Mariano Ciarletta -Poesie dalla raccolta “Trovare la parola”
-Rivista L’Altrove-
Mariano Ciarlettamostra una maturazione poetica molto accentuata, sia nelle tematiche, sia nelle modalità: una scrittura più concisa, diretta, essenziale, liberata da possibili ridondanze e aggettivazioni. Trovare la parola nei meandri confusi e disordinati della realtà, osservata e percepita con l’attenzione dello studioso ma anche con l’empatia e l’emozione del vero poeta, dell’autentico artista che sa discernere tra logica e sogno, tra razionalità e indicibilità dell’anima, andare in fondo e risalire redento: “Scavo la vita come un frutto / morbido e pregno di colore / ne levo la polpa, il sugo e i semi. / Due morsi per sigillare il dolore / inghiottendo sapore e passato.” Questo, direi, è il nocciolo significativo di tutto quanto poi sviluppato in questa silloge pregevole, dove l’esposizione è densa e intensa, basata normalmente su pochi versi, in cui la parola trovata, studiata, gestita, trova la sua sistemazione ottimale, sia nel simbolo, sia nell’allusione, sia nello spessore semantico. Un osservare e descrivere gli infiniti aspetti del quotidiano, con brevi ma significativi tratti, che, complessivamente, ricostruiscono e restituiscono la realtà prossima, in cui Mariano Ciarletta poeta eccellente è consapevolmente ed emotivamente inserito.
Dalla prefazione di Giuseppe Vetromile.
Nascosti
Non parla più la tavola celeste In questi giorni di maggio. Saprò la risposta al termine della sigaretta che stringi tra i confini che ho varcato.
Sconosciuti
hai lasciato la pioggia e ci siamo ritrovati diversi, su sponde opposte, al centro. Ognuno tira le proprie somme, ci osserviamo senza conoscerci più.
Nero fiume
Se la poesia è morta come ho sentito perché c’è bile delle mani tremanti quando l’esigenza riporta al bianco, al nero fiume che travalica la ragione.
Granitico
La malinconia di ciò che doveva essere ferisce in questi giorni di marzo – ghiaccio – un pagliaccio ride in fondo ad una stanza un gioco scontato, familiare alla menzogna.
Vorrei il dono della roccia granitica, ma mille ragionamenti prendono – violentano – «equilibrio» è un calato di un recinto un incontro tra confinanti e confinati.
Salato
Vorresti questo senso di colpa? Sai intingerlo come pane nel sugo salato? Credi bene chiudere, appiattire nel silenzio? Ieri ho premuto sulle tue scuse lacrime calde immaginando un mattino senza noi.
Di te una macchiolina grigia? Le lenti sul comodino?
Mariano Ciarlettaè nato a Salerno nel 1992. Nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Gestione e Conservazione del patrimonio archivistico e librario. Nel 2023 il titolo di dottore di ricerca in studi letterari, linguisti e storici presso l’Università degli studi di Salerno. Attualmente, nella stessa università, riveste la posizione assegnista di ricerca. Oltre il percorso in ambito storico, fin dall’età di quattordici anni, Mariano Ciarletta coltiva la passione per la letteratura e per la poesia. Diversi suoi inediti sono stati pubblicati su riviste nazionali ed internazionali. Tra le raccolte recenti ricordiamo: Il Vento Torna Sempre, La Vita Felice (2018) e Trovare la parola, Terra d’Ulivi Edizioni (2023). Con la poesia Invisibili (Verso il mare), inclusa proprio nella seconda silloge, Ciarletta ha ricevuto la medaglia d’Onore al premio letterario Internazionale Luigi Vanvitelli.
“La poesia non cerca seguaci, ce “La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.
Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
rca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie di Gabriella Musetti, da “Un buon uso della vita”
Gabriella Musetti nata a Genova. Organizza “Residenze Estive” Incontri residenziali di poesia e letteratura. Dirige “Almanacco del Ramo d’Oro, Nuova serie”, semestrale di poesia e cultura. E’ socia della Società Italiana delle Letterate. Ha fondato, insieme ad altre, la casa editrice Vita Activa: www.vitaactivaeditoria.it.
Ha curato numerose pubblicazioni saggistiche tra cui: “Sconfinamenti. Confini passaggi soglie nella scrittura delle donne” (2008);“Dice Alice” (2015), “Oltre le parole. Scrittrici triestine del primo Novecento” (2016).
In poesia ha pubblicato: “Mie care” (2002), “Obliquo resta il tempo” (2005); “A chi di dovere” (2007), Premio Senigallia; “Beli Andjeo” (2009), “Le sorelle” (2013), “La manutenzione dei sentimenti” (2015).
Le storie sono all’inizio
tutte uguali
nasci da un ventre aperto
dal buio vedi la luce
ma subito la storia cambia
secondo il luogo lo status
il modo e l’accoglienza
non c’è una regola prescritta
uguale a tutti
ognuno trova a caso la sua stanza
chi bene – felice lui o lei – chi
con dolore
***
è morta questa mattina è morta
ma non si è accorta di morire
rideva come una bambina
su un prato in primavera
rideva anche di sera (e pure di mattina)
– s’è messa in salvo – qualcuno dice
volata via sopra una rondine
un po’ di soppiatto un po’ per avveduta
consolazione – la scelta unica rimasta
quasi sicura
***
era morta con la luna storta
era morta sopra un cuscino estraneo
di un vicino fuori della sua casa
come faceva a spiegare
a chi gliel’avesse chiesto
che era uscita in giardino
solo a fumare una sigaretta
scavalcata la finestra s’era trovata
nella casa buia decisa
a seguire il suo destino?
***
lei (invece) era morta di notte
tra le botte della sera e quelle del mattino
s’era sottratta all’impeto
alla colpa perfino alla desolazione
e la solitudine che la penetrava
non dava godimento alcuno
***
era morta mentre sedeva in classe
prima della lezione d’italiano
s’era spenta come una lampada
accasciata sullo sterno senza un sospiro
senza avvedersene
e anche i giovani entranti
la guardavano appena
come dormiente
***
era morta al supermercato tra la folla
da sola aveva attraversato il varco
senza avvertire famiglia o amici
senza permesso senza preparazione
come un balzo della mente
come improvvisa decisione
da attuare in fretta
e non tornare indietro
***
era morta davanti allo specchio
mentre si truccava per uscire
un occhio spalancato uno chiuso
a tirare la linea sulla palpebra
la traccia l’attesa la sorpresa
ciò che vide nell’orbita spenta
era denso e molle come placenta
***
lei era morta andando a riprendere
la figlia a danza
per errore aveva aperto
quella stanza e s’era trovata
ingarbugliata nella sua vita
senza trovare neppure una via
d’uscita
Karthika Naïr poetessa franco-indiana, è autrice di numerosi libri. L’ultimo è Until the Lions: Echoes from the Mahabharata (Archipelago Books, 2019). E’ anche coreografa.
La scelta e la traduzione dei testi inediti di Kathika Naïr è di Francesco Guazzo
Abitudini: Resti
Ascolta, parliamo ora chiaramente: non sei tu a mancarmi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Pioggia tiepida — sono il suo odore ed il vapore della sua armonia a mancarmi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
E neppure tutto quel jazz mi manca – la luna, le stelle, il vino, quella fiamma –
eri tu a chiamarli in causa
prima che fossero i nostri versi ad invecchiare. Era una promessa quella,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Un cielo, una terra, quest’aria, la tenda per il sole, la tua bocca,
la mia lingua, la traccia
pelle contro pelle — sono queste le cose che trattengo come un domicilio dell’amore,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
La scorsa settimana, alla lavanderia a gettoni, sono inciampata; una trapunta a quadri
mi ha afferrato il cuore
era una voce nuova a togliermi davvero il piede dall’abisso,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Sì, ho imparato ad apprezzare i semi di pino ed anche il caramello con il sale,
ad adorare Steve Reich.
Ma di sicuro questo è quello che qualcuno chiama osmosi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Ti giuro: è con le pulizie di primavera che poi ti avrei voluto fuori dalla mente. Se trovo
qualche scheggia di risata, insomma,
o un bacio color cannella, faccio finta, è solo quello,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Il passato invade il nostro adesso, ancora così imperfetto:
ininterrotto;
è ormai un mutante che canta da ogni intercapedine,
non-tu-davvero-tu-non-c’entri-niente.
