Descrizione-La Poesia di Cristina Annino-Questa agile ma sorprendente raccolta di Cristina Annino comparve nella collettanea Nuovi poeti italiani 3 a cura di Walter Siti nel 1984. Mai apparsa di seguito in un volume a sé stante, viene qui riproposta nella sua versione originale. Anche in quest’opera, intitolata L’udito cronico, il canto della compianta autrice toscana si contraddistingue per la sua forza impersonale, eversiva, tinta di un sarcasmo pungente, mai banale. Nella lunga e originale traiettoria compiuta, Annino è difatti sempre rimasta fedele al proprio “fare poesia”, in senso per davvero materico, e in questa silloge ancora una volta la sua scrittura si fonda su una commistione di interessi sia visivi (fu anche originale pittrice) che lirico-musicali, divenendo così un preciso cesello meta-realistico, un patchwork del linguaggio in continua tensione. Si può dunque parlare di poesia pseudo-dadaista, come anche di poesia civile, di un civile però votato al suono, dove il tono affabulatorio e la messa in scena di un irriverente teatrino ritmico-verbale danno vita a una poesia di elementi che giocano in maniera quasi distopica sul tavolo dell’esistenza, in cui l’io (spesso declinato provocatoriamente al maschile) è un automa perennemente in bilico tra evoluzione e disfacimento. Un canto elettrico che sorprende per la sua luminosità prosodica coinvolgendo direttamente il lettore nell’attenzione del mondo tramite l’enunciazione dell’avvenimento, che non è mai qui mera meta-cronaca, bensì concatenazione di possibili realtà, configurazione astrale e terrestre di significato e mistero.
Biografia dell’autore-Cristina Annino (pseudonimo di Cristina Fratini, 1941-2022), è stata scrittrice e poetessa. Dopo gli studi in Lettere Moderne a Firenze dove si laureò con una tesi sulle prose di César Vallejo ha frequentato, sempre a Firenze, il Caffè Paszkowski dove entrò in contatto con il Gruppo ’70, fondato nel 1963 da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Esordì nel 1969, pubblicando, con le edizioni Téchne, Non me lo dire, non posso crederci. Nel 1989 si trasferì a Roma e iniziò a dipingere, tenendo mostre collettive e personali in Italia e all’estero. Tra le altre sue raccolte poetiche si segnalano Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, 1977), Il cane dei miracoli (Bastogi, 1980), Madrid (Corpo 10, 1987 – ex aequo Premio Pozzale Luigi Russo; poi Stampa 2009, 2017), Casa d’aquila (Levante, 2008), Magnificat (Puntoacapo, 2010 – premio Lorenzo Montano), Chanson turca (LietoColle, 2012), Anatomie in fuga (Donzelli, 2016), Le perle di Loch Ness (Arcipelago Itaca, 2019) e il postumo Avatar (Avagliano, 2022). È stata anche autrice di due romanzi: Boiter (Forum/Quinta generazione, 1979) e Connivenza amorosa (Greco&Greco, 2017).
Biografia di Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Giurlani è nato a Firenze nel 1885 ed è morto a Roma nel 1974.Le sue raccolte di poesia: I cavalli bianchi (1905), Lanterna (1907), Poemi (a cura di Cesare Blanc, 1909), E lasciatemi divertire (1910), L’incendiario 1905-1909 (1910), Poesie 1904-1914 (1925), Poesie (1930), Poesie 1904-1914 (1942), Piazza San Pietro (illustrazioni di Mino Maccari, 1945), Difetti 1905 (1947), Viaggio sentimentale (1955), Schizzi italo-francesi (1966), Cuor mio (1968), Via delle cento stelle 1971-1972 (1972), Tutte le poesie (Mondadori, 2002). Tra i suoi romanzi: Il codice di Perelà (1911), Sorelle Materassi (1934), Roma (1953), Il Doge (1967). Ha esordito come poeta crepuscolare, aderendo poi al futurismo. Negli anni successivi, si è fatto interprete di un realismo attraversato da una vena ironica e giocosa
Il Meridiano propone, per la prima volta, tutta l’opera poetica di Aldo Palazzeschi, riproducendo interamente le prime raccolte (praticamente irreperibili, a parte qualche riedizione sporadica), poi riviste e rimaneggiate dall’autore. Perché sia visibile il percorso poetico di Palazzeschi, è proposta anche l’ultima edizione del corpus delle “Poesie”. Il ricco apparato a cura di Adele Dei, docente di letteratura italiana all’Università di Firenze, si giova di numerose fonti documentarie.
POESIE
Chi sono? Chi sono?
Son forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
follìa.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non à che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
malinconia.
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
nostalgìa.
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
dinanzi al mio core,
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Comare Coletta “Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta!”
Smagrita, ricurva, la piccola vecchia
girando le strade saltella e balletta.
Si ferma la gente a guardarla,
di rado taluno le getta denaro;
saltella più lesta la vecchia al tintinno,
ringrazia provandosi ancora
di reggere alla piroetta.
Talvolta ella cade fra il lazzo e le risa:
nessuno le porge la mano.
“Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta!”
– La tua parrucchina, comare Coletta,
ti perde il capecchio!
– E il bel mazzolino, comare Coletta,
di fiori assai freschi!
– Ancora non hanno lasciato cadere
il vivo scarlatto.
– Ricordan quei fiori, comare Coletta,
gli antichi splendori?
– Danzavi nel mezzo ai ripalchi,
n’è vero, comare Coletta?
Danzavi vestita di luci, cosparsa di gemme,
E solo coperta di sguardi malefici, vero?
– Ricordi le luci, le gemme?
– Le vesti smaglianti?
– Ricordi gli sguardi?
– Ricordi il tuo sozzo peccato?
– Vecchiaccia d’inferno,
tu sei maledetta.
“Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta!”
Ricurva, sciancata,
provandosi ancora di reggere alla piroetta,
s’aggira per fame la vecchia fangosa;
trascina la logora veste pendente a brandelli,
le cade a pennecchi di capo il capecchio
fra il lazzo e le risa,
la rabbia le serra la bocca
di rughe ormai fossa bavosa.
E ancora un mazzetto
di fiori scarlatti
le ride sul petto.
“Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta”
La fontana malata Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch…
È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
Sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace…
di nuovo.
Tossisce.
Mia povera
fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla.
Si tace,
non s’ode
rumore
di sorta
che forse…
che forse
sia morta?
Orrore
Ah! No.
Rieccola,
ancora
tossisce,
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
chchch…
La tisi
l’uccide.
Dio santo,
quel suo
eterno
tossire
mi fa
morire,
un poco
va bene,
ma tanto…
Che lagno!
Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno tossire!
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire,
magari…
magari
morire.
Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.
Mia povera
fontana,
col male
che hai,
finisci
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…
I Fiori Non so perché quella sera,
fossero i troppi profumi del banchetto…
irrequietezza della primavera…
un’indefinita pesantezza
mi gravava sul petto,
un vuoto infinito mi sentivo nel cuore…
ero stanco, avvilito, di malumore.
Non so perché, io non avea mangiato,
e pure sentendomi sazio come un re
digiuno ero come un mendico,
chi sa perché?
Non avvevo preso parte
alle allegre risate,
ai parlar consueti
degli amici gai o lieti,
tutto m’era sembrato sconcio,
tutto m’era parso osceno,
non per un senso vano di moralità,
che in me non c’è,
e nessuno s’era curato di me,
chi sa…
O la sconcezza era in me…
o c’era l’ultimo avanzo della purità.
M’era, chi sa perché,
sembrata quella sera
terribilmente pesa
la gamba
che la buona vicina di destra
teneva sulla mia
fino dalla minestra.
E in fondo…
non era che una vecchia usanza,
vecchia quanto il mondo.
La vicina di sinistra,
chi sa perché,
non mi aveva assestato che un colpetto
alla fine del pranzo, al caffè;
e ficcatomi in bocca mezzo confetto
s’era voltata in là,
quasi volendo dire:
“ah!, ci sei anche te”.
Quando tutti si furno alzati,
e si furono sparpagliati
negli angoli, pei vani delle finestre,
sui divani
di qualche romito salottino,
io, non visto, scivolai nel giardino
per prendere un po’ d’aria.
E subito mi parve d’essere liberato,
la freschezza dell’aria
irruppe nel mio petto
risolutamente,
e il mio petto si sentì sollevato
dalla vaga e ignota pena
dopo i molti profumi della cena.
Bella sera luminosa!
Fresca, di primavera.
Pura e serena.
Milioni di stelle
sembravano sorridere amorose
dal firmamento
quasi un’immane cupola d’argento.
Come mi sentivo contento!
Ampie, robuste piante
dall’ombre generose,
sotto voi passeggiare,
sotto la vostra sana protezione
obliare,
ritrovare i nostri pensieri più cari,
sognare casti ideali,
sperare, sperare,
dimenticare tutti i mali del mondo,
degli uomini,
peccati e debolezze, miserie, viltà,
tutte le nefandezze;
tra voi fiori sorridere,
tra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri pura della natura.
Oh! com’è bello
sentirsi libero cittadino
solo,
nel cuore di un giardino.
-Zz… Zz
-Che c’è?
-Zz… Zz…
-Chi è?
M’avvicinai donde veniva il segnale,
all’angolo del viale
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa il décolletè.
-Non dico mica a te.
Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli
che son sulla spalliera,
ma non vale la pena.
Magri affari stasera,
questi bravi figliuoli
non sono in vena.
-Ma tu chi sei? Che fai?
-Bella, sono una rosa,
non m’hai ancora veduta?
Sono una rosa e faccio la prostituta.
-Te?
-Io, sì, che male c’è?
-Una rosa!
-Una rosa, perché?
All’angolo del viale
aspetto per guadagnarmi il pane,
fo qualcosa di male?
-Oh!
-Che diavolo ti piglia?
Credi che sien migliori,
i fiori,
in seno alla famiglia?
Voltati, dietro a te,
lo vedi quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre, la madre, coi figlioli.
Se la intendono… e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola,
la madre col figliolo…
Che cara famigliola!
È ancor miglior partito
farsi pagar l’amore
a ore,
che farsi maltrattare
da un porco di marito.
Quell’oca dell’ortensia,
senza nessun costrutto,
fa sì finir tutto
da quel coglione del girasole.
Vedi quei due garofani
al canto della strada?
Come sono eleganti!
Campano alle spalle delle loro amanti
che fanno la puttana
come me.
-Oh! Oh!
– Oh! ciel che casi strani,
due garofani ruffiani.
E lo vedi quel giglio,
lì, al ceppo di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
-No! No! Non più! Basta
-Mio caro, e ci posso far qualcosa
io,
se il giglio è pederasta,
se puttana è la rosa?
-Anche voi!
-Che maraviglia!
Lesbica è la vaniglia.
E il narciso, quello specchio di candore,
si masturba quando è in petto alle signore.
-Anche voi!
Candidi, azzurri, rosei,
vellutati, profumati fiori…
-E la violaciocca,
fa certi lavoretti con la bocca…
-Nell’ora sì fugace che v’è data…
-E la medesima violetta,
beghina d’ogni fiore?
fa lunghe processioni di devozione
al Signore,
poi… all’ombra dell’erbetta,
vedessi cosa mostra al ciclamino…
povero lilli,
è la più gran vergogna
corrompere un bambino
-misero pasto delle passioni.
Levai la testa al cielo
per trovare un respiro,
mi sembrò dalle stelle pungermi
malefici bisbigli,
e il firmamento mi cadesse addosso
come coltre di spilli.
Prono mi gettai sulla terra
bussando con tutto il corpo affranto:
-Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!
Attilio Bertolucci:C’è un proverbio che dice: “Dovrebbe sempre essere settembre”. Settembre ,un mese mite, dolce, venato appena di nostalgia, di una sottile malinconia. Un mese che i poeti come Attilio Bertolucci sentono vicino al loro cuore-Poesie di :Antonia Pozzi,Attilio Bertolucci,Luigi Pirandello,Leonardo Sciascia,Hermann Hesse,Grazia Rombolini,Forough Farrokhzad, Gabriele D’Annunzio.
ATTILIO BERTOLUCCI, “Sirio”, 1929
SETTEMBRE
Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse
fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi
giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.
SETTEMBRE
Boschi miei
che le nuvole del settembre
lente percorrono
mentre le prime foglie
crollano giù dai rami
e adunano umidore per i sentieri
intanto che nel cielo
gli alberi si denudano —
così come di sera
quando cadono le ombre
giù dalle cime
s’incupisce la terra
e in alto si rivelano
i disegni dei monti
e delle stelle —
miei boschi
vi è tanta pace
in questa vostra muta
rovina
che in pace ora alla mia
rovina penso
e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall’acqua
“Settembre” di Luigi Pirandello
Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.
Pioggia di settembre, Leonardo Sciascia
Le gru rigano lente il cielo,
più avido è il grido dei corvi;
e il primo tuono rotola improvviso
tra gli scogli lividi delle nuvole,
spaurisce tra gli alberi il vento.
La pioggia avanza come nebbia,
urlante incalza il volo dei passeri.
Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;
per la rabbia dei lampi preghiere
cercano le vecchie contadine.
Ma ecco un umido sguardo azzurro
aprirsi nel chiuso volto del cielo;
lentamente si allarga fino a trovare
la strabica pupilla del sole.
Una luce radente fa nitido
Il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;
tra le foglie sempre più rade
splende il grappolo niveo dei pistacchi.
Settembre di Hermann Hesse
Triste il giardino,
cade la fresca pioggia sui fiori
L’Estate trema
tranquillamente verso la fine.
Gocciola una dopo l’altra una foglia d’oro
giù dalla grande acacia.
L’estate sorride con stupore e nostalgia
nel sogno del Giardino morente.
S’attarda tra le rose,
Si ferma desiderosa di pace;
Lentamente chiude i suoi [grandi] occhi pesanti di stanchezza.
****************
September, Hermann Hesse
Der Garten trauert,
kühl sinkt in die Blumen der Regen.
Der Sommer schauert
still seinem Ende entgegen.
