È il morso dell’assenza che dilania i versi di Vascello fantasma, il ricordo delle persone e dei luoghi perduti aleggia resistente, riverbera in tutto il corpo. A lui simmetrici, ci sono i luoghi immersi in una visionarietà unica. La città dello Stretto, la Città di Sabbia, si staglia espandendo la sua storia reale o narrata dalle voci familiari e dalle leggende dei cantori. I flussi, le invasioni, i saccheggi, gli attraversamenti violenti che ne hanno determinato le strade e le sponde, tanto della città quanto del corpo con la sua memoria e i suoi sogni; l’autrice rivisita con i colori e gli odori questa commistione di eventi, mischiando i flussi vecchi e nuovi, i vecchi e nuovi imbarbarimenti, le invasioni reali e immaginifiche. La lingua, le parole e le sensazioni sono quelle della corporeità, tanto fisica e immediata quanto lirica, che trova forma e potenza in una ricerca linguistica che si incarna nella tradizione come nello slancio originale. La sperimentazione del verso e la promiscuità dei suoni di Marietta Salvo riportano sempre al corpo, carne e sangue, e al dolore, generato dall’assenza del corpo stesso. Le ossessioni si intrecciano ai sentieri percorsi e la Città di Sabbia, lingua stretta tra le colline e i due mari, è un territorio vacillante dove i sentimenti devono farsi strada tra fantasmi e relitti e che “lega il dolore a un palo / come fosse un sogno”
Le stelle procedono
Le stelle procedono a piccoli passi nell’incanto mattino.
Mi trovo
al centro infuocato
di questo pianeta (fu notte).
Alluno
improvvisa
in un corpo – (succhiai sangue e riebbi
la vita) –. Non so farne che fagotti però
in cerca della fenice – del ritrovarsi ancor in questa selva oscura –
e di bruto e dell’uomo che uccise e il motivo del bruteggio di bruto.
– La notte ha dita di cera (poi) –
E di nuovo cerco i corpi col dentro d’eterno.
Mi disse
Mi disse di comprare lowry
quando ancora non si usava
sotto il vulcano è splendente aggiungeva
magra la mano
di una bellezza procace il gesto
con uno sfrenato lampo lampante che divampa al posto della pupilla.
Era genio sfogliatezza di fiore.
Misurò il tempo giusto fino al prossimo maggio. Andò a saltelli col fiatone e rifiutò le pause boicottando gli ordini
del caposquadra.
***
Noi tornammo dal sentiero – gli ultimi quattro o cinque –.
Fu cosa penosa vedere l’ampia sala buia
e pensare alla corteccia che si apre e cola acqua
Racconti di mare
Templi vuoti si aggrappavano a dei. Troneggiava preghiera.
C’era nell’aria foresta gialla. Come gatto. Una donna schiacciava con sassi
magre pompe che sorbivano acqua. Ombra sola – lampioni al mercurio – flaveggiava come fosse foglietta
nel vento.
Si racconta come piedi non ebbe ma prudenti piumelle e lische
di pesce straniero.
La guardava da brusca collina.
Poi mai seppe se fosse sirena o uccello spiumato
o un notturno gabbiano che si andò
a incastonare
tra due vele rigonfie in tartàna.
Compagna di stanza
Pur avendo io allora soltanto trentanni
o di meno o di più
la morte diventò compagna di stanza.
Ne avevo trovato traccia e ogni giorno ne aggiungevo. Era comparsa una volta tra di noi sorelle
come un grido di gabbiano affamato – becco aperto – e aveva sganciato una molla. Dopo fu
difficile trovare un posto nel viale con gli alberi. Soleggiato disse mia madre. Sì risposi potrebbe ancora svegliarsi volendo.
Anche volle rosalba che portassimo sempre
fiori. Preferibilmente gialli e bianchi
non volgari per favore – tinte forti –. Nell’andarci molti sempre ne toglieva.
Io pensai di avere una fede e lottai col marmo beige
a schizzetti con gli stucchi di tre chiese col vetro degli occhi di un gesso formoso e languido. Lessi libri di spiriti incrociai le mani a raggiera pagai un ciondolo e lo
[attorcigliai
sul collo due volte. Il problema fu sempre però la gruccia
vuota.
Breve biografia di Marietta Salvo –
Marietta Salvo nasce a Messina nel 1952,è vincitrice per la Poesia del Premio Internazionale di Letteratura “Eugenio Montale” nel 1989. Pubblica con la casa editrice Scheiwiller la silloge poetica Aritmie nel 1989 e nel 1993 esce per Il Girasole Edizioni la raccolta poetica dal titolo L’insano gesto. Nel 1999 esce il volume Il senso del racconto (Perap Edizioni, Palermo). Ha collaborato negli anni alle pagine culturali de «L’Ora» e della «Gazzetta del Sud».
Devota come un ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,
su acutissime lamine
in bianca maglia di ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…(in Passo d’addio, Scheiwiller – All’insegna del pesce d’oro, Milano 1956)
Biglietto di Natale a M.L.S.(*)
Maria Luisa quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città turrite?
La primavera quante volte
turbinerà i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue orme
sconsolate – a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più miti:
le tuniche d’ortica, i sette mari,
la danza sulle spade.
“Mirabilmente il tempo si dispiega…”
ricondurrà nel tempo questo minimo
corso, una donna, un àtomo di fuoco:
noi che viviamo senza fine.
Immagine: da “La tigre assenza”, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991. Dettaglio di copertina
Devota come un ramo
Devota come un ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,
su acutissime lamine
in bianca maglia di ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…
(in Passo d’addio, Scheiwiller – All’insegna del pesce d’oro, Milano 1956)
Biglietto di Natale a M.L.S.(*)
Maria Luisa quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città turrite?
La primavera quante volte
turbinerà i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue orme
sconsolate – a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più miti:
le tuniche d’ortica, i sette mari,
la danza sulle spade.
“Mirabilmente il tempo si dispiega…”
ricondurrà nel tempo questo minimo
corso, una donna, un àtomo di fuoco:
noi che viviamo senza fine.
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(*) Maria Luisa Spaziani. Cristina Campo scrisse questa poesia a Firenze e vi appose la data “Ognissanti 1954″
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto,
lungo le notti piovose che io m’accendo
nel buio delle pupille,
tu, senza più fanciulla che disperda le voci…
Strade che l’innocenza vuole ignorare e brucia
di offrire, chiusa e nuda senza palpebre o labbra!
Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansiae attento:
fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
là dove giunge il tuo piede.
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
La tigre assenza pro patre et matre
Ahi che la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera…
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
Il Maestro d’arco
a B.B.
Tu, Assente che bisogna amare …
termine che ci sfuggi e che ci insegui
come ombra d’uccello sul sentiero:
io non ti voglio più cercare.
Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,
se la corda del cuore non sia tesa:
il maestro d’arco zen così m’insegna
che da tremila anni Ti vede.
(Giardino Bonaccossi, ottobre ’54, a B.B.)
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
Biografia di Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (Bologna 1923, Roma 1977), ormai riconosciuta come una delle voci poetiche più alte del novecento, è stata straordinaria ed originale interprete della più profonda spiritualità insita nella letteratura europea.
Appassionata studiosa di Hofmannsthal, rivisitò il mondo misterioso delle fiabe svelandone le trascendenti simbologie. Fu traduttrice e critica di originale metodologia, enucleando dalle opere letterarie l’idea del destino e il dominio della legge di necessità sulle vicende umane che l’arte esprime in una aurea di bellezza. Appartenne al ristretto nucleo di intellettuali che avviarono l’introduzione di Simone Weil in Italia.
