Non basta andare a capo a questo verso:
giù deve sprofondare, a capofitto
gettarsi dove risiede il tuo palpito
segreto, quello che pensiamo perso.
*
Anno scorso, dicono, una donna
si è spacciata per me. Mi somigliava
parecchio: aveva quel modo vagante
tutto mio di deludere, rideva
tremenda ai vetri come faccio anch’io
talvolta con la mia povera voce.
Quest’ingannatrice voglio trovarla
e baciarla sulla bocca: quanto amore
mi ha risparmiato, quanto male.
*
A lungo abbiamo discorso del dopo.
Tu non chiedevi, dandomi le spalle
forti mi interrogavi come un oracolo.
Non esiste miracolo, dicevo, solo
per noi la giustizia dell’incontro.
E così esiste, pensavo, il congedo
dei congedi. Esiste la mano che porta
lontano il suono amato del tuo volto.
*
Dammi la sconsiderata fiducia
di mio padre nel futuro, del futuro
dammi il sacro terrore di mia madre.
Stringimi forte a non finire
più schiacciata dal passo del tempo —
appuntami al petto la lettera scarlatta
dei sopravvissuti. Scatta, dissolvimi
col cuore nel bicchiere dei minuti.
*
Questo amo di te: il tuo vuoto
di parole, il lapsus che ti racconta
da un romanzo, la carezza invisibile
a occhio nudo, la nuda mezza mela
rimasta sul letto per errore.
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Giovanna Rosadini, Paola Mancinelli, Antonio Fiori, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Valentina Furlotti, Nicola Barbato, Mario Famularo, Piero Toto. Collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani
Sento i tuoi passi nella sala,
sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi
che nessuno nota altrimenti.
Intorno a me soffia un vento di fuoco.
Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,
e l’anima fa male.
Cammini lontano nella sala,
ma l’aria ondeggia dei tuoi passi
e canta come canta il mare.
Ascolto, prigioniera dell’oppressione che consuma.
Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo tempo
batte il mio polso nella fame.
Come posso dire
Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno nè riposo,
finché non saranno mie.
Ricordo
Quieta voglio ringraziare il mio destino:
mai ti perdo del tutto
Come una perla cresce nella conchiglia,
così dentro di me
germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada.
Se infine un giorno ti dimenticassi –
allora sarai tu sangue del mio sangue
allora sarai tu una cosa sola con me –
lo vogliano gli dei.
Il meglio
Il meglio che possediamo
non lo si può dare,
non lo si può dire
e neanche scrivere.
Il meglio del tuo animo
niente lo può lordare.
Risplende profondo laggiù
per te e per Dio solamente.
È il colmo della nostra ricchezza
che nessun altro possa raggiungerlo.
È il tormento della nostra miseria
che nessun altro possa averlo.
Io non ti perderò mai-
Nessun cielo di una notte d’estate senza respiro
giunge così profondo nell’eternità,
nessun lago, quando le nebbie si diradano,
riflette una calma simile
come l’attimo –
quando i confini della solitudine si cancellano
e gli occhi diventano trasparenti
e le voci diventano semplici come venti
e niente c’è più da nascondere.
Come posso ora aver paura?
Io non ti perderò mai.
Certo che fa male
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.
Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.
Salva
(da Nuvole, 1922)
Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie.
Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.
Calma, calma inclino il capo
a una santa visione, il tuo ricordo che indugia.
Tempio; rifugio; purificazione;
santuario mio!
Sulle tue scale lontana la tenebra, salva,
serena come un bimbo mi addormento.
Le stelle
(da Terre nascoste, 1924)
Ora è finita. Ora mi sveglio.
Ed è quieto e facile l’andare,
quando non c’è più niente da attendere
e niente da sopportare.
Oro rosso ieri, foglia secca oggi.
Domani non ci sarà niente.
Ma stelle ardono in silenzio come prima
stanotte, nello spazio intorno.
Ora voglio regalare me stessa,
così non mi resterà alcuna briciola.
Dite, stelle, volete ricevere
un’anima che non possiede tesori?
Presso di voi è libertà senza difetto
lontana la pace dell’eternità.
Non video forse mai il cielo vuoto,
chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.
(da I focolari, 1927)
Credo che la morte sia come te,
alta e pallida e diritta come te,
tempie ugualmente incurvate,
occhi di mare, occhi di lontananze come te
le stesse labbra chiuse nel dolore.
Sei la morte. Io sono tua,
tua la mano e tua la mente.
Hai stordito tutte le forze della vita,
cullato in un triste torpore
sogno e atto, che appena hanno provato l’ala.
Ma ti amo, mia morte,
tu mia lunga amara morte,
nella cui mano chiusa inaridisce la mia vita.
Tu mia dolce, dolce morte –
Ti benedico ogni istante che tormenti!
Il violoncello profondo della notte
(da Per l’albero, 1935)
Il violoncello profondo della notte
scaglia nelle ampie distese la sua oscura esultanza.
Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma
in fiumi di luce cosmica.
I marosi, brillando lunghi,
si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte.
Tu! Tu! Tu!
Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo,
sospeso, vertiginoso sogno di sogni,
bianco abbagliante!
Un gabbiamo io sono, e su ali plananti
bevo beatitudine salata di mare
molto più ad est di tutto ciò che so,
molto più ad ovest di tutto ciò che voglio,
e sfioro il cuore del mondo –
bianco abbagliante!
Molte voci parlano
(da I sette peccati capitali e altre poesie postume, 1941)
Molte voci parlano.
La tua è come acqua.
La tua è come pioggia,
quando cade attraverso la notte.
Mormora sottovoce,
scende brancolando,
lenta, incerta,
penosamente viva.
Trema come terra
dietro ogni rumore,
stilla e cola
contro la mia pelle,
morbidamente s’avvolge,
mi avviluppa,
riempie le mie orecchie
di ricordi sussurranti.
Voglio sedere in silenzio
dove non posso disturbarti.
Voglio abitare e vivere
dove posso udirti.
Molte voci parlano.
Attraverso tutte queste
odo solo la tua
cadere come pioggia notturna.
Fonti: K. Boye, Poesie, Le Lettere, 2018
Breve biografia di Karin Maria Boye – Poetessa svedese (Göteborg 1900 – Alingsås 1941). L’immoralismo eroico di Nietzsche, l’umanesimo socialisteggiante predicato da E. Blomberg e la psicanalisi formano il sostrato della sua opera lirica e narrativa, in cui si rispecchia il cammino ideale di tutta una generazione: dalla rivolta alla religione tradizionale fino al vitalismo e al nichilismo. Alle prime raccolte di poesie: Moln (“Nubi”, 1922); Gömda land (“Terre nascoste”, 1924); Härdarna (“I focolari”, 1927), seguirono För trädets skull (“Per amore dell’albero”, 1935); De sju dödssynderna (“I sette peccati mortali”, 1941, postumo). L’urgenza di irrisolti problemi morali è eloquentemente illustrata nel romanzo autobiografico: Kris (“Crisi”, 1934) e nell’allegoria politica alla Huxley, Kallocain (1940), sul paventato trionfo d’una dittatura universale. Morì suicida.
Anteprima editoriale-Poesia italiana dalla Rivista Atelier -settembre 2023
da L’APICOLTORE
Il buio è madre
tutto accade in un ventre.
La luce poi lo insidia
diventa così tanta
da chiudere gli occhi.
Sotto le palpebre restano scintille
ronzanti come sciami.
Tu puoi lottare per tenerla fuori
ma è luce che t’insegue
ovunque
più invadente dell’erba
a primavera, più sfrontata dell’ozio
che divora il gesto,
più assidua del malanno
nel tentare la ferita.
E quando penetra nell’alveare
imbratta il nero
lo trafigge.
Carezza un brulichio di affanni
una fatica che brucia
come sale.
Lo sentite?
Sentite anche voi là dentro
il rumore delle vite?
Ognuna che lavora, vuole, rinuncia,
edifica e distrugge
uccide
e poi alleva.
In questa meccanica non hanno bisogno
di me ed è la mia pena.
Pur non sorvegliando
so che quel lavoro continuerebbe
– come il desiderio a spingere
la rinuncia a incrudelire
la distruzione a fare danni fino a patteggiare
con la pietra che cresce.
È la morte ad accudirle
nella culla, e poi la vita le distenderà
nell’asciutto nido d’una cassa.
Mi avvicino senza essere visto
con la cautela di chi ha paura.
Di me hanno un’idea incerta
sono per loro una specie di infinito
che minaccia
– un estraneo
l’orma di un ordine primario
la possibilità di non discendere dal niente
e non doverci tornare
alla fine.
Amarli? Di loro ho bisogno
o non sarei
– come non esiste fondo senza mare
né figlio senza madre
o grano senza un seme
divorato dalla terra.
Il pastore può forse amare
la moltitudine che si dà ciecamente
al suo governo?
Non è forse dominato dal ritmo
del branco, dal belato che comanda
di restare sulla pietra a sorvegliare,
a contare il patrimonio in zecche e lana,
a vegliare quell’odore di stalla.
Il pastore non ama
ma calcola, pretende,
teme la disgrazia della perdita
e nel suo buio invidia
chi ha giorni fatti di stanze
e di casa.
Come lui lo è del gregge
io sono la creatura dell’alveare
che ogni giorno fa di me l’apicoltore,
il dio d’un nettare che sgorga
non in obbedienza d’un volere
ma in soddisfazione d’una necessità.
Sono imperfetto e fragile
e come gli dei di sempre
annodo alla terra il mio bisogno.
Resto lontano, al riparo
dall’assalto – che non venga a toccarmi
il veleno dello sciame
turbato dalla peste della mia fame.
Dentro è caldo di folla e buio
la mia onnipotenza invece sta nel chiaro
risponde al nome che meno desidero
sa d’una eternità destinata a finire
mentre loro – i vivi dell’alveare
si rinnovano.
Ammassati in un inferno ridotto in scala
pulsano d’un calore che mi esclude,
che osservo senza comprendere
restando incompreso.
Il rischio di provarci, di ferirsi
disgusta ogni voglia
– il mio sapore non sazia
non ho miele da dare, io.
*
da VOCI DALL’ALVEARE
SEDICESIMO GIORNO
La Regina
È un roveto che scotta d’ira – questa casa
ha i muri tramati di collera
e un vociare insistente che ostacola
il riposo. Ho dormito finché ero niente
poi la pace se n’è andata.
Restare fermi non dà quiete
fermi sono i prigionieri
i bambini confinati negli spigoli – in punizione
i corpi traditi dalla malattia
o le ferite che non passano.