Golden tropft Blatt um Blatt
nieder vom hohen Akazienbaum.
Sommer lächelt erstaunt und matt
in den sterbenden Gartentraum.
Lange noch bei den Rosen
bleibt er stehn, seht sich nach Ruh.
Langsam tut er die großen,
müdgewordenen Augen zu.
“Ecco arriva settembre, mese dolce e propizio, di piogge a colorare i prati e di dolci frutti della terra.
Amo settembre, il sole è ancora caldo, si respira ancora aria di gioia e vacanza e qualcosa mi sussurra di sognare e reinventarmi, quasi fosse un nuovo inizio. E’ settembre.”
Settembre
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?
“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.” Il primo giorno di settembre porta con sé la promessa di un nuovo inizio, il che si collega direttamente all’idea di movimento e alla prospettiva di avanzare in una direzione ben precisa.
In un solo verso della poesia I pastori, Gabriele D’Annunzio, il poeta vate, è riuscito ad esprimere entrambe queste sensazioni tipicamente settembrine: l’inizio e il movimento, tramite l’accostamento di due verbi “andare” e “migrare” che appaiono quasi sinonimici, eppure esprimono due moti differenti. L’uso dell’imperativo “andiamo” riflette la necessità di muoversi, di spostarsi, appare come una chiamata alle armi: levatevi, alzatevi, sottintende un incitamento. L’infinito “migrare” invece rimanda all’idea dell’erranza e al proposito della ricerca di un luogo più accogliente, quindi, in breve, al cambiamento.
Nel verso di apertura della lirica I pastori, D’Annunzio esprime una sorta di “passaggio di stato”: dalla stasi al moto, dalla pace alla irrequietezza, tutte sensazioni che, a ben vedere, la fine dell’estate porta con sé.
Settembre è iniziato, è tempo di andare; ciascuno torni alle attività consuete nella stagione che porta il profumo dell’uva matura evocando il tempo della raccolta e della vendemmia.
La poesia I pastori (il cui titolo originale era I pastori d’Abruzzo, Ndr) fu scritta da Gabriele D’Annunzio nel 1903 ed è contenuta nell’ultima sezione dell’Alcyone intitolata Sogni di terre lontane. La raccolta Alcyone rappresenta il vertice massimo della poetica d’annunziana e si presenta come un’autentica celebrazione della natura: nelle cinque sezioni dell’opera infatti il poeta descrive il trionfo della primavera sino all’arrivo dell’autunno. I pastori, ambientata nel tempo mite di settembre che preannuncia l’imminenza della stagione autunnale, rappresenta una delle liriche conclusive.
I pastori di Gabriele D’Annunzio: parafrasi
Settembre è arrivato, è ora di partire.
Adesso, in Abruzzo, i pastori, miei conterranei, lasciano i pascoli montani e scendono verso il mare:
si dirigono verso il mar Adriatico in burrasca che appare verde come i pascoli montani. Lungo il cammino hanno assaporato la dolce acqua delle montagne che ha il sapore delle loro terre e resterà nei loro tristi cuori di migranti per confortarli, affinché la loro nostalgia (della terra natia) sia meno dura.
I pastori hanno fabbricato nuovi bastoni di legno di nocciolo e ora camminano per il sentiero antico che conduce verso la pianura, quasi fosse un fiume d’erba silenzioso, seguendo le orme lasciate dai loro antenati.
È gioiosa la voce di colui che per primo scorge in lontananza il tremolio delle onde del mare. Ora il gregge procede lungo la costa. Il vento tace, mentre il sole si riverbera dorato sul mantello delle pecore, rendendolo di un colore simile alla sabbia.
Il movimento delle onde si accompagna al lento calpestio del gregge, sono rumori dolci.
Ah, perché io non sono con i miei pastori?
I pastori di Gabriele D’Annunzio: analisi e commento
Nella lirica I pastori, Gabriele D’Annunzio compone un idillio pastorale che sembra riflettere lo schema classico, seguendo la tradizione delle Bucoliche virgiliane. Come non associare ai pastori cantati da D’Annunzio, Titiro e Melibeo, i protagonisti della prima ecloga di Virgilio? Anche i pastori abruzzesi di D’Annunzio, proprio come Titiro, sono costretti a partire: ma il loro non sarà un esilio senza ritorno.
La lirica d’annunziana è pervasa da un sentimento di struggente nostalgia, che sembra ben accostarsi ai dolci moti dell’aria di settembre che segna la fine dell’estate. L’imminenza dell’autunno rievoca nel cuore del poeta vate la nostalgia e l’affetto per la propria terra natale, l’Abruzzo. Riportando in vita una delle tradizioni più antiche della propria terra, la pratica della transumanza, D’Annunzio sembra rispondere a questo nostalgico richiamo d’amore.
In quattro strofe in versi endecasillabi il poeta ritrae passo passo il cammino dei pastori che come ogni anno, seguendo una pratica antica, con l’arrivo del vento d’autunno abbandonano i pascoli montani per dirigersi verso le aree costiere. La lirica è chiusa significativamente da un endecasillabo finale, che appare isolato e distaccato dagli altri versi, e ci restituisce intatta la nostalgia del poeta tramite l’emergere della voce dell’Io lirico che improvvisamente si intromette nel canto con un grido accorato: “ah, perché io non sono con i miei pastori?”.
La poesia si apre con un’esortazione: l’invito a partire è dato dall’imperativo “andiamo”. Seguono quindi tutte le varie fasi del viaggio: dalla preparazione (i pastori si abbeverano alle fonti montane e forgiano i bastoni, Ndr) sino al cammino dai monti verso il mare. L’arrivo dei pastori alla meta viene descritto come un momento di quiete, riflette una pace idilliaca: il sole risplende sul manto delle pecore e il loro lento scalpiccio si accompagna allo sciacquio delle onde marine.
D’Annunzio evoca una serie di suoni onomatopeici che si riflettono nelle orecchie dei lettori come dolci rumori familiari, suoni che ci restituiscono l’atmosfera accogliente e piena di grazia di settembre. Ogni nuovo inizio possiede un suono dolce, d’altronde, e ci ricorda che la vita è un continuo “incominciare”.
I pastori di Gabriele D’Annunzio: figure retoriche
Apostrofe: la poesia si apre con un’esortazione “Settembre, andiamo”
Allitterazioni: numerose le allitterazioni dei suoi r e l che danno il ritmo alla poesia. Nel primo verso in particolare la ripetizione del suono “r” produce una ripetizione confortante che suggerisce la presa mnemonica del verso “settembre; migrare; ora; terra”.
Personificazione: il mare Adriatico viene definito “selvaggio” come un uomo straniero o un animale non ancora domato.
Similitudini: il mare è verde come i pascoli dei monti; la lana del gregge è dorata come la sabbia.
Metafora: “erbal fiume silente”, l’erba calpestata dai pastori appare come un fiume silenzioso in cui non s’ode neppure il lento sciabordio dell’acqua. Nel componimento sono frequenti i simboli e le analogie tra i pascoli e il mare.
Onomatopee: “isciacquio; calpestio” sono espressioni che evocano suoni.
Sinestesia: l’espressione “dolci rumori” produce l’accostamento di due sfere sensoriali diverse, quella uditiva e quella del gusto.
Epifrasi: nell’endecasillabo finale, definito dalla domanda retorica “perché io non sono con i miei pastori?” è racchiuso il senso dell’intero componimento, ovvero la nostalgia del poeta che ha dato origine al canto.
Mary Oliver (Maple Heights, 10 settembre 1935 – Hobe Sound, 17 gennaio 2019) è stata una poetessa statunitense. Ha vinto il National Book Award e il Premio Pulitzer. Il New York Times l’ha descritta come “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Poesia fredda
Freddo ora.
Vicino al bordo. Quasi
insopportabile. Nubi
si ammucchiano in alto e ribollono
dal nord dell’orso bianco.
In questo mattino che spacca gli alberi
sogno le sue tracce grasse,
lo strutto salvavita.
Penso all’estate dai frutti luminosi,
boccioli che si arrotondano in bacche, foglie
manciate di granaglie.
Forse ciò che il freddo è, è il momento
in cui misuriamo l’amore che abbiamo sempre avuto, segreto
per le nostre stesse ossa, il duro amore affilato
per il caldo fiume dell’io, oltre ogni cosa; forse
è questo che significa la bellezza
dello squalo blu che incrocia verso le foche che cadono.
Nella stagione della neve
nel freddo incommensurabile
cresciamo crudeli ma onesti, ci manteniamo
vivi
se possiamo, prendendo uno dopo l’altro
i corpi necessari degli altri, i molti
fiori rossi schiacciati.
GIORNO D’ESTATE
Chi ha fatto il mondo?
Chi ha fatto il cigno e l’orso bruno?
Chi ha fatto la cavalletta?
Questa cavalletta, intendo, quella che è saltata fuori
dall’erba,
che sta mangiandomi lo zucchero in mano,
che muove le mandibole avanti e indietro invece che in su e in giù
e si guarda attorno con i suoi occhi enormi e complicati.
Ora solleva le zampine chiare e si pulisce il muso, con cura.
Ora apre le ali di scatto e vola via.
Non so esattamente che cosa sia una preghiera;
so prestare attenzione, so cadere nell’erba,
inginocchiarmi nell’erba,
so starmene beatamente in ozio, so andare a zonzo nei prati,
è quel che oggi ho fatto tutto il giorno.
Dimmi, che altro avrei dovuto fare?
Non è vero che tutto muore prima o poi, fin troppo presto?
Dimmi, che cosa pensi di fare
della tua unica vita, selvaggia e preziosa?
La prossima volta
Quello che farei la prossima volta è guardare
la terra prima di dire qualunque cosa. Mi fermerei
subito prima di entrare in una casa
per un minuto sarei un imperatore
e ascolterei meglio il vento
o l’aria stando immobile.
Quando qualcuno mi parlasse, per
biasimo o lode, o solo passatempo,
guarderei la faccia, come la bocca
deve funzionare, e vedrei ogni tensione, ogni
segno di cosa ha alzato la voce.
E nonostante tutto, saprei di più – la terra
che si rinforza e si libra, l’aria
che trova ogni foglia e piuma al di sopra
di foresta e acqua, e per ogni persona
il corpo che risplende dentro gli abiti
come una luce.
IL VIAGGIO
Un giorno, finalmente, hai capito
quel che dovevi fare, e hai cominciato,
anche se le voci intorno a te
continuavano a gridare
i loro cattivi consigli-
anche se la casa intera
si era messa a tremare
e sentissi le vecchie catene
tirarti le caviglie.
“Sistema la mia vita!”,
gridava ogni voce.
Ma non ti fermasti.
Sapevi quel che andava fatto,
anche se il vento frugava
con le sue dita rigide
giù fino alle fondamenta, anche se la loro malinconia
era terribile.
Era già piuttosto tardi,
una notte tempestosa,
la strada era piena di sassi e rami spezzati.
Ma poco a poco,
mentre ti lasciavi alle spalle le loro voci,
le stelle si sono messe a brillare
attraverso gli strati di nubi
e poi c’era una nuova voce
che pian piano
hai riconosciuto come la tua,
che ti teneva compagnia
mentre procedevi a grandi passi,
sempre più nel mondo,
determinata a fare
l’unica cosa che potevi fare-
determinata a salvare
l’unica vita che potevi salvare.
LE OCHE SELVATICHE
Non devi essere buono.
Non devi camminare sulle ginocchia
Per centinaia di miglia nel deserto, per espiare.
Devi solo lasciare che il delicato animale del tuo corpo
ami ciò che ama.
Parlami della disperazione, la tua, e io ti parlerò della mia.
Intanto il mondo va avanti.
Intanto il sole e le luminose perle di pioggia
Si stanno spostando attraverso il paesaggio,
sopra le praterie e gli alberi profondi,
le montagne e i fiumi.
Intanto le oche selvatiche, alte nella pulita aria blu,
di nuovo si stanno dirigendo verso casa.
Chiunque tu sia, non importa quanto solo ti senta,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti chiama come le oche selvatiche, stridenti ed eccitanti –
annunciando ripetutamente il tuo posto
nella famiglia delle cose.
Gufi bianchi volano dentro e fuori i campi
Venendo giù
dal cielo gelido
con le sue profondità di luce,
come un angelo, o un Buddha con le ali,
era bello e preciso,
battendo le neve e qualsiasi cosa fosse là
con una forza che lascia l’impronta
della punta delle sue ali – distanti un metro e mezzo –
e l’impeto predatore delle sue zampe,
e il segno di ciò che stava rincorrendo
attraverso le bianche valli della neve –
e allora si è levato, graziosamente,
ed è volato via nuovamente verso le paludi ghiacciate,
per appostarsi là, come un piccolo faro,
nelle ombre blu –
così pensai:
forse morte
non è oscurità, dopo tutto,
ma così tanta luce che si avvolge attorno a noi –
soffice come piume.
Noi, istantaneamente stanchi di guardare, e guardare,
chiudiamo i nostri occhi, non senza meraviglia,
e ci lasciamo trasportare,
come attraverso la translucenza della mica,
al fiume che è senza la ben che minima ombra o macchia –
che è nulla se non luce – bruciante e aortica luce –
in cui siamo lavati e lavati
dalle nostre ossa.
DICHIARA PACE
Dichiara pace con il tuo respiro.
Inspira uomini d’arme e d’attrito, espira edifici interi e stormi di merli dalle ali rosse.
Inspira terroristi ed espira bambini che dormono e campi appena falciati.
Inspira confusione ed espira alberi di acero.
Inspira quanto è caduto ed espira amicizie di tutta una vita ancora intatte.
Dichiara pace con il tuo ascolto: quando senti sirene, prega ad alta voce.
Ricorda quali sono i tuoi strumenti: semi di fiori, spilli da vestiti, fiumi puliti.
Prepara una minestra.
Fai musica, impara come si dice grazie in tre lingue diverse.
Impara a fare la maglia, e fai un cappello.
