso amare senza amor
e non posso soffrire senza dolore.
Ceneri del nostro tempo gli evidenti
abissi del dubbio e l’assoluto.
La mia paura è grande ma ho il coraggio
di esistere. Soltanto in me è l’errore
del giorno e della notte. Il tramonto è leggero
come una carezza. e il giorno nella notte
si trasforma. Di questo genere del mondo
che è l’esser vero l’inconsapevolezza
giovanile fa nascere qualcosa che
soltanto l’amore della ragione conduce
ad esser vero. Anche di questo eterno
errore sono prodighi gli attimi fuggitivi, le origini e la fine.
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.
il mare è vasto e azzurro come il cielo,
e di questa ritmica melodia
vibrano foglie e fiori e le chiome
ampie dei pini. La malinconia
un tempo m’afferrava quando, vecchio
calligrafo di grigi fogli, ferro
e fuoco sono i versi, della casa
mia infinita, le persiane verdi
e il rosa scialbo e l’edera già grigia,
io sognavo inutilmente. Adesso
io amo questa nostra vita mite
e quei colori e quei versi, e tutta
infinita grandezza e la pazienza
del nulla attorno a queste sillabe.
in cielo i nuvoli son grandi vele
bianche, velieri. Io voglio per mare
un fondo di bottiglia e davvero
esitare a scrivere, non vere
le parole han bisogno di severe
prigioni dove snebbiare; più terse
allora seguiranno il verso giusto,
più vere eviteranno le maldestre
oasi d’ambiguità che son rare
ai deserti e frequentissime dove
il deserto è la folla delli errori,
e degli uomini incerti qui nei mari
d’assenza e di dolore. Come fiori
di mandorlo e di pesco le parole.
Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
equisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.
È quasi primavera, io dipingo
già fuori sul terrazzo, tra odori
di mari lontani e queste vicine
piante di odori. La salvia la menta
il basilico e i sedani dipingo
su tele bianche con pochi colori.
Il verde perché son verdi le piante,
e bianco il bianco nulla della tela,
e il rosso dei tramonti su la vela
del cielo che apre un teatro vero
e questi miei pensieri. Io dipingo
la sera quando i tormenti più vivi
accendono il cielo e bruciano il cuore,
e all’alba quando già nulla è la vita.
Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
salvi quasi per caso, e in questo prodighi.
I baci sono bellissimi doni.
Beppe Salvia appartiene alla poesia contemporanea e a quelle personalità letterarie dalle sfumature sfaccettate come opali: Salvia decide di togliersi la vita a soli trentun anni, il 6 aprile 1985. Marco Lodoli nell’articolo Morte di un giovane poeta pubblicato su Paese Sera, il 18 aprile 1985, afferma: «Beppe Salvia è morto a Roma, a trent’anni, gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile, a via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l’impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico.»Via del Fontanile Arenato è infatti uno zampillo di idee opalescenti, quelle di Beppe Salvia, arenate dalla troppa sensibilità, madre di una poesia lirica e tragica al contempo.
Beppe Salvia nasce nel 1954 a Potenza. Nel 1972 si trasferisce a Roma con la madre e il fratello, cambiando spesso casa e alternando la vita romana con alcuni viaggi in Sicilia. Inizia a pubblicare poesie in rivista nel 1976 (su «Lettera» e «Nuovi Argomenti»), diventando ben presto protagonista di quel clima vivace e alternativo animato nella capitale da poeti e pittori suoi coetanei. Frequenta i laboratori di poesia di Elio Pagliarani, occasione fondamentale per i giovani poeti sul volgere degli anni Settanta. Fonda nel novembre 1980 la rivista “Braci” insieme a Claudio Damiani, Giuseppe Salvatori, Arnaldo Colasanti e Gino Scartaghiande, ma allo stesso tempo, fin dall’ottobre del 1980, pubblica sulla rivista “Prato pagano” di Gabriella Sica le sue Lettere musive e partecipa a riunioni redazionali. In entrambe le riviste vengono pubblicate sue sillogi poetiche o ‘corone di sonetti’, che si distinguono subito per la spiccata individualità, alternante elegia e tragedia. Muore tragicamente il 6 aprile 1985. Alcuni degli amici più stretti ne ricordano la figura, qualche giorno dopo, sulla pagina culturale del «Paese sera», dando inizio a una sua tenace leggenda che in tempi recenti si è nutrita di studi e pubblicazioni di taglio anche accademico. Nel 1985, dopo l’improvvisa scomparsa, esce subito il suo primo libro, Estate, con lo pseudonimo di Elisa Sansovino, nei “Quaderni di Prato pagano”. Alla fine del 1987, presso Rotundo, esce Cuore (cieli celesti); nel 1989, nelle Edizioni romane della Cometa, il diario poetico Elemosine eleusine.
Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si guarda il cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusío di silenzio.
Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
Incontro
Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.
L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.
Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.
L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
Lavorare stanca (Einaudi, 2001)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
CANZONE
*
Le nuvole sono legate alla terra ed al vento.
Fin che ci saran nuvole sopra Torino
sarà bella la vita. Sollevo la testa
e un gran gioco si svolge lassù sotto il sole.
Masse bianche durissime e il vento vi circola
tutto azzurro – talvolta le disfa
e ne fa grandi veli impregnati di luce.
Sopra i tetti, a migliaia le nuvole bianche
copron tutto, la folla, le pietre e il frastuono.
Molte volte levandomi ho visto le nuvole
trasparire nell’acqua limpida di un catino.
Anche gli alberi uniscono il cielo alla terra.
Le città sterminate somiglian foreste
dove il cielo compare su su, tra le vie.
Come gli alberi vivi sul Po, nei torrenti
così vivono i mucchi di case nel sole.
Anche gli alberi soffrono e muoiono sotto le nubi
l’uomo sanguina e muore, – ma canta la gioia
tra la terra ed il cielo, la gran meraviglia
di città e di foreste. Avrò tempo domani
a rinchiudermi e stringere i denti. Ora tutta la
vita son le nubi e le piante e le vie, perdute nel cielo.
-Anche tu sei l’amore-
Anche tu sei l’amore.
Sei di sangue e di terra
come gli altri. Cammini
come chi non si stacca
dalla porta di casa.
Guardi come chi attende
e non vede. Sei terra
che dolora e che tace.
Hai sussulti e stanchezze,
hai parole – cammini
in attesa. L’amore
è il tuo sangue – non altro.
Tu sei come una terra
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
[29 ottobre 1945]
da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino, 1952
– Ogni notte, tornando dalla vita
Ogni notte, tornando dalla vita,
dinanzi a questo tavolo
prendo una sigaretta
e fumo solitario la mia anima.
La sento spasimare tra le dita
e consumarsi ardendo.
Mi sale innanzi agli occhi con fatica
in un fumo spettrale
e mi ravvolge tutto,
a poco a poco, d’una febbre stanca.
I rumori e i colori della vita
non la toccano piú:
sola in se stessa è tutta macerata
di triste sazietà
per colori e rumori.
Nella stanza è una luce violenta
ma piena di penombre.
Fuori, il silenzio eterno della notte.
Eppure nella fredda solitudine
la mia anima stanca
ha tanta forza ancora
che si raccoglie in sé
e brucia d’un’acredine convulsa.
Mi si contrae fra mano,
poi, distrutta, si fonde e si dissolve
in una nebbia pallida
che non è piú se stessa
ma si contorce tanto.
Cosí ogni notte, e non mi vale scampo,
in un silenzio altissimo,
io brucio solitario la mia anima.
Estate
C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
La parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.
– Anche la notte ti somiglia-
Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri alba.
I mattini passano chiari-
I mattini passano chiari
e deserti. Cosí i tuoi occhi
s’aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d’immobile luce. Taceva.
Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest’ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.
Pover’anima stanca e imbellettata,
noi che indugiamo per le vie affollate
logori della vita non vissuta
e tutti intorno ci urtano,
siamo come le povere puttane
che passeggiano lente
e il loro aspetto è un mascherone atroce.
Stringono tra le labbra
la sigaretta rauca
come un ultimo appiglio disperato.
E all’osteria notturna
s’abbandonano a bere il vino sporco,
rosso come le bocche.
Io contemplo così la nostra fine,
o anima solitaria,
ché, alle lacrime, il mondo non risponde
e, se infuriamo, siamo una pietà.
Triste triste anima,
che ti senti morire come un tisico,
che cosa mai berremo questa notte?
Ascolteremo nella calma stanca
Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.
Paesaggio [VI]
Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume
nella bella città, in mezzo a prati e colline,
e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono
ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori
vi camminano. Vanno nella bianca penombra
sorridenti: per strada può accadere ogni cosa.
Può accadere che l’aria ubriachi.