Negli anni cinquanta maturò la sua prima formazione nella Firenze dei grandi poeti del tempo ove conobbe Gianfranco Draghi che la indusse a pubblicare i suoi primi saggi su “ La Posta Letteraria del Corriere dell’Adda e del Ticino”.Dal ’56 si trasferì per sempre a Roma.
Studiosa di spessore leopardiano, stabilì intensi sodalizi umani e spirituali e innumerevoli frequentazioni di grandissimo rilievo, basti menzionare: Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller. Tra i filosofi ricordiamo Elémire Zolla, Andrea Emo, Lanzo del Vasto, Maria Zambrano, Danilo Dolci che sostenne nei momenti difficili, ed Ernst Bernhard che le fece conoscere il pensiero di
Jung, di cui era stato allievo. Fu consulente editoriale, scrisse su importantissime riviste e studiò l’esicasmo, la mistica occidentale ed orientale, i grandi classici e i poeti di ogni tempo. La sua “metafisica della bellezza” la indusse a una controversa e profonda riflessione sulla liturgia, ritenendo la sacralità dei riti e la comprensione del valore della trascendenza efficaci difese dalla minaccia della despiritualizzazione del mondo incombente sulla modernità che secondo la Campo, in una certa misura, è disattenta alla bellezza ed esposta alla vanificazione delle intenzioni. L’architettura culturale e spirituale dell’universo campiano si desume anche dai tanti e ricchi epistolari. In particolare dalle “Lettere a Mita” (la scrittrice Margherita Pieracci Harwell), uno degli epistolari più affabulanti di tutta la letteratura italiana, è infatti possibile ricostruire la storia di un’anima che palpita per l’incanto e la tragedia della vita. Vita che per la Campo è teatro della sfida al destino condotta dalla poesia e dal sacro.
Falsa identità Prima o poi qualcuno lo scopre: io sono già morta da viva. È di donna straniera la faccia tra i capelli in giù sporta che subito si ritira, l’ombra che dietro le tende s’aggira di sera, il passo che viene alla porta e non apre. Suo il canto che intriga i vicini coprendo i miei gridi sepolti. Qualcuno prima o dopo lo scopre. Ma intanto…
Lei a proclamarsi non esita, lei mostra il mio biglietto da visita. Io nel buio, in catene, a un palmo da voi di distanza, sul muro graffio questa riga contorta: testimonianza che mio era il nome alla porta, ma il corpo non ero io.
Il tredicesimo invitato
Grazie – ma qui che aspetto? Io qui non mi trovo. Io fra voi sto qui come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto e mangia nel piatto scompagnato. E fra tutti che parlano – lui ascolta. Fra tante risa – cerca di sorridere. Inetto, benché arda, a sostenere quel peso di splendori, si sente grato se alcuno casualmente lo guarda. Quando in cuore si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» E all’improvviso capisce che siede un’ombra al suo posto: che – entrando – lui è rimasto fuori.
Ad occhi chiusi
E mentre dormi, e dura l’armistizio fra l’anima ed il corpo suo sudario, vorrei scenderti in petto, mescolarmi allo stormo dei palpiti al comizio dei sentimenti. In balìa, sorpreso senza sigilli: stai come un diario di bordo pieno d’isole e di venti, come un albero offerto al plenilunio. Terribile e indifeso (questo taglio fra i cigli, fino all’animia…) E non oso più decrifarti. Sacro – simile a morte – il tuo riposo. Meglio che incognite le sigle, che i cifrari siano confusi. Meglio ch’io seguiti ad amarti ad occhi chiusi.
Niente
Morte, se vieni per condurmi via, lascia che ombra su ombra io ripercorra la gente. In quest’incrocio di rotte casuali, ci siamo incontrati – fra vivi – così inutilmente. Per migliaia di giorni, ogni giorno: all’andata, al ritorno. Per migliaia di notti, ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. Non ci siamo scambiati niente.
Lei
Lei non ha colpa se è bella, se la luce accorre al suo volto, se il suo passo è disciolto come una riva estiva, se ride come si sgrana una collana. Lo so. Lei non ha colpa del suo miele pungente di fanciulla, della sua grazia assorta che in sè non chiude nulla. Se tu l’ami, lei non ha colpa. Ma io – la vorrei morta.
Tu Tu, che chiamiamo anima.
Colore negro, odore ebreo. Tu profuga,
tu reietta, intoccabile. Tu transfuga
dal soffio dell’origine.
Non ti spetta razione, né coperta,
né foglio di reimbarco.
Per registri e frontiere
non esisti.
Ma in sere come queste, di cangianti
vaticini fra i monti,
ad ogni varco
può apparire improvvisa la tua faccia
d’eremita o brigante.
“Fronda smossa,
pietra caduta…” trasale in sé il passante
che la tua ombra assilla
di crinale in crinale,
mentre corri ridendo nell’occhiata
del cielo, che ti nomina e sigilla.
Capro espiatorio Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All’aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
– senza uscita –. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un’unghia
sotto le porte). Capro espiatorio
già caduto sul fianco, otre di sangue
già mezzo vuoto – come scalci ancora
forte, mia vita.
Oggetti I piccoli oggetti, i piccoli
amici schiavi, che tirano
troppo in lungo la vita! Miei cari,
vi licenzio in tronco. È più dura
forse per me: ma chi monco,
chi gobbo, chi spelato da lebbra;
e il mazzo di chiavi risputato
da ogni serratura.
Gli ipocriti inermi! Bisbigliano
aiuto, pietà.
E s’uncinano a tutti gli appigli,
a tutti i ricordi come labbra
s’attaccano, come vermi.
Giù nel sacco – un tonfo – coraggio!
Non sarà un lungo viaggio.
In cantina, il bel dormitorio.
Col teatrino dei topi, il tanfo
del vino, la grata
(tarlata) del parlatorio
per la piuma, per la foglia di passo.
Tra vecchi fratelli… Diciamo
che a noi padroni va peggio,
quand’è l’ora nostra… Ma adesso
muoviamoci, andiamo.
Fernanda Romagnoli, dimenticata poetessa, è una delle più grandi voci del Novecento italiano, con il potere di folgorare il lettore con la sua poesia.
Nata a Roma il 5 novembre 1916, si diploma in pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia della capitale.
Nel 1943 pubblica la sua prima raccolta, Capriccio, con l’editore Signorelli.
Nel frattempo fa parte della redazione di alcune riviste del tempo, come La Fiera Letteraria. Nel 1973 pubblica per Guanda Confiteor, raccolta premiata da Vittorio Sereni.
Sette anni dopo, Attilio Bertolucci, da lei considerato il proprio maestro, la consacra facendo pubblicare con Garzanti Il tredicesimo invitato, la sua opera più importante.
Sempre Bertolucci, in un’intervista del 1991, afferma: «Preferisco non fare nomi. O forse potrei limitarmi a due donne di sicuro valore: Alda Merini e Amelia Rosselli, cui vorrei aggiungere Fernanda Romagnoli che è una poetessa che è morta e non ha ancora avuto quello che merita».
Purtroppo, infatti, la poetessa viene via via dimenticata, si ammala di epatite e si spegne a Roma nel 1986.