Ferme sono le mani dopo aver colpito
perché – in allerta – s’aspettano il ricambio.
Ho tutto in me: la colpa del recluso
la paura dei piccoli
lo smarrimento degli infermi
e un taglio di quelli che non danno sentore
d’arrivare al mattino.
Il destino è giunto mascherato da offerta
e io l’ho preso – quel dono – e stretto col terrore
di esserne degna.
L’ho preso e già non lo desideravo.
Perché io?
Lo sguardo livido e affamato delle sorelle
mi accompagna da allora.
Uguali nelle culle, potevo essere
un chicco di quella moltitudine
ma qualcuno mi ha vista e separata
– trebbiata come grano dalla pula
e anche se mi nascondevo, mi ha indicata
per prendermi tutto: i fiori, il sole, la vita delle altre.
Non sapranno mai quello che mi tocca
pesa troppo la fatica a cui le condanno
generandole
almeno quanto l’incapacità di cibo grava
su di me – che sgorgo vita senza posa.
Strano potere il mio, se per esistere
ho bisogno d’aiuto
se reggo una dimora intera
e fallisco a far salire un castello di carta.
Madre di tutti, non governo me stessa
inganno l’istinto comune
ed è triste dipendere
triste che vada contro natura proprio io
che più di tutti
l’assecondo.
Resto figlia di cure sfrenate
che mi negano il digiuno, la fatica, il caldo.
So che dovrò vivere a lungo
ma potrei morire in un istante
per un minimo sforzo o uccisa
da un tocco di luce.
Mi nutrono, ma odiando questo corpo
eterno, materno, che spinge avanti un’ombra
nuova e antica.
Nessuna clemenza può venire da chi attraversa
giorni contati, l’occhio referta la sua razione scarsa
senza goderne e la freccia più sicura
è quella che sa pungere
– è la mano che ti cura tenendo
a fior di pelle
il suo veleno.
Il futuro degli altri – più del presente
non è mio
e a questa sorte mai scelta
non trovo rimedio. Vago di cella in cella
inquieta come una madre qualsiasi
il cuore livido di chi è troppo in alto
e in fortuna per essere amato.
Generare vita e temerla
impietra il cuore, ti mette in dosso un tempo
legnoso al tatto – già pronto a farsi cenere.
Le mie figlie sono l’urgenza e la lebbra
il dovere ma anche l’attesa d’una peste
che s’intana nei miei lombi.
Vivo per il loro moltiplicarsi
ma so che da loro arriverà la fine
il giorno a cui non si può chiederne
un altro.
So che un mattino sentirò il mio veleno
spingere e la paura armare in difesa
la mia lama.
Ne abbiamo tutti una nella carne
la crediamo in riposo
invece lei ci annera il pensiero
ci intorbida il gesto
fa della madre una rivale
e della figlia non più il prolungamento
e l’attesa
e il futuro
ma il taglio netto, l’urto contro il tempo
– la promessa che nulla resiste
allo schianto.
La famiglia ora mi cresce intorno
e spinge fin dentro le mie stanze
dove nulla è fuori calcolo
e l’inverno non arriva.
Ci sarà un mattino, però
giungerà a un’ora incerta e incrinerà
le pareti, creperà l’intonaco
porterà lo scontento del vuoto
le fenditure alle travi maestre
lo scalpiccio delle suole in fuga
l’acciottolio dello sfratto
il bagliore indecifrabile degli incendi
in fondo – la faticosa scelta tra ciò che prendi
e quel che lasci indietro
e in alcune vesti l’odore greve del tradimento.
Accadrà e la mia lama non saprà far durare
questa casa in cui vivo da schiava
sottomessa all’urgenza di ripopolarla
suddita dei figli che partorisco
perché siano munti fino all’ultima goccia.
Chi potrà guardare questa febbre mia
senza desiderarne il delirio
senza disprezzare quel sudore da manovale
che nulla spartisce col mio piacere
col mio salire alto, dove più forte è
la luce e dove le altre non saranno mai?
Chi è indegno del chiaro non saprà
preferire la notte
odierà ogni spiraglio che saprà tenere il conto
di quel che perde.
Nei miei fianchi giace dormiente
il futuro di queste stanze
e lui mi divora
mangia ogni pensiero, ogni paura
scalda la mia sostanza più nascosta
– la nutre.
Il mio potere mi condanna a infittire
una genia di servi da cui dipendo
mentre vivo, divento nelle loro mani
la bambina che mai sono stata
e che morirebbe – se non fosse nutrita.
Sono la madre-infanta
un pensiero costante in una casa
che non lascio riposare
la grande pena è di regnare
protetta, abbandonando
i miei nati a un’operosa povertà
quella dei figli del popolo
che fin dal colostro accettano il privato
mistero di non avere tempo per ridere
o per giocare.
*
da VOCI DALL’ALVEARE
VENTUNESIMO GIORNO: LE API OPERAIE
La Guardiola
Cane di un povero gregge
generale di milizie stremate
sorvegliante di case da martirio
– o di cura
sono tutta lì
tutta nello sguardo.
Ispeziono vite, sorveglio anditi
e clausure
distinguo dal nostro
ciò che è straniero.
Per la conta del legittimo stringo
ogni porta, ne faccio fessura
labbro chiuso agli appetiti del fuori.
Resto insonne, in veglia fin dall’inizio
ed è la mia morte rovesciata
– palpebre attente a sbattere via
riposo e indolenza.
La chiamo amore, questa ossessione.
Per semplificare chiamo dovere
questo martirio di giornata.
I nomi ora faticano a dare pelle
e restano vuoti
imprecisi oltre le cose che tremano.
Separare il chiuso dall’aperto
non è innocente
distinguere è addensare ombre
è scuoiare l’agnello
e indossarne lo scalpo.
In questa Casa non vi è comunione
qui non si impasta vita con vita
qui non esiste mensa
tutto abbacina e brucia di terzana.
Indossiamo la trama del buio
e ci aggiriamo muti
carichi di lanterne cieche.
Il silenzio è la tentazione più forte
da che ha preso stanza il rumore
ed è difficile – stare al mondo in questa notte
disfarsi nel guardare.
Il lupo non è fuori, nell’erba alta
ma dentro, tra le quotidiane ceneri.
Parlatemi del giardino – ve ne prego
suggeritemi poche parole per immaginarlo
oltre la soglia che custodisco.
La Casa respira e mi abita
ha i canini del botolo e gli artigli del rapace
è levigata da un cattivo amore
eppure rilascia l’indistinto calore
delle viscere.
In lei perdo i miei anni e la quiete
dei polsi.
La Casa vale più di me.
* * *
Descrizione di Elisa Ruotolo
Il Mondo non è che questo: un enorme Alveare in cui ciascuna vita ha un suo ruolo e un destino ingiustificabile. Visti dall’alto siamo come api: febbrili, follemente laboriosi, spesso crudeli e sottomessi a irragionevoli geometrie. Mansueti, ma anche capaci di fissare il buio con disobbedienza, siamo un brulicare di vite mosse da un’idea che ci impegna a edificare ciò che domani sarà disperso. In questa tragedia greca ripetuta all’infinito, a ciascuno è data la sua goccia di veleno. Le voci della Casa del Miele si alternano seguendo il ritmo del loro venire alla luce (dalla Pupa, inconsapevole della sorte che l’attende, al Fuco creatura troppo distante dal sole per poter sottostare alla laboriosità che nutre e sfinisce l’alveare). Raccontano la furiosa virtù del generare e la perversione della castità; il saccheggio imposto e subìto; le schiavitù consumate in una dimora affollata di ombre e poi la fame del mucchio che divora il singolo, esponendolo a qualsiasi peste voglia aggredirlo. Sono voci piene o solo accennate, eppure ciascuna rivela il suo bisogno di essere, di vivere, di alimentare una ciclicità che rappresenta – per noi, come per le api – l’unica eternità possibile. (Elisa Ruotolo)
Breve biografia di Elisa Ruotolo scrittrice e poetessa, è nata a Santa Maria a Vico (Ce).Con l’editore nottetempo ha pubblicato nel 2010 il suo libro d’esordio, la raccolta di racconti Ho rubato la pioggia. Il primo romanzo arriva qualche anno dopo: Ovunque, proteggici (nottetempo 2014; Feltrinelli 2021). È del 2018 Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu), cui fanno seguito – nel 2019 – la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia), e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo Quel luogo a me proibito (Feltrinelli 2021) è tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Ultime pubblicazioni Il lungo inverno di Ugo Singer (Bompiani 2023), e Luce (Tetra 2023).
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Quando la gente la mattina si desta nei suoi isolati nuclei familiari con uno strano sapore di canti di libertà nella bocca, si desta anche il suo vuoto. E subito il vuoto pregusta la gioia di quando la gente sparirà nel buio, diretta alle macchine in attesa e resterà solo a possedere le cose e lo spazio che son loro. Attende invisibile con ansia. Quando è sicuro che la madre, il padre e i figli sono via salta come un pupazzo da una scatola magica e si mette a rovistare facendo da padrone. Nessuno sa quanto perverso sia il vuoto. Il vuoto che resta nelle case private quando la gente è uscita. Rovista fra lettere e armadi della gente, ne prova le vesti, si volta e rivolta davanti ai loro specchi. Il vuoto ha via libera quando la gente non c’è. Il tempo in cui sono costretti a stare insieme è una pena. Ma ciascuno si ingoia la sua uggia. Il vuoto se l’ingoia perché sempre sa che l’aspetta una mattina felice quando la gente sarà sparita per tutta una giornata di lavoro. Ma perché si ingoia la gente la sua uggia nei confronti del vuoto,quando non sempre può aspettarsi in fabbriche e uffici una mattina felice lontana dal vuoto. No, nelle fabbriche può però imparare a essere unita, e quando è unita non s’accorge tanto del vuoto. La gente parla sempre di unirsi per scacciare il vuoto dalle loro case e dal lavoro.
