ROCCO SCOTELLARO-Poesie scelte- Tutte le poesie (1940-1953)
Mondadori Editore-Milano
Al sopportico delle Api il primo amore
Al sopportico delle Api
affisse ai muri le nostre iniziali
col colore della paglia bruciata.
L’amore nostro crebbe qui
nella stalla vicina.
E io vederti sorgere tenera ombra,
misuravo le parole tue calde
cercandoti le labbra con le dita.
Ombre di noi che siamo in fuga
si allungano, scompaiono
quando la lucerna del mulattiere
mette fremito alle bestie per la biada.
(1946)
La città mi uccide
Datemi pure a mangiare il pane della questua
nero indurito, ho tanta voglia di lavorare.
Si sono mangiati i miei calcagni
queste strade d’asfalto dure a pestare.
Era nel vento una pioggia di piccoli prezzi
sulle immobili merci delle vetrine.
Sfolgorava sui cartelloni gente
che usciva quella volta dall’incognito
e io che minuzzavo alacremente
la cronaca viola dei miei passi perduti.
Oh stanco appendermi lo sguardo
alle luci al neon infinite.
Sentite furie: alberghi e panifici
e padroni che muovete questa ruota
orrenda che ci stride sulle carni,
ditte, navigatori, capitani sentite:
eccovela la testa del mercenario
accalappiata nel vostro frustone.
Mi avete inutile respinto
ad alloggiare nelle ville
accanto agl’immondi vespasiani
e la notte mi bastonano i ladri
le prostitute mi sputano addosso.
Gerusalemme, Gerusalemme!
I porci hanno invaso gli ulivi
sotto la luna lontana,
la moda si dà convegno
nel tempio sontuoso
Bari, Napoli, Roma, Milano
i fiori, gli uccelli, la donna
qui si comprano
e io cammino con la mano al cuore
perché a forza potrebbero rubarlo.
(Bari, 24 ottobre 1947)
La mia bella Patria
Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.
(1949)
La terra mi tiene
Lunga strada seppur deserta
dove puoi menarmi non vedo
punto d’arrivo.
Scordarmi i vivi per ritrovarli
con tutto il peso che mi porto
della vita che m’è nata
i fiori son cresciuti la luce li accende.
Sradicarmi? la terra mi tiene
e la tempesta se viene
mi trova pronto.
Indietro
ch’è tardi
ritorno a quelle strade rotte in trivi oscuri.
(Tivoli, 1942)
Lucania
M’accompagna lo zirlio dei grilli
e il suono del campano al collo
d’un’inquieta capretta.
Il vento mi fascia
di sottilissimi nastri d’argento
e là, nell’ombra delle nubi sperduto
giace in frantumi un paesetto lucano.
(1940)
Era la cavalcata della Bruna
Afflitti ulivi
sui tufi di Matera.
O gli amari poemi
delle morte stagioni!
È una notte che fugge la faina
coi suoi occhi di brace.
E gli antenati ecco sentirsi in canti
per la campagna acquattata:
erano i cafoni in quadrigliè,
passava la cavalcata della Bruna
a risvegliare le caverne
sui bordi delle rocce
al di là della collina,
era il silenzio dell’acqua infossata
che faceva tuonare la Gravina.
(Festa della Madonna della Bruna a Matera, 1947)
Primavera
Stanotte il cielo è un mandorlo fiorito
e nella valle il cuculo già freme.
(1941)
Campagna
Passeggiano i cieli sulla terra
e le nostre curve ombre
una nube lontano ci trascina.
Allora la morte è vicina
il vento tuona giù per le vallate
il pastore sente le annate
precipitare nel tramonto
e il belato rotondo nelle frasche.
(1948)
È già notte qui nei valloni
è già notte per le campagne
marine.
Dai paesi corrono piccole
nuvole di fumo verso il cielo.
Continua la vita nel gelo.
L’anima è questo respiro
che ci riempie e ci vuota.
E occorre guardarsi indietro
a vedere il giorno
dove corre.
Corre di fronte
alle luci accese dei pali
dove il Vulture adesso
si vede
sullo specchio rosso
di ponente…
Perché l’ombra è già
morta sui pini.
(1948)
Sempre nuova è l’alba
Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra…
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
(1948)-
Testi selezionati da Tutte le poesie (1940-1953) (Mondadori, 2004)
Breve biografia di Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 – Portici 1953)fu uno dei maggiori poeti e intellettuali lucani impegnato nel vivo delle problematiche del secondo dopoguerra. Animato da una forte carica morale e ideale, profusa nella sua produzione letteraria e nell’impegno politico, ha assunto il valore emblematico delle lotte per il riscatto del popolo meridionale. Di umile origine, socialista, fu sindaco di Tricarico dal 1946 al 1950, quando fu arrestato sotto l’infondata accusa di irregolarità amministrative; in seguito, grazie all’intervento di C. Levi, ottenne un impiego presso l’Istituto agrario di Portici diretto da M. Rossi Doria. Trasse dalla sensibilità ai problemi sociali della sua terra motivi per alcune opere comparse postume: l’inchiesta Contadini del Sud (1954), il romanzo autobiografico incompiuto L’uva puttanella (1955) e una serie di poesie (È fatto giorno, 1954) nelle quali, muovendo dai modi elegiaci dell’ermetismo, tende a un tono epico-popolaresco, con esiti pieni di dissonanze, ma d’indubbia genuinità lirica. In seguito sono stati pubblicati il volume di racconti Uno si distrae al bivio (1974) e la raccolta di versi Margherite e rosolacci (1978). Nel 2019 la sua intera produzione letteraria è stata raccolta nel volume Tutte le opere.