C’è nella poesia di Fernanda Romagnoli una forte tensione emotiva, una potenza inaspettata. La forza nel verificare arriva all’estremo travolgendo chiunque legga.
Donatella Bisutti curatrice della nuova versione de Il tredicesimo invitato e altre poesie (2003) descrive la poesia della Romagnoli in questo modo: «È una poesia dell’anima, dello spirito, dell’energia incontenibile dello spirito.»
Da ciò non comprendiamo come sia possibile che tale autrice possa essere accantonata. Allo stesso tempo è vero che la poetessa, già in vita, rifiutava qualsiasi salotto letterario, rimanendo nella sua Roma. Gli unici contatti con alcuni letterati degli anni (Bertolucci in primis, o Nicola Lisi) lì ebbe attraverso delle lettere.
Sembra quasi un’autopunizione inflittasi, dettata forse dal matrimonio con un militare o da un carattere taciturno e introverso che trova il suo linguaggio, la sua esplosione nella scrittura. Questo lo deduciamo anche solo dai titoli scelti per le raccolte pubblicate. Il Confiteor, ad esempio, è la preghiera penitenziale della celebrazione eucaristica, Il tredicesimo invitato indica qualcuno che non dovrebbe esserci, perché semplicemente porta sfortuna.
Allo stesso tempo non si può dire che la poesia della Romagnoli sia pacata, stretta nello schema di una vita vissuta in solitaria. È chiaro, quindi, che la poetessa trova nel verseggiare la propria vocazione, il modo per rendere visibile quel genio, quel valore insito in lei.
È in poesie come Falsa identità che dà prova di questo. Fernanda si distacca da un mondo che non le appartiene (io sono già morta / da viva) e ricalca il tema della morte, molto spesso trattato. In una poesia dedicata al padre la poetessa, invece, scrive:
Così mio padre mi s’accende accanto nel buio che mi fascia. “Vieni per dare o per chiedere?” m’affanno “È la medesima cosa!
Quindi la poesia di Fernanda marca quell’oltre che le fu precluso nella vita. Il grido della poetessa giunge ancora chiaro e comprensibile.
Senza pietà, senza pietà, Signore, il Tuo immenso lasciarmi. Senza fine, senza fine il mio grido Ti voglio!
scrive in Senza requie, oppure:
ed io, abbagliata, più non mi difendo – confitta nel limo terrestre come uno spino -.
in Quando.
Un grido lacerante, soffocato, che solo nel pensiero della morte trova come uscire fuori, prepotente, invadendo il resto.
– io – che piangete morta. Invaderò la casa: un solo giro come fa il lampo.
in Avvento
E tu già stavi disciolta da noi vivi. Verso incerte balugini dischiusa. Maturavi sola – nella placenta della morte
in Sola.
È una terribile pena quella a cui Fernanda è stata condannata. Una donna che viva si ritrova morente, sepolta ancora fremente.
otre di sangue già mezzo vuoto – come scalci ancora forte, mia vita.
Da Capro espiatorio
Quella donna dal viso indifeso Un poco sfiorita- che passa nello specchio in una scolorita veste rossa, senza fruscio, di fretta, rialzando sul capo i capelli con mano distratta: quella donna dall’anima dimessa dicono che son io.
Ed anche l’amore è un sentimento sofferto, fatto di gelosie quasi adolescenziali, che definiscono meglio il quadro caratteriale della poetessa
Se tu l’ami, lei non ha colpa. Ma io – la vorrei morta.
in Lei.
o da perentorie esclamazioni di colpevolezza:
Meglio ch’io seguiti ad amarti ad occhi chiusi.
Donatella Bisutti, grande estimatrice della Romagnoli, ci mette di fronte ad una certezza dicendo: «Forse lo spirito di Fernanda ha ancora bisogno di placarsi e non riesce a farlo. Forse è ancora alla ricerca di un perdono.»
Anche noi lo crediamo, come crediamo che questo spirito abbia bisogno di essere riscoperto e mai più nascosto.
Fortunatamente per la rivista Nuova Corrente di Interlinea è uscito recentemente “Ogni gloria e misura sconvolgendo.” Studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli, un volume che propone una rilettura della sua poesia con alcuni inediti e approfondimenti.
Nuova corrente 161. «Ogni gloria e misura sconvolgendo». Studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli Copertina flessibile – 1 luglio 2018
Un destino di silenzio, lo definì qualcuno. E così sembra essere stato il destino di Fernanda Romagnoli. Assente in molte antologie, dimenticata, ignorata. Eppure Paolo Lagazzi la definisce “una poetessa grandissima”. E una poeta così grande non può e non deve rassegnarsi a un destino di silenzio. Non può e non deve essere un’ombra nella Storia.
Prima o poi qualcuno lo scopre:/io sono già morta/da viva.
Nasce a Roma il 5 novembre 1916. A diciotto anni si diploma in pianoforte al conservatorio di S. Cecilia, e a vent’anni conclude gli studi magistrali, da privatista. Tra il 1941 e il 1944 lavora come impiegata nel Consiglio Nazionale delle Ricerche.
La sua prima raccolta di poesie, Capriccio, viene pubblicata nel 1943, edizione Signorelli, con la prefazione di Giuseppe Lipparini. L’anno successivo si trasferisce a Erba con la famiglia, e poi torna a Roma nel 1946. Si sposa con Vittorio Raganella, un ufficiale di cavalleria con il quale dal 1948 al 1965 vive a Firenze, Pinerolo e Caserta. Infine Roma.
Tra il 1961 e il 1965 è maestra in alcune sedi di montagna. Ma perlopiù sarà moglie, madre, e poeta. Ruoli che non s’intersecano, abiti che Romagnoli indossa scompagnati. Come se la vita e la scrittura fossero due strade parallele, e questo la porta a vivere costanti sensi di colpa.
Io nel buio, in catene, a un palmo/da voi.
È del 1965 la seconda raccolta di versi, Berretto rosso, pubblicato da Sestante. Sono i primi anni Settanta che la vedono amica di Carlo Betocchi e Nicola Lisi, e nel 1973 esce la terza raccolta di poesie, Confiteor, edita da Guanda. Questo fu possibile grazie ad Attilio Bertolucci che dirà della sua poetica “uno scontro tra il quotidiano e il visionario”.
Io distendo le mani, che vi piova la chiarità…/tu aprimi i capelli/o brezza di levante.
Romagnoli passa dallo stampo ottocentesco della prima raccolta, a liriche visionarie e metafisiche. Una poetica che all’inizio parla di comunione di elementi, la natura percepita a livello sensoriale, un’atmosfera panica che ricorda D’Annunzio e Pascoli, con reminiscenze quasi leopardiane.
[…] i grandi fiori/dissetati splendevano, che un tempo/come piccoli pugni si serravano/per resistere a un marzo di gran vento.
Negli anni Settanta, Fernanda Romagnoli collabora con alcune riviste letterarie, «La Fiera Letteraria» e «Forum Italicum», per la radio Approdo. Scrive quelle che saranno le poesie de Il tredicesimo invitato che uscirà nel 1980 per Garzanti. La poesia che dà il titolo alla raccolta riporta a quel destino, al vivere in disparte.
Grazie – ma qui che aspetto? /Io qui non mi trovo. Io fra voi/sto come il tredicesimo invitato, /… E all’improvviso capisce/che siede un’ombra al suo posto:/che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.
