Breve biografia di Biagio Accardo è-nato nel 1954 a Santa Ninfa, paese della Valle del Belice, in Sicilia;qui ha risieduto e risiede, e qui ha svolto, per tanti anni, il lavoro di insegnante di scuola primaria, dedicandosi anche al volontariato. Esordisce in ambito letterario nel 1980, partecipando alla “Rassegna internazionale d’Arte Siciliana” – Valle del Belice, promossa dal Comune di Vita (TP). Dopo quell’evento, e fino al 2008, sceglie di coltivare l’esercizio della poesia lontano da ogni evento letterario. Il ritorno al pubblico avviene nel 2009 quando dà alle stampe La notte ha lunghe radici, un libro sostanziato, secondo il quotidiano << La Sicilia>>, “da una forte tensione verso il trascendente”. Nel periodo che va dal 2010 al 2015 sue poesie compaiono su varie riviste e antologie italiane. È del 2016 l’uscita del suo secondo libro, Fratello in ombra (Aletti) che otterrà diversi riconoscimenti in vari concorsi letterari italiani. Il 2019 vede l’uscita di Ascetica del quotidiano (Samuele Editore). Dal 2020 al 2021 alcune sue raccolte inedite ricevono menzioni e segnalazioni in vari concorsi nazionali (Premio Letterario Internazionale Montefiore, Premio Santa Margherita Ligure, Bologna in Lettere, Premio Lorenzo Montano e Città di Como).
Scende ancora una volta la notte,
ma non fu vana la luce
del mattino che alitò
sulle foglie bruciate dal gelo.
Non fu vana, se ora, cedendo
al sonno, stretti a quella luce,
attendiamo l’alba,
i suoi misteriosi volti,
l’ora di poter del cielo rifidare.
*
Chiamami quando avrò finito
di scrivere: sia l’alba
a snudare le parole;
del tuo gusto siano piene,
della tua gioia.
Sappiano di te le mie parole
della tua lingua severa e pura
dove tutto traboccava,
amore e gioia, senza misura.
*
“Guardami” dice, “guarda ciò che di me
resta: sono un sogno che lento
avvizzisce, ed è già lontano il giorno
in cui ognuno di noi oscurò il sole
con una bellezza che fu sfrontata e vera.
Ora resta solo il tempo di salire
e scendere queste irte e dolorose scale,
il tempo di mettere dentro, ai primi tuoni,
le sedie di vimini su cui sedemmo,
su cui provare adesso almeno a dormicchiare.”
Nota di Antonio Fiori
Lascia il segno questa Luce di Biagio Accardo, che prima di apparire ha attraversato l’amore, la memoria, la malattia, le cose, per restituircene il senso, l’eco, un particolare indelebile, finanche: Il fremito degli angoli della casa,/ il balbettio dei posacenere,/ le scarpe nel corridoio,/ le calze spaiate sul tappeto.
Siamo di fronte ad una poesia autoanalitica, capace però di educare il lettore alla stessa introspezione: Io non so cosa ho perso,/ ma ciò che ho perso è solo ciò che sono,/ ciò che resta; e questo poco/ che resta è il solo pane che spezzo. Prezioso come sempre, anche se talvolta doloroso, è il lavorio della memoria.
Nella prima poesia della prima sezione, ad esempio, un incontro fa affiorare pian piano un amore quasi dimenticato: E finalmente ricordo, finalmente/ metto a fuoco un amore antico/ quanto la mia stessa nascita, un amore/ fatto d’un silenzio che più volte m’ha salvato.
Uno dei verbi ricorrenti è ‘guardare’, fatto coniugare spesso dalle persone convocate nel testo: “guarda e non temere”, “guardami”, “guarda”. La sezione eponima della raccolta s’apre con una poesia dove il poeta usa questo verbo all’infinito, nell’estremo tentativo di rivedere la propria madre, dimostrando di avere fatto tesoro della lezione caproniana nell’amara coincidenza del lutto: “Mi ergerò e tornerò a guardare/ se mai io la vedessi tornare./ Sarò con la lucerna in mano,/ il fanale che mio padre accendeva/ per entrare in galleria.”
Un libro coinvolgente, una poesia che alterna parola lirica e parola colloquiale, un autore – insomma – che merita maggiori attenzioni, che intanto iniziano con l’ospitalità nella autorevole collana ‘portosepolto’ di peQuod, diretta da Luca Pizzolitto.