Pubblicato nel 1728 all’interno del terzo volume di Miscellanee di Jonathan Swift e Alexander Pope, il Perí Bathous, o L’arte di toccare il fondo in poesia è una divertita esplorazione dei bassifondi del Parnaso, una velenosa spigolatura di assurdità estetiche, un prontuario di sovversione poetica ad uso delle teste di legno erudite – il tutto addobbato nelle contegnose vesti della trattatistica classica sul sublime. Questa spietata disamina delle cause e delle manifestazioni del cattivo gusto in poesia nasce come esercizio collettivo dello Scriblerus Club, il circolo informale di letterati e politici Tory che, a partire dal 1714, furono di fatto proscritti dall’attività pubblica sotto l’incontrastata supremazia Whig. A perfezionare l’opera sarà il solo Pope: la sua condizione di outsider, oltre alla fama e agli anticipi per le sue traduzioni omeriche, faranno di lui il primo poeta inglese capace di fondare il proprio successo soltanto sul pubblico, senza le ingerenze del mecenatismo. Fu una carriera che improntò un’epoca e raggiunse l’apice nelle Imitazioni di Orazio, una serie di satire, odi ed epistole in distici eroici sull’arte e la letteratura. Fra queste, l’Epistola al dottor Arbuthnot – qui pubblicata con testo a fronte – è il coronamento del «lungo malanno» che fu la vita di Pope: un capolavoro che fonde autobiografia intima, struggente elegia dell’amicizia e satira abrasiva in una deflagrante miscela di furia, decorum, malizia, malinconia e felicità espressiva.
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sincroni avanzano
come nel dipinto
di un Quarto Stato.
Così nella costante è
la luce
il significante.
Marisa Carelli è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Pubblicato nel 1728 all’interno del terzo volume di Miscellanee di Jonathan Swift e Alexander Pope, il Perí Bathous, o L’arte di toccare il fondo in poesia è una divertita esplorazione dei bassifondi del Parnaso, una velenosa spigolatura di assurdità estetiche, un prontuario di sovversione poetica ad uso delle teste di legno erudite – il tutto addobbato nelle contegnose vesti della trattatistica classica sul sublime. Questa spietata disamina delle cause e delle manifestazioni del cattivo gusto in poesia nasce come esercizio collettivo dello Scriblerus Club, il circolo informale di letterati e politici Tory che, a partire dal 1714, furono di fatto proscritti dall’attività pubblica sotto l’incontrastata supremazia Whig. A perfezionare l’opera sarà il solo Pope: la sua condizione di outsider, oltre alla fama e agli anticipi per le sue traduzioni omeriche, faranno di lui il primo poeta inglese capace di fondare il proprio successo soltanto sul pubblico, senza le ingerenze del mecenatismo. Fu una carriera che improntò un’epoca e raggiunse l’apice nelle Imitazioni di Orazio, una serie di satire, odi ed epistole in distici eroici sull’arte e la letteratura. Fra queste, l’Epistola al dottor Arbuthnot – qui pubblicata con testo a fronte – è il coronamento del «lungo malanno» che fu la vita di Pope: un capolavoro che fonde autobiografia intima, struggente elegia dell’amicizia e satira abrasiva in una deflagrante miscela di furia, decorum, malizia, malinconia e felicità espressiva.
A cura di Alessandro Gallenzi.
Alexander Pope
I bassifondi della poesia
A cura di Alessandro Gallenzi Piccola Biblioteca Adelphi, 700 2017, pp. 165 isbn: 9788845931550 Temi: Letteratura inglese, Libelli
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Buon compleanno a Giuseppe Ungaretti nato il 08/02/1888
“Non voglio che molti sappiano
ch’io ho scritto; voglio che qualcuno mi ami.”
– La tua luce-
Scompare a poco a poco, amore, il sole
Ora che sopraggiunge lunga sera.
Con uguale lentezza dello strazio
Farsi lontana vidi la tua luce
Per un non breve nostro separarci.
In Ungaretti vibrano i grandi interrogativi dell’uomo con una chiarezza e un’urgenza che lo assimilano certamente a Leopardi perché anche di fronte al dolore più insensato, come la morte di un figlio, riuscì a mantenere viva la speranza, segno di un cuore sempre indomito e guerriero. Fu un poeta straordinario, Ungaretti, e la sua influenza sulle generazioni successive fu profonda. Francesco Flora quasi non si rassegnava al fatto che la poesia di Allegria – insieme delle sue prime raccolte – funzionasse, cosciente di quanto fosse pericolosa l’operazione di una improvvisa rottura con ogni forma di tradizione poetica italiana. Ma Ungaretti non fu mai imitatore di se stesso: il suo stile cambiò, sempre seguendo il suo cuore indomito e il suo spirito guerriero. Infatti, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, Ungaretti, tracciando un bilancio della sua vita, affermò: «Sono stato un uomo della speranza; anzi, il soldato della speranza».
Da “L’allegria”
Agonia
Morire come le allodole assetate
sul miraggio
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato
Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Fratelli
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
San Martino del Carso
Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato
Allegria di naufragi
Versa il 14 febbraio 1917
E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare
Mattina
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
M’illumino
d’immenso.
Soldati
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
La madre
1930
E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia.
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.
Dove la luce
1930
Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera, vieni.
Ci scorderemo di quaggiù,
E del mare e del cielo,
E del mio sangue rapido alla guerra,
Di passi d’ombre memori
Entro rossori di mattine nuove.
