stilo, polizzino di confessione, lacca per sigilli.
Le donne di una volta
Lentamente si dissolvono,
sempre più pallide
nell’emulsione degli anni.
Che la tristezza diventa bianca
E nel bianco si dilegua,
che la vendetta scolora
e la voglia si squaglia –
e fosse solo questo,
o anima bella!
Anche la stanchezza
ti diventerà indolore,
anche il dolore.
[Traduzione di Anna Maria Carpi]
Hans Magnus Enzensberger ( 1929-20222)Poeta, scrittore, traduttore ed editore tedesco. La sua poesia, con espressione volutamente antipoetica e provocatoria, non vede un mezzo di salvezza per l’uomo e si presenta come denuncia spietata di tutte le storture e debolezze della società.
Per terminare la foce della Sapienza
era necessario commuoversi sulle tue
labbra, attendere il basamento nella
tua bocca; la lingua a scavare nei
tuoi occhi verdi. Quasi al mezzo tono
noi due ci amiamo: simili ad illimitati toni,
in fuga dal pentagramma, le lettere noi
sedimentiamo nel pianto. Sulla lanterna
in cima alla Sapienza l’ottava si trapassa,
nella carcassa sospesa, le bocche sfiniscono.
Tu sei nella cariatide arcaica, nel mio fluido
sfoghi il sangue. Non attendere la fine della
Sapienza. Ascolta il canto della mia confessione.
*
– S. Maria della Vittoria
L’incenso adesso invoca le gote pallide; la bocca
trabocca di baci, trabocca la brocca di baci. Non
basta attendere un tempo intero per saturarsi, le
cime scivolano sulle fronti, di cento in cento s’
addensano sulle gote, di mille in mille vogliono
sacrificarsi in lacrime, obliare le fonti vuote. I
bianchi nembi celano la tua arcana nudità, senti
come lievemente trafiggo il candido, ti vengo
incontro. Dopo, io e te tenuti per mano io
con te felici insieme fioriamo nella Luna pallida.
*
Martirii ( Sacro cuore di Gesù)
Sono stato in alcuni posti, senza di te
che grattavi la pelle via dal volto.
Di sasso in sasso, non ti giravi più di
spalle per farti mordere, non velavi
più le lacrime sul viso dissetato, le contrazioni
del depressore, dell’orbicolare affrescati
sulla parete. Una volta apertosi il cielo
il ventre si distenderà ad accogliere l’
intradosso, la luce divaricherà i piedritti, la
steppa che ti correva dietro. Sono stato epodico
senza di te. Il Michele era seduto sul trono
in pietra, si infilzava gli occhi verdi
con la punta della spada. Nell’istante passato
a 20 metri mortifichiamo la salsedine, il ferro freddo.
Tra 20 metri guardami: io sarò tornato da te.
*
Dispersioni (S. Maria Immacolata)
Non tutto l’essere può essere presente, ci si
ostina ad attraversare le spoglie tanto da
disperdere l’immagine apparsa di
recente. Ora già rinasciamo coperti dalla
sacra melma secreta dai riposi della Lucia,
ora anche il Danubio si soffre immerso
nell’amniotico. Tu dici portami, resistimi
al guado, io velato d’un zendado. Tu dici
offrimi nell’abside, forami con le trifore,
versami nella tua gola –sulle navate
incise le tue grida, sulle navate sofferti
i rari esametri. Vieni, un giorno siamo
giovani, ci ricordiamo nei salici all’
angolo dei nostri corpi. Il giorno
dopo, la notte si sveste tra la luna
e il fuoco, incide il velo, scopre il capo.
A tratti poi, il tuo sorriso intimorisce
la parola, germogliano i distici miei
tra le tue labbra, vivono nel tuo blando
respirare. Ci si disperde certe volte.
*
Eliotropio (S. Susanna alle Terme)
Sono rimasto sperduto nelle tue spoglie,
mi radico inconsapevole nella città lontana,
quasi tu fossi il mondo. Là uno sguardo
resiste il fondo. Attendo, persisto il confine,
sconfino nel pianto. Nelle lacrime noi
mortifichiamo i vent’anni, sfioriremo
nel perdonarci delicatamente all’una
e mezzo di notte. Saremo Cassandre sole.