Fabel Når folk om morgenen vågner i deres isolerede familieceller med en sær smag af sange om frihed i munden, vågner deres tomhed også. Og tomheden begynder straks at glæde sigtil at se folkene forsvinde ud i mørket til de ventende maskiner så den kan få deres familierum og ting for sig selv. Den venter usynlig spændt. Når den er sikker på at både moren og faren og børnene er våek springer den som trolld op af æske, og begynder at rode og regere. Ingen ved hvior perverse tomheden er. Tomheden der ligger hen i de private hjem, når folk er gået. Den roder i folkenes breve og skabe, den prøver alt deres tøj, vender og drejer sig foran alle deres spejle. Tomheden har helt frit slag, når folkene ikke er der. Folk hader tomheden, og tomheden hader folk. Den tid de er nødt til at være sammen er en lidelse. Men de bider hver sine ulystfølelser i sig. Tomheden bider den i sig, fordi den altid kan sehen til en glad morgen, hvor folk forsvinde en arbejdsdag ud af syne. Men hvorfor bider folkene deres ulystfølelser over for tomheden i sig, de kan ikke altid se hen til en glad morgen borte fra den i kontorerne og på fabrikkerne. Nej, men på fabrikkerne kan de lære at holde sammen, og når de holder sammen føler de den ikke. Så meget. Folkene taler altid om sammen at fordrive tomheden fra deres hjem og fra arbejde.
Marianne Larsen (Kalundborg, 27 gennaio 1951), da Giovani poeti danesi (Einaudi, 1979)
Inger Marianne Larsen[2] (born 27 January 1951 in Kalundborg) is a Danish poet, writer, and novelist.
Between 1970 and 1975 Larsen was studying literature and Chinese at the University of Copenhagen, but then made the decision to write full-time.[1]
First poems were published in the magazine Hvedekorn (Wheatgrain) when she was 18,[3] followed by her first poetry collection, Koncentrationer (Concentrations), in 1971. Her writing at this early stage was experimental, giving way to a more engaged, affirmative style, both critical of officialdom and supportive of the underdog from a leftist point of view.[4]
Larsen’s first three novels, published between 1989 and 1992, were about a provincial girl’s coming of age and partly autobiographical. Since then she has written more novels, as well as books for children and young adults.[5]
Over the years she has been the recipient of many literary awards and prizes. The most recent of these was the Danske Akademis Store Pris (Great Prize of the Danish Academy) in 2022 with the citation: “Since her debut in 1971…her openly political dream world has been a seemingly endless and natural source of power in literature and in the Danish language.”[6]
There have been three English selections of Marianne Larsen’s poetry from three continents. The first, by Nadia Christensen, appeared in 1982 in the United States,[7] and Robyn Ianssen’s selection, Shadow Calendar, followed in Australia in 1995.[8] A third, gathering work from several translators, was published from the UK as A Common Language in 2006.[9]
Gertrud Kathe Sara Chodziesner nasce a Berlino nel 1894, in una famiglia ebrea.Lavora come insegnante in una scuola femminile e coi bambini disabili e, nel mentre, scrive varie poesie con lo pseudonimo di Gertrud Kolmar.La poetessa esprime, nelle opere, il suo modo di essere e la struggente richiesta di essere ascoltata dagli altri, lontana da qualsiasi ambizione mondana.Le sue poesie giungono al grande pubblico nel 1938, ma vengono subito cancellate dalle leggi razziali. Gertrud le consegna a familiari emigrati, poi è costretta a prendere la dimora, con il padre, nella “Casa degli Ebrei”.Il padre nel 1941 viene inviato al campo di Theresienstadt, Gertrud il 2 marzo 1943 viene caricata sul treno senza ritorno con Auschwitz come destinazione finale.
L’animale
Vieni qui. E vedi la mia morte e vedi questo
eterno patire,
L’ultima onda che tremando si perde sul mio
pelo,
E sappi che il mio piede con gli artigli fu
debole e sfuggente,
E non chiedere se sono lepre, scoiattolo, o
topo.
Perché non importa. Sempre ti voglio male
o bene;
Sei il tiranno che inventa la legge,
E la misura secondo le sue membra, come fosse il suo mantello,
il suo cappello.
E tra le mura della sua città lo straniero
stringe e offende.
Muto ti adagi sulle tombe degli uomini
Fatti a pezzi da te;
Soffrendo, diventarono santi, cinti d’oro.
Porti la pelle della madre morta e la metti addosso
a tuo figlio,
Regali giochi sbocciati dalla fronte insanguinata
dei martiri.
Perché in vita siamo bestiame e selvaggina; cadiamo:
preda, carne e pasto –
Non rugiada di mare, né raccolto di terra che voi senza riserva
concedete.
Con l’inferno ed il cielo vi addormentate; quando
crepiamo siamo carogne,
Ma il vostro cruccio è che non ci potete più
ammazzare.
A chi un tempo pregasti, io diedi le mie
immagini,
Finché riconoscesti il dio dell’uomo, non più
il dio degli animali,
Ed estirpasti la mia prole e chiudesti tra pietre
la mia fonte
E ciò che scrisse la tua brama chiamasti
una frase dell’Altissimo.
E tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là, e ancora hai
del soffrire la ricompensa
Che si rifugia inviolabile nella tua anima;
Ma in una veste di piume e squame, io sopporto
mille volte,
E se tu piangi, sono il tappeto, sopra cui s’inginocchia
la tua pena.
Gertrud Kolmar – Das Tier
(Traduzione di Adelmina Albini e Stefanie Golish)
Das Tier
Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses
ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen
Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig
war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine
Maus.
Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse
oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel,
seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt
und kränkt.
Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern
liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem
Kinde um,
Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter
entsproß.
Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen:
Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr
gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir
verrecken , sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr
morden könnt.
Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet
hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr
Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell
in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde
schrieb.
Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast
noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im
Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein
Jammer kniet.
“La città è per me un vino colorato in un levigato
calice di pietra
che sta e brilla
davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio
più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi,
ci colpiscono tutte le cose
a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me
la rigida parete
delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro
della piccola bottega
si chiude riservato:
«Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta
e cerca a tentoni
il mio passo
pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno
si unisce con la colla,
là si parla una lingua
che non è mia.
La luna palpita rossastra
come un assassinio
sopra il corpo lontano,
sopra la parola smarrita, quando, la notte,
contro il mio petto
s’infrange il respiro
d’un mondo straniero.”
L’ABBANDONATA
A K. J.
Ti sbagli. Credi di esser lontano,
e che ti cerchi ansiosamente e non riesca più a trovarti?
Ti tocco con i miei occhi,
con questi occhi, che sono buio e una stella.
Ti trascinai sotto questa palpebra,
la chiusi e sei per sempre prigioniero.
Come credi di poter fuggire ai miei sensi,
alla rete del cacciatore, a cui mai sfuggì una preda?
Non mi lasci più cadere dalle tue mani
come un mazzo di appassiti fiori,
per strada gettati, e sulle soglie
calpestati e da tutti infangati.
Ti ho voluto bene. Tanto bene.
Ho pianto tanto…con preghiere ardenti…
E ti amo ancora di più, perché per te soffrii,
quando la tua penna non scrisse più lettere, non più lettere per me.
Ti chiamavo amico e signore e guardiano del faro
sul sottile tratto d’isola,
tu, il giardiniere del mio frutteto,
e ce n’erano mille buoni, e nessuno era quello giusto.
Non mi accorsi che mi si infranse il vaso
che conteneva la mia giovinezza – e piccoli soli,
gocce ch’essa stillava, si dispersero nella sabbia.
Ero in piedi e ti fissavo.
Il tuo passaggio rimase nei miei giorni,
come profumo sta attaccato ad un abito,
che inconsapevolmente lo accoglie solo
per portarlo sempre addosso.
*
DIE VERLASSENE
Du irrst dich. Glaubst du, dass du fern bist
Und dass ich dürste und dich nicht mehr finden kann?
Ich fasse dich mit meinen Augen an,
Mit diesen Augen, deren jedes finster und ein Stern ist.
Ich zieh dich unter dieses Lid
Und schliess es zu und du bist ganz darinnen.
Wie willst du gehen aus meinen Sinnen,
Dem Jägergarn, dem nie ein Wild entflieht?
Du lässt mich nicht aus deiner Hand mehr fallen
Wie einen welken Strauss,
Der auf die Strasse niederweht, vorm Haus
Zertreten und bestäubt von allen.
Ich hab dich liebgehabt. So lieb.
Ich habe so geweint…mit heissen Bitten…
Und liebe dich noch mehr, weil ich um dich gelitten,
Als deine Feder keinen Brief, mir keinen Brief mehr schrieb.
Ich nannte Freund und Herr und Leuchtwächter
Auf schmalen Inselstrich,
Den Gärtner meines Früchtegartens dich,
Und waren tausend weiser, keiner war gerechter.
Ich spürte kaum, dass mir der Hafem brach,
Der meine Jugend hielt – und kleine Sonnen,
Dass sie vertropft, in Sand verronnen.
Ich stand und sah dir nach.
Dein Durchgang blieb in meinen Tagen,
Wie Wohlgeruch in einem Kleide hängt,
Den es nicht kennt, nicht rechnet, nur empfängt,
Um immer ihn zu tragen.
NOI EBREI
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio,
voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa,
la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato,
e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità,
la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei,
e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono,
gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante,
sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare,
e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma,
e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli,
l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele;
Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero.
Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre,
tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
15.9.1933
Traduzione Germana Carlino
Tratta dall’opuscolo GERTRUD KOLMAR. LA STRANIERA 1894 – 1943 che trovate qui
Wir Juden
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, ich liebe dich, mein Volk,
Und will dich ganz mit Armen umschlingen heiß und fest,
So wie ein Weib den Gatten, der am Pranger steht, am Kolk
Die Mutter den geschmähten Sohn nicht einsam sinken lässt.
Und wenn ein Knebel dir im Mund den blutenden Schrei verhält,
Wenn deine zitternden Arme nun grausam eingeschnürt,
So lass mich Ruf, der in den Schacht der Ewigkeiten fällt,
Die Hand mich sein, die aufgereckt an Gottes hohen Himmel rührt.
Denn der Grieche schlug aus Berggestein seine weißen Götter hervor,
Und Rom warf über die Erde einen ehernen Schild,
Mongolische Horden wirbelten aus Asiens Tiefen empor,
Und die Kaiser in Aachen schauten ein südwärts gaukelndes Bild.
Und Deutschland trägt und Frankreich trägt ein Buch und ein blitzendes Schwert,
Und England wandelt auf Meeresschiffen bläulich silbernen Pfad,
Und Russland ward riesiger Schatten mit der Flamme auf seinem Herd.
Und wir, wir sind geworden durch den Galgen und das Rad!
Dies Herzzerspringen, der Todesschweiß, ein tränenloser Blick
Und der ewige Seufzer am Marterpfahl, den heulenden Wind verschlang.