Il senso di inadeguatezza e l’estraneità alla vita sociale che Romagnoli vive, e soffre, sono espliciti, tangibili, e ne scaturisce un’insoddisfazione che la fa sentire scomoda dentro qualunque ruolo. Moglie, madre e poeta. Ruoli che non riuscirà mai a gestire come vorrebbe.
Avrà un difficile rapporto con la figlia, con la quale non farà in tempo a spiegarsi veramente. Scrive una poesia per lei, che fa così:
Si stringe chiusa, dura, /come nelle sue ciglia/la margherita sotto il temporale… Ma il mattino /dritta come una pianta, /spensierata, m’è presso il capezzale/che con l’aroma del caffè mi canta/ “sveglia”, col carillon del cucchiaino.
Vive ogni ruolo con sensi di colpa, che serpeggiano nelle sue poesie. Poesie che, tralasciate le atmosfere naturalistiche, si concentrano sugli oggetti di uso quotidiano. Oggetti da cui ci separiamo a fatica, così vicini ma al tempo stesso così estranei. La poesia Oggetti è dedicata proprio a loro.
I piccoli oggetti, i piccoli/amici schiavi, che tirano/troppo in lungo la vita! … Gli ipocriti inermi! Bisbigliano/ aiuto, pietà.
Talvolta gli oggetti sono intrisi di significati metaforici, come nella poesia Bruco, dove Romagnoli osserva con lucidità e freddezza una vita che finisce. Solo un feroce distacco dalle cose le permette di sopportare il pensiero della morte.
Tagliato in due col suo frutto/il bruco si torce, precipita/nel piatto, ove un attimo orrendo /sopravvive al suo lutto.
Questo scrivere delle piccole cose di tutti i giorni ricorda la poetica di Kavafis. Ma il quotidiano è una tenaglia che stringe forte e Romagnoli si trova a vivere un continuo conflitto interiore, un conflitto dell’anima, e un senso di precarietà che la farà sentire estranea alla vita stessa.
Tu, che chiamiamo anima. Tu profuga, /reietta, indesiderabile. Tu transfuga/dal soffio dell’origine. /… Per registri e frontiere:/non esisti.
Fernanda Romagnoli si muove tra un forte desiderio di ribellione e un’amara rassegnazione al quotidiano.
Morte, se vieni per condurmi via, /lascia che ombra su ombra/io ripercorra la gente. /In quest’incrocio di rotte/casuali, ci siamo incontrati/ – fra vivi – così inutilmente.
Paragonata a Salinas, Caproni e Carducci, Romagnoli viene accostata anche a un’altra poeta, Emily Dickinson. Entrambe propense all’isolamento, a quel vivere in disparte, un certo distacco dal resto del mondo. Un distacco totale per Dickinson che vivrà tra le mura domestiche, reclusa nella propria stanza, mentre Romagnoli, pur non arrivando a questo estremo, vivrà in disparte, silenziosa, come un ospite che non vuole disturbare. E, come per Dickinson, nella poetica di Romagnoli emerge la tensione al divino.
Con Lui non abbiamo contatti. /Firma e sigillo: l’impronta del suo pollice…/ Le finestre non guardano che pietre, / da che segarono l’albero e l’uccello/portò altrove il suo canto.
Quella di Romagnoli è stata definita una poesia dell’anima. Anima che ha bisogno di evadere, spaziare, essere libera.
Così a portata d’anima! / «Tu aspettami!» /Non udì. Sfavillò vuota la cruna. /Anima – o forma umana:/ah, già svanita.
Ma c’è un altro aspetto che ci fa ricordare Dickinson: il dolore, la malattia. Proprio il dolore, a partire dagli anni Settanta, sarà un compagno sgradito ma fedele di Fernanda Romagnoli. Un’epatite contratta nel periodo bellico la costringerà, nel 1977, a subire un intervento chirurgico al fegato. Nonostante i ripetuti ricoveri, Romagnoli non trascura la poesia.
Poi ti raggiungerò/là dove – abbandonata/la via terrestre, simile/a rotaia in disuso – s’incammina lo spirito, esitante.
In questo verso la vita viene paragonata a una rotaia in disuso, una similitudine come se ne trovano tante nelle sue liriche. E si trovano anche metafore, anafore, rime e assonanze.
Questo cuore mio, gonfio di pietre, / suona ancora conchiglie/ e il sudore dell’anima concima praterie di camelie.
E ancora:
…se tu l’ami, lei non ha colpa. /Ma io la vorrei morta.
Se in vita Romagnoli ebbe un breve periodo di notorietà, veloce come una meteora, dopo la morte sprofondò nell’oblio.
Voglio alzarmi. Ho paura. /Nel pozzo del cranio/ – senza uscita -. Nel buio sacrario/sconsacrato.
Alcune poesie inedite saranno pubblicate poco prima della sua morte dal quotidiano «Reporter», grazie a Ginevra Bompiani e Gianfranco Palmery, e dalla rivista «Arsenale».
Ma sarà solo nel 2003 che Donatella Bisutti, dedicandoci anima e corpo, riuscirà a far ripubblicare, dall’editore Sheiwiller, Il tredicesimo invitato. Ma fu un’altra meteora, poi ancora quel destino che ritorna, di nuovo il silenzio. Di nuovo l’oblio. È per questo che abbiamo voluto scrivere di lei, e per lei. Perché ancora una volta potesse uscire da quel silenzio.
E affacciati guardando fluttuare/questa frangia di sera sui palazzi, /che di sprazzi vermigli ci colora.
Riportiamo il pensiero di Barbara Lanati circa la sua biografia su Emily Dickinson, facendolo nostro e dedicandolo a Fernanda Romagnoli.
Avrei voluto che fosse stata lei a parlare di sé. Lei tuttavia non c’è. Nonostante la sua assenza, non voglio attribuirle ciò che lei non avrebbe voluto le fosse attribuito. Né voglio offrirne un’immagine in cui non avrebbe voluto riconoscersi.
Fernanda Romagnoli muore all’età di settant’anni, a Roma, presso l’Ospedale Sant’Eugenio. È il 9 giugno 1986.
Fu feroce/il dettato di resa. In un minuto/la tua carne divenne un ectoplasma/dai gesti incomprensibili…/Maturavi/sola – nella placenta della morte.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Ogni gloria e misura sconvolgendo, studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli, «Nuova Corrente»
«Poesia», rivista trimestrale di poesia
Donatella Bisutti, Il fantasma di Fernanda, in «Le Voci della Luna», quadrimestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica
Emilia Sirangelo, Fernanda Romagnoli: l’esilio di un poeta
Pozzo-Martini
PAOLA POZZO Ottenuto il diploma presso lo Ied, illustra libri per ragazzi in Italia e all’estero, ed. San Paolo e Grimm Press di Tawian; lavora nella moda per Giorgio Kauten; disegna biglietti augurali e carte regalo per La Carterie di Panini e Auguri Mondadori. Illustra poesie per B. Mondadori Scolastica.
Per le ed. San Paolo pubblica un libro per ragazzi sulla pace.
Giornalista pubblicista, scrive recensioni presso una rivista. Vince vari concorsi letterari di narrativa breve, tra cui GialloMilanese e Keltia edizioni.
Pubblica racconti su tre antologie di genere Steampunk.
Vive a Milano.
Guarda il dorso
della collina avanti,
la sua imperterrita
affermazione,
e diminuisci come
sale in acqua dolce,
crepuscolo quando
non sei pronto.
