Francesca Saladino – POESIE inedite pubblicate dalla Rivista Atelier
1.
Ho due diavoli sulle spalle
che mi spezzano il collo a colpi
sul bordo del tavolo a cui siedo con lei.
Mi girano le orecchie e i piedi,
mi spostano i nei ridendo
e di noi vedo soltanto
futuri senza sonoro
in cui non puoi riconoscermi. Loro
hanno il profumo del primo vitello
che ho mangiato piangendo,
profumo di alloro. Si leccano i calli,
masticano poco vecchio tabacco
e fanghiglia mista a feci.
Me lo sputano in bocca
imitando i piccioni coi loro piccoli.
Io lo ingoio tutto, avida e putrida,
nuda in un angolo come i polli,
come una vacca il giorno del macello,
a contarmi i capelli, a tirarmi i denti.
*
2.
La quinta figlia femmina
legata nella stalla
di fianco alle mucche
ha dovuto imparare
a infilare il dito nell’ano
della gallina – per sentirne l’uovo.
Sfilare nuda
con gli scarafaggi in testa.
Scuoiare conigli
e farsi piacere le cavallette.
Ecco,
la nostra condizione per essere amati.
L’ora del bagno,
qualcosa di cui non si deve parlare.
Come il desiderio d’essere morta
per non attirare più l’attenzione.
Chi ha il cuore tenero
non sa proteggersi.
Qualcuno forse
sì, servendo allo scopo maggiore.
Non si vive di assoluti
quando si ha bisogno
disperato d’amore.
*
3.
Carezza la pelle dell’albero
senza arrossire, pronuncia
scoprendone il corpo
le cicatrici:
“corteccia”, “radici”.
Tieniti stretto
al frutto, al tempo
come i serpenti.
Scandita tra i denti
la resina tronca
di netto l’abbraccio,
pendono, legati a un laccio
i rami, i morti, i canti.
*
4.
Ho nascosto la fonte
sotto l’occhio celeste
del primo assente,
una torre di corpi
putrefatti, mentre
attorno a me scorre
sperma pesante e corre
aborrito nella pozza
del dover fare, dover essere,
sboccia dal suolo di sborra
la meraviglia:
piccola dea figlia, bocca infernale
aperta come aiuole da calpestare
e nel profumo autunnale
d’orrore che piove
anche i diavoli sono in fiore.
Breve biografia di Francesca Saladinonasce e vive a Caserta dal 1994, laureanda in psicologia clinica presso l’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli della stessa città, porta avanti un progetto di poesia estemporanea componendo “ritratti poetici” ispirati da un breve colloquio col committente. È stata co-fondatrice del collettivo campano CASPAR per la diffusione e la valorizzazione della poesia orale e performativa sul territorio. In collaborazione con Officina Teatro ha ideato ed organizzato “Pop Poetry”, rassegna teatrale di spettacoli in versi e spoken poetry. Attualmente sta lavorando alla sua prima raccolta poetica, che comprenderà i componimenti nati negli ultimi due anni.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Antonia Pozzi –Poesia “Indugiano” da Brughiera del 1937
Indugiano
carezze non date
fra le dita dei peschi
e gli sguardi
d’amore che mai non avemmo
s’appendono alle glicini sui ponti –
Ma il fiume
è densa furia d’acque senza creste, nel grembo
porta profondi visi di montagne:
e all’immenso
svolto dei boschi trova lieve il vento,
tocca le fresche nuvole
d’aprile.
(da Brughiera – Antonia Pozzi – 28 aprile 1937)
Per troppa vita che ho nel sangue
tremo nel vasto inverno.
(Antonia Pozzi)-Foto: Antonia, Casorate 1937
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Qui sono al sicuro, qui ci sono querce intorno ai muri,
qui scintilla lo stretto tra monti corrosi dal mare.
Se me ne sto in piedi alla finestra
le querce immense hanno
una profonda tonalità oleosa
come un dipinto antico,
sul cielo di smalto azzurro
nubi ritardatarie
si rincorrono dal mare.
Querce nel sole d’autunno!
Terra azzurra, terra di monti, terra di mare
ed ere alle mie spalle
in una festa di colori
e ardore.
Oggi ci sono freddo e fiocchi di neve nell’aria,
i rami nudi si protendono come artigli
verso il caldo e l’ultimo ozono.
Mi inoltro nella terra azzurra
sotto le foglie che cadono.
E un giorno sarà spoglio Yggdrasil.
Giornata d’inverno
Cosa vuole questa luce strana?
Il giorno è sotto stelle bianche.
E i sogni germogliano sotto la luna.
La montagna ha parole racchiuse dentro di sé
ma il petto è rigido e la barba gelata.
Il fiume risponde con brevi riflessi, si apre per un attimo breve,
e i pini offrono un po’ di resina.
Il regalo scuote la neve
e il cavallo freme con il muso coperto di brina.
La legna spreme fuori una crosta di grasso gelato,
e il ghiaccio divora il taglio della scure.
Ma ora la vetta manda in mille pezzi il disco del sole, torce
il suo sguardo furtivo verso un mondo lontano.
Gli alti abeti candele sulle creste dei monti si spengono,
e gli alberi si acquietano nel bosco per la notte.
Il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare,
e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore.
Giorno
Le grandi tempeste le hai alle tue spalle. Non domandavi un tempo perché esistevi, da dove venivi o dove stessi andando, eri soltanto nella tempesta, eri nel fuoco. Ma si può anche vivere nella vita d’ogni giorno, il grigio calmo giorno, piantare patate, rastrellare foglie e raccogliere rametti, ci sono tante cose a cui pensare al mondo, a tutto non basta la vita di un uomo. Dopo il lavoro puoi arrostire il maiale e leggere poesie cinesi. Il vecchio Laerte tagliava i rovi e rincalzava il fico, e lasciava gli eroi combattere a Troia.
Olav H. Hauge
(Traduzione di Fulvio Ferrari)
da “La terra azzurra”, Crocetti Editore, 2008
“Una buona poesia deve odorare di tè”
Ho tre poesie,
disse.
Pensa, contare le poesie.
Emily le gettava
in un baule, io
non credo proprio che le contasse,
apriva solo un pacchetto di tè
e ne scriveva una nuova.
Era giusto. Una buona poesia
deve odorare di tè.
O di terra umida e legna appena tagliata.
VERSI
Se riesci a comporre un verso
che soddisfa un contadino
devi esserne contento.
Un fabbro non lo capirai mai.
Il più difficile da accontentare è il falegname.
Traduzione di Fulvio Ferrari
Il gatto è seduto
Il gatto è seduto davanti
Quando vieni
parla un po ‘con il gatto.
È il più sensibile qui.
Disegno
Fosco giorno d’autunno, nevischio.
Un morbido grigio disegno,
tracciato come in un sogno.
I pini han raccolto cotone di cielo
e infilato i fiocchi tra i capelli,
e le betulle tendono i rami sottili
delicatamente, delicatamente…
Su pozze ghiacciate scrivono gli uccelli
su nuove lavagne.
La tua strada
Nessuno ha segnato la strada
che tu devi percorrere
verso l’ignoto,
verso l’incerto.
Questa è la tua strada.
Solo tu
puoi percorrerla. E non
puoi tornare indietro.
E non segni la strada,
nemmeno tu.
E il vento cancella le tue impronte
sulla montagna deserta.
In barca
Il mare rumoreggia nel buio.
Uscire in barca ora?
Impossibile.
Sì, proprio ora.
La notte si apre, fa spazio.
Il cielo alza un muro a occidente.
La luna si mostra luminosa –
Ora deve accadere.
Canto, cammina adagio sul mio cuore
Canto, cammina adagio sul mio cuore,
cammina adagio come erica sull’acquitrino,
come un uccello su ghiaccio vecchio d’una notte.
Se spezzi la crosta del dolore
annegherai, canto.
La falce
Sono tanto vecchio
da non lasciare la falce.
Canta sommessa nell’erba,
e i pensieri possono correre.
Non fa nemmeno male,
dice l’erba, cadere sotto la falce.
Non darmi tutta la verità
Non darmi tutta la verità,
non darmi il mare per la mia sete,
non darmi il cielo, quando chiedo la luce,
dammi un riflesso, rugiada, pulviscolo,
come gli uccelli portano gocce d’acqua
e il vento un granello di sale.
Riccio
L’altra sera, tornando a casa,
ho preso il sentiero attraverso
il campo dove sapevo che
c’era una sorgente.
Quella primavera gorgogliava, brillando
nell’oscurità, catturando la notte.
Seduto davanti allo specchio scuro
ho visto questo fagotto dissetarsi!
Ogni picco si
rilassava, in pace,
mentre il suo muso nero
sorseggiava il suo drink.
Dissetati! Posso aspettare,
così pazientemente mi sono alzato.
Forse noi due siamo
simili in molte cose.
Come me, ti piace
passeggiare nell’oscurità
tra le foglie d’autunno, trovare sorgenti,
bacche e simili
preferisci l’esplorazione solitaria.
Ma se qualcuno si avvicina troppo,
ci ritiriamo e mostriamo loro le
nostre spine.
Non navighiamo sullo stesso mare
Non navigliamo sullo stesso mare
eppure così sembra.
Grossi tronchi e ferro in coperta,
sabbia e cemento nella stiva,
io resto nel profondo
procedo con lentezza
a fatica nella tempesta
urlo nella nebbia.
Tu veleggi in una barca di carta
e il sogno sospinge la vela azzurra.
È così dolce il vento, così delicata l’onda.
(Traduzione di Fulvio Ferrari)
da “La terra azzurra”, Crocetti Editore, 2008
Breve biografia di Olav Håkonson Hauge (18 agosto1908 – 23 maggio1994) è stato un poeta norvegese . E ‘nato a Ulvik e ha vissuto tutta la sua vita lì, lavorando come giardiniere nel proprio frutteto .Oltre a scrivere le sue poesie, era orientato a livello internazionale, e tradusse poesie di Alfred Tennyson , William Butler Yeats , Robert Browning , Stéphane Mallarmé , Arthur Rimbaud , Stephen Crane , Friedrich Hölderlin , Georg Trakl , Paul Celan , Bertolt Brecht eRobert Bly a norvegese.E ‘stato anche ispirato dalla poesia classica cinese , ad esempio, nel suo poema “T` ao Ch `IEN” nella raccolta Spor vinden (Chiedere al vento).Prime poesie di Hauge sono stati pubblicati nel 1946, il tutto in una forma tradizionale. In seguito scrisse la poesia modernista e, in particolare, la poesia concreta che ha ispirato altri, più giovani poeti norvegesi, come Jan Erik Vold .
Poesie pubblicate a cura di Franco Leggeri sul gruppo facebook DEA SABINA-
Chi è Sonia Trocchianesiinizia a scrivere poesie fin da piccola e coltiverà questa grande passione durante tutta la sua vita. Il rapporto con carta e penna è viscerale, la scrittura viene vissuta come cura di ogni male. Amore e sofferenza si contrappongono nei suoi scritti, i suoi versi trasudano a volte di emozioni fortissime. E qui è la sua Anima a mettersi a nudo ….
Vanno a dormire
i colori
in silenzio
senza pretese
senza chiedersi
se siano dimorati nei cuori
almeno un giorno
almeno un’ora
almeno un attimo
La notte
intinge i pennelli nel nero
lasciando le stelle
sotto al cuscino
Che poi niente va perso, niente.
Ogni gesto è un sasso nello stagno che, torna, amplificato.
E, l’orma di ognuno, resta.
Vicino, sopra, a fianco, dentro.
Nel bene e nel male.
E la mia, forse, resterà allo stesso modo.
Forse.
Come un granello di sabbia nell’immensità di questo deserto.
Io l’ho visto, il deserto.
Se hai lo sguardo pronto a ricevere, il deserto è bellissimo.
Sconfini tra le dune rosate come in una danza, come queste parole che imprimo nel vuoto di questa mia pagina.
Niente va perso.
Se sai vedere le briciole, una fetta di pane sarà il miracolo da farti bastare.
Sarà la cenere che sembra inutile ma che aiuta il nascere della nuova fiamma.
Niente va perso.
Trovarmi, spesso, qui ed ora, è il dono inaspettato di un’alba nuova.
Una nuova pagina.
Un nuovo verso a cui sto lavorando.
La vita è perfetta.
“Ti va di recitare una poesia in dialetto?”
Si, mi va!
Mi va mille volte.
Perché lì, i congiuntivi, non sono un cappio al collo,
perché non devo mettere in atto quel minimo che ricordo del corso di dizione, perché il mio intercalare da ignorante contadina diventa un più, un vezzo, un pregio, quasi.
Si, mi va!
Mi va mille volte.
Perché sono io senza ma e senza se.
Perché i miei limiti sono solo dei sorrisi che mi faccio, perché sono dei buchi neri che ho imparato ad amare.