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Santa Spanò:”La voce di Nadia Anjuman diventa così la voce di tutte le donne note e sconosciute, uccise e suicide, ferite e umiliate, usate e cancellate”.
Il diritto di gridare
Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore non può che parlare del lutto
nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo che trema nell’aria
sono una figlia afgana, con il diritto di urlare.
Imprigionata in quest’angolo
Sono imprigionata in questo angolo
Piena di malinconia e di dispiacere.
Le mie ali sono chiuse e non posso volare.
Il canto più triste.
Divento fumo nello spazio del mio credo
Lentamente mi avvolgo e mi anniento
Finché vengo allevata dalle mani dell’ansia
Nell’abisso del cuore i miei battiti aumentano
E quel battito intende conoscere la terra della fossa del tardi
Mi preparo al momento trascorso
A volte dall’amore arido e dal buon miraggio di una nuvola
Mi trasformo nel più arido deserto salato
Ma l’immaginazione dei miei occhi mi trasforma in acqua
Nel letto della morte per sete, mi trasformo in ruscello
Se arriva a me il capo di uno dei fili della speranza
Divento l’ordito nella sottile trama del cuore
Questo se n’è andato senza commiato, l’immaginazione mi porta via
Sono ancora io che mi riempio di ricordi
Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio.
(Nadia Anjuman, Il canto più triste. Raccolte Come un uccello in gabbia e Elegia per Nadia Anjuman, a cura di I. Scarparolo e C. Contilli -Ed. Carta e Penna- Torino)
Nessuna voglia di parlare
Che cosa dovrei cantare?
Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.
Perché dovrei parlare di dolcezza?
Quando sento l’amarezza.
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?
Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Soltanto io e la mia forzata solitudine
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.
Sono stata silenziosa troppo a lungo.
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore
Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia
Per volare via da questa solitudine
E cantare come una persona malinconica.
Io non sono un debole pioppo
Scosso dal vento
Io sono una donna afgana
E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi.
Magari
A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida.
(Nadia Anjuman, da Poesie scelte, Torino, Edizioni Carta e Penna, 2008)
Nadia Anjuman (Herat, Dicembre 1980 – Herat, Novembre 2005) è stata una poetessa afghana.
Il 4 novembre 2005, ad Herat nel centro occidentale dell’Afghanistan, Nadia Anjuman, poetessa, è morta massacrata di botte dal marito: aveva appena 24 anni e da 6 mesi era diventata madre di una bambina.
Una breve premessa è necessaria, è necessario ricordare che il territorio afghano si è guadagnato il soprannome di “tomba degli imperi”, direi di aggiungere anche “tomba delle donne”, dopo una parentesi durata vent’anni, i talebani hanno riconquistato l’Afghanistan (da qui si capisce il soprannome). Con il ritiro dei vari organismi internazionali i diritti civili a fatica conquistati, soprattutto dalle donne, con tutta probabilità diventeranno fumo. Per le donne lo sport in pubblico è già vietato, le scuole per le donne, separate dagli uomini, diventeranno una sorta di seminari religiosi e comunque studi o non studi, le donne non le cariche pubbliche se le potranno scordare, frustate a chi indossa abiti occidentali, le donne saranno costrette a indossare il burqa, sarà vietato uscire di casa senza il marito o un mahram (parente), sono ripresi i rapimenti di donne ridotte a schiave sessuali, future mogli promesse a chi si arruola, fustigazioni pubbliche, lapidazione, amputazione di arti e mani ed esecuzioni sommarie (da qui si capisce anche il soprannome che ho suggerito io).
Il titolo “Ritorno al futuro” – ricorderete sicuramente questa pellicola degli anni ’80 con Michael J. Fox e Christopher Lloyd – è una sintesi perfetta di quanto accaduto, la sensazione è proprio questa, come se tutti questi anni fossero trascorsi invano mentre i talebani viaggiavano indisturbati nel tempo per far in modo che in questo territorio martoriato, oggi ribattezzato Emirato islamico dell’Afghanistan, tutto tornasse al periodo 1996-2001.