Dalle Pleiadi, da questa luna d’argento vivo, io rinuncio
alle finte
del cuore, berrò da questo frutto del raccolto—
—e, in fondo, sei soltanto tu, dopotutto.
Abitudini: un ritorno
Doloroso da perdere, e lontano
eppure troppo facile da riportare indietro. Si guarda intorno,
ed anche questa volta, aspetta,
ad occhi fissi. Inevitabile, immanente,
quella cosa con cui vorresti andartene, ma è lì rimasta ferma
ed è per sempre, o quasi.
Quasi.
Quasi un pelo, meno di un labbro leporino?
Ci sono abitudini e abitudini.
Respirare è un’abitudine, son qui a cercare di farla mia.
Quello che cerco di perdere sei tu.
Abitudini: liberazione
È solo adesso che posso piangere davvero
il nostro noi come farebbe qualcuno,
qualcuno conosciuto, e amato un’era fa,
è solo ora che posso realizzare
sì, che è per davvero: se n’è andato.
È la stagione a farci piangere. Come
possiamo amare qualcuno oltre
il pensiero, la parola, la ragione; andare
avanti, poi, e tornare indietro mai;
ancora piangi? È solo in questo istante
che posso amare qualcuno, ed è forse
uno che farà presto ad invecchiare,
lo so, ma saprà darmi amore.
Habits: Remnants
Listen, let’s get this straight: it isn’t you I miss, not you at all.
Warm rain—its scent and smoky song are what I miss, not you at all.
Nor all that jazz – the moon, the stars, the wine, the flame – that you conjured
before our verses grew old. That was a promise, not you at all.
A sky, an earth, this air, the awning, your mouth, my tongue, the impress
of skin on skin—these I hold as love’s edifice, not you at all.
Last week at the laundrette I tripped; a block-printed quilt snagged the heart.
A new voice pulled away my feet from the abyss, not you at all.
Yes, I’ve grown to like pine seeds and salted caramel, to worship
Steve Reich. But, surely, that’s what they call osmosis, not you at all.
I swear I’d spring-cleaned you from the mind. So I feign, when I find
slivers of laughter, a cinnamon-coloured kiss, not you at all.
The past invades our present, still imperfect yet continuous;
becomes a mutant who sings from each interstice, not-you-at-all.
By the Pleiades, by the quicksilver moon, I renounce the heart’s
feints, I will drink from this harvest chalice—it’s all you, after all.
Habits: Return
Painful to lose, far
too easy to recover. Turn around,
and there once again, unblinking,
it waits. Inevitable, immanent,
that thing you would flee but seem stuck with forever, almost.
Almost.
Almost a lisp, less than a hare lip?
There are habits and there are habits. Breathing is a habit I try to acquire.
You are the one I try to shed.
Habits: Release
I can mourn us now like someone,
someone I knew, loved an age back,
and learn has gone. It’s the season
to mourn. How can we like someone
beyond thought and word and reason;
then, move on; and never backtrack,
yet mourn? I can now like someone,
one who’ll age, I know, but love back.
Karthika Naïr poetessa franco-indiana, è autrice di numerosi libri. L’ultimo è Until the Lions: Echoes from the Mahabharata (Archipelago Books, 2019). E’ anche coreografa.
La scelta e la traduzione dei testi inediti di Kathika Naïr è di Francesco Guazzo
Come il viale è quieto, chiaro, assonnato!
Colta dal vento la sabbia vola via
E l’erba sfiora come un soffice pettine…
Con quale gioia or vengo in questo luogo
E a lungo siedo, semiassopito.
Mi piace, quasi svagato, ascoltare
Ora il riso, ora il pianto dei bimbi, e dietro un cerchio
La loro ritmica corsa sul sentiero. Che bello!
Che frastuono, così eterno e veritiero,
Come di pioggia, di risacca o di vento.
Nessuno mi conosce. Qui sono un semplice
Passante, un cittadino, un “signore”
In pastrano marrone e bombetta,
Niente di speciale. Ecco, una signorina
Mi si siede accanto con un libro aperto.
Un marmocchio col secchiello e la paletta
Si accoccola ai miei piedi. Imbronciato,
Si rigira nella sabbia, ed io così enorme
Mi sembro per questa vicinanza,
Che rammento,
Quando io stesso sedevo presso la colonna
Leonina a Venezia. Su questa creaturina,
Sulla testa nel berrettino verde,
Io mi ergo come pesante pietra
Secolare, sopravvissuta a molti
Uomini e regni, tradimenti ed eroismi.
E il marmocchio con zelo riempie
Di sabbia il secchiello e, presolo, me lo versa
Sui piedi, sulle scarpe…Che bello!
E leggero nel cuore io rivedo
Il cocente meriggio veneziano,
Il leone alato librarsi su di me
Immobile con il libro aperto tra le zampe.
E sopra il leone, rosea e tondeggiante,
Fuggire una nuvoletta. E più in alto, più in alto –
L’azzurro denso e cupo, e in esso scivolare
Minuscole, ma fiammeggianti stelle.
Ora esse ardono sul viale,
Sul marmocchio e su di me. Follemente
I loro raggi lottano coi raggi del sole…
Il vento
Inesauribile fruscia con le ondate di sabbia,
Sfoglia il libro della signorina. E ciò che odo,
Da non so qual prodigio è trasfigurato,
Così tenacemente s’imprime nel cuore,
Che più non mi servon né pensieri né parole,
Ed è come se mi specchiassi
In me stesso.
E a tal punto seduce la viva linfa dell’anima,
Che, come Narciso, io dalla sponda terrena
Mi strappo e volo là, dove sono solo,
Nel mio primevo mondo natìo,
Faccia a faccia con me stesso, smarrito un giorno –
Ed ora ritrovato…E da lontano
Mi giunge la voce della signorina: “Mi scusi,
Che ore sono?”
1918
Il pane
Oggi in cucina c’è una luce che abbaglia.
Col grembiule, cosparsa di farina,
Di tutte le Mignon tu sei la più bella
Con la tua bellezza genuina.
Ti svolazzano intorno coi cestini,
Con il bricco del latte e le fascine,
Spiumandosi le ali, i cherubini…
Tra le nubi, dalle colline
Prorompe la luce, e sulle pentole oziose
Come fasci di strali batte il giorno.
Sfacendosi somiglia a pallide rose
La legna che arde nel forno.
E i densi getti del futuro filone
Nel vaso d’argilla un angelo versa,
Giurandoci che son veri, come il sole,
L’amore, il lavoro e la terra.
1918
Il vizio e la morte
Vizio e morte. Quale tentazione,
E quante gioie in una parola godo!
Vizio e morte pungono allo stesso modo,
E sfuggirà il loro pungiglione
Solo colui che serberà nella coscienza
La segreta chiave di un’altra esistenza.
1921
Elegia
Del giardino Kronverkskij le fronde
Stormiscono ai venti rugghianti.
L’anima la sua gioia effonde.
Non le servono conforto e incanti.
Con occhi ardenti e temerari
Guarda i suoi millenni passati,
E vola con le sue grandi ali
Lungo sciami fuoco-alati.
Là tutto è sconfinato e canoro,
E ciascuno ha un’arpa in mano,
Come nubi, gli spiriti tra loro
Parlano un idioma dolce e arcano.
La mia esiliata con esultanza
Entra nella dimora cara
E la sua orgogliosa uguaglianza
Ai tremendi fratelli dichiara.
E mai più oramai le servirà
Chi sotto la pioggia che sferza
Nel giardino Kronverkskij qua e là
Si trascina con la sua pochezza.
E non coglie il mio povero udito,
Né la mente inerte e banale,
Qual spirito essa sarà in paradiso,
O nel tetro abisso infernale.
1921
Oltrepassa, oltresalta,
Oltrevola, oltre – ciò che vuoi –
Ma liberati: come sasso dalla fionda,
Come stella, caduta nella notte…
Ti sei smarrito – adesso cerca…
Dio sa che cosa borbotti,
Cercando le lenti o le chiavi.
1922
An Mariechen
Stai lì attaccata come una ventosa,
A servir birra dietro il banco.
Ci vuole una ragazza più briosa, –
Tu sei malata e il tuo volto è bianco.
Con quella rosa enorme sopra il petto
Che nessuno ancora ha mai baciato –
Mentre un serto funebre, anche il più gretto,
Sarebbe ornamento più indicato.
E’ così bello, così imperituro
Morire ancor prima di peccare.