Perché è andata così e ho capito che va bene.
Perché quel pezzo di carta che tanto ho rimpianto è stata la mia sfida per la vita.
Perché sò nata troppo presto.
Forse.
Nessuna stagione passa
senza lasciare orme
nessuna nuvola se ne va
senza avermi vestito di grigio
nessuna strada sassosa
so percorrere senza impolverarmi i piedi
Ho scelto il dolore
all’anestesia
le cicatrici sulle labbra
al sorriso plastico
la battaglia continua
alla resa
Vedi
essere viva
può essere un difetto
per chi guarda da lontano
immobile
C’è un tacito accordo nella Natura.
Tra il colore degli alberi, i campi, la strada, il sole che, sotto i nostri occhi stanchi e meravigliati, scompare.
Un accordo silenzioso.
Così tra noi.
Un accordo di rispetto, di mani che si aiutano, di occhi che sorridono, complici, sopra la mascherina.
Una firma di cuore.
Un “ci sono, tira su”
oppure “lascia, faccio io che pesa troppo per te”
Scoprire la gente.
Lasciarsi scoprire.
Grazie a tutti, grazie davvero.
nel nostro piccolo
Giornata piovosa, oggi.
Ancora in pigiama ho scritto una poesia.
L’ho registrata, ascoltata, riascoltata.
*Più volte. *
Ho ascoltato i vari passaggi, il tono, le parole più dense.
I difetti.
*Gli errori. *
L’ho portata con me, fino a sera.
Vedi…
*non c’è balsamo più efficace, non c’è. *
Una poesia la partorisci, te la spalmi addosso, la respiri.
*E tutto il resto, tutto il resto che non funziona, passa in secondo piano. *
Anche solo un attimo
Mi chiedo perché mi viene in mente la tua storia.
Eppure non ti ho mai vista, né incontrata.
Ma quel che mi è stato raccontato non riesco a cancellarlo.
Troppo forte.
Usata e maltrattata psicologicamente, da uno pseudo amore.
Uno che ti amava a modo suo.
Molto a modo suo.
Indotta a fare cose assurde,
a sposare uno che non amavi, a rinnegare il tuo essere, per proteggere lui.
A cedere, a rinnegare te stessa.
Per finire sola.
Sola.
E ancora sola.
Non avevi un nome.
Eri il tuo lavoro.
Quello.
Ti chiamavi Speranza, l’ho saputo poi.
L’ennesima beffa del fato.
Me l’hanno detto ancora.
-Sei selvatica…-
Per me è un complimento.
La poesia, la scrittura in sé, deve essere selvatica.
Il divincolarmi per sfuggire alle regole, questo mio trattare di cose terrene e non, questo saliscendi vertiginoso, furioso, sfacciato, qualcuno mi ha detto.
Tutto questo è un rifiuto totale delle briglie, un cercarmi da sola, pezzo pezzo, costruirmi.
E ricostruirmi.
Selvatico è quell’animale che, anche se ha paura, va incontro dell’ostacolo.
Lo affronta, caparbio.
Sono selvatica.
Mi rifugio nella mia tana.
Ho fatto scorta di cibo e pensieri.
Lì, tra le righe, mi troverai arresa.
Ancora una volta…
Ci sono viaggi che devi fare da solo.
Scendere negli anfratti più nascosti e innominabili, stare attento a dove metti i piedi.
Poi cercare nelle anse più pericolose, quelle chiuse a chiave, quelle dove la luce non arriva neanche a mezzogiorno.
Spostare la polvere, le scuse inutili e datate, i giocattoli mai usati.
Poi sedersi, con le ginocchia sporche di tempo perduto, con gli abiti logori da certi rimorsi e con le tasche piene di nebbia.
Ritrovare piccole scatole di rimpianti, di forse, di chissà.
Buttarli dalla finestra, senza pensarci.
Leccarsi le ferite, in quella sacra solitudine così umana.
Mentre un pensiero si fa strada:
“Ogni volta che sono triste, forse, sono in viaggio verso la felicità”
E di questo tempo
e di questa pioggia lenta
e di questo disordine perfetto
faccio scorta
E di queste curve
e di questo azzurro mancante
e di queste parole intrecciate e chiare
mi cibo ad ogni pasto
non c’è stagione
che il tempo fermi
e riavvolga il nastro
Nessun caffè ristretto,
solo latte bollente
ad abbracciarmi tutta
Mia mamma e mio figlio.
Io, muta.
E posso solo scrivere di voi.
Di quell’amore per la terra senza mezzi termini
di quello sporcarvi le mani con orgoglio
di quel sudore buttato senza lamentarvi mai.
Mi emoziono a guardarvi.
Io non sono come voi, no.
A me la fatica dei campi fa paura, lo ammetto.
Anche se l’ho provata.
Voi, preziosi.
Per me e non solo…
Avvalersi
della facoltà di non rispondere
quando la malinconia bussa
ha la chiave
in tasca
conosce la combinazione
entra
senza consenso alcuno
e sul mio giaciglio
s’addormenta
mi veste di nenie passate
mi scioglie i capelli
accarezzandoli piano
Si insinua dentro la penna
senza fare rumore
lei sa tutto di me
Ci avete mai fatto caso alla bellezza del grano giovane?
La forza delle spighe,
di una primavera piena di promesse,
è commovente.
Eppure, io,
non ho ricordi della mia bellezza,
l’ho cercata poi,
cambiando gli occhi.
E il modo di scrutarmi
dentro uno specchio.
La capacità di un ragno,
la maestrìa con cui
disegna i suoi mandala,
ci dà lezione.
Niente è impossibile
se la tenacia vince,
se la bellezza è stampata
negli occhi,
anche di notte.
D’altronde, la rugiada,
da lontano,
è una lacrima d’amore.
È un Luglio che scotta
nelle vene
e manca il respiro
spesso
La vita è una cassaforte
di cui ho smarrito la combinazione
non ho eredità
da lasciare al mondo
solo qualche poesia
vestita di un drappo rosso
e sangue amaro
Vedi,
dici che ti piacciono i miei pensieri…
Non so, a volte, quando me lo sento dire, non so crederci.
È che cerco di usare fili delicati per ricamarli, per fare piccole cornici intorno a quelle parole che reputo scontate, avvalermi di aghi molto sottili per non fare troppo male quando tratto con le mani la malinconia.
Non sono una sarta.
Non ho la finezza che servirebbe.
Sono un’autodidatta, una che si è forgiata passando attraverso il fuoco, che si è bruciata di mancanze, che mette ancora unguenti lenitivi su certe cicatrici.
Senza guarirle.
Sono piena di pensieri.
Messi a decantare su otri vecchi e impolverati.
Antichi come è antico l’amore.
E sempre attuale.
Vedi
sembra che l’acqua faccia carezze alla roccia
la sfiora
ci si appoggia appena
un attimo
solo il tempo di bagnarla
un tempo minimo
prima di tornare al suo posto
nell’andirivieni che qualcuno ha stabilito
eppure
quelle carezze scaveranno solchi
scriveranno di inverni freddi
di primavere ad attendere gabbiani
di venti arrabbiati senza capirne il motivo
così
mentre ci si passa accanto
mentre ci si sfiora
mentre ci si guarda
ognuno di noi scrive pagine
sulla vita degli altri
tu sulla mia
io sulla tua
ed anche se la calligrafia sarà delicata e composta
scriverai su di me in modo indelebile
ed io su di te
Poi
però
lascerò una scia di punti interrogativi
sospesi nell’aria
quando ce n’è
Lasciali così
fungeranno da bastoni
per la mia vecchiaia
(A mio padre)
Dei biancospini
ti chiedo il nome
che non ricordi
E dei colori
accesi come solo primavera sa fare
non cogli sfumatura
Ed io
quasi ti invidio
a tratti
per la mancata percezione
dei ponti crollati
dove i tuoi passi
vanno senza timore
tra le macerie
Avrei bisogno io
ora
che mi prendessi tu
la mano
(A mio padre)
Si fa sera.
A volte il silenzio è un imperativo senza scampo.
Lo invoco, lo cerco.
Annullo ogni cosa che accenna rumore, ascolto le ciglia che si sfiorano, le narici che buttano aria, le mani che stringono il giorno finito.
Il giorno finito.
Ne restano, sui polpastrelli, solo le ultime briciole.
Le ultime.
Mi lecco le dita, trattengo ogni minima particella, ogni attimo vissuto.
Il giorno che muore.
Non posso sprecarlo, niente devo sprecare.
Mi sorprendo a muovere le labbra.
Sale, da sola, una preghiera.
Muta a tratti.
Poi urla.
Urla.
Urla.
Sale su.
Oltre l’azzurro di cui ti parlavo…
Prendo a morsi le stagioni
i giorni
gli attimi
ho bisogno di saziarmi di ciliegie
dopo ogni pasto
ma solo dall’albero
così
sotto gli occhi dei merli
invidiosi
(quelli non mancano mai,
non i merli,
gli invidiosi)
ho bisogno di saziarmi di inchiostro
di lettere
di virgole appena socchiuse
in piccoli spazi
ho bisogno di aprire parentesi
senza trovare il modo giusto per chiuderle
di mettere accenti
per farmi sentire di più
Lasciare che la vita accada
questo
non l’ho ancora imparato
lo so
La terra mia. Li campi, lo grà vattuto, la paja rrotolata.
Le stoppie, lu jemmete, lo callo e lu sudore.
Lo tribbulà de li contadì.
Quilli che è rmasti tali pure se fa natru lavoru.
Perché, contadì, lo si dentro, quanno non sopporti lo sprecà, quanno te rrizzi presto pure se non c’hai da fa có.
Pe non sprecà lu sòle.
Li contadì che d’è pieni de ignoranza ma che je vasta póco pe avé tutto.
Li contadì.
Comme me.
Cammino scalza.
Tentando, ma nemmeno poi tanto, di non tagliarmi i piedi.
Si trova sempre quel pezzo di vetro che qualcuno ha lasciato lì, sciaguratamente a terra, o quella conchiglia appuntita che sembra nascosta e poi te la ritrovi conficcata nella carne.
Capita a tutti, credo.
Ma ad una che scrive, forse, capita di più.
È una sorta di masochismo a cercare ciò che taglia, a non voler evitare niente di ciò che fa male, ad essere contraria alle anestesie, ai paraocchi, alle convenzioni.
Il coraggio si mischia alla sfida.
La paura si veste di sole trasparenze, di organza, di seta preziosa.
E si mostra, tutta, mentre i piedi vanno a tentoni.
Le cicatrici, autografate dalla vita, sono tante.
Ma di spazio, per nuovi tagli, ne ho ancora.
Il sangue sa d’inchiostro.
E questo scrivere fisiologico è l’unico cerotto che ho.
L’unico.
Forse, Gesù
Forse, Gesù, nascerà dentro la stanchezza di questi giorni, dentro l’ansia per il timore di non aver sufficiente memoria sul lavoro, dentro i sorrisi per molti e dentro l’irritazione trattenuta a stento per qualcuno.
Forse nascerà dentro i carboidrati distribuiti a una provincia intera, alle centinaia di pacchetti fatti, in mezzo ai fiocchi rossi messi a goccia sui regali.
Forse nascerà qui, tra le mie mani stanche e non curate, sulle occhiaie color caffè, sotto il mio cappello bianco da lavoro.
Nascerà nei miei auguri, fatti a pochissimi, e senza frasi fatte, in quelle due parole, a volte una, ma dette col cuore.
Nascerà.
Si, nascerà…
E muoio sempre un po’
anche stasera
nel giorno mesto
che taglia i minuti finali
li tiene per sé
li sfuma piano piano
e li promette a un’altra primavera
Mi abbraccia forte
mi cinge la vita
e i fianchi arrotondati dal tempo
la malinconia
mi invita a ballare
un lento
e coi piedi pesanti
calpesta i miei
stanchi
mentre i grilli
sembrano far festa
Le foglie del ciliegio
stanno tremando
hanno diradato i respiri
per non sprecare le forze
Sono stanca anche io
di questo inverno
mentre mi fingo corteccia
dove non passa gelo
Ascolta
la senti la paura
che provo
quando giro l’angolo dei miei pensieri?
Capita che lascio il coraggio lì appeso
insieme ai vestiti logori
di certi giorni senza fine
ed esco nuda
con le mani ad elemosinare
spiccioli di domani
Sotto i piedi
i lucidi sampietrini
raccontano
sanno tante cose
sanno di me
sanno che piango
a volte
ma senza lacrime
Pochi hanno la fortuna di conoscere il vero olio.
L’olio di casa, spremuto a freddo, come una volta.
È faticossissimo ottenere un litro di oro verde, c’è un lavoro certosino lunghissimo, dietro.
Di monitoraggio, per capire quando i parassiti arrivano.