E nel loro “ritorno al futuro” avranno attraversato anche la vita di Nadia Anjuman che nella sua autobiografia scriveva […]“Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia. L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia… ma… ahimè… tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso”…
Nadia gli anni del regime talebano li ha vissuti in pieno, in quell’età, l’adolescenza, in cui le ragazze vogliono sentirsi subito grandi, fanno tardi la sera, s’innamorano perdutamente, leggono e scrivono poesie, sognano ad occhi aperti e fanno un mucchio di sciocchezze, le ragazze, ma in Afghanistan in quegli anni non sono esistite le “ragazze”, né l’adolescenza delle ragazze.
Alle donne era vietato persino ridere ad alta voce, figurarsi andare a scuola, a loro era vietata qualsiasi forma di istruzione, si poteva studiare solo clandestinamente, col rischio di essere arrestate e impiccate. Tra le poche concessioni del fondamentalismo islamico: i corsi di cucito.
La “Scuola di cucito l’ago d’oro” di Herat accoglieva le ragazze desiderose d’imparare a cucire, ufficialmente, clandestinamente era un circolo letterario, le lezioni tenute da professori di letteratura della locale università aprivano alle donne la possibilità di studiare i grandi autori, di approfondire la lettura e la scrittura, tutto questo a costo della vita.
Nadia Anjuman era una delle allieve del “l’ago d’oro”, e non tardò a farsi notare per stile e talento, l’amore per la poesia, come lei stessa scrive nell’autobiografia, le consentì di “appoggiarsi alla penna” e scrivere, tanto che uno degli organizzatori del circolo, il professore Muhammad Ali Rahyab iniziò a guidare l’allora sedicenne Anjuman, e “la aiutò a trovare la voce che presto avrebbe affascinato migliaia di lettori”.
Nel 2001 l’Alleanza del Nord appoggiata dagli Stati Uniti liberò l’Afghanistan dalla dittatura talebana, Anjuman aveva 21 anni e finalmente, cessate le criminali limitazioni imposte dai religiosi integralisti, era libera di seguire il proprio percorso di studi iscrivendosi al corso di laurea di Letteratura e Lingue Farsi all’Università di Herat, dove si è immatricolata nel 2002.
La situazione socio-politica si rinnova con l’entrata in vigore della nuova Costituzione dal 26 gennaio 2004, rifacendosi a quella del 1964, alle donne vengono (sulla carta) riconosciuti gli stessi diritti degli uomini, di fatto la condizione della donna, soprattutto nelle aree rurali e nelle famiglie conservatrici non muta (e non è mai mutata), le mentalità misogine e patriarcali, una cultura oramai radicata, continuano a considerare le donne sottoposte agli uomini, oggetti, incubatrici, domestiche, schiave, appendici di servizio.
In mezzo a tanto fermento anche la nostra giovane promessa Nadia Anjuman compie con tenacia la sua personale “rivoluzione”, si laurea in letteratura e pubblica il suo primo libro di poesie “Gul-e-dodi” (“Fiore di fumo”), libro che divenne molto popolare anche fuori dei confini afgani, in Pakistan e anche in Iran.
Nel frattempo non si sottrasse ai suoi doveri filiali e sposò Farid Ahmad Majid Neia, laureato anche lui in lettere all’Università di Herat e direttore della locale biblioteca. Neia e la sua famiglia consideravano le pubblicazioni di Nadia imbarazzanti, che leggesse in pubblico e avesse tanto seguito una vergogna per la loro reputazione.
Nonostante la difficile situazione familiare Nadia Anjuman continuò a lavorare al secondo volume di poesie che sarebbe andato in stampa nel 2006 intitolato “Yek sàbad délhoreh” (“Un’abbondanza di preoccupazioni”), la sua voce sul registro della sincerità nel raccontare il suo isolamento e la tristezza del matrimonio.
Non riuscì a vederlo pubblicato, il 4 novembre 2005, a pochi mesi dalla nascita della sua bambina, e dal suo compleanno, il 27 dicembre avrebbe compiuto 25 anni, il marito Farid Ahmad Majid Neia la picchiò a morte.
Se per sopraffare un “nemico” occorre un M4, per sopraffare una donna sono sufficienti schiaffi, pugni e qualche calcio ben assestato, questo il destino di Nadia Anjuman, secondo alcune fonti tutto iniziò con un litigio, per il fratello di Nadia il vero movente dell’omicidio fu il rancore. Il marito non poteva sostenere il confronto con la moglie diventata una delle voci più apprezzate della poesia, non poteva tollerare una moglie con il vizio della notorietà, brava, seguita e amata, e la uccide fracassandogli la testa.