Piú del destino
ti volle il caso, con sue
estrose conseguenze—
ricominciando, potresti
patir diversamente, o
tacitamente passare.
A quel che accade
senza di noi, negandoci,
il merito d’accadere—
è così rara letizia
in questa valle,
così travolto il bene,
in sua disfatta.
*
IV
Non ho veduto
il filamento,
non so dell’onfalo
da cui si rivolse la madre
al principiar del tempo,
prima del digiuno
che vicendevolmente
ci tolse, prima che
sorteggiato il cammino.
Uomo
amaramente con sé,
autore lucenti rovine,
ed ora a stridere indietro,
tra boscosità d’infanzia
e preferite solitudini—
curvo ne l’inspiegabile,
in suo protetto
ispido disastro.
*
v
Si sperde cosí, nella
lungimiranza del golfo,
altezzosa prora, acqua
neppure increspata
sotto un calmo svolare.
In malora una vita
le cui tracce ora sotterra,
delusi dal peso
della pietra tombale
quei suoi non rassegnati
rampicanti.
Ogni morto non è
che un presagio, uno
che volle affrettarsi
per coincidere nel ciclo
immemorabile, perdendo
individua qualità,
torcendosi all’aspra soglia,
di sua prora tacendo
l’orizzonte, terra e terra
sopra le visioni
o calpestata cenere—
teniamo allineate
nostre inumane spoglie.
*
IX
Sbandati sobborghi,
non c’è allegrezza
che ripaghi il battito
dei vènti. Stancamente
in dignità, piegarsi
ove terra senz’aroma
per disertati solchi.
Mestizia, perciò,
tra disfacimento
e recintati sogni—
preme nuvolaglia
incontro al sole, e noi
su nostro indurito suolo
o in regioni avverse,
nel malmenato
laico universo.
Ora lascio i lamenti
per guadagnar piaceri,
dipingere avorio e vermiglio
sul palmo della mano,
poi unirmi alle foglie decidue,
a loro periodica resa.
*
xv
Nel séguito delle notti,
luce segue l’oracolo,
negativamente si compie—
è questa la conoscenza
elementare, la guida
per chi muova
nel valoroso sole.
Non c’è perdita nel buio,
bensí adempimento,
definitiva imitazione
d’ogni tentata vita—
i cedri non possono
spostarsi, per questo
apprezzano il vento.
Ora indugi
innanzi alla scuola
in cui imparasti
a mentire.
*
XVI
Vertiginosamente—
piú che ricordi, barlumi
di brevità avvenire,
scontente
secondano le barche
la corrente, poiché
contraria a facilità
la vita, per lo meno
la tua, e ripido andare
pregando non raggiungere.
Oh intentata vastità,
sterpi e fioriture,
e sparsa malamente
l’ebrietà del tuo respiro.
Non s’adagia al passato
quel che resta, ci sono
ordini e dionisiaci
richiami, sghembe
manovre accanto,
e specialmente
si notano gli abissi.
*
XIX
Sto imparando
la natura dell’accanto,
la sua strenua
separatezza, ma stento
a distinguer prossimità
in lontanamento,
figli e spose
sulla scomoda via,
senza fiato
nel tesoro del tempo.
Non deludere
le commozioni—
cos’altro, a tenerti
nel vivo del vivere,
qual conchiglia
ondosamente immersa,
poi rassegnata in rena
e pur raccolta,
fanciullesche le mani.
*
XXIII
Se fossero qui
ultime palme, potrei
pensare al deserto
come a un rovescio,
una definizione.
Sabbia, senz’altro da sé
come preistorico mare,
ove lentamente
uno di noi contempla
la fermezza del tempo
e la propria celibe
consumazione.
Se guardassi sempre da qui,
la biblioteca avrebbe sigilli
e mi sarebbe amico
il gonfiore dei libri intonsi.
E la polvere, che
ovunque mi rammenta
destinato a sepoltura
il mondo. Io corpo
so come precederlo.
*
XXXVIII
Ne l’accecante oscurità,
ove eretiche ultime
parvenze, declamazione
di buio sulle case
degli uomini, gli atti
inconclusi, le sconfitte
del giorno, lontani
il bronzeo meriggio
e la decrepita aurora, e
noi qui, a scuoter sonagli
per incantare oscurità,
che non ci derubi
dell’incertezza,
e specchio non sia
conoscersi
nel non vedersi, memori
del malriuscito sorriso
che fa compagnia
a nostri stordimenti,
mentre comunemente soli,
a supplicare un giorno
in cui cercar invano
la ferita d’una pace.
*
XLV
Comune verità
i manicomi le carceri,
sedati talora e talora
in tumulto. Si tratta
d’aspettare che finisca
il senza scopo
di chiodi e serrature,
il viver sempre sull’orlo
sullo scrimolo,
se sbiaditi i motivi
del nostro soggiorno
ma perplesso il rilascio:
vedo gente in disuso
qui fuori, senza idioma
respiro intendimento—
non so se potrò resistere
come uno di voi.
*
XLIX
Oscurato risveglio:
coltivatore del sonno,
non hai fede
in questo avvento, incalza
promiscua una luce,
fa rasura di sogni, quegli
storditi ritrovamenti
senza i quali adulta nudità
non può bastare.
Rumori, pregio di stemmi
e pergamene, mattino
a perdifiato. Non è patria,
il mondo esterno,
se non piú carnale
la sua indole. Invece
la mente notturna
scorre ovunque,
avvera mescolanza.
Non sai niente del tempo,
non ne conosci le viscere,
l’adunato scampanellare,
il ritrovo in bonaccia
degli annegati, le imprese
di vele senza vento,
il fulgido
nel nido del silenzio.
Lontane, miglia
e miglia, le sorgenti.
Ne conosci soltanto
la divulgata fine.
*
LX
Colui che festoso
su trampoli, senza
mai pensarli fittizi,
lo ammetta: non c’è
grano di sabbia
prediletto; ceda
il segno dei mediocri,
la superbia; consideri
pochezza
le sue acclamate opere;
ricordi aver diritto
a un sepolcro, e sia
dal tacer fatto cortese.
Siano le allodole
a cantare, o mulinelli
d’acqua dolce, poi che
nella notte ancor ci culla
quel palpito, lontano
mostrarsi d’astri—
è questo il mondo,
noi siamo inferiori.
Nanni Cagnone
Sterpi e fioriture
Lavis (TN), La Finestra Editrice
“Coliseum”, 2021
Poesia di Guillaume Apollinaire tratta da “alcools”-
-Apollinaire recite le pont Mirabeau-
il ponte Mirabeau
Sotto Pont Mirabeau la Senna va
E i nostri amori potrò mai scordarlo
C’era sempre la gioia dopo ogni affanno
Venga la notte suoni l’ora
I giorni vanno io non ancora
Le mani nelle mani restiamo faccia a faccia
E sotto il ponte delle nostre braccia
Stanca degli eterni sguardi l’onda passa
Venga la notte suoni l’ora
I giorni vanno io non ancora
L’amore va come quell’acqua fugge
L’amore va come la vita è lenta
E come la speranza è violenta
Venga la notte suoni l’ora
I giorni vanno io non ancora
Passano i giorni e poi le settimane
Ma non tornano amori né passato
Sotto Pont Mirabeau la Senna va
Venga la notte suoni l’ora
I giorni vanno io non ancora
Le pont Mirabeau
Sous le pont Mirabeau coule la Seine
Et nos amours
Faut-il qu’il m’en souvienne
La joie venait toujours après la peine
Vienne la nuit sonne l’heure
Les jours s’en vont je demeure
Les mains dans les mains restons face à face
Tandis que sous
Le pont de nos bras passe
Des éternels regards l’onde si lasse
Vienne la nuit sonne l’heure
Les jours s’en vont je demeure
L’amour s’en va comme cette eau courante
L’amour s’en va
Comme la vie est lente
Et comme l’Espérance est violente
Vienne la nuit sonne l’heure
Les jours s’en vont je demeure
Passent les jours et passent les semaines
Ni temps passé
Ni les amours reviennent
Sous le pont Mirabeau coule la Seine
Vienne la nuit sonne l’heure
Les jours s’en vont je demeure.