Pensa al caos come mirtilli che danzano,
immagina il dolore come l’espirazione della bellezza o il gesto del pesce.
Nuota per andare dall’altra parte.
Dichiara pace.
Il mondo non è mai apparso così nuovo e prezioso.
Bevi una tazza di tè e rallegrati.
Agisci come se l’armistizio fosse già arrivato.
Non aspettare un altro minuto.
Solitari, bianchi campi
Ogni notte
il gufo
con la sua scimmiesca faccia selvaggia
lancia il suo richiamo di tra i rami neri,
e i topi hanno freddo
e i conigli rabbrividiscono
nei campi innevati –
e allora si apre la lunga, profonda valle del silenzio
quando egli smette il suo canto e si lancia
in aria.
Io non so
quale sia della morte lo scopo
ultimo, ma penso
questo: chiunque sogni di tenere la sua
vita in pugno
anno dopo anno per centinaia di anni
non ha mai considerato il gufo –
come egli viene, esausto,
attraverso la neve,
attraverso gli alberi ibernati,
superati tronchi e piante,
tirandosi fuori da stalle e campanili,
girando per questa e quella via
attraverso le maglie di qualunque ostacolo –
fermato da nulla –
riempiendosi momento dopo momento
di una gioia rossa e digeribile,
lanciandosi a falce dai campi solitari e bianchi –
e come al mattino,
come se ogni cosa fosse
come deve essere, i campi
si fanno intensi di luce rosa,
il gufo scompare
dietro tra i rami,
la neve va a cadere
fiocco dopo perfetto fiocco.
Mary Oliver was an “indefatigable guide to the natural world,” wrote Maxine Kumin in the Women’s Review of Books, “particularly to its lesser-known aspects.” Oliver’s poetry focused on the quiet of occurrences of nature: industrious hummingbirds, egrets, motionless ponds, “lean owls / hunkering with their lamp-eyes.” Kumin also noted that Oliver “stands quite comfortably on the margins of things, on the line between earth and sky, the thin membrane that separates human from what we loosely call animal.” Oliver’s poetry won numerous awards, including the Pulitzer Prize, the National Book Award and a Lannan Literary Award for lifetime achievement. Reviewing Dream Work (1986) for the Nation, critic Alicia Ostriker numbered Oliver among America’s finest poets, as “visionary as [Ralph Waldo] Emerson.”
Mary Oliver was born and raised in Maple Hills Heights, a suburb of Cleveland, Ohio. She would retreat from a difficult home to the nearby woods, where she would build huts of sticks and grass and write poems. She attended both Ohio State University and Vassar College, but did not receive a degree from either institution. As a young poet, Oliver was deeply influenced by Edna St. Vincent Millay and briefly lived in Millay’s home, helping Norma Millay organize her sister’s papers. Oliver is notoriously reticent about her private life, but it was during this period that she met her long-time partner, Molly Malone Cook. The couple moved to Provincetown, Massachusetts, and the surrounding Cape Cod landscape has had a marked influence on Oliver’s work. Known for its clear and poignant observations and evocative use of the natural world, Oliver’s poetry is firmly rooted in place and the Romantic nature tradition. Her work received early critical attention; American Primitive (1983), her fifth book, won the Pulitzer Prize. According to Bruce Bennetin the New York Times Book Review, American Primitive, “insists on the primacy of the physical.” Bennet commended Oliver’s “distinctive voice and vision” and asserted that the “collection contains a number of powerful, substantial works.” Holly Prado of the Los Angeles Times Book Review also applauded Oliver’s original voice, writing that American Primitive “touches a vitality in the familiar that invests it with a fresh intensity.”
Dream Work (1986) continues Oliver’s search to “understand both the wonder and pain of nature” according to Prado in a later review for the Los Angeles Times Book Review. Ostriker considered Oliver “among the few American poets who can describe and transmit ecstasy, while retaining a practical awareness of the world as one of predators and prey.” For Ostriker, Dream Work is ultimately a volume in which Oliver moves “from the natural world and its desires, the ‘heaven of appetite’ … into the world of historical and personal suffering. … She confronts as well, steadily,” Ostriker continued, “what she cannot change.”
The transition from engaging the natural world to engaging more personal realms was also evident in New and Selected Poems (1992), which won the National Book Award. The volume contains poems from eight of Oliver’s previous volumes as well as previously unpublished, newer work. Susan Salter Reynolds, in the Los Angeles Times Book Review, noticed that Oliver’s earliest poems were almost always oriented toward nature, but they seldom examined the self and were almost never personal. In contrast, Oliver appeared constantly in her later works. But as Reynolds noted “this self-consciousness is a rich and graceful addition.” Just as the contributor for Publishers Weekly called particular attention to the pervasive tone of amazement with regard to things seen in Oliver’s work, Reynolds found Oliver’s writings to have a “Blake-eyed revelatory quality.” Oliver summed up her desire for amazement in her poem “When Death Comes” from New and Selected Poems: “When it’s over, I want to say: all my life / I was a bride married to amazement. / I was the bridegroom, taking the world into my arms.”
Oliver continued her celebration of the natural world in her next collections, including Winter Hours: Prose, Prose Poems, and Poems (1999), Why I Wake Early (2004), New and Selected Poems, Volume 2 (2004), and Swan: Poems and Prose Poems (2010). Critics have compared Oliver to other great American lyric poets and celebrators of nature, including Marianne Moore, Elizabeth Bishop, Edna St. Vincent Millay, and Walt Whitman. “Oliver’s poetry,” wrote Poetry magazine contributor Richard Tillinghast in a review of White Pine (1994) “floats above and around the schools and controversies of contemporary American poetry. Her familiarity with the natural world has an uncomplicated, nineteenth-century feeling.”
A prolific writer of both poetry and prose, Oliver routinely published a new book every year or two. Her main themes continue to be the intersection between the human and the natural world, as well as the limits of human consciousness and language in articulating such a meeting. Jeanette McNew in Contemporary Literature described “Oliver’s visionary goal,” as “constructing a subjectivity that does not depend on separation from a world of objects. Instead, she respectfully conferred subjecthood on nature, thereby modeling a kind of identity that does not depend on opposition for definition. … At its most intense, her poetry aims to peer beneath the constructions of culture and reason that burden us with an alienated consciousness to celebrate the primitive, mystical visions that reveal ‘a mossy darkness – / a dream that would never breathe air / and was hinged to your wildest joy / like a shadow.’” Her last books included A Thousand Mornings (2012), Dog Songs (2013), Blue Horses (2014), Felicity (2015), Upstream: Selected Essays (2016), and Devotions: The Selected Poems of Mary Oliver (2017).
Mary Oliver held the Catharine Osgood Foster Chair for Distinguished Teaching at Bennington College until 2001. In addition to such major awards as the Pulitzer and National Book Award, Oliver received fellowships from the Guggenheim Foundation and the National Endowment for the Arts. She also won the American Academy of Arts & Letters Award, the Poetry Society of America’s Shelley Memorial Prize and Alice Fay di Castagnola Award.
Oliver lived in Provincetown, Massachusetts, and Hobe Sound, Florida, until her death in early 2019. She was 83.
Cenni biografici di Mary Oliver
Mary Oliver (Maple Heights, 10 settembre 1935 – Hobe Sound, 17 gennaio 2019) è stata una poetessa statunitense. Ha vinto il National Book Award e il Premio Pulitzer. Il New York Times l’ha descritta come “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
– Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Rosa Leveroni i Valls neix a Barcelona l’1 d’abril del 1910 en el si d’una família de la mitjana burgesia. El seu pare, descendent d’una família d’armadors de vaixells de Gènova, fa de gerent d’un magatzem de metalls, i la seva mare, de mestra. Fa els primers estudis al col·legi Príncep d’Astúries i, posteriorment, fins als dotze anys, a les Dames Negres del passeig de Gràcia.
Als quinze anys publica els seus primers versos a la revista Patufet, i comença a tenir clara la seva vocació literària. Tot i que el seu pare la pressiona perquè es dediqui al negoci familiar, als dinou anys, coincidint amb la caiguda de la dictadura de Primo de Rivera, entra a l’Escola de Bibliotecàries, que aleshores dirigeix Jordi Rubió. Aquesta institució, fundada per Eugeni d’Ors, té com a professors alguns dels intel·lectuals catalans més brillants del moment (Carles Riba, Ferran Soldevila, Nicolau d’Olwer, Rafael de Campalans). L’estada a l’Escola de Bibliotecàries i, en especial, la coneixença de Carles Riba, és cabdal en la formació intel·lectual i personal de Leveroni.
L’any 1933 rep una beca per anar a Madrid a fer una tesina sobre literatura infantil. En tornar, entra a treballar a la biblioteca de la Universitat Autònoma de Barcelona. Durant la guerra civil fa dos cursos de la carrera de Filosofia i Lletres. L’any 1937 és finalista al premi Joaquim Folguera amb el llibre Epigrames i cançons, que publica l’any 1938, prologat per Carles Riba. La influència ribiana i, en general, de tota la generació postsimbolista és molt present en aquest volum. Els temes que hi apareixen seran els que es repetiran durant tota la seva obra: la tristesa, la desolació amorosa, la melangia…, sentiments continguts i objectivats gràcies a la disciplina del vers.
El 1939, després de la Guerra Civil, la depuració de funcionaris de la Generalitat fa que perdi la feina com a bibliotecària de la Universitat Autònoma. Durant la dècada dels quaranta, Leveroni dedica tota la seva energia a la resistència cultural catalana enfront de la repressió franquista, i es converteix en l’ànima del grup intel·lectual que Carles Riba forma al seu voltant. És ella qui distribueix clandestinament les Elegies de Bierville de Riba, qui actua de contacte entre els intel·lectuals catalans de l’interior i els de l’exili, i és una de les primeres col·laboradores de la revista Poesia (fundada el 1940) i de la revista Ariel (fundada el 1946).
L’any 1952 publica un segon volum de poesia, Presència i record, prologat per Salvador Espriu. La mort del seu pare, l’obliga a centrar-se en el negoci familiar. En aquesta època assisteix assíduament als congressos de literatura catalana que se celebren a Anglaterra, organitzats per la Catalan Society, entitat de la qual és membre. Durant les dècades dels seixanta i dels setanta, la seva figura es manté cada vegada més apartada i aïllada de l’escena literària catalana, fet al qual també contribueix el seu silenci poètic.
L’any 1981 publica el volum Poesia, que recull tota la seva obra poètica, amb pròleg de Maria Aurèlia Capmany i dos epílegs de Carles Riba i Salvador Espriu, escrits respectivament el 1938 i el 1950 i que havien prologat els dos reculls poètics. L’any següent, el conjunt de la seva obra és reconegut amb l’atorgament de la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Mor el 4 d’agost del 1985, poc abans que es publiqui un volum de contes que recull la seva producció narrativa. És enterrada a Port-Lligat.
Rosa Leveroni-Poesia”PRESENZA E RICORDO”
*
Con il grigiore di questo cielo,
l’argento dell’ulivo
deve sembrare il tocco di un pennello
dalla fine trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava l’oscurità.
Tutta la luce è rimasta
sul ramo d’ulivo.
Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
(Presència i record. Barcelona: Edicions de l’Óssa Menor, 1952)
* * *
Elegies dels dies obscurs
III
Desmai de cap al tard damunt de l’aigua
adormida del port. Els núvols grisos
deixaven la tristesa de sentir-se
orfes del seu rosat botí de posta,
sobre el mirall opac. L’ala del somni
ratllava les cobertes treballades
d’un íntim cansament. Ja cap bandera
no ornava els mastelers. I les desferres
dels bots abandonats eren la muda
crida del desesper. Els nostres passos
ressonaven pel moll i les paraules
foren el lent sospir de la nostàlgia
d’un viatge mai fet… Ah! les inútils
veles del mort desig, ¿com desplegar-les
al vent que no vindrà per a portar-nos
al goig del mar obert, a l’alegria
de les ones batents, si els braços àvids
d’aquest port desolat ens retenien?
VIII
Aquest so greu de corda adolorida
que subratlla el meu cant, és la penyora
deixada per la mort perquè et recordi,
amor adolescent. És la teva ombra
que en l’alta solitud dels camins aspres,
el braç acollidor, va fer-me ofrena
d’aquest repòs segur, oh flama pura
del meu amor passat, present encara
en el somriure las d’un món que porta
el pes de tots els morts en les florides
de cada primavera renovada.
Ets el meu port tancat on de l’inútil
navegar porcel·lós veig la tristesa
i el conhortament… Ombra benigna
que m’acompanya el cant atemperant-lo
amb unes notes greus, serva’m els braços
eternament oberts…
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen,
ignorant cap a on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el festeig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya
s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres
vetllant un rierol,
i coneixen el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres,
mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Jo porto dintre meu
per fer-me companyia
la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra,
aire i sol, mar i estrella,
perquè fossis més meu,
perquè jo fos més teva.
(Epigrames i cançons. Barcelona: Gustau Gili, 1938)
Antologia
Alcune poesie
Con il grigiore di questo cielo
l’argento de l’olivera
deve sembrare il tocco di un pennello
di una raffinata trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava la tenebra.
Tutta la luce è andata
al brancam de l’olivera.
(Presenza e ricordo. Barcellona: Edizioni dell’orso minore, 1952)
* * *
Elegies dels muore oscurs
III
Svenendo nel pomeriggio in acqua
sonno dal porto. Le nuvole grigie
hanno lasciato la tristezza dei sentimenti
Orfani con il loro sedere rosa,
sullo specchio opaco. L’ala del sogno
graffiato i ponti lavorati
di una stanchezza intima. Nessuna bandiera più
niente Ornava els Mastelers. I les desferres
delle barche abbandonate erano i muti
grido di disperazione. I nostri passi
risuonava attraverso il molo e le parole
Erano il lento sospiro della nostalgia
da un viaggio mai fatto… Ah! Ah! quelli inutili
candele del desiderio di morte, come aprirle
al vento che non verrà a prenderci
alla gioia del mare aperto, alla felicità
delle onde battenti, se l’avidità braccia
Ci hanno tenuti lontano da questo porto desolato?