E prevenire dove si può.
Perché anche il contadino può sbagliare il periodo del trattamento, ed è solo veleno inutile per i frutti.
Ci vuole attenzione, passione, dedizione.
Mio figlio Luca ha superato il nonno, in questo.
Monitorare minuziosamente per un risultato più sano e naturale possibile.
Oro verde.
Prezioso.
Anche quest’anno.
Ore 20.
Stendo i panni appena lavati, in balcone.
L’aria di una mitezza rara, piacevole, dolce, si lascia respirare tutta.
Sulla provinciale nemmeno un’auto, niente, calma assoluta.
Sulla strada secondaria, stessa cosa.
C’è un silenzio beato, stasera.
Una pace dovuta, alla natura.
Il ciliegio, muto, è a riposo, dopo la lunga giornata d’amore con le api.
In fondo, tutto è meraviglioso.
Cosa ci manca, allora, per essere felici?
Passerò dal camino
tra la fuliggine che farà nere
le mie parole
e la tenacia delle streghe
che non temono il rogo
Avrò il peso sulla schiena
delle battaglie quotidiane
dei respiri corti
delle sottrazioni che ho subito
mi riconoscerai
dal naso lungo e i modi bruschi
e dalla testardaggine che non nascondo
Avrò in dono solo due mani
fredde
Vedi,
della neve ho poco o niente.
Non sono così leggera, da tenermi anche sul ramo più piccolo, come niente fosse;
non ho il suo innato equilibrio da stare in alto senza vacillare, senza sforzo alcuno, con totale naturalezza;
non ho la sua grazia di ballerina prima di fermarsi, io non ce l’ho davvero.
E del suo candore, che dire?
Non lo conosco.
Ho pensieri color carbone e, dopo essere stata fuoco,
di quelli difficili da domare,
incompresa,
resto cenere.
Le contraddizioni ci offuscano la strada da seguire.
Le chiese aperte e i teatri chiusi;
i viaggi all’estero e il divieto di sconfinare tra comuni;
la mascherina all’aria aperta e il naso fuori al chiuso;
i parrucchieri chiusi anche se rispettano le regole.
Le leggi vanno rispettate.
Ma non sempre ci rispettano.
Serve il sole.
In questo buio pesto.
I fiori sbocciano tra le pagine, come stelle nelle notti buie.
Non è sempre facile vederle, le stelle, non lo è affatto.
Come non è facile spogliarsi dentro un libro, spogliarsi tutta.
Senza tabù, togliendo il superfluo che appesantisce l’anima, scegliendo di assomigliare all’aria del mattino, quella ancora non contaminata.
Che strane le persone che scrivono!
Che strane a raccontarsi a chi, di loro, non interessa niente.
Sono piena di fiori e di stelle.
E di parole lievitate come il pane.
Cotte qui, nel cuore mio.
La seduzione dall’autunno
Dovremmo imparare l’arte della seduzione dall’autunno.
Fa spogliare gli alberi lentamente, foglia foglia, ne scopre le curve strette, le parti in eccesso, il corpo nodoso e i segni del tempo.
Lo fa con garbo, vestendoli prima di giallo, di un tessuto sempre più leggero, trasparente, minimal, per far sì che nessuno sia a disagio a mostrarsi.
Nessun corpo e nessun albero è perfetto ma, ognuno, può custodire una propria bellezza, una sua particolare dote d’attrazione.
Mostrare i rami, scarni e doloranti ad occhi clementi e meravigliati, questa la lezione da imparare.
I tabù sono foglie.
In attesa di cadere...
Ecco,
mi trovi in forma, dici.
Beh, rispondo che sono felice di dare questa impressione.
Ma se solo ti facessi un giro tra le mie parole, uno solo, tra gli spazi troveresti il mio respiro mancante.
E, dopo le virgole, quelle pause di paura e incertezza.
Troveresti i punti interrogativi appesi al buio e, le stelle, nascoste dietro i cespugli di perché.
Ma sono viva.
E, per rispettare il mio essere selvatico, assorbo tutto.
Tutta la tempesta.
E tutto l’azzurro.
Ho 55 anni, oggi.
55 nei che raccontano le volte in cui mi sono fermata.
55 rughe dove sono scritti i miei giorni neri.
Ma anche 55 ripartenze, 55 slanci al giorno per festeggiare l’aria che respiro, 55 parole per prostrarmi davanti a una nuova alba.
E 55 baci alla vita.
La vita tutta.
La mia.
Eccomi. Sono un mare di colori, ora che di tempo ne è passato…
Un po’ più triste, a volte, ma colorata, quello si.
Ricordi quel dì di Primavera, quando avevo quel foulard color prato, che tanto ti piaceva?
Ora indosso quello color ocra, come tutte le foglie che giacciono a terra, finite.
Ho il viso sbiadito e, di rossetto, lo sai, non he faccio uso.
Ho paura di sporcarmi quando parlo, perché sono sempre concitata, quando parlo, io.
Però ho le mani rosse, color melograno, perché mi piace abbracciarle, le persone, prenderle per mano.
E mi si scaldano.
E diventano rosse.
E ho un cesto di parole da dirti, nascoste tra i grappoli d’uva e tra le castagne di cui sono ghiotta.
Mi perderò nel bosco, prima o poi, mi perderò.
Nelle favole bisogna perdersi per trovarsi.
Sempre!
Ha un peso, il cuore?
Sì, se dentro ci fai entrare tutto.
Tutto,
anche ciò che meriterebbe stare fuori,
al freddo.
Tutto.
La stanchezza,
la malinconia,
i gesti sbagliati
e i pensieri che non dovrebbero essere pensati.
Le delusioni,
le aspettative da non aspettare.
Il mare che ho dentro,
in tempesta.
La paura del buio.
Ho un paio di ali,
sdrucite.
Con le piume mancanti e l’apertura,
sempre più stretta.
Plano sui giorni, spaiati.
E sui sogni, scordati.
Mille attimi di eternità
Anche se il silenzio contiene mille stati d’animo, mille sensazioni, mille attimi di eternità…
ho sempre preferito le parole.
E le parole scritte, nello specifico.
Ci si può soffermare su ognuna di esse, respirare l’odore delle pause, degli spazi vuoti, dell’andare a capo con la stessa forza di una cascata tra le braccia di due montagne.
Vedi,
le parole sono gocce di sangue, spine di una rosa costretta a difendersi per proteggere i delicati petali, respiri nati nella parte più interna del cuore.
E sono anche proiettili, a volte, sparati con la speranza di oltrepassare il torpore, la rassegnazione, la delusione.
Ecco, davanti al silenzio mi inginocchio, a pregare, però, quel dio che sparge petali di versi, a firmare pensieri vergini, nuovi, pieni di vita.
In fondo cos’è la poesia, se non un delirio dal fascino indiscusso?
Chissà se arriverai
Chissà se arriverai
immacolata come una sposa
come una poesia leggera
che si posa
sul cuscino
dove appoggerò le ciglia
indosserai fiocchi
tra i capelli
mentre i miei
ribelli
slegherò
La mia Fermo
Gira e rigira per trovare un parcheggio: niente.
La mia Fermo presa d’assalto, finalmente!
La fiera di Natale, i negozi aperti, la temperatura accettabile.
Una bella camminata poi al capolinea.
Manca il fiato, tanta è la bellezza.
Manca davvero.
La piazza, questo lussuoso salotto, strapieno di meraviglie.
E di gente.
Ammiro l’albero.
Calcinaro si è superato.
Come sempre.
È notte, finarmente!
È notte, finarmente!
Sò fatto la pannella
la pizza
lo pà
pe passà tempu
pe divagamme
Ma lu tèmpu non passa
non passa mai
Tra póco vedo un filme
e po?
Tutte ‘ste notte sframicate
non saccio più do mettele
le stelle a se d’è smorte tutte,
la luna…
La luna
a no la vedo più…
In dialetto ce parla li contadì. Comme me.
Sò ricevuto vari messaggi de cumblimenti perché scrio in dialetto.
Perché non me vergògno a scrie cuscì.
È che, a d’è più facile,
non me sbajio co li congiuntivi, non devo mmattimme a troà parole strane, senzuali, dilicate.
In dialetto lu penzieru è già perfèttu, non gne manca co’.
In dialetto lu dolore a d’è dolore, la contentezza a d’è essa, pricisa, senza sinonimi pe fa finta che sò studiato.
Io non sò studiato.
Io so jita a parà le pecore quanno l’amiche mie java in piazza.
E in fabbrica quanno loro cuminciava le superiori.
Io parlavo in dialetto, jo li campi.
E in fabbrica.
Ce parlo ancora.
In dialetto ce parla li contadì.
Comme me.
Unico, impalpabile, inafferrabile.
Non si può pensare di sbocciare per un tempo indeterminato.
Tutto è così fugace, così rapido e scivoloso.
E ci si accorge di ciò solo mentre i petali cominciano a cedere.
Niente si trattiene, niente.
Però, quell’attimo resta per sempre, non si cancella.
Unico, impalpabile, inafferrabile.
Sono io quei petali che tremano, che sanno che, a breve, il vestito rosso…
scolorirà.
E allora? Io ho già deciso.
Tirare dritto all’obiettivo può far incorrere in una serie di problematiche durante il tragitto.
A non essere accomodanti si rischia di restare soli.
E allora?
Niente, occorre solo capire se la destinazione merita il viaggio.
E se si ha voglia di rischiare.
Io ho già deciso.
In un campo di papaveri
Ho bisogno di un bagno in un campo di papaveri
farne ghirlande
intrecciarle tra i capelli
vestirmi di rosso
di papaveri rossi
e niente altro
ubriacarmi di vento
e di un alfabeto che
solo io e te
conosciamo...
Sento le membra vacillare ad ogni alito di vento.
Sono di quei colori che il bosco dona a Novembre, i miei pensieri.
Caldi e poi subito freddi, deboli, impauriti.
Cadranno, lo so, cadranno.
In fondo, delle foglie, non importa niente a nessuno: cadono, muoiono, senza che nessuno ne abbia pena.
Sembra ovvio, scontato.
Le senti sotto i piedi, con quello scricchiolio che sa di fine, di mancanza di domani, di “forse saremo utili al terreno”.
Non so se sarò utile al terreno io, non credo.
Non si curerà nessuno del mio cadere ed essere morta.
Non resterà niente di me, niente che possa ricordare lontanamente il mio passaggio.
Sono Autunno, le mie parole.
Sono Autunno lento.
E inesorabile.
Febbraio,te lo ricordi ancora?
Febbraio,
quasi non ti riconosco.
Non riesci più a farmi ridere,
del tuo Carnevale non porto ricordo.
I carri carichi di paure sfilano nella mente, in bianco e nero.
Manca Arlecchino, mancano i colori.
Manca lo zucchero filato sulla punta delle dita,
mancano le risa giovani,
mancano i coriandoli dentro la maglietta,
incollati da un sudore di cose in divenire…
Resta l’odore del mare sulle labbra, di un anno fa.
Te lo ricordi ancora?
LA MERLA
La merla solitaria zitta zitta
rvistita co’ un mantèllu sculuritu
a fà du’ passi e se ne pprufitta
zumpetta vassa senza lu maritu
-Quist’anno stranamente sento callo-
a se lamènta mentre se llontana
-de ‘sti tramonti fatti de corallo
io staco mejio co’ la tramontana-
-E se cuscì continua la mmasciata
allora vojio fà comme me pare
a faccio comme una che conoscio
bbandono tutto e po… vaco a lu mare!-
Se ci sarà un’altra vita
Se ci sarà un’altra vita
un’altra possibilità
un’altra forma da assumere
quando il tramonto incontrerà la notte
quando le dita
rattrappite
non stringeranno più la penna
quando
voltandomi
vedrò il grano diventato paglia
se ci sarà un’altra possibilità
dicevo
Dio degli abissi e delle risalite
concedimi di rinascere ninfea
leggera
a pelo d’acqua
in superficie
senza zavorre-
Hai visto gli ulivi?
Hai visto gli ulivi?
Hanno miriadi di piccolissimi fiori.
I rami sono tempestati da quelli che, poi, diverranno preziosi frutti da spremere.
La storia si ripete eppure, pur sembrando identica agli altri anni, ogni volta è nuova e diversa.
E diverso sarà l’olio.
Niente, domani, sarà come ieri.
Niente.
Ciò che si era va custodito, riposto nell’angolo del comodino, gelosamente protetto.
Ma è del domani che dobbiamo parlare.
Gli ulivi hanno dimenticato il raccolto passato.
Aspettano nuove mani.
Se da sempre è così, un motivo ci sarà…
Che luna, stasera!
Che luna, stasera!
Io e te non abbiamo mai
festeggiato granché
tu eri schivo
a tutto ciò che di confezionato
il mondo proponeva
in questo
nel tempo
ti assomiglio sempre più
Che luna, stasera!