Per le autorità si tratterà di infarto o suicidio. Le autorità in un primo tempo avalleranno le dichiarazioni di Farid Ahmad Majid Neia che la giovane dopo la loro lite prese del veleno, nessuna autopsia venne eseguita per espresso divieto del marito e della sua famiglia. L’intervento delle Nazioni Unite, l’evidente morte per trauma cranico dovuto alle percosse, portarono in un secondo tempo all’arresto del marito, arresto che durò qualche mese, i capi tribali del distretto di Herat fecero pressione sul padre di Nadia perché perdonasse pubblicamente il genero, assicurando che l’uomo sarebbe rimasto in carcere per almeno cinque anni. Farid Ahmad Majid Neia grazie al perdono dopo un solo mese di detenzione ritornò alla sua vita e l’omicidio della poetessa Nadia Anjuman archiviato come suicidio.
Oltre ogni dibattimento, il movente di questo efferato assassinio resta uno: essere donna.
E non è certo il solo, l’Afghanistan non è un paese per donne, anche la legge sull’Eliminazione della Violenza sulle Donne nel 2009, riconfermata poi nel 2018, ha potuto poco nelle aree interne del Paese, dove gli uxoricidi, le violenze domestiche sono di fatto fatti privati. Una maggiore consapevolezza e miglioramento delle condizioni lo si è avuto in questi vent’anni soprattutto nelle grandi città, non senza dimenticare le uccisioni e le aggressioni di donne che si sono impegnate per l’emancipazione e il miglioramento delle condizioni di vita della donna. Oggi con il ritorno al potere dei Talebani il timore che delle donne ci si dimenticherà dei diritti, ma ancora più straziante anche del volto, segregato sotto un manto o dietro i vetri oscurati, è quasi certo, lo testimoniano le prime 300 “vittime” ufficiali, 300 donne afghane filo-talebane che l’11 settembre hanno partecipato a una conferenza all’Università di Kabul indossando il velo integrale a sostegno delle politiche sulla segregazione delle donne. Coperte integralmente, finanche le mani con guanti neri, in conformità con le nuove rigorose politiche di abbigliamento per l’istruzione, hanno sventolato le bandiere bianche dei talebani felici di non esistere più.
La voce di Nadia Anjuman diventa così la voce di tutte le donne note e sconosciute, uccise e suicide, ferite e umiliate, usate e cancellate.-
Fonte –La Bottega del Barbieri
COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE Onlus Via dei Transiti 1 – 20127 Milano
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Le donne del CISDA sono attive nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 1999. Il nucleo iniziale è stato costituito da un gruppo di “Donne in Nero” che ha invitato le donne afghane di due associazioni (RAWA e HAWCA) all’Onu dei Popoli di Perugia.
Da allora, questo nucleo di donne ha continuato la sua attività, collaborando con altre associazioni.
Dal 2014, su sollecitazione degli attivisti afghani, l’attività di sostegno del Cisda si è rivolta anche alla resistenza curda.
Le finalità del CISDA si collocano nell’ambito della solidarietà sociale, della formazione, della promozione della cultura, della tutela dei diritti civili e dei diritti delle donne in Italia ed all’estero.
L’Associazione ha come fondamento la condivisione dei valori umani di ogni persona quali ne siano religione, origine, cultura e nazionalità; lo scopo prioritario è la promozione di iniziative di carattere politico-sociale sia a livello nazionale che internazionale, sulla condizione delle donne che si trovano in situazioni svantaggiate dal punto di vista familiare, economico, sociale e politico, con particolare riferimento alle donne afghane.
All’interno del tessuto sociale CISDA intende, promuovendo la diffusione di una cultura e di una prassi di solidarietà:
contribuire al superamento di atteggiamenti emarginanti, con l’apertura all’accoglienza e all’integrazione e per l’educazione a una convivenza sociale multi razziale, in spirito di fraternità e di non violenza
favorire l’eliminazione dei fattori che ostacolano il pieno e libero sviluppo umano, sociale ed economico
realizzare una crescita e uno sviluppo, sia a livello locale che internazionale, nella ricerca di una maggiore giustizia tra i popoli, nel rispetto del razionale sfruttamento delle risorse e dei limiti ambientali del pianeta
La nostra attività si svolge a stretto contatto con i nostri partner afghani, con cui condividiamo progetti concreti, lettura della realtà locale e internazionale, con uno scambio continuo di visioni ed esperienze. Queste le organizzazioni di riferimento: [
RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan)
HAWCA (Humanitarian Association of Women and Children of Afghanistan)
OPAWC (Organization Promoting Afghan Women Capabilities
SAAJS (Social Afghan Association of Justice Seekers);
AFCECO (Afghan Child Education and Care Organization).
