I giorni non sono
– mi sembra –
frecce
come diceva un poeta
amato
e perduto
quando tutto faceva credere
che avremmo condiviso
un tavolino di caffè
un po’ di chiacchiere
dichiarative
e amichevoli
i giorni sono
un ammiccare di occhi
stupiti
uno stare
tra due attese
mattino e notte
notte e mattino.
(da Calcolo errato, 2009)
FESTA NAZIONALE A LAGUNA PAIVA
Per Paco Urondo
Per Giulio Gargano
Cosa significa un giorno perso
nell’accumulo di giorni trascorsi e sepolti?
Ti ho fatto notare che l’amore è una questione di pulsazioni
del diverso ritmo del polso in ciascuna mano:
donne che sono femmine, uomini che sono maschi
e un alone di gin sulle dolci aiuole.
Ridiamo della nostra reciproca insonnia
guardandoci dolcemente
come se ognuno fosse oggetto di tutti gli incidenti:
finalmente rimaniamo al nulla iniziale
di una lingua legata, impedita e goffa.
Sarai così eroico da sopportare le recite
e le lunghe conferenze coscienziose?
La tua città è un concentrato di ardori,
un tripudio di discorsi, è un respiro
di due che hanno freddo e giocano con i loro sessi.
(da L’anno prossimo e altre poesie, 1959)
.
.
LE TAZZE
Come nel tango
la vera tristezza
la tristezza senza ritorno
possiede l’immobile
dipinge le pareti
risuona nei rubinetti mal chiusi
puzza sugli asciugamani e nelle scarpe
dissesta le finestre
nega alle porte il silenzio e la scorrevolezza
respinge i postini ritardatari
piega la punta dei tappeti
e quanto alle tazze, oh le tazze
nella solitudine desertica della notte si frantumano
la tristezza le scheggia
fa grezzo il loro bordo
reprime il caffè
e di conseguenza non c’è niente da fare
è anche inutile
ricordare
senza nemmeno il ricordo di un amore ben fatto
o il ricordo di un insondabile tradimento:
il caffè diventa amaro e duro
a quale serietà puoi aspirare così
senza stoviglie
senza ricordi
proprio come i bambini che non hanno un insegnante
non hanno nemmeno un padrone
nessun amore.
(da Mangiare e mangiare, 1974)
.
.
ESSERE O NON ESSERE
Il treno che adesso mi sveglia
sdraiato
sui sassi
accanto al mare di grano rosso
e i treni della mia infanzia
sono diversi per il fumo
non mi restituiscono
il tempo che è passato
il sapore del carbone
nella pampa
un altro mare
non mi restituiscono
mio padre e le sue fatiche
promesse eroiche
in cui solo io credevo
il treno ora non mi offre
più nulla
solo un’altra città
piena di pioggia
incessante
incandescente
ansiosa.
(da Viaggi. Oggetti ricostruiti, 1979)
Noé Jitrik (Rivera, 23 gennaio 1928- Pereira, 6 ottobre 2022), poeta, critico letterario e scrittore argentino. Docente universitario, si trasferì nel 1966 in Francia e nel 1974 in Messico, dove rimase esule ai tempi della dittatura argentina. Tornato in patria, diresse la rivista di semiotica sYc.
una poesia di Ingeborg Bachmann, Poetessa austriaca
Invocazione all’Orsa Maggiore
Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata
fiera dal manto di nubi, dagli antichi occhi,
stelle occhi,
nella macchia affondano, scintillanti,
le tue zampe con gli artigli,
stelle artigli,
vigili noi pascoliamo gli armenti,
pur da te ammaliati, e diffidiamo
dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi
denti dischiusi,
vecchia orsa.
Un cono di pigna: il vostro mondo.
Voi: le sue squame.
Dagli abeti dell’inizio
agli abeti della fine
la rivolto, la sbalzo,
l’annuso, ne saggio il sapore
e l’abbranco.
Temete e non temete!
Gettate l’obolo nella borsa,
all’uomo cieco una buona parola,
perché tenga l’orsa al guinzaglio.
E condite gli agnelli di spezie.
Potrebbe quest’orsa
liberarsi, non più minacciando,
incalzando ogni pigna, dagli abeti
caduta, maestosi abeti alati,
precipitati dal paradiso.