Dove non muove foglia più la luce,
Sogni e crucci passati ad altre rive,
Dov’è posata sera,
Vieni ti porterò
Alle colline d’oro.
L’ora costante, liberi d’età,
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo
Sentimento del tempo
1931
E per la luce giusta,
Cadendo solo un’ombra viola
Sopra il giogo meno alto,
La lontananza aperta alla misura,
Ogni mio palpito, come usa il cuore,
Ma ora l’ascolto,
T’affretta, tempo, a pormi sulle labbra
Le tue labbra ultime.
Da “Il dolore”
Giorno per giorno
1940-1946
4
Mai, non saprete mai come m’illumina
L’ombra che mi si pone a lato, timida,
Quando non spero più…
7
In cielo cerco il tuo felice volto,
Ed i miei occhi in me null’altro vedano
Quando anch’essi vorrà chiudere Iddio…
8
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto
9
Inferocita terra, immane mare
Mi separa dal luogo della tomba
Dove ora si disperde
Il martoriato corpo…
Non conta… Ascolto sempre più distinta
Quella voce d’anima
Che non seppi difendere quaggiù…
M’isola, sempre più festosa e amica
Di minuto in minuto,
Nel suo segreto semplice…
13
Non più furori reca a me l’estate,
Né primavera i suoi presentimenti;
Puoi declinare, autunno,
Con le tue stolte glorie:
Per uno spoglio desiderio, inverno
Distende la stagione più clemente!…
Biografia di Giuseppe UNGARETTI-Poeta italiano, nasce ad Alessandria d’Egitto, l’8 febbraio 1888, da genitori lucchesi, colà emigrati, perché il padre Antonio lavorava come sterratore al canale di Suez. Frequenta l’École Suisse Jacot e si forma sui classici francesi: Baudelaire e Mallarmé soprattutto. Stringe amicizia con Enrico Pea e i fratelli Thuile; con Kavàfis e Zervos (il gruppo di “Grammata”). Nel 1912 U. migra a Parigi, si iscrive alla Sorbona (tesina su Maurice de Guérin con Strowski; segue i corsi di Bergson al Collège de France). Si lega ai futuristi italiani a Parigi – le sue prime poesie appariranno nel 1915 su Lacerba – ma anche ad Apollinaire, Paul Fort, Léger. Nel 1914 rientra in Italia e si arruola come volontario, soldato semplice, sul Carso. Nasce Il Porto Sepolto, stampato a Udine nel 1916. Finita la guerra, pubblica, per impulso di Papini, Allegria di naufragi, presso Vallecchi, 1919. Sposa Jeanne Dupoix, 1920. Si trasferisce a Roma nel 1921, una Roma barocca e cattolica, che fa da sfondo al Sentimento del Tempo, 1933. Nel 1936 si stabilisce a San Paolo del Brasile, ove gli è stata offerta la cattedra di Lingua e letteratura italiana presso l’università. Nel 1937 muore il fratello, nel 1939 il figlio Antonietto; nel 1942 rientra in Italia, ove è nominato “per chiara fama” titolare della prima cattedra di Letteratura italiana contemporanea presso l’università di Roma. Dai lutti privati e collettivi nasce l’esperienza del Dolore, 1947. Dalla vicenda di barbarie della seconda guerra mondiale sorge più alta l’esigenza di raccogliere, nella meditazione dei classici, la memoria della dignità e della tragedia di essere uomini: saranno le mirabili traduzioni dei 40 Sonetti di Shakespeare, delle Visioni di Blake, della Fedra di Racine, delle poesie di Gongora e Mallarmé, dell’Eneide e delle “Favole indie della genesi”. Potrà così compiersi il viaggio e l’ultima ‘mira’: La Terra Promessa, 1950 e Il Taccuino del vecchio, 1960; rielabora poi, ‘a lume di fantasia’, le prose d’arte e di viaggio: Il Deserto e dopo, 1961. Raffinato esercizio di autoesegesi e di poetica sono le quattro lezioni, tenute nel 1964 alla Columbia University, New York, sulla Canzone. Muore a Milano nella notte fra il 1° e il 2 giugno 1970, già accolti, a Capodanno, “Gli scabri messi emersi dall’abisso”, in una poesia che sempre “torna presente pietà” (L’impietrito e il velluto). L’opera di U. è oggi riunita nei volumi Vita d’un uomo. Tutte le poesie (a cura di L. Piccioni, 1969); Vita d’un uomo. Saggi e interventi (a cura di M. Diacono e L. Rebay, 1974); Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni (a cura di P. Montefoschi, 2004). Alla conoscenza del laboratorio giovanile ungarettiano ha contribuito il vol. di Poesie e prose liriche. 1915-1920 (a cura di C. Maggi Romano e M. A. Terzoli, 1989), autografi ritrovati, con le lettere, tra le carte di Papini. In ed. crit. sono apparsi: L’allegria (a cura di C. Maggi Romano, 1982) e Sentimento del tempo (a cura della stessa e di R. Angelica, 1988).
“Amo le mie ore di allucinazione […]. Anche le mie ore di randagio, d’immaginario perseguitato in esodo verso una terra promessa” (G. Ungaretti, lettera a G. Papini del 25 luglio 1916 dalla zona di guerra). Introdurre al Porto Sepolto (1916) con una citazione che presenta il nomade già in viaggio, in esodo, verso una Terra promessa, significa proporre la visione non già di un incipit, ma di un’origine, sempre ricercata e sempre più lontana; attestare non tanto un”opera prima’, ma il nucleo generatore più fecondo dei grandi miti ungarettiani di “riconoscimento” e di “quête” sino – appunto – alla Terra Promessa.