Biografia di Elena Denisa Alexandru ha pubblicato poesie su varie riviste e blog letterari, tra i quali Inverso, Avamposto online e cartaceo (n.1), Margutte, ed Euterpe.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
adesso che non ho più il silenzio
ma un fischio senza fine
sento solo il silenzio degli altri
quello a fare solitudine
la lingua incagliata tra i denti
della parola non detta
quella di un mondo del lavoro
a negare la dignità senza dire
orfano di terra di madre
parlo con te acufene
un ascoltare te
che non ascolti me
*
sono una conchiglia di terra
muovo passi sul mattino alpino
alla finestra lo sguardo
fa il cielo mare piatto
sono una conchiglia
l’orecchio porta nella testa
l’eco degli oceani e dei mari
tutti quelli possibili dell’emigrante
l’acufene seduto sul lobo
canta mille lingue e terre
in un solo fischio
*
sento il canto delle sirene d’Ulisse
il richiamo dell’onda mediterranea
il frangersi della spuma degli oceani
il muoversi lento del lago
il vento a spazzare le strade d’Europa
il ciclone a scuotere le palme caraibiche
il turbinio delle foglie d’autunno
il pizzicare della cetra sull’incendio di Roma
il ritmo del charango sulla povertà dei barrios
il ballo del tango e delle balere di periferia
il suono dell’arte continuo
come Van Gogh lascio
l’orecchio sul comodino
a sentire lo scorrere del Rodano
a passare senza posa come un acufene
*
non mi perderò nella nebbia densa di Londra
trafitta dal canto perduto di Trafalgar
né in quella spessa dell’Eridano
a riecheggiare le urla della batracomiomachia
né in quella impigliata alle cime andine
attraversata dal fischiettare del Libertador
né in quella versata da Atena sulle coste d’Itaca
a nascondere lo sguardo d’Ulisse
né in quella dolce addormentata sulle Highlands
tessuta dagli elfi dell’acqua
il fedele acufene destriero dello stridio
dalle nebbie richiama alla terra
e non si può perdere il cammino
solo seguire l’infinito sibilo
*
ho un dio nella testa
sicuramente ortodosso
non scende mai dal pulpito
o dal minareto
la sua chiamata è costante
si è rubato il silenzio
confonde le parole sulla lingua
e gioca a girarmi intorno a farmi girare
è un demiurgo che non smette di battere
uno stakanovista dimenticato in miniera
sbatte come il vento le finestre
e si porta via i pensieri
anche quelli amorosi soffia via
lasciandomi in una solitudine piena
piena di lui ovviamente
e non è neanche bello
sembra un neon impazzito
che non smette di vibrare la luce
tutti mi dicono di non pensarci
ma lui non smette di pensarmi
acufene l’allarme che
un ladro non sa spegnere
Biografia di Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963). Giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collezioni di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici. Ha pubblicato le sillogi: Amore migrante e l’ultima sigaretta (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), Corpi Fumanti (Uniediciones, Bogotá, 2019) e Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021), La dittatura dell’amore (Edizioni Delta 3, collezione Aeclanum, Italia, 2022). Un libro di racconti brevi: Odore a (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e il libro di cronaca e poesia: Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017). Suoi testi sono stati pubblicati in differenti lingue su riviste e antologie nazionali e internazionali.
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Con grande dispiacere apprendiamo la notizia della scomparsa di Pietro Polverini, giovanissimo autore, poeta e filosofo.
Pietro era nato nel 1992 a Fiastra, in provincia di Macerata, ed era laureato in Filosofia all’università di Macerata con una tesi incentrata sulla figura e la poesia di Amelia Rosselli. Molti i suoi contributi critici pubblicati su diverse riviste e libri.
La sua era una scrittura elegante, elaborata in ogni sua parte. Il suo esordio, Indicesommario di sbiadimento pubblicato dalla Casa Editrice Italic Pequod, porta con sé un lavoro di grande attenzione durato anni. Una lirica non affatto semplice nella sua immediatezza di lettura, piena di ricordo, presenze tastate, pathos.
Vogliamo quindi ricordare con voi questo fine poeta leggendo alcuni suoi testi tratti proprio da Indice sommario di sbiadimento:
Poesie di Pietro Polverini
Da sempre l’eternità è china su di voi: per commozione straniera vi slegate dagli oggetti, dall’ultimo lenzuolo verderame di cui sarete ospiti.
E dal velo della cresima cosparso sulla fronte, l’incidenza dell’aria vi sottrae dalla posa.
È questo poco sole nostro vero ricovero o fresca croce d’oblio l’obliquo uscio dalla nebbia latebra: la vita ch’era diventata seria al principio dell’azzurro dove s’assiepa il gelo parla stanca e scompare.
Vorrei sapere delle parole il numero: apprese obliate, annotate. Ora ho una corolla di nomi che si spunta e sbiadisce: non lasceranno traccia sulle increspature delle labbra. Delle parole vorrei sapere forse fiato, forse voce quale sarà la mia ultima: tutto pieno di sonno e nebbia potrei dire “acqua” o “lenzuolo”.
È uno stelo, non una selva che si imbianca, perde liquore ora stilo senza vena.
È uno stelo poi torna in questo acquario terso senza selva
con luce che non torna: resta in un piccolo punto riportami là, lì ero tutto.
spesso a voi ritorno col pensiero che siate vivi o morti poco conta: circondati in un cerchio di betulla, senza ago di luce, ma di foschia solo lo spazio ha dovere di mischiare le acque, sporgersi di fronte ad un bosco – “locus a non lucendo” per dirti che se gli occhiali si fanno appannati di coltre biancofumo o di bruma senza visione, resti ancora in controcampo.
Fiastra piange la scomparsa di Pietro Polverini a soli 30 anni: comunità in lutto.
La comunità di Fiastra piange la scomparsa di Pietro Polverini, a soli 30 anni. Il giovane si è spento questa notte, intorno alle 5, a seguito dell’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute mentre era ricoverato all’istituto Santo Stefano di Porto Potenza Picena. Pietro lascia la mamma Maria Grazia, il papà Emilio, il fratello Martino e la nonna Angela. Grande appassionato di poesia, ricopriva il ruolo di senior tutor all’università di Macerata.
“Di Pietro dovrei ricordare quella sua sensibilità uscita da un altro tempo, dominata dal presentimento di ciò che misteriosamente poi è accaduto e che non era solo un limite, erano le tenebre dentro cui vegliare quelle parole così dense ed eleganti che ha fatto appena in tempo a donarci in forma di poesie – così lo ricorda in un toccante post su Facebook il professor Sergio Labate, docente di filosofia teoretica dell’università di Macerata -. Ma non è solo questo che mi commuove. Mi commuove pensarlo mentre giocando a tennis si ostinava a giocare il dritto in back solo perché il suo modello tennistico era l’improbabile stile di Marion Bartoli, oppure quando ostentava il suo tifo per il Sassuolo. Una vita pesante che improvvisamente diventava leggera come quella dei bambini e si scioglieva in un sorriso”.