Il mattino
si sarà spalancato in un largo silenzio
attutendo ogni voce. Persino il pezzente,
che non ha una città né una casa, l’avrà respirato,
come aspira il bicchiere di grappa a digiuno.
Val la pena aver fame o esser stato tradito
dalla bocca piú dolce, pur di uscire a quel cielo
ritrovando al respiro i ricordi piú lievi.
Ogni via, ogni spigolo schietto di casa
nella nebbia, conserva un antico tremore:
chi lo sente non può abbandonarsi. Non può
abbandonare
la sua ebrezza tranquilla, composta di cose
dalla vita pregnante, scoperte a riscontro
d’una casa o d’un albero, d’un pensiero improvviso.
Anche i grossi cavalli, che saranno passati
tra la nebbia nell’alba, parleranno d’allora.
O magari un ragazzo scappato di casa
torna proprio quest’oggi, che sale la nebbia
sopra il fiume, e dimentica tutta la vita,
le miserie, la fame e le fedi tradite,
per fermarsi su un angolo, bevendo il mattino.
Val la pena tornare, magari diverso.
Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane ‒
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu ‒ ferma e chiara.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Maternità
Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
uno pensa che i figli han la stessa statura.
Dalle membra del padre (la donna non conta)
debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
alle membra del padre non manca una briciola
né uno scatto: si sono staccati da lui
camminandogli accanto.
La donna c’è stata,
una donna di solido corpo, che ha sparso
su ogni figlio del sangue e sul terzo c’è morta.
Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
annientandosi in loro. La donna era giovane
e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. È così che la donna
c’è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
che quell’uomo conosce. Nessuno di loro
sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
che a suo tempo era piena e saziava quell’uomo.
Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all’orlo del fiume
e tuffarsi, quell’uomo non ritrova più il guizzo
delle membra di lei dentro l’acqua, e la gioia
dei due corpi sommersi. Non ritrova più i figli
se li guarda per strada e confronta con sé.
Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
s’è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.
Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.
Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Cesare Pavese
[1935]
da “Lavorare stanca”, (1936 – 1943), in “Cesare Pavese, Le poesie”, Einaudi, Torino, 1998
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
L’altro anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendìo così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppa di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi.M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni,e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Maternità
Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
uno pensa che i figli han la stessa statura.
Dalle membra del padre (la donna non conta)
debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
alle membra del padre non manca una briciola
né uno scatto: si sono staccati da lui
camminandogli accanto.
La donna c’è stata,
una donna di solido corpo, che ha sparso
su ogni figlio del sangue e sul terzo c’è morta.
Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
annientandosi in loro. La donna era giovane
e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. È così che la donna
c’è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
che quell’uomo conosce. Nessuno di loro
sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
che a suo tempo era piena e saziava quell’uomo.
Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all’orlo del fiume
e tuffarsi, quell’uomo non ritrova più il guizzo
delle membra di lei dentro l’acqua, e la gioia
dei due corpi sommersi. Non ritrova più i figli
se li guarda per strada e confronta con sé.
Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
s’è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.
Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.
Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Breve biografia di Cesare Pavese
Cesare Pavese nasce il 9 SETTEMBRE 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, e muore suicida il 27 agosto 1950, in una camera d’albergo a Torino.scrittore, poeta, traduttore e critico letterario è considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo. Esordisce con la traduzione di Moby Dick di Herman Melville, nel 1932; due anni più tardi prende avvio la collaborazione, durata tutta una vita, con la casa editrice Einaudi, che stampa, nel 1943, l’edizione aumentata della sua prima raccolta poetica, Lavorare stanca, uscita per Solaria nel ’36. Oltre la sua attività di redattore, traduttore e americanista, pubblica romanzi e racconti: Paesi tuoi (1941), Feria d’agosto (1946), Dialoghi con Leucò (1947), La bella estate (1949) per cui riceverà il premio Strega. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, uscirà nella primavera del ’50. Nell’agosto dello stesso anno si toglierà la vita all’albergo Roma di Torino. Usciti postumi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apice della sua poesia, e il diario che lo ha accompagnato dal 1935 fino alla morte, Il mestiere di vivere.
La sua opera si colloca tra realismo e simbolismo lirico: la realtà delle natìe langhe e della Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi, della ricerca di autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come protagonista più la coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese padre del neorealismo post-bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente come materia di scrittura nell’opera di Pavese.
L’aspetto forse più vistoso del suo appartenere al decadentismo è offerto dalla crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca della noluntas l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di conflitti. Sua unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso negativo, corrodendo ogni certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo. C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e l’agire, per cui il primo elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita assieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare l’esistenza, gravemente handicappato nei rapporti umani, sempre a disagio in ogni situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa situazione di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa mestiere da apprendere con grande pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho imparato a scrivere, non a vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo, persino felici “Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno”, dice Pavese. Per la letteratura del Novecento, il grado di autenticità poetica è determinato dalla misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di angoscia. Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è essere per la morte.
Poesie pubblicate a cura di Franco Leggeri sul gruppo facebook DEA SABINA-
Chi è Sonia Trocchianesiinizia a scrivere poesie fin da piccola e coltiverà questa grande passione durante tutta la sua vita. Il rapporto con carta e penna è viscerale, la scrittura viene vissuta come cura di ogni male. Amore e sofferenza si contrappongono nei suoi scritti, i suoi versi trasudano a volte di emozioni fortissime. E qui è la sua Anima a mettersi a nudo ….
Vanno a dormire
i colori
in silenzio
senza pretese
senza chiedersi
se siano dimorati nei cuori
almeno un giorno
almeno un’ora
almeno un attimo
La notte
intinge i pennelli nel nero
lasciando le stelle
sotto al cuscino
Che poi niente va perso, niente.
Ogni gesto è un sasso nello stagno che, torna, amplificato.
E, l’orma di ognuno, resta.
Vicino, sopra, a fianco, dentro.
Nel bene e nel male.
E la mia, forse, resterà allo stesso modo.
Forse.
Come un granello di sabbia nell’immensità di questo deserto.
Io l’ho visto, il deserto.
Se hai lo sguardo pronto a ricevere, il deserto è bellissimo.
Sconfini tra le dune rosate come in una danza, come queste parole che imprimo nel vuoto di questa mia pagina.
Niente va perso.
Se sai vedere le briciole, una fetta di pane sarà il miracolo da farti bastare.
Sarà la cenere che sembra inutile ma che aiuta il nascere della nuova fiamma.
Niente va perso.
Trovarmi, spesso, qui ed ora, è il dono inaspettato di un’alba nuova.
Una nuova pagina.
Un nuovo verso a cui sto lavorando.
La vita è perfetta.
“Ti va di recitare una poesia in dialetto?”
Si, mi va!
Mi va mille volte.
Perché lì, i congiuntivi, non sono un cappio al collo,
perché non devo mettere in atto quel minimo che ricordo del corso di dizione, perché il mio intercalare da ignorante contadina diventa un più, un vezzo, un pregio, quasi.
Si, mi va!
Mi va mille volte.
Perché sono io senza ma e senza se.
Perché i miei limiti sono solo dei sorrisi che mi faccio, perché sono dei buchi neri che ho imparato ad amare.
Perché è andata così e ho capito che va bene.
Perché quel pezzo di carta che tanto ho rimpianto è stata la mia sfida per la vita.
Perché sò nata troppo presto.
Forse.
Nessuna stagione passa
senza lasciare orme
nessuna nuvola se ne va
senza avermi vestito di grigio
nessuna strada sassosa
so percorrere senza impolverarmi i piedi
Ho scelto il dolore
all’anestesia
le cicatrici sulle labbra
al sorriso plastico
la battaglia continua
alla resa
Vedi
essere viva
può essere un difetto
per chi guarda da lontano
immobile
C’è un tacito accordo nella Natura.
Tra il colore degli alberi, i campi, la strada, il sole che, sotto i nostri occhi stanchi e meravigliati, scompare.
Un accordo silenzioso.
Così tra noi.
Un accordo di rispetto, di mani che si aiutano, di occhi che sorridono, complici, sopra la mascherina.
Una firma di cuore.
Un “ci sono, tira su”
oppure “lascia, faccio io che pesa troppo per te”
Scoprire la gente.
Lasciarsi scoprire.
Grazie a tutti, grazie davvero.
nel nostro piccolo
Giornata piovosa, oggi.
Ancora in pigiama ho scritto una poesia.
L’ho registrata, ascoltata, riascoltata.
*Più volte. *
Ho ascoltato i vari passaggi, il tono, le parole più dense.
I difetti.
*Gli errori. *
L’ho portata con me, fino a sera.
Vedi…
*non c’è balsamo più efficace, non c’è. *
Una poesia la partorisci, te la spalmi addosso, la respiri.