VIII
Quel serio suono di corda dolorante
che sottolinea il mio canto, è la penyora
lasciato alla morte per ricordarti,
amore adolescenziale. È la tua ombra
che nell’alta solitudine delle strade aspre,
il braccio di accoglienza, mi ha fatto un’offerta
di questo riposo sicuro, oh fiamma pura
dal mio amore passato, presente ancora
nel sorriso quelli di un mondo che porta
il peso di tutte le morti in Florida
di ogni primavera rinnovata.
Sei il mio porto chiuso dove dell’inutilità
surf in porcellana vedo la tristezza
I el conhortament… Ombra benigna
che mi accompagna la canzone temprandola
Sul serio, servi le mie braccia
eternamente aperto…
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Seguite i sentieri che conducono i campi,
ignorante cappuccio a sul furgone,
amato da un profumo di terra morbida
Non posso errívol.
E prendono i colori caldi del rame
con un bacio dal sole che tramonta,
e cieli d’amore, sotto i rami,
la festa del popolo.
Seguite i sentieri per la vigna
stanno allineando la costa,
E hanno la sete e lo sguardo
un bell gotim un punt.
Per favore seguite i sentieri tra pollancre
vegliare su un torrente,
E conoscono il volo delle borse di studio,
il gioco della pioggia e del sole…
Amo tutte le strade, anche le più dure,
purché siano aperti
E hanno messo un nuovo tremore alla frutta
nei miei sensi svegli.
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Porto dentro di me
per farmi compagnia
solo la solitudine.
La solitudine immensa
amarla infinitamente
Voglio essere la terra,
Aire i sol, mar i estrella,
perché tu eri più mio,
in modo che potessi essere più come te.
(Epigrammi e canzoni. Barcellona: Gustau Gili, 1938)
Rosa Leveroni (Barcelona, 1910-1985). Poeta i narradora. La seva poesia es troba influïda pel mestratge de Carles Riba, tant en els models formals com en el refús de la superficialitat i el barroquisme. La seva obra és breu i es troba recollida en dos volums: Poesia (1981) i Contes (1985). Conrea també l’assaig i la crítica literària (sobre Ausiàs March, especialment). Durant la postguerra desenvolupa una tasca important en la represa de la cultura i la llengua catalanes. L’any 1982 és reconeguda amb la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Va ser una de les primeres membres i, posteriorment, sòcia d’honor de l’Associació d’Escriptors en Llengua Catalana.
Rosa Leveroni (Barcellona, 1910-1985). Il poeta e il cantastorie. La sua poesia è influenzata dalla maestria di Carles Riba, sia nei modelli formali che nel rifiuto della superficialità e del barocco. Il suo lavoro è breve ed è raccolto in due volumi: Poesia (1981) e Racconti (1985). Coltiva anche saggio e critica letteraria (soprattutto su Ausiàs March) Nel dopoguerra sviluppa un importante compito nel restauro della cultura e della lingua catalana. L’anno 1982 è riconosciuta con la Croce di San Giorgio della Generalitat di Catalogna.
POEMES DE ROSA LEVERONI
VI TARDA DE POESIA
20 D’ABRIL DE 2022
AULES DE DIFUSIÓ CULTURAL DE LA GARROTXA
POEMES DE ROSA LEVERONI
PÒRTIC
del llibre Epigrames i cançons, 1938
Jo porto dintre meu per fer-me companyia la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra, aire i sol, mar i estrella, perquè fossis més meu, perquè jo fos més teva.
ELS RECORDS III
Jo fos per tu aquesta cançó tan dolça que desgrana el molí;
aquest oreig suau que t’agombola perfumant-te el matí.
Fos el flauteig dels tòtils a la tarda en la calma dels horts.
Si fos aquesta pau que t’acompanya en el repòs dels ports …
o fos la punxa de la rosa encesa d’un desig abrandat; aquell record d’una hora de follia, d’aguda voluptat.
Si fos l’enyorament d’uns braços tendres que varen ser-te amics,
o bé la revifalla rancorosa d’aquells menyspreus antics.
Si jo no fos per tu record amable, fos almenys un neguit,
un odi o un dolor, una recança … Ho fos tot, menys l’oblit.
(del llibre Presència i record, 1952)
CANÇÓ DE LES BESADES
El primer bes que florí,
te’n recordes?, jo el donava. Tu em prengueres el segon vora del riu que cantava.
I després ja començà
el rosari de besades.
Unes amb regust de sol
i neu dalt de la muntanya. Altres amb claror d’estels
i perfum de lluna clara.
Totes d’un encantament
que ens feia les hores calmes …
D’aquell rosari passat,
sols el record m’acompanya i la recança també,
amor, si tu l’oblidaves.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
ABSÈNCIA I
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis,
i sóc tan lluny de l’amat!… Sols tinc la mar per companya; ella bé prou que em somriu dins la cala arredossada.
Em somriuen els estels i la lluna niquelada,
el campanar cimejant
i la vela ben inflada,
i la gavina en ple vol,
i el peix fugint de la xarxa…
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis! Si sóc tan lluny de l’amat
res dintre meu ja no canta.
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
No vull el mirall del mar, ni l’estelada florida;
ni claror de cels novells, ni encetar cap nova via.
Vull la dolçor del teu braç abraçant la meva vida; vull la claror dels teus ulls i la teva veu amiga.
XXIII
ABSÈNCIA VII
Em pren la calma dels camps quan l’hora esdevé rogenca.
I la quietud de la mar
quan els vents dormen la sesta. I mentre vola l’ocell
l’ànima esdevé lleugera …
Saber-te lluny sense dol
em fa ressò de miracle.
Ara, però, veig el món
amb la claror que m’encanta de tenir-te dintre meu,
que fa que no em cal pensar-te.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
CANÇÓ D’UN SETEMBRE
Era una coma d’oliveres
amb una casa i un camí,
al capdavall dues figueres
fent ombra fresca a un doll molt fi.
Era migdia. Reposava
la vinya negra de gotims; vora el portal un gall cantava; es feinejava porta endins.
Aquella font era tan clara, era tan net aquell cel blau … Omplia el pit la joia avara
i la llangor fou tan suau!…
Jo no sabia que l’amava
però en sos ulls em vaig mirar … Des d’aleshores l’estimava,
ja no he sabut què és oblidar.
(del llibre Presència i record, 1952)
Vull sentir-te com arrel
dins la foscor beneïda d’aquesta terra vivent
de nostra amor compartida.
(del llibre Presència i record, 1952)
CLAROR DAURADA
És la claror daurada de la posta d’un dia de tardor
que veig en els teus ulls i que m’ofrenen la teva tremolor.
És aquell deix cansat, com d’arribada després de tràngols forts
a l’esperat recer, on tots els somnis troben la pau dels ports.
És el somriure lleu, la veu sonora d’haver estimat ja tant,
que em prenen dolçament i se m’emporten sense saber on van…
(del llibre Presència i record, 1952)
ELS CAMINS III TEMA AMB VARIACIONS
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen ignorant cap on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el fresseig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres vetllant un rierol,
i coneixent el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres, mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(del llibre Presència i record, 1952)
COLOR DEL TEMPS
Clavellines als balcons,
parets blanques, fustes blaves. Esclat de llum: campanar; randes albes a les platges. Tocs de mel en la claror;
verds i blaus, joies de l’aigua …
Quin perfum primaveral ofrenaves, vila amable! …
(del llibre Presència i record, 1952)
Si jo tingués un veler sortiria a pesca d’albes. Encalçaria els estels
per posar-me’n arracades.
Si jo tingués un veler, totes les illes i platges
em serien avinents
per al somni i les besades.
Si jo tingués un veler,
en cap port faria estada. El món fóra dintre seu,
ai amor, si tu hi anaves …
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges on d’aquest meu navegar pugui reposar les ales.
Tots els camins de la mar un a un se’m refusaven; sols els ports resten oberts amb l’agombol de les cases.
Les veles han desertat
tots els vents que les tibaven. L’estrella signa el retorn
al vell sofrir delectable.
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges …
(del llibre Poesia, 1981)
GLOSES MALLORQUINES
Si bastiment hi havia
que fadrines se’n dugués vestides de mariners,
jo la de davant seria.
Tota la mar trescaria, estimat meu, sols que us ves.
Totes les illes hauria
per a bescanvi d’un bes. Pirates i bandolers
a tots ells jo robaria,
i res no m’aturaria
si els teus braços jo trobés.
Els teus llavis jo tindria com a més segur recés. Pirates i mariners
i moros de moreria,
res ja no m’espantaria
si en els teus ulls em negués…
III
GLOSES MALLORQUINES VII
Vós heu robat i robeu
i vós sou la robadora;
el cor m’heu robat, senyora, i l’ànima em pledegeu.
Vós teniu tot l’amor meu,
no en voleu ser sabedora. Vós jugueu amb mi, senyora, i potser vos arrisqueu.
El cor m’heu robat, senyora, potser el vostre hi perdereu. És molt cara la penyora, mireu, senyora, el que feu!
L’enamorar enamora
i, si l’ànima em voleu, mireu-me als ulls, missenyora, que dins ells la trobareu.
El cor m’heu robat, senyora. Ara el vostre me’l deveu.
(del llibre Presència i record, 1952)
Tota la mar trescaria
si prop meu sempre et tingués!
(del llibre Presència i record, 1952)
VOLDRIA QUE EL MEU CANT FOS COM UNA ALBA
Voldria que el meu cant fos com una alba secreta per a tots,
i només un de sol capís els signes
dels inefables mots.
Voldria que el meu cant fos com l’alosa o com el dia clar,
que posen en el cel la seva joia
sense res esperar.
Voldria que el meu cant fos com un himne de gràcies per la sort
de trobar dintre meu tot el misteri
de la vida i la mort.
(del llibre Poesia, 1981)
TESTAMENT
Quan l’hora del repòs hagi vingut per a mi vull tan sols el mantell d’un tros de cel marí. Vull el silenci dolç del vol de la gavina dibuixant el contorn d’una cala ben fina; l’olivera d’argent, un xiprer més ardit
i la rosa florint al bell punt de la nit;
la bandera d’oblit d’una vela ben blanca
fent més neta i ardent la blancor de la tanca. I saber-me que sóc, en el redós suau,
un bri d’herba només de la divina pau.
(del llibre Poesia, 1981)
Donem les gràcies a totes les persones que han fet possible aquesta VI Tarda de Poesia:
ALS QUI HAN LLEGIT TEXTOS EN PROSA:
Reflexions i records de Rosa Leveroni Carta de Salvador Espriu
A LES LECTORES I LECTORS DE POEMES:
Pòrtic
Els records
Cançó de les besades
Rosa encesa del desig …
No vull el mirall del mar …
Els camins
Color del temps
Claror daurada
Si jo tingués un veler …
Glosses mallorquines: Si bastiment hi havia … Voldria que el meu cant fos com una alba Testament
A L’ÀNGEL GIRONA, MÚSIC VERSIONADOR I INTÈRPRET:
Em pren la calma dels camps
Cançó d’un setembre
Glosses mallorquines: Vós heu robat i robeu … Són les illes del record …
A L’EDITOR DEL POWER POINT:
Glòria Llinàs Francesc Bragulat
Maria Biarnés Montse Delgà Conxita Ayats Margarida Arau Tura Tarrús Roser Melià Montse Trubat M. Teresa Roura Pilar Gurt
Spoltore(Pescara) il primo festival dedicato alla scrittura d’amore
La poesia internazionale a Spoltore per il primo festival dedicato alla scrittura d’amore – Scrive la poetessa palestinese di Gaza Dunya al-‘Amal Ismail: “Avessi scelta/ nasconderei la mia stanca età in un armadio segreto/ irraggiungibile dagli aerei da guerra/ e raccoglierei la mia anima in un cesto di rose./ Avessi scelta/ rammenderei il cappotto della nostalgia/ e ricamerei lune di speranza per due innamorati/ che rubano un bacio tra un bombardamento, una tregua e un fugace attimo d’amore”.
A lei fa eco Elham Hamedi, poetessa iraniana: “Le mani dell’amore sono diventate blu nel bagno del tempo/ E ancora i miei capelli/ Come un pesce ubriaco/ Nelle mani di un amore, non sanno dove andare/ Il dubbio nel comprendere la luce mi ha avvicinato al baricentro dell’acqua/ Il mondo fa un passo avanti e due passi indietro a differenza della mente in movimento di un albero/ Il mondo trema sotto la pelle della guerra con la sosta di uno sguardo sbagliato/ Spara le tue mani blu nell’oscurità/ Forse la luna respira ancora nell’inconscio di uno stagno/ Le tue mani blu sono un pentagramma/ Una versione dei cinque elementi della natura/ Inizia ad accarezzare i capelli disordinati del mondo/ Forse la pioggia della tua mano porterà un vicolo ai miei passi/ E anche una finestra nelle mani di una donna per respirare”. Saranno le due scrittrici a ricevere il premio internazionale e della Giuria nell’ambito della prima edizione del Premio Città di Spoltore.
Inni poetici alla pace e all’amore risuoneranno nella Piazza D’Albenzio di Spoltore, dove si svolgeranno venerdì 6 settembre e sabato 7 settembre alle 18 e 30, le iniziative previste per il “Festival Scrittura d’Amore”, culminanti nella inaugurazione della prima piazza del mondo “Messaggera d’Amore” che rientra nell’ambito di “Interamiamoci”, un progetto che vuole promuovere l’unione dei popoli in nome dei messaggi dell’amore, per creare una rete di solidarietà e di rispetto e di cura per la vita di tutte le creature.