Così, al compimento del proprio percorso di poetica Ungaretti raggiungerà – poeta europeo – i modelli che l’avevano accompagnato, sin dalla Jeune Parque, 1917, di Paul Valéry o dalla Waste Land, 1922, di Eliot ove già si figura nel “drowned Phoenician Sailor” il “Piloto vinto d’un disperso emblema” del Recitativo di Palinuro. E, più ancora, affiora la recente esperienza dei Four Quartets, 1936-42, ove “Moves perpetually in its stillness”, – perpetuamente muove nella sua quiete – il desiderio di forma: “effimero / Eterno freme in vele d’un indugio” (Cori […] di Didone, VIII).
Come nel suo Petrarca, il Triumphus Eternitatis sarà assorbito dal buio nella notte dell’ossimoro: “Mi fanno più non essere che notte, / Nell’urlo muto, notte” (Ultimi Cori per la Terra Promessa, 12; dal Taccuino del Vecchio, 1960), nell’afono vuoto: “Che, dal fondo di notti di memoria, / Recuperate, in vuoto / S’isoleranno presto, / Sole sanguineranno” (ivi, 12). La poesia dell’ultimo Ungaretti si colloca accanto alle voci più nude della desolazione, come quella di Celan, che tradurrà mirabilmente La Terra Promessa (Das verheissene Land) e il Taccuino del Vecchio (Das Merkbuch des Alten). Anche quando non rimanga che “dondolo del vuoto” (L’impietrito e il velluto, 1970), deserto e Lösspuppen, crisalidi di Loess e “impalpabile dito di macigno”, pure, per memoria di forma, il ritorno è, sempre, istante possibile: “Petrarca / ist wieder / in Sicht” (Celan), “Fulmineo torna presente pietà” (L’impietrito e il velluto, clausola), nell’eterno bagliore / abbaglio di illuminazione e miraggio: “Incontro al lampo dei miraggi / Nell’intimo e nei gesti, il vivo / Tendersi sembra sempre” (Monologhetto). L’eterno Ist wieder: è di ritorno, nuovamente, nostra unica eternità, memoria di poesia che rinnova ricreando, unico e solo “diritto di ritorno” – “zurück – und zurückreicht” – che sempre ci resta:
Devi essere arrivato in città!
Lo vedo chiaramente.
Tutte le case mi stanno sorridendo.
Hanno capito che ti amo.
Devi essere arrivato in città!
Lo vedo dagli alberi del parco.
Hanno foglie vibranti,
ricevono baci dal sole e dal vento.
Devi essere arrivato in città!
Perciò
questa gioia incredibile
dalla luce e dall’aria
dalle barche a vela nella brezza.
Tutto è diverso oggi.
Quel che ieri era una lunga serie di case grigie
oggi è dipinta di oro e porpora
dal tramonto del sole.
Quella che ieri era gente qualunque
che andava al bus o all’auto
oggi sono persone
con una vita dentro.
Ciò che ieri era traffico e frastuono
oggi è il battito del cuore della città,
quello grande che fa muovere tutto!
In breve: Tu devi essere arrivato in città!
Marie Takvam nasce il 6 dicembre del 1926 a Tranby. Le notizie biografiche su Marie Takvam sono piuttosto scarse, sebbene le sue poesie tradiscano molti aspetti della sua personalità. La critica, infatti, considera la sua poesia privata e autobiografica. Non si può negare che c’è sempre qualcosa di autobiografico nel lavoro di un artista, dal poeta allo scultore, al musicista.
L’autrice scrive in nynorsk.
Negli anni ’70 fu la protagonista nel film di Vibeke Løkkeberg “Åpenbaringen – Rivelazione”. Takvam ha scritto anche numerosi libri per l’infanzia.
Cresciuta a Sunnmøre, si trasferì giovane a Oslo. Debuttò nel 1952 e da allora ha prodotto una serie di raccolte poetiche e di romanzi. Comincia a scrivere seguendo una linea poetica legata ancora alla tradizione, ma in seguito le sue raccolte di poesie si fanno sempre più ricche di spunti modernisti, con frasi brevi ed enigmatiche, immagini fantastiche, ma piene di vita, sensualità, sensibilità, emozione, carnalità, passione, intelligenza, ironia ed eleganza. Un mondo poetico fatto di contrasti e ritmi vivaci come la vita che Takvam racconta in rima.
Fin dal debutto nel 1952, i libri di Marie Takvam, senza eccezione, sono stati considerati biografici e intimisti. Con la raccolta di poesie del debutto “Dåp under sju stjerner – Battesimo sotto sette stelle”, si viene a conoscenza già della struttura della lirica della scrittrice in prospettiva delle sue successive raccolte. C’è l’amore, la dissoluzione, l’anelito metafisico, l’identificazione con le persone che soffrono. Paal Brekke, in una sua recensione, ammise di essere stato felice di aver letto quel libro. Scrisse che Marie Takvam «è una persona ricca, assolutamente giovane che anche in questi giorni osa credere nella vita». Nel 1952 Marie Takvam aveva 25 anni e Paal Brekke 29, quattro anni in più rispetto a quella “persona assolutamente giovane” fanno sì che Brekke si esprimi in modo così paterno nei confronti dell’esordiente scrittrice.