*E tutto il resto, tutto il resto che non funziona, passa in secondo piano. *
Anche solo un attimo
Mi chiedo perché mi viene in mente la tua storia.
Eppure non ti ho mai vista, né incontrata.
Ma quel che mi è stato raccontato non riesco a cancellarlo.
Troppo forte.
Usata e maltrattata psicologicamente, da uno pseudo amore.
Uno che ti amava a modo suo.
Molto a modo suo.
Indotta a fare cose assurde,
a sposare uno che non amavi, a rinnegare il tuo essere, per proteggere lui.
A cedere, a rinnegare te stessa.
Per finire sola.
Sola.
E ancora sola.
Non avevi un nome.
Eri il tuo lavoro.
Quello.
Ti chiamavi Speranza, l’ho saputo poi.
L’ennesima beffa del fato.
Me l’hanno detto ancora.
-Sei selvatica…-
Per me è un complimento.
La poesia, la scrittura in sé, deve essere selvatica.
Il divincolarmi per sfuggire alle regole, questo mio trattare di cose terrene e non, questo saliscendi vertiginoso, furioso, sfacciato, qualcuno mi ha detto.
Tutto questo è un rifiuto totale delle briglie, un cercarmi da sola, pezzo pezzo, costruirmi.
E ricostruirmi.
Selvatico è quell’animale che, anche se ha paura, va incontro dell’ostacolo.
Lo affronta, caparbio.
Sono selvatica.
Mi rifugio nella mia tana.
Ho fatto scorta di cibo e pensieri.
Lì, tra le righe, mi troverai arresa.
Ancora una volta…
Ci sono viaggi che devi fare da solo.
Scendere negli anfratti più nascosti e innominabili, stare attento a dove metti i piedi.
Poi cercare nelle anse più pericolose, quelle chiuse a chiave, quelle dove la luce non arriva neanche a mezzogiorno.
Spostare la polvere, le scuse inutili e datate, i giocattoli mai usati.
Poi sedersi, con le ginocchia sporche di tempo perduto, con gli abiti logori da certi rimorsi e con le tasche piene di nebbia.
Ritrovare piccole scatole di rimpianti, di forse, di chissà.
Buttarli dalla finestra, senza pensarci.
Leccarsi le ferite, in quella sacra solitudine così umana.
Mentre un pensiero si fa strada:
“Ogni volta che sono triste, forse, sono in viaggio verso la felicità”
E di questo tempo
e di questa pioggia lenta
e di questo disordine perfetto
faccio scorta
E di queste curve
e di questo azzurro mancante
e di queste parole intrecciate e chiare
mi cibo ad ogni pasto
non c’è stagione
che il tempo fermi
e riavvolga il nastro
Nessun caffè ristretto,
solo latte bollente
ad abbracciarmi tutta
Mia mamma e mio figlio.
Io, muta.
E posso solo scrivere di voi.
Di quell’amore per la terra senza mezzi termini
di quello sporcarvi le mani con orgoglio
di quel sudore buttato senza lamentarvi mai.
Mi emoziono a guardarvi.
Io non sono come voi, no.
A me la fatica dei campi fa paura, lo ammetto.
Anche se l’ho provata.
Voi, preziosi.
Per me e non solo…
Avvalersi
della facoltà di non rispondere
quando la malinconia bussa
ha la chiave
in tasca
conosce la combinazione
entra
senza consenso alcuno
e sul mio giaciglio
s’addormenta
mi veste di nenie passate
mi scioglie i capelli
accarezzandoli piano
Si insinua dentro la penna
senza fare rumore
lei sa tutto di me
Ci avete mai fatto caso alla bellezza del grano giovane?
La forza delle spighe,
di una primavera piena di promesse,
è commovente.
Eppure, io,
non ho ricordi della mia bellezza,
l’ho cercata poi,
cambiando gli occhi.
E il modo di scrutarmi
dentro uno specchio.
La capacità di un ragno,
la maestrìa con cui
disegna i suoi mandala,
ci dà lezione.
Niente è impossibile
se la tenacia vince,
se la bellezza è stampata
negli occhi,
anche di notte.
D’altronde, la rugiada,
da lontano,
è una lacrima d’amore.
È un Luglio che scotta
nelle vene
e manca il respiro
spesso
La vita è una cassaforte
di cui ho smarrito la combinazione
non ho eredità
da lasciare al mondo
solo qualche poesia
vestita di un drappo rosso
e sangue amaro
Vedi,
dici che ti piacciono i miei pensieri…
Non so, a volte, quando me lo sento dire, non so crederci.
È che cerco di usare fili delicati per ricamarli, per fare piccole cornici intorno a quelle parole che reputo scontate, avvalermi di aghi molto sottili per non fare troppo male quando tratto con le mani la malinconia.
Non sono una sarta.
Non ho la finezza che servirebbe.
Sono un’autodidatta, una che si è forgiata passando attraverso il fuoco, che si è bruciata di mancanze, che mette ancora unguenti lenitivi su certe cicatrici.
Senza guarirle.
Sono piena di pensieri.
Messi a decantare su otri vecchi e impolverati.
Antichi come è antico l’amore.
E sempre attuale.
Vedi
sembra che l’acqua faccia carezze alla roccia
la sfiora
ci si appoggia appena
un attimo
solo il tempo di bagnarla
un tempo minimo
prima di tornare al suo posto
nell’andirivieni che qualcuno ha stabilito
eppure
quelle carezze scaveranno solchi
scriveranno di inverni freddi
di primavere ad attendere gabbiani
di venti arrabbiati senza capirne il motivo
così
mentre ci si passa accanto
mentre ci si sfiora
mentre ci si guarda
ognuno di noi scrive pagine
sulla vita degli altri
tu sulla mia
io sulla tua
ed anche se la calligrafia sarà delicata e composta
scriverai su di me in modo indelebile
ed io su di te
Poi
però
lascerò una scia di punti interrogativi
sospesi nell’aria
quando ce n’è
Lasciali così
fungeranno da bastoni
per la mia vecchiaia
(A mio padre)
Dei biancospini
ti chiedo il nome
che non ricordi
E dei colori
accesi come solo primavera sa fare
non cogli sfumatura
Ed io
quasi ti invidio
a tratti
per la mancata percezione
dei ponti crollati
dove i tuoi passi
vanno senza timore
tra le macerie
Avrei bisogno io
ora
che mi prendessi tu
la mano
(A mio padre)
Si fa sera.
A volte il silenzio è un imperativo senza scampo.
Lo invoco, lo cerco.
Annullo ogni cosa che accenna rumore, ascolto le ciglia che si sfiorano, le narici che buttano aria, le mani che stringono il giorno finito.
Il giorno finito.
Ne restano, sui polpastrelli, solo le ultime briciole.
Le ultime.
Mi lecco le dita, trattengo ogni minima particella, ogni attimo vissuto.
Il giorno che muore.
Non posso sprecarlo, niente devo sprecare.
Mi sorprendo a muovere le labbra.
Sale, da sola, una preghiera.
Muta a tratti.
Poi urla.
Urla.
Urla.
Sale su.
Oltre l’azzurro di cui ti parlavo…
Prendo a morsi le stagioni
i giorni
gli attimi
ho bisogno di saziarmi di ciliegie
dopo ogni pasto
ma solo dall’albero
così
sotto gli occhi dei merli
invidiosi
(quelli non mancano mai,
non i merli,
gli invidiosi)
ho bisogno di saziarmi di inchiostro
di lettere
di virgole appena socchiuse
in piccoli spazi
ho bisogno di aprire parentesi
senza trovare il modo giusto per chiuderle
di mettere accenti
per farmi sentire di più
Lasciare che la vita accada
questo
non l’ho ancora imparato
lo so
La terra mia. Li campi, lo grà vattuto, la paja rrotolata.
Le stoppie, lu jemmete, lo callo e lu sudore.
Lo tribbulà de li contadì.
Quilli che è rmasti tali pure se fa natru lavoru.
Perché, contadì, lo si dentro, quanno non sopporti lo sprecà, quanno te rrizzi presto pure se non c’hai da fa có.
Pe non sprecà lu sòle.
Li contadì che d’è pieni de ignoranza ma che je vasta póco pe avé tutto.
Li contadì.
Comme me.
Cammino scalza.
Tentando, ma nemmeno poi tanto, di non tagliarmi i piedi.
Si trova sempre quel pezzo di vetro che qualcuno ha lasciato lì, sciaguratamente a terra, o quella conchiglia appuntita che sembra nascosta e poi te la ritrovi conficcata nella carne.
Capita a tutti, credo.
Ma ad una che scrive, forse, capita di più.
È una sorta di masochismo a cercare ciò che taglia, a non voler evitare niente di ciò che fa male, ad essere contraria alle anestesie, ai paraocchi, alle convenzioni.