Massimo Pamio, direttore del Museo della Lettera d’Amore, che ha promosso l’iniziativa con la parrocchia di Torrevecchia Teatina, specifica che: “I messaggi d’amore provenienti da tutto il mondo saranno raccolti e conservati fisicamente presso il Museo della Lettera d’Amore e digitalizzati. Ci proponiamo di creare un Comitato internazionale dell’Unione dei Popoli attraverso messaggi d’amore; ogni anno il Comitato deciderà di compiere il gesto simbolico di portare fisicamente tutti i messaggi raccolti in un luogo abbisognevole. Ogni anno verranno raccolti i messaggi e promosso un incontro internazionale nel corso del quale si sosterrà il progetto di proclamare nel pianeta un minuto di raccoglimento in cui venga condiviso il pensiero dell’amore verso tutti gli altri esseri umani e verso tutte le creature”.
L’iniziativa, promossa dal Comune di Spoltore, è organizzata da Abruzziamoci odv in collaborazione con il Museo Lettera d’Amore, In Service srl, l’associazione Il pensiero divergente, e i contributi dell’Azienda Biologica Alfredo D’Eusanio e di Julia Gas. Il 6 settembre la cerimonia di consegna del premio di poesia d’amore “Marco Tornar”, ospiti Francesca e Lorenza Tornar, che ricorderanno lo scrittore abruzzese. Presenteranno Anna Di Giorgio e Antonella De Collibus, che introdurranno il Sindaco Dott.ssa Chiara Trulli e l’Assessore alla Cultura Dott.ssa Nada Di Giandomenico per i saluti istituzionali.
“E’ con orgoglio” – sottolinea il sindaco Chiara Trulli – “che diamo il via a una manifestazione culturale di così alto livello, che coinvolge alcune delle personalità letterarie più valide e apprezzate e crea un premio prestigioso legato al nome della nostra città. Ringrazio gli amministratori comunali e tutti i volontari delle associazioni che hanno reso possibile questa due giorni che, ne sono certa, potrà avere un seguito e continuare a migliorarsi nel futuro”.
Seguirà una lettura da Florilegio d’amore, con Enrico Guerra e Cam Lecce. La giuria formata da Nicoletta Di Gregorio (Presidente), Annamaria Giancarli, Enrico Guerra, Daniela Quieti, Stevka Smitran ha assegnato i seguenti premi: Premio internazionale a Dunya al-‘Amal Ismail, parteciperà il Prof. Simone Sibilio dell’Università di Venezia; Premio Speciale del Presidente alla poetessa iraniana Elham Hamedi, Premio alla carriera a Giuseppe Rosato, Premio Speciale della Giuria ad Anna Manna.
Verranno poi consegnati i premi per il concorso Poesia d’amore a: Antonio Alleva, primo classificato, Marco Palladini, secondo, terzi ex aequo Ugo Capezzali e Marcello Marciani. Menzioni di Merito per: Antonella Caggiano, Federica D’Amato, Grazia Di Lisio, Giuliana Giancarli. Segnalati: Pietro Assetta Proietto, Mauro Barbetti, Giancarlo Bufacchi, Maria D’Alessandro, Valeria Di Felice, Giuseppina Fazio, Nicoletta Fazio, Erika Maffei, Esmail Mohamed, Hebe Munoz, Marco Pavoni, Anna Polidori, Raffaele Rubino, Alessio Scancella, Silvia Zuccarini.
A seguire, presso il palazzo di Piazza D’Albenzio saranno inaugurate la mostra “Il Museo Viaggiante” a cura di Massimo Pamio, Lea Contestabile, Annarita Melaragna, Vito Bucciarelli, a cui partecipano le Artiste italiane Greta Bisandola, Simona Bramati, Anna Muzi Falconi, e la mostra “Pier Giorgio D’Angelo legge Robert Capa La guerra! – Un racconto per immagini”di Pier Giorgio D’Angelo. Sabato 7 settembre alle ore 18 e 30 in Piazza D’Albenzio si svolgerà la prima edizione del premio per il romanzo d’amore intitolato a Ugo Riccarelli. Ospite Roberta Bortone che ricorderà lo scrittore. La giuria formata da Lucilla Sergiacomo (Presidente), Antonella Perlino, Massimo Pamio, Marco Tabellione, Milvia Di Michele, Presidente onoraria Roberta Bortone, ha assegnato i riconoscimenti a Barbara Alberti e Paolo Di Paolo.
Seguirà l’inaugurazione di Piazza D’Albenzio come prima Piazza Messaggera d’Amore. Parteciperanno il Sindaco di Spoltore Dott.ssa Chiara Trulli, il Sindaco di Torrevecchia Teatina Dott. Francesco Seccia; la Dott.ssa Marta Bucciarelli, in rappresentanza dello Spazio Sfera di Milano Bussero; Francesco Di Domenico in rappresentanza de Le Tartarughe di Piazza Mattei di Roma, Silvia Di Cicco in rappresentanza del CSCS di Loreto. Sarà apposta una targa e sarà compiuta una raccolta messaggi d’amore per la cassetta postale realizzata appositamente da Guido Di Nicolantonio, così come il logo è stato creato dall’Artista Albano Paolinelli.
***
Dunya al-‘Amal Ismail(Gaza, 1971) è una poetessa palestinese. Si diploma all’Università di Gerusalemme in giornalismo e comunicazione, poi in lingua araba all’Università del Cairo in Egitto. Dal 1994 vive a Gaza. Scrive per numerosi quotidiani e riviste, anche estere. Dal 2000 si occupa di questioni femminili e di comunicazione.
Elham Hamedi (Shiraz, Iran, 1967) è un’Artista multimediale, pittrice, scrittrice, poeta. È membro permanente dell’Associazione scientifica delle arti visive dell’Iran, membro esecutivo della Writers Capital International Foundation (WCIF). Ambasciatore IFCH. È autrice del libro di poesie dal titolo “Un colpo alla testa era uno Zaqboor”. Le sue opere sono presenti in numerose mostre e antologie internazionali. Laureata in Ricerca Artistica e in Radiologia, coniuga lo studio del corpo a livello medico con le materie artistiche in una relazione psicoanalitica. Ha ricevuto numerosi premi letterari internazionali pubblicando raccolte e scritti in prosa e poesia su riviste e cataloghi specializzati con importanti case editrici. Recentemente è stata nominata una delle “50 donne indimenticabili dell’Asia” e il “Pilastro della cultura asiatica” nel grande progetto “Stoccolma 2025” in cinque volumi in 5 continenti (2024). Vincitrice del Premio Letterario Internazionale 2022 dal titolo “Donne per la Cultura e la Pace” (MESTRE/VENEZIA/Italia).
Giuseppe Rosatoè uno dei maggiori poeti italiani. Dopo essersi laureato all’Università di Pavia, debutta come poeta con la raccolta L’acqua felice nel 1957. In seguito pubblicherà numerosi libri di versi, in lingua e dialetto, di narrativa, di prose, di aforismi, oltre ad operine satiriche e parodistiche. Ha diretto la rivista “Dimensioni” (1957-1974), la rivista “Quest’arte” (1977-1986) e collaborato con numerose testate giornalistiche, realizzando servizi e trasmissioni culturali per la RAI, monografie su artisti contemporanei, antologie per le scuole. Ha vinto prestigiosi premi letterari, il “Carducci”, il “Pascoli”, il “Dessì”. È stato insignito del “Frentano d’oro”. Nel 2022 ha ricevuto il Premio “Camaiore” alla carriera.
Anna Manna, nata a Gaeta, vive da sempre a Roma dove nel 1973 si è laureata in Lettere Moderne presso La Sapienza. È figlia d’arte, suo padre lo scrittore Gennaro Manna (Tocco Casauria, 1922 – Roma, 1990). Poetessa, scrittrice, saggista e, ha svolto intensa attività culturale a Roma e a Spoleto, fondatrice e organizzatrice di premi letterari di rilievo nazionale. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia, curato l’antologia Poesie per Karol (2005), Le rosse pergamene. Poesie d’amore1972-2000, Maree amare – Mare e amare (2007). La sua poesia è stata adattata in musica a Recanati (MC) presso il prestigioso Centro Mondiale della poesia negli anni 2000, inserita nel progetto “Il senso dei sensi” a Spoleto (2011) ed esposta a L’Aquila nella Mostra “Corrispondenze” patrocinata dall’UNESCO (2012). Ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti e numerosi testi di saggistica. Numerosi i premi letterari che le sono stati attribuiti tra cui il “Teramo” per un racconto, il “Calliope di poesia”, lo “Ziré d’Oro” e molti altri.
Barbara Alberti, scrittrice, sceneggiatrice, drammaturga, giornalista, opinionista, personaggio televisivo, attrice e conduttrice radiofonica italiana. Laureata poi in Filosofia alla Sapienza, esordisce con il picaresco Memorie malvagie, a cui seguiranno Donna di piacere, Il signore è servito, Tahiti Bill, Sbrigati Mama, Scommetto di sì, Fulmini, con pseudonimi, Buonanotte Angelo, Povera bambina, Dispetti divini, Parliamo d’amore, Gianna Nannini da Siena, Il promesso sposo. Romanzo popolare, Vocabolario dell’amore, La donna è un animale stravagante davvero, Gelosa di Majakovskij, L’amore è uno scambio di persona, Il principe volante, Il ritorno dei mariti, Letture da treno. Diciassette opere letterarie e un melodramma, Riprendetevi la faccia, Sonata a Tolstoj, Amore è il mese più crudele, Lezioni d’amore, Lezioni d’amore. Gelosia, La guardiana del faro. [Storie di amori e di scritture], Non mi vendere, mamma!, Francesco e Chiara, Mio signore, Amores, Tremate, tremate. Le streghe son tornate. È anche coautrice di sceneggiature cinematografiche, tra cui Il portiere di notte di Liliana Cavani, Maladolescenza di Pier Giuseppe Murgia, Io sto con gli ippopotami, Monella e Melissa P. (2005) e autrice di testi teatrali (Ecce homo). Dal 1983 al 1998 ha tenuto la rubrica Parliamo d’amore sul settimanale Amica. Nel 1983 scrive una rubrica su Penthouse chiamata Luci rosse. Dal 2009 gestisce una pungente rubrica settimanale (La posta di Barbara Alberti) su Il Fatto Quotidiano. Attualmente tiene, inoltre, una rubrica di corrispondenza coi lettori sul settimanale Gioia. Scrive anche sui settimanali Confidenze e D-La Repubblica delle Donne. Partecipa abitualmente come opinionista a diversi talk show televisivi, da Pomeriggio 5 a L’Italia sul 2. Fino a settembre 2013 ha condotto La guardiana del faro, un programma settimanale in onda la domenica mattina dalle 9 alle 10 su Radio 24. Nel 2018 ha partecipato come concorrente a Celebrity Masterchef, venendo eliminata nella seconda puntata. Da gennaio 2020 partecipa come concorrente alla quarta edizione del Grande Fratello VIP, da cui si ritira per motivi personali nella prima metà di febbraio; sempre nello stesso anno, partecipa come ospite e giudice del sintony test al programma televisivo La pupa e il secchione. Da settembre a novembre del 2022 è curatrice della rubrica La posta del cuore, ospite e giurata della trasmissione BellaMa’. Nel corso del festival Liberevento (che si svolge in diverse località della Sardegna) il 25 agosto 2022 riceve dalle mani del poeta Beppe Costa il Premio alla carriera.
Paolo Di Paolo è scrittore. Laureato in Lettere alla Sapienza, ha ottenuto un dottorato di ricerca in Studi di storia letteraria e linguistica italiana all’Università degli Studi Roma Tre. Nel 2003 è stato tra i cinque finalisti nazionali del Premio Campiello Giovani. Ha esordito nel 2004 con i racconti Nuovi cieli, nuove carte. Nel 2008 ha pubblicato il romanzo Raccontami la notte in cui sono nato. Al 2009 risale la prima edizione di Questa lontananza così vicina. Nel 2011 è uscito Dove eravate tutti vincitore Premio Mondello, Superpremio Vittorini. Nel 2013 Mandami tanta vita finalista Premio Strega e vincitore del Premio Salerno Libro d’Europa] e del Premio Fiesole Narrativa Under 40. Ha pubblicato poi Una storia quasi solo d’amore, Lontano dagli occhi, Premio Viareggio Romanzo senza umani, finalista allo Strega 2024. Ha curato diversi libri in forma di dialogo: Un piccolo grande Novecento, con Antonio Debenedetti (Manni, 2005), Ho sognato una stazione. Gli affetti, i valori, le passioni, con Dacia Maraini, Risalire il vento, con Raffaele La Capria,Queste voci queste stanze, con Elio Pecora. In Ogni viaggio è un romanzo ha raccolto le voci di diciannove scrittori italiani sul rapporto tra letteratura e viaggio, Inventarsi una vita, un dialogo con Claudio Magris. Ha scritto e curato libri su Antonio Debenedetti, Antonio Tabucchi e nel 2017 in Vite che sono la tua racconta 27 opere letterarie che hanno segnato la sua formazione. Per il teatro ha scritto Il respiro leggero dell’Abruzzo, dedicato a pagine di grandi scrittori sull’Abruzzo e portato in scena da Franca Valeri, Milena Vukotic, Arnaldo Ninchi, L’innocenza dei postini messo in scena durante il Napoli Teatro Festival Italia 2010, Wet Market. La fiera della (nostra) sopravvivenza, spettacolo con regia collettiva a cura della Compagnia permanente di Ert. Ha scritto libri per bambini e ragazzi: La mucca volante, Giacomo il signor bambino, La Divina commedia raccontata da Paolo Di Paolo, Papà Gugol, I desideri fanno rumore, Trovati un lavoroe poi fai lo scrittore. Collabora con La Repubblica, L’Espresso e Vanity Fair. Conduce dal 2006 le Lezioni di Storia all’Auditorium Parco della Musica di Roma, nel 2008 è stato uno dei volti della trasmissione culturale di Raitre Gargantua, condotta da Giovanna Zucconi. Dal 2020 conduce la trasmissione radio settimanale “La lingua batte” su Rai Radio 3.
Poesie di Velimir Chlebnikov caposcuola del Futurismo russo
Secondo il grande semiologo Romàn Jakobsòn, Velimir Chlebnikov fu l’autore avanguardista più importante del ‘900. Majakovskij, viceversa, lo bollò come “poeta per poeti” ed i suoi contemporanei lo ritennero un genio squilibrato.