[…] Leggere la poesia di Takvam negli anni ‘50 in relazione agli avvenimenti contemporanei è come mettere benzina su un fuoco addormentato. Senza mettere in dubbio le qualità liriche di altri scrittori, si può ben dire che la poesia di Takvam è molto più incentrata sul “desiderio” di quella di Hagerup e Halldis Moren Vesaas; le poesie contengono molto più sarcasmo di quanto se ne possa trovare in Erling Christie e André Bjerke. Nel temperamento c’è solo Gunvor Hofmo che supera Takvam, ma le due scrittrici sono ben lontane dall’essere confrontate: tutti i più importanti giudizi di Hofmo sono di tipo metafisico, mentre quelli di Takvam appartengono al dramma della storia e del tempo.
Le poesie in prima persona di Takvam non escludono il fatto che, oggi, la sua eredità spirituale e la sua umanità siano un patrimonio comune condiviso con ogni lettore. Nell’Io narrante di Takvam chiunque può sentirsi libero di identificarvisi e con maggior convinzione quando una poesia comincia così: «Io …»
Bibliografia:
“Dåp under syv stjerner – Battesimo sotto 7 stelle” (Poesia – 1952)
Il mio cuore è una rossa macchia di sangue dove io bagno senza possa la penna, a dolci prove
eternamente mossa. E la penna si muove e la carta s’arrossa sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so che questo sangue ardente a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà uno schianto stridente… … e allora morirò.
Imagine
La rondine di mare che ieri, mia dolente, volava sopra il lago, con l’alucce sgomente,
erra sempre e la sorte del suo tenero volo? brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?
o pur, libera, dopo lungo palpito d’ale, giunse all’immenso, azzurro Oceano natale,
ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni amare?… A me, vedi, la piccola rondinella di mare,
stanca, che sfiorava, con l’aluccia sua lieve, l’onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,
a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito, cuore di donna, cuore acceso d’infinito,
cuor nostalgico in preda al doloroso senso di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!
Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso come il cuore di Cristo, ora sei morto; t’accoglie non so più qual triste orto odorato di mammole e d’incenso.
Uomini, io venni al mondo per amare e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti vostri e ho cantato tutti i vostri canti! Io fui lo specchio immenso come il mare.
Ma l’amor onde il cuor morto si gela, fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano! Come un’antenna fu il mio cuore umano, antenna che non seppe mai la vela.
Fu come un sole immenso, senza cielo e senza terra e senza mare, acceso solo per sé, solo per sé sospeso nello spazio. Bruciava e parve gelo.
Fu come una pupilla aperta e pure velata da una palpebra latente; fu come un’ostia enorme, incandescente, alta nei cieli fra due dita pure,
ostia che si spezzò prima d’avere tocche le labbra del sacrificante, ostia le cui piccole parti infrante non trovarono un cuore ove giacere.
Tutta l’anima, tutte le pure
Tutta l’anima mia, tutte le pure gioie godute nella giovinezza; ogni mia più soave tenerezza, tutte le mie speranze malsecure
nelle loro precoci sepolture, l’eterna immensurabile tristezza che il mio cuore dissangua ma non spezza offerte alle mortali creature.
Anima, come vano, come vano l’amor tuo, come triste il disinganno.
Desolazione del povero poeta sentimentale
I
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente, ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Un bacio
Oh, un bacio, un bacio lieve su la tua bocca rossa, un bacio breve, breve piccolo, senza scossa.
Senza che il core possa tremar… no, non lo deve non vo’ che tu per l’ossa senta un brivido lieve…
che faccia il volto esangue… . . . . . . . . .
Oh, un bacio di morente sulla bocca, permetti?
Su quella bocca ardente che pare un fior di sangue trionfante tra i mughetti!
“Io non sono un peota”: i versi di Corazzini, il bimbo che voleva morire articolo di Eraldo Affinati-31 agosto 2021-Fonte il Riformista
«Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?». Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato. Un altro conto è scandirli in un soffio leggero, nella calura stagnante in mezzo alle zanzare, come è capitato a me dentro l’ottavo colombario al cimitero del Verano (ossario 25, fila II), dove sono conservati i suoi poveri resti. Nel lungo corridoio oscuro, illuminato soltanto dai fiochi raggi provenienti dai lucernai, il volto adolescente del ragazzo splendeva ancor più del solito, nell’unica famosa fotografia che ancora oggi lo ritrae, in ogni manuale del crepuscolarismo, quello stato d’animo sconsolato e malinconico, fra organetti, conventi, suore, cortili, ospedali e sagrestie, individuato per la prima volta da Antonio Borgese nel 1910, il colletto inamidato fin sulla gola, col cravattino stretto sotto il gilet, come usava ai primi del Novecento, il ciuffo di capelli ben pettinato sulla fronte alta, lo sguardo fermo, determinato, rivolto verso il baratro del futuro.
Mi ero deciso a rendere questo omaggio al fanciullo più celebre della letteratura italiana, così diverso da Guido Gozzano in quanto, a differenza sua, privo di vezzi e orpelli, dopo averne riletto i testi appena riproposti in una piccola, preziosa, commovente, meritoria edizione di Internopoesia, a cura di Alessandro Melia: Io non sono un poeta (pp. 156, dodici euro). Andare in libreria, comprare il testo, ritrovare subito il vecchio, mai sopito, incanto di Toblach: «Le speranze perdute, le preghiere / vane, l’audacie folli, i sogni infranti, / le inutili parole de gli amanti / illusi, le impossibili chimere, / e tutte le defunte primavere…», prendere lo scooter e, sfidando le temperature più alte dell’anno, puntare deciso verso l’antico Tiburtino scalcinato, nella città dei morti dispersa fra le circonvallazioni vorticanti, era stato per me un tutt’uno.