Und die dürre Kralle, die elende Faust, die aus Scheiterhaufen und Strick,
Ihre Adern grün wie Vipernbrut dem Würger entgegenrang.
Der greise Bart, in Höllen versengt, von Teufelsgriff zerfetzt,
Verstümmelt Ohr, zerrissene Brau und dunkelnder Augen Fliehn:
Ihr! Wenn die bittere Stunde reift, so will ich aufstehn hier und jetzt,
So will ich wie ihr Triumphtor sein, durch das die Qualen ziehn!
Ich will den Arm nicht küssen, den ein strotzendes Zepter schwellt,
Nicht das erzene Knie, den tönernen Fuß des Abgotts harter Zeit;
O könnt ich wie lodernde Fackel in die finstere Wüste der Welt
Meine Stimme heben: Gerechtigkeit! Gerechtigkeit! Gerechtigkeit!
Knöchel. Ihr schleppt doch Ketten, und gefangen klirrt mein Gehn.
Lippen. Ihr seid versiegelt, in glühendes Wachs gesperrt.
Seele. In Käfiggittern einer Schwalbe flatterndes Flehn.
Und ich fühle die Faust, die das weinende Haupt auf den Aschenhügeln mir zerrt.
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, mein Volk im Plunderkleid:
Wie der heidnischen Erde, Gäas Sohn entkräftet zur Mutter glitt,
So wirf dich zu dem Niederen hin, sei schwach, umarme das Leid,
Bis einst dein müder Wanderschuh auf den Nacken des Starken tritt!
(Das Lyrische Werk S.101)
Gertrud Kolmar (pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner, Berlino 1894 – Auschwitz 1943?), nata in una famiglia ebrea, studiò da maestra e lavorò come insegnante e istitutrice tra Germania e Francia. Nel 1915 l’amore infelice per un militare la condusse a un aborto e a un tentativo di suicidio, esperienza che segnò profondamente la sua vita e la sua scrittura. Costretta a trasferirsi nel 1939 in una “casa per ebrei” e nel 1941 al lavoro forzato in una fabbrica di armi, nel marzo 1943 fu deportata ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. La sua opera, già apprezzata dal cugino Walter Benjamin, fu conosciuta soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento. Il 27 febbraio del 1943 a Berlino anche Gertrud Kathe Sara Chodziesner subisce l’Azione nelle fabriche: migliaia di ebrei come lei vengono prelevati dai posti di lavoro e ‘smistati’ in campi di raccolta. da qui, il 2 marzo parte il ‘ 32° trasporto all’est’: è il convoglio della deportazione finale a Auschwitz dell’autrice, nota con lo pseudonimo di ‘Gertrud Kolmar’, dove ‘Kolmar’ è la germanizzazione del polacco ‘Chodziesen’, città d’origine della famiglia paterna.
Poesia. Gertrud Kolmar: il silenzio in versi salva inizio e fine
Morì ad Auschwitz nel 1943. Rimase sconosciuta ai più fino al 1947, quando uscì la raccolta “Mondi” ora tradotta in italiano: un insieme di “sinfonie” dove le pause giocano un ruolo decisivo-
Della poetessa ebrea tedesca Gertrud Kolmar, pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner (1894-1943), si sono conservate solo poche tracce: alcune fotografie dell’infanzia, una fotografia ritratto del 1928, una foto con un’amica, una con la famiglia scattata nel 1937, e poco altro, oltre alle sue opere, la maggior parte delle quali edite solo dopo la sua morte. Walter Benjamin, cugino da parte di madre, ebbe molta considerazione dei suoi componimenti e tentò in più occasioni di favorirne la pubblicazione, perché le sue erano tonalità, scrisse, che «non sono più state percepite nella poesia femminile tedesca dopo Annette von Droste». Dopo che il padre nel 1917 si era speso per l’uscita di una prima raccolta, Benjamin riuscì a far pubblicare su rivista solo alcune sue poesie, perché Kolmar era aliena da qualsiasi avanguardia e nulla nei suoi componimenti era concessione ai parametri dettati da mode e sensibilità artistiche contemporanee.
Del resto l’indifferenza verso la sua opera rimase praticamente intatta anche quando nel 1947 venne pubblicata da Suhrkamp la raccolta Mondi. Un’indifferenza motivata certo dalla sua adesione alla tradizione letteraria, ma anche dalla sua decisione di rimanere accanto al padre malato, un ebreo convintamente assimilato, finché quello, nel 1942, non venne rinchiuso nel lager di Theresienstadt, dove sarebbe morto un anno dopo. Nell’estate 1941 Kolmar accettò il lavoro forzato nelle fabbriche berlinesi di Lichtenberg e Charlottenburg, perché perfettamente consapevole del suo destino. «Voglio andare incontro al mio destino, che sia alto come una torre, o che sia scuro e gravoso come una nuvola», scrisse allora alla sorella Hilde, esule in Svizzera.
Arrestata in fabbrica il 27 febbraio 1943, alcuni giorni dopo venne trasportata ad Auschwitz, dove morì. Scritto nel 1937, il ciclo poetico Mondi (Mondadori, pagine 112, euro 16,00) è una grande sinfonia di componimenti consistente ciascuno per lo più di quattro parti, nelle quali un ruolo significativo è giocato dal silenzio, proposto in forma di pausa. Kolmar apprezzava molto il silenzio, il suo come quello degli altri, anche nella vita, tanto che nelle lettere a Hilde ripete spesso che il silenzio è quanto vi è di più vicino al suo cuore.
La conclusione di ogni sinfonia è silenzio che si fa vuoto. I suoi mondi respirano una vacuità che significa inizio e fine: il mondo inizia nel vuoto e finisce in esso. Come un suono dalle profondità, da quel vuoto sorge una natura incomprensibile: le isole Mergui. Il loro potere nascosto fa nascere il desiderio di altri mondi. Meglio, di due mondi, quello dell’uomo e quello della natura, popolato da animali e piante. Le parole della poesia (ed ogni parola è per lei una scoperta) sono per Kolmar lo strumento per ricercare il primordiale dell’umanità, cioè del proprio io. Attraverso la memoria e l’evocazione dell’infanzia cerca tracce, ma è un evento vissuto da giovane donna a rappresentare la traccia evidente e dominante del suo poetare.
In Mondi, come anche in altri componimenti, ricorre ed è evocata con frequenza la figura di un bambino, evidentemente quel bambino desiderato e amato, ma mai partorito, abortito all’età di 21 anni per volontà dei genitori. La sua intera opera poetica palpita del desiderio di riempire quel vuoto rimasto nel suo grembo: «Con le mie piccole opere, mi sento come una madre con il suo bambino appena nato; una madre che certo è felice dell’entusiasmo del padre e dei nonni, delle congratulazioni dei parenti, ma la gioia più grande è averlo partorito ». Così scrisse alla sorella, a motivo della raccomandazione di prendersi cura dei suoi componimenti.
Articolo di Vito PUNZI –Fonte Avvenire del 14 aprile 2023-
Chandra Livia Candiani poesie da “Bevendo il tè con i morti”
Edizioni Interlinea
Verso sera
i morti siedono sui fili della luce
come gocce di pioggia
che è già caduta.
—
Bevendo il tè con i morti
c’è sempre uno
che sottilmente tace
non un silenzio esangue
ma un narrare interdetto
che non vuole
nell’ascolto pace.
—
Il vecchio cedro è caduto
in una notte di litigi
tra la bufera di notizie
della primavera e l’assoluta
stanza dell’inverno.
Non più verticale al sogno
della terra, ora non separa
radici e uccelli ma profumando
esala l’ultimo urlo
di meraviglia della creatura:
«La primavera, possibile,
solo una stagione?»
—
Ti amo come
ho amato il tuo abisso,
di solito degli esseri
io amo il bacio
dell’orma sul terreno,
la tua era scucita
e non lasciava segni
se non come nuvole e uccelli
segni di aria
liberata.
—
Abito nella tua voce e quando tace il silenzio è alato abito sotto la violenza delle tue ali e quando il silenzio è sommerso dai rumori essi sono il cuore del mondo abito nel mondo e le piume del mondo sanno che la bellezza esiste: «Quando arriverà il tuo passo metterò una conchiglia sopra la soglia e nell’aprirla i frantumi volando reciteranno il tuo nome».
Chandra Livia Candiani è nata a Milano nel 1952. È traduttrice di testi buddhisti e tiene corsi di meditazione.Ha pubblicato le raccolte di poesie Io con vestito leggero (Campanotto 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium 2005), La porta (La biblioteca di Vivarium 2006), Bevendo il tè con i morti (Viennepierre 2007) e La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014). È presente nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 curata da Giovanna Rosadini (Einaudi 2012).
Dall’autrice di uno dei più recenti casi editoriali di poesia con La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi) un libro originale: non sulla morte ma sui morti, su un mondo di ombre più vive dei vivi, fantasmi amici e compassionevoli, abitanti di un regno che è la patria della memoria e la compagnia dei solitari. Candiani ci consegna una doppia vista con un linguaggio che ammutolisce grazie a versi che hanno per interlocutore il silenzio. «Candiani vive in un suo pianeta, come il Piccolo Principe, cui molto assomiglia. Traduce testi buddhisti, recita, dipinge… Molti suoi versi non vi usciranno più dal cuore e dalla mente» (Vivian Lamarque).
In copertina Chandra Candiani in un dettaglio da una foto di Melina Mulas.
Grazia Calanna -Intervista a Chandra Livia Candiani-7 luglio 2014
“La poesia è la quintessenza dell’ascolto”
“Quando vuoi pregare, / quando vuoi sapere / quel che sa la poesia, / sporgiti, / e senza esitazione / cerca il gesto più piccolo che hai, / piegalo all’infinito, / piegalo fino a terra, / al suo batticuore”. Quelli di Chandra Livia Candiani (autrice di La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014) sono versi rotondi di rinnovamento, ricostruzione, incanto, incantamento, “sereno disincanto”. Leggendoli, ora ci si sente benamati, “per avere luce / bisogna farsi crepa, / spaccarsi, / sminuzzarsi, / offrire”, ora ci si sente abbandonati, “nella prospettiva fluttuante dell’ignoto”, ora ci si sente parte (tutt’uno) di un universo animato, interminabile, “La mia famiglia sono io / vive all’insaputa di me”.
Quali i ricordi legati alla tua prima poesia? Hanno (forse) a che fare con la possibilità di lasciarsi “guidare dall’orma asciutta della gioia”?