Il coraggio si mischia alla sfida.
La paura si veste di sole trasparenze, di organza, di seta preziosa.
E si mostra, tutta, mentre i piedi vanno a tentoni.
Le cicatrici, autografate dalla vita, sono tante.
Ma di spazio, per nuovi tagli, ne ho ancora.
Il sangue sa d’inchiostro.
E questo scrivere fisiologico è l’unico cerotto che ho.
L’unico.
Forse, Gesù
Forse, Gesù, nascerà dentro la stanchezza di questi giorni, dentro l’ansia per il timore di non aver sufficiente memoria sul lavoro, dentro i sorrisi per molti e dentro l’irritazione trattenuta a stento per qualcuno.
Forse nascerà dentro i carboidrati distribuiti a una provincia intera, alle centinaia di pacchetti fatti, in mezzo ai fiocchi rossi messi a goccia sui regali.
Forse nascerà qui, tra le mie mani stanche e non curate, sulle occhiaie color caffè, sotto il mio cappello bianco da lavoro.
Nascerà nei miei auguri, fatti a pochissimi, e senza frasi fatte, in quelle due parole, a volte una, ma dette col cuore.
Nascerà.
Si, nascerà…
E muoio sempre un po’
anche stasera
nel giorno mesto
che taglia i minuti finali
li tiene per sé
li sfuma piano piano
e li promette a un’altra primavera
Mi abbraccia forte
mi cinge la vita
e i fianchi arrotondati dal tempo
la malinconia
mi invita a ballare
un lento
e coi piedi pesanti
calpesta i miei
stanchi
mentre i grilli
sembrano far festa
Le foglie del ciliegio
stanno tremando
hanno diradato i respiri
per non sprecare le forze
Sono stanca anche io
di questo inverno
mentre mi fingo corteccia
dove non passa gelo
Ascolta
la senti la paura
che provo
quando giro l’angolo dei miei pensieri?
Capita che lascio il coraggio lì appeso
insieme ai vestiti logori
di certi giorni senza fine
ed esco nuda
con le mani ad elemosinare
spiccioli di domani
Sotto i piedi
i lucidi sampietrini
raccontano
sanno tante cose
sanno di me
sanno che piango
a volte
ma senza lacrime
Pochi hanno la fortuna di conoscere il vero olio.
L’olio di casa, spremuto a freddo, come una volta.
È faticossissimo ottenere un litro di oro verde, c’è un lavoro certosino lunghissimo, dietro.
Di monitoraggio, per capire quando i parassiti arrivano.
E prevenire dove si può.
Perché anche il contadino può sbagliare il periodo del trattamento, ed è solo veleno inutile per i frutti.
Ci vuole attenzione, passione, dedizione.
Mio figlio Luca ha superato il nonno, in questo.
Monitorare minuziosamente per un risultato più sano e naturale possibile.
Oro verde.
Prezioso.
Anche quest’anno.
Ore 20.
Stendo i panni appena lavati, in balcone.
L’aria di una mitezza rara, piacevole, dolce, si lascia respirare tutta.
Sulla provinciale nemmeno un’auto, niente, calma assoluta.
Sulla strada secondaria, stessa cosa.
C’è un silenzio beato, stasera.
Una pace dovuta, alla natura.
Il ciliegio, muto, è a riposo, dopo la lunga giornata d’amore con le api.
In fondo, tutto è meraviglioso.
Cosa ci manca, allora, per essere felici?
Passerò dal camino
tra la fuliggine che farà nere
le mie parole
e la tenacia delle streghe
che non temono il rogo
Avrò il peso sulla schiena
delle battaglie quotidiane
dei respiri corti
delle sottrazioni che ho subito
mi riconoscerai
dal naso lungo e i modi bruschi
e dalla testardaggine che non nascondo
Avrò in dono solo due mani
fredde
Vedi,
della neve ho poco o niente.
Non sono così leggera, da tenermi anche sul ramo più piccolo, come niente fosse;
non ho il suo innato equilibrio da stare in alto senza vacillare, senza sforzo alcuno, con totale naturalezza;
non ho la sua grazia di ballerina prima di fermarsi, io non ce l’ho davvero.
E del suo candore, che dire?
Non lo conosco.
Ho pensieri color carbone e, dopo essere stata fuoco,
di quelli difficili da domare,
incompresa,
resto cenere.
Le contraddizioni ci offuscano la strada da seguire.
Le chiese aperte e i teatri chiusi;
i viaggi all’estero e il divieto di sconfinare tra comuni;
la mascherina all’aria aperta e il naso fuori al chiuso;
i parrucchieri chiusi anche se rispettano le regole.
Le leggi vanno rispettate.
Ma non sempre ci rispettano.
Serve il sole.
In questo buio pesto.
I fiori sbocciano tra le pagine, come stelle nelle notti buie.
Non è sempre facile vederle, le stelle, non lo è affatto.
Come non è facile spogliarsi dentro un libro, spogliarsi tutta.
Senza tabù, togliendo il superfluo che appesantisce l’anima, scegliendo di assomigliare all’aria del mattino, quella ancora non contaminata.
Che strane le persone che scrivono!
Che strane a raccontarsi a chi, di loro, non interessa niente.
Sono piena di fiori e di stelle.
E di parole lievitate come il pane.
Cotte qui, nel cuore mio.
La seduzione dall’autunno
Dovremmo imparare l’arte della seduzione dall’autunno.
Fa spogliare gli alberi lentamente, foglia foglia, ne scopre le curve strette, le parti in eccesso, il corpo nodoso e i segni del tempo.
Lo fa con garbo, vestendoli prima di giallo, di un tessuto sempre più leggero, trasparente, minimal, per far sì che nessuno sia a disagio a mostrarsi.
Nessun corpo e nessun albero è perfetto ma, ognuno, può custodire una propria bellezza, una sua particolare dote d’attrazione.
Mostrare i rami, scarni e doloranti ad occhi clementi e meravigliati, questa la lezione da imparare.
I tabù sono foglie.
In attesa di cadere...
Ecco,
mi trovi in forma, dici.
Beh, rispondo che sono felice di dare questa impressione.
Ma se solo ti facessi un giro tra le mie parole, uno solo, tra gli spazi troveresti il mio respiro mancante.
E, dopo le virgole, quelle pause di paura e incertezza.
Troveresti i punti interrogativi appesi al buio e, le stelle, nascoste dietro i cespugli di perché.
Ma sono viva.
E, per rispettare il mio essere selvatico, assorbo tutto.
Tutta la tempesta.
E tutto l’azzurro.
Ho 55 anni, oggi.
55 nei che raccontano le volte in cui mi sono fermata.
55 rughe dove sono scritti i miei giorni neri.
Ma anche 55 ripartenze, 55 slanci al giorno per festeggiare l’aria che respiro, 55 parole per prostrarmi davanti a una nuova alba.
E 55 baci alla vita.
La vita tutta.
La mia.
Eccomi. Sono un mare di colori, ora che di tempo ne è passato…
Un po’ più triste, a volte, ma colorata, quello si.
Ricordi quel dì di Primavera, quando avevo quel foulard color prato, che tanto ti piaceva?
Ora indosso quello color ocra, come tutte le foglie che giacciono a terra, finite.
Ho il viso sbiadito e, di rossetto, lo sai, non he faccio uso.
Ho paura di sporcarmi quando parlo, perché sono sempre concitata, quando parlo, io.
Però ho le mani rosse, color melograno, perché mi piace abbracciarle, le persone, prenderle per mano.
E mi si scaldano.
E diventano rosse.
E ho un cesto di parole da dirti, nascoste tra i grappoli d’uva e tra le castagne di cui sono ghiotta.
Mi perderò nel bosco, prima o poi, mi perderò.
Nelle favole bisogna perdersi per trovarsi.
Sempre!
Ha un peso, il cuore?
Sì, se dentro ci fai entrare tutto.
Tutto,
anche ciò che meriterebbe stare fuori,
al freddo.
Tutto.
La stanchezza,
la malinconia,
i gesti sbagliati
e i pensieri che non dovrebbero essere pensati.
Le delusioni,
le aspettative da non aspettare.
Il mare che ho dentro,
in tempesta.
La paura del buio.
Ho un paio di ali,
sdrucite.
Con le piume mancanti e l’apertura,
sempre più stretta.
Plano sui giorni, spaiati.
E sui sogni, scordati.
Mille attimi di eternità
Anche se il silenzio contiene mille stati d’animo, mille sensazioni, mille attimi di eternità…
ho sempre preferito le parole.
E le parole scritte, nello specifico.
Ci si può soffermare su ognuna di esse, respirare l’odore delle pause, degli spazi vuoti, dell’andare a capo con la stessa forza di una cascata tra le braccia di due montagne.