Babbo, la tua festa
non l’hai mai calcolata
calcolavi il sudore
spesso obbligato
Che luna…
a lei ti affidavi
come i saggi contadini fanno
a lei
a nessun altro
tanto eri orgoglioso
dei tuoi campi
Ora
in questa tua ultima fase
dove io ti imbocco
la torta di mele
inzuppata di latte
ora
la luna
sembra averti scordato
D’altra parte
volge lo sguardo
noncurante
Un paltò di neve
E tu pensi che un paltò di neve
possa bastare a coprirmi la pelle?
No, non basta.
Ciò che ho dentro è ibernato e perpetuo
in segrete stanze
chiuso
e fuori
dal mondo gelido
prendo le distanze.
Così sia.
Signore,
accogli le nostre croci.
Quelle in bella vista, che il mondo vede e commisera,
ma ancor di più quelle nascoste, quelle indicibili, quelle tenute nelle stanze più buie in attesa di speranza.
Ecco, donaci il pane del domani,
il pane come prima necessità dell’anima.
Non lasciarci attrarre dalle frivolezze ma dall’essenziale del quale abbiamo perso traccia.
Passaci attraverso.
Tagliaci dentro.
Facci uscire il sangue della vita: quella vissuta con l’accettazione di ciò che non si può cambiare e con la tenacia inesauribile per ciò che merita una svolta.
Armaci di coraggio, quello di mostrarci veri e fragili, in questo mondo che ci obbliga a mostrarci perfetti e forti.
Così sia.
Di fiori in bianco e nero
Di fiori in bianco e nero
di luce flebile
di quelle poche parole che passano oltre i lupi
che tentano di sbranare la preda
di labbra tagliate dall’inverno
e screpolate dai morsi
dell’impotenza
di solitudini scelte
ed altre pagate care
di ieri a cui non credere più
di domani di cui diffidare
e di cuori chiusi fuori dall’uscio
di tutto questo
si nutre una pagina vergine
Profuma di Maggio
Profuma di Maggio, l’aria.
Di rose.
E ali di rondine sulla mia schiena.
E la mente torna a quella ragazzina, acerba ancora, che vestiva un profumo di ginestra per sognare due occhi.
Specie protetta, l’ho capito poi.
La ginestra.
E i sogni di lei.
Notte
Ci verrai a trovare prima, stasera.
Tra i rami nudi e sensuali degli alberi ai bordi della strada, tra l’erba umida della scarpata incolta, tra le luci delle finestre accese anzitempo.
Notte.
Un po’ ti temo, devo ammetterlo.
Sei troppo lunga e troppo silenziosa.
Troppo nera.
Ho impastato una torta per esorcizzare il timore che mi incuti.
Ho profumato la casa di burro, marmellata, mele cotte.
Non ho dosato gli ingredienti, non lo faccio mai.
Li metto a caso, così, a intuito, come faccio quando scrivo.
Comincio a battere le lettere (o le uova) e non so mai se parlerò d’amore o di matematica.
Poi inforno.
Ho un forno a forma di cuore.
Sforno cose che nemmeno io conosco.
Le assaggio…
Non sono una grande cuoca né una grande scrittrice.
Ma qui profuma di buono.
Notte, non ti temo!
Nascita di un poeta..
A chi, tra due colori, ne vede mille altri
a chi si turba per una foglia a terra
a chi si accorge della nascita di un poeta..
Giornate azzurre
Le giornate azzurre fuori e la paura dentro.
I contagiati vicino casa e una preghiera di supplica al cielo.
C’è un silenzio terribile!
E tanta tristezza per la durata senza tempo di questa pausa di vita.
E questa foto di un anno fa, a ricordarmi un panorama totalmente stravolto.
Mi manca il mio mare dalla finestra.
Mi manca vederlo da lontano…
Come ironizzare su una tragedia: copri-sterzo abbandonato.
A me non me nteressa
la jiornata dell’ambiente
chi la festeggia ojji
non ha capito gnènte
la festa se cumincia
da lu primu de Jennà
e non deve avé fine
manco dopo de Natà
l’ambiente se n’è ccòrtu
de èsse trascuratu
che ce ne frechemo tutti
anche se è tanto nominatu
Io intanto me preparo
co la sappa e co la vanga
se me mòro in ‘che scarpata
me potete anche fa santa
(O intitolarmi una scarpata)
Il ciliegio si è vestito di oro.
Prima di abbandonare i rami, le foglie, hanno voluto sfoggiare il loro abito più festoso.
Il vento di ieri, benché di una certa intensità, ne ha staccate poche.
Molte resistono, l’attaccamento alla vita è sempre forte.
Ecco, vedi…
è quando pensi che sei alla fine, è lì che serve l’ultimo sforzo.
Quando vorresti cedere al vento, alle intemperie, e invece senti dentro le foglie danzare, senza cadere, a darti forza.
Sono foglia, temo il vento della vita.
Sono foglia, vestita d’oro per l’ultima danza.
A ballare tra i rami, nella stagione più fredda.
Adesso
Non ho voglia di parlare.
Non ho voglia di spiegare, di parlare del vuoto, del nulla.
Ci si potrebbe sempre infilare nei miei assoli, tra le righe, tra punti e virgole, comunque.
E buongiorno, e buon pranzo, e c’è il sole oggi e meno male…
Sono vuote le parole, vuote di senso, vuote di percezioni.
Siediti.
Siediti sui miei fiumi.
Quei rivoli che sono un filo d’acqua ma che poi diventano dighe senza controllo.
Le dighe, fatte per contenere, non sempre fanno il loro dovere.
Siediti.
Ma ora basta.
Non ho più voglia di parlare.
Non più…
Gli orli sdruciti
e i bottoni attaccati alle ferite
trasformate in feritoie
per coprire il vuoto
stretto da darmi affanno
in certe nebbie oltre la collina
dei rimpianti
o largo fino a caderci
in quelle notti bucate di stelle
in cui mi sento piccola
e scompaio piano
ci vuole tempo per capire
che chi non dà non ha
e chi non ha
ha bisogno
di elemosina nel cappello
e di carezze
Perfetto, il sarto del tempo
che lascia qualche spillo
non a caso
in ogni abito
del suo atelier
Sfoglio i giorni e le stagioni.
La mimosa, la ginestra, i papaveri, i girasoli.
L’odore dei sogni, delle speranze, delle certezze sperimentate, delle delusioni cocenti.
Sfoglio il dolore.
Sfoglio le cicatrici
e gli oli con cui ho tentato
di lenirle.
Sfoglio le pagine
ora bianche
ora imbrattate di pensieri.
Pensieri come fiamme
che bruciano l’inverno.
E le stagioni
e i giorni
che sfoglio.
, sindaco di Belmonte
Sono una che scrive
È quel sottile confine d’azzurro che faccio fatica a delineare.
Dove l’acqua e il cielo si fondono, senza paura.
Il confine.
Tra l’essere e l’apparire.
Tra il pensiero intimo e lo scritto.
Tra il concreto e il sogno.
Tra la massa e l’io.
Tra l’immunità di gregge e la mia.
No, io non sarò mai immune.
Da niente.
Sono una troppo fragile.
Sono una che scrive.
Mi sto chiedendo se abbia sapore la Poesia.
Odore si, ne ha, evoca aromi dolcissimi, tra le righe.
Ma, sapore?
La mia si, sa di figlia di contadini, di colline coltivate a foraggio, dove pascolavano le pecore dalle quali, mia madre, mungeva il latte per fare il formaggio.
Sa di mani prive di crema all’orchidea ma che odorano di carne per riempire le olive.
E di pane, quello buono, usato per impanarle.
Sa di versi che sbocciano in bocca, mentre, alla cassa, sommo la spesa.
Sa di frutta matura, di zucchero tra le dita, mentre invaso la marmellata fumante.
Di pesche in vetro, di spicchi di sole custoditi per l’Inverno.
Sa di mare, del mio amatissimo mare, e del sale che lo fa tanto simile alle mie lacrime.
Sa di lievito, quello madre, che partorisce inni alla vita.
E che si moltiplica nella gioia.
Lontana da scrivanie di legno intarsiato, viva di fogli sparsi in ogni dove.
Ecco, io non so neanche se sono degna di chiamarla Poesia, la mia.
Ma questo è il suo sapore.
Dolce/amaro.
Come me
Grembiulino, fiocco e zainetto. Torno a scuola!
Faccio il terzo anno, quest’anno.
Ripetente, direte.
Si, ho ripetuto.
Ho ripetuto tutta la vita che ho un buco, una voragine, un vuoto incolmabile.
Niente e nessuno ha sostituito o riempito i miei anni di scuola mancati.
Niente.
E nessuno.
Poi, in una serata di Asino chi non legge, ascolto lui, Umberto Piersanti, mi piace.
Tempo dopo vengo a sapere della sua scuola.
Sono ignorante come una capra ma testarda come in mulo.
Ci provo, mi iscrivo, mi scapicollo per andarci, frequento, imparo.
Imparo, imparo, imparo…
Ma non sufficientemente.
Devo andare ancora.
Ancora, ancora, ancora…
Domenica rivedrò i miei compagni di classe.
Faremo anche la ricreazione.
Praticamente, sono già lì.
un campo arato
Regalami un campo arato
ci seminerò parole vergini
Se nasceranno
chiamale col mio nome
portale al mulino
fanne pane
Quando avrai fame
cibati di me
Sto imparando a leggere il silenzio.
A percepirne le sfumature, i toni alti e bassi del dolore, il fiato che manca e le mani fredde.
Perché il silenzio è un mare di roba: è Inverno, è solitudine, è un albero privo di foglie, una porta chiusa, un caffè senza zucchero.
È avere paura.
Lo sto leggendo, lentamente, per non perdere nemmeno una parola.
Perché, in fondo, lo amo il tuo silenzio.
Ma io sono altro.
Sono il chiasso, lo schiamazzo, il tuono rumoroso.
Di quel silenzio a cui appartieni, io, sono solo l’urlo…
A pugni stretti
A pugni stretti
col domani a sottrarre
carezze
sorrisi
gesti consueti
ed ora impossibili
Tu
che la fatica hai divorato
costruendo certezze
e terreni
da lasciarci
tu
che non distingui più
il remoto dall’oggi
convivendo con fantasmi e suoni
ora scomparsi
Vedi
posso solo giocare
con te
col bambino nato
dai neuroni che muoiono
piano
senza fare rumore
ARSA
Mi sorprendi arsa
come certi giorni di Luglio
Disidratata
come sabbia scolpita dal Ghibli
sola
debole come non immagini
forte come non saprai mai
A bruciarmi i piedi
sulla sabbia rovente
scalza
per sentire ogni granello
di cui sono fatta
ARSA Sonia Trocchianesi
OMAGGIO AL MESE DI LUGLIO
Il mio sale
Era presto e, il mio presto, significa prima del sole.
La sabbia era priva di orme, le mie erano le prime.
Ho pensato che era bellissimo come la notte portasse via ogni traccia del giorno precedente e che, a volte, mi sarebbe piaciuto fare così.
Cancellare tutto.
E ricominciare.
Pagina pulita, bella calligrafia.
Errori da evitare, scelte da azzeccare, risposte precise da dare.
Invece, solo il mare ha questa facoltà.
Il mare si rinnova ad ogni onda, ad ogni alito di vento.
Si inventa, ogni attimo.
Un giorno mi ha fatto una promessa.
Avrebbe nascosto tutte le mie lacrime.
Il mio sale, in fondo, è come il suo…
scritta il 4 novembre 2019-ore 22:44-
Me faccio cucciòla
Me faccio cucciòla.
Me bbusco dentro de me, me rritiro, quasci ce rinuncio.
Divento muta, invisibbile, comme se non ce staco.
Perché là fòri, spesso, non gne sse fà a stacce, non gne sse fà.
Che vorrà succède, chi se ne ccorghierìa?
Penso nisciù, nisciuna proprio.
Ma se dovèsse sboccià ancora un fiore, forse me rreffaccerìo.
Forse.
Ne rparlemo più in là.
A primavera.
VEDI
Vedi,
ho avuto anche io paura di fiorire.
Ho avuto paura dell’aria gelida del mattino
e di quella tetra della sera che entra nelle ossa e che rende fragili come vetri sottili sottili.
Allora son rimasta gemma, a volte
son rimasta embrione, pensiero,
azione mai accesa.
E le parole sono rimaste inchiostro,
desideri nudi con la paura del buio.
Nudi.
Sotto una coltre di stracci.
Non saccio se je la poi fa,
Non saccio se je la poi fa,
a nasce,
ce semo barricati in ogni mòdu,
no, non è pe lu virusse,
quella è la scusa,
e tène pure,
perché la sapemo raccontà cuscì bè,
che ce credemo tutti.