Il CISDA è oggi attivo nelle città di Milano, San Giuliano Milanese, Sesto San Giovanni, Cologno Monzese, Firenze, Como, Roma, Torino, Piadena, Verbania e nel Tigullio. Periodicamente invitiamo in Italia delegate delle organizzazioni afghane e curde con cui collaboriamo per tenere conferenze e incontri sulla situazione del loro paese e sulle loro attività.
Promuoviamo delegazioni in Afghanistan e in Kurdistan, quando possibile.
Organizziamo incontri pubblici, presentazioni di libri e filmati, incontri nelle scuole, cene di solidarietà, raccolte fondi a sostegno dei progetti.
In Italia collaboriamo con varie associazioni e reti tra cui: Insieme si puo’ di Belluno, Emmaus di Piadena, “La Sosta” di Roma, “Liberi Pensieri” di S. Giuliano Milanese, La Casa in movimento di Cologno Monzese (MI), Da donna a donna, di Sesto san Giovanni (MI), Casa delle donne di Viareggio, Milano, Torino, Roma e altre città, Trama di terre di Imola, Centro Balducci di Zugliano (Udine), Donne in Nero, Circoli Arci
CISDA ha pubblicato libri e filmati che potete trovare nella sezione multimedia.
Elio Pecora- Nel dolce rumore della vita. Biografia di Sandro Penna –
Neri Pozza Editore-Milano
DESCRIZIONE
Questo libro è stato scritto pochi anni dopo la morte di Sandro Penna, avvenuta nel gennaio 1977. Apparve in prima edizione da Frassinelli nel 1984 con il titolo Sandro Penna, una cheta follia. È il frutto di molte ricerche, e dell’attenta consultazione di molti autografi e documenti ritrovati dall’autore nella casa del poeta. Carte che, oltre a testimoniare l’amicizia che Penna ebbe con Eugenio Montale, Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini, rivelano la sua difficile infanzia, il sofferto e incerto apprendistato alla poesia e, in alcune lettere mai spedite, l’amore segreto per un ragazzo ebreo. Elio Pecora ripercorre tutto il cammino poetico e intellettuale di Penna: dalle prime poesie fino agli ultimi appunti di una vecchiaia chiusa dentro una stanza con le imposte serrate e una irrimediabile insonnia. Da amico e da poeta, racconta un’esistenza difficile ed esaltante, libera e aperta ma anche immersa in un sogno confuso, alla ricerca di una sorta di felicità, vista come una promessa e un approdo impossibile. Ne viene un ritratto insieme chiaro e complesso, mescolanza di verità e di incertezza, di talento poetico indiscusso, di contraddizioni che lo hanno reso un autore di riferimento del nostro Novecento. Così Penna si svela e si mostra come l’autore di parole che, in un tempo sospeso, restano come pietre rese leggere da un talento luminoso.
ISBN: 978-88-54524-23-1
Collana: Bloom
Pagine: 208
Prezzo: €18,00
RECENSIONI
«Fu un uomo innamorato delle stagioni della vita e della bellezza, dunque uomo infelicissimo quando, assai spesso, quei beni supremi per i quali voleva esistere gli sembravano lontani o negati».
«Con acume e tenacia non inferiori alla fortuna, Pecora ha rinvenuto nella mitica casa-tana dove il poeta era vissuto in una povertà pittoresca e struggente un’autentica miniera di materiali inediti. Non restava che “far parlare” questi materiali: ma il compito richiedeva, è chiaro, intelligenza e rispetto, sensibilità e amore, tutte doti che Pecora ha dimostrato di possedere in larga misura». Giovanni Raboni
«Elio Pecora ricostruisce con amorosa intensità la vicenda formativa del poeta, le prime letture, le prime amicizie, i segni di inconfondibili traumi». Enzo Siciliano
Autore-Elio Pecora
Breve biografia di Elio Pecoraè nato nel 1936, vive a Roma dal 1966. Ha pubblicato libri di poesia, di prosa, di saggistica, testi teatrali, poesie per l’infanzia. Ha curato antologie di poesia italiana contemporanea e raccolte di fiabe popolari. Ha collaborato a lungo per la critica letteraria a quotidiani, settimanali, riviste e ai programmi culturali della Rai. Dirige la rivista internazionale Poeti e Poesia.