Da: Invocazione all’Orsa Maggiore, trad. di Luigi Reitani. SE, Milano 1994
Breve biografia di Ingeborg Bachmann-Poetessa austriaca (Klagenfurt 1926 – Roma 1973). Ottenne il primo riconoscimento col premio conferitole dal “Gruppo 47” per le poesie riunite in Die gestundete Zeit (1953), nelle quali i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrarono con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico. Nella successiva raccolta, Anrufung des grossen Bären (1956), i nodi espressivi tendono a sciogliersi in un dettato più lucido (vi compare spesso, al posto del metro libero, la strofa rimata), pur senza perdere di profondità. Di singolare interesse (a parte alcuni testi minori, fra i quali ricorderemo i radiodrammi Die Zikaden, 1955 e Der gute Gott von Manhattan, 1958, in forma di ballata) sono altresì i volumi di racconti Das dreissigste Jahr (1961) e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971): pagine narrative caratterizzate da una intensa vibrazione poetica, anche se quasi sempre lontane dai moduli della “prosa lirica
L’altra verità. Diario di una diversa-di ALDA MERINI
Un alternarsi di orrore e solitudine, di incapacità di comprendere e di essere compresi, in una narrazione che nonostante tutto è un inno alla vita e alla forza del “sentire”. Alda Merini ripercorre il suo ricovero decennale in manicomio: il racconto della vita nella clinica psichiatrica, tra elettroshock e autentiche torture, libera lo sguardo della poetessa su questo inferno, come un’onda che alterna la lucidità all’incanto. Un diario senza traccia di sentimentalismo o di facili condanne, in cui emerge lo “sperdimento”, ma anche la sicurezza di sé e delle proprie emozioni in una sorta di innocenza primaria che tutto osserva e trasforma, senza mai disconoscere la malattia, o la fatica del non sentire i ritmi e i bisogni altrui, in una riflessione che si fa poesia, negli interrogativi e nei dubbi che divengono rime a lacerare il torpore, l’abitudine, l’indifferenza e la paura del mondo che c’è “fuori”.
1 C. Rebora, Le poesie, Garzanti, Milano 1994, p. 251.
2 Ibidem, p. 278.
3 Ibidem, p. 307.
4 Ibidem, p. 320.
RENDIMENTO DI GRAZIE
Io benedico il giorno che fui nato;
io benedico il prete e il sacro Fonte,
il giorno e l’ora che fui battezzato.
Io benedico quel casto mattino
quando, gravato già di nove lustri,
mi cibai di Gesù come bambino.
Io benedico il dì che nel mio Duomo
lo Spirito discese a fare tempio
della Sua gloria anche me, pover’uomo.
Benedico quell’invito giocondo
a lasciar tutto per amor di Cristo,
scegliendo l’Ognibene sopra il mondo.
Benedico l’Amore Crocifisso
quando mi elesse a ministrare il Sangue
che al Ciel ci salva dal mortale abisso.
Bene sia sempre a chi quaggiù la voce
del Signor a seguir mi fu d’aiuto,
l’universal carità della Croce.
Per tante grazie e patimenti tanti
l’Amante Trinità sia benedetta:
con Maria, e Giuseppe, e tutti i Santi.5
Sitivit anima mea ad Deum
fortem vivum (Ps. 41, 3)
Inaridita la terra,
protende la bocca:
implacabile il cielo di sopra.
Signore, scenda la pioggia,
che aiuti nei beni del tempo
ad ambir con fiducia gli eterni. –
Ecco cade, nel silenzio, una goccia:
qua, là, crepita l’acqua:
ora scroscia sonora,
su alberi in fiore, patiti,
e zolle in malati germogli:
5 Ibidem, p. 321.
ovunque giunge, s’intende: si estende
la fecondazione gioiosa.
In poco volgere d’ora
l’arido aspetto d’ogni cosa,
il grigio no della morte si sperde
nel sovrano sì della vita
fra trilli d’uccelli e fremiti e fruscii:
fresca appare la quiete del verde:
al Creatore amante tutto s’intona.
O Gesù, aver sete,
anelarti così!
O anima, alla grazia
del Suo amor che si dona,
così, anima, indiata, ringrazia.
(Aprile 1953) 6
Nello Spirito andiam del Precursore
Che prepara le vie del Signore,
E dice: non guardate chi sono io,
Ma guardate a Chi viene, al nostro Dio.
(24 giugno 1930) 7
J.M.J.