Vedi,
le parole sono gocce di sangue, spine di una rosa costretta a difendersi per proteggere i delicati petali, respiri nati nella parte più interna del cuore.
E sono anche proiettili, a volte, sparati con la speranza di oltrepassare il torpore, la rassegnazione, la delusione.
Ecco, davanti al silenzio mi inginocchio, a pregare, però, quel dio che sparge petali di versi, a firmare pensieri vergini, nuovi, pieni di vita.
In fondo cos’è la poesia, se non un delirio dal fascino indiscusso?
Chissà se arriverai
Chissà se arriverai
immacolata come una sposa
come una poesia leggera
che si posa
sul cuscino
dove appoggerò le ciglia
indosserai fiocchi
tra i capelli
mentre i miei
ribelli
slegherò
La mia Fermo
Gira e rigira per trovare un parcheggio: niente.
La mia Fermo presa d’assalto, finalmente!
La fiera di Natale, i negozi aperti, la temperatura accettabile.
Una bella camminata poi al capolinea.
Manca il fiato, tanta è la bellezza.
Manca davvero.
La piazza, questo lussuoso salotto, strapieno di meraviglie.
E di gente.
Ammiro l’albero.
Calcinaro si è superato.
Come sempre.
È notte, finarmente!
È notte, finarmente!
Sò fatto la pannella
la pizza
lo pà
pe passà tempu
pe divagamme
Ma lu tèmpu non passa
non passa mai
Tra póco vedo un filme
e po?
Tutte ‘ste notte sframicate
non saccio più do mettele
le stelle a se d’è smorte tutte,
la luna…
La luna
a no la vedo più…
In dialetto ce parla li contadì. Comme me.
Sò ricevuto vari messaggi de cumblimenti perché scrio in dialetto.
Perché non me vergògno a scrie cuscì.
È che, a d’è più facile,
non me sbajio co li congiuntivi, non devo mmattimme a troà parole strane, senzuali, dilicate.
In dialetto lu penzieru è già perfèttu, non gne manca co’.
In dialetto lu dolore a d’è dolore, la contentezza a d’è essa, pricisa, senza sinonimi pe fa finta che sò studiato.
Io non sò studiato.
Io so jita a parà le pecore quanno l’amiche mie java in piazza.
E in fabbrica quanno loro cuminciava le superiori.
Io parlavo in dialetto, jo li campi.
E in fabbrica.
Ce parlo ancora.
In dialetto ce parla li contadì.
Comme me.
Unico, impalpabile, inafferrabile.
Non si può pensare di sbocciare per un tempo indeterminato.
Tutto è così fugace, così rapido e scivoloso.
E ci si accorge di ciò solo mentre i petali cominciano a cedere.
Niente si trattiene, niente.
Però, quell’attimo resta per sempre, non si cancella.
Unico, impalpabile, inafferrabile.
Sono io quei petali che tremano, che sanno che, a breve, il vestito rosso…
scolorirà.
E allora? Io ho già deciso.
Tirare dritto all’obiettivo può far incorrere in una serie di problematiche durante il tragitto.
A non essere accomodanti si rischia di restare soli.
E allora?
Niente, occorre solo capire se la destinazione merita il viaggio.
E se si ha voglia di rischiare.
Io ho già deciso.
In un campo di papaveri
Ho bisogno di un bagno in un campo di papaveri
farne ghirlande
intrecciarle tra i capelli
vestirmi di rosso
di papaveri rossi
e niente altro
ubriacarmi di vento
e di un alfabeto che
solo io e te
conosciamo...
Sento le membra vacillare ad ogni alito di vento.
Sono di quei colori che il bosco dona a Novembre, i miei pensieri.
Caldi e poi subito freddi, deboli, impauriti.
Cadranno, lo so, cadranno.
In fondo, delle foglie, non importa niente a nessuno: cadono, muoiono, senza che nessuno ne abbia pena.
Sembra ovvio, scontato.
Le senti sotto i piedi, con quello scricchiolio che sa di fine, di mancanza di domani, di “forse saremo utili al terreno”.
Non so se sarò utile al terreno io, non credo.
Non si curerà nessuno del mio cadere ed essere morta.
Non resterà niente di me, niente che possa ricordare lontanamente il mio passaggio.
Sono Autunno, le mie parole.
Sono Autunno lento.
E inesorabile.
Febbraio,te lo ricordi ancora?
Febbraio,
quasi non ti riconosco.
Non riesci più a farmi ridere,
del tuo Carnevale non porto ricordo.
I carri carichi di paure sfilano nella mente, in bianco e nero.
Manca Arlecchino, mancano i colori.
Manca lo zucchero filato sulla punta delle dita,
mancano le risa giovani,
mancano i coriandoli dentro la maglietta,
incollati da un sudore di cose in divenire…
Resta l’odore del mare sulle labbra, di un anno fa.
Te lo ricordi ancora?
LA MERLA
La merla solitaria zitta zitta
rvistita co’ un mantèllu sculuritu
a fà du’ passi e se ne pprufitta
zumpetta vassa senza lu maritu
-Quist’anno stranamente sento callo-
a se lamènta mentre se llontana
-de ‘sti tramonti fatti de corallo
io staco mejio co’ la tramontana-
-E se cuscì continua la mmasciata
allora vojio fà comme me pare
a faccio comme una che conoscio
bbandono tutto e po… vaco a lu mare!-
Se ci sarà un’altra vita
Se ci sarà un’altra vita
un’altra possibilità
un’altra forma da assumere
quando il tramonto incontrerà la notte
quando le dita
rattrappite
non stringeranno più la penna
quando
voltandomi
vedrò il grano diventato paglia
se ci sarà un’altra possibilità
dicevo
Dio degli abissi e delle risalite
concedimi di rinascere ninfea
leggera
a pelo d’acqua
in superficie
senza zavorre-
Hai visto gli ulivi?
Hai visto gli ulivi?
Hanno miriadi di piccolissimi fiori.
I rami sono tempestati da quelli che, poi, diverranno preziosi frutti da spremere.
La storia si ripete eppure, pur sembrando identica agli altri anni, ogni volta è nuova e diversa.
E diverso sarà l’olio.
Niente, domani, sarà come ieri.
Niente.
Ciò che si era va custodito, riposto nell’angolo del comodino, gelosamente protetto.
Ma è del domani che dobbiamo parlare.
Gli ulivi hanno dimenticato il raccolto passato.
Aspettano nuove mani.
Se da sempre è così, un motivo ci sarà…
Che luna, stasera!
Che luna, stasera!
Io e te non abbiamo mai
festeggiato granché
tu eri schivo
a tutto ciò che di confezionato
il mondo proponeva
in questo
nel tempo
ti assomiglio sempre più
Che luna, stasera!
Babbo, la tua festa
non l’hai mai calcolata
calcolavi il sudore
spesso obbligato
Che luna…
a lei ti affidavi
come i saggi contadini fanno
a lei
a nessun altro
tanto eri orgoglioso
dei tuoi campi
Ora
in questa tua ultima fase
dove io ti imbocco
la torta di mele
inzuppata di latte
ora
la luna
sembra averti scordato
D’altra parte
volge lo sguardo
noncurante
Un paltò di neve
E tu pensi che un paltò di neve
possa bastare a coprirmi la pelle?
No, non basta.
Ciò che ho dentro è ibernato e perpetuo
in segrete stanze
chiuso
e fuori
dal mondo gelido
prendo le distanze.
Così sia.
Signore,
accogli le nostre croci.
Quelle in bella vista, che il mondo vede e commisera,
ma ancor di più quelle nascoste, quelle indicibili, quelle tenute nelle stanze più buie in attesa di speranza.
Ecco, donaci il pane del domani,
il pane come prima necessità dell’anima.
Non lasciarci attrarre dalle frivolezze ma dall’essenziale del quale abbiamo perso traccia.
Passaci attraverso.
Tagliaci dentro.
Facci uscire il sangue della vita: quella vissuta con l’accettazione di ciò che non si può cambiare e con la tenacia inesauribile per ciò che merita una svolta.
Armaci di coraggio, quello di mostrarci veri e fragili, in questo mondo che ci obbliga a mostrarci perfetti e forti.
Così sia.
Di fiori in bianco e nero
Di fiori in bianco e nero
di luce flebile
di quelle poche parole che passano oltre i lupi
che tentano di sbranare la preda
di labbra tagliate dall’inverno
e screpolate dai morsi
dell’impotenza
di solitudini scelte
ed altre pagate care
di ieri a cui non credere più
di domani di cui diffidare
e di cuori chiusi fuori dall’uscio
di tutto questo
si nutre una pagina vergine
Profuma di Maggio
Profuma di Maggio, l’aria.
Di rose.
E ali di rondine sulla mia schiena.