Ma i tuoi cari ti troveran sicuro
Qualcuno che ti porti all’altare
Un uomo cosiddetto benpensante,
Una persona come si deve –
Sarà un fardello inutile e pesante
Per la tua vita debole e breve.
Meglio sarebbe – ignara e sorridente –
Solo a pensarci un fremito avverto –
Abbandonarti in preda a un malvivente
In un boschetto buio e deserto.
Meglio – in pochi istanti, senza illusioni –
Conoscer la vergogna e la morte,
E i due sfaceli, le due deflorazioni
Non separare da una stessa sorte.
Giacere in terra – l’abito sgualcito –
Sola, in quel bosco di betulla,
Un coltello nel seno illividito.
Nel tuo seno ancora di fanciulla.
1923
Povere rime
Per quattro soldi tutta la settimana
Deperire, affannarsi e trepidare,
Ogni sabato con la moglie befana
Su un boccale abbracciati sonnecchiare,
La domenica sull’erba non più verde
Recarsi in treno, stender la coperta,
E di nuovo assopirsi e testardamente
Trovare che tutto questo diverta,
E trascinarsi indietro nella dimora
La coperta, la moglie e la giacca,
E non sferrare mai, alla buon’ora,
Alla coperta e al mondo un pugno in faccia, –
Oh, in una tale legge senza scampo,
In una tal ferrea rassegnazione,
oh, le bollicine possono soltanto
Salire sempre in alto nel sifone.
1926
Ballata
Siedo nella mia stanza rotonda,
Siedo, dall’alto rischiarato.
Guardo il sole da venti candele
Lassù nel cielo intonacato.
Intorno – come me rischiarati,
Il tavolo, i lisi divani.
Siedo – e nello sgomento non so più
Dove posare le mie mani.
Sui vetri silenzioso fiorisce
Un gelido bianco palmeto.
Nel taschino del gilè martella
L’orologio il suo toc inquieto.
Oh, della mia vita senza scampo
Inerte, misera povertà!
A chi confidare come io sento
Per me e per queste cose pietà?
Ed ecco comincio ad oscillare,
Tenendo serrati i ginocchi,
E a un tratto in versi a parlare prendo
Con me stesso, chiudendo gli occhi.
Sconnessi, appassionati discorsi!
Discorsi senza alcun costrutto,
Ma i suoni son più veri del senso,
La parola – più forte di tutto.
E musica, musica, musica
Al mio canto si avvince,
E sottile, sottile, sottile
Una lama allor mi trafigge.
Io emergo al di sopra di me stesso,
Mi erigo sulla morta esistenza,
I piedi nella fiamma nascosta,
La fronte negli astri scorrenti.
E vedo con occhi smisurati –
Con occhi, forse, di serpente –
Come il canto selvaggio ascoltano
Le mie tristi cose da niente.
E a un fluido ritmico vortice
Tutta la stanza si abbandona,
E qualcuno la pesante lira
Attraverso il vento mi dona.
E non c’è più il cielo intonacato
E il sole da venti candele:
Su nere rocce levigate
Orfeo poggia i piedi lieve.
1921
Chodasevič è sepolto nel cimitero di Billancourt, presso Parigi, il poeta che Maksim Gorkij considerava “il migliore che vanti la Russia moderna”. Vladislav Felicianovič Chodasevič, di origine polacca, era nato a Mosca il 29 maggio 1886. Nel 1922 lasciò la Russia per sempre, e dal 1925 fino al giorno della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1939, visse costantemente a Parigi.
I suoi primi quattro volumetti di poesie furono pubblicati in Russia:Giovinezza nel 1908, La casetta felice nel 1914, Per la via del grano nel 1920 e La pesante lira nel 1922. I versi da lui scritti all’estero, e riassunti col titolo La notte europea, entrarono a far parte della sua raccolta del 1927. L’ultimo decennio di vita di Chodasevič fu più dedicato alla critica e alle rievocazioni letterarie, che alla poesia. Non ebbe mai altri guadagni che quelli derivatigli dalla sua attività letteraria, visse sempre negli stenti, cadde spesso gravemente ammalato, ma ebbe amici cari e fedeli tra letterati e poeti, lettori e ammiratori, che non cessarono mai di amarlo.
Scriveva Gumilёv nel 1914, commentando la seconda raccolta di versi La casetta felice: “Non è possibile abituarsi né alla sua fantasia, né alle sue intonazioni – egli ci si presenta inaspettato, con nuove avvincenti parole, e non si trattiene a lungo, lasciando dietro di sé un piacevole inappagamento e il desiderio di un nuovo incontro”.
Per i loro tratti chiari e precisi e per l’immediata efficacia, i versi di Chodasevič incantano anche il lettore più “impoetico”. La loro forma classica è impeccabile, semplice, elegante. La sua concezione della vita è ironica e tragica al tempo stesso. Dalla sua poesia emerge con insistenza l’eterno tema dell’anima immortale e degli ostacoli che le frappongono la materia e la squallida banalità della vita. E’ un continuo alternarsi di estasi metafisiche e di minute inquadrature prosaiche, d’immersioni ed emersioni, di cadute negli abissi dell’esistenza e di slanci mistici.
Scrive R. Poggioli nel suo libro Il fiore del verso russo: “Uno dei procedimenti più cari a Chodasevič è proprio quello di assegnare una grandezza precaria a provvisoria a oggetti meschini o anche di ridurre le cose grandi alle dimensioni di quelli o al loro livello, ed è questo gioco fra il sublime e il minuscolo che gli permette di comprendere l’umanità di ogni oggetto e le lacrime delle cose”. A.M. Ripellino ha messo in risalto il lato “mordace e velenoso” della poesia di Chodasevič, il suo “mondo uggioso e grottesco, nel quale si aggirano personaggi meschini, idioti e mostri dall’apparenza fantomatica”, sottolineando inoltre il pessimismo del poeta, il clima di scherno, l’atmosfera grigia che aleggia nei suoi versi.
E’ vero: Chodasevič è un poeta spaesato in tanto squallore che lo circonda, ma mi sembra che il suo pessimismo, la sua tragedia trovino una via d’uscita, e la sua salvezza sia nel tono serio e pacato della sua poesia, nella sua attitudine a contemplare con un certo distacco i misteri dell’anima e dell’esistenza; la sua è un’ironia assai spesso feroce e maligna, ma sovente è anche serena, ricca di un humour leggero e immediato. La sua rabbia non lo fa tonare, ma lo spinge a riflettere, a partecipare delle altrui miserie, a sorridere lievemente subito dopo aver pianto.
In una lettera del 1 ottobre 1923 Gorkij scriveva al poeta: “I vostri versi An Mariechen sono belli e penetranti. Non so dire di più, ma aggiungerò soltanto che essi suscitano nell’anima il freddo sibilo della bufera di neve” e nello stesso tempo sono irresistibilmente umani”. Mi sembra che questo suggestivo giudizio di Gorkij possa essere la giusta insegna sull’incantato “bazar” del poeta Chodasevič. (Paolo Statuti)
FONTE- da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti-
Luogo e data di nascita: Moskva, 16 (28) maggio 1886
Luogo e data di morte: Parigi, 14 giugno 1939
Professione: poeta, memorialista, critico letterario
Ultimo di sei figli, nasce da un padre di nobile origine polacca (Felician Ivanovič Chodasevič; 1834–1911) e da madre ebrea (Sofija Jakovlevna Brafman; 1846–1911), poi convertita al cattolicesimo. Dal padre che in giovinezza sognava di diventare pittore (aprirà invece a Mosca uno dei primi negozi di articoli fotografici) eredita l’inclinazione per le arti e dalla madre il gusto della poesia. Di salute cagionevole, alla passione giovanile per il balletto sostituisce all’inizio del secolo l’amore per la letteratura: frequenta circoli letterari e artistici, scrive recensioni e feuilletons, traduce, collabora con diverse riviste, nel 1908 pubblica la prima raccolta di versi Molodost’ (Giovinezza)
Nel 1911 viene per la prima volta in Italia per curarsi e si ferma a Nervi sulla Riviera ligure, poi visita Firenze, Pisa e Venezia, dove si consuma il suo dramma d’amore per Evgenija Vladimirovna Paganuzzi (1884–1982), prima moglie di Pavel Muratov. Il primo viaggio si prolunga più di due mesi (2 giugno – metà agosto 1911), Venezia e l’Italia seducono il poeta: “Non può sottrarsi l’Italia alla sua inevitabile leggiadria! Ora costruisce le città sui capricciosi declivi dei suoi monti, ora sulle rocce costiere, ora sulle decine di minuscole isolette sparpagliate nella nebbiosa laguna” (Nočnoj prazdnik, in Sobranie sočinenij, a cura di J.E. Malmstad e R. Hughes, Ann Arbor: Ardis, 1990, vol. 2, p. 77).