– Et iterum venturus est cum gloria…
La Fede, in Agostino, prende piede:
La Speranza, in Tommaso, prende corpo:
La Carità, in Rosmini, prende fuoco:
La Chiesa in essi ascende: e a poco a poco
La Verità – che è Cristo – aggiunge al Corpo
Mistico il cuore di ciascun che crede,
Vincendo il mondo col fraterno affetto,
Nel Sangue di Gesù. Poi sarà detto:
Sia or tutto in tutti Dio benedetto…
(Nel Mese di Maria [maggio], 1947)8
6 Ibidem, p. 418.
7 Ibidem, p. 440.
8 Ibidem, p. 456.
Di Gianluca Giorgio
Tra i poeti del Novecento letterario spicca la figura di Clemente Rebora. Il letterato dopo la conversione, avvenuta nel 1929, scelse di diventare sacerdote e membro dell’Istituto della Carità.
Il suo canzoniere, comprendente più raccolte poetiche, tratta della condizione umana con vibrante partecipazione e calore.
Vissuto sul finire del Mille ed Ottocento ed i primi del Novecento, fu tra i giovani che parteciparono alla Grande Guerra.
Quest’esperienza segnò la vita ed il percorso umano dell’autore nel suo cammino verso Dio. Contrario alla politica interventista, fu chiamato a offrire il proprio contributo, richiamato dalla leva militare.
Il suo ruolo lo spinse ad immolarsi per i suoi soldati ed a viverne le ansie e le tristezze della condizione di vita in trincea. Di questo periodo è la lirica Viatico nella quale fotografa, con immediatezza e penetrazione, il senso di quel dramma, caratterizzato dalla condizione di guerra.
Questa è contenuta fra le poesie sparse e le prose liriche, che raccolgono i contributi del poeta dal 1913 al 1927.
Già il titolo è emblematico indicando il conforto e le cose necessarie all’esistere che, con il dramma della Guerra, sembrano perdersi.
Il ritorno alla vita ed alla speranza nel domani, rappresentano quasi il senso sacro di un sacramento che fa da sfondo ai versi, per il futuro dell’umanità.
La lontananza dalla famiglia, la vita di trincea ed il pericolo che da un momento ad un altro si potesse perdere l’esistere, segnarono quell’esperienza nella vita di molti, come uno dei momenti più bui del secolo scorso.
La poesia, scritta dal poeta, ancora non sacerdote, richiamato alle armi, rievoca l’esperienza del campo di battaglia ed al tempo stesso del dolore che in esso si vive. La bellezza dell’esistere diventa sacra, se spesa per i fratelli e per quell’ideale che prese il cuore di Rebora, tanto ad immedesimarsi nel Cristo sofferente,vivendo il dolore della vita di tanti fratelli, dopo la maturata conversione religiosa.
Ecco la lirica:
O ferito laggiù nel valloncello tanto invocasti se tre compagni interi cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue tronco senza gambe e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti a rantolarci e non ha fine l’ora, affretta l’agonia, tu puoi finire,
e conforto ti sia nella demenza che non sa impazzire, mentre sosta il momento il sonno sul cervello, lasciaci in silenzio
Leggendo l’itinerario poetico di Clemente Rebora (Milano1885-Stresa 1957) si resta ammirati dalla forza di volontà nel seguire Dio.
Nel corso dell’esistenza, il poeta ha sempre cercato nell’Assoluto la risposta ai molti interrogativi sulla propria vita. Vita nascosta ed alle volte incrinata sui binari della sofferenza e del dolore.
Da reduce della Prima Guerra mondiale, alla precarietà del lavoro di professore financo alla sofferenza fisica, il suo cammino non gli ha risparmiato nulla.
Ma accanto a tutto questo brilla chiaro, nel suo animo, il desidero profondo della rinascita e della consacrazione a Qualcuno di più grande ,che può esser solo Dio.
Religioso presso l’Istituto della Carità, nel quale spenderà il proprio quotidiano e sacerdote dal 1936, ha interpretato le parole del vangelo, come segno di speranza, per il mondo, sconvolto da due Guerre mondiali e tanta tristezza.
Advertisement
Animo delicato e profondamente sensibile alle sofferenze altrui, il Padre celeste e gli ultimi furono il suo mondo, per il quale spese i propri giorni.