note: traduzione di Vittorio Sereni, postata il 17/02/2012, tratta da “alcools”, Apollinaire recite le pont Mirabeau
Biografia di Guillaume Apollinaire
Pseudonimo dello scrittore Guillaume-Apollinaris-Albertus de Kostrowitsky (Roma 1880 – Parigi 1918). Nato da un italiano e da una nobildonna polacca, ma di cultura francese, visse l’esperienza letteraria della Francia dagli ultimi anni del sec. 19º fino alla prima guerra mondiale, cui partecipò valorosamente. Le sue poesie giovanili si collocano nel quadro dell’ultimo simbolismo: così Le Bestiaire ou Cortège d’ Orphée (1911) e le poesie che, pubblicate sparsamente, furono raccolte poi nel volume Calligrammes (1918). Dal senso musicale della parola passò a coltivare il valore suggestivo delle associazioni che la parola può evocare e inaugurò la lirica in cui assumono importanza massima le immagini e le cose. In tal modo fu condotto a iniziare nella poesia il cubismo, il sintetismo o simultaneismo e il surrealismo. La sua influenza si avverte in tutti i movimenti svoltisi nella letteratura francese dal 1905 al 1920 circa. Della sua opera non voluminosa si ricordano, oltre ai libri citati, Alcools (1913, poesie), Le poète assassiné (1916, romanzo), Les mamelles de Tirésias (1917, dramma surrealista). Amico di Braque, di Picasso e degli altri cubisti, partecipò attivamente al loro movimento come critico d’arte.
Adam Zagajewski: Alla scoperta di questo grande poeta polacco –
La città in cui vorrei abitare
È una città silenziosa al crepuscolo,
quando pallide stelle riprendono i sensi,
e a mezzogiorno sonora per le voci
di ambiziosi filosofi e mercanti
che hanno portato velluti dall’Oriente.
Vi ardono i fuochi delle conversazioni
non certo i roghi.
Le vecchie chiese, le pietre muscose
di antiche preghiere sono la sua zavorra
e il suo razzo diretto verso il cosmo.
È una città imparziale
che non condanna gli stranieri,
una città che rapida ricorda
e lentamente scorda,
che tollera i poeti e perdona ai profeti
la mancanza di humour.
È una città eretta
in base ai preludi di Chopin,
da cui ha preso solo la gioia e la tristezza.
Un largo anello di colline
la circonda; vi crescono
i frassini campestri e il pioppo slanciato
che è il giudice del popolo degli alberi.
Un fiume vivace che vi scorre in mezzo
notte e giorno sussurra
saluti incomprensibili
delle sorgenti, delle montagne, del cielo.
Ciò che
Ciò che pesa troppo
e trascina in basso
che fa male come il dolore
e brucia come uno schiaffo,
può essere pietra
o àncora.
A maggio
Camminando nel bosco, in un’alba di maggio,
chiedevo, dove siete, anime
dei morti. Dove siete, giovani
scomparsi, dove siete, ormai del tutto
mutati.
Un grande silenzio regnava nel bosco
e udivo le foglie verdi sognare,
udivo i sogni della corteccia da cui nascono
barche, navi e vele.
Poi a poco a poco gli uccelli si fecero
sentire, cardellini, tordi e merli nascosti
nei balconi dei rami; ognuno parlava a suo modo,
con voce diversa, senza chiedere nulla, senza
amarezza o rimpianto.
E capivo che voi siete nel canto,
inafferrabili come la musica, indifferenti come
le note, lontani da noi quanto noi
da noi stessi.
All’alba
All’alba dai finestrini del treno vedevo città
disabitate, spopolate dal sonno,
aperte e indifese come grandi
animali sdraiati sul dorso.
Per le vaste piazze camminavano
solo i miei pensieri e un vento freddo,
sulle torri perdevano i sensi bandiere di lino,
nelle chiome degli alberi si svegliavano gli uccelli,
nelle folte pellicce dei parchi scintillavano
occhi di gatti selvatici,
nelle vetrine dei negozi si specchiava
la timida luce del mattino, eterno debuttante,
le giostre, finalmente assorte,
pregavano il loro invisibile centro,
i giardini fumavano come le rovine di Varsavia,
e alle mura brune del macello
ancora non era arrivato il primo camion.
All’alba le città non sono di nessuno,
non hanno nomi
e neppure io ho un nome,
sul far del giorno, quando svaniscono le stelle
e il treno corre sempre più veloce.
La bandiera
La mattina mi sveglio e cerco di appurare
con l’aiuto di un binocolo da teatro
quale bandiera sventoli sulla mia città
nera, bianca o grigia come il terrore,
se la mia città è già stata conquistata
o ancora si difende, se implora
la clemenza dei vincitori oppure
porta il lutto per alcuni secondi
di oblio, o forse io stesso sono
la bandiera solo che non so
vederla, così come non vediamo
il nostro cuore.
Biografia di Adam Zagajewski nasce nel 1945 a L’vov (attuale Leopoli, in Ucraina), ma non ci rimane a lungo: la sua famiglia, infatti, viene costretta, insieme a molte altre famiglie polacche tra il 1944 e il 1946, a trasferirsi nella Polonia centrale. Cresce e studia nella città di Gliwice prima, a Cracovia poi.
Insegna filosofia all’università e pubblica alcune poesie, ma si schiera pubblicamente contro la propaganda comunista e questo fa sì che le sue opere vengano messe al bando. Nel 1982 si trasferisce a Parigi; tornerà a vivere in Polonia solo vent’anni dopo.
A oggi è considerato uno dei più grandi poeti contemporanei polacchi ed è stato più volte candidato al Nobel.
Poesia di Pablo Neruda per la morte di Tina Modotti
“Riposa dolcemente sorella”
Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi:
forse il tuo cuore sente crescere la rosa
di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa.
Riposa dolcemente, sorella.
La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua:
ti sei messa una nuova veste di semente profonda
e il tuo soave silenzio si colma di radici.
Non dormirai invano, sorella.
Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita:
di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma,
d’acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea,
la tua delicata struttura.
Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l’anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.
Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino,
nella mia patria di neve perché alla tua purezza
non arrivi l’assassino, né lo sciacallo, né il venduto:
laggiù starai tranquilla.
Non odi un passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grande dalla steppa, dal Don, dalle terre del freddo?
Non odi un passo fermo di soldato nella neve?
Sorella, sono i tuoi passi.
Verranno un giorno sulla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri si disperdano,
verranno a vedere quelli d’una volta, domani,
là dove sta bruciando il tuo silenzio.
Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.
Avanzano ogni giorni i canti della tua bocca
nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.
Valoroso era il tuo cuore.
Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.
Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,
quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché non muore il fuoco.