«Perché, tu che sai tutto di Roma, / lo chiamate così quel vostro cimitero / con quel nome spagnolo che significa estate?», si chiedeva Vittorio Sereni in una delle sue poesie più belle, Verano e solstizio? La stessa domanda tornava a ronzarmi in testa mentre entravo dal portone principale lasciandomi alle spalle il monumento funebre di Goffredo Mameli, morto nel 1849 nella difesa di Roma, anche lui a soli 21 anni. Ormai il suo inno lo cantano tutti, ma chi rammenta più la vita di questo giovane ardimentoso? Eppure è stato proprio il paladino risorgimentale a spingermi idealmente verso Sergio Corazzini, nato in una famiglia benestante, abitavano in via dei Sediari 24, dietro Piazza Navona, falcidiata dalla tubercolosi e presto travolta dalla più cruda indigenza. Il suo talento lirico si rivelò immediatamente.
A soli sedici anni, già collaborava ai giornali dell’epoca: Il Marforio, Il Rugantino, Il Capitan Fracassa. Attorno a lui si formò un cenacolo di amici, che si riunivano al Caffé Aragno, per i quali il più ispirato coetaneo rappresentò un riferimento carismatico, sia in vita che, ancor più, dopo la morte: una stella cometa che, agli albori del ventesimo secolo, brillò solo per poco nel fondo smagato delle loro sontuose adolescenze. Ricordiamo Fausto Maria Martini, Alberto Tarchiani, Remo Mannoni, Giuseppe Caruso, Giorgio Lais, Auro d’Alba, Giuseppe Altomonte e Guido Milelli. Nomi perduti, volati via come foglie, simili a quelli che decifro nei loculi posti intorno a Sergio: Maddalena Antonelli, Renzo Francia, Antonio Gregori, Gustavo Benedetti, Rinaldo Casadei, Maria Macciocchi, scomparsi tutti in giovanissima età, alcuni addirittura bambini.
“Per chi ricorda Sergio Corazzini”, leggo inciso sul marmo. La sua voce era bianca, fosforica. Egli pare sempre che ci voglia raccontare qualcosa d’importante, si capisce dall’adozione della seconda persona, eppure non ha nulla da dire, se non l’assenza, il vuoto, l’esilio qui, non in un altrove, no, proprio sulla nostra terra: «Sono un fanciullo triste che ha voglia di morire». Quando nell’agosto 1905, in una lettera diretta a Aldo Palazzeschi, scrive: «Il letto bianco e triste che mi accoglie da venti giorni è divenuto il mio trono di questo mondo», non sta recitando. Spirerà l’anno dopo, senza aver ricavato alcuna utilità dal ricovero al sanatorio di Nettuno. I luoghi che frequentò restano fra le nostre dita come una manciata di coriandoli fuori stagione: la tabaccheria di famiglia in Via del Corso, nella stessa strada dove lavorò all’ufficio della compagnia di assicurazioni La Prussiana; le chiese sperdute che amava visitare nei pomeriggi ombrosi e solitari: San Saba, Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a San Giovanni.
Ma come dimenticare il Dialogo di marionette, fra De Chirico e il Sogno di una notte di mezza estate, in cui vengono messi a confronto una piccola regina dal cuore di legno e il suo grazioso amico, nello scenario offerto dal balcone di cartapesta, mentre il re dorme? Alla richiesta di sciogliere i lunghi capelli d’oro, lei risponde: «Poeta! non vedete che i miei capelli sono di stoppa?». Lui, dopo qualche battuta, sentenzia: «Siete ironica… Addio!».
Forse un solo poeta può essere posto accanto a Sergio Corazzini: San Francesco. Quasi che nel fondo della semplicità giacesse il segreto di un’arte antica, la bottega artigiana da cui è uscito, come un volo di colombe dal cilindro, il verso novecentesco. È bello leggere i bigliettini che qualche spirito puro continua a depositare sotto i fiori della sua tomba: «Sergio mio, come vedi ogni tanto corro da te in cerca di conforto per la mia anima tormentata…» Così, mentre esco dalla necropoli, tornano a risuonare dentro di me gli ultimi memorabili versi della Morte di Tantalo, nel punto in cui il poeta, con piglio eroico, rompe le catene del tempo: «Andremo per la vita errando per sempre».
Il nonno di Sergio, Filippo Corazzini (sposato con Albina Pera), fu avvocato e funzionario della Dataria Pontificia. In qualità di avvocato, difese il Cardinal Lorenzo Nina, Segretario di Stato Pontificio sotto Papa Leone XIII, a seguito di rivalse di alcuni privati su alcuni beni confiscati dallo Stato all’ex collegio Sistino. Secondo il libro biografico su Sergio Corazzini di Filippo Donini, si disse che i Corazzini fossero imparentati (però non si hanno documenti a tal riguardo e il poeta pare non averne fatto mai menzione) con l’eroe carducciano Eduardo Corazzini, originario di Pieve Santo Stefano, morto per le ferite riportate durante la campagna romana nel 1867.
Per questo la famiglia Corazzini, che si dice romana e papalina, in realtà potrebbe avere origini toscane. Sergio, appartenente ad una famiglia minata dalla tubercolosi (la madre, Carolina Calamani, era cremonese), frequentò qualche anno di scuola elementare a Roma e in seguito, dal 1895 al 1898, si trasferì a Spoleto con il fratello Gualtiero e frequentò il Collegio Nazionale. Ma, a causa delle difficoltà finanziarie in cui si ritrovò la famiglia, il padre Enrico, dimessosi da impiegato al Registro della Dataria Pontificia, fu costretto a ritirare i figli dal collegio.