In occasione della solennità del Santo Natale, che celebra la nascita del Cristo nel grembo della Vergine Maria, il poeta compose una breve lirica, dedicata a tale evento così importante per la fede.
I versi sono del 1 dicembre 1955 ed appartengono alla raccolta dei Canti dell’infermità, composti tra l’ottobre 1955 ed il dicembre del 1956.
La poesia si intitola “Avvicinandosi il Natale”.
Si noti, nella lettura, il senso del divenire e la potenza di quel fuoco che disgela le coscienze, addormentate, dal trambusto del mondo, che nell’animo del sacerdote lascia il posto alla venuta del Santo di Betlemme, tanto amato e desiderato.
Oh Comunion vera e sol beata,
se con te, Cristo, sono crocifisso
quando nell’Ostia Santa m’inabisso!
Intollerabil vivere del mondo
a bene stare senza l’Ognibene!
Penitenza scansar, che penitenza!
Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno,
con la tua Passion che vince il male,
Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo,
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
O Croce o Croce o Croce tutta intera,
nel tuo abbraccio a trionfar di Circe,
solo sei buona e bella, e come vera!
Abbraccio della Madre, ove già vince
nel suo Figlio lo strazio che l’avvince.
Di Gianluca Giorgio
Padre Clemente Maria Rebora spirò al mondo il 1 novembre 1957. La sua esistenza di poeta trascorse, feconda ed attraversata da moltissime istanze, che lo portarono dall’ideale laico della bontà a quello divino della santità.
Proveniente da una buona famiglia di tradizioni mazziniane, fin da giovane, sente il richiamo della partecipazione e del farsi fratello fra i fratelli, frutto di un solidarismo laico.
Nel 1910 si laurea in Lettere, discutendo una tesi avente ad oggetto: “Gian Domenico Romagnosi ed il pensiero del Risorgimento”. Relatore è il professor Gioacchino Volpe.
Fu autore di diverse raccolte, tra cui i Frammenti lirici (1913) per le edizioni de la Voce di Giuseppe Prezzolini, i Canti anonimi (1922) ed infine i Canti dell’infermità (1956).
La poesia è stata sempre la sua realtà, nelle pieghe dell’esistere I suo versi sentono il richiamo alla poetica del Leopardi.
Parte degli studiosi sono concordi nel ritenere che i Frammenti lirici abbiano influenzato, anche, autori come Eugenio Montale, per i suoi Ossi di seppia (1925).
Fu professore di italianistica, in diversi Istituti ed amò il mondo dell’insegnamento, con la volontà di donarsi, ai ragazzi, per portarli al desiderio di un mondo migliore.
Ufficiale, durante la Prima guerra mondiale, una non nota “mania dell’eterno”, gli fu diagnosticata, come pensiero dominante, da un medico di Reggio Emilia, dopo aver riportato una ferita da obice, alla tempia, durante il conflitto.
In quei mesi di trincea, il poeta è ricordato per esser stato vicino ai soldati e dedito all’ascolto di ogni sofferenza.
Del periodo successivo è la traduzione di diverse opere della letteratura russa, tutt’ora, ripubblicate. Convertito al Cristo, dal 1929, ascese i sentieri della religione, per varcare quelli della gioia dell’incontro con il Padre.
La sensibilità maturata, tramite un percorso fra la ricerca personale e la cultura furono la base per scendere nel cuore dell’uomo e portarvi la felicità dell’incontro con quella fede, che trasfigura ogni cosa.
Chi conobbe padre Clemente Maria Rebora lo ricorda, dopo la sua entrata nell’Istituto della Carità, come un uomo nuovo, completamente, rinnovato dalla parola del vangelo.
Seguendo il beato Antonio Rosmini, nella nuova famiglia religiosa, scelse di vivere la Carità come anelito e la Provvidenza, come mezzo del suo essere.
“Dalla perfetta Regola ordinato-scrive nel Curriculum vitae– l’ossa slogate trovaron lor posto: scoprì l’intelligenza il primo dono: come luce per l’occhio operò il Verbo, quasi aria al respiro il Suo perdono”.
Fu un religioso devoto e pio: solo la bontà, sempre pronta alle esigenze di coloro che incontrava sul suo cammino.
Il sorriso e l’accoglienza erano il modo di porsi nell’incontro con l’altro.
Fu un autentico padre, donando quanto possedeva, ai tanti, che ne chiedevano l’intercessione o la carità. Si privava di tutto pur di assecondare le molte richieste.