E la mente torna a quella ragazzina, acerba ancora, che vestiva un profumo di ginestra per sognare due occhi.
Specie protetta, l’ho capito poi.
La ginestra.
E i sogni di lei.
Notte
Ci verrai a trovare prima, stasera.
Tra i rami nudi e sensuali degli alberi ai bordi della strada, tra l’erba umida della scarpata incolta, tra le luci delle finestre accese anzitempo.
Notte.
Un po’ ti temo, devo ammetterlo.
Sei troppo lunga e troppo silenziosa.
Troppo nera.
Ho impastato una torta per esorcizzare il timore che mi incuti.
Ho profumato la casa di burro, marmellata, mele cotte.
Non ho dosato gli ingredienti, non lo faccio mai.
Li metto a caso, così, a intuito, come faccio quando scrivo.
Comincio a battere le lettere (o le uova) e non so mai se parlerò d’amore o di matematica.
Poi inforno.
Ho un forno a forma di cuore.
Sforno cose che nemmeno io conosco.
Le assaggio…
Non sono una grande cuoca né una grande scrittrice.
Ma qui profuma di buono.
Notte, non ti temo!
Nascita di un poeta..
A chi, tra due colori, ne vede mille altri
a chi si turba per una foglia a terra
a chi si accorge della nascita di un poeta..
Giornate azzurre
Le giornate azzurre fuori e la paura dentro.
I contagiati vicino casa e una preghiera di supplica al cielo.
C’è un silenzio terribile!
E tanta tristezza per la durata senza tempo di questa pausa di vita.
E questa foto di un anno fa, a ricordarmi un panorama totalmente stravolto.
Mi manca il mio mare dalla finestra.
Mi manca vederlo da lontano…
Come ironizzare su una tragedia: copri-sterzo abbandonato.
A me non me nteressa
la jiornata dell’ambiente
chi la festeggia ojji
non ha capito gnènte
la festa se cumincia
da lu primu de Jennà
e non deve avé fine
manco dopo de Natà
l’ambiente se n’è ccòrtu
de èsse trascuratu
che ce ne frechemo tutti
anche se è tanto nominatu
Io intanto me preparo
co la sappa e co la vanga
se me mòro in ‘che scarpata
me potete anche fa santa
(O intitolarmi una scarpata)
Il ciliegio si è vestito di oro.
Prima di abbandonare i rami, le foglie, hanno voluto sfoggiare il loro abito più festoso.
Il vento di ieri, benché di una certa intensità, ne ha staccate poche.
Molte resistono, l’attaccamento alla vita è sempre forte.
Ecco, vedi…
è quando pensi che sei alla fine, è lì che serve l’ultimo sforzo.
Quando vorresti cedere al vento, alle intemperie, e invece senti dentro le foglie danzare, senza cadere, a darti forza.
Sono foglia, temo il vento della vita.
Sono foglia, vestita d’oro per l’ultima danza.
A ballare tra i rami, nella stagione più fredda.
Adesso
Non ho voglia di parlare.
Non ho voglia di spiegare, di parlare del vuoto, del nulla.
Ci si potrebbe sempre infilare nei miei assoli, tra le righe, tra punti e virgole, comunque.
E buongiorno, e buon pranzo, e c’è il sole oggi e meno male…
Sono vuote le parole, vuote di senso, vuote di percezioni.
Siediti.
Siediti sui miei fiumi.
Quei rivoli che sono un filo d’acqua ma che poi diventano dighe senza controllo.
Le dighe, fatte per contenere, non sempre fanno il loro dovere.
Siediti.
Ma ora basta.
Non ho più voglia di parlare.
Non più…
Gli orli sdruciti
e i bottoni attaccati alle ferite
trasformate in feritoie
per coprire il vuoto
stretto da darmi affanno
in certe nebbie oltre la collina
dei rimpianti
o largo fino a caderci
in quelle notti bucate di stelle
in cui mi sento piccola
e scompaio piano
ci vuole tempo per capire
che chi non dà non ha
e chi non ha
ha bisogno
di elemosina nel cappello
e di carezze
Perfetto, il sarto del tempo
che lascia qualche spillo
non a caso
in ogni abito
del suo atelier
Sfoglio i giorni e le stagioni.
La mimosa, la ginestra, i papaveri, i girasoli.
L’odore dei sogni, delle speranze, delle certezze sperimentate, delle delusioni cocenti.
Sfoglio il dolore.
Sfoglio le cicatrici
e gli oli con cui ho tentato
di lenirle.
Sfoglio le pagine
ora bianche
ora imbrattate di pensieri.
Pensieri come fiamme
che bruciano l’inverno.
E le stagioni
e i giorni
che sfoglio.
, sindaco di Belmonte
Sono una che scrive
È quel sottile confine d’azzurro che faccio fatica a delineare.
Dove l’acqua e il cielo si fondono, senza paura.
Il confine.
Tra l’essere e l’apparire.
Tra il pensiero intimo e lo scritto.
Tra il concreto e il sogno.
Tra la massa e l’io.
Tra l’immunità di gregge e la mia.
No, io non sarò mai immune.
Da niente.
Sono una troppo fragile.
Sono una che scrive.
Mi sto chiedendo se abbia sapore la Poesia.
Odore si, ne ha, evoca aromi dolcissimi, tra le righe.
Ma, sapore?
La mia si, sa di figlia di contadini, di colline coltivate a foraggio, dove pascolavano le pecore dalle quali, mia madre, mungeva il latte per fare il formaggio.
Sa di mani prive di crema all’orchidea ma che odorano di carne per riempire le olive.
E di pane, quello buono, usato per impanarle.
Sa di versi che sbocciano in bocca, mentre, alla cassa, sommo la spesa.
Sa di frutta matura, di zucchero tra le dita, mentre invaso la marmellata fumante.
Di pesche in vetro, di spicchi di sole custoditi per l’Inverno.
Sa di mare, del mio amatissimo mare, e del sale che lo fa tanto simile alle mie lacrime.
Sa di lievito, quello madre, che partorisce inni alla vita.
E che si moltiplica nella gioia.
Lontana da scrivanie di legno intarsiato, viva di fogli sparsi in ogni dove.
Ecco, io non so neanche se sono degna di chiamarla Poesia, la mia.
Ma questo è il suo sapore.
Dolce/amaro.
Come me
Grembiulino, fiocco e zainetto. Torno a scuola!
Faccio il terzo anno, quest’anno.
Ripetente, direte.
Si, ho ripetuto.
Ho ripetuto tutta la vita che ho un buco, una voragine, un vuoto incolmabile.
Niente e nessuno ha sostituito o riempito i miei anni di scuola mancati.
Niente.
E nessuno.
Poi, in una serata di Asino chi non legge, ascolto lui, Umberto Piersanti, mi piace.
Tempo dopo vengo a sapere della sua scuola.
Sono ignorante come una capra ma testarda come in mulo.
Ci provo, mi iscrivo, mi scapicollo per andarci, frequento, imparo.
Imparo, imparo, imparo…
Ma non sufficientemente.
Devo andare ancora.
Ancora, ancora, ancora…
Domenica rivedrò i miei compagni di classe.
Faremo anche la ricreazione.
Praticamente, sono già lì.
un campo arato
Regalami un campo arato
ci seminerò parole vergini
Se nasceranno
chiamale col mio nome
portale al mulino
fanne pane
Quando avrai fame
cibati di me
Sto imparando a leggere il silenzio.
A percepirne le sfumature, i toni alti e bassi del dolore, il fiato che manca e le mani fredde.
Perché il silenzio è un mare di roba: è Inverno, è solitudine, è un albero privo di foglie, una porta chiusa, un caffè senza zucchero.
È avere paura.
Lo sto leggendo, lentamente, per non perdere nemmeno una parola.
Perché, in fondo, lo amo il tuo silenzio.
Ma io sono altro.
Sono il chiasso, lo schiamazzo, il tuono rumoroso.
Di quel silenzio a cui appartieni, io, sono solo l’urlo…
A pugni stretti
A pugni stretti
col domani a sottrarre
carezze
sorrisi
gesti consueti
ed ora impossibili
Tu
che la fatica hai divorato
costruendo certezze
e terreni
da lasciarci
tu
che non distingui più
il remoto dall’oggi
convivendo con fantasmi e suoni
ora scomparsi
Vedi
posso solo giocare
con te
col bambino nato
dai neuroni che muoiono
piano
senza fare rumore
ARSA
Mi sorprendi arsa
come certi giorni di Luglio
Disidratata
come sabbia scolpita dal Ghibli
sola
debole come non immagini
forte come non saprai mai
A bruciarmi i piedi
sulla sabbia rovente
scalza
per sentire ogni granello
di cui sono fatta
ARSA Sonia Trocchianesi
OMAGGIO AL MESE DI LUGLIO
Il mio sale
Era presto e, il mio presto, significa prima del sole.