Io scrivo nella mia dolce stanzetta,
d’una candela al tenue chiarore,
ed una forza indomita d’amore
muove la stanca mano che si affretta.
Come debole e dolce il suon dell’ore!
Forse il bene invocato oggi m’aspetta.
Una serenità quasi perfetta
calma i battiti ardenti del mio cuore.
Notte fredda e stellata di Natale,
sai tu dirmi la fonte onde zampilla
Improvvisa la mia speranza buona?
È forse il sogno di Gesù che brilla
nell’anima dolente ed immortale
del giovane che ama, che perdona?
Ecco di seguito alcuni testi tratti dalla raccolta:
Il dolore come inizio la luce mi attraversa nulla inizia né finisce in me. Accade. Non sono l’ombra sul pavimento né il muro che s’accende. Sono il vetro che lascia entrare la misericordia del sole.
Sentire le cose senza ragione. Arrivare dove loro sono ed io non ancora.
Posso essere ferma come gli alberi che non è immobilità, ma movimento fisso. Lo vedo nei riccioli dei rami, nei miei capelli. Accogliere è restare anche per il fuoco. Le radici continueranno a cercare.
La poesia è il mio posto luminoso come può esserlo una fiamma protetta dal vento. Il raggio trova aperture e si posa dritto nell’oscurità della caverna. Tra il nero e la luce eccomi essenziale a brillare come pietra scheggiata.
La felicità è come neve tra i capelli l’azzurro ne detta la fine ma il bianco resta a contornare le attese la mimosa zavorra i sogni l’ulivo ispessisce le forze tra i campi pettinati di fragilità.
Radunare le radici ed i rami farsi uliveto e fiori di mandorlo per i nidi e poi per i voli per il Silenzio che disperde i rumori richiamando a sé le erbe, anche quelle secche i legni spezzati i segreti degli iris e le verità delle foglie verdi. Discende nel cadere dei petali per farti dire la tua prima parola dopo aver detto la sua.
Ho fiducia nella paglia su questo accenno di strada vegetale l’invito al nido per il nascere tra il verde delle ere, dei passi, i crepitii.
Finisce la mia assenza dentro l’intreccio d’un pezzo di rovo un gioiello luminoso, carte colorate resti presi per gusto, per gioco.
Tra il dare ed il ricevere senza alcun debito ad uno ad uno si posa il mio essere qui.
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
L’AUTRICE
Sonia Petroni è nata a Roma nel 1977. Psicologa Psicoterapeuta vive a Bari dove svolge il suo lavoro privatamente. Dipinge, crea oggetti di design ed ama immensamente la natura da cui trae ispirazione. Il mare è suo padre adottivo. Gli ulivi suoi fratelli. Di*vento è il suo primo componimento in versi.
Di*vento di Sonia Petroni (Eretica Edizioni, 2023) eleva la saggia persuasione del tempo umano in relazione all’infinito, consuma il primitivo desiderio del silenzio in un patrimonio d’armonia e di pienezza emotiva, nella riflessione di una sorgente formata nel linguaggio simbolico della natura incontaminata e rivelatrice d’ispirazione.
Sonia Petroni concede, all’immanente qualità dei suoi immacolati versi, il prezioso e raffinato intuito meditativo per trascrivere la direzione della transitorietà esistenziale e indicare la successione delle presenze e la tessitura delle assenze lungo le stagioni itineranti del sentire. Accoglie la dimensione contemplativa del pensiero nella compassione, nella capacità di alleggerire il dolore attraverso la comunanza cognitiva della coscienza. L’autrice modula il suo respiro poetico con l’intonazione essenziale di una esperienza interiore, concentrando l’appassionato perimetro espressivo nell’inesauribile, sapiente equilibrio tra il nutrimento lirico del naturalismo e il vincolo della materia, declinando il solco dei versi nella percezione del percorso vitale e nella sensazione dello smarrimento e del rinvenimento. Seduce l’autentico miracolo della poesia con la disposizione a cogliere in ogni disposizione d’animo la dimensione interpretativa del molteplice, a ritrovare, nella diffusione del battito in relazione ricorrente con la natura, il richiamo della realtà come applicazione della proiezione all’ascolto. L’analisi costante e spontanea del mistero umano compone il mosaico della conversazione intorno alla frammentaria erosione dell’esistenza, permette di cogliere il flusso di connessione e di attenzione ai doni della vita, aggrappati alla devozione della luce.