Se la gioia non è (come non è) l’opposto del dolore, allora sì. Perché la mia prima poesia è nata, verso i 9 anni, in morte di un pesce rosso, vinto al luna park. Un giorno, tornata da scuola, l’ho trovato a galleggiare su un fianco. Il mistero della sua presenza vuota mi ha colpito quasi più del dolore e ho scritto una serie di ieri contrapposti a una serie di oggi, era quel suo essere sgusciato fuori dal tempo e avermi lasciato con delle azioni sospese, così, senza preavviso, a disorientarmi, perdevano senso le azioni, anche quella di chiamarlo per nome, infatti la poesia terminava con: ieri ti chiamavo Xxxxx, oggi non ti chiamo più. Ma scrivere era cercare a tentoni la gioia possibile anche nel male, ‘la gonfia gioia del riconoscere’, la definizione che Mandel’štam dà della poesia. C’è sempre questa gioia asciutta della conoscenza che può prendere il posto della pretesa che ci possa andare tutto bene. Bene come? Bene cosa? E secondo quali criteri?
Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami)?
Si sono susseguiti vari poeti sul percorso, ma gli intramontabili sono Rilke, Marina Cvetaeva, Pasternak, Mandel’štam, Celan, Emily Dickinson. Ci sono legami tematici e altri linguistici. C’è un male che la poesia mi fa, sento di essere costeggiata da un poeta, sento che faremo un po’ di navigazioni e naufragi insieme quando avverto quello speciale male: è un vuoto vivo nel petto, un mancare che non vuole essere riempito ma colto, un’assenza di nomi e di orientamento che vuole essere vista e abitata. Quei poeti mi portano in luoghi di ‘non so’ sconfinati, mi gira la vita, la sento che gira e gira e perde i riferimenti, allora sono senza mondo e ricevo l’essere senza mondo dell’altro, allora siamo svegli in piena vita. O morte, fa lo stesso. L’assoluta devozione di Rilke alla poesia mi ha aiutato a sceglierla come destino, come Via, come rischio e pericolo di perdersi totalmente e di indirizzarsi a un’assenza di riferimenti mondani che non rende proprio proprio tranquilli. Le sue lettere a un giovane poeta, come le sue elegie, sono istruzioni per inoltrarsi dove non ci sono riferimenti consolanti, grammatiche familiari. E i russi sono stati nostalgia di un’anima feroce e famelica di se stessa e della conoscenza, di quando siamo bestie dell’esperimento di vivere che non osavo senza le loro righe per andare dritta. Sentivo questa sproporzione e non sapevo come addomesticarla, è stata soprattutto Marina a dare un perimetro all’esagerazione e a farne verso di poesia e non solo urlo ferito o fame di amore. Pasternak mi ha dato un passo sereno, una sensazione di poter fare epoca a sé senza perdere il contatto col dolore degli altri, un sereno disincanto. Emily Dickinson ha legittimato tanta mia solitudine, tanto universo immenso in un centimetro di prato e il fitto dell’infinito, i tempi stretti dell’eterno, una Maestra di divinità infantile, di pugni serrati e ossa rotte per fissare in faccia il cielo per uno zero più grande. E Celan è maestro di riduzione, di non concedere niente alla narrazione né alla spiegazione ma avere parole come lame di diverse lunghezze, larghezze, affilature, ma sempre lucide, sempre alla luce. Ho ancora molto da apprendere dal suo coraggio di non compiacere, di essere solo lingua. E dettata e dedicata, cioè lasciare che i versi vengano essenziali non dalla cronaca di sé e che si dedichino a dirci e non noi a dire loro.
Due poesie – una tua, una di altri – alle quali sei più affezionata? Sarebbe bello se volessi riportarle come stessi recitandole…
Adesso che non so più niente
che il vuoto è bella dimora
che ho passi senza arsura
che siedo e imparo
a esitare, adesso
che non sei più al centro
e quello che conta non è più
al centro
ma spostato
tra le mani
dove le dita si disarmano
e fanno un gesto limato,
adesso questa categorica bellezza
di rami e cieli
pugnala solo
perché entri luce.
(Chandra L. Candiani da La bambina pugile
ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014)
*
Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti
tali tratti di naturalezza,
che non si può, dopo averli conosciuti,
non finire con una mutezza completa.
Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia,
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio ciò che è complesso.
(Pasternak dal poema Le onde in Poesie,
Einaudi, 1957, traduzione di A. M. Ripellino)
Per Goffredo Parise la poesia “é qualcosa che arriva da fuori, va e viene, vive e muore, quando vuole lei, non quando vogliamo noi, un po’ come la vita, soprattutto come l’amore”, per Chandra Livia Candiani?
Sottoscrivo, sì, non so se la poesia venga da fuori solamente o da luoghi intermedi e misteriosi, periferie tra dentro e fuori, sottofondi, frontiere. Dentro e fuori sono coniugazioni di uno stesso spazio, di una nostra imprecisione nel percepire e percepirci. Ma certo quello che precede la poesia è la totale assenza di controllo, forse per questo è sempre stata raffigurata come una dea. Non le importa molto di noi, non ha riguardi. Passo lunghi tempi sottoterra, mi sento sciocca, ottusa, opaca e mi sembra che mai più tornerà un verso di mia anima e poi, quando la poesia torna, tornano i miei versi, ecco che proprio quel tempo sotterraneo si rivela come il più fecondo. Soprattutto come l’amore sì, quando si fa la muta, si cambia pelle e pensiero, ci si ritrova estranei a se stessi e io mi guardo nei miei versi nuovi con imbarazzo e timidezza e allora so che sono tra i migliori, perché non ho interferito con le mie consuetudini e le mie concezioni. Lasciarsi disfare e rifare da capo, lasciarsi dire da qualcosa che è un po’ più di noi. Siamo stanchi di noi. Sappiamo già tutto quello che sappiamo. La poesia mi sbaraglia, se no è un’altra cosa, qualcosa di meno.
“Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno amare da chi amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove non sei: è l’inizio della scrittura”. Una considerazione di Roland Barthes per chiederti: oggigiorno quale dovrebbe essere la funzione della scrittura e, più miratamente, della poesia? E, ancora, in che modo potremmo (o dovremmo) muoverci (tra tutte le difficoltà che conosciamo) per preservare il valore autentico della cultura?
Mantenere viva la parola. Fare ancora della parola innanzi tutto una presenza. Vibrante, vera, che pulsa e intimorisce. Essere vivi e mantenersi vivi non è scontato, è lotta dura. Non assomigliare, non compiacere, non chiedere il permesso, non lasciare, per spiccioli di compagnia, la solitudine, non chiudere la faccia agli altri. Distinguere tra vita e mondo, essere vivi, essere al mondo. Tra i due c’è una preposizione in più. Ce n’è di cose da fare. Alloggiare, abitare, dare asilo. Però io non credo allo scrivere per sé, si è sempre sul balcone o all’aria aperta, semmai si sta chiedendo come Pasternak ai bambini che giocano in cortile: “In che secolo siamo, ragazzi?” Ma anche quella è apertura, è essere con l’altro, senza mimarlo, con la propria sproporzione. ‘Con’ è una parola bella che non leva niente alla solitudine interiore, all’etica della non compiacenza. Scrivere senza programmi certo, senza didascalie, né spiegazioni, ma rivolti sì, rivolti fuori. Sì la scrittura è la dove non sei, è vero e si sposta sempre, come l’orizzonte e le si corre dietro e poi magari si scopre che ti sta alle spalle. Penso che l’importante è essere onesti, sapere quando si sta mentendo e quando no. Non c’entra con il dire l’onestà, ma con il leggere e il lasciarsi dire, con lo studio assiduo, con la devozione. Farsi orti, essere zappati dalla vita, anche cattivamente, lasciarsi rivoltare e innaffiare e lasciarsi osservare mentre si fa la fatica di sbocciare e poi guardare quel che è successo. È un momento importante quella sosta del guardare: ecco, è compiuto, come va? Forse non si tratta di pensare alla cultura perché questo fa subito sentire troppo importanti, e fa costruire armature di parole, io preferisco limitarmi a sentire il mondo, compresa me, con i sensi, incluso quell’organo vuoto che prova compassione per il dolore dell’altro e gioia per la sua gioia, quell’organo coltivabile ed educabile a cui sono stati dati tanti nomi che ora sono tutti decadenti e zuccherosi ma che ha molto bisogno di essere di nuovo abitato. Forse la cultura ha bisogno di sapere che le culture sono tante e lasciarsi mutare, parlare con le altre, fare l’amore e lottare, convivere e trasformarsi come fa l’aperto, la natura, bestie e rocce e alberi, tutto quanto. E non dimenticare i regni non umani, lo smisurato essere vivente che è il cosmo e il pianeta di cui siamo responsabili. Ci preoccupiamo di parlare un inglese bellissimo, ma non ci intendiamo con gli animali. E la nostra ancora oggi totale incapacità di frequentare i regni invisibili. Dove vanno i morti? Dove si è prima di nascere?
“La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore”. Perché questo titolo per il tuo nuovo libro?
La bambina pugile è un verso di una poesia che sta dentro il libro, è una faccia che certe mattine ci si ritrova nello specchio, quando si è lottato tutta la notte con le memorie, con l’identità perduta o da conquistare come uno che naufraga e ritrova la terraferma, con la non-voglia di essere al mondo, alla luce, forma tra le forme, con le cattiverie delle persone e le nostre cattive risposte. Ho difeso questo titolo, perché secondo alcuni era aggressivo e non mi si attagliava, ma io in quel titolo vedo l’allenamento, la disciplina, e la precisione è parte essenziale dell’addestramento. Così la precisione dell’amore è la precisione dei colpi che la vita ci sferra, esatti esattissimi per noi e bisogna cercare di essere altrettanto precisi nelle risposte. L’amore è precisissimo, non è romantico, ma matematico, ci insegna come una maestra tradizionale che parte dalle aste e arriva alla fisica quantistica, per me è fatto così. La proposta di unire i due titoli è venuta da Mauro Bersani, responsabile della collana di poesia di Einaudi, perché pensava che La bambina pugile non rappresentasse tutto il libro, ma solo una parte, (il libro è diviso in tre sezioni: La bambina pugile, Pianissimo per non svegliarti, La precisione dell’amore) ed è verissimo, gli sono molto riconoscente perché quel titolo doppio fa riflettere, sia sul pugilato che sull’amore, che sui bambini, tutto alla luce della precisione. ‘Ovvero’, anche questo su suo suggerimento, è una parola meravigliosa che ha qualcosa di settecentesco e ha unito i due titoli rispettandone la differenza e segnando uno spazio vuoto che fa un po’ trasalire, un po’ riflettere. Difendo il titolo, fino in fondo.