Semo nchiavato lu còre
e semo vuttato via la chiae,
mejio a mette un muru,
a non fasse domande,
a non cercà risposte.
Semo legato le ma’,
mejio non toccacce
unu co natru,
mejio a facce l’auguri a sopra
comme è stato sempre fatto:
“Comme stai, tutto vè?”
“Se tira avanti”
e via lu prossimu
cuscì…
Semo leato lu sorrisu,
perché ammó,
finarmente,
la vocca non se vede,
a sta bbuscata.
Non jela poi fa, a nasce!
E comme fai?
Non se po’ scavargà,
lu cunfì,
tra l’amore che pórti
e l’ipocrisia che ce tè ritti.
Piccolo ciclamino-
Il piccolo ciclamino ha vissuto un sacco di inverni.
Lui, col freddo, sta bene.
Riesce a mettere foglie nuove, verdi, forti.
E fiorire.
Ha imparato che, quando fuori non è l’ambiente che vorrebbe, fare finta di morire sia l’unica soluzione.
Morire.
Ritirarsi, mettere la testa sottoterra, non respirare.
Non soffrire.
Non inutilmente.
Aspettare il momento giusto,
saperlo fare, in silenzio.
Prima o poi arriverà l’ora in cui tutto sarà.
Tutto.
E la mortificazione estiva apparirà come un ricordo lontano.
Il ciclamino ha da insegnare molto.
Sto prendendo appunti…
Ecco, vedi…
mi inviti a non mollare, a non darla vinta a chi tenta di ostruire un sogno, ad essere più forte delle barriere, ad insistere, ad essere me stessa.
Vedi…
tu non sai quanto io sia caparbia, quanto io sappia essere determinata, e quanta ribellione contengono le mie idee.
Però sono stanca, stanca di far finta di essere nel torto, stanca di chinare il capo.
Stanca di mani chiuse, stanca di voci dubbie.
In certi labirinti, si rischia solo di perdersi.
Resto fuori, con la delusione da gestire.
I papaveri, sbocceranno lo stesso.
Più rossi che mai!
All’alba sarò pronta.
All’alba sarò pronta.
Presto, prestissimo.
Prima che il rumore copra il canto degli uccelli, prima che il sole scaldi la fronte, prima…
Prima.
Prenderò una strada secondaria, quella con vista mare.
Lascerò spaziare i pensieri trattenuti dietro i vetri, scioglierò le ginocchia semi bloccate dalla quarantena.
Camminerò finché avrò fiato.
Domani.
La senti com’è fresca, l’aria?
La senti com’è fresca, l’aria?
Mi ricorda quando, ragazzina, la respiravo tutta, col naso, a bocca chiusa.
E, camminavo, senza ancora sapere dove volessi andare.
Perché, mi avevano detto che, non era importante cosa volessi fare ma, era importante fare ciò che si doveva.
Io mi nascondevo sotto le lenzuola, la sera, che sapevano di fieno o di paglia, a seconda delle stagioni.
Lì, nascosta, parlavo sola.
Mi ripetevo i desideri a voce alta, i sogni, le cose che avrei voluto fare.
Credevo che, se lo avessi detto a voce alta, qualcuno mi avrebbe sentita, esaudita.
Lo faccio ancora, quando vado a camminare.
C’è un piccolo tunnel che attraverso solitamente, lì mi escono i pensieri a voce alta; in quei venti passi mi ritrovo, torno indietro, volo via…
E, i pensieri rimangono lì, sotto il tunnel, adagiati nell’aria fresca…
La senti com’è fresca, l’aria?
Mi ricorda quando, ragazzina, la respiravo tutta, col naso, a bocca chiusa.
E, camminavo, senza ancora sapere dove volessi andare.
Perché, mi avevano detto che, non era importante cosa volessi fare ma, era importante fare ciò che si doveva.
Io mi nascondevo sotto le lenzuola, la sera, che sapevano di fieno o di paglia, a seconda delle stagioni.
Lì, nascosta, parlavo sola.
Mi ripetevo i desideri a voce alta, i sogni, le cose che avrei voluto fare.
Credevo che, se lo avessi detto a voce alta, qualcuno mi avrebbe sentita, esaudita.
Lo faccio ancora, quando vado a camminare.
C’è un piccolo tunnel che attraverso solitamente, lì mi escono i pensieri a voce alta; in quei venti passi mi ritrovo, torno indietro, volo via…
E, i pensieri rimangono lì, sotto il tunnel, adagiati nell’aria fresca…
Vedi,
è arrivato settembre,
di già.
Un nuovo ciuffo di capelli sbiaditi,
un sorriso mancato,
una carezza stanca,
la sera.
Ho provato a seminare il coraggio,
nascondendo la paura
nella tasca di dentro;
non so se ce l’ho fatta,
non lo so.
Ho messo in moto le mani.
Le mani sono il fulcro
di ogni cosa.
Le mani sanno piangere,
accarezzare,
lottare.
Sanno fare l’amore.
Sanno stringere il tempo passato,
ricamando il domani
su finestre di vento.
Ho esorcizzato il dolore,
con le mani.
Ho cucito ferite di carne
e poesia.
Ci ho aperto la via,
nuova,
con le mani.
Ho invitato sui fiori
le api,
a impollinare la notte,
di stelle cadute
per me.
Le sensazioni sono immagini scritte sulla pelle.
E la pelle che invecchia è un album di foto.
Sto invecchiando, si, me ne accorgo dalla difficoltà a fare la salita.
Dal fiatone.
Dai piedi, uno in special modo, che appoggio male e che si ribella.
Manca l’acqua durante il percorso.
L’acqua fresca, di sorgente, quella che nasce per dissetarsi, per ristorare le labbra dall’arsura.
Gli odori però, li ho immagazzinati.
Ogni profumo una foto.
L’erba, il grano alto appena dieci centimetri, la borragine.
Le ho tutte qui, le loro immagini.
Sulla pelle piena di rughe.
Piena di curve.
Piena di poesia.
Immensa, stasera
Immensa, stasera
da contenermi tutta
me e tutte le mie paure
le mie angosce
le mie domande sospese
e il tuo ventre
accogliente grembo
dalla pelle bianca
sentiero degli amanti
palpito degli audaci
viatico dei coraggiosi
Non ti somiglio
sei troppo bella
luna
Vedi,
sembra alquanto inutile ripeterti in quale modalità va presa la vita.
Con leggerezza, con estrema leggerezza.
Senza entrare dentro alla sostanza, ai problemi, alle cose che le tue mani toccano.
Vedi,
dare poco di sé è sempre molto riduttivo ma, dare troppo, è da sempre penalizzante.
È una colpa.
Non ne trarrai benefici.
Dare tutta te stessa sarà il tuo male.
Il tuo difetto più grande.
Il tuo tarlo nello stomaco.
Rimani in superficie, cerca di capirlo.
Galleggia, se vuoi salvarti.
Di solito, dopo il mezzo secolo, si comincia a capire.
Di solito.
O anche no.
Gioia nel condividere una fetta di crostata
Scapijiata non póco
co l’aria de mare
sempre pronta a lottà
pe checcosa che vale
che fatica a fa der bène
a difende l’ambiente
sai lo vello che d’è?
Lu còre enorme de la jente!
(Su questa foto faccio schifo, mascherina e vestita di cenci, a fine raccolta, ma voglio farvi vedere quanta gioia porta il nostro gruppo.
Gioia nel condividere una fetta di crostata e sapere di aver lottato per una giusta causa)
Le ali delle parole
Le parole hanno le ali.
Inutile tentare di trattenerle, tutto inutile.
Andate, adagiatevi su nuovi lidi, su nuove scogliere, su nuove pagine.
Non so se qualcuno vorrà leggervi, non lo so.
Ma non è a questo che penso, ora.
Penso alla grazia, alla leggerezza, alla profondità che dovrò donarvi.
Penso ai probabili sensi che, teoricamente, potrete accarezzare.
Il gusto, il tatto, la vista, l’udito.
E quell’odore, inconfondibile, che saprete emanare.
Spiccate il volo, andate.
E grazie a chi, ancora una volta, crede in me.
In voi.
È lenta la pioggia.
Come una carezza lieve, quella che si fa ad un bambino quando dorme e non lo si vuole svegliare.
Malinconica, però.
Come tutta la scala del grigio, così precariamente in equilibrio tra il bianco e il nero.
I colori, certo, quelli sono altro.
Come quel prato, dove mi riempivo i polmoni di vita.
Dove il silenzio firmava un patto d’alleanza col verde ed io mi sentivo una regina sul trono dell’infinito.
Piove.
Lento lento.
Il grano ringrazia.
Io…
scriverò della malinconia.
Ancora.
Le pecore.
Quanto le ho odiate, le pecore.
Le ho odiate come non ho mai odiato niente altro.
Tantissimo.
Poverine, ma che c’entravano loro?
Ne avevano una quindicina, i miei, e mi mandavano a pascolarle.
Avevo il terrore che si venisse a sapere.
Magari dalle mie compagne di classe, quelle che, nei pomeriggi liberi, passeggiavano in piazza.
Oppure dai compagni, i maschi.
Cosa avrebbero pensato, se avessero saputo?
E poi, era tempo rubato ai compiti, ai miei amati libri.
Oh mio Dio!
Ci ho messo quasi quarant’anni per dirlo ad alta voce.
“Ho pascolato le pecore, si, io.”
Per tanti anni.
Lì, in quei prati verdi, dove qualcuno cantava che ci nascono speranze…
Vedi,
ci sono luoghi, nel corpo,
dove nessuno immagina il dolore.
Dove nessuno parla dei segni scalfiti nella carne,
a colorare il grigio di inverni sterili,
come murales astratti.
E questo carico,
che si fa peso e forza, qui, sulla mia schiena.
E tento di non curvarmi, saltando ostacoli
che faccio finta siano niente.
Scendono giù,
sulle vertebre stanche
come cerchi in uno stagno,
dove i sassi tirati recano fastidio.
E creano onde.
Ma quanto fascino hanno
le cose complicate
e quanto profumano
la pelle
le ostinazioni di cui mi vesto.
Sono questo.
Nuda e vulnerabile.
Poi forte.
Vestita solo di spine.
L’unico mio rifugio…
E poi mi dici… parla.
Che, il mio ammalarmi spesso, deriva da una stanchezza interiore, che il corpo sente le emozioni negative, il malessere, il sonno stentato.
Ma a chi vuoi che interessino le mie lagne?
Le mie paranoie malinconiche, il mio turbamento quando mi affaccio dalla finestra e non vedo più il mare?
Forse sono troppo sensibile, soffro pure per un saluto mancato, figurati…
No, non mi va di parlare.
L’unico amico sincero è questo foglio.
Il mio confidente.
Titos Patrikios-Le parole nude-Antologia con testo greco a fronte-
Editore Interlinea-Novara
Testi di Giovanni Conte-Traduttore Katerina Papatheu
DESCRIZIONE –
Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti europei attuali, nato ad Atene nel 1928, ha partecipato alla resistenza, durante l’occupazione nazifascista, rischiando l’esecuzione, e alla guerra civile. Mandato al confino durante i regimi di destra che si sono avvicendati fino al 1974, è sopravvissuto alla brutalità delle due guerre e della polizia e alle torture, grazie a una scrittura assidua, febbrile, incessante. È un poeta che s’interroga, e il suo verso è un sentiero ritmico che protrae quasi all’infinito il suo sentire, è un percorso della memoria che può riempire i vuoti della vita. “Nessun verso oggi può rovesciare i regimi /[…]/ se non per sollevare un angolo di verità”. A questo servono appunto i poeti, perché “a un certo momento scelgono, denunciano, sperano, / chiedono /[…]/ passando in rassegna le cose già accadute / la poesia cerca risposte / a domande non ancora fatte”. Edizione, con inediti, a cura di Katerina Papatheu, con una nota di Giuseppe Conte.
Biografia di Titos Patrikios
Titos Patrikios, figlio di due noti attori del teatro greco, è nato ad Atene nel 1928. Durante l’occupazione nazifascista ha partecipato alla Resistenza e nel 1944 ha rischiato l’esecuzione. Dal 1951 al 1954 è stato confinato nelle isole di Makrònissos e di àghiostratis, e dal 1954 al 1959 ha vissuto ad Atene come «confinato in congedo». Laureato in Giurisprudenza all’Università di Atene, è diventato avvocato, lavorando anche come giornalista. Molto attivo nel campo culturale, è stato, nel 1954, fra i fondatori dell’importante rivista letteraria “Epitheòrisi Technis”. Dal 1959 al 1964 è stato a Parigi dove ha studiato Sociologia e Filosofia a l’école des Hautes études e ha lavorato come ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique. Nel 1967, all’avvento della dittatura dei colonnelli, sfuggendo all’arresto, lascia la Grecia e vive a Parigi, dove lavora come consulente all’Unesco, e a Roma, dove lavora alla FAO. Dal 1976 vive ad Atene.