Il rito funebre si svolgerà martedì 14 novembre, alle ore 10:30, nella Basilica di San Nicola di Tolentino, muovendo dalla casa funeraria Rossetti in via La Malfa, a Tolentino. La salma verrà poi accompagnata al cimitero di Camporotondo di Fiastrone. Anche la redazione di Picchio News si stringe attorno al dolore della famiglia per l’improvvisa quanto dolorosa scomparsa di Pietro, ricordandone il sorriso e la competenza per il periodo in cui ci siamo pregiati della sua collaborazione.
“La notizia di una giovane vita spezzata crea sempre sgomento e smarrimento – sottolinea il rettore dell’università di Macerata, John McCourt in una nota di cordoglio -. Con ancora più forza vorrei far sentire ai genitori e a tutta la famiglia di Pietro la vicinanza dell’intera comunità universitaria e mia personale. Uno studente brillante e di spirito generosissimo, un ragazzo gentile il cui sorriso resterà per sempre nel ricordo dei suoi compagni di studio e dei professori che hanno avuto il privilegio di condividere con lui gli anni universitari, dentro e, soprattutto, fuori le aule”. Fonte–PICCHIO.news
Addio a Pietro, poeta e filosofo
Pietro Polverini, poeta e filosofo originario di Fiastra, è scomparso a soli trent’anni. L’ultimo saluto sarà reso oggi a Tolentino. L’intero territorio si stringe alla famiglia. Ricordato con le sue parole, Pietro lascia un capolavoro e un pensiero profondo.
Se n’è andato a soli trent’anni il poeta e filosofo Pietro Polverini (nella foto), originario di Fiastra. Laureato in Filosofia all’università di Macerata, dove era diventato anche Senior Tutor, era anche redattore di MediumPoesia. In passato aveva lavorato anche alla scuola media di Fiastra. Si è spento domenica all’alba all’istituto Santo Stefano di Porto Potenza, dove era ricoverato a seguito di una malattia che affrontava da tempo. L’ultimo saluto è stato fissato per questa mattina alle 10.30 a Tolentino, basilica di San Nicola, muovendo dalla casa funeraria Rossetti; poi Pietro sarà accompagnato al cimitero di Camporotondo. L’intero territorio si stringe a mamma Maria Grazia, papà Emilio, al fratello Martino, a nonna Angela. In tanti hanno ricordato il giovane con le sue stesse parole, prese dal libro di esordio “Indice sommario di sbiadimento” (Pequod, 2022). “Ci hai lasciato tutti senza parole, dopo un anno sospeso e muto – scrive per lui un amico –. Si perdono una mente e una sensibilità rare, perdiamo un poeta e un pensatore visionario e profondo, perdo una delle poche persone davvero corrette e leali che ho incontrato nel mio percorso letterario. Ci resta tutto di te, i tuoi sguardi, i tuoi pensieri, i tuoi articoli critici per MediumPoesia e soprattutto il tuo breve unico capolavoro Indice sommario di sbiadimento”. Sullo stesso manifesto funebre ci sono alcuni versi di Pietro: “Dovremmo perdonarci tutto alla stregua dei giorni che si cancellano l’uno nella luce dell’altro”.Fonte- “Il Resto del Carlino”
In lacrime per Pietro, poeta morto a soli 30 anni-
Il cordoglio del professore Labate dell’Università di Macerata
Fiastra piange la scomparsa di Pietro Polverini a soli 30 anni. Si è spento questa notte, a seguito dell’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute mentre era ricoverato all’istituto Santo Stefano di Porto Potenza Picena. Grande appassionato di poesia, ricopriva il ruolo di senior tutor all’Università di Macerata. “Di Pietro dovrei ricordare quella sua sensibilità uscita da un altro tempo, dominata dal presentimento di ciò che misteriosamente poi è accaduto e che non era solo un limite, erano le tenebre dentro cui vegliare quelle parole così dense ed eleganti che ha fatto appena in tempo a donarci in forma di poesie – così lo ricorda in un post su Facebook il professor Sergio Labate, docente di filosofia teoretica dell’Università di Macerata -. Ma non è solo questo che mi commuove. Mi commuove pensarlo mentre giocando a tennis si ostinava a giocare il dritto in back solo perché il suo modello tennistico era l’improbabile stile di Marion Bartoli, oppure quando ostentava il suo tifo per il Sassuolo. Una vita pesante che improvvisamente diventava leggera come quella dei bambini e si scioglieva in un sorriso“.
Pietro lascia la mamma Maria Grazia, il papà Emilio, il fratello Martino e la nonna Angela. I funerali si terranno domani 14 novembre alle ore 10:30 nella Basilica di San Nicola di Tolentino.Fonte –yoy/tvrs
Rivista L’Altrove :Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Iulita Iliopulu-Il mosaico della notte- tradotta da Paola Maria Minucci-
-Donzelli Editore-Roma
Cinque poesie in anteprima da “Il mosaico della notte” di Iulita Iliopulu, da poco uscito per Donzelli, a cura di Paola Maria Minucci, che comprende la raccolta “Il mosaico della notte” tradotta da Paola Maria Minucci e la raccolta “La casa” tradotta da Chiara Catapano.
Da “Il mosaico della notte”(traduzione di Paola Maria Minucci)
STELLE
Tanto piccole che appena tira vento
Rotolano giù
Dal cielo le stelle quasi a precipizio
Riportando di nascosto, in notti simili,
L’oro spento delle statue
Insieme a tracce violette di baci
Negli incavi, nell’ondeggiare leggero dei tessuti
Nelle sillabe di parole rimaste soffocate in bocca
In fretta nello splendore di un attimo
Perché nessuno le veda e si svegli
Spaventato per quella strana luce.