Visse, con altissima partecipazione, la fede, leggendo nei segni del quotidiano, la mano di Dio che guida il cammino, alle volte, difficile dell’esistere.
Condivise un sacerdozio, esemplare e generosissimo, reso vivo dall’esser parte della Passione del Cristo e della Madonna addolorata, venerata nella spiritualità rosminina.
Seguì i giovani, amministrò i Sacramenti, predicò ritiri ed insegnò nelle scuole dell’Istituto della Carità, pur di far regnare il vangelo nella società.
Poche parole, dense di molta interiorità, filtrano dai suoi consigli spirituali, ai fedeli. La conversione gli fece abbandonare il mondo culturale, la musica e la poesia, seppur ripresa poco tempo prima di morire, con diverse liriche religiose, pur di trovare la verità della croce.
Fu un vero apostolo e con la parole e l’esempio, riportò molti cuori alla fede ed alla bontà.
Visse di Dio e per Dio lasciando la terra per il cielo, nella contemplazione dell’Assoluto, cercato ed amato nel corso dei propri giorni.
Dal XIII secolo avanti Cristo al Novecento scelte dalla raccolta de «La flûte jade»
A cura di Francesco Saladini-Editore Librati
DESCRIZIONE
“Un erudito cinese forse mai esistito giunge in Europa ai primi del Novecento e traduce in francese centosettantuno poesie della sua terra, un orientalista parigino le pubblica in un piccolo volume dal grande successo dopo averne, forse, inventato alcune, un aero-pittore futurista apprezzato da Carrà le versa in italiano a metà del secolo senza divulgare la sua traduzione e le lascia, partendo per il Brasile, a un generale dell’Esercito suo amico: forse c’è un giallo, comunque le poesie scelte da quella traduzione sono splendide”.
Nell’orrida cripta putridi resti:
nel silenzio perenne e spietato,
dove la morte è un balsamo,
si è risvegliato il colera.
Astioso si aggira con rabbia,
cerca la lieta valle luminosa,
urla come un pazzo convulso
senza riguardo per chi piange.
Ovunque il segno dei suoi artigli:
nella capanna o la casa contadina
soltanto si odono grida di morte,
di morte di morte di morte.
Ecco che la morte infierisce
per mezzo del colera spietato
e nel silenzio amaro si ode
solo un sottofondo di preghiera.
Anche il becchino si arresta
senza più nemmeno un aiuto;
è morto anche il muezzìn:
chi pregherà per i morti?
Inesausto resta un sospiro
e il pianto infante dell’orfano,
ma domani anche lui – è sicuro –
ghermirà il morbo ferino.
O spettro perenne del colera,
triste desolazione di morte,
di morte di morte di morte.
IL CONVITATO ASSENTE
Già trascorsa la sera
volge la luna al tramonto
ed eccoci a contare
le ore di un’altra notte,guardando la luna
scivolare nell’abisso
e con lei l’allegria
senza che tu sia venuto
perso con le mie speranze,
fissando la tua sedia vuota
in compagnia della tristezza
dopo aver chiesto invocato
in silenzio la tua venuta.
Mai avrei immaginato
dopo tutti questi anni
la tua ombra ancora
in grado di sovrastare
ogni pensiero ogni parola,
ogni passo ogni sguardo,
né potevo sapere che tu
saresti stato più forte
di ogni altra presenza
e che l’unico assente
fra tutti i convitati
eclissasse ogni altro
in un mare di nostalgia.
Certo se tu fossi venutoci saremmo intrattenuti
a conversare con gli amici
finché fossero partiti
e allora anche tu forse
saresti parso come gli altri,ma la sera è già passata
e il mio sguardo gridando
interrogava ogni sedia vuota
cercando fra gli astanti
sino alla fine della sera
l’unico che non è venuto.
Che tu arrivi un giorno
ormai non lo desidero:dai miei ricordi all’istante
svanirebbero il profumo
e i colori di quest’assenza,rotta l’ala alla fantasia
languirebbero le mie canzoni.
Stringendo le dita
intorno ai frantumi
dell’ingenua mia speranza
ho scoperto di amarti
nelle sembianze del sogno,e se anche tu fossi qui
adesso in carne ed ossa
io seguiterei a sognare
quell’invitato assente.