Chodasevič si rifiuta di considerare ‘morta’ Venezia, come l’aveva descritta Pёtr Percov nel suo libro Venecija (1905) o Nina Petrovskaja nel saggio Mertvyj gorod: Pis’mo iz Venecii (La città morta: lettera da Venezia, 1908), e nello schizzo Nočnoj prazdnik (Festa notturna) indugia ancora sulla incomparabile bellezza dell’Italia: “Girovagando per le tortuose, strette viuzze che scendono al mare di una cittadina d’Italia, ho capito una volta per tutte che la bellezza è un dono del cielo, ingiusto e dolce, dato per secoli a questo paese” (Ibidem).
Nel 1914 il poeta pubblica la sua seconda raccolta Ščaslivyj domik (La casetta felice), negli anni della Prima guerra mondiale si risparmia il fronte per una grave forma di tubercolosi ossea, collabora con le riviste “Russkie vedomosti” e “Utro Rossii”, passa l’estate 1916 e 1917 a Koktebel’ da Maksimilian Vološin.
Come molti intellettuali accoglie con entusiasmo la rivoluzione di febbraio, aderisce inizialmente alla rivoluzione d’ottobre: nel 1917-1920 collabora alla sezione teatrale del Commissariato del popolo per l’istruzione (TEO) e al Proletkul’t, dirige la sezione moscovita delle edizioni Vsemirnaja literatura; nel 1918 insieme a Muratov organizza Knižnaja lavka pisatelej (Bottega del libro per gli scrittori), improvvisata rivendita di libri su commissione ed esigua fonte di sussistenza; edita insieme a Lev Jaffe Evrejskaja antologija. Sbornik molodych evrejskoj poezii (Antologia ebraica. Raccolta di giovani poeti ebrei).
Nel novembre 1920 si trasferisce a Pietrogrado, dove con l’aiuto di Maksim Gor’kij ottiene un alloggio alla Casa delle Arti (Disk), rifugio insperato per l’intelligencija in cui convergono in quegli anni di carestia e incertezza molti letterati (al Disk dedicherà molte pagine di memorie). Nel 1920 esce la raccolta Putёm zerna (Per la via del grano) che lo pone fra le grandi voci poetiche del suo tempo, nel 1922 Tjaželaja lira (La pesante lira), poi è come sospinto fuori dalla Russia sovietica, prende la difficile decisione di allontanarsi dalla Russia; grazie all’aiuto dell’ambasciatore della Lettonia Jurgis Baltrušajtis e di Anatolij Lunačarskij ottiene il passaporto per l’estero per 3 anni per motivi di salute.
Il 22 giugno 1922, senza neanche salutare la moglie Anna Čulkova (gesto di cui si rammarica tutta la vita) parte con Nina Berberova per Berlino, prima stazione della via di emigrato che lo porterà nel 1925 a Parigi. Come molti altri russi a Berlino non si considera un emigrato, anzi prova un’aperta insofferenza per i bianchi, si sente affine a Andrej Belyj che più d’ogni altro aveva percepito il sentore di catastrofe del periodo e la lugubre atmosfera della città: “Berlino è un incubo, che penetra nella vita reale con ordine e metodo e assume l’aspetto innocuo del comune buon senso borghese: un buon senso senza senso” (A. Belyj, Odna iz obitelej carstva tenej, Leningrad 1924, p. 36). Incontra Muratov, Boris Zajcev, Il’ja Erenburg, Boris Pasternak e molti altri, frequenta le serate letterarie al Café Landgraf (tutto diligentemente appuntato nel suo Kamer-fur’erskij žurnal, Diario di un gentiluomo di corte), ma il “volto inumano” della città lo respinge:
Case – come demoni,
fra le case – tenebra;
filiere di demoni,
e in mezzo uno spiffero
(Dalla strada di Berlino, in È tempo di essere, p. 241).
Gli anni 1921-1925 sono indissolubilmente legati a Gor’kij, nonostante la loro diversità di carattere e opinioni: prima lavorano insieme all’edizione della rivista “Beseda” (La conversazione) di cui usciranno 6 numeri, poi dall’ottobre 1924 all’aprile 1925 è ospite a Sorrento dallo scrittore.
La giornata di Gor’kij è rigorosamente suddivisa tra lavoro, salutari passeggiate, pranzi e divertimento. Al piano superiore della villa (camera di Gor’kij e Budberg) si lavora, al piano inferiore, quello che lo scrittore chiama la nursery, si gioca: Maksim legge romanzi polizieschi, colleziona francobolli, la moglie dipinge. Talora Maksim fa da cicerone agli ospiti e li porta sulla sua motocicletta a visitare Amalfi o Ravello:
La motocicletta sfiora la roccia
In corsa sinuosa,
la nuova curva rivela più ampio
ora il golfo alla vista (…)
Dorme Procida in contorni di nebbia,
a nord sfiata il Vesuvio
(Fotografie di Sorrento, in Non è tempo di essere, p. 279).
Per divagarsi Maksim propone di pubblicare un giornale manoscritto “Sorrentijskaja pravda” (La verità di Sorrento), parodia di certe riviste sovietiche o dell’emigrazione, per il quale scrivono Gor’kij, Chodasevič e Berberova, l’impaginazione è di Maksim, le illustrazioni di Rakickij e Maksim, che “in considerazione della sua scarsa competenza” svolge anche il ruolo di redattore
Chodasevic visita anche le rovine di Pompei, scrive il saggio Pompejskij užas (Stupore pompeiano, 1925), in cui riflette sulla patria e l’emigrazione, sul crollo della civiltà europea. A Sorrento si raffredda a poco a poco la sua amicizia con Gor’kij “senza discussioni, scandali, reciproci rimproveri o offese”, lo snerva l’atteggiamento ambiguo di Gor’kij verso il regime sovietico:
“Era uno degli uomini più testardi che conobbi, ma anche uno dei più tenaci. Ammiratore strenuo del sogno e dell’inganno dominante, che per la primitività del suo pensiero non seppe mai distinguere dalla più comune e volgare menzogna, egli non ha mai fatto propria la sua immagine ‘ideale’, in parte autentica, in parte immaginaria, di cantore della rivoluzione e del proletariato. E quando la rivoluzione risultò diversa da quella che aveva immaginata, gli fu intollerabile il solo pensiero di perdere questa immagine, di “deteriorare la propria biografia” <…> e alla fin fine si vendette, non per soldi, ma per conservare per se e per gli altri l’illusione principale della sua vita <…>. In cambio di tutto ciò la rivoluzione ha preteso da lui, come pretende da tutti, non un onesto lavoro, ma sudditanza e lusinga. È diventato uno schiavo e un adulatore” (Gor’kij 2 // Nekropol’; Vospominanija; Literatura i vlast’; Pis’ma k B.A. Sadovskomu / pred. i komm. N. Bogomolova. Moskva 1996, pp. 207-208).
Quando nell’aprile 1925 la rappresentanza sovietica in italia nega a Chodasevič il prolungamento del visto e gli ingiunge di rientrare in URSS, il poeta rifiuta e si trasferisce definitivamente a Parigi. Qui tace la sua voce poetica, collabora come critico letterario alle riviste “Sovremennye zapiski” (Appunti contemporanei) e “Vozroždenie” (La rinascita), continua lo studio della linea classica della poesia russa, scrive la biografia di Deržavin (1931), gli articoli Literatura i vlast’ v sovetskoj Rossii (Letteratura e potere nella Russia sovietica, 1931) e Krovavaja pišča (Cibo insanguinato, 1932), la raccolta di saggi su Puškin (1937) e il volume Necropoli (1939).
Pubblicazioni
Chodasevič, Poesie, in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Torino: Einaudi, 1949, pp. 361-376.
Chodasevič, Poesie, in A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954, pp. 209-224.
V.F. Chodasevič, Necropoli. A cura di Nilo Pucci, pref. di N. Berberova, Milano: Adelphi, 1985.