Dopo l’esordio come poeta nel 1943 sulla rivista studentesca “Xekìnima tis Niòtis”, la sua prima raccolta di versi, Strada sterrata, risale al 1954. Seguirono le raccolte Apprendistato (1963), Fermata a richiesta (1975), Poesie, I (1976), Mare promesso (1977), Controversie (1981), Specchi a fronte (1988), Deformazioni (1989), Apprendistato, ancora (1991), Il piacere delle dilazioni (1992), Poesie I, II, III (1988), La resistenza dei fatti (2000), La Porta dei Leoni (2002), Il nuovo tracciato (2007), Poesie, IV (2007), Brama d’amore che scioglie le membra (2008), La casa (2009), Convivenza col presente (2011), La poesia ti trova (2012). Ha pubblicato anche quattro volumi di racconti e numerosi saggi letterari, sociologici e giuridici. Due suoi libri di sociologia, scritti in francese e tradotti in inglese, spagnolo e russo, sono pubblicati dall’Unesco (1972, 1976) e due altri scritti in inglese e francese sono pubblicati dalla FAO (1970, 1974). Ha tradotto in greco, tra gli altri, testi di Spinoza, Lukàcs, Hannah Arendt, Walt Whitman, Majakowskij, Neruda, Saint-John Perse, éluard, Aragon, Brecht, Balzac, Stendhal, Valéry. Sue poesie sono state pubblicate in tutti i paesi europei e in Messico, Cile, Brasile, Egitto, Marocco, Cina. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia (Altérations, Parigi 1991; Apprentissage, Parigi 1996); due in Germania (Spiegelbilder, Colonia 1993; Das Hans, Berlino 2010). Un’antologia di suoi versi è pubblicata negli Stati Uniti (The Lions’ Gate, 2006). Un’ampia antologia delle sue poesie tradotte in italiano da Nicola Crocetti, La resistenza dei fatti, è uscita nel 2007 in Italia da Crocetti Editore. Interlinea ha pubblicato le due antologie con testo greco a fronte La casa e altre poesie (tradotto dallo stesso Crocetti, nel 2009) e Le parole nude nel 2013.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios in Italia si ricorda il Premio Brancati, Zafferana Etnea 2007, Premio Letterario Internazionale l’Aquila-Carispac 2009, Premio internazionale di Poesia Civile di Vercelli 2009, Premio Feronia Città di Fiano 2011. Nel 2004 il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
da Tutte le poesie Mondadori-scelte dalla Rivista Avamposto
Mi chiedi cosa vuol dire
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
Il benessere
Quanti hanno avuto ciò che non avevano:
un lavoro, una casa – ma poi
che l’ebbero ottenuto vi si chiusero.
Ancora per poco sarò tra voi.
Dal cuore del miracolo
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.
La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli istanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
Quando piega al termine
Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando
volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.
Ciao, Sublime
Tu, cosa della cosa
o Sublime.
Al di là della fine
e senza fine.
Senza principio
al di qua del principio.
Sublime – esser per essere.
Sublime – divenire.
Crisma dell’immanenza.
Sublime – stella fissa del durare.
Superfluità della coscienza.
Ciao, Sublime.
Ciao, Sublime.
Sublime che non si volta.
Sublime che non si ascolta.
Sublime senza prima
né ultima volta.
Io no – che sempre aspetto
il cominciare, l’apertura.
Io no – per poca fede.
Per poca paura.
Io – senza occhi per contemplarti.
Io che non ho ginocchi per adorarti.
Cosa della cosa.
Rosa della rosa.
Tu – rosa e cosa
ma senza le parole cosa e rosa.
Tu – non foglia che cresce
ma crescersi di foglia.
Tu – non mare che splende
ma splendersi del mare.
Tu – amore nell’amare.
Ciao, Sublime.
Ciao, Essere Umano semplicemente.
E io che passeggio con te.
Io che posso prenderti per mano.
Io che mi brucio di te
nel corpo, nella mente.
Maria de las angustias
Un massimo di impostura è inevitabile
Considerato quanto futile è il cuore:
Anche dalla finzione tuttavia il vero può nascere
Smascherata maschera all’incerto amore.
Egli fabbrica e notturno arzigògola
La via donde buscar el Levante:
A te sale e ti osa, Maria de las angustias,
Ti chiama presenza/assenza, essenza miracolante.
Ma tu per mano a angoli d’acque lo guidavi,
Che in ombre marezzavano le arcate discrete:
E lui con te così tortuosamente naturale
Nell’estraneità di quella quiete.
***
Maestra di enigmi
Affermate che basta una parola
E quella sola che nessuno ha –
Lei che trasvola via dalla memoria
Lucciola albale e falena
È nera spina di pena
Brùscolo a un occhio di storia –
Venisse al mio parlare
Èffeta e poi per sempre bocca muta
Al servo vostro stretto
Frugando sul sentiero
Dove non scende lume di pietà –
Se la felicità sia il nostro vero
O il nostro vero la felicità
L’amore dei vecchi
In una gloria di sole occidente
Vaneggi, mente stanca:
Inseguito prodigio non si adempie
Nell’aldiquà del fiore che s’imbianca
Ma tu, distanza, torna a ricolmarti
Tu a farti terra in questa ferma fuga
Mare di nuda promessa
Ai nostri balbettati passi tardi
E tu, voce, rimani
Persuàdici – un poco, un poco ancora
Nostro non più domani,
Usignolo dell’aurora.
Il mio delitto
Se scrivere era vivere
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un’isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto
Breve biografia di Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere.Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica». Dopo un breve periodo trascorso a Torino, nel 1958 è nella sede Olivetti di Milano, dove lavora come copywriter nella Direzione pubblicità e stampa. Nel 1953 pubblica la prima raccolta di versi, Fiorì d’improvviso. La vita in versi, uscito nel 1965, lo impone definitivamente all’attenzione di lettori e critici. Negli anni successivi dà alle stampe Autobiologia (1969, Premio Viareggio), O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984), Salutz (1986, Premio Librex-Guggenheim Montale), Prove del teatro (1953-1988) (1989), Fortezza (1990), Poesie (1953-1990) (1991), Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresie della sera (1999). Nel 2000 la sua opera poetica è raccolta nel Meridiano I versi della vita. Nel 2004 esce l’ultima raccolta, Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002. Muore a La Spezia il 24 maggio 2011.
Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 2014) dalla RIVISTA «Avamposto»
«Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
CONTATTI- RIVISTA «Avamposto»
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Non fermarmi. Sto sognando. Abbiamo vissuto proni secoli d’ingiustizia. Secoli di solitudine. Ora no. Non fermarmi. Ora e qui, sempre e ovunque. Sto sognando la libertà. Facciamo sì che la bella unicità Di tutti Ripristini L’armonia dell’universo. Giochiamo. Conoscenza è gioia. Non certo un obbligo scolastico. Io sogno perché amo. Grandi sogni su nel cielo. Gli operai delle fabbriche occupate Produrranno cioccolato per il mondo. Io sogno perché SO e perché POSSO. Sono le banche a creare i “ladri”. Le prigioni i “terroristi”. La solitudine gli “emarginati”. I prodotti il “bisogno” I confini gli eserciti. Tutto deriva dalla proprietà. La violenza genera violenza. Ora no. Non fermarmi. È giunto il tempo per ristabilire L’etica come prassi finale. Fare della vita una poesia. Fare della vita una prassi. È un sogno possibile possibile possibile IO TI AMO E non fermarmi, non sto sognando. Io vivo. Tendo le mie mani Verso l’amore la solidarietà La libertà. Tutte le volte che ricomincia daccapo. Io difendo ANARCHIA.
(traduz. Carmine Mangone)
dal blog Pochi amici Molto amore di Carmine Mangone
*
Verrà il tempo
Verrà un tempo in cui le cose cambieranno. Ricordatelo, Maria. Ricorda, nelle pause del gioco, Maria, di quando correvamo impugnando il testimone – non guardarmi – non piangere. Sei tu la speranza, ascolta, verrà un tempo in cui saranno i figli a scegliere i genitori non verranno fuori a caso non ci saranno porte chiuse con persone curve là fuori e il lavoro saremo noi a sceglierlo non saremo come cavalli cui si guarda in bocca. Le persone – pensaci! – parleranno coi colori, con le note. Abbi solo cura di conservare in una grande bottiglia d’acqua parole e concetti come disadattati – oppressione – solitudine – prezzo – profitto – umiliazione serviranno per la lezione di storia. Non voglio mentirti, Maria, sono tempi difficili. E ce ne saranno altri. Non so – non aspettarti troppo da me – questo ho vissuto, questo ho imparato, questo io dico e di tutto ciò che ho letto una cosa conservo con cura: “L’importante è restare umani” Cambieremo la vita! Maria, nonostante tutto.
(trad. Carmine Mangone)
Our life is jack-knifings
Our life is jack-knifings in dirty dead-ends rotten teeth, faded slogans basso vestiario smell of piss, antiseptics and spoilt sperm. Ripped-off posters. Up and down, up and down Patission Ave Our life is Patission Ave. The powdered fetergent which does not pollute the sea And Mitropanos sang his way into our life but Dexameni has also swallowed him like those high ass ladies. But we are still here. We travel all our life in lust the same course. Humilation-loneliness-despair. And vice versa. Ok. We do not cry. We grew up. Only when it rains we secretly suck our thumb. And we smoke. Our life is pointless painting in programmed strikes snitches and patrols. That’s why I tell you. Next time they shoot us we shan’t run away. Count our strengh. Let’s not sell our skin so cheap, damn it! No. It’s raining. Give me a cigarette.
chi aveva tradito.
Le ombre degli ulivi raccolti
si strinsero in un tenero abbraccio.
Le madri raccoglievano i figli
cantavano ancora le nenie,
melodie sepolte nella casa di pietra
che lo vide fanciullo.
“Non lo abbiamo visto passare”
Risposero in coro.
I sassi arroventati
sopportavano i gemiti.
Pronta la madre raccoglieva
le lacrime ed il sangue.
Fu un lungo patire
quando il tempio squarciato
gridava vendetta.
È lontano il tempo
che, tu, madre,
salisti il Calvario:
la strada è un lungo lamento,
c’è chi inciampa per l’ultima volta,
chi cerca orizzonti troppo lontani,
chi s’abbandona agli angoli, stanco.
Ma vedremo qualcuno seguirci per via?
Tenendoci per mano
vinceremo il furore
e ti faremo ghirlande
con i fiori sparsi
sul nostro cammino.
Canterò per te
Canterò, canterò per te
mio piccolo sole
tutta l’allegria del bosco
e i viaggi di bianchi aironi.
Ti farò la giostra
e ti condurrò
su cavalli alati.
Volerò, volerò per te
sui colli che non
hanno sera,
ti porterò canzoni
sulle ali del vento.
Ti darò la mia fantasia
e lunghe vette di luce
e la storia dei secoli
e la mia vita d’eterno.
“Amicizia”
Dimmele le tue paure,
posso prenderti per mano
e condurti dove le nebbie
non s‟alzano nemmeno
e su noi gli alberi
non hanno che cime;
ti conduco dove il passo mio
si fa più vicino al tuo;
non sentiamo altro
che questo nostro andare
senza orizzonti.
D’Estate
La notte è chiara
le nebbie che ci coprivano
il giorno appaiono disperse,
il cielo si svela
senza stanchezza,
l’uccello notturno
non sa più cantare.
“Non vorremmo”
Noi resteremo qui
ad ingaggiare primavere
piene di vento.
Non vorremmo altro spazio
che il nostro,
non vorremmo altro tempo
che quello per resistere
agli orrori.
“Come un’alba novella”
Se un fiore muore
non pensare alla vita
che si è spenta
ma a quella
che vive
nel bocciolo
del suo stelo.
Se una stella di notte
cade nel buio
non pensare alla luce
che si è spenta
ma a quella che brilla
di molte
fiammelle.
Se guardi un tramonto
non pensare ad un giorno
passato
ma a quello che sorgerà
domani
come un’alba novella.
Fonte- L’altroquotidiano.it
Dall’antico dolore all’estremo spiraglio
A cura di Francesco Sisinni
Ricordo di Agata Cesario, che dedicò alcune sue poesie alla Madonna.Nelle sue rime parlò spesso di fede e di speranza, nonostante le sofferenze di un brutto male,che ne causò la morte il 16 maggio 1989
Agata Cesario resta nel cuore e nella memoria di molti, ricordata ogni anno a Cellara (Cosenza) paese dov’è nata e dove una piazza è intitolata al suo nome: “insigne poetessa cellarese” recita la dedica scolpita nel marmo.