La sabbia era priva di orme, le mie erano le prime.
Ho pensato che era bellissimo come la notte portasse via ogni traccia del giorno precedente e che, a volte, mi sarebbe piaciuto fare così.
Cancellare tutto.
E ricominciare.
Pagina pulita, bella calligrafia.
Errori da evitare, scelte da azzeccare, risposte precise da dare.
Invece, solo il mare ha questa facoltà.
Il mare si rinnova ad ogni onda, ad ogni alito di vento.
Si inventa, ogni attimo.
Un giorno mi ha fatto una promessa.
Avrebbe nascosto tutte le mie lacrime.
Il mio sale, in fondo, è come il suo…
scritta il 4 novembre 2019-ore 22:44-
Me faccio cucciòla
Me faccio cucciòla.
Me bbusco dentro de me, me rritiro, quasci ce rinuncio.
Divento muta, invisibbile, comme se non ce staco.
Perché là fòri, spesso, non gne sse fà a stacce, non gne sse fà.
Che vorrà succède, chi se ne ccorghierìa?
Penso nisciù, nisciuna proprio.
Ma se dovèsse sboccià ancora un fiore, forse me rreffaccerìo.
Forse.
Ne rparlemo più in là.
A primavera.
VEDI
Vedi,
ho avuto anche io paura di fiorire.
Ho avuto paura dell’aria gelida del mattino
e di quella tetra della sera che entra nelle ossa e che rende fragili come vetri sottili sottili.
Allora son rimasta gemma, a volte
son rimasta embrione, pensiero,
azione mai accesa.
E le parole sono rimaste inchiostro,
desideri nudi con la paura del buio.
Nudi.
Sotto una coltre di stracci.
Non saccio se je la poi fa,
Non saccio se je la poi fa,
a nasce,
ce semo barricati in ogni mòdu,
no, non è pe lu virusse,
quella è la scusa,
e tène pure,
perché la sapemo raccontà cuscì bè,
che ce credemo tutti.
Semo nchiavato lu còre
e semo vuttato via la chiae,
mejio a mette un muru,
a non fasse domande,
a non cercà risposte.
Semo legato le ma’,
mejio non toccacce
unu co natru,
mejio a facce l’auguri a sopra
comme è stato sempre fatto:
“Comme stai, tutto vè?”
“Se tira avanti”
e via lu prossimu
cuscì…
Semo leato lu sorrisu,
perché ammó,
finarmente,
la vocca non se vede,
a sta bbuscata.
Non jela poi fa, a nasce!
E comme fai?
Non se po’ scavargà,
lu cunfì,
tra l’amore che pórti
e l’ipocrisia che ce tè ritti.
Piccolo ciclamino-
Il piccolo ciclamino ha vissuto un sacco di inverni.
Lui, col freddo, sta bene.
Riesce a mettere foglie nuove, verdi, forti.
E fiorire.
Ha imparato che, quando fuori non è l’ambiente che vorrebbe, fare finta di morire sia l’unica soluzione.
Morire.
Ritirarsi, mettere la testa sottoterra, non respirare.
Non soffrire.
Non inutilmente.
Aspettare il momento giusto,
saperlo fare, in silenzio.
Prima o poi arriverà l’ora in cui tutto sarà.
Tutto.
E la mortificazione estiva apparirà come un ricordo lontano.
Il ciclamino ha da insegnare molto.
Sto prendendo appunti…
Ecco, vedi…
mi inviti a non mollare, a non darla vinta a chi tenta di ostruire un sogno, ad essere più forte delle barriere, ad insistere, ad essere me stessa.
Vedi…
tu non sai quanto io sia caparbia, quanto io sappia essere determinata, e quanta ribellione contengono le mie idee.
Però sono stanca, stanca di far finta di essere nel torto, stanca di chinare il capo.
Stanca di mani chiuse, stanca di voci dubbie.
In certi labirinti, si rischia solo di perdersi.
Resto fuori, con la delusione da gestire.
I papaveri, sbocceranno lo stesso.
Più rossi che mai!
All’alba sarò pronta.
All’alba sarò pronta.
Presto, prestissimo.
Prima che il rumore copra il canto degli uccelli, prima che il sole scaldi la fronte, prima…
Prima.
Prenderò una strada secondaria, quella con vista mare.
Lascerò spaziare i pensieri trattenuti dietro i vetri, scioglierò le ginocchia semi bloccate dalla quarantena.
Camminerò finché avrò fiato.
Domani.
La senti com’è fresca, l’aria?
La senti com’è fresca, l’aria?
Mi ricorda quando, ragazzina, la respiravo tutta, col naso, a bocca chiusa.
E, camminavo, senza ancora sapere dove volessi andare.
Perché, mi avevano detto che, non era importante cosa volessi fare ma, era importante fare ciò che si doveva.
Io mi nascondevo sotto le lenzuola, la sera, che sapevano di fieno o di paglia, a seconda delle stagioni.
Lì, nascosta, parlavo sola.
Mi ripetevo i desideri a voce alta, i sogni, le cose che avrei voluto fare.
Credevo che, se lo avessi detto a voce alta, qualcuno mi avrebbe sentita, esaudita.
Lo faccio ancora, quando vado a camminare.
C’è un piccolo tunnel che attraverso solitamente, lì mi escono i pensieri a voce alta; in quei venti passi mi ritrovo, torno indietro, volo via…
E, i pensieri rimangono lì, sotto il tunnel, adagiati nell’aria fresca…
La senti com’è fresca, l’aria?
Mi ricorda quando, ragazzina, la respiravo tutta, col naso, a bocca chiusa.
E, camminavo, senza ancora sapere dove volessi andare.
Perché, mi avevano detto che, non era importante cosa volessi fare ma, era importante fare ciò che si doveva.
Io mi nascondevo sotto le lenzuola, la sera, che sapevano di fieno o di paglia, a seconda delle stagioni.
Lì, nascosta, parlavo sola.
Mi ripetevo i desideri a voce alta, i sogni, le cose che avrei voluto fare.
Credevo che, se lo avessi detto a voce alta, qualcuno mi avrebbe sentita, esaudita.
Lo faccio ancora, quando vado a camminare.
C’è un piccolo tunnel che attraverso solitamente, lì mi escono i pensieri a voce alta; in quei venti passi mi ritrovo, torno indietro, volo via…
E, i pensieri rimangono lì, sotto il tunnel, adagiati nell’aria fresca…
Vedi,
è arrivato settembre,
di già.
Un nuovo ciuffo di capelli sbiaditi,
un sorriso mancato,
una carezza stanca,
la sera.
Ho provato a seminare il coraggio,
nascondendo la paura
nella tasca di dentro;
non so se ce l’ho fatta,
non lo so.
Ho messo in moto le mani.
Le mani sono il fulcro
di ogni cosa.
Le mani sanno piangere,
accarezzare,
lottare.
Sanno fare l’amore.
Sanno stringere il tempo passato,
ricamando il domani
su finestre di vento.
Ho esorcizzato il dolore,
con le mani.
Ho cucito ferite di carne
e poesia.
Ci ho aperto la via,
nuova,
con le mani.
Ho invitato sui fiori
le api,
a impollinare la notte,
di stelle cadute
per me.
Le sensazioni sono immagini scritte sulla pelle.
E la pelle che invecchia è un album di foto.
Sto invecchiando, si, me ne accorgo dalla difficoltà a fare la salita.
Dal fiatone.
Dai piedi, uno in special modo, che appoggio male e che si ribella.
Manca l’acqua durante il percorso.
L’acqua fresca, di sorgente, quella che nasce per dissetarsi, per ristorare le labbra dall’arsura.
Gli odori però, li ho immagazzinati.
Ogni profumo una foto.
L’erba, il grano alto appena dieci centimetri, la borragine.
Le ho tutte qui, le loro immagini.
Sulla pelle piena di rughe.
Piena di curve.
Piena di poesia.
Immensa, stasera
Immensa, stasera
da contenermi tutta
me e tutte le mie paure
le mie angosce
le mie domande sospese
e il tuo ventre
accogliente grembo
dalla pelle bianca
sentiero degli amanti
palpito degli audaci
viatico dei coraggiosi
Non ti somiglio
sei troppo bella
luna
Vedi,
sembra alquanto inutile ripeterti in quale modalità va presa la vita.
Con leggerezza, con estrema leggerezza.
Senza entrare dentro alla sostanza, ai problemi, alle cose che le tue mani toccano.
Vedi,
dare poco di sé è sempre molto riduttivo ma, dare troppo, è da sempre penalizzante.
È una colpa.
Non ne trarrai benefici.
Dare tutta te stessa sarà il tuo male.