Sergio continuò il ginnasio a Roma, ma non poté frequentare il liceo perché dovette cercare lavoro presso una compagnia di assicurazioni, “La Prussiana”, per aiutare la famiglia. La compagnia di assicurazione aveva sede in una vecchia casa in via del Corso e la stanza di Sergio era buia e triste, con una finestra ad inferriate che dava sul cortile. Si possono trovare numerosi riferimenti a questo luogo nei versi di Soliloqui di un pazzo. Il passare da una vita agiata alla povertà, dovuta alle errate speculazioni in borsa e al libertinaggio del padre, cambiò completamente le condizioni spirituali del poeta che da questo momento non ebbe certo vita felice (la madre era ammalata di tisi, il fratello Gualtiero morirà della stessa malattia, il fratello Erberto perirà in un incidente d’auto in Libia e il padre morirà in un ospizio).
Amante delle lettere, Sergio non rinunciò tuttavia alla lettura dei suoi poeti preferiti, quelli contemporanei, non solo italiani (la triade Carducci, Pascoli e D’Annunzio), ma anche i provinciali francesi e fiamminghi come Francis Jammes, Albert Samain, Charles Guérin, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Jules Laforgue, e quelli dialettali. Le sue intense letture lo aiutarono nel suo esordio poetico e i suoi primi componimenti apparvero su giornali popolareschi.
Il 17 maggio 1902 scriverà il suo primo sonetto, Na bella idea, in romanesco pubblicato in “Pasquino de Roma” al quale seguirà, il 14 settembre 1902, il sonetto di settenari in lingua, Partenza, pubblicato sul “Rugantino” e dai versi liberi, La tipografia abbandonata, usciti su “Marforio”. Si trattava di versi dai temi realistici che rivelavano, nel giovanissimo autore, una precoce predisposizione ad osservare i fatti della vita. Si trovano in essi allusioni alla malattia già latente e in un sonetto del 1906, Vinto, vi sono amare riflessioni sulla perdita della felicità.
Gli ultimi anni di vita
Nella primavera del 1905 la precaria salute del giovane poeta, malato di tubercolosi, lo costrinse a soggiornare in un sanatorio a Nocera Umbra dove conobbe una giovane danese, Sania, per la quale provò un intenso e platonico innamoramento. Nel giugno dello stesso anno il poeta si recò a Cremona, città natale della madre, per cercare un aiuto economico dai parenti materni e conobbe una giovane pasticciera con la quale inizierà una breve corrispondenza epistolare. Tra il 1904 e il 1906 furono pubblicate le sue raccolte poetiche: Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1906), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Libro per la sera della domenica (1906).
Nel 1906 Corazzini, per l’aggravarsi della malattia, venne ricoverato nella casa dei Fatebenefratelli di Nettuno. Dal sanatorio iniziò la corrispondenza con Aldo Palazzeschi e lavorò alla traduzione della Semiramide di Joséphin Péladan che veniva annunciata su “Vita letteraria” come opera di collaborazione con G. Milelli. Nel maggio del 1907 Corazzini ritornò a Roma ma il suo stato di salute peggiorò e il 17 giugno morì di etisia (tubercolosi) nella sua casa di via dei Sediari. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Poetica
Il crepuscolarismo di Corazzini, che adotta il verso libero e si mostra sensibile alla lezione simbolista, ha anche un forte valore di proposta esistenziale; il poeta si presenta come un fanciullo malato, fino a negare, paradossalmente, il significato di poesia alla sua povera scrittura dell’anima. La sua poesia è focalizzata su “piccole cose”, dietro le quali non emergono valori segreti, ma si nasconde il vuoto, tipico dei poeti crepuscolari tra i quali Corazzini fu annoverato. I suoi versi esprimono da un lato un malinconico desiderio per quella vita che la malattia gli negava, dall’altro un nostalgico ritrarsi dall’esistenza presente, proprio perché avara di prospettive future.
Nelle poesie di Corazzini si possono cogliere due momenti: quello del povero poeta sentimentale che racconta la propria malinconia con un linguaggio semplice e dimesso e quello del poeta ironico che adotta un linguaggio meno trasparente, più polisemico, a volte addirittura simbolico.
In Desolazione del povero poeta sentimentale si esprime tutta la poetica di Corazzini dove il “piccolo fanciullo che piange” proclama l’impossibilità di essere chiamato “poeta”, affermando così, per la prima volta, la concezione della poetica crepuscolare così in contrasto con il trionfante dannunzianesimo.
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie di Rosaria Ragni Licinio, “Viatico per peccatori”
da Ensemble –Rivista Atelier
Rosaria Ragni Licinio (Taranto, 1978) è scrittrice, pittrice e giornalista.Ha fondato il litblog Poesiaealtreparole e lavora in ambito editoriale. Alcune sue poesie sono presenti in antologie e riviste sia nazionali che internazionali, come ad esempio: Metafory Współczesności, (Polonia, 2018), Advaitam Speaks Literary Vol.3-Issue 2 (India, 2019), Frequenze Poetiche (2021), I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese, A. A. V. V. (Marco Saya, 2022), Fissando in volto il gelo, A. A. V. V. (Terra d’Ulivi, 2023). Nel 2021 è risultata tra i vincitori del premio di poesia Marco Di Meola. Interno rosso Marte (Gattomerlino/Superstripes, 2021) è la sua opera prima.
Nascere dall’acqua
nel DNA la deriva
il destino dell’incompiuto
o qualsivoglia vergogna
– la torre del lancio è alta –
resta la paura
e la terra così ansiosa
e la cultura radicata
– quel peccato immorale –
lasciarsi andare
senza sapere la morte.