SEGNO
Nessun segno del tempo
Terreno intatto la memoria
A volte l’attraversa, come acqua, un bacio
Torna rinnovato
Affonda – passo nella sabbia –
Pensieri, immagini, sentimenti
E poi con più forza
Riporta
Il desiderio del mio sguardo
Che ti trovò nella folla
«Domani, domani»
Come la prima volta
Senza nessun segno del tempo
Il nostro vecchio amore
Più nuovo
«Domani. Nelle mie braccia. Di nuovo».
MOSAICO DELLA NOTTE
Si offusca l’aria, è scuro dentro la stanza
o fuori?
Immagini lontane, si odono appena
Il viola dei sospiri e il bianco – come di statue –
Che un tempo erano di un azzurro e rosso accesi
Segni, carezze, tagli che sulla pelle lasciano
Gioie vere e veri dolori
La bufera di un mare sempre estivo
Vuole distendere il suo lungo blu
Sui tetti, dentro i sogni
Rendere il vecchio più nuovo
L’amore più appassionato
Aprendo con timore i suoi petali
Nella prigione del piccolo vaso
Il tempo, come un vento
Si rinforza
Sotto i dirupi verticali del sonno
Un cielo con le sue stelle eufoniche
Cantilene, risatine, gemiti, brusii, baci
Frammenti di luce di un dio clemente, un’enorme sala da ballo
Come memoria illumina
Immagini lontane, si odono appena:
Bambini che saltano con la corda
E altre senza peso nelle pieghe dell’amaca
Altre ancora che prima di nascere promettono
– Con la fame di un abbraccio materno –
Voti d’argento, d’oro e di cera
Fiammelle che accendono altre fiammelle
Nel grande mosaico della notte
Con respiro sempre più affannoso
Per poco, solo per poco vive.
Si fa giorno?
Da “La Casa”
(traduzione di Chiara Catapano)
PRENDE QUALCOSA. Cose da niente. Un bicchiere, un
golf fatto a maglia. «Il bricco, prendi il bricco», le
grida la madre. E lei lo prende e dentro ci nasconde
una bambola di pezza, piegata in quattro. E la croce
d’osso di sua nonna. Poi avvolge la coperta, la sua
casa. Tutta la casa. E iniziano tre giorni di marcia
fino al mare. Di notte, passando sotto il filo spinato
la coperta s’impiglia, rimane agganciata. E resta per
sempre indietro la casa. Ora sale con gli altri sulla
barca, reggendo tra le mani solo la sua sorte. Ignota.
Biografia di Iulita Iliopulu, poetessa greca nata nel 1965,ha studiato letteratura bizantina e neogreca all’Università di Atene e teatro alla Scuola d’arte drammatica dell’Accademia di Atene. Scrive poesie, saggi e fiabe per bambini. Suoi componimenti sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, italiano in antologie e riviste letterarie. Autrice di otto raccolte poetiche, ha tradotto In difesa della poesia di Percy B. Shelley e ha scritto diversi saggi e uno studio critico sulla poesia del Premio Nobel Odisseas Elitis. Si è occupata dell’opera del poeta anche con numerose conferenze e letture di suoi versi in Grecia e all’estero, oltre a curare l’edizione di molti suoi libri.
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Ed è dunque tornato ancora il tempo di ritrovare le cose perdute di risentire con le fitte a un braccio il tuo umore, Novembre. Dalla mia terra bruciata di sale ho risalito tutte le contrade qui ho chiesto nebbia e pane. So cosa dite, so le querele che mi fate, amici. Voi non sapete cosa voglia dire nascere a Novembre; voi non sapete cosa voglia dire riconquistare le cose perdute.
Le due rive
Attorno ai globi rossi sulle due rive era ogni sera uno sciamare astioso di zanzare che saliva dagli argini e ronzava sopra le nostre teste.
Così cresceva il segno dell’estate, il rifiorire d’erbe e canne sul fiume la mia ansia d’intendere il fluttuare delle maree ad ogni nuova luna.
Rifugio della notte
Su questi alberi, queste siepi sempreverdi di pitosfori si è allungato il tuo oblio, e il mare tigrato là davanti è specchio fangoso, obliquo rifugio della notte.
In teoria tutto dovrebbe
In teoria tutto dovrebbe andare benissimo.
Egli è seduto a un tavolo. Sta scrivendo un libro, sta leggendo il giornale, sta guardando fuori dalla finestra.
Egli è seduto al tavolo, sta facendo parole incrociate. Una parola due parole molte parole difficili.
Quanto di me è rimasto
Quanto di me è rimasto – di quel poco che ero, di ciò che avevo – ha solo senso nel tuo ricordo, nascosto nel cuore del mio cuore, che pace per sé non chiede al Dio in cui hai creduto fino all’ultimo istante, quando dicevi, gli occhi a me rivolti: “Non ho paura, non ho più paura.”
L’AUTORE
Basilio Reale è nato a Capo d’Orlando il 22 novembre 1934-È morto a Milano il 6 febbraio 2011.
Nel 1953 si trasferisce a Milano per frequentarvi la facoltà di giurisprudenza. I suoi primi componimenti, risalgono al ’50.