V.F. Chodasevič, La notte europea. A cura di C. Graziadei, con uno scritto di N. Berberova. Milano: Guanda, 1992.
Perepiska N.N. Berberovoj i V.F. Chodaseviča s Ol’goj Sin’orelli (1923–1933) / publ. E. Garetto // Archivio russo-italiano IX. Salerno: Collana di Europa Orientalis, 2012. Т. 1. C. 103–138.
V.F. Chodasevič, Quarantuno poesie. A cura di N. Pucci, Borgomanero: Ladolfi, 2014.
V.F. Chodasevič, Non è tempo di essere. A cura di C. Graziadei. Firenze: Bompiani, 2019.
Fonti archivistiche
Fondazione Giorgio Cini, Venezia. Archivio di Angelo e Olga Signorelli.
Bibliografia
Belyj, Rembrandtova pravda v poezii našich dnej (o stichach V. Chodaseviča) // Zapiski mečtatelej 1922. № 5, pp. 13–39.
A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954.
N.A. Bogomolov, Žizn’ i poezija Vladislava Chodaseviča // V.F. Chodasevič, Stichotvorenija. L.: Sovetskij pisatel’, 1989, pp. 5–51.
Berberova, Il corsivo è mio, Milano: Adelphi, 1989.
Čulkova, Vospominanija o Vladislave Chodaseviče // Russica-1981, New-York 1981
Graziadei, La dissonanza nella poesia di Chodasevič, in Il gladiatore morente. Saggi di poesia
russa. Siena: Cadmo, 2000, pp. 167–212.
Graziadei, Contemplare la morte. Karl Brjullov, Vladislav Chodasevič, in Estetica delle rovine, a cura di G. Tortora. Roma: Manifestolibri, 200, pp. 385–405.
G. Bočarov, Filologičeskie sjužety, M.: Jazyki slavjanskich kul’tur, 2008, pp. 385–415.
Sinossi-Questo libro, di cui presentiamo la prima traduzione al mondo, si apre sugli anni del primo Novecento russo. Era il momento di una equivoca ed esaltante mescolanza fra arte e vita: «Tutte le strade erano aperte, con un solo obbligo: andare quanto più possibile veloce e lontano. Questo era l’unico, il fondamentale dogma. Si poteva esaltare Dio come il Diavolo. Si poteva essere posseduti da qualsiasi cosa, entità: l’importante era la pienezza della possessione». Tutto andava offerto sull’altare delle emozioni. «Cogliamo gli attimi distruggendoli» disse Brjusov, gran sacerdote del simbolismo. C’era la posa teatrale e c’era il colpo di pistola. «“Perdo succo di mirtillo!” gridava il pagliaccio di Blok. Ma il succo di mirtillo talvolta si rivelò sangue vero».
Chodasevic era allora un giovane poeta, dal segno elegante, dall’aria morbosa, dall’intelligenza acutissima. Oggi sappiamo che era un astro nella costellazione dei grandi poeti russi malmenati dalla storia, accanto alla Achmatova, a Mandel’štam, alla Cvetaeva, a Pasternak, anche se la sua opera solo ora comincia a essere scoperta. «Nell’aria afosa, come prima dei temporali, di quegli anni», troppo colmi di presagi (il suo amico Muni ne era così ossessionato che arrivò a dichiarare: «I presagi sono aboliti»), Chodasevic visse la nascita caotica della letteratura moderna in Russia. Si conoscevano tutti, percepivano miserie e incanti gli uni degli altri, avevano passioni per le stesse donne, litigavano, bevevano, perdevano al gioco. Poi venne la guerra, venne la rivoluzione, ai poeti cominciarono ad accompagnarsi i delatori. Pietroburgo appariva come «una città morta, sinistra». Nel 1922 Chodasevic riuscì ad abbandonare la Russia, non senza aver esortato i suoi amici nelle «ultime ore prima della separazione» a concordare i segnali «da scambiarsi nella tenebra che incombe». Da allora sino alla morte si può dire che non abbia assistito che all’estendersi, intorno a lui, di una sterminata «necropoli». Morivano uno dopo l’altro, suicidi, o assassinati o ridotti al silenzio. E uno dopo l’altro sfilano in questo libro: da Brjusov a Blok, da Esenin a Sologub, da Belyj a Gor’kij. Chodasevic non riesce a parlare di questi scrittori senza darci anche un giudizio penetrante sulla loro opera, ma non riesce a parlare della loro opera senza evocare la loro presenza, il loro gesto, spesso il loro convivere con le più ingombranti contraddizioni. Erano tutti personaggi di un immenso «romanzo russo», e come tali qui ci appaiono. Oscillavano tutti fra estremi, e riuscivano talvolta a mascherarne la natura. Come per Sologub, di ciascuno era difficile dire «da dove è partito e dove è arrivato, se dal sacrilegio alla preghiera o viceversa, dalla benedizione alla maledizione o viceversa». Crudele e commosso, questo libro è un salvataggio nella memoria dell’ultima grande letteratura russa, operato da uno dei suoi protagonisti, prima che la «necropoli» inghiottisse anche lui. Come scrisse lo stesso Chodasevic: «In un certo senso la storia della letteratura russa potrebbe essere definita la storia della distruzione degli scrittori russi».
Itzhak Katznelson “Il canto del popolo ebraico massacrato”
Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Itzhak Katznelson (Karėličy, 1º luglio 1886 – campo di concentramento di Auschwitz, 1º maggio 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto.-tradotto da Helena Janeczek
Il canto del popolo ebraico massacrato
I Canta
1
«Canta! Prendi in mano la tua arpa, vuota, svuotata e misera,
sulle sue corde fini getta le dita pesanti
come cuori, come cuori afflitti. Canta l’ultimo canto,
canta degli ultimi ebrei in terra d’Europa».
2
– Come posso cantare? Come posso aprir la bocca,
se sono rimasto io da solo –
mia moglie e i miei due bambini- orrore!
Inorridisco d’orrore…si piange! Sento ovunque un pianto-
3
«Canta, canta! Alza la tua voce afflitta e rotta,
cerca, cerca lassù in alto, se c’è ancora Lui,
e cantagli…cantagli l’ultimo canto degli ultimi ebrei,
vissuti, morti, non sepolti e non più…»
4
– Come posso cantare? Come posso alzar la testa?
Deportata mia moglie e il mio Benzion e il mio Yomele- un bimbo –
Non li ho più qui con me e non mi lasciano più!
O ombre oscure della mia luce, o ombre fredde e cieche.
5
« Canta, canta un’ultima volta qui sulla terra,
getta indietro la testa, fissa gli occhi su di Lui
e cantagli un’ultima volta, suonagli la tua arpa:
qui non ci sono più ebrei! Massacrati, e non più qui!».
6
– Come posso cantare? Come posso fissare gli occhi e alzar la testa?
Una lacrima ghiacciata mi si è appiccicata all’occhio…
vorrebbe staccarsi, strapparsi via dall’occhio
– e non può cadere, Dio mio!
7
«Canta, canta, alza il tuo sguardo cieco al cieli alti,
come ci fosse un Dio lassù nei cieli…salutalo, saluta con la mano-
come se da lassù una grande fortuna ci splendesse e ci illuminasse!
Siedi sulle rovine del tuo popolo massacrato e canta!
8
– Come posso cantare? Se il mondo per me è deserto?
Come posso suonare con le mani rotte?
Dove sono i miei morti? Io cerco i miei morti, Dio, in ogni rifiuto,
in ogni mucchio di cenere…O, ditemi dove siete.
9
Gridate da ogni pezzo di terra, da sotto ogni pietra,
da ogni grano di polvere, da tutte le fiamme, tutto il fumo-
è il vostro sangue e succo, è il midollo delle vostre membra,
è la vostra anima e carne! Gridate, Gridate forte!
10
Gridate dai visceri delle fiere nel bosco, dai pesci nello stagno-
Vi hanno mangiati. Gridate dai forni, gridate grandi e piccoli:
voglio uno strepito, un lamento, una voce, voglio una voce da voi,
gettare uno sguardo muto, ammutolito sul mio popolo massacrato-
e voglio cantare…sì…datemi l’arpa- io suono!
3-5.10.1943.
IX Ai cieli
1
Così ebbe principio, incominciò…Cieli, dite perché, dite per chi?
Perché sulla terra tutt’intera ci tocca essere tanto umiliati ?