La poesia di Sonia Petroni intensifica la corrispondenza dell’incanto, l’improvvisa e imprevedibile risonanza dell’orizzonte emotivo, commuove l’inclinazione all’applicazione letteraria della spiritualità in ogni sentimento, abitato dalla fiduciosa generosità di una permanenza nella vibrazione della meraviglia, dialoga intorno alla benedizione di una preghiera invisibile che attende di ricevere l’immensità delle promesse avvolte nelle radici della terra. “Di*vento” racconta il territorio dell’identità, nel confine tra la timorosa solitudine delle domande e la condivisione silenziosa delle risposte, illustra l’inviolabile requisito stilistico di inaugurare il rifugio intimista tra noi e il significato dei valori nella sfera sensibile, riempie le pagine con una declinazione scultorea delle parole, nell’intesa confidente dell’energia divinatoria della consapevolezza, nella compiutezza della prospettiva profetica che gravita intorno a noi.
Sonia Petroni lascia intatta la località tumultuosa del buio per aggirare il tragitto iniziatico della sofferenza, immerge nella ferita del dolore l’incisione del riflesso luminoso, dissolve il raccoglimento di ogni vincolo verso la benevola meditazione, rinnova la cadenza di una conversione panteistica che assimila l’apertura, intensamente viva, di ogni luogo a essere definito un luogo dell’anima. Sonia Petroni alberga con la sua poesia l’entità indivisibile suggerita dalla congiunzione tra il corpo e la mente, sussurrata dalla delicatezza di un alito di vento che accarezza l’insegnamento della voce nuda, trattiene il torpore della sacralità, conforta la religiosità dell’abbraccio universale nel paesaggio rapito dallo sguardo primordiale.
La poesia di Madre Teresa per riflettere sullo spirito del Natale.
È Natale, la poesia
È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano. È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro.
È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società.
È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale.
È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.
Madre Teresa di Calcutta ci ha lasciato una profonda meditazione sul significato del Natale, consegnandoci un testo sorprendente per la sua semplicità ma ricco di quell’umanità che il Figlio di Dio viene a portare ad ogni essere umano. Leggiamo con umiltà queste parole ricolme della gratuità dell’amore di Dio per ogni sua creatura:
È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano.È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro.È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società.È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale.È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.È Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri.
Queste parole sono un vero decalogo dell’accoglienza, dell’accettazione e del servizio gratuito verso il prossimo.
Il sorriso del cuore è un segno di apertura verso l’altro, perché riflette quella disposizione dell’animo riconciliato e riappacificato, il quale è molto più eloquente di tante inutili e vuote parole.
Il sorriso esprime quell’apertura che ha perdonato profondamente il torto subito. Potremmo dire che il sorriso è l’apertura della porta giubilare della misericordia della propria casa perché manifesta una retta intenzione di convivialità e di condivisione.
La realtà, molte volte, è diversa, perché la durezza del nostro cuore ritiene difficile sorridere a quel parente che, dopo tanto mesi, si è riaffacciato alla soglia della nostra casa; ci viene più facile giudicarlo per il suo allontanamento piuttosto che riaccoglierlo, con la gioia di avere ritrovato una persona che ritenevamo perduta.
Quanto è facile cadere nel rischio di offrire “falsi sorrisi” che sono il preludio di dialoghi aridi, di discorsi inutili, di relazioni finte e di falsa vanagloria.
Il vero sorriso è il preludio dell’ascolto, il quale è la chiave universale per entrare nel cuore del nostro interlocutore. L’ascolto silenzioso è quella forza interiore capace di trasferire l’altro dalla periferia dell’emarginazione al centro dell’attenzione. L’ascolto restituisce dignità e valore a quegli avvenimenti della vita che hanno bisogno di essere detti a qualcuno per essere compresi da colui che li racconta. L’ascolto è un servizio insostituibile ed efficace perché contiene la forza silenziosa di fare uscire dal cuore di chi abbiamo difronte quelle verità scomode, che sono il preludio della possibilità di offrirgli parole di incoraggiamento e di speranza.