Ha pubblicato: Forse il mare, Schwarz Editore, Milano 1956. Le quotidiane abitudini, Rebellato Editore, Padova 1959. La vita attiva, “Il Menabò” n. 6, Einaudi, Torino 1963. I ricambi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968. L’esistenza amorosa, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989. Travasare il miele, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1996. La balena dighiaccio, Nino Aragno Editore, Torino 2000. Da un ricordo di Daniele. Pulcinoelefante, Ed.788 Osnago 1994. Dove è verde l’ombra. Poesie inedite e sparse (1956-2000), L’arcolaio, Forlimpopoli 2019. Ha pubblicato anche diverse pubblicazioni di saggi.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Margaret Atwood Brevi scene di lupi. Poesie scelte (1966-2020)
a cura di Renata Morresi- Editore Ponte alle Grazie
Breve premessa-Per la prima volta Ponte alle Grazie offre al pubblico italiano una scelta delle poesie della grande scrittrice canadese, che abbraccia tutta la sua produzione, dal 1966 al 2020, ed è curata da Renata Morresi, una fra le più apprezzate poetesse italiane. «Essere accesa da dentro vena per vena essere il sole».
È pericoloso leggere i giornali
Mentre costruivo accurati castelli nel recintino di sabbia le fosse scavate alla svelta si riempivano di cadaveri spinti dai bulldozer e mentre andavo a scuola pettinata e linda, i miei piedi sulle crepe dell’asfalto detonavano bombe vermiglie.
Ora sono adulta e alfabetizzata, e siedo sulla mia sedia placida come un fuso
e si incendiano le giungle, il sotto- bosco si fa pesante di soldati, i nomi sulle mappe complicate salgono in fumo.
Sono io la causa, sono una massa di giocattoli chimici, il mio corpo è un congegno mortale, mi protendo con amore, le mie mani diventano pistole, le mie buone intenzioni sono del tutto letali.
Persino i miei occhi passivi trasmutano tutto ciò che guardo in una foto di guerra in bianco e nero come posso fermarmi?
È pericoloso leggere i giornali.
Ogni volta che batto un tasto su questa macchina elettrica per parlare di un placido albero
esplode un altro villaggio.
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Questa è una mia fotografia
È stata scattata qualche tempo fa. A prima vista sembra una copia sciupata: contorni sfocati e chiazze grigie fuse nella carta:
poi se la esamini, vedi nell’angolo a sinistra qualcosa come un ramo: parte di un albero (balsamina o abete) che affiora e a destra, a metà di quello che appare un dolce declivio, una piccola casa di legno.
Sullo sfondo vi è un lago, e oltre questo, basse colline.
(la foto è stata scattata il giorno dopo che annegai.
Io sono nel lago, al centro dell’immagine, appena sotto la superficie.
È difficile dire dove con precisione, o dire quanto grande o piccola io sia: l’effetto dell’acqua sulla luce inganna
ma se guardi abbastanza a lungo, alla fine riuscirai a vedermi).
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Moltissimo
È na parola antica, che va sbiadendo. Moltissimo volli. Moltissimo pregai. Io lo amai moltissimo.
Mi faccio strada camminando con attenzione, per via delle ginocchia malandate di cui mi frega assai meno di quanto possiate immaginare visto che esistono altre cose un pelino più importanti (aspetta e vedrai).
Ho in mano un mezzo caffè in una tazza di carta con – me ne rammarico moltissimo – un coperchio di plastica, cerco di ricordare cos’erano quelle parole un tempo.
Moltissimo. Com’era usata? Moltissimo amati. Moltissimo amati, siamo riuniti. Moltissimo amati, siamo oggi qui riuniti in questo album di foto dimenticate che ho ritrovato di recente.
Sbiadite ormai, color seppia, in bianco e nero, stampate a colori, ognuno di noi così tanto più giovane. Le Polaroid. Cos’è una Polaroid? Chiede il neonato. Neonato da un decennio.
Come spiegarlo? Tu scatti e la foto esce dalla parte rialzata. Alzata sopra cosa? Con quello sguardo perplesso che vedo di continuo. Così difficile da descrivere i dettagli più minuti di come – tutti questi moltissimo amati qui riuniti – di come vivevamo un tempo. Si incartava l’immondizia con la carta del quotidiano legata con un filo. Cos’è un quotidiano? Voi capite cosa intendo.
Il filo però, di filo ne abbiamo ancora. Lega le cose insieme. Un filo di perle. Ecco cosa ti dicono. Come tenere traccia dei giorni?
Ognuno splendido, ognuno separato, ognuno unico e finito. Li ho tenuti sulla carta in un cassetto, quei giorni, adesso svaniti. Le perle possono essere usate per contare. Come nei rosari. Ma non mi piace avere pietre intorno al collo.
Lungo questa strada ci sono molti fiori,
sbiaditi adesso ché è agosto, polverosi e diretti verso l’autunno. Presto i crisantemi fioriranno, i fiori dei morti, in Francia. Non pensare che questo sia morboso. Sono le cose come stanno.
Così difficile descrivere i dettagli più minuti dei fiori. Ecco gli stami, niente a che fare con gli umani. Ecco i pistilli, niente a che fare con le pistole. Sono i dettagli più minuti a ostacolare i traduttori e anche me, quando provo a descrivere. Capite cosa intendo dire. Tu puoi deviare. Tu puoi perderti. Lo stesso accade alle parole. Moltissimo amate, riunite qui insieme in questo cassetto chiuso, ormai sbiadite, mi mancate. Mi manca chi è mancato, chi è partito troppo presto. Mi mancano anche quelli che sono ancora qui. Mi mancate tutti moltissimo. Moltissimo rimpianto ho di voi.
Rimpianto: ecco un’altra parola che non senti più tanto spesso. Io rimpiango moltissimo.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Poesie tarde
Queste sono le poesie tarde. Quasi tutte le poesie sono in ritardo, ovvio: troppo tardi, come una lettera spedita da un marinaio che arriva dopo che è annegato.