TINA MODOTTI, ARTE VITA LIBERTÀ
EMIGRANTE, OPERAIA, ATTRICE, FOTOGRAFA NEL MESSICO DEGLI ANNI VENTI, ANTIFASCISTA, MILITANTE NEL MOVIMENTO COMUNISTA INTERNAZIONALE, PERSEGUITATA ED ESULE POLITICA, GARIBALDINA DI SPAGNA.
Nata a Udine il 17 agosto 1896 e deceduta a Città del Messico il 5 gennaio 1942.
Dopo l’improvvisa scomparsa, il riconoscimento della personalità umana, artistica e politica di Tina Modotti fu quasi immediato e per alcuni anni la sua vita e la sua opera restarono vive in buona parte dell’America latina. Poi cadde l’oblio, lungo di almeno trent’anni. Inquietanti cause di questo silenzio/rifiuto si possono trovare nel mondo reazionario, nel provincialismo, nel dilagante moralismo di questo secolo, contrari alla valorizzazione di una donna libera e inserita nel grande filone della cultura laica.
L’opera di Tina, che si trova in buona parte negli Stati Uniti, venne tenuta nascosta nei cassetti dei Dipartimenti di fotografia per la nefasta influenza del maccartismo che rese impossibile, per molti anni e non solo in America, lo studio e la presentazione di un’artista che aveva creato immagini di qualità e militato nel movimento comunista internazionale.
Anche la Sinistra storica non è esente da disattenzioni nei riguardi di questa friulana d’eccezione.
Oggi sappiamo che non esiste un artista di qualità e un militante di valore, come Tina Modotti, che sia stato trascurato per così lungo tempo dagli storici della fotografia e dalla storiografia politica. Tutto ciò è avvenuto nonostante le novità e il fascino che caratterizzano la sua avventura umana:la sua complessa esistenza appare, con il solo raccontarla, un romanzo.
Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina, nasce nel popolare Borgo Pracchiuso a Udine, da famiglia operaia aderente al socialismo della fine Ottocento. Il padre Giuseppe lavora come meccanico e carpentiere, mentre la madre Assunta Mondini fa la cucitrice. Diventa emigrante all’età di soli due anni, quando la famiglia si trasferisce nella vicina Austria per lavoro. Nel 1905 rientrano a Udine e Tina frequenta con ottimo profitto le prime classi della scuola elementare. A dodici anni, per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia (sono in sei fratelli), lavora come operaia in una filanda. Apprende elementi di fotografia frequentando lo studio dello zio Pietro Modotti.
Il padre decide di partire per gli Stati Uniti, presto raggiunto da quasi tutta la famiglia. Tina arriva a San Francisco nel 1913, dove lavora in una fabbrica tessile e fa la sarta, frequenta le mostre, segue le manifestazioni teatrali e recita nelle filodrammatiche della Little Italy.
Durante una visita all’Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del’Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si unisce nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l’arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d’incontro per artisti e intellettuali liberal. Tina nel 1920 si trova a Hollywood: interpreta The Tiger’s Coat, per la regia di Roy Clement e, in seguito, alcune parti secondarie in altri due film, Riding with Death e I can explain. Si tratta di una esperienza deludente, che decide di abbandonare per la natura troppo commerciale di quanto il cinema propone. Per la sua bellezza ed espressività viene ripresa in diverse occasioni dai fotografi Jane Reece, Johan Hagemayer e, soprattutto da Edward Weston con cui ben presto nascerà un legame sentimentale.
Il 9 febbraio 1922 Robo muore di vaiolo durante un viaggio in Messico. Tina arriva in tempo per i funerali e scopre, in questa triste occasione, un paese che a lungo l’affascinerà. Rientra a San Francisco per l’improvvisa morte del padre Giuseppe. Alla fine dell’anno scrive un omaggio biografico in ricordo del compagno, che verrà pubblicato nella raccolta di versi e prose The Book of Robo. A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston (con il figlio Chandler) arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. Uniti da un forte amore, vivono entro il clima politico e culturale post-rivoluzionario, a contatto con i grandi pittori muralisti David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e Clemente Orozco, che appartengono al Sindacato artisti e sono i fondatori del giornale El Machete, portavoce della nuova cultura e, in seguito, organo ufficiale del Partito Comunista Messicano.
A contatto con la capacità e l’esperienza di Weston, Tina accelera l’apprendimento della fotografia e in breve tempo conquista autonomia espressiva; alla fine del 1924 un’esposizione delle loro opere viene inaugurata nel Palacio de Minerìa alla presenza del Capo dello Stato.
Fra il 1925 e il 1926, in tempi brevi e diversi, tornano a San Francisco, dove Tina incontra la madre ammalata, conosce la fotografa Dorothea Lange, acquista una camera Graflex. Rientrati in Messico intraprendono un viaggio di tre mesi nelle regioni centrali a raccogliere immagini per il libro di Anita Brenner Idols Behind Altars. Il loro legame affettivo si deteriora e Weston torna definitivamente in California; i contatti continueranno per alcuni anni in forma epistolare.
Tina vive con la fotografia ed esegue molti ritratti, si unisce al pittore e militante Xavier Guerrero (che ben presto andrà a Mosca alla scuola Lenin), aderisce al Partito Comunista, lavora per il movimento sandinista nel Comitato “Manos fuera de Nicaragua” e partecipa alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conosce Vittorio Vidali, rivoluzionario italiano ed esponente del Komintern. Tina trasforma il suo modo di fotografare, in pochi anni percorre un’esperienza artistica folgorante: dopo le prime attenzioni per la natura (rose, calli, canne di bambù, cactus, …) sposta l’obiettivo verso forme più dinamiche, quindi utilizza il mezzo fotografico come strumento di indagine e denuncia sociale, e le sue opere, comunque realizzate con equilibrio estetico, assumono di frequente valenza ideologica: esaltazione dei simboli del lavoro, del popolo e del suo riscatto (mani di operai, manifestazioni politiche e sindacali, falce e martello,…). Sue fotografie vengono pubblicate nelle riviste Forma, New Masses, Horizonte. In questo periodo conosce lo scrittore John Dos Passos e l’attrice Dolores Del Rio, ed entra in amicizia con la pittrice Frida Kahlo.
Nel settembre del 1928 diventa la compagna di Julio Antonio Mella, giovane rivoluzionario cubano, con cui Tina vive un amore profondo e al cui fianco intensifica il lavoro di fotografa impegnata e di militante politica. Nel frattempo il clima politico é molto cambiato, le organizzazioni comuniste vengono messe fuori legge: il 5 febbraio 1930 Tina viene ingiustamente accusata di aver partecipato a un attentato contro il nuovo capo dello Stato, Pasqual Ortiz Rubio, arrestata ed espulsa dal Messico. Si imbarca sul piroscafo olandese Edam, compie il viaggio fino a Rotterdam assieme a Vittorio Vidali e raggiunge Berlino, dove conosce Bohumìr Smeral, fondatore del Partito comunista di Cecoslovacchia, lo scrittore Egon Erwin Kisch e la fotografa Lotte Jacobi nel cui studio espone le opere che aveva portato con se dal Messico. tenta di riprendere l’attività fotografica, viene a contatto con le grandi novità dell’informazione giornalistica, specialmente con la stampa popolare di Willy Münzerberg: quotidiani e periodici come il prestigioso “Arbeiter – Illustrierte – Zeitung” che pubblica fotografie di Tina in diverse occasioni. In ottobre decide di partire per Mosca, dove la attende Vidali.