Queste parole di Madre Teresa contengono un prezioso segreto evangelico: se vogliamo capire e riconciliarci con quel parente che siede con noi alla mensa di Natale, evitiamo di usare troppe parole per giustificarci o per cercare di ridurre la situazione imbarazzante. Il giusto atteggiamento che ristabilisce una sana e duratura riappacificazione è l’umiltà dell’ascolto, capace di comprendere le difficoltà dell’altro e di ricucire quello strappo che il nostro spietato giustizialismo ha creato per la superbia e la durezza del nostro cuore.
L’ascolto, preceduto dal sorriso, è davvero misericordioso quando offre parole e gesti di speranza verso coloro che sono stati travolti dalle vicende della vita e non riescono a trovare un via d’uscita da quel deprimente stato di angoscia e di disperazione.
Come sarebbe bello sentire a Natale le suocere che consolano le nuore per le fatiche nell’educazione dei figli e nel conciliare il lavoro con la famiglia, quanto farebbe bene ai figli vedere il padre dialogare con gioia con il loro nonno, quale gioia sarebbe ricordare durante questa notte santa tutti quelli che ci hanno preceduto facendo memoria di alcuni episodi della loro vita, quanto sarebbe bello parlare con quel parente con il quale riteniamo di avere subito un torto e riconoscere il nostro limite invece che condannare la sua debolezza.
Il Natale è la festa del memoriale della venuta del Figlio di Dio sulla terra, affinché il Bambino Gesù possa rinascere in ogni essere umano e rinnovare dall’interno le nostre vite, la frase di Madre Teresa, “è Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri”; sono parole piene di speranza, perché contengono una sapienza che non è di questo mondo, affermando quella verità cristiana tanto dimenticata ai nostri giorni: il cambiamento del mondo è possibile quando si inizia a cambiare prima il nostro cuore.
La conversione è davvero contagiosa, quando siamo noi per primi a riconoscere di essere bisognosi della Misericordia di Dio. Se Cristo nascerà in noi, la nostra casa diventerà come la umile stalla di Betlemme, povera di sicurezze terrene ma ricca di umanità e del calore umano, la quale sarà visitata dai tanti pastori emarginati del nostro quartiere, i quali ascoltando le voci dei vicini di casa, potranno accorrere con fiducia al nostro focolare. Sarebbe bello pensare ad un Natale che trasformi le nostre famiglie nelle quali nessuno che bussa alle nostre porte tornerebbe a casa sua a mani vuote, ma troverebbe tanti segni visibili della misericordia di Dio, fatta a volte di parole ma altre volte di gesti concreti, usando quella carità cristiana che è davvero autentica quando ha la forza di spogliarsi di qualcosa di proprio per rivestire il bisogno materiale e spirituale dell’altro.
Era dolce baciare la verticale della tua schiena, poggiare su di te la mia guancia stanca e, affamati capire che non c’era amore, solo poca voglia e pelle sudata, Nessuna cura ma la ricerca di un centro che sapesse stringerci voglioso, non come facevamo noi.
Era dolce baciare il centro della tua schiena.
GEOMETRIE II
Non mi manca il tuo amore Mi manca raschiarmi cuore e vene per permetterti di entrare. Ritrovarti la notte lì, steso a gemere lento Rannicchiato e placito a otturare lo spazio dove prima scorreva forte il sangue. E poi scoprirmi entusiasta e piena Di un’euforia che non mi apparterrà Perché ogni tua cura tornerà a te E a me resterà il vuoto che avevo scavato per permetterti entrare.
GEOMETRIE VII
Sapessi frazionare in cerchi la realtà, mi libererei dei rigidi assiomi di questa folle ellisse, che carceriera, trattiene in sé un dramma ripetitivo e indolente ma mai menzognero.
Sapessi sedermici su e impormi, renderei torchio il cerchio e le assi e muovendolo deciderei io cosa stringere (almeno in questa tra le ripetizioni)
E il torchio cosa maciullerebbe? L’area del cerchio? I resti del contorno? O i resti miei?
L’AUTRICE
Zahira Ziello è nata in provincia di Caserta, ha frequentato il liceo classico ed è diplomata all’accademia di recitazione, si occupa di teatro e drammaturgia. Ha pubblicato Sibilla (Terra d’ulivi Edizioni).
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
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