Troppo tardi per essere di aiuto, certe lettere, e le poesie tarde non sono diverse. Arrivano come via mare.
Di qualsiasi cosa si tratti è già accaduta: la battaglia, il giorno di sole felice, il chiaro di luna che diventa voglia, il bacio d’addio. La poesia si arena sulla riva come un detrito.
Oppure tardi e la cucina è chiusa: tutte mangiate o fredde le parole. Galeotto, sorte e disfatto, o sospesi, attese e un poco, pensoso, dolente, desolata. Persino amore e gioia: vecchi canti pluri-masticati. Sortilegi arrugginiti. Ritornelli consunti.
È tardi, è molto tardi; troppo tardi per ballare. Allora, canta quel che puoi. Accendi la luce: canta ancora, canta: Ora.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Biografia di Margaret Atwoodè una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadesi. Laureata a Harvard, ha esordito a diciannove anni. Ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel perla Letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008), Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (vincitore del Booker Prize 2019), La donna da mangiare (2020), Lesioni personali (2021), e le raccolte di poesie Brevi scene di lupi (2020)e Moltissimo (2021), tutti usciti per Ponte alle Grazie. L’autrice vive a Toronto, in Canada.
Vittorio Sereni (1913-1983)-Poeta italiano, è il capostipite della variante lombarda del novecentismo poetico, detto “Linea Lombarda”. Ufficiale di fanteria, viene fatto prigioniero dopo l’8 settembre 1943. Nel dopoguerra è direttore letterario di Mondadori e cura la prima edizione dei Meridiani.
Non ha più limite la mia pazienza. Non ho pazienza
più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.
C’è chi, al contrario di me, non dispera,
che con salute e forza e virtù e buona
fortuna, si arrivi a morire dopo
tanti bei giorni, pieni di tantissime
cose di questo mondo o di un altro mondo;
o dopo tanti giorni e quella gioia soltanto
povera dei giorni. Io son felice,
a questo mondo, solo di questo e spero
che a me il destino procuri con le sue
pesti e la pietà e i suoi dolori
un solo giorno più bello di tutti questi
miei dolorosi giorni; o di questo mio
dolore si dimentichi per un solo
giorno.
M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale,e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.
la mia cultura è poca e la mente fioca,
non ho conosciuto regole e leggi e nessuno
dell’ordine dell’universo m’ha insegnato
ad amare la sua natura grande
e umile. Ho offeso con la mia stupidità
la legge della vita, l’infinita innocenza
della sua crudeltà. Adesso ho un cuore
nobile ma la mia carne è pietra.
e imparo da solo con stenti l’errore
d’essere solo. E padre e madre vorrei
essere di questa solitudine.
non l’abitudine filiale, ma il segreto esempio
la natura dolce delle parole vere
io voglio dedicare questo corpo magro,
attraversato dal tremendo folgore
del coltello e dell’innaturale pietà
della preghiera. E spezza da sé e su
se stesso l’acqua rigida del suo vero.
Conosco adesso il tempo certo
degli abissi e la parola povera
della vita, e l’esclusione e l’essere
e il pentimento e la colpa. E tutto
dura nel mio corpo eterno, e io
non posso amare senza amor
e non posso soffrire senza dolore.
Ceneri del nostro tempo gli evidenti
abissi del dubbio e l’assoluto.
La mia paura è grande ma ho il coraggio
di esistere. Soltanto in me è l’errore
del giorno e della notte. Il tramonto è leggero
come una carezza. e il giorno nella notte
si trasforma. Di questo genere del mondo
che è l’esser vero l’inconsapevolezza
giovanile fa nascere qualcosa che
soltanto l’amore della ragione conduce
ad esser vero. Anche di questo eterno
errore sono prodighi gli attimi fuggitivi, le origini e la fine.
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.
il mare è vasto e azzurro come il cielo,
e di questa ritmica melodia
vibrano foglie e fiori e le chiome
ampie dei pini. La malinconia
un tempo m’afferrava quando, vecchio
calligrafo di grigi fogli, ferro
e fuoco sono i versi, della casa
mia infinita, le persiane verdi
e il rosa scialbo e l’edera già grigia,
io sognavo inutilmente. Adesso
io amo questa nostra vita mite
e quei colori e quei versi, e tutta
infinita grandezza e la pazienza
del nulla attorno a queste sillabe.
in cielo i nuvoli son grandi vele
bianche, velieri. Io voglio per mare
un fondo di bottiglia e davvero
esitare a scrivere, non vere
le parole han bisogno di severe
prigioni dove snebbiare; più terse
allora seguiranno il verso giusto,
più vere eviteranno le maldestre
oasi d’ambiguità che son rare
ai deserti e frequentissime dove
il deserto è la folla delli errori,
e degli uomini incerti qui nei mari
d’assenza e di dolore. Come fiori
di mandorlo e di pesco le parole.
Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
equisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.
È quasi primavera, io dipingo
già fuori sul terrazzo, tra odori
di mari lontani e queste vicine
piante di odori. La salvia la menta
il basilico e i sedani dipingo
su tele bianche con pochi colori.
Il verde perché son verdi le piante,
e bianco il bianco nulla della tela,
e il rosso dei tramonti su la vela
del cielo che apre un teatro vero
e questi miei pensieri. Io dipingo
la sera quando i tormenti più vivi
accendono il cielo e bruciano il cuore,
e all’alba quando già nulla è la vita.
Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
salvi quasi per caso, e in questo prodighi.
I baci sono bellissimi doni.