Nella capitale sovietica allestisce la sua ultima esposizione, lavora come traduttrice e lettrice della stampa estera, scrive opuscoli politici, ottiene la cittadinanza e diventa membro del partito; abbandona la fotografia per dedicarsi alla militanza nel Soccorso Rosso Internazionale. Fino al 1935 vive fra Mosca, Varsavia, Vienna, Madrid e Parigi, per attività di soccorso ai perseguitati politici. Nel luglio del 1936, quando scoppia le guerra civile spagnola, assume il nome di Maria e si trova a Madrid assieme a Vittorio Vidali, suo compagno da anni, che diventa Carlos J. Contreras, Comandate del Quinto Reggimento.
Durante tre anni di guerra, lavora negli ospedali e nei collegamenti, stringendo amicizia con altre combattenti come Maria Luisa Laffita, Flor Cernuda, Fanny Edelman, Maria Luisa Carnelli; si dedica ad attività di politica e cultura: scrive sull’organo del Soccorso Rosso Ayuda, nel 1937 a Valencia fa parte dell’organizzazione del Congresso internazionale degli intellettuali contro il fascismo e, assieme a Carlos, promuove la pubblicazione di Viento del Pueblo, poesia en la guerra con le opere del poeta Miguel Hernandez. Ha occasione di conoscere Robert Capa e Gerda Taro, Hemingway, Antonio Machado, Dolores Ibarruri, Rafael Alberti, Malraux, Norman Bethune e tanti altri della Brigate internazionali. Nel 1938 è tra gli organizzatori del Congreso Nacional de la Solidariedad che si tiene a Madrid. Durante la ritirata, con la Spagna nel cuore, aiuta i profughi che si avviano alla frontiera e si trova in pericolo sotto i bombardamenti. Arriva a Parigi con Vidali. Nonostante sia ricercata dalla polizia fascista, chiede alla sua organizzazione il permesso di trasferirsi in Italia per svolgere attività clandestina, ma le viene negato per la pericolosità della situazione politica.
Maria e Carlos, come tanti altri esuli, rientrano in Messico, dove il nuovo presidente Lazaro Cardenas annulla la precedente espulsione. Conducono un’esistenza difficile e Tina vive facendo traduzioni, si dedica al soccorso dei reduci, lavora nell'”Alleanza internazionale Giuseppe Garibaldi” e frequenta pochi amici, fra cui Anna Seghers e Constancia de La Mora.
Nella notte del 5 gennaio 1942, dopo una cena con amici in casa dell’architetto Hannes Mayer, Tina Modotti muore, colpita da infarto, dentro un taxi che la sta riportando a casa. Come già era accaduto dopo l’assassinio di Julio Antonio Mella, la stampa reazionaria e scandalistica cerca di trasformare la morte di Tina in un delitto politico e attribuisce responsabilità a Vittorio Vidali. Pablo Neruda, indignato per queste polemiche, scrive una forte poesia che viene pubblicata da tutti i giornali e contribuisce a tacitare lo “sciacallo” che
…sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l’anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.
I primi versi sono scolpiti sulla tomba di Tina che si trova al Pantheon de Dolores di Città del Messico. Lungo i decenni dopo la sua scomparsa, in altre occasioni sono stati messi in discussione avvenimenti della vita della Modotti. Soprattutto le circostanze della morte hanno sollecitato interpretazioni diverse, tentativi di scoop giornalistici, ambigue ricostruzioni televisive,… Ciò nonostante la biografia di Tina è rimasta sostanzialmente invariata, perché quelle prese di posizione non sono mai state sostenute da rigorose ricerche, da prove o da obiettive e attendibili testimonianze.
Fonte biografia – TINA MODOTTI, Vita e Fotografia – Biografia di Tina Modotti
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest’aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulle vigne saccheggiate.
Sole d’autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlgi al peggio e la morte nell’anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t’inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch’è tutta una dolcissima agonia.
Settembre a Venezia, Autunno Veneziano
Autunno, Ottobre
Liguria, Sera di Liguria
Questi tre gruppi di liriche hanno molti punti in comune. Si compongono ognuno di una lirica breve, simile ad un “mottetto” musicale, alla quale si contrappone una poesia più elaborata, maggiormente orchestrata, una “sonata” o un canto a più voci. Ma l’elemento di partenza è lo stesso: una stagione, una città, un ricordo, un’emozione. Nelle prime due liriche di argomento veneziano il poeta traduce in note musicali le sensazioni suscitate nel suo animo dal trapasso dall’estate all’autunno.
LO STILE
Nel 1919, ormai affermatosi negli ambienti letterari della capitale, Cardarelli fondò la rivista La Battaglia, dalle cui pagine cominciò a combattere quella che sarebbe stata la lunga battaglia letteraria della sua vita: la restaurazione del classicismo, inteso come severa disciplina.
La restaurazione cardelliana muove dalla riscoperta e dalla rivalutazione dell’opera di Leopardi. Cardarelli, da mente acuta di critico quale era, si era accorto che l’operazione di fondo da realizzare per riportare la poesia nel suo alveo e nei suoi giusti limiti era quella di ricreare lo stile, senza il quale, i contenuti non possono che produrre oratoria. Il suo limite consiste forse nell’aver identificato lo stile con quello di una tradizione ben determinata, il suo merito sta invece nell’aver restituito alla lingua, vergini e brillanti come nuovi, parole e modi di dire consumati dal cattivo uso, sbiaditi dalla genericità dei contesti e praticamente privi della loro significazione.
Ad un ideale di classica compostezza, di perfezione stilistica e di limpidezza formale restò fedele in tutto l’arco della sua produzione: versi prima dispersi in alcuni volumi di prose e poi raccolti in Poesie nelle tre edizioni del 1936, 1942 e 1958. E’ una poesia ragionata, nella quale il discorso si sviluppa e si stende con limpidezza e fluidità, tutto avvolto da un tono meditativo, che comunica al lettore quasi sensibilmente un desolato senso di vivere.
I TEMI DELLA POESIA
Cardarelli fu un conversatore brillante ed un letterato polemico e severo, avendo vissuto una vita vagabonda, solitaria e di austera e scontrosa dignità. Suoi maestri sono stati Baudelaire, Nietzsche, Leopardi, Pascal, i quali lo hanno portato ad esprimere le proprie passioni con un senso razionale, senza troppe esaltazioni spirituali. La sua è una poesia descrittiva lineare, legata a ricordi passati di qualunque tipo, siano paesaggi animali persone e stati d’animo, che vengono espressi con un uso di un linguaggio discorsivo e nello stesso tempo impetuoso e profondo.
I temi ricorrenti nelle sue liriche sono il trascorrere delle stagioni, avvertito come simbolo dell’eterna mutevolezza delle cose, lo sfiorire dell’adolescenza e della bellezza, i vagheggiamenti dell’infanzia e dei paesaggi ad essa collegati. Sia nell’esplosione della vitalità estiva o sia nel malinconico disfarsi del paesaggio autunnale, il trascorrere delle ore del giorno e delle stagioni diventa simbolo delle vicissitudini della vita. Come scrive nella prima strofa di Ottobre:
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
Dal colore che inebria,
Amo la stanca stagione
Che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
Nulla più mi consola,
Di quest’aria che odora
Di mosto e di vino,
Di questo vecchio sole settembrino
Che splende nelle vigne saccheggiate.
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