Come “sarà la dignità della vita umana, / sorvegliando l’arrivo / della poesia?”.
Citi una poesia che è fatta tutta di domande, per arrivare a chiedersi come sarà la dignità della vita umana che passa in un’attesa accesa e vigile, un’attesa che sorveglia l’arrivo della poesia. Non solo di quella scritta, quella nostra, ma anche poesia del mondo, fare nuovo nel mondo, fare giusto. E la poesia sembra che inviti a scegliersi come si è, un po’ alberi che proprio quando fa più freddo si spogliano, esseri immersi nei paradossi delle meccaniche dell’universo, ma anche un po’ lacrime che non sanno scendere, ferite che non sanno guarire, persone che non sanno parlare, né tenere, né dire il bene. Essere poveracci senza destino ma che sorvegliano l’orizzonte, attenti alla possibilità che arrivi il dono. E in quel sorvegliare c’è la dignità di saper esitare e insieme di fare azione utile e grande nel farsi un po’ da parte, nel farsi fare dal vivere ma non ammazzare dal mondo. E fermare le mani cattive e farsi benedire da quelle buone e non dare le stesse risposte delle domande quando c’è crudeltà, spostare il colpo e il campo, imparare a non colpire chi ci colpisce, ma a non farsi massacrare, fargli trovare lo spazio vuoto davanti, allora sarà la sapienza di quello spazio a fargli intendere come stanno le cose. La poesia come arte marziale.
“Per ascoltare bisogna aver fame / e anche sete, / sete che sia tutt’uno col deserto, / fame che è pezzetto di pane in tasca / e briciole per chiamare i voli, / perché è in volo che arriva il senso / e non rifacendo il cammino a ritroso, / visto che il sentiero, / anche quando è il medesimo, / non è mai lo stesso / dell’andata”. Con i tuoi versi per domandarti: la poesia può (e se può, in che modo?) aiutarci a recuperare la capacità d’ascolto? Può (e se può, in che modo?) ricondurci alla “nudità delle cose”?
Certo che può. La poesia è la quintessenza dell’ascolto, prima di tutto per chi scrive, se scrivo quel che so già, non è poesia. Voglio imparare dai miei versi, varcare frontiere che fanno un po’ spaventare di perdersi, rischiare le derive e dopo sapere qualcosa di nuovo, come nei sogni, quando i maestri ci parlano di notte, per immagini, per salti del senso, che poi danno più senso di qualsiasi poco a poco, piano piano dei metodi rassicuranti. La poesia contiene tanto silenzio, gli a capo, ma non solo, quel silenzio delle parole che non possono essere sostituite con altre. E quelle parole che diresti in punto di separazione, quando il silenzio preme fortissimo. Per ascoltare bisogna aver fame dell’altro, se no si ascolta sempre e solo quello che ci conferma. La poesia dovrebbe far sussultare il sapere condiviso, le consolazioni. E aprire varchi, farci intravvedere altre possibilità. Rendere invisibile il visibile diceva Rilke. Ascoltiamo meglio se la mente tace, se non associa e invece risuona. Per risuonare bisogna essere vuoti. Le domande stanno scomparendo dal mondo. Mi fa il cuore stretto passare ore con persone che non mi fanno nessuna domanda, come se fosse impudico, ma in realtà è assenza di differenze, di interesse, come fossimo tutti senza volto e chiedessimo di confermarci che tutto è opaco, che non c’è niente per cui valga la pena lasciare la casa e inoltrarsi nel non conosciuto. I bambini, quando stanno ancora bene, lasciano la casa ogni volta che parlano. Quando ballano poi…
“«La poesia è conoscenza e passione» / ha detto uno di voi / uno di otto anni”, ancora i tuoi versi per chiederti (ricordiamo che da qualche anno curi seminari di poesia in diverse scuole elementari milanesi) di renderci partecipi di alcuni dei momenti più “lirici” trascorsi in compagnia dei tuoi maestri-bambini poeti. E, ancora, avendola, e avendone voglia, potresti riportare una definizione di poeta formulata da una di quelle tue “giovani belve con gli occhi inflessibili”?
Scelgo le scuole periferiche di Milano, quelle con tanti migranti e figli di migranti e italiani spaesati, poveri, perché c’è più necessità di parole, parole per dire il brutto, il poco, il senza qualità. Uno dei momenti più intensi è quando entro per la prima volta in classe, quando mi ‘vedono’. È una questione di vita o di morte, in pochi secondi ti giochi tutto. Per questo seguo anche da tanti anni una formazione clown, per avere una faccia viva, abitabile, accogliente. Con tanti di loro, c’è solo la faccia, le parole non le capiscono. Ne ho tante di storie, tra tante quella di Ginai, cinese. Entro in classe e parlo di cos’è la poesia. Lui mi fissa e dice: “Maestra in Cina non c’è la poesia!”. Io gli dico: “Ma certo che c’è e antichissima anche, ti porto delle poesie la prossima volta”.
L’ultima lezione, Ginai scrive:
La poesia scapa nel mondo
e la mia mamma non lo sa
la poesia dopo la mia mamma
va cercare nel mondo.
E poi un bambino molto ferito che parlava pochissimo, come se le parole bruciassero. Gli do un titolo: Il silenzio. Lui scrive solo una parola: luna. Quando la legge:
Il silenzio.
Luna.
E noi il silenzio l’abbiamo sentito, toccato: luna.
Non ho definizioni di poeta ma della poesia sì, scrivono quasi sempre una poesia che si chiama Cos’è la poesia.
Anita, 9 anni:
La poesia è come vento
viene
e va
ti lascia sola
e poi ritorna.
È un mare
di parole
che ti colpiscono
o ti uccidono.
La poesia
unisce
ma
non si sa cosa.
Edmondo, 9 anni:
La poesia un insieme di cose inspiegabili
come perché esiste l’universo
o chi l’ha creato
queste cose sono inspiegabili
come la poesia
si sono fatte molte ipotesi ma
la poesia però è sempre un mistero
e quando credi di aver trovato
una risposta in verità
hai trovato una risposta ma cento domande.
Ti invito a scegliere una tua poesia (spiegandoci perché l’hai scelta) per salutare i nostri lettori.
La poesia che dà il titolo al libro, perché è semplice, diretta, parla del dopo, dell’adulto nato da un’infanzia che sfracella, e termina con qualcosa che è anche più del perdono, è la comprensione del dolore dell’altro, della solitudine del tiranno, del suo essere fuori mondo, mostro. E così saluto con l’augurio di non cancellare il male, di accoglierlo tutto, di sentirlo in pieno e di spostare solo dopo l’attenzione sull’altro e di vederne la miseria, che non è condonare niente, ma prospettiva ampia che può portare ad azioni forti, ma sempre calibrate dal sapere che i ruoli si invertono, che la complessità della vita non fa sconti, che è necessario rallentare, perfino fermarsi e lasciarsi riflettere, aspettare una comprensione smisurata come l’universo. Forse si chiama giustizia.
Quando il cielo si tinge di nero,
a buio,
gli affaticati che ottengono
un giusto riposo a casa
non siamo noi,
affannati a smontare
e a rimontare il vero.
*
Cresceva il non essere.
E chi l’avrebbe fermata l’onda celeste
che scendeva dal cielo a portare il vuoto
e lo diffondeva nell’aria,
e allora c’era chi reagiva
con il sollevamento pesi o con gli addominali,
chi scaraventandosi dal primo cliente
a insistere
per concludere un contratto,
chi si indebitava per comprare una macchina suv,
chi correva in chiesa a supplicare Dio
d rimediare a tutto.
*
Chi non si impegna
resta nella fossa, tale e quale
l’hanno calato.
Chi invece vuole acquisire
uno stato migliore, si dà da fare,
cerca il pertugio per arrivare
al buio più profondo,
all’assoluta quiete,
all’eterno immutabile.
*
Immagine resisti, resisti,
non mi privare della speranza
che un giorno tu possa essere vera,
scoperta dal puro sentire.
Un peso secolare grava
sull’organo del cuore.
E ora non c’è più presenza,
ma tante assenze
che si richiamano
all’insaputa di tutti.
*
E se fossimo noi luce del giorno,
e non il sole?
Acquietarci nel nostro essere vero,
finalmente trovato, essere noi
anche portatori di tenebre,
col tremolio del riposo e del sogno.
E se il tempo fosse solo pensiero?
Ma dall’universo provengono
le alterazioni del corpo
e la febbre.
*
È passata la vita,
e non ce ne siamo accorti.
NOTA di Gianluca D’Andrea-:”Tra lo gnomico e il didascalico, Osare dire, di Cesare Viviani, impone un senso di inaderenza che toglie fiato. Già a partire da Silenzio dell’universo, il tentativo “esistenziale” dell’autore toscano imprime, e proprio nella direzione mistico-contemplativa agognata, un eccessivo distacco dalle “lordure” materiche. Così la lingua, proprio per via del distacco, si semplifica fino all’appiattimento, non sorprende “criticamente” il mondo lasciandolo vibrare nella totale indistinzione. La poetica, stucchevole ormai, del distacco identitario non si rinnova e non aggredisce linguisticamente la sponda negativa del reale, ma si lascia trascorrere nello stesso flusso indistinto, rilevando – senza strumenti di setaccio convincenti – soltanto la stessa indistinzione. Ma oggi, in tempi postumi e non semplicemente post-identitari, è veramente necessario lasciarsi andare alle cosiddette “cose ultime” o mantenere quel “riserbo” spacciato per valore, il cui unico azzardo, però, è l’allontanamento dai fatti? In questo smorto paesaggio, che abbonda in autoreferenza, salviamo dei testi che, almeno sul piano concettuale, mantengono in piedi la spoglia del vero”.