Di certo, fu un instancabile sperimentatore, inventore di neologismi ed artefice di una nuova lingua poetica, lo zaum o zanghesi.”I versi -affermava- somigliano a viaggi, bisogna andare lì dove nessun ancora è stato.”
Nel suo saggio ‘La Radio del Futuro’ prefigurò l’odierna civiltà digitale, ipotizzando un avvenire in cui le informazioni trasmesse dalla Radio sarebbero apparse automaticamente su enormi pannelli dislocati lungo le vie cittadine.
Spiega il critico e traduttore Paolo Nori: “Šklovskij diceva che era ‘un campione’, Jakobson diceva ‘il più grande poeta del novecento’, Tynjanov diceva ‘una direzione’, Markov diceva ‘il Lenin del futurismo russo’, Ripellino diceva ‘il poeta del futuro’, e avevan ragione, secondo me, tutti, però avevano torto, anche, secondo me, e avevano torto perché, secondo me, Chlebnikov è molto di più.”
Dal sacco si sparsero
Dal sacco
si sparsero al suolo le cose.
Ed io penso
che il mondo
è soltanto un sogghigno,
che luccica fioco
sulle labbra di un impiccato.
Poco, mi serve
Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.
Se voi amate anche voi stessi
Se voi amate anche voi stessi,
allora in voi non sarò mai preghiera, io.
Ma uno sguardo azzurro è un dono eterno,
e l’ombra torce il tempo in querce.
PER ME
Per me è molto più piacevole
guardare le stelle
che firmare una condanna a morte.
Per me è molto più piacevole
ascoltare la voce dei fiori,
che sussurrano “È lui”
chinando la testolina,
quando attraverso il giardino,
che vedere gli scuri fucili della guardia
uccidere quelli
che vogliono uccidere me.
Ecco perché io non sarò mai,
e poi mai, un Governante.
Vento-canto
Vento-canto.
Di chi e su che cosa?
Impazienza
ha la spada d’esser palla.
Gli uomini vezzeggiano il giorno della morte,
come un fiore prediletto.
Sulle corde dei grandi, credete,
suona adesso l’Oriente.
Forse un nuovo orgoglio ci darà
il mago delle splendide montagne,
e, battistrada di molta gente,
indosserò la ragione come un bianco ghiacciaio.
Preposto al servizio delle stelle,
Io giro, come una ruota,
Che s’invola all’istante sull’abisso,
Che finisce sull’orlo del precipizio,
Io imparo le parole.
QUANDO STANNO MORENDO
Quando stanno morendo, i cavalli respirano,
quando stanno morendo, le erbe intristiscono,
quando stanno morendo, i soli si spengono,
quando stanno morendo, gli uomini cantano.
LA LEGGE DELLE ALTALENE
La legge delle altalene prescrive
che si abbiano scarpe ora larghe, ora strette.
Che sia ora notte, ora giorno.
E che signori della terra siano ora il rinoceronte, ora l’uomo.
Uma breve coletânea de poemas do poeta russo Velimir Khlébnikov (1885-1922), que foi, segundo Roman Jakobson, um dos mais inventivos autores do século XX. Khlébnikov foi mentor da vanguarda cubo-futurista e criou a linguagem zaúm, ou transmental, que é formada por sons abstratos. Seu trabalho exerceu forte influência na obra de Vladimir Maiákovski e em todo o movimento vanguardista da poesia russa.
Os poemas:
calçando botas de olhos negros,
nas flores de meu coração.
Meninas que pousam as lanças
no lago de suas pupilas.
Meninas que lavam as pernas
no lago de minhas palavras.
Девушки, те, что шагают
Сапогами черных глаз
По цветам моего сердца.
Девушки, опустившие копья
На озера своих ресниц.
Девушки, моющие ноги
В озере моих слов.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Bem pouco me basta!
A crosta de pão
a gota de leite.
E mais este céu,
com as suas nuvens!
.
Мне мало надо!
Краюшку хлеба
И каплю молока.
Да это небо,
Да эти облака!
1912-1922
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Anos, homens e povos
fogem para sempre,
como água corrente.
No espelho dúctil da natureza
somos os peixes – rede, as estrelas,
os deuses: fantasmas e trevas.
.
Годы, люди и народы
Убегают навсегда,
Как текучая вода.
В гибком зеркале природы
Звезды — невод, рыбы — мы,
Боги — призраки у тьмы.
1915
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
A noite é sombria,
e o álamo, frio,
o mar ressoante,
e tu, bem distante!
.
И вечер темец,
И тополь земец,
И мореречи,
И ты, далече!
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
A lei dos balanços determina
o uso de sapatos ora largos, ora apertados.
Que faça dia e faça noite,
que reinem sobre a terra, ora o rinoceronte, ora o homem.
.
Закон качелей велит
Иметь обувь то широкую, то узкую.
Времени то ночью, то днем,
А владыками земли быть то носорогу, то человеку.
1912
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
EU E A RÚSSIA
A Rússia libertou milhares e milhares.
Um gesto nobre! Um gesto inesquecível!
Mas eu tirei a camisa
e cada arranha-céu espelhado de meus cabelos,
cada ranhura
da cidade do corpo
expôs seus tapetes e tecidos de púrpura.
As cidadezinhas e os cidadãos do estado Mim
juntavam-se às janelas dos cabelos,
as olgas e os ígores,
não por imposição,
para saudar o Sol olhavam através da pele.
Caiu a prisão da camisa!
Nada mais fiz que tirá-la.
Estava nu junto ao mar
Dei Sol aos povos de Mim!
Assim eu libertava
milhares e milhares
as brônzeas multidões.
.
Я И РОССИЯ
Россия тысячам тысяч свободу дала.
Милое дело! Долго будут помнить про это.
А я снял рубаху,
И каждый зеркальный небоскреб моего волоса,
Каждая скважина
Города тела
Вывесила ковры и кумачовые ткани.
Гражданки и граждане
Меня — государства
Тысячеоконных кудрей толпились у окон.
Ольги и Игори,
Не по заказу
Радуясь солнцу, смотрели сквозь кожу.
Пала темница рубашки!
А я просто снял рубашку —
Дал солнце народам Меня!
Голый стоял около моря.
Так я дарил народам свободу,
Толпам загара.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Os homens, quando amam,
dão longos olhares
e longos suspiros.
As feras, quando amam,
turvam os olhos,
dando mordidas de espuma.
Os Sóis, quando amam,
vestem a noite com tecidos de terra,
e dançam majestosos para a amada.
Os deuses, quando amam,
prendem o frêmito do cosmos,
como Puchkin – a chama de amor da criada de Volkónski.
.
Люди, когда они любят,
Делающие длинные взгляды
И испускающие длинные вздохи.
Звери, когда они любят,
Наливающие в глаза муть
И делающие удила из пены.
Солнца, когда они любят,
Закрывающие ночи тканью из земель
И шествующие с пляской к своему другу.
Боги, когда они любят,
Замыкающие в меру трепет вселенной,
Как Пушкин — жар любви горничной Волконского.
1911
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
O camponês, deixando a enxada,
contemple o voo de um corvo
e diga: em sua voz ressoa
a Guerra de Tróia,
a ira de Aquiles,
o pranto de Hécuba,
enquanto volteia
sobre nossas cabeças.
Que a mesa empoeirada
deixe desenhos
nas pardas profundezas das ondas.
Estranhos desenhos.
Um menino curioso dirá:
Essa poeira é Moscou
talvez o pasto de Pequim ou de Chicago.
A rede de um pescador
entrama as capitais da Terra
com os laços da poeira,
na malha sonora dos séculos.
E a noiva não desejando
trajar debrum de unhas fúnebres
afirme, ao limpá-las: aqui resplandecem
vivos Sóis e tantos mundos
de todo inatingíveis,
que a unha cobriu com carne fria.
Creio que Sirius resplandece sob as unhas
rompendo com seu brilho a escuridão.
.
Пусть пахарь, покидая борону,
Посмотрит вслед летающему ворону
И скажет: в голосе его
Звучит сраженье Трои,
Ахилла бранный вой
И плач царицы,
Когда он кружит, черногубый,
Над самой головой.
Пусть пыльный стол, где много пыли,
Узоры пыли расположит
Седыми недрами волны.
И мальчик любопытный скажет:
Вот эта пыль — Москва, быть может,
А это — Пекин иль Чикаго пажить.
Ячейкой сети рыболова
Столицы землю окружили.
Узлами пыли очикажить
Захочет землю звук миров.
И пусть невеста, не желая
Носить кайму из похорон ногтей,
От пыли ногти очищая,
Промолвит: здесь горят, пылая,
Живые солнца и те миры,
Которых ум не смеет трогать.
Закрыл холодным мясом ноготь.
Я верю, Сириус под ногтем
Разрезать светом изнемог темь.
1921-1922
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Noite cheia de constelações.
De que destino e informações,
brilhas, ó livro, intensamente?
Será por jogo ou livremente?
Ler a sorte, quando me basta,
à meia noite, em céu tão vasto?
.
Ночь, полная созвездий.
Какой судьбы, каких известий
Ты широко сияешь, книга?
Свободы или ига?
Какой прочесть мне должно жребий
На полночью широком небе?
1912
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Dostoievismo de nuvens fugaz!
Puchkínotas de um lento meio-dia!
A noite tiucheviza sempre mais,
cobrindo de infinito as cercanias.
.
О, достоевскиймо бегущей тучи!
О, пушкиноты млеющего полдня!
Ночь смотрится, как Тютчев,
Безмерное замирным полня.
1908-1909
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
NÚMEROS
Eu vos contemplo, ó números!,
E vós me vedes, vestidos de animais, em suas peles,
As mãos sobre carvalhos destroçados,
Ofereceis a união entre o serpear
Da espinha dorsal do universo e a dança da balança.
Permitis a compreensão dos séculos, como os dentes numa breve gargalhada.
Meus olhos se arregalam intensamente.
Aprender o destino do Eu, se a unidade é seu dividendo.
.
ЧИСЛА
Я всматриваюсь в вас, о, числа,
И вы мне видитесь одетыми в звери, в их шкурах,
Рукой опирающимися на вырванные дубы.
Вы даруете единство между змееобразным движением
Хребта вселенной и пляской коромысла,
Вы позволяете понимать века, как быстрого хохота зубы.
Мои сейчас вещеобразно разверзлися зеницы
Узнать, что будет Я, когда делимое его — единица.
1912
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Rá vê seus olhos no pântano ferruginoso e avermelhado,
contemplando a si mesmo e a seu sonho
no ratinho que rouba delicado o cereal pantanoso,
na jovem rã que incha bolhas brancas em sinal de desafio,
na grama verde que corta com escrita vermelha o corpo
[da moça curvada como a foice,
enquanto reúne carriços para o fogo e para a casa,
na correnteza de peixes que movem as matas e soltam
[pequenas bolhas para a superfície,
cercado por um Volga de olhos.
Rá – prolongado em milhares de plantas e animais;
Árvore de folhas vivas, fugazes, pensantes, que sibilan e gemem.
Um Volga de olhos,
mil olhos o seguem, mil raios.
E Rázin
após lavar os pés,
ergue a cabeça contemplando Rá,
até que o pescoço se adelgace num filete avermelhado.
.
Ра — видящий очи свои в ржавой и красной болотной воде,
Созерцающий свой сон и себя
В мышонке, тихо ворующем болотный злак,
В молодом лягушонке, надувшем белые пузыри в знак мужества,
В траве зеленой, порезавшей красным почерком стан у
[девушки, согнутой с серпом,
Собиравшей осоку для топлива и дома,
В струях рыб, волнующих травы, пускающих кверху пузырьки,
Окруженный Волгой глаз,
Ра — продолженный в тысяче зверей и растений,
Ра — дерево с живыми, бегающими и думающими листами,
[испускающими шорохи, стоны.
Волга глаз,
Тысячи очей смотрят на него, тысячи зир и зин.
И Разин,
Мывший ноги,
Поднял голову и долго смотрел на Ра,
Так что тугая шея покраснела узкой чертой.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
O CARVALHO DA PÉRSIA
Na trama de espessas raízes,
como um cântaro vazio,
ergue o carvalho as flores seculares
com uma gruta para anacoretas.
Ao som dos ramos
sibila a consonância
de Marx e Mazda.
“Chamau, chamau!
Uach, uach, chagan!”
Quais lobos açulados
Espalham-se os chacais.
E o ressoar da ramagem recorda
a melodia dos tempos de Báty.
.
ДУБ ПЕРСИИ
Над скатертью запутанных корней
Пустым кувшином
Подымает дуб столетние цветы
С пещерой для отшельников.
И в шорохе ветвей
Шумит созвучие
С Маздаком Маркса.
«Хамау, хамау,
Уах, уах, хаган!» —
Как волки, ободряя друг друга,
Бегут шакалы.
Но помнит шепот тех ветвей
Напев времен Батыя.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
– Senta, Gul Mulá!
Uma bebida quente banhou o meu rosto.
– Água negra? Olhou-me Ali Mohammed, pondo-se a rir:
– Eu sei quem você é.
– Quem?
– Um Gul Mulá.
– Um sacerdote das flores?
– Sim-sim-sim,
Rema e sorri.
Navegamos num golfo espelhado
junto a uma nuvem de amarras e monstros de ferro
chamados “Trotski” e “Rosa Luxemburgo”.
.
— Садись, Гуль-мулла.
Черный горячий кипяток, брызнул мне в лицо?
Черной воды? Нет — посмотрел Али-Магомет, засмеялся:
— Я знаю, ты кто.
— Кто?
— Гуль-мулла.
— Священник цветов?
— Да-да-да.
Смеется, гребет.
Мы несемся в зеркальном заливе
Около тучи снастей и узорных чудовищ с телом железным,
С надписями «Троцкий» и «Роза Люксембург».