Traduzione di Pino Blasone
IO
la notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono
E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito
Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un un domani gelido
Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tramonta
dissolto, dispare
INVITO ALLA VITA
Arrabbiati, ti amo arrabbiato e ribelle,
rivoluzione cocente, esplosione.
Ho odiato il fuoco che dorme in te, sii di brace
diventa una vena appassionata, che grida e s’infuria.
Arrabbiati, il tuo spirito non vuole morire
non essere silenzio innanzi al quale scateno la mia tempesta.
La cenere degli altri mi è sufficiente,
tu, invece, sii di brace.
Diventa fuoco ispiratore delle mie poesie.
Arrabbiati, abbandona la dolcezza, non amo ciò che è dolce
il fuoco è il mio patto, non l’inerzia o la tregua con il tempo
non riesco più ad accettare la serietà
e i suoi toni gravi e tranquilli.
Ribellati al silenzio umiliante
non amo la dolcezza ti amo pulsante e vivo
come un bambino come una tempesta,
come il destino assetato di gloria suprema, nessun profumo
può alterare le tue visioni, nessuna rosa…
La pazienza? È la virtù dei morti.
Nel gelo dei cimiteri, sotto l’egida dei versi
si sono addormentati e abbiamo dato calore alla vita
un calore esaltato, passione degli occhi e delle gote.
Non ti amo oratore, ma poeta
il cui inno esprime ansia
tu canti, sebbene alterato,
anche se la tua gola sanguina
e se la tua vena brucia.
Ti amo boato dell’uragano nel vasto orizzonte
bocca tentata dalla fiamma,
disprezzando la grandine
dove giacciono desiderio e nostalgia.
Odio le persone immobili
aggrotta le sopracciglia,
mi annoi quando ridi
le colline sono fredde o calde,
la primavera non è eterna
il genio, mio caro amico, è cupo
e i ridenti sono escrescenze della vita
amo in te la sete eruttiva del vulcano
l’aspirazione della notte profonda
a incontrare il giorno
il desiderio della sorgente generosa
di stringere le otri
ti voglio fiume di fuoco,
la cui onda non conosce fondo.
Arrabbiati contro la morte maledetta
non sopporto più i morti.
ORAZIONE FUNEBRE PER UNA DONNA INSIGNIFICANTE
Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbrale porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte nessuna tenda alle finestre stillante doloresi è levata per seguire il suo feretro sino a che non scompaia dalla vistaa eccezione delle poche persone che si sono commosse al suo ricordo.La notizia si è dissolta nei vicoli senza che il suo eco si diffondessee si è rifugiata nell’oblio di alcune fossela luna ha pianto questa tragedia.
La notte non se n’è curata e si è trasformata in giornoQuindi è giunta la luce con le grida del lattaio, il digiuno,il miagolio di un gatto affamato tutto pelle ed ossa,le liti dei commercianti, l’amarezza, la lotta,i bambini che lanciano pietre da un lato all’altro della strada,le acque sporche nei canali e i venti che giocano da soli con le porte delle terrazzein un oblio pressoché totale.
Traduzioni di Valentina Colombo
UN INVITO A SOGNARE
Suvvia … sogniamo, che la dolce notte si avvicina
e il buio tenero, le guance delle stelle ci chiamano
vieni … andiamo a cercare sogni, a contare fili di luce
e rendiamo il declivio della sabbia testimone del nostro amore
Cammineremo insieme sul petto della nostra isola insonne
e lasceremo sulla sabbia le orme dei nostri passi randagi
e verrà il mattino a gettare le fresche rugiade
e magari spunterà, dove abbiamo sognato, un fiore
Sogneremo di salire verso le montagne della luna
a dilettarci lì dove non c’è fine e non c’è nessuno
lontani … lontani, dove il ricordo
non potrà raggiungerci, poiché saremo al di là della ragione
Sogneremo di tornare fanciulli, noi due , sopra le colline
correremo, innocenti, sulle rocce e pascoleremo i cammelli
vagabondi senza dimora se non la capanna dell’immaginazione
e quando dormiremo ci inzacchereremo di sabbia
Sogneremo di camminare verso l’ieri e non nel domani
e di arrivare a Babilonia in un’alba fresca
porteremo al tempio, come due innamorati, il patto d’amore