Beppe Salvia appartiene alla poesia contemporanea e a quelle personalità letterarie dalle sfumature sfaccettate come opali: Salvia decide di togliersi la vita a soli trentun anni, il 6 aprile 1985. Marco Lodoli nell’articolo Morte di un giovane poeta pubblicato su Paese Sera, il 18 aprile 1985, afferma: «Beppe Salvia è morto a Roma, a trent’anni, gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile, a via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l’impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico.»Via del Fontanile Arenato è infatti uno zampillo di idee opalescenti, quelle di Beppe Salvia, arenate dalla troppa sensibilità, madre di una poesia lirica e tragica al contempo.
Beppe Salvia nasce nel 1954 a Potenza. Nel 1972 si trasferisce a Roma con la madre e il fratello, cambiando spesso casa e alternando la vita romana con alcuni viaggi in Sicilia. Inizia a pubblicare poesie in rivista nel 1976 (su «Lettera» e «Nuovi Argomenti»), diventando ben presto protagonista di quel clima vivace e alternativo animato nella capitale da poeti e pittori suoi coetanei. Frequenta i laboratori di poesia di Elio Pagliarani, occasione fondamentale per i giovani poeti sul volgere degli anni Settanta. Fonda nel novembre 1980 la rivista “Braci” insieme a Claudio Damiani, Giuseppe Salvatori, Arnaldo Colasanti e Gino Scartaghiande, ma allo stesso tempo, fin dall’ottobre del 1980, pubblica sulla rivista “Prato pagano” di Gabriella Sica le sue Lettere musive e partecipa a riunioni redazionali. In entrambe le riviste vengono pubblicate sue sillogi poetiche o ‘corone di sonetti’, che si distinguono subito per la spiccata individualità, alternante elegia e tragedia. Muore tragicamente il 6 aprile 1985. Alcuni degli amici più stretti ne ricordano la figura, qualche giorno dopo, sulla pagina culturale del «Paese sera», dando inizio a una sua tenace leggenda che in tempi recenti si è nutrita di studi e pubblicazioni di taglio anche accademico. Nel 1985, dopo l’improvvisa scomparsa, esce subito il suo primo libro, Estate, con lo pseudonimo di Elisa Sansovino, nei “Quaderni di Prato pagano”. Alla fine del 1987, presso Rotundo, esce Cuore (cieli celesti); nel 1989, nelle Edizioni romane della Cometa, il diario poetico Elemosine eleusine.
Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si guarda il cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusío di silenzio.
Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
Incontro
Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.
L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.
Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.
L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
Lavorare stanca (Einaudi, 2001)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
CANZONE
*
Le nuvole sono legate alla terra ed al vento.
Fin che ci saran nuvole sopra Torino
sarà bella la vita. Sollevo la testa
e un gran gioco si svolge lassù sotto il sole.
Masse bianche durissime e il vento vi circola
tutto azzurro – talvolta le disfa
e ne fa grandi veli impregnati di luce.
Sopra i tetti, a migliaia le nuvole bianche
copron tutto, la folla, le pietre e il frastuono.
Molte volte levandomi ho visto le nuvole
trasparire nell’acqua limpida di un catino.
Anche gli alberi uniscono il cielo alla terra.
Le città sterminate somiglian foreste
dove il cielo compare su su, tra le vie.
Come gli alberi vivi sul Po, nei torrenti
così vivono i mucchi di case nel sole.
Anche gli alberi soffrono e muoiono sotto le nubi
l’uomo sanguina e muore, – ma canta la gioia
tra la terra ed il cielo, la gran meraviglia
di città e di foreste. Avrò tempo domani
a rinchiudermi e stringere i denti. Ora tutta la
vita son le nubi e le piante e le vie, perdute nel cielo.
-Anche tu sei l’amore-
Anche tu sei l’amore.
Sei di sangue e di terra
come gli altri. Cammini
come chi non si stacca
dalla porta di casa.
Guardi come chi attende
e non vede. Sei terra
che dolora e che tace.
Hai sussulti e stanchezze,
hai parole – cammini
in attesa. L’amore
è il tuo sangue – non altro.
Tu sei come una terra
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
[29 ottobre 1945]
da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino, 1952
– Ogni notte, tornando dalla vita
Ogni notte, tornando dalla vita,
dinanzi a questo tavolo
prendo una sigaretta
e fumo solitario la mia anima.
La sento spasimare tra le dita
e consumarsi ardendo.
Mi sale innanzi agli occhi con fatica
in un fumo spettrale
e mi ravvolge tutto,
a poco a poco, d’una febbre stanca.
I rumori e i colori della vita
non la toccano piú:
sola in se stessa è tutta macerata
di triste sazietà
per colori e rumori.
Nella stanza è una luce violenta
ma piena di penombre.
Fuori, il silenzio eterno della notte.
Eppure nella fredda solitudine
la mia anima stanca
ha tanta forza ancora
che si raccoglie in sé
e brucia d’un’acredine convulsa.
Mi si contrae fra mano,
poi, distrutta, si fonde e si dissolve
in una nebbia pallida
che non è piú se stessa
ma si contorce tanto.
Cosí ogni notte, e non mi vale scampo,
in un silenzio altissimo,
io brucio solitario la mia anima.
Estate
C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
La parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.
– Anche la notte ti somiglia-
Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri alba.
I mattini passano chiari-
I mattini passano chiari
e deserti. Cosí i tuoi occhi
s’aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d’immobile luce. Taceva.
Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest’ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.
Pover’anima stanca e imbellettata,
noi che indugiamo per le vie affollate
logori della vita non vissuta
e tutti intorno ci urtano,
siamo come le povere puttane
che passeggiano lente
e il loro aspetto è un mascherone atroce.