La terra, sordomuta, ha come chiuso gli occhi…Ma voi, voi cieli, voi avete visto,
stavate a guardare voi, lassù dall’alto; eppure non vi siete capovolti!
2
Non si è rannuvolato il vostro azzurro, scontato azzurro, splendeva falso come sempre,
il sole rosso come un boia crudele ha continuato a girare in tondo,
la luna, vecchia sgualdrina peccatrice, andava a passeggiare in voi la notte,
e le stelle sconce brillavano, strizzavano gli occhietti come topi.
3
Via! Non voglio alzar lo sguardo, non voglio vedervi, non voglio saper nulla di voi!
O cieli falsi e bugiardi, o lassù nell’alto bassi cieli! Quanto mi addolora:
Io vi credevo un tempo,vi confidavo gioia e tristezza, riso e pianto,
ma voi non siete meglio della schifosa terra, del grande mucchio di letame!
4
Io vi lodavo, cieli, io vi inneggiavo in ogni mia canzone, ogni mio canto-
io vi amavo come si ama una moglie; lei non c’è più, disciolta come schiuma.
io somigliavo sin dalla mia infanzia il sole in voi, il sole fiammeggiante del tramonto
alla mia speranza: “così svanisce la mia speranza, così muore il mio sogno!”
5
Via!Via! Vi siete fatti beffa di noi tutti, beffati il mio popolo, beffata la mia stirpe!
Da sempre voi ci sbeffeggiate: già i miei padri, i miei profeti sbeffeggiavate!
A voi, a voi – alzavano gli occhi, alla vostra fiamma si accendevano,
i più fedeli a voi qui sulla terra che sulla terra si struggevano per voi.
6
A voi anelavano….a voi per primi esclamavano: haazinu!- Ascoltate!
E solo poi la terra. Così il mio Mosè e cosi Isaia, il mio Isaia: shimu!- Udite!
E shomu! gridava Geremia: shomu! A chi, se non a voi? Perché d’un colpo vi siete estraniati?
O aperti e vasti cieli, luminosi e alti cieli! voi siete tali quali alla terra.
7
Non ci conoscete, non ci riconoscete più- perché? Saremo poi
tanto diversi, tanto cambiati? Ma se siamo gli stessi ebrei di sempre-
e anche molto migliori…Io no! Non voglio paragonarmi ai miei profeti, non devo,
ma loro, tutti quegli ebrei portati a morire, i milioni massacrati ora –
8
Loro sì, sono migliori: più provati, purificati dall’esilio! E quanto vale
uno dei grandi ebrei di allora di fronte a un piccolo, semplice, qualsiasi ebreo di oggi
in Polonia, Lituania, Volinia, in ogni terra d’esilio, – in ogni ebreo si lamenta e grida
un Geremia, un Giobbe disperato, un re deluso intona il Qohelet.
9
Non ci conoscete, non ci riconoscete più, nessuno: come fingessimo di essere altri.
Ma noi siamo gli stessi, gli ebrei di sempre, e come sempre pecchiamo contro noi stessi,
e come sempre rinunciamo alla nostra felicità e vogliamo ancora salvare il mondo-
E voi, com’è che siete così azzurri, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando, com’è che siete così belli?
10
Come Saul, il mio re, nella mia pena cercherò la maga,
troverò la strada disperata e scura per Endor,
e chiamerò fuori dalle tombe tutti i miei profeti e tutti implorerò: guardate, guardate in alto
ai vostri chiari cieli e sputate loro in faccia: “che siate maledetti, maledetti!”
11
Voi cieli stavate a guardare da lassù quando hanno portato i bambini del mio popolo
– per navi, su treni, a piedi, in pieno giorno e nella notte scura- a morire,
milioni di bambini, mentre li ammazzavano, hanno alzato le mani a voi- non vi siete commossi,
milioni di nobili madri e padre- non si è accapponata la vostra azzurra pelle.
12
Voi avete visto i Yomele di undici anni, semplice gioia! gioia e bontà,
e i Benzion, i piccoli geonim così seri e studiosi…consolazione di tutto il creato!
Avete visto le Hanne che li hanno avuti e consacrati a Dio nella sua casa,
e siete rimasti a guardare…Non avete nessun Dio in voi, cieli! Cieli da niente, cieli smagliati!
13
Non avete nessun Dio in voi! Aprite le vostre porte, cieli, aprite e spalancate
e lasciate entrare tutti i bambini del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato,
aprite per la grande ascensione: tutto un popolo crocefisso con gravi sofferenze
deve entrare in voi…Ciascuno dei miei bambini massacrati può essere il loro Dio!
14
O cieli desolati e vuoti, o cieli come un deserto vasti e desolati,
io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro averne tre non basta:
il Dio degli ebrei, il suo spirito e l’ebreo della Galilea che giustiziarono, sono pochi:
ci hanno spediti tutti quanti in cielo, – o schifosa e vigliacca idolatria!
15
Rallegratevi, cieli, rallegratevi!- Eravate poveri, adesso siete ricchi,
che messe benedetta- tutto, tutto un intero popolo, che gran fortuna, vi è stato regalato!
Rallegratevi cieli lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con voi,
e un fuoco dalla terra salga fino a voi e divampi un fuoco da voi fino alla terra.
26.11.1943
Breve Biografia-Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Ovunque tu sia,
ovunque tu, immeritatamente,
mi guardi,
ovunque tu stabilisca
io abbia una casa,
fosse pure una prigione grigia,
io so che da qualsiasi pietra
tu puoi far scaturire un fiore
nel perimetro della mia mente.
Tra le tue braccia
Tra le tue braccia
C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.
Amami
finchè sentirai il calore
di una fiamma tremula
che sempre arde,
difendendosi dai venti di scogliera.
Sono un pensiero
che non vuole mai
legare le tue mani
libere nel mondo,
anche se vorrei
che fossero solo mie.
Amami
ora che non ho parole
per farti innamorare
dei miei silenzi
pieni di gioia,
che non potrai vedere.
Amami ancora,
saranno solo gli occhi
a dirti la mia passione
e le mie labbra,
a raccontarti
cose difficili da dire.
Saremo noi,
un giorno forse
ad abbracciare solo i profumi
dei nostri corpi
senza paura
che l’assenza diventi una cosa vera.
Ieri sera era amore (A Ettore)
“Ieri sera era amore, io e te nella vita fuggitivi e fuggiaschi con un bacio e una bocca come in un quadro astratto: io e te innamorati stupendamente accanto. Io ti ho gemmato e l’ho detto: ma questa mia emozione si è spenta nelle parole”.
Perché t’amo
Perché t’amo e mi sfuggi,
pesce rosso di vita
umido dentro l’erba
palpitante nel sole?
Perché non ho parola
dura come la pietra
che ti ferisca a morte?
Così ti fermerei,
e potrei disegnarti
un arabesco sul cuore.
Sogno d’amore
Se dovessi inventarmi il sogno
del mio amore per te
penserei a un saluto
di baci focosi
alla veduta di un orizzonte spaccato
e a un cane
che si lecca le ferite
sotto il tavolo.
Non vedo niente però
nel nostro amore
che sia l’assoluto di un abbraccio gioioso.
Alla tua salute, Amore mio!
Sono folle di te, amore
che vieni a rintracciare
nei miei trascorsi
questi giocattoli rotti delle mie parole.
Ti faccio dono di tutto
se vuoi,
tanto io sono solo una fanciulla
piena di poesia
e coperta di lacrime salate,
io voglio solo addormentarmi
sulla ripa del cielo stellato
e diventare un dolce vento.
Ti aspetto
Ti aspetto e ogni giorno
mi spengo poco per volta
e ho dimenticato il tuo volto.
Mi chiedono se la mia disperazione
sia pari alla tua assenza
no, è qualcosa di più:
è un gesto di morte fissa
che non ti so regalare.
Accarezzami
Accarezzami, amore
ma come il sole
che tocca la dolce fronte della luna.
Non venirmi a molestare anche tu
con quelle sciocche ricerche
sulle tracce del divino.
Dio arriverà all’alba
se io sarò tra le tue braccia.
Ho conosciuto in te le meraviglie
Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera.