Su iniziativa del Sindaco, la piazza è stata inaugurata l’anno scorso quando ci fu una grande festa in onore di Agata, quella che Pino Nano, in un lungo messaggio inviato, ha definito “la festa di A-gata e della sua famiglia”. Una cerimonia intima, scandita dai ricordi personali e dalle testimo-nianze di chi ha frequentato Agata, non solo insegnante, vista anche come “animatrice” della comunità con la quale amava confrontarsi e che la chiamava per iniziative in campo religioso come in campo sociale. Potremmo forse sintetizzare così il senso del suo percorso, racconta il fratello Giacomo, giornalista, presente alla messa in ricordo officiata a Roma dal cardinale Raffaele Fari-na, e che ora affida la recensione della nuova edizione del libretto di poesie “Spazi infiori-ti” (1981) al prof. Francesco Sisinni, una delle figure di spicco della cultura italiana, docente alla Lumsa e già direttore generale per i beni librari al ministero dei Beni culturali. Fu nominato da Giovanni Paolo II membro della pontificia Commissione per i beni culturali ecclesiastici.
Il testo, che qui di seguito si riporta, penetra fin nel fondo dell’anima di una poetessa che, confessa Sisinni, mi è familiare e che avevo quasi perduto di vista. Poesie datate 1981, ma in realtà senza tempo, che hanno sempre qualcosa da dire, “da leggere”.
Comprendere un’opera d’arte, ovvero, saperla leggere ed interpretare è certamente un fatto di cultura, connesso com’è alla disponibilità di un’accorta, quanto avanzata metodologia ermeneutica. E, tuttavia, intelligerla, ovvero indagarla ontologicamente, oltre e più che semanticamente, è soprattutto un fatto di empatia, che misteriosamente consente l’immedesimazione del Lettore nell’Autore, proprio nel momento creativo dell’opera stessa: Poiesis.
L’ovvietà di siffatta riflessione, che, come noto, rinvia alla vasta produ-zione estetica e linguistica, da Baumgarten a Croce, da Panofsky ad Heidegger, non delegittima, comunque, assumerla come premessa essenziale, là ove, come qui, rileva il debito di lettura alla capaci-tà empatica, appunto.
Dunque, un’esperienza di vita breve, ma intensa – quella di Agata Cesario – che distillata in grumi di poesia, è stata appena sospinta dal timido soffio dell’affetto fraterno tra le mie carte e miei libri ed ora è qui perché anch’io, più che la conosca, l’ascolti, anzi la senta, tra gli echi ineludibili di una terra a-vara e bella, cui han prestato voce innumeri scrittori e poeti anche del nostro tempo, dal calabrese Corrado Alvaro a Giuseppe Berto, che calabro non era.
E così ho letto e riletto questa silloge “spazi infioriti” , che si accredita, anzitutto, con la semplicità accattivante di una edizione essenziale, ove le liriche, 35 (se si esclude quella fuori testo: “Come un’alba novella”), si presentano a mo’ di palinsesto, che ti invita ad attraversarlo, scandagliandovi non evi, ma eventi, anzi stati d’animo che, coinvolgendo, trascinano fino all’ultimo fondale di quel mare profondo, che è l’anima, là ove nascono le memorie, senza tempo!
“Senza tempo”, come recita l’incipit della raccolta e proprio come insegna Agostino nelle sue Confessioni, giacché il tempo, come realtà, non è e se ne parliamo e lo misuriamo è solo per-ché esso appartiene all’anima, ove il passato è memoria, il futuro è attesa e il presente è attenzione.
Or è che da questo fondale senza tempo, solo poche sillabe si fanno paro-la e solo alcune parole, emergendo in superficie, tra macchie ed abrasioni, rivendicano senso: Nebbia; Paesaggio intimo ed esterno (la madre, il padre, il paese); Dolore; Nostalgia; Fede.
La nebbia, che ricorre ripetuta-mente nei versi della Cesario, non è un ingrediente di pittura surrealista, ma è piuttosto una presenza che ingombra l’assenza: divora, copre, vagheggia, eppure vela e rivela.
E là ove appena si dissolve, ecco apparire quel nostro piccolo mondo antico, la cui storia, uguale per tutti, diversa per ciascuno, pensavi di aver consegnato per sempre a quel lontano commiato sofferto e che, invece, ti porti dentro, ineludibilmente ovunque, sempre!
Ed ecco le note di nenia struggente, che ridisegnano su orizzonti improbabili gli occhi ostinatamente comprensivi della madre, mentre girandole e fiammelle, inventate per un giorno di festa dal padre, inutilmente si rincorrono nel caleidoscopio delle immagini cangianti, ove tutto fugge … e ritorna: le case di pietra, il dedalo dei vicoli, i vecchi balocchi, riproposti, sublimati, dalla pungente nostalgia.
La nostalgia! Certo la Cesario ha pensato a Plotino, giacché conosce bene questo sentir sottile e inquietante, che i moderni chiamano malinconia. Ma la sua poesia non è epica e perciò non ha bisogno né del mito di Ulisse, né del profeta dell’eterno ritorno. La sua è il rimpianto di un Eden perduto, fatto di piccole cose, ma, anche di “grandezze non comprese”.
Di qui “l’antico dolore”. E già, perché questo libretto è umido di lacrime non piante. È un dolore che non grida, ma singulta quello che è “stanco di passare sulla consueta strada”. Non infinito, come nello Schopenhauer, né cosmico, come nel Leopardi ma, semplice-mente esistenziale, connesso alla problematicità della storia, contro cui s’erge la sfida, né può spegnersi “l’ansia di rag-giungere l’estremo spiraglio”.
Ed ecco, perciò, finalmente la Fe-de: la fede, unica alternativa, come avverte Kierkegaard, alla disperazione. E perciò, dalla strada insanguinata del Calvario, giunge alto il suo grido: “Non abbandonarmi Signore” giacché tu sai “la paura dei miei giorni”; “Donami pace e consolazione”, perché tu sai che “sono priva di tutto”.
Solo la fede, infatti, può far spera-re in un domani “Come un’alba novella”: poesia, fuori testo, questa, che si può leggere come “postscriptum” della presente silloge, ma anche e meglio, come introduzione di quella, qua e là annunciata, ma che Agata non ha avuto il tempo di lasciarci.
Fra i tuoi capelli è qualche filo bianco. E i giovani ormai più quando tu passi d’improvviso non soffoca il respiro. Ma qualche vecchio forse mormorando ti benedice, ché una tua preghiera l’ha scampato sul letto della morte. Per te che sai del cuore ogni tormento e ogni tormento hai inflitto all’altrui cuore, di gracile fanciulla germogliando la tua bellezza grave – per te sola il cielo ha cancellato la sentenza, tanta parte gli serbi in quella pace, se cammini soltanto in una stanza.
La tua bellezza può tra noi lasciare solo ricordi, pallidi ricordi. E un giorno a un vecchio un giovane dirà: “Diteci dunque di quella signora che un poeta ostinato ci esaltava quando l’età gli ebbe gelato il cuore.”
Vaghi ricordi, pallidi ricordi che nella tomba tutti rivivranno. La certezza che un giorno la signora vedrò giacere o ritta o camminare nella bellezza sua prima di donna col fervore degli occhi giovanili m’ha fatto come folle delirare.
E tu sei bella più d’ogni altra donna, ma una macchia offuscava il tuo bel corpo: non erano le tue piccole mani belle, e temo che tu forse non corra e remi fino al polso in quell’arcano lago sempre ricolmo dove quelli che hanno adempito alle divine leggi remano e sono ormai perfetti. Lascia immutate le mani ch’io baciavo per amore di un’amicizia antica.
L’ultimo tocco della mezzanotte muore; l’intero giorno ho allineato di sogno in sogno e poi di verso in verso divagando con un fantasma d’aria: solo ricordi, pallidi ricordi.
Trad. di Leone Traverso
Quando sarai vecchia
Quando tu sarai vecchia e grigia, col capo tentennante ed accanto al fuoco starai assonnata, prenderai questo libro. E lentamente lo leggerai, ricorderai sognando dello sguardo che i tuoi occhi ebbero allora, delle loro profonde ombre. Di quanti amarono la grazia felice di quei tuoi momenti e, d’amore falso o a volte sincero, amarono la tua bellezza. Ma uno solo di te amò l’anima irrequieta, uno solo allora amò le pene del volto tuo che muta. E tu, chinandoti verso le braci, sarai un poco triste, in un mormorio d’Amore dirai, di come se ne volò via… passò volando oltre il confine di questi alti monti e per sempre poi il suo volto nascose in una folla di stelle.
Innisfree, l’isola sul lago Mi leverò e andrò, ora, andrò a Innisfree, E costruirò una capanna laggiu, fatta d’argilla e canne, Nove filari a fave avrò laggiu, un’arnia 1 per le api da miele, E solo starò nella radura ronzante d’api. E avrò un po’ di pace laggiu, ché la pace discende goccia a goccia , Discende dai velami del mattino fin dove canta il grillo; La mezzanotte laggiu è tutto un luccichio, il meriggio purpurea incandescenza , La sera è piena d’ali di fanello. Mi leverò e andrò, ora, ché sempre notte e giorno Odo l’acqua del lago lambire con lievi suoni la sponda; Stando in mezzo alla strada, sui marciapiedi grigi, La sento nella fonda intimità del cuore.
Il gatto e la luna
Il gatto andava qui e là E la luna girava come trottola, E il parente più stretto della luna, Il gatto strisciante, guardò in su. Il nero Minrialoushe fissava la luna, Perché, per quanto vagasse e gemesse, La luce fredda e limpida nel cielo Turbava il suo sangue animale. Minnaloushe corre fra l’erba Alzando le sue zampe delicate. Vuoi ballare, Minnaloushe, vuoi ballare? Quando s’incontrano due parenti stretti Che c’è di meglio che mettersi a ballare? Forse la luna imparerà, Stanca delle mode di corte, Un nuovo passo di danza. Minnaloushe striscia fra l’erba Di luogo in luogo illuminato dalla luna, La sacra luna sul suo capo È entrata in una nuova fase. Lo sa Minnaloushe che le sue pupille Passeranno di mutamento in mutamento, Che vanno dalla tonda alla lunata, Dalla lunata alla tonda? Minnaloushe striscia, fra l’erba Solo, importante e saggio, E leva alla luna mutevole I suoi occhi mutevoli.
La maschera
Togli quella maschera d’oro ardente Con gli occhi di smeraldo.
“Oh no, mio caro, tu vuoi permetterti Di scoprire se i cuori sian selvaggi o saggi, Benché non freddi.”
“Volevo solo scoprire quel che c’è da scoprire, Amore o inganno.”
“Fu la maschera ad attrarre tua mente E poi a farti battere il cuore, Non quel che c’è dietro.”
“Ma io debbo indagare per sapere Se tu mi sia nemica.”
“Oh no, mio caro, lascia andar tutto questo; Che importa, purché ci sia fuoco In te, in me?”.
Alla memoria di Eva Gore-Booth
La luce della sera, Lissadell, Grandi finestre aperte verso sud, Due ragazze in kimono di seta, Entrambe belle, e una una gazzella.
Ma un delirante autunno strappa i fiori Alla ghirlanda dell’estate; la più grande È condannata a morte, perdonata, E trascina i suoi anni solitari A cospirare fra gli ignoranti.
Io non so cosa sogni la più giovane – Forse una vaga Utopia – e sembra, Ormai avvizzita e scarna come scheletro, Proprio un’immagine di quella politica.
Talvolta penso di andare a cercare L’una o l’altra, e parlare Di quella vecchia casa georgiana, fondere Le immagini della memoria, ricordare Quel tavolo e i discorsi della giovinezza, Due ragazze in kimono di seta, Entrambe belle, e una una gazzella.
Care ombre, ora sapete tutto, Conosco tutta la follia di una lotta Con un torto comune, o una comune ragione.
Per chi è innocente e bello Soltanto il tempo è nemico; Levatevi, e ditemi d’accendere un fiammifero E di accenderne un altro, finché non arda il tempo; E se l’incendio dilaga Correte pure a dirlo a tutti i saggi.
Noi costruimmo il gran gazebo, ed essi Ci riconobbero colpevoli; ditemi D’accendere un fiammifero e soffiare.
Canzone dell’amante
L’uccello sospira per desiderio d’aria, Il pensiero per non so qual luogo, Per il grembo il seme sospira. Ora scende un medesimo riposo Sulla mente, sul nido, Sulle cosce sforzate.
Pena d’amore
Il clamore d’un passero sulle grondaie, La luna brillante e tutto il latteo cielo, E tutta quella famosa armonia di foglie, Avean cancellato l’immagine dell’uomo ed il suo grido.