Sulla poetica di Cesare Viviani – Nota di Davide Morelli
Rivista ATELIER
La poesia può essere espressione d’amore, pensiero della morte, tentativo di rendere eterno un istante, espressione del proprio disagio e/o della propria solitudine, denuncia sociale, intenzione rivoluzionaria, desiderio di cambiare il mondo, descrizione della bellezza, ricerca di spiritualità, creazione di miti. Può essere una sola di queste cose, essere quindi monotematica, o tutte queste cose insieme. La poesia di Viviani forse non è tutto questo, ma è molto di questo. Viviani è un poeta versatile e completo, che ha attraversato la crisi e i travagli della sua generazione. In molti si sono sempre ritrovati nei suoi libri e di questo non c’è da sorprendersi. C’era chi aspettava un suo libro quasi come per orientarsi, perché gli venisse indicata la strada maestra. A ragion veduta per la comunità poetica è un maestro. È sempre stata una presenza discreta e misurata, mai invadente negli ambienti letterari. Viviani avrà pure superato molte crisi della sua epoca, ma la sua poesia non ne è rimasta segnata in modo traumatico. Personalmente l’ho conosciuto come autore leggendo due antologie di successo degli anni Settanta in cui era stato inserito: “La parola innamorata” e “Il pubblico della poesia”. Successivamente, mi sono ritrovato a considerare che la poesia non aveva più un pubblico largo e diversificato perché la parola poetica era diventata troppo innamorata di sé stessa,… ma era solo un gioco di parole. Poi ho scacciato questa idea e mi sono detto che in realtà le cose erano più complesse. Le poesie di Viviani mi avevano molto incuriosito. Comprai così alcune sue raccolte. Volevo vedere se le poesie antologizzate erano le migliori oppure se aveva resistenza, talento e scorza per non annoiarmi e deludermi dopo aver letto le sue sillogi. A volte certi poeti non reggono la distanza. Sono come dei centometristi. Possono andare bene cinque liriche, ma talvolta sono come quei cantanti che hanno tre ottimi brani e poi compri l’album con nove pezzi di cui gli altri sei noiosi… Io i poeti veri li vedo non da cinque poesie, ma valutando gli esiti di intere raccolte. Devo capire se sono maratoneti, se hanno il fiato. E in verità Viviani non deluse affatto le aspettative, si rivelò un poeta autentico, vero. Tanto è vero che ha esordito con la Feltrinelli, e oggi è un autore Einaudi. Ha vinto molti premi importanti. Porta scrisse dell’esordiente Viviani: “è il più eversivo, forse l’unico che sappia oggi proseguire il discorso dada – assolutamente attuale – con estremo rigore”. Enrico Testa ha scritto che agli inizi Viviani, per la sua sperimentazione linguistica, era vicino alla neoavanguardia, mentre nella maturità la sua produzione è divenuta più comprensibile, senza più alcun assemblaggio degli oggetti, come direbbero i critici. Successivamente diviene intimamente ragionativo e si dimostra pluridisciplinare. Oggi molti, in poesia, sono autobiografici pur non essendo lirici. Viviani invece si risolve in pieno poeticamente depurando la sua esperienza di vita. Peraltro ha anche corroborato l’attività poetica con quella giornalistica e saggistica. Comunque, pur rinnovandosi sempre, non è mai antiletterario. Non nega il proprio retaggio letterario, pur non scrivendo nel solco della tradizione. È a ogni modo antinovecentista, e non guarda il cosmo dalla siepe leopardiana. Ritengo che in molti casi espressione e idea coesistano felicemente. Se a qualcuno la sua poesia può sembrare di mestiere e di maniera che valuti obiettivamente, piuttosto, le sue intuizioni folgoranti. Le illuminazioni sono istantanee. Ogni cosa può essere degna di attenzione in Viviani. Molti sono i nuclei ispiratori. La concisione in questo caso è una qualità. Ciò che colpisce è la profondità del pensiero espressa con leggerezza. La brevità di alcuni componimenti non sorprenda o deluda. Perché essere prolissi quando si ha la sua capacità di sintesi? Bisogna sempre considerare l’unità macrotestuale. La singola poesia non è a sé stante, ma richiama le altre della raccolta per stile e coerenza interna. Ogni poesia deve essere letta e considerata insieme alle altre. Viviani non vuole stupire con mirabolanti invenzioni linguistiche, ma mette a fuoco sempre un tema. Lo sviscera, lo rielabora, lo fa suo, lo padroneggia, lo metabolizza, quindi rende partecipi i lettori. Viviani di professione è uno psicanalista, ma non cerca di analizzare sé stesso nelle ultime raccolte, anche se aveva esordito con testi psicanalitici e connotati dalla cosiddetta “destrutturazione del linguaggio”. La completezza di Viviani si può constatare dal fatto che passa nel giro di pochi anni da un poemetto teologico come “Il silenzio dell’universo” a un romanzo polifonico in versi come “La forma della vita” per poi approdare a delle poesie epigrammatiche e religiose come “Credere all’invisibile”. Mentre tanti aspiranti poeti finiscono per autocommiserarsi o diventano preda della cosiddetta “shit life syndrome”, Viviani si eleva sempre spiritualmente e poeticamente. Ogni raccolta è il superamento di una soglia di coscienza, di una maturazione costituita dal raggiungimento di vari conquiste/approdi interiori. Eppure non rinnega mai sé stesso né i pensieri di ieri. Se Luzi invocava la parola perché giungesse allo zenith della significazione, Viviani la invita a sciogliere nuovi nodi esistenziali, filosofici, metafisici: due modi diversi di esprimere la propria cristianità. Il linguaggio del poeta è piano, privo di neologismi, arcaismi, dialettismi, grecismi, latinismi. In Viviani ho la vaga impressione che la mistica porti al raccoglimento interiore e viceversa. Ogni raccolta è omogenea e compatta, connotata dall’amore per la vita, nonostante un certo smarrimento esistenziale. Viviani è cosciente che la cosiddetta diffrazione dell’io è tale perché il mondo oggi è troppo vasto ed eterogeneo. Nemmeno si incaglia nel rapporto tra virtuale e reale, di cui tutti sanno, visto che è il nostro pane quotidiano o quasi. Sanguineti apocalittico aveva dichiarato che dopo il gruppo ‘63 ci sarebbe stato il diluvio. La poesia di Viviani invece è la quiete dopo la tempesta. Il poeta ha iniziato ad addentrarsi nel labirinto dell’inconscio per poi raggiungere nella maturità la metafisica. Ma il poeta è anche uomo di mondo, non è mai fuori dal mondo. Si può estraniare per un periodo ascoltando sé stesso per poi immergersi di nuovo nella realtà esterna. “Credere nell’invisibile”, per esempio, è il frutto di un periodo di solitudine, di esilio. È però una fatica interiore che ha portato a dei risultati letterari. Lo psicanalista ha ceduto il passo ormai all’uomo di fede. Il poeta così vola più alto e con lui vola più in alto la sua parola nelle raccolte più recenti. La sua diviene una poesia rarefatta, una poesia dell’essere, dopo che carne e spirito, identità e alterità hanno lottato incessantemente. Se agli esordi per esplorare l’inconscio si avvaleva dell’accumulazione, spesso invece per parlare di spirito e di Dio fa economia di parole, ne usa poche, ma sempre giuste. Come sosteneva Einstein, quando la soluzione è semplice è Dio che sta rispondendo. Viviani sa benissimo che la caratura intellettuale non deriva dagli intellettualismi a cui si può rimanere aggrovigliati. Un poeta deve saper filtrare tutto. Deve anche semplificare e sintetizzare il suo pensiero e la sua poetica. Lo stesso Leopardi, quando scriveva versi, non si perdeva nelle medesime elucubrazioni che caratterizzano lo Zibaldone. Ciò Viviani lo sa bene. La materia nel poeta ha ceduto il passo, via via, allo spirito. Alcuni libri si leggono in poco tempo. Ma il problema non è leggerli. La questione di fondo è capirli, comprenderli in tutta la loro umanità, farne tesoro e poi ritornare a rileggerli perché qualche interrogativo in sospeso resta sempre. Personalmente il discorso, il dialogo con la poesia di Viviani è spesso un flusso ininterrotto, talvolta ripreso a ogni lettura. A volte, riprendo il filo, vado a rileggermi i versi sottolineati. Viviani di volta in volta può incarnare la figura di padre putativo, fratello maggiore, amico di vecchia data, insegnante, mentore, compagno di viaggio, grazie alla sua saggezza. È come se con i suoi versi ti dicesse non come devi vivere la vita, bensì come devi prendere la vita, ovvero con profondità e leggerezza al contempo. Non sono un filologo e non mi interrogo sulla continuità, sull’evoluzione stilistica, sulle metamorfosi varie dei suoi libri. Non mi interessa nemmeno. Però ritorno spesso a sfogliare i suoi libri per riappropriarmi delle sue sentenze, delle sue verità gnomiche. La sua poesia è sapienziale, colta, basata sul giusto distanziamento dalle cose, dalle passioni, dal mondo. È apparentemente semplice, ma non sfugge a un lettore attento il metodo, lo sforzo, il talento che stanno dietro tutto questo. E però c’è anche l’insight lirico, quel salto logico inconscio compiuto dal poeta con estrema naturalezza che lo porta a creare dei componimenti che hanno segnato un’epoca e lo hanno reso senza ombra di dubbio uno dei maggiori protagonisti della scena poetica, almeno qui in Italia.
Marion Poschmann- Cinque poesie in anteprima da “Nimbus”-
a cura di Paola Del Zoppo- Del Vecchio Editore-Bracciano (Roma)
“Tante forme ha il mostruoso,
e niente è più mostruoso dell’uomo.”
Sofocle, Antigone
E TENEVO LA NEVE NELLE MANI CALDE
Appena ieri indugiavo tra montagne coperte
di neve. Ora sono spianate, sciolte, pulite
proprio come si sbrina un frigorifero. Ho visto
l’acqua scorrere, ho visto il ghiaccio
staccarsi dalle pareti, cadere tutto
a valle e farsi liquido, farsi valle
e farsi nulla.
Appena ieri adoravo le montagne.
Ho comprato cartoline, da spedire a me stessa,
a casa, per ricordo della distruzione
che compivo, col mio sguardo scaldavo
la Groenlandia scioglievo
i ghiacciai, proprio mentre li scorrevo
con la mente. Il desiderio non è
qualcosa di impossibile, si dice, e se si vuole
si può – rendere l’aria sottile ancora adatta,
obbligare il mostruoso a farsi ancora
più mostruoso, più leggero, come se
dormissimo nella nostra poltrona
immersi nel sogno di un lungo volo.
USANZE KURGAN
Minusinsk, si chiamava, osservazioni sottozero,
in Russia, in fondo la luce di
animali ghiacciati che illumina
da dentro le caverne,
panzer scintillanti intorno a
palle di pelo di cavallo, boli di pelo, materassi
di paglia che emergono dai ricordi,
si scongelano, feticci dei gradi sottozero
nelle tombe, le coppe dei crani
risvegliate a nuova vita
e pelli marcite
in un accappatoio di ghiaccio.