Chiara Migliucci, l’Autrice è nata a Napoli nel 1998,è una studentessa universitaria alla facoltà di chimica presso la Federico II. Si è avvicinata alla poesia intorno ai vent’anni. Ha pubblicato una sua Poesia sulla rivista cartacea “Mosse di Seppia” poiché tra i vincitori del concorso poetico “Caffè vol. VI”, sulla rivista “MomentiDiVersi” edita dall’associazione Poesie Metropolitane in occasione di un concorso letterario; è membro della stessa associazione e da un anno fa anche parte della redazione della rivista autogestita, per cui scrive sporadicamente. Ha preso parte alla rubrica social “Anteprima Poetica” redatta da Achille Pignatelli, edita dalla casa editrice “Homo Scrivens”. Ha pubblicato nell’ultimo periodo poesie sulla rivista cartacea Ellin Selae, la rivista Kairos, e una sua poesia è stata anche pubblicata sul giornale La Repubblica di Napoli (in data 10 agosto 2024). Nel 2024 ha formato con un ristretto gruppo di amici, un circolo letterario dal nome “La Penna di Calliope”, il cui obiettivo è unire gli abitanti di Napoli e provincia nel nome della poesia, organizzando eventi dal vivo. Grazie “La Gazzetta Letteraria”, ha preso parte ad una mostra in cui sono stati esposti al pubblico dei suoi testi.
Per te era pronta la regia del vento il soffio dei polmoni che comanda le vele, le sere di Luglio e un’elegia d’amore.
Volevano tenessi per scettro la circoscrizione dello spaziotempo, ma t’hanno trovato scevro d’anima spogliato d’ogni lacrima sul ciglio del cuore.
Ti hanno dato in dono un distico di dolore e di rimpianti, e io non districo cataclismi dai prismi dove ti scomponi ti perdi e non ti perdoni dall’essere spettro.
Ti confessi all’ombra degli squarci del destino questo guardarci ci è nemico, è antico il rumore di vele che porti nel petto sognando il mare aperto vuoto di miseria.
Ti hanno donato musei d’anime sacrificali una giostra di miracoli finiti per luci artificiali, è crudele questa vita, prega istinti ai tabernacoli, e obbliga i vinti a rivivere i propri ostacoli;
è una Babele di incroci che non sanno capirsi ma io ti sento tra le mille voci e vivrò anche un po’ per i tuoi occhi vivi di stenti.
Marechiaro
Madonna veglia dallo strapiombo piange sul fruscio caldo dello scafo prega lì, dove àncora, e giace la baia di sabbia e tombe – massi tra le onde –
Madonna veglia sul sole genuflesso a sua volta al peso del giorno che fu e che sarà: si inchina all’ora sacra del vespro.
Scogli come corpi ansimanti a galla cercano àncore di carità nel mare che cede alla sovranità della roccia.
Le acacie vegliano su di una Madonna di pietra rigogliose ricordano al cielo che solo tremando si è vivi, e Madonna è rigorosa di gelo e di sabbia
Ti avverto nelle vertebre nel riverbero delle parole che saltano le corse, le corde vocali pur di arrivare a te, mia musa a sibilare feroci e sicure parole che a dire io inciampo che forse capirai domani tremando.
Dalle ringhiere del costato sbandiero libertà dal tuo respiro.
Sei poesia ora e nient’altro; forse in vita mia sono stata solo conseguenza.
Solo conseguenza sequenza di tempo che vive si esprime reprime le primule.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.
Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
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Paolo Pietrangeli, Paolo Pietrangeli, è stato un grande cantautore
E un grande cantautore ci lascia, vola via Paolo Pietrangeli, tu che sei stato sempre accanto a chi lotta per i diritti umani e civili.
Noi quelli che abbiamo manifestato: per i diritti degli operai, per il diritto allo studio, per l’Università per tutti, noi quelli che lottato contro la guerra e per la pace, oggi piangiamo te Paolo.
Due canzoni nel cuore di noi sessantottini, che hanno fatto parte della nostra vita, dei nostri cortei, che ci accompagneranno per tutta la vita : Valle Giulia, e soprattutto Contessa.
Valle Giulia, ricordate il ritornello della canzone? Non siam scappati più, non siam scappati più, ci riporta e ricorda lo scontro avvenuto tra studenti e polizia nella facoltà di Architettura in via Valle Giulia a Roma.
Gli studenti di sinistra avevano occupato l’Università.
E Contessa? Che diventa una canzone popolare, cantata nei cortei degli operai e dagli studenti che marciavano insieme per i diritti civili.
Paolo che non ha mai abbandonato la sinistra, nel 2001 si candida con Rifondazione Comunista ma non viene eletto, dirige insieme a Wilma Labate e Roberto Giannarelli, il documentario Genova Per Noi, dedicato alle giornate del G8 a Genova.
Si candida nel 2018 con Potere al Popolo ma ancora una volta non viene eletto.
Ci mancherai Paolo Pietrangeli, ci mancherà la tua coerenza, ci mancherà la tua musica, ci mancherà il tuo essere di sinistra, ci mancherai per i tuoi ideali, per la lotta insieme ai più deboli.
Noi che oggi saremo ancora più soli e che guardiamo con sgomento ciò che sta accadendo oggi.Ti ricordiamo con la tua canzone più celebre CONTESSA:
POESIE da “Il viaggio misteriosofico di Bartolo Cattafi” in Lo specchio oscuro. Piccolo – Cattafi – Ripellino di Franco Pappalardo La Rosa, Edizioni dell’Orso, 2004, pag. 75
Nei due tempi in cui la critica lo scinde – il primo comprendente Nel centro della mano [1951], Partenza da Greenwich [1955], Le mosche del meriggio [1958] e L’osso, l’anima [1964], e , il secondo, che inizia, distanziato da un ottennio, con L’aria secca del fuoco [1972], e prosegue con La discesa al trono [1975], Marzo e le sue idi [1977], L’allodola ottobrina [1979] e le postume Chiromanzia d’inverno [1983] e Segni [1986] – l’itinerario poetico di Bartolo Cattafi appare sicuramente non lineare, ma zigzagante dentro l’infinità dei percorsi labirintici tracciati dagli aspetti del reale: dalla fredda, ingombrante, ossessiva presenza degli oggetti, che ribalta prospettive, inganna, genera angoscia. L’intera avventura poetica di Cattafi, infatti, tende ad accreditarsi, letteralmente, come ininterrotto poema (o diario di bordo) e, metaforicamente, come viaggio, poi, si lascia intuire come impeto esplorativo e di ricerca, come ansia irrefrenabile di conoscenza.
Tre poesie di Bartolo Cattafi, con una citazione critica di Franco Pappalardo La Rosa
Liffey River
La Birra Guinness ha molte porte scure
sui docks e qualche lume
sparso in un lento
regno di chiatte e di vagoni
di ruggine vagante lungo il fiume,
dove il cigno e il gabbiano sono amici
col petto bianco puntato contro il fango.
Più davanti, a lato della foce,
un prato di trifoglio nella pioggia:
in mezzo vi s’ammucchiano le nostre
giacche, le anime e i loro
segreti scoloriti, le belle
bottiglie tracannate
da una gola tenera, feroce.
E Cristo passa,
astro avvolto di nebbia o nido
per le stanche farfalle che partono da noi,
dolce luce d’oblio.
Dublino, 1952
(da Partenza da Greenwich, Quaderni della Meridiana, Milano, 1955)
Autocondanna
Non fummo né abili né attenti,
non vedemmo le cose, c’era buio.
Comparve un esile barbaglio,
era il filo di fiamma di una torcia
o d’altro dramma che riguarda l’uomo.
Le cose cominciavano a chiarirsi.
Chiedemmo arnesi d’emergenza,
sedia, benda, un gruppo di fucili
repentini.
Alle spalle, che importa, ciò che conta
è la porta d’uscita per salvare
l’unica cosa amata, a lungo amata,
trafugandola al mondo, alla chiarezza.
(da L’osso, l’anima, Mondadori, 1964)
Queste cose terrestri
Queste cose terrestri
che scoppiano tra i piedi come rose
le raccatti ammirato le porti
ai più alti ripiani
e perdi il lume degli occhi
non vedi
le altissime cose cadute in frantumi.
(da L’allodola ottobrina, Mondadori, 1979)
La discesa al trono
Non è una pausa di riflessione
è un raccogliere forze ed elemosine
seduti a sommo delle scale
prima d’intraprendere
la discesa al trono
e tutto profondere
al fondo roccioso
aspro inebriante della disperazione.