Una fanciulla sorse che aveva labbra rosse e dolenti E sembrava la grandezza del mondo in lacrime, Condannata come Odisseo e le navi travagliate E orgogliosa come Priamo assassinato con i suoi pari.
Sorse, e sull’istante le grondaie piene di clamore, Una luna che si arrampicava su un vuoto cielo, E tutto quel lamento delle foglie, Potevano soltanto comporre l’immagine dell’uomo e il suo grido.
I due alberi
Adorato, fissa lo sguardo nel tuo proprio cuore, L’albero santo sta crescendo là; Originano dalla gioia i sacri rami, E i tremuli fiori tutti che ne vengono.
I cangianti colori del suo frutto Han dotato le stelle d’un’armonica luce; La certezza della sua occulta radice Ha impiantato quiete nella notte;
L’agitarsi della sua chioma frondosa Ha donato alle onde melodia, E sposato le mie labbra con la musica, Per te mormorando una canzone di mago.
Là i figli di Giove compongono un cerchio, L’ardente cerchio dei giorni che ci appartengono, Rotando, ergendosi su e giù In quelle grandi vie frondose inconsapevoli;
Ricordando la chioma tutta scossa E degli alati sandali il guizzare, I tuoi occhi crescono pieni di tenera cura: Adorato, fissa lo sguardo nel tuo proprio cuore.
Non volger più l’occhio nello specchio amaro Che i demoni, con la loro astuzia sottile. Innalzano di fronte a noi quando essi passano, O solamente per poco tempo fissalo;
Giacché vi cresce un’immagine fatale Che la notte tempestosa accoglie in sé, E radici mezzo nascoste dalle nevi, E rami rotti ed annerite foglie.
Poiché cose malate portano a sterilità Nel fioco specchio che recano i demoni, Specchio della stanchezza esteriore, Fatto allorché Dio dormì nei tempi antichi.
Là, attraverso i rami rotti, vanno I corvi del pensiero senza riposo; Volando, gridando, su e giù, Artiglio crudele e famelica gola,
Oppur si fermano ed annusano il vento, E scuotono le logore ali; ahimè! I tuoi occhi gentili divengono del tutto scortesi: Non volger più l’occhio nello specchio amaro.
Gli amici le portano un albero di Natale
Perdona grande nemica, Senza pensiero irato Abbiam portato l’albero, E qui e lì comprato Per adornare ogni ramo, E lei dal letto rimiri Cose graziose che rallegrino Una fantasiosa mente. Un po’ di grazia donale Anche se un occhio ridente Ha spiato il tuo volto Che muore.
Un campo d’erba
Quadro e libro rimangono, Un campo d’erba verde Per prendere un po’ d’aria, Ora che le forze del corpo se ne vanno; Mezzanotte, una vecchia casa In cui solo un topo si muove.
La mia tentazione è la quiete. Qui al termine della vita Né la sbrigliata immaginazione, Né la macina della mente Che ne consuma cenci e ossa, Riescono a render nota la verità.
Mi sia concessa la frenesia di un vecchio, Devo rifare me stesso Fino ad essere Timone o Lear O quel William Blake Che bussò sul muro Tanto che la Verità rispose al suo richiamo;
Una mente quale la conobbe Michelangelo Tale da penetrare le nuvole, O ispirata dalla frenesia Da scuotere i morti nei sudari; Del resto dimenticata dal genere umano: La mente d’aquila di un vecchio.
Gli uccelli bianchi
Fossimo noi bianchi uccelli, mia amata, sulla spuma del mare! La fiamma della meteora ci stanca prima di appassire e la fiamma dell’azzurra stella bassa nel cielo crepuscolare ci ha ridesta, mia amata, nel cuore una tristezza che non può morire.
Stanchezza esalano questi sognatori grevi di rugiade, la rosa e il giglio; ah non sognare fiamma di meteora vagante, né la fiamma dell’azzurra stella ch’esita mentre la rugiada cade: ma ci muti la sorte in uccelli bianchi a galla sulla spuma errante!
Nostalgia d’isole innumerevoli mi tormenta e di danae prode, dove ci dimentichi il Tempo e l’Affanno non osi calare; lontani saremmo dal giglio e la rosa e la fiamma che rode, solo fossimo noi bianchi uccelli, mia amata, sulla spuma del mare!
Il secondo Avvento Ruotando e roteando nella spirale che sempre più si allarga, Il falco non può udire il falconiere; Le cose si dissociano; il centro non può reggere; E la pura anarchia si rovescia sul mondo, La torbida marea del sangue dilaga, e in ogni dove Annega il rito dell’innocenza; I migliori hanno perso ogni fede, e i peggiori Si gonfiano d’ardore appassionato.
Certo qualche rivelazione è vicina; Certo s’approssima il Secondo Avvento. Il Secondo Avvento! E le parole sono appena dette Che un’immagine immensa sorta dallo Spiritus Mundi Mi turba la vista; in qualche luogo nelle sabbie del deserto Una forma dal corpo di leone e dalla testa d’uomo Con gli occhi vuoti e impietosi come il sole avanza Con le sue lente cosce, mentre attorno Ruotano l’ombre degli sdegnati uccelli del deserto.
Nuovamente la tenebra cade; ma ora so Che venti secoli di un sonno di pietra Furono trasformati in incubo da una culla che dondola. E quale rozza bestia, finalmente giunto al suo tempo avanza Verso Betlemme per esservi incarnata?
Lo Sprone
Ti sembra orribile che lussuria e furia Mi faccian scorta nella mia vecchiaia; Non erano tanto assillanti quand’ero giovane; Che altro mi resta per spronarmi a cantare?
Egli desidera il tessuto del cielo
Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri
del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera perché
cammini sopra i miei sogni.
Biografia
William Butler Yeats- Poeta irlandese (Sandymount, Dublino, 1865 – Roquebrune-Cap Martin 1939), fratello di Jack Butler. È stato uno dei grandi protagonisti della poesia tra Ottocento e Novecento. Attratto dalle leggende irlandesi (Thewanderings of Oisin and other poems,1889) e dalle scienze occulte (Countess Cathleen, 1892), Y. elaborò un complesso simbolismo, misto di elementi celtici e teosofici. La sua produzione teatrale e quella poetica volsero, nella fase più matura, verso accenti maggiormente legati alla realtà. Fu insignito del premio Nobel per la letteratura (1923).
Vita e opere
Il paese d’origine della madre, Sligo, dove si recava da Londra per le vacanze, esercitò grande fascino sul giovane Yeats. Stabilitosi in Irlanda con la famiglia (1880), frequentò per tre anni la scuola d’arte, influenzato dalle idee del padre pittore. Conosciuto G. W. Russell, iniziò con lui gli studi di occultismo e fondò nel 1885 una Hermetic Society. In questi stessi anni si avvicinò al movimento nazionalistico irlandese. Nel 1886 iniziò il poema basato su antiche leggende irlandesi, The wanderings of Oisin and other poems; nel 1887, trasferitosi a Londra, entrò in contatto con gli estetisti decadenti e con i circoli teosofici. Sono di quegli anni Fairy folk tales of the Irish peasantry (1888) e Representative Irish tales (1890). Nel 1891 fondò la Irish literary society a Londra e nel 1892 la National literary society a Dublino. Nello stesso anno pubblicò Countess Cathleen, dramma in cui abbondano preziosismi preraffaelliti ed è palese l’interesse per le scienze occulte. Questo è testimoniato anche dall’edizione delle opere di Blake (1893, in collab. con F. J. Ellis) e dal dramma The land of heart’s desire (1894). L’incontro con Lady Gregory nel 1896 accentuò gli interessi politici di Y. che divenne una delle figure più importanti del rinascimento celtico: nel 1899 inaugurò l’Irish Literary Theatre. In quegli anni attraverso la frequentazione di circoli rosacrociani e la lettura dei simbolisti francesi venne formando il suo complesso simbolismo, misto di elementi celtici e teosofici. Nel 1895 ristampò rivedute le liriche di Oisin e Cathleen col titolo Poems; nel 1899 una nuova raccolta, The wind among the reeds. Intanto la sua produzione teatrale, dopo The shadowy waters (1900) e Cathleen in Houlihan (1902), subì una svolta radicale con i drammi sul mitico eroe irlandese Cuchulain (On Baile’s strand, 1903; Deidre, 1907; The unicorn from the stars, 1908; The green helmet, 1910); Y. appare distaccato dall’esperienza preraffaellita e intento a ricercare un linguaggio più misurato e aderente alla realtà. Lo stesso mutamento si avverte nelle poesie (In the seven woods, 1903). L’amicizia con E. Pound (di cui fu segretario dal 1913 al 1916), l’insurrezione irlandese del 1916, lo scoppio della prima guerra mondiale e il matrimonio sono esperienze che si riflettono nelle opere dell’ultimo periodo. Responsibilities (1914) e la seconda ed. di The wild swans at Coole (1919) segnano tappe importanti nella sua opera. Nel 1922, proclamato lo Stato libero d’Irlanda, fu eletto senatore; nel 1923 l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura lo consacrò tra le grandi voci della poesia del Novecento. Tra gli ultimi scritti si ricordano: Michel Robartes and the dancer (1920); Plays for dancers (1921); Autobiographies (1926); e i due volumi di versi The tower (1928) e The winding stair (1933).
ALEJANDRA PIZARNIK
Poesie scelte dalla Rivista AVAMPOSTO
Poesia
Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.
Anelli di cenere
a Cristina Campo
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
La notte
Della notte so poco
ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.
Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a esistere.
Le opere e le notti
per riconoscere nella sete il mio emblema
per significare l’unico sogno
per non aggrapparmi di nuovo all’amore
sono stata tutta un’offerta
un puro errare
di lupa nel bosco
nella notte dei corpi
per dire la parola innocente
Presenza
la tua voce
in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Questa notte, in questo mondo
a Martha Isabel Moya
questa notte in questo mondo
le parole del sogno dell’infanzia della morte
non è mai questo che si vuol dire
la lingua materna castra
la lingua è un organo di conoscenza
del fallimento di ogni poesia
castrata dalla sua stessa lingua
che è l’organo della ri-creazione
del ri-conoscimento
ma non della resurrezione
di qualcosa in forma di negazione
del mio orizzonte di maldoror col suo cane
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l’amore
fanno l’assenza
se dico acqua berrò?
se dico pane mangerò?
questa notte in questo mondo
straordinario il silenzio di questa notte
con l’anima succede che non si vede
con la mente succede che non si vede
con lo spirito succede che non si vede
da dove viene questa cospirazione d’invisibilità?
nessuna parola è visibile
ombre
spazi viscosi dove si occulta
la pietra della follia
neri corridoi
li ho percorsi tutti
oh fermati un altro po’ tra di noi!
la mia persona è ferita
la mia prima persona singolare
scrivo come chi alza un coltello nel buio
scrivo come dico
la sincerità assoluta sarebbe sempre
l’impossibile
oh fermati un altro po’ tra di noi!
lo sfacelo delle parole
che sloggiano il palazzo del linguaggio
la conoscenza tra le gambe
che cosa hai fatto del dono del sesso?
oh miei morti
li ho mangiati mi sono strozzata
non ne posso più di non poterne più
parole camuffate
tutto scivola
verso la nera liquefazione
e il cane di maldoror
questa notte in questo mondo
dove tutto è possibile
tranne
la poesia
parlo
sapendo che non si tratta di ciò
sempre non si tratta di ciò
oh aiutami a scrivere la poesia più prescindibile
quella che non serva nemmeno
a essere inservibile
aiutami a scrivere parole
in questa notte in questo mondo
***
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.
***
no, la verità non è la musica
io, triste attesa di una parola
qual è il nome che cerco
e che cosa cerco?
non il nome della deità
non il nome dei nomi
ma i nomi precisi e preziosi
dei miei desideri nascosti
qualcosa in me mi punisce
da tutte le mie vite:
– Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi
e hai preferito l’attesa,
come se tutto ti annunciasse la poesia
(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile– sono solo venuta a vedere il giardino –)
Alejandra Pizarnik nasce ad Avellaneda (Buenos Aires) il 29 aprile 1936, in una famiglia di emigrati ebrei di origine russa. Assieme alla sorella maggiore Myriam compie i primi studi in una scuola ebraica, dove impara a leggere e a scrivere in yiddish. Durante l’adolescenza comincia a fare uso di anfetamine per curare i disturbi fisici di origine nervosa che la affliggono. A 18 anni si iscrive alla facoltà di Filosofia, poi a quella di Lettere e infine alla Scuola di giornalismo, ma non porta a termine gli studi. Dal 1960 al 1964 vive a Parigi. Muore a Buenos Aires nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose di barbiturici.
Testi selezionati da La figlia dell’insonnia (trad. di C. Cinti, Crocetti, 2004)
Fonte-RIVISTA AVAMPOSTO
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
CONTATTI
RIVISTA AVAMPOSTO
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
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