Il tuo difetto più grande.
Il tuo tarlo nello stomaco.
Rimani in superficie, cerca di capirlo.
Galleggia, se vuoi salvarti.
Di solito, dopo il mezzo secolo, si comincia a capire.
Di solito.
O anche no.
Gioia nel condividere una fetta di crostata
Scapijiata non póco
co l’aria de mare
sempre pronta a lottà
pe checcosa che vale
che fatica a fa der bène
a difende l’ambiente
sai lo vello che d’è?
Lu còre enorme de la jente!
(Su questa foto faccio schifo, mascherina e vestita di cenci, a fine raccolta, ma voglio farvi vedere quanta gioia porta il nostro gruppo.
Gioia nel condividere una fetta di crostata e sapere di aver lottato per una giusta causa)
Le ali delle parole
Le parole hanno le ali.
Inutile tentare di trattenerle, tutto inutile.
Andate, adagiatevi su nuovi lidi, su nuove scogliere, su nuove pagine.
Non so se qualcuno vorrà leggervi, non lo so.
Ma non è a questo che penso, ora.
Penso alla grazia, alla leggerezza, alla profondità che dovrò donarvi.
Penso ai probabili sensi che, teoricamente, potrete accarezzare.
Il gusto, il tatto, la vista, l’udito.
E quell’odore, inconfondibile, che saprete emanare.
Spiccate il volo, andate.
E grazie a chi, ancora una volta, crede in me.
In voi.
È lenta la pioggia.
Come una carezza lieve, quella che si fa ad un bambino quando dorme e non lo si vuole svegliare.
Malinconica, però.
Come tutta la scala del grigio, così precariamente in equilibrio tra il bianco e il nero.
I colori, certo, quelli sono altro.
Come quel prato, dove mi riempivo i polmoni di vita.
Dove il silenzio firmava un patto d’alleanza col verde ed io mi sentivo una regina sul trono dell’infinito.
Piove.
Lento lento.
Il grano ringrazia.
Io…
scriverò della malinconia.
Ancora.
Le pecore.
Quanto le ho odiate, le pecore.
Le ho odiate come non ho mai odiato niente altro.
Tantissimo.
Poverine, ma che c’entravano loro?
Ne avevano una quindicina, i miei, e mi mandavano a pascolarle.
Avevo il terrore che si venisse a sapere.
Magari dalle mie compagne di classe, quelle che, nei pomeriggi liberi, passeggiavano in piazza.
Oppure dai compagni, i maschi.
Cosa avrebbero pensato, se avessero saputo?
E poi, era tempo rubato ai compiti, ai miei amati libri.
Oh mio Dio!
Ci ho messo quasi quarant’anni per dirlo ad alta voce.
“Ho pascolato le pecore, si, io.”
Per tanti anni.
Lì, in quei prati verdi, dove qualcuno cantava che ci nascono speranze…
Vedi,
ci sono luoghi, nel corpo,
dove nessuno immagina il dolore.
Dove nessuno parla dei segni scalfiti nella carne,
a colorare il grigio di inverni sterili,
come murales astratti.
E questo carico,
che si fa peso e forza, qui, sulla mia schiena.
E tento di non curvarmi, saltando ostacoli
che faccio finta siano niente.
Scendono giù,
sulle vertebre stanche
come cerchi in uno stagno,
dove i sassi tirati recano fastidio.
E creano onde.
Ma quanto fascino hanno
le cose complicate
e quanto profumano
la pelle
le ostinazioni di cui mi vesto.
Sono questo.
Nuda e vulnerabile.
Poi forte.
Vestita solo di spine.
L’unico mio rifugio…
E poi mi dici… parla.
Che, il mio ammalarmi spesso, deriva da una stanchezza interiore, che il corpo sente le emozioni negative, il malessere, il sonno stentato.
Ma a chi vuoi che interessino le mie lagne?
Le mie paranoie malinconiche, il mio turbamento quando mi affaccio dalla finestra e non vedo più il mare?
Forse sono troppo sensibile, soffro pure per un saluto mancato, figurati…
No, non mi va di parlare.
L’unico amico sincero è questo foglio.
Il mio confidente.
Titos Patrikios-Le parole nude-Antologia con testo greco a fronte-
Editore Interlinea-Novara
Testi di Giovanni Conte-Traduttore Katerina Papatheu
DESCRIZIONE –
Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti europei attuali, nato ad Atene nel 1928, ha partecipato alla resistenza, durante l’occupazione nazifascista, rischiando l’esecuzione, e alla guerra civile. Mandato al confino durante i regimi di destra che si sono avvicendati fino al 1974, è sopravvissuto alla brutalità delle due guerre e della polizia e alle torture, grazie a una scrittura assidua, febbrile, incessante. È un poeta che s’interroga, e il suo verso è un sentiero ritmico che protrae quasi all’infinito il suo sentire, è un percorso della memoria che può riempire i vuoti della vita. “Nessun verso oggi può rovesciare i regimi /[…]/ se non per sollevare un angolo di verità”. A questo servono appunto i poeti, perché “a un certo momento scelgono, denunciano, sperano, / chiedono /[…]/ passando in rassegna le cose già accadute / la poesia cerca risposte / a domande non ancora fatte”. Edizione, con inediti, a cura di Katerina Papatheu, con una nota di Giuseppe Conte.
Biografia di Titos Patrikios
Titos Patrikios, figlio di due noti attori del teatro greco, è nato ad Atene nel 1928. Durante l’occupazione nazifascista ha partecipato alla Resistenza e nel 1944 ha rischiato l’esecuzione. Dal 1951 al 1954 è stato confinato nelle isole di Makrònissos e di àghiostratis, e dal 1954 al 1959 ha vissuto ad Atene come «confinato in congedo». Laureato in Giurisprudenza all’Università di Atene, è diventato avvocato, lavorando anche come giornalista. Molto attivo nel campo culturale, è stato, nel 1954, fra i fondatori dell’importante rivista letteraria “Epitheòrisi Technis”. Dal 1959 al 1964 è stato a Parigi dove ha studiato Sociologia e Filosofia a l’école des Hautes études e ha lavorato come ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique. Nel 1967, all’avvento della dittatura dei colonnelli, sfuggendo all’arresto, lascia la Grecia e vive a Parigi, dove lavora come consulente all’Unesco, e a Roma, dove lavora alla FAO. Dal 1976 vive ad Atene.
Dopo l’esordio come poeta nel 1943 sulla rivista studentesca “Xekìnima tis Niòtis”, la sua prima raccolta di versi, Strada sterrata, risale al 1954. Seguirono le raccolte Apprendistato (1963), Fermata a richiesta (1975), Poesie, I (1976), Mare promesso (1977), Controversie (1981), Specchi a fronte (1988), Deformazioni (1989), Apprendistato, ancora (1991), Il piacere delle dilazioni (1992), Poesie I, II, III (1988), La resistenza dei fatti (2000), La Porta dei Leoni (2002), Il nuovo tracciato (2007), Poesie, IV (2007), Brama d’amore che scioglie le membra (2008), La casa (2009), Convivenza col presente (2011), La poesia ti trova (2012). Ha pubblicato anche quattro volumi di racconti e numerosi saggi letterari, sociologici e giuridici. Due suoi libri di sociologia, scritti in francese e tradotti in inglese, spagnolo e russo, sono pubblicati dall’Unesco (1972, 1976) e due altri scritti in inglese e francese sono pubblicati dalla FAO (1970, 1974). Ha tradotto in greco, tra gli altri, testi di Spinoza, Lukàcs, Hannah Arendt, Walt Whitman, Majakowskij, Neruda, Saint-John Perse, éluard, Aragon, Brecht, Balzac, Stendhal, Valéry. Sue poesie sono state pubblicate in tutti i paesi europei e in Messico, Cile, Brasile, Egitto, Marocco, Cina. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia (Altérations, Parigi 1991; Apprentissage, Parigi 1996); due in Germania (Spiegelbilder, Colonia 1993; Das Hans, Berlino 2010). Un’antologia di suoi versi è pubblicata negli Stati Uniti (The Lions’ Gate, 2006). Un’ampia antologia delle sue poesie tradotte in italiano da Nicola Crocetti, La resistenza dei fatti, è uscita nel 2007 in Italia da Crocetti Editore. Interlinea ha pubblicato le due antologie con testo greco a fronte La casa e altre poesie (tradotto dallo stesso Crocetti, nel 2009) e Le parole nude nel 2013.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios in Italia si ricorda il Premio Brancati, Zafferana Etnea 2007, Premio Letterario Internazionale l’Aquila-Carispac 2009, Premio internazionale di Poesia Civile di Vercelli 2009, Premio Feronia Città di Fiano 2011. Nel 2004 il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.