Cricetide
Cricetide che i rudimenti conosce
l’alfabeto della maratona
roditore di sterili chilometri
saltato su una sfera
lo faccio ruotare in aria
intorno al suo asse saldato
a due pareti di gabbia
con quattro zampe
la fronte corrugata
occhi lucenti e muso
protesi all’orizzonte
compio così viaggi interminati
sul rotondo veicolo
della mia solitudine
topouccello volante tra sbarre
con un tonfo infine si smonta
col corpo pesante giaccio
in fondo alla gabbia
le gambe aperte
la zampina sul petto
come napoleone dopo sedan
sèvres sestrière senegal
e la megiera mi dice mangia
la minestra di segale e rape
non toccare la caffettiera
non è il tuo copricapo
ora si smette con le galoppate
finisce tutto
se ne va la bionda
vivandiera del reggimento distrutto.
Qua o là
Qua o là
si morde un punto dello stesso globo
ciò che in questa calda
giornata liquefatta ci sostiene
è un odio sordo
livida spirale che s’allarga
al largo dietro un banco di foschía
infuria una battaglia di triremi.
È un dolce commercio
È un dolce commercio
darti questo o quello
di me
mani piedi testa
ciò che più bolle
in pentola coi visceri del mondo
solo un eden ebbi
fu talvolta l’intreccio
delle mie brame belanti
con le tue trame.
Arancia
Scala immensa
gradini infiniti
il tuo fianco aperto
d’arancia ormai
rotolata in basso
verso marmellata muffita
io più in basso di te
aggrappato a un piano
di sopravvivenza
a quel colaticcio attingo
e mi lecco le dita.
da La discesa al trono, Mondadori, 1975
Le città invisibili | Taranto
Presenze nella città vecchia – Taranto Foto di Rosanna Frattaruolo, 2023
«…Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale…»
A centimetri cinque
Con uno schiocco imprevisto
imperativo
a centimetri cinque dalla testa
scrostò l’intonaco
scheggiò un mattone
schiacciato cadde
piombo impolverato
calmatosi un rombo
di sangue nella testa
restai immobile
girai lo sguardo
con la mano feci
un pallido gesto di saluto
c’erano morte e vita su quel muro
la vite americana arrancava in salita
senza aiuto
a centimetri cinque dal traguardo.
Bartolo Cattafi, da Poesie scelte (1946-1973), Mondadori, 1978
§ §
Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luogo di scambi […] ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. (Italo Calvino)
Il suo primo incontro con la poesia avviene proprio nella sua terra nativa, dove nella primavera del 1943 trascorre un periodo di convalescenza durante la Seconda guerra mondiale. Quella «snervante primavera» è per lui come rituffarsi in una seconda infanzia, dove si ritrova «a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo». Il tragico scatenarsi dei bombardamenti lo vede estraniato, con naturalezza, in un quadro bucolico inebriante: «Me ne andavo nella colorita campagna nutrendomi di sapori, aromi, immagini; la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola».[1] Nel 1951 pubblica la prima raccolta di versi, Nel centro della mano.
I viaggi che compie in Europa e in Africa diventano i motivi ispiratori di alcune sue raccolte di poesie come Partenza da Greenwich del 1955. Silvio Ramat parla di «viaggio inteso come necessità biologica, di avventura e di verifica di una condizione umana, che altrimenti non arriva a scoprire il proprio valore, il proprio significato».[2]
Nel 1964 con L’osso, l’anima, ottiene il premio Chianciano.
Per la sua opera riceve il premio Mondello nel 1975. Il poeta – che, secondo Carmelo Aliberti in un suo saggio[4], è tra i più validi della generazione fiorita nel secondo dopoguerra, comprendente tra gli altri Luciano Erba, Nelo Risi, Giorgio Orelli e Giovanni Giudici – muore prematuramente a causa di una grave malattia e non ha avuto gran riconoscimento dalla critica. Quella di Bartolo Cattafi rappresenta peraltro un’esperienza poetica da riconsiderare anche alla luce di qualche giudizio ponderato, quale ad esempio quello di Giorgio Bàrberi Squarotti su L’aria secca del fuoco: «uno dei testi poetici più inquietanti del dopoguerra: con amarezza Cattafi compie uno dei più acuti e mortali esami di coscienza della sua generazione».[5]
Un’antologia delle sue poesie, curata da Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni, è uscita nel 1990 nella collana Lo Specchio (Mondadori, 1990), poi negli Oscar (2001). Un’altra raccolta è apparsa pure postuma: Occhio e oggetto precisi – Poesie 1972-’73, con prefazione di Silvio Ramat (Scheiwiller, 1998).
Nel 2019 l’intera opera poetica di Cattafi è stata raccolta nel volume Tutte le poesie, a cura di Diego Bertelli, introduzione di Raoul Bruni, per Le Lettere di Firenze.
Lame, con un’acquaforte di Cattafi e due acqueforti di Carmelo Cappello, Verona, Sommaruga, 1974, *Ostuni, con sette disegni di Ruggero Savinio (Milano, Edizioni 32, 1975),
La discesa al trono (ivi, 1975), Ipotenusa, avec une gravure di André Haagen. Sanningheber, Origine, 1975),
Chiromanzia d’inverno, pubblicata postuma (ibidem, nel 1983),
Segni, con la prefazione di Marisa Bulgheroni (ivi, Scheiwiller, 1986).
Note
^ Le citazioni autobiografiche virgolettate sono tratte dal profilo Bartolo Cattafi di Silvio Ramat, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974, p. 1369.
Interno Poesia, 2024 – A cura di Damiana De Gennaro
Descrizione-Per la prima volta nelle librerie italiane L’anniversario dell’insalata -Poesie di Tawara Machi, fenomeno editoriale da due milioni di copie. Pubblicato in Giappone per la prima volta nel 1987, il libro mette subito d’accordo critica e pubblico: oltre a collezionare prestigiosi premi per aver infuso nuova linfa alla forma metrica tanka, le cui origini risalgono alle prime opere di poesia scritta in lingua giapponese, il volume scala le classifiche con cifre di vendita vertiginose. Leggere l’opera prima di Tawara Machi, le cui poesie oggi fanno parte dei manuali scolatici giapponesi, è come sfogliare una raccolta di istantanee che testimoniano le forme assunte dell’amore nella società post-capitalista. Figure amate, oggetti di uso quotidiano e piatti preparati in fretta prendono vita sul fondo di una realtà scandita dal ritmo incalzante della pubblicità. Senza mai esprimere giudizi, l’autrice (e la curatrice e traduttrice del volume Damiana De Gennaro) ci consegna frammenti di visioni che vanno a comporre un disegno più ampio: le istanze dei rapporti umani in Giappone subito prima della crisi economica degli anni Novanta.
L’autrice Tawara Machi (Ōsaka, 1962) è autrice di raccolte di poesia, saggi e traduzioni di opere della tradizione letteraria giapponese in lingua contemporanea. Il suo libro d’esordio, L’anniversario dell’insalata (1987), vince la trentaduesima edizione del Premio Kadokawa e supera i due milioni di copie vendute. Avendo ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti in campo letterario, le sue poesie oggi sono riportate sui manuali di letteratura per le scuole giapponesi. Tra le sue altre opere in poesia, inedite in Italia, ricordiamo: Kaze no te no hira (1991), Chokorēto kakumei (1997), Au made no jikan (2005), Pū-san no hana (2008), Umarete banzai (2010), Ore ga Mario (2013), e Mirai no saizu (2020), Abokado no tane (2023).
空の青海のあおさのその間サーフボードの君を見つめる
ti guardo
cavalcare le onde –
spazio azzurro
in cui cielo e mare
si confondono
*
同じもの見つめていしに吾と君の何かが終わってゆく昼下げる
tardo pomeriggio –
guardiamo nello stesso punto
mentre
qualcosa, tra noi due,
si sta spezzando
*
上り下がりのエスカレーターすれ違う一瞬君に会えてよかった
sono grata
alle scale mobili che
portandoci in direzioni opposte
anche solo per un attimo
ci hanno fatti incrociare
*
サ行音ふるわすように降る雨の中遠ざかりゆく君の傘
il tuo ombrello
si allontana nel paesaggio –
ha solo
suoni sibilanti
il sillabario della pioggia
*
「元気でね」マクドナルドの片隅に最後の手紙を書きあげており
allora,
stammi bene –
gli scrivo
quest’ultima lettera
da un angolo del McDonald’s
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