Stringono tra le labbra
la sigaretta rauca
come un ultimo appiglio disperato.
E all’osteria notturna
s’abbandonano a bere il vino sporco,
rosso come le bocche.
Io contemplo così la nostra fine,
o anima solitaria,
ché, alle lacrime, il mondo non risponde
e, se infuriamo, siamo una pietà.
Triste triste anima,
che ti senti morire come un tisico,
che cosa mai berremo questa notte?
Ascolteremo nella calma stanca
Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.
Paesaggio [VI]
Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume
nella bella città, in mezzo a prati e colline,
e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono
ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori
vi camminano. Vanno nella bianca penombra
sorridenti: per strada può accadere ogni cosa.
Può accadere che l’aria ubriachi.
Il mattino
si sarà spalancato in un largo silenzio
attutendo ogni voce. Persino il pezzente,
che non ha una città né una casa, l’avrà respirato,
come aspira il bicchiere di grappa a digiuno.
Val la pena aver fame o esser stato tradito
dalla bocca piú dolce, pur di uscire a quel cielo
ritrovando al respiro i ricordi piú lievi.
Ogni via, ogni spigolo schietto di casa
nella nebbia, conserva un antico tremore:
chi lo sente non può abbandonarsi. Non può
abbandonare
la sua ebrezza tranquilla, composta di cose
dalla vita pregnante, scoperte a riscontro
d’una casa o d’un albero, d’un pensiero improvviso.
Anche i grossi cavalli, che saranno passati
tra la nebbia nell’alba, parleranno d’allora.
O magari un ragazzo scappato di casa
torna proprio quest’oggi, che sale la nebbia
sopra il fiume, e dimentica tutta la vita,
le miserie, la fame e le fedi tradite,
per fermarsi su un angolo, bevendo il mattino.
Val la pena tornare, magari diverso.
Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane ‒
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu ‒ ferma e chiara.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Maternità
Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
uno pensa che i figli han la stessa statura.
Dalle membra del padre (la donna non conta)
debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
alle membra del padre non manca una briciola
né uno scatto: si sono staccati da lui
camminandogli accanto.
La donna c’è stata,
una donna di solido corpo, che ha sparso
su ogni figlio del sangue e sul terzo c’è morta.
Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
annientandosi in loro. La donna era giovane
e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. È così che la donna
c’è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
che quell’uomo conosce. Nessuno di loro
sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
che a suo tempo era piena e saziava quell’uomo.
Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all’orlo del fiume
e tuffarsi, quell’uomo non ritrova più il guizzo
delle membra di lei dentro l’acqua, e la gioia
dei due corpi sommersi. Non ritrova più i figli
se li guarda per strada e confronta con sé.
Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
s’è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.
Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.
Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Cesare Pavese
[1935]
da “Lavorare stanca”, (1936 – 1943), in “Cesare Pavese, Le poesie”, Einaudi, Torino, 1998
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
L’altro anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendìo così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppa di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi.M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni,e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Maternità
Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
uno pensa che i figli han la stessa statura.
Dalle membra del padre (la donna non conta)
debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
alle membra del padre non manca una briciola
né uno scatto: si sono staccati da lui
camminandogli accanto.
La donna c’è stata,
una donna di solido corpo, che ha sparso
su ogni figlio del sangue e sul terzo c’è morta.
Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
annientandosi in loro. La donna era giovane
e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. È così che la donna
c’è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
che quell’uomo conosce. Nessuno di loro
sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
che a suo tempo era piena e saziava quell’uomo.
Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all’orlo del fiume
e tuffarsi, quell’uomo non ritrova più il guizzo
delle membra di lei dentro l’acqua, e la gioia
dei due corpi sommersi. Non ritrova più i figli
se li guarda per strada e confronta con sé.
Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
s’è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.
Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.
Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Breve biografia di Cesare Pavese
Cesare Pavese nasce il 9 SETTEMBRE 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, e muore suicida il 27 agosto 1950, in una camera d’albergo a Torino.scrittore, poeta, traduttore e critico letterario è considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo. Esordisce con la traduzione di Moby Dick di Herman Melville, nel 1932; due anni più tardi prende avvio la collaborazione, durata tutta una vita, con la casa editrice Einaudi, che stampa, nel 1943, l’edizione aumentata della sua prima raccolta poetica, Lavorare stanca, uscita per Solaria nel ’36. Oltre la sua attività di redattore, traduttore e americanista, pubblica romanzi e racconti: Paesi tuoi (1941), Feria d’agosto (1946), Dialoghi con Leucò (1947), La bella estate (1949) per cui riceverà il premio Strega. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, uscirà nella primavera del ’50. Nell’agosto dello stesso anno si toglierà la vita all’albergo Roma di Torino. Usciti postumi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apice della sua poesia, e il diario che lo ha accompagnato dal 1935 fino alla morte, Il mestiere di vivere.
La sua opera si colloca tra realismo e simbolismo lirico: la realtà delle natìe langhe e della Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi, della ricerca di autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come protagonista più la coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese padre del neorealismo post-bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente come materia di scrittura nell’opera di Pavese.
L’aspetto forse più vistoso del suo appartenere al decadentismo è offerto dalla crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca della noluntas l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di conflitti. Sua unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso negativo, corrodendo ogni certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo. C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e l’agire, per cui il primo elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita assieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare l’esistenza, gravemente handicappato nei rapporti umani, sempre a disagio in ogni situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa situazione di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa mestiere da apprendere con grande pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho imparato a scrivere, non a vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo, persino felici “Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno”, dice Pavese. Per la letteratura del Novecento, il grado di autenticità poetica è determinato dalla misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di angoscia. Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è essere per la morte.
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