Cosa permane: la luce di animali
Dorati, cervidi, arrotolati, con la testa
schiacciata tra gli zoccoli che
gira all’infinito nell’incanto del sole di Siberia.
NEVE RESIDUA
Ero l’energia oscura dei molti,
alla cui base c’è tutta la luce. Daimon
Berlino, un produttore di batterie,
di torce tascabili, buonsenso industriale.
Ma parliamo di petrolio. Quando il giorno chiaro
precipitò come al solito dalla sua pedana,
mi crebbe una pelliccia di tubi, ero il sole,
e i miei raggi arrivavano fino in Siberia.
Melanconia dell’informe, idolo,
che scorre nei tubi, gocciola in fondo
e lucida a specchio i pantani. La luccicante
intelligenza delle profondità serpeggia
e a ogni curva si inchina.
Cavalcare la tigre. Le sue strisce scivolano
sulla mia gamba come sangue mestruale.
E io avevo splendore, e rabbia.
FORMULE DEL PATHOS
Una porzione di bosco, ancora coperta del grigiore
socialista degli anni Settanta. Il flusso del traffico e
tutto il resto a debita distanza. Campi
bui. Pini che bruciano. Fumo fino a Berlino.
Questa collezione di conifere non poteva
togliergliela nessuno. Abeti nell’ombra.
L’araucaria auracana. Il suo oro nero: tutto
perso nelle fiamme. Il bosco perse il suo posto
per aggirarlo. Pioggia di cenere. Il piano era
tornare nelle paludi di equiseto, ah, nel
carbonifero. I tronchi inceneriti, colli distesi
al cielo degli erbivori e fiamme battenti che
affondavano i loro denti in gole giovani. Anche
lui, il T-Rex, un minuscolo accendino tra gli
artigli dei dinosauri, e intorno a lui il bosco in
frantumi, la storia accartocciata, il più remoto tempo
fluisce e si fissa nel fumo. Questo gli sostituì il
sole alto che mancava. Seccare. Smaterializzare.
PORTALI DI NUBI
Non sul margine dei mari più remoti,
alla fine del mondo non volevo andare,
non lì dove le montagne di ghiaccio
sprofondano e attestano altra grandezza
voglio aspettare qui, sulla spiaggia
dell’esattezza, dove ogni singolo granello
è contato e pagato,
la sabbia su cui alloggiamo quando
proviamo a sentirci a casa
tutelati dall’indignazione del sole cocente,
sotto il cielo che trabocca, affianco
agli ombrelloni che svolazzano, chiusi da tempo.
Il rumore vicino è delle sfere,
impensabile, l’orlo di questo ambiente, da cui
da ogni nuvola precipitano le tempeste
e nell’abisso, nell’abisso scompaiono.
Com’è possibile che io mi tenga qui
a malapena al ciglio, a poco dalla caduta
nel cosmo, cosa mi tiene qui, mentre
so che presto saprò volare.
Ma di giorno mi ripiego come un verme
sull’asciugamano in spiaggia,
avvolta già in sudari in vita,
mescolata col rumore
forse del vento, o dell’acqua
un pianto nella sua forma più astratta,
quando l’umido porta il sale e le cose
si corrodono troppo in fretta.
Nel corridoio di teli ammucchiati,
tra spugne e accappatoi
scivolo con la rotazione terrestre
e mi chiedo
se mi sto muovendo
sull’orlo di questa spiaggia,
non più orientata rispetto ai giorni
della settimana, alla data, al mio nome,
mentre il frastuono del mare mi piomba contro
come se fossi io certezza.
E statica cammino sulla spiaggia
e sento lo scontro, lo scroscio,
il tuono delle onde,
si alzano a torre contro di me
e io ancora aspetto
la tua terribile vicinanza,
che arriva rotolando e si accavalla
e mi trascina con sé
oltre il conosciuto
verso l’interiore.
La Del Vecchio Editoreè stata fondata nel 2007. Nei primi anni si è fatta apprezzare per la scelta di testi di poesia dei maggiori scrittori inglesi. Una più profonda esplorazione della poesia contemporanea è arrivata invece nel 2013, con il prestigioso premio Catullo. Oggi Del Vecchio Editore è una casa editrice indipendente di progetto, che fa ricerca e pubblica letteratura in tre collane: formelunghe, formebrevi, poesia. La prima si concentra sul romanzo: i classici moderni, le grandi scritture contemporanee e nessuna preclusione geografica o ideologica. Alle formebrevi appartengono racconto, novella breve, short story e reportage, raccolte di pensieri e osservazioni, brevi saggi narrativi, ricordi, ritratti e miniature di paesaggio. La collana poesia propone in testo a fronte i maggiori poeti contemporanei internazionali. In una veste grafica di altissima qualità estetica il lettore può farsi un’idea del testo attraverso le parole chiave in quarta di copertina oppure scoprire la chiave di lettura della redazione attraverso le “istruzioni per l’uso”; trovare sempre in cover il nome del traduttore accanto a quello dell’autore e grazie alla sua “scatola nera” seguirne le scelte che lo hanno guidato. Libri di grande significato, senza limitazioni cronologiche o geografiche, ma con una decisa attenzione al Novecento e alla contemporaneità.
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Testi selezionati da Tutte le poesie –Editore Mondadori-
Fare e disfare
La foglia tornava all’albero e la nuvola al ramo.
Il ricordo coronava le vecchie case.
Il sangue abbandonato faceva piangere.
Si muravano nuove case, altre opere.
Leggi dolorose guidavano la città.
Nel museo brilla la fiala delle tombe e la cenere
che il vento agita agli acrotèri
è delle guerre spente ma è già seme.
Si mutano invisibili i pensieri,
storia e speranza insieme è quanto fu attimo e pianto,
dall’incertezza nasce la determinazione,
ma dalla volontà buona la voglia di non essere
e dal piacere di morte la tenera foglia.
Tutto sopporta tutto.
E si vorrebbe
cedere, uscire, non essere più.
Ma ancora dieci passi prima della scarpata
prima del piombo in cuore
ancora dieci attimi prima della corsa ultima
nella luce del fosforo
ancora dieci anni per chiedere la pietà.
Ma anche per rivivere e lavorare
e disperare per rivivere
morire per lavorare
disperare per morire
lavorare per rivivere.
Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
I destini generali
È vero che sono stanco:
questo scendere scale e salire
deride, finché uccide, gli stanchi.
Avere negli occhi pomeriggi interi
soli agri, irrazionali realtà!
Se nemmeno l’augurio mi dà gioia
allora sparire diviene necessario.
Se la gioia non mi vince
rovinando sulle querce
lavando le scogliere
invadendo la fronte
il rancore dell’inganno
e danno e pianto divorato e spento
anche distrutte queste labbra
e sciolti in creta gli occhi tanto ansiosi
veleno saranno e vergogna
nelle vene degli altri
e mai lasceranno le menti!
Secolo di calce e fluoro, bava
di aniline e corpi come lava
di visceri: ecco i cordiali aperitivi
con gli assassini e la valutazione
obiettiva del niente… Se non trionfo
dureranno eterni,
saranno in uno che è me stesso, me
sempre sopravvissuto.
Immortale io nei destini generali
che gli interessi infiniti misurano
del passato e dell’avvenire, io pretendo
che il registro non si chiuda
che si cerchi ragione, che si vinca
anche per me che ora voce mozza vo,
che volo via confuso
in un polverio già sparito
di guerre sovrapposte, di giornali,
baci, ira, strida…
Ragione degli anni
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
La partenza
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire,
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
Il presente
Guardo le acque e le canne
di un braccio di fiume e il sole
dentro l’acqua.
Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
Il mio verbo è al presente.
Questo mondo residuo d’incendi
vuole esistere.
Insetti tendono
trappole lunghe millenni.
Le effimere sfumano. Si sfanno
impresse nel dolce vento d’Arcadia.
Attraversa il fiume una barca.
È un servo del vescovo Baudo.
Va tra la paglia d’una capanna
sfogliata sotto molte lune.
Detto la mia legge ironica
alle foglie che ronzano, al trasvolo
nervoso del drago-cervo.
Confido alle canne false eterne
la grande strategia da Yenan allo Hopei.
Seguo il segno che una mano armata incide
sulla scorza del pino
e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.
***
Era la guerra, la notte tremavano
nelle credenze i cristalli al ronzio
delle ondate da ovest ad oriente
o a sud, verso l’Italia. Chi ero io
e tu chi eri? Cominciò così.
Lungo e grigio era il lago di Zurigo
e i tram celesti nell’aria di neve.
Une tache de sang intellectuel
Una macchia di sangue intellettuale
che il sole non asciuga mai. «Oh, che cosa vuoi fare!»
mi gridano i compagni coraggiosi
alti tra le bandiere e le sostanze reali
della festa di corpi naturali
di lotta e di amor vero.
«Voglio esistere e voi perdonatelo»
rispondo io, di quaggiù, dalla segreta.
«Anche come il viscere della bestia stracciata
anche come il sangue rappreso nella polvere.
Anche il cieco nato può in sé vedere il lampo
e parlarne con gesti imperfetti
e il suo discorso in catene
può atterrire e può dissuggellare.
E chi sempre ha negata l’avventura
può non lontano dalle nostre case
disvelare una terra di miracolo.»
«Oh, cosa aspetti» mi gridano i viventi
impetuosi ancora tra le vendemmie.
«Passa il tuo giorno» gridano, bocche al sole.
«Nessun orgoglio» rispondo «amici miei cari!
E mi sarebbe dolce essere anch’io
dove voi siete. Ma a ognuno le sue armi.
A voi il fuoco felice e il vino fraterno
a me la speranza acuta dentro la notte.»
Forse il tempo del sangue
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
Parabola
Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliare
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.
Breve biografia di Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes) nasce a Firenze da padre ebreo il 10 settembre 1917. Qui compie gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere (Storia dell’arte). Battezzato valdese nel 1939, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fugge in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Finita la guerra si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione, e unisce all’insegnamento un’intensa attività di collaborazione a riviste politiche e culturali. Dopo il 1957, anno in cui lascia le file del Partito Socialista, continua la sua partecipazione alla vita politica italiana da posizioni della sinistra non ufficiale. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo: Foglio di via e altri versi (1946), Poesia ed errore (1959), Questo muro (1973), Paesaggio con serpente (1984). Muore nel capoluogo lombardo il 28 novembre 1994.
Fonte –AVAMPOSTO- Rivista di Poesia- Reggio Calabria
Contatti-Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
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