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Leia aqui a entrevista de Marco Lucchesi PRESTES, Zóia. Marco Lucchesi e a tradução. in: Agulha Revista de Cultura, 30 de agosto de 2017. Disponível no link. (acessado em 19.4.2018)
Nacque nel villaggio di Malye Derbety (in russo: Ма́лые Дербе́ты; in calmucco: Баһ Дөрвд, Bağ Dörvd), situato nell’Oblast’ di Astrachan’. Nel 1909 incontrò Vladimir Majakovskij, Aleksej Kručënych, David Burljuk e Benedikt Livšic,[2] con cui entrò successivamente a far parte del gruppo futurista Gileja. Già in precedenza aveva scritto però molte opere significative. Tra i contemporanei, era considerato “un poeta per poeti” (così Majakovskij nel suo necrologio) e un genio squilibrato.
Nella sua opera abbondano le sperimentazioni linguistiche, con l’invenzione di un numero enorme di neologismi. Insieme a Kručënych, diede vita alla lingua poetica “trasmentale”, detta zaum o zanghesi (Зангези).[3]
Scrisse anche saggi sulle future, possibili evoluzioni dei mezzi di comunicazione (“La Radio del Futuro”), dei trasporti e delle abitazioni (“Noi stessi e i nostri edifici”). Descrisse un mondo in cui la gente vive e viaggia in cubi di vetro mobili e in cui tutta la conoscenza umana può essere diffusa attraverso la radio e mostrata automaticamente su giganteschi pannelli simili a libri collocati per strada.
“Zangezi” traduzione e note di Carla Solivetti, Carte Segrete 53, marzo 1987, Serafini Editore, nello stesso numero due “mostre libro”, Mario Coppola “Adventum”, Zao Wou-Ki “Il Pittore Di Due Mondi”.
Su Chlebnikov
Nel romanzo Pancetta (2004) di Paolo Nori si descrivono la vita e le opere del poeta; lo stesso autore racconta ampiamente di Chlébnikov nel suo romanzo Vi avverto che vivo per l’ultima volta che parla di Anna Achmàtova.
Antonia POZZI- Nelle immagini l’anima- Antologia fotografica-
a cura di Onorina Dino e Ludovica Pellegatta. Edizione Ancora-
Descrizione-“Caro Dino, l’altro giorno hai detto che nelle fotografie si vede la mia anima: e allora eccotele”. Con queste parole, il 5 maggio 1938 Antonia Pozzi offre a Dino Formaggio una raccolta di circa 300 fotografie, quale suo lascito spirituale all’amico fraterno, pochi mesi prima del suicidio. A ottant’anni dalla sua scomparsa, “Nelle immagini l’anima” racconta come, attraverso la fotografia, la poetessa esprimesse un intenso amore per la vita e un profondo desiderio di radicamento esistenziale. Dei suoi “exploits” fotografici, come lei stessa amava definirli, oggi rimangono oltre quattromila immagini e dodici album, un’autobiografia visiva che rivela come la fotografia diventerà per la Pozzi uno specchio dell’anima. Le immagini qui pubblicate riportano commenti scritti di sua mano o brani scelti dalle sue poesie.
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)- tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il -ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita. Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Isaac Rosenberg-Poesie dalla raccolta “IN TRINCEA”-
Prefazione: Franco Lonati-Edizioni Interno Poesia
Descrizione-In trincea di Isaac Rosenberg presenta una vasta scelta delle poesie di uno dei più originali ed isolati poeti inglesi così detti “di guerra”. Già autore di due libri prima dell’arruolamento, nel 1914, Rosenberg scrive, infatti, alcune delle più belle e crudeli poesie sulla guerra, nelle quali parla delle cose concrete che poteva osservare in caserma, in trincea, nelle infermerie. Nei versi dei poeti coevi, come il più noto Wilfred Owen, leggiamo amarezza e indignazione per l’orrore della guerra. Non così nella poesia di Rosenberg. Per qualche straordinario motivo egli riesce a mantenersi emotivamente distaccato dalle terribili cose che accadono intorno a lui, e alle quali è esposto, registrandole minuziosamente ma obiettivamente, e, sostenuto da una viva intelligenza del linguaggio, a trasformarle in una poesia di grande qualità immaginativa. Quella “sorprendente carica di originalità” e “sbalorditiva abilità tecnica” – delle quali parla un critico di primo piano come F. R. Leavis – sono felicemente rese in lingua italiana dal poeta e traduttore Francesco Dalessandro che, con le sue raffinate versioni, sempre rispettose del testo originale, coadiuvato dal prezioso contributo prefatorio di Franco Lonati, ci aiutano a riscoprire e ad apprezzare la poesia di Isaac Rosenberg.
Fleet Street
From north and south, from east and west,
Here in one shrieking vortex meet
These streams of life, made manifest
Along the shaking quivering street.
Its pulse and heart that throbs and glows
As if strife were its repose.
I shut my ear to such rude sounds
As reach a harsh discordant note,
Till, melting into what surrounds,
My soul doth with the current float,
And from the turmoil and the strife
Wakes all the melody of life.
The stony buildings blindly stare
Unconscious of the crime within,
While man returns his fellow’s glare
The secrets of his soul to win.
And each man passes from his place,
None heed. A shadow leaves such trace.
*
Fleet Street
Da nord e da sud, da ovest e da est,
qui in un solo vortice ululante s’incontrano
quelle correnti di vita, evidenti
nell’agitazione della strada palpitante.
Polso e cuore battono e brillano
come fosse la lotta il loro riposo.
Chiudo l’orecchio a suoni tanto rozzi
che toccano un’aspra nota dissonante,
finché, fusa in ciò che la circonda,
la mia anima fluttua con la corrente
e dal tumulto e dalla lotta
desta l’intera melodia della vita.
Gli edifici di pietra sono fissi e ciechi
inconsapevoli dei crimini al loro interno,
mentre gli uomini si scambiano occhiate
per carpirsi i segreti dell’anima.
Ognuno va per la sua strada, ignaro
degli altri. Un’ombra lascia qualche traccia.
*
On receiving News of the War
Snow is a strange white word;
No ice or frost
Have asked of bud or bird
For Winter’s cost.
Yet ice and frost and snow
From earth to sky
This Summer land doth know,
No man knows why.
In all men’s hearts it is.
Some spirit old
Hath turned with malign kiss
Our lives to mould.
Red fangs have torn His face.
God’s blood is shed.
He mourns from His lone place
His children dead.
O! ancient crimson curse!
Corrode, consume.
Give back this universe
Its pristine bloom.
*
Ricevendo notizie della guerra
Neve è una strana parola bianca.
Ghiaccio o gelo non ha
chiesto a germoglio o uccello
il costo dell’inverno.
Ma ghiaccio gelo e neve
dalla terra su al cielo conosce
questo paese d’Estate.
Nessuno sa perché.
È in ogni cuore d’uomo.
Qualche spirito antico
con un bacio malvagio ha trasformato
le nostre vite in muffa.
Rosse zanne hanno straziato il volto
di Dio, sparso il suo sangue.
Dalla sua solitaria dimora
lui piange i figli morti.
Rossa condanna antica,
corrodi, consuma!
Rendi a quest’universo
il nativo fiorire.
*
Break of Day in the Trenches
The darkness crumbles away.
It is the same old druid Time as ever,
Only a live thing leaps my hand,
A queer sardonic rat,
As I pull the parapet’s poppy
To stick behind my ear.
Droll rat, they would shoot you if they knew
Your cosmopolitan sympathies.
Now you have touched this English hand
You will do the same to a German
Soon, no doubt, if it be your pleasure
To cross the sleeping green between.
It seems you inwardly grin as you pass
Strong eyes, fine limbs, haughty athletes,
Less chanced than you for life,
Bonds to the whims of murder,
Sprawled in the bowels of the earth,
The torn fields of France.
What do you see in our eyes
At the shrieking iron and flame
Hurled through still heavens?
What quaver—what heart aghast?
Poppies whose roots are in man’s veins
Drop, and are ever dropping;
But mine in my ear is safe—
Just a little white with the dust.
*
Spunta il giorno in trincea
L’oscurità si sgretola.
Il Tempo è il solito vecchio druido,
soltanto qualcosa di vivo scavalca la mia mano
uno strano sardonico topo,
mentre colgo il papavero del parapetto
e me lo metto all’orecchio.
Buffo topo, ti sparerebbero se sapessero
le tue simpatie cosmopolite.
Dopo avere sfiorato questa mano inglese
farai lo stesso con una tedesca,
e presto, certamente, se ti piace
attraversare il verde che fra noi sonnecchia.
Sembri ridere nell’intimo mentre superi
occhi forti, belle membra, atleti superbi,
meno fortunati di te nella vita,
legati ai capricci dell’assassinio,
allungati nel ventre della terra,
i campi squarciati di Francia.
Cosa vedi nei nostri occhi
al ferro e al fuoco scagliati
urlanti attraverso cieli attoniti?
Quale tremito – quale cuore atterrito?
Mentre cadono, continuano a cadere
papaveri radicati nelle vene dell’uomo,
ma il mio dietro l’orecchio è al sicuro –
appena un po’ imbiancato dalla polvere.
Isaac Rosenberg: The Making Of A Great War Poet
Siegfried Sassoon praised Isaac Rosenberg’s ‘genius’ and T.S. Eliot called him the ‘most extraordinary’ of the Great War poets. Yet it is over thirty years since there has been a full-length biography of Isaac Rosenberg. This major reappraisal of his life and work by one of the First World War literature’s leading authorities, Jean Moorcroft Wilson, is long overdue.
Rosenberg dies on the Western Front in 1918 aged only twenty-seven, his tragic early death resembling that of many other well-known poets of that conflict. But he differed from the majority of Great War poets in almost every other respect – race, class, education, upbringing, experience and technique. He was a skilled painter as well as a brilliant poet. The son of impoverished immigrant Russian Jews, he served as a private in the army and his perspective on the trenches is quite different from the other mainly officer-poets, allowing the voice of the “poor bloody Tommy” to be eloquently heard.
Jean Moorcroft Wilson focuses on the relationship between Rosenberg’s life and work – his childhood in Bristol and the Jewish East End of London; his time at the Slade School of Art and friendship with David Bomberg, Mark Gertler and Stanley Spencer; his visit to Cape Town, where he was staying when war broke out in August 1914 and where he fell in love with the divorced wife of South Africa’s future Prime Minister; and his harrowing life as a private in the British Army.
This monumental new life is published to mark the 90th anniversary of his death. Based on all known Rosenberg material and a mass of important new discoveries, Dr Wilson’s biography has been authorised by Rosenberg’s family and written with their blessing and help. It is also beautifully illustrated, including some hitherto unseen self-portraits, bringing together for the first time all that is known of this outstanding poet-painter.
Cesare Pavese è senza ombra di dubbio uno degli autori più importanti della letteratura italiana In questa pagina vi proponiamo una selezione delle sue poesie più belle, con accanto a ogni poesia l’indicazione della raccolta a cui appartiene.A detta di molti lettori la poesia più bella di Cesare Pavese è “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. A ispirare la poesia fu l’infelice storia d’amore con l’attrice americana Constance Dowling, l’ultimo amore di Cesare Pavese, prima della morte.
Cesare Pavese nasce il 9 SETTEMBRE 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, e muore suicida il 27 agosto 1950, in una camera d’albergo a Torino.scrittore, poeta, traduttore e critico letterario è considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo. Esordisce con la traduzione di Moby Dick di Herman Melville, nel 1932; due anni più tardi prende avvio la collaborazione, durata tutta una vita, con la casa editrice Einaudi, che stampa, nel 1943, l’edizione aumentata della sua prima raccolta poetica, Lavorare stanca, uscita per Solaria nel ’36. Oltre la sua attività di redattore, traduttore e americanista, pubblica romanzi e racconti: Paesi tuoi (1941), Feria d’agosto (1946), Dialoghi con Leucò (1947), La bella estate (1949) per cui riceverà il premio Strega. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, uscirà nella primavera del ’50. Nell’agosto dello stesso anno si toglierà la vita all’albergo Roma di Torino. Usciti postumi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apice della sua poesia, e il diario che lo ha accompagnato dal 1935 fino alla morte, Il mestiere di vivere.
La sua opera si colloca tra realismo e simbolismo lirico: la realtà delle natìe langhe e della Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi, della ricerca di autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come protagonista più la coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese padre del neorealismo post-bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente come materia di scrittura nell’opera di Pavese.
L’aspetto forse più vistoso del suo appartenere al decadentismo è offerto dalla crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca della noluntas l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di conflitti. Sua unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso negativo, corrodendo ogni certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo. C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e l’agire, per cui il primo elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita assieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare l’esistenza, gravemente handicappato nei rapporti umani, sempre a disagio in ogni situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa situazione di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa mestiere da apprendere con grande pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho imparato a scrivere, non a vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo, persino felici “Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno”, dice Pavese. Per la letteratura del Novecento, il grado di autenticità poetica è determinato dalla misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di angoscia. Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è essere per la morte.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
L’altro anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendìo così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppa di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi.M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni,e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
Maternità
Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
uno pensa che i figli han la stessa statura.
Dalle membra del padre (la donna non conta)
debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
alle membra del padre non manca una briciola
né uno scatto: si sono staccati da lui
camminandogli accanto.
La donna c’è stata,
una donna di solido corpo, che ha sparso
su ogni figlio del sangue e sul terzo c’è morta.
Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
annientandosi in loro. La donna era giovane
e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. È così che la donna
c’è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
che quell’uomo conosce. Nessuno di loro
sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
che a suo tempo era piena e saziava quell’uomo.
Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all’orlo del fiume
e tuffarsi, quell’uomo non ritrova più il guizzo
delle membra di lei dentro l’acqua, e la gioia
dei due corpi sommersi. Non ritrova più i figli
se li guarda per strada e confronta con sé.
Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
s’è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.
Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.
Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Cesare Pavese L’OPERA POETICA-Testi editi, inediti e traduzioni
Poesia Mondadori
«L’archivio conservato presso il Centro Studi «Gozzano-Pavese» dell’Università di Torino custodisce migliaia di carte che testimoniano un’attività febbrile impensabile [sul Pavese poeta]. Grazie alla lungimiranza di Mariarosa Masoero (e del suo maestro, il compianto Marziano Guglielminetti) queste carte sono state digitalizzate e sono da anni a disposizione di tutti. Masoero, con pochi altri studiosi (da Dughera a Pietralunga, da Bàrberi Squarotti a Cavallini), aveva meritoriamente cominciato a farle emergere. Ora, l’edizione mondadoriana dell’Opera poetica consente l’esplorazione integrale di questo continente immenso».
Antonio Sichera su
Testi editi, inediti, traduzioni
A cura di Antonio Sichera e Antonio Di Silvestro
Con la collaborazione di
Liborio Pietro Barbarino, Christian D’Agata, Miryam Grasso, Maria Concetta Trovato, Eliana Vitale
te e avrà i tuoi occhi” sarà pubblicata nella raccolta omonima ed edita postuma nel 1951 dopo il suicidio dell’autore.
Estate
C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
Le parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.
Mania di solitudine
Mangio un poco di cena alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che tra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusìo di silenzio.
Ogni cosa nel buio la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontana dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
***
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale di inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
***
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Gente spaesata
Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.
Alla sera, che l’acqua si stende slavata
e sfumata nel nulla, l’amico la fissa
e io fisso l’amico e non parla nessuno.
Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,
isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni
(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)
dove l’acqua non è che lo specchio, tra un’isola e l’altra,
di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.
Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere,
a innalzare colline di verde sul piano del mare.
Le colline mi vanno, e lo lascio parlare del mare
perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.
Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne
faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta
e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi
per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti.
Non occorre: ai miei sogni più scabri non manca un sorriso.
Se domani sul presto saremo in cammino
verso quelle colline, potremo incontrar per le vigne
qualche scura ragazza, annerita di sole,
e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.
***
Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione –
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.
Pensieri di Dina
Dentro l’acqua che scorre ormai limpida e fresca di sole,
è un piacere gettarsi: a quest’ora non viene nessuno.
Fanno rabbrividire, le scorze dei pioppi, a toccarle col corpo,
più che l’acqua scrosciante di un tuffo. Sott’acqua è ancor buio
e fa un gelo che accoppa, ma basta saltare nel sole
e si torna a guardare le cose con occhi lavati.
È un piacere distendersi nuda sull’erba già calda
e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline
che sormontano i pioppi e mi vedono nuda
e nessuno di là se ne accorge. Quel vecchio in mutande
e cappello, che andava a pescare, mi ha vista tuffarmi,
ma ha creduto che fossi un ragazzo e nemmeno ha parlato.
Questa sera ritorno una donna nell’abito rosso
– non lo sanno che sono ora stesa qui nuda quegli uomini
che mi fanno i sorrisi per strada – ritorno vestita
a pigliare i sorrisi. Non sanno quegli uomini
che stasera avrò fianchi più forti, nell’abito rosso,
e sarò un’altra donna. Nessuno mi vede quaggiù:
e di là dalle piante ci son sabbiatori più forti
di quegli altri che fanno i sorrisi: nessuno mi vede.
Sono sciocchi gli uomini – stasera ballando con tutti
io sarò come nuda, come ora, e nessuno saprà
che poteva trovarmi qui sola. Sarò come loro.
Solamente, gli sciocchi, vorranno abbracciarmi ben stretta,
bisbigliarmi proposte da furbi. Ma cosa m’importa
delle loro carezze? So farmi carezze da me.
Questa sera dovremmo poter stare nudi e vederci
senza fare sorrisi da furbi. lo sola sorrido
a distendermi qui dentro l’erba e nessuno lo sa.
***
E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto –
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu più dolcezza,
non fu più abbandonarsi
al sentiero sul fiume –
– non più servi, sapemmo
di essere soli e vivi.
Mito
Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov’erano le spiagge d’un tempo.
Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio il fragore del sole
fatto sangue. Ѐ mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca più il cielo; le nubi
non s’ammassano più come frutti; nell’acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.
Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva, c’era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.
Ora pesa
la stanchezza su tutte le membra dell’uomo,
senza pena: la calma stanchezza dell’alba
che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non conoscono il giovane, che un tempo bastava
le guardasse. Né il mare dell’aria rivive
al respiro. Si piegano le labbra dell’uomo
rassegnate, a sorridere davanti alla terra.
Testi selezionati da Le poesie (Einaudi, 1998)
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Cesare Pavese (1908-1950) è senza ombra di dubbio uno degli autori più importanti della letteratura italiana In questa pagina vi proponiamo una selezione delle sue poesie più belle, con accanto a ogni poesia l’indicazione della raccolta a cui appartiene.
A detta di molti lettori la poesia più bella di Cesare Pavese è “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. A ispirare la poesia fu l’infelice storia d’amore con l’attrice americana Constance Dowling, l’ultimo amore di Cesare Pavese, prima della morte.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” sarà pubblicata nella raccolta omonima ed edita postuma nel 1951 dopo il suicidio dell’autore.
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Le 25 poesie più belle di Cesare Pavese
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
22 marzo 1950
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In the morning you always come back (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Lo spiraglio dell’alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell’alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell’alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre
sei la vita, il risveglio.
Stella sperduta
nella luce dell’alba,
cigolio della brezza,
tepore, respiro
è finita la notte.
Sei la luce e il mattino.
20 marzo 1950
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Passerò per Piazza di Spagna (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu – ferma e chiara.
28 Marzo 1950
**
Anche tu sei collina (La terra e la morte 1945-1946)
Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.
C’è una terra che tace
e non è terra tua.
C’è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.
E’ una terra che attende
e non dice parola.
Sono passati giorni
sotto cieli ardenti.
Tu hai giocato alle nubi.
E’ una terra cattiva
la tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.
Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un’ombra di luna.
Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l’infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera.
30-31 ottobre 1945
**
Sei la terra e la morte (La terra e la morte 1945-1946)
Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.
3 dicembre 1945
**
Tu non sai le colline (La terra e la morte 1945-1946)
Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.
Novembre 1945
**
Hai un sangue, un respiro (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Hai un sangue, un respiro.
Sei fatta di carne
di capelli di sguardi
anche tu. Terra e piante,
cielo di marzo, luce,
vibrano e ti somigliano;
il tuo riso e il tuo passo
come acque che sussultano;
la tua ruga fra gli occhi
come nubi raccolte;
il tuo tenero corpo
una zolla nel sole.
Hai un sangue, un respiro.
Vivi su questa terra.
Ne conosci i sapori
le stagioni i risvegli,
hai giocato nel sole,
hai parlato con noi.
Acqua chiara, virgulto
primaverile, terra,
germogliante silenzio,
tu hai giocato bambina
sotto un cielo diverso,
ne hai negli occhi il silenzio,
una nube, che sgorga
come polla dal fondo.
Ora ridi e sussulti
sopra questo silenzio.
Dolce frutto che vivi
sotto il cielo chiaro,
che respiri e vivi
questa nostra stagione,
nel tuo chiuso silenzio
è la tua forza. Come
erba viva nell’aria
rabbrividisci e ridi,
ma tu, tu sei terra.
Sei radice feroce.
Sei la terra che aspetta.
21 marzo 1950
**
Ascolteremo nella calma stanca (Il mestiere di vivere: Diário 1935-1950)
Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.
**
The cats will know (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole;
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffieremo nell’alba,
viso di primavera.
10 aprile 1950
**
The night you slept (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia;
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l’alba.
4 aprile 1950
**
I mattini passano chiari (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
I mattini passano chiari
e deserti. Così i tuoi occhi
s’aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d’immobile luce.
Taceva. Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest’ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.
30 marzo 1950
**
Sempre vieni dal mare (La terra e la morte 1945-1946)
Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose –
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.
19-20 novembre 1945
**
You, wind of March (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda;
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
anemone o nube,
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.
Il tuo passo leggero
ha riaperto il dolore.
Era fredda la terra
sotto povero cielo,
era immobile e chiusa
in un torpido sogno,
come chi più non soffre.
Anche il gelo era dolce
dentro il cuore profondo.
Tra la vita e la morte
la speranza taceva.
Ora ha una voce e un sangue
ogni cosa che vive.
Ora la terra e il cielo
sono un brivido forte,
la speranza li torce,
li sconvolge il mattino,
li sommerge il tuo passo,
il tuo fiato d’aurora.
Sangue di primavera,
tutta la terra trema
di un antico tremore.
Hai riaperto il dolore.
Sei la vita e la morte.
Sopra la terra nuda
sei passata leggera
come rondine o nube,
e il torrente del cuore
si è ridestato e irrompe
e si specchia nel cielo
e rispecchia le cose,
e le cose, nel cielo e nel cuore
soffrono e si contorcono
nell’attesa di te.
È il mattino, è l’aurora,
sangue di primavera,
tu hai violato la terra.
La speranza si torce,
e ti attende ti chiama.
Sei la vita e la morte.
Il tuo passo è leggero.
25 marzo 1950
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Tu sei come una terra (La terra e la morte 1945-1946)
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
29 ottobre 1945
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Hai viso di pietra scolpita (La terra e la morte 1945-1946)
Hai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l’alba è silenzio.
E sei come le voci
della terra – l’urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo – le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.
Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov’è entrato una volta
ch’era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come al cortile antico
dove s’apriva l’alba.
5 Novembre 1945
**
Paternità (Lavorare stanca, 1943)
Fantasia della donna che balla, e del vecchio
che è suo padre e una volta l’aveva nel sangue
e l’ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
Lei s’affretta per giungere in tempo a svestirsi,
e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
delle gambe con gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
con sorrisi, e qualcuno vorrebbe esser nudo.
Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
saran padri, e la donna è per tutti una sola.
È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
prende il buio davanti alla giovane viva.
Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
Questo sangue, che scorre le membra diritte
della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
C’è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
che è lo stesso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
fuma il padre e l’attende che ritorni, vestita.
Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.
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Ti ho sempre soltanto veduta (1927)
Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti più belli.
Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo più pace
al suo brivido atroce.
E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell’anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l’urto del sangue,
alla sublimità di te?
Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e di languore
mi darebbe la tua realtà?
Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.
**
Mattino (Lavorare stanca, 1943)
La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.
**
Estate (Lavorare stanca, 1943)
È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa.
Nell’ímmobile luce dei giorno lontano
s’è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d’allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d’allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.
È tornata l’angoscia dei giorni lontani
quando tutta un’immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l’angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s’accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s’annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l’estate e i tepori sotto il vivido cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.
**
La casa (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
L’uomo solo ascolta la voce calma
con lo sguardo socchiuso, quasi un respiro
gli alitasse sul volto, un respiro amico
che risale, incredibile, dal tempo andato.
L’uomo ascolta la voce antica
che i suoi padri, nei tempi, hanno udito, chiara
e raccolta, una voce che come il verde
degli stagni e dei colli incupisce a sera.
l’uomo solo conosce una voce d’ombra,
carezzante, che sgorga nei toni calmi
di una polla segreta: la beve intento,
occhi chiusi, e non pare l’abbia accanto.
È la voce che un giorno ha fermato il padre
di suo padre, e ciascuno del sangue morto.
Una voce di donna che suona segreta
sulla soglia di casa, al cadere del buio.
**
Paesaggio VIII (Lavorare stanca, 1943)
I ricordi cominciano nella sera
sotto il fiato del vento a levare il volto
e ascoltare la voce del fiume. L’acqua
è la stessa, nel buio, degli anni morti.
Nel silenzio del buio sale uno sciacquo
dove passano voci e risa remote;
s’accompagna al brusio un colore vano
che è di sole, di rive e di sguardi chiari.
Un’estate di voci. Ogni viso contiene
come un frutto maturo un sapore andato.
Ogni occhiata che torna, conserva un gusto
di erba e cose impregnate di sole a sera
sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare.
Come un mattino notturno è quest’ombra vaga
di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora
e ogni sera ritorna. Le voci morte
assomigliano al frangersi di quel mare.
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L’amico che dorme (Lavorare stanca, 1943)
Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce. Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo. Il remoto silenzio
soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio. L’inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
taceranno. E le cose parleranno sommesso.
**
Terre bruciate (Lavorare stanca, 1943)
Parla il giovane smilzo che è stato a Torino.
Il gran mare si stende, nascosto da rocce,
e dà in cielo un azzurro slavato. Rilucono gli occhi
di ciascuno che ascolta.
A Torino si arriva di sera
e si vedono subito per la strada le donne
maliziose, vestite per gli occhi, che camminano sole.
Là, ciascuna lavora per la veste che indossa,
ma l’adatta a ogni luce. Ci sono colori
da mattino, colori per uscire nei viali,
per piacere di notte. Le donne, che aspettano
e si sentono sole, conoscono a fondo la vita.
Sono libere. A loro non rifiutano nulla.
Sento il mare che batte e ribatte spossato alla riva.
Vedo gli occhi profondi di questi ragazzi
lampeggiare. A due passi il filare di fichi
disperato s’annoia sulla roccia rossastra.
Ce ne sono di libere che fumano sole.
Ci si trova la sera e abbandona il mattino
al caffè, come amici. Sono giovani sempre.
Voglion occhi e prontezza nell’uomo e che scherzi
e che sia sempre fine. Basta uscire in collina
e che piova: si piegano come bambine,
ma si sanno godere l’amore. Più esperte di un uomo.
Sono vive e slanciate e, anche nude, discorrono
con quel brio che hanno sempre.
Lo ascolto.
Ho fissato le occhiaie del giovane smilzo
tutte intente. Han veduto anche loro una volta quel verde.
Fumerò a notte buia, ignorando anche il mare.
**
Donne appassionate (Lavorare stanca, 1943)
Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l’acqua remota.
Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant’è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai copi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che i greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all’aperto, nel lenzuolo raccolto.
Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Cl son occhi nel mare, che traspaiono a volte.
Quell’ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.
**
Mania di solitudine (Lavorare stanca, 1943)
Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusìo di silenzio.
Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
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