*
Nessuna carne
la caduta del non essere
soltanto il rumore
la cosa che resta.
Chi muore non assomiglia a nessuno
– nomina l’inizio – ha un altro passo
tolti i giorni alla paura
ruba la notte e le infelicità
d’improvviso spargono stelle.
È successo anche a me
voler recitare la fine
e poi ricevere un pugno.
*
Il giudizio della madre si scontra
dove cade la distanza
e il parlare è cieco
si perde la sagoma di figlia
e la mano nella tasca insiste
il perdono, un cuneo nel petto
tornare bambina
che si svela tardi e scava
un altro sì, una nuova
data di nascita.
*
L’estasi è la nostra consapevolezza
un’altra esperienza del tempo ci fissa
e la schiera di rinnegati risponde
dentro la virtù una totalità
sta per punire l’incendio
l’uomo nudo è in conflitto con la luce
nasconde il marchio della fiamma.
Di questo taglio nessuno s’è accorto
l’isolamento di un dettaglio – la realtà –
l’ultimo vezzo prima di svanire.
*
Ogni giorno staccarsi piano
come le foglie d’autunno
che non sono morte
dimenticare la mancanza di luce
per qualcosa sulla terra
ancora restare.
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Breve biografia di Biagio Accardo è-nato nel 1954 a Santa Ninfa, paese della Valle del Belice, in Sicilia;qui ha risieduto e risiede, e qui ha svolto, per tanti anni, il lavoro di insegnante di scuola primaria, dedicandosi anche al volontariato. Esordisce in ambito letterario nel 1980, partecipando alla “Rassegna internazionale d’Arte Siciliana” – Valle del Belice, promossa dal Comune di Vita (TP). Dopo quell’evento, e fino al 2008, sceglie di coltivare l’esercizio della poesia lontano da ogni evento letterario. Il ritorno al pubblico avviene nel 2009 quando dà alle stampe La notte ha lunghe radici, un libro sostanziato, secondo il quotidiano << La Sicilia>>, “da una forte tensione verso il trascendente”. Nel periodo che va dal 2010 al 2015 sue poesie compaiono su varie riviste e antologie italiane. È del 2016 l’uscita del suo secondo libro, Fratello in ombra (Aletti) che otterrà diversi riconoscimenti in vari concorsi letterari italiani. Il 2019 vede l’uscita di Ascetica del quotidiano (Samuele Editore). Dal 2020 al 2021 alcune sue raccolte inedite ricevono menzioni e segnalazioni in vari concorsi nazionali (Premio Letterario Internazionale Montefiore, Premio Santa Margherita Ligure, Bologna in Lettere, Premio Lorenzo Montano e Città di Como).
Scende ancora una volta la notte,
ma non fu vana la luce
del mattino che alitò
sulle foglie bruciate dal gelo.
Non fu vana, se ora, cedendo
al sonno, stretti a quella luce,
attendiamo l’alba,
i suoi misteriosi volti,
l’ora di poter del cielo rifidare.
*
Chiamami quando avrò finito
di scrivere: sia l’alba
a snudare le parole;
del tuo gusto siano piene,
della tua gioia.
Sappiano di te le mie parole
della tua lingua severa e pura
dove tutto traboccava,
amore e gioia, senza misura.
*
“Guardami” dice, “guarda ciò che di me
resta: sono un sogno che lento
avvizzisce, ed è già lontano il giorno
in cui ognuno di noi oscurò il sole
con una bellezza che fu sfrontata e vera.
Ora resta solo il tempo di salire
e scendere queste irte e dolorose scale,
il tempo di mettere dentro, ai primi tuoni,
le sedie di vimini su cui sedemmo,
su cui provare adesso almeno a dormicchiare.”
Nota di Antonio Fiori
Lascia il segno questa Luce di Biagio Accardo, che prima di apparire ha attraversato l’amore, la memoria, la malattia, le cose, per restituircene il senso, l’eco, un particolare indelebile, finanche: Il fremito degli angoli della casa,/ il balbettio dei posacenere,/ le scarpe nel corridoio,/ le calze spaiate sul tappeto.
Siamo di fronte ad una poesia autoanalitica, capace però di educare il lettore alla stessa introspezione: Io non so cosa ho perso,/ ma ciò che ho perso è solo ciò che sono,/ ciò che resta; e questo poco/ che resta è il solo pane che spezzo. Prezioso come sempre, anche se talvolta doloroso, è il lavorio della memoria.
Nella prima poesia della prima sezione, ad esempio, un incontro fa affiorare pian piano un amore quasi dimenticato: E finalmente ricordo, finalmente/ metto a fuoco un amore antico/ quanto la mia stessa nascita, un amore/ fatto d’un silenzio che più volte m’ha salvato.
Uno dei verbi ricorrenti è ‘guardare’, fatto coniugare spesso dalle persone convocate nel testo: “guarda e non temere”, “guardami”, “guarda”. La sezione eponima della raccolta s’apre con una poesia dove il poeta usa questo verbo all’infinito, nell’estremo tentativo di rivedere la propria madre, dimostrando di avere fatto tesoro della lezione caproniana nell’amara coincidenza del lutto: “Mi ergerò e tornerò a guardare/ se mai io la vedessi tornare./ Sarò con la lucerna in mano,/ il fanale che mio padre accendeva/ per entrare in galleria.”
Un libro coinvolgente, una poesia che alterna parola lirica e parola colloquiale, un autore – insomma – che merita maggiori attenzioni, che intanto iniziano con l’ospitalità nella autorevole collana ‘portosepolto’ di peQuod, diretta da Luca Pizzolitto.
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