e ci benedirà un sacerdote babilonese con mano pura
COMPIANTO DI UN GIORNO VACUO
Nel lontano orizzonte si intravide il buio
finì il giorno estraneo
e i suoi echi si voltarono verso le caverne dei ricordi
e come era la mia vita così sarà anche domani
un labbro assetato e un bicchiere
la cui profondità rispecchia il colore di un odore
e semmai lo sfiorassero le mie labbra
non troverebbero i resti del sapore dei ricordi
non troverebbero nemmeno i resti
finì il giorno estraneo
finì e perfino i peccati singhiozzarono
e piansero anche le sciocchezze che io chiamai
ricordi
finì e non rimase nella mia mano
se non il ricordo d’una melodia che gridava nell’interiorità del mio essere
compiangendo la mia mano da cui svuotai
la mia vita, i miei ricordi lontani, e un giorno della mia giovinezza
tutto si perse nella valle dei miraggi
nella nebbia
era un giorno della mia vita
lo gettai perso senza agitazione
sui resti della mia giovinezza
presso il colle dei ricordi
sopra le migliaia di ore perse nella nebbia
nei labirinti di notti lontane
fu un giorno vacuo. Fu strano
che le ore pigre suonassero e calcolassero i miei momenti
non era un giorno della mia vita
era piuttosto un’indagine orrenda
del resto dei maledetti ricordi che strappai
insieme al bicchiere che ruppi
presso la tomba della mia speranza morta, dietro gli anni
dietro il mio essere
fu un giorno vacuo .. fino all’arrivo della sera
le ore passarono in uno stato di semipianto
tutte quante fino a sera
quando la sua voce svegliò il mio udito
la sua dolce voce che persi
quando la tenebra cinse l’orribile orizzonte
e si cancellarono i resti del mio dolore, e anche i miei peccati
e si cancellò la voce di Habibi la mano del tramonto portò via i suoi echi
in un posto nascosto agli occhi del cuore
sparì e non rimase nulla se non il ricordo e il mio amore
e l’eco di un giorno estraneo
come il mio pallore
e fu vano supplicarlo di ridarmi indietro la voce di Habibi
Traduzione di Gassid Mohammed
CINQUE CANTI AL DOLORE
1
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia
Sulla nostra via l’abbiam trovato
Un mattino d’abbondante pioggia
Gli abbiam dato dell’amore
Un cenno di pietà e un angolo remoto
Pulsante ormai nel nostro cuore
**
Non ci ha più lasciati nè si è allontanato
Una volta mai dal nostro cammino
Ci segue lungo tutta l’esistenza
Ah non gli avessimo dato da bere nemmeno una goccia
Quel triste mattino
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia.
2
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Ieri lo abbiam trascinato nelle acque in profondità
Frantumato e disperso nei flutti del lago
Di lui non abbiam serbato alcuna traccia
Convinti d’esser tornati salvi dalla sua malvagità
Mai più tristezza scagliata sui nostri sorrisi
Mai pù singulti celati forti dietro i nostri canti
**
Abbiam rievuto poi rosa rossa aulente
Ce l’hanno inviata d’oltre mare i nostri amati
Che ci aspettavamo? Gioia e lieto appagamento?
Pur si è disvelata e ha fatto scorrer lacrime assetate d’ardore
Bagnando le nostre dita tristemente intonate
Noi ti amiamo oh dolore
**
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?
Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Poiché siam per lui sete e bocca riarsa
Che lo mantiene in vita e ci disseta.
3
Non possiamo vincere il dolore?
Rimandarlo al giorno dopo? O un mattino
Tenerlo occupato? Distrarlo con un gioco? Un canto?
Una antica filastrocca andata?
**
Chi sarà mai questo dolore
Un tenero fanciullo dagli occhi curiosi
Acquietato da un tocco affettuoso
E messo a dormire col sorriso e una cantilena
**
Oh chi ci ha offerto le lacrime e il rimpianto?
Chi se non lui non ha avuto cuore alla nostra tristezza
Per poi venir da noi in lacrime a chiederci di amarlo
Chi se non lui ci ha elargito tormenti col sorriso?
**
Questo piccino…ha assolto chi ha peccato
Nemico amato amico odiato
Colpo di pugnale cui ci chiede offrir la guancia
Senza un rimorso senza alcun dolore
**Fanciullo, abbiam perdonato quella mano e quella bocca
Che negli occhi solchi di lacrime ci scava
E le ferite riapre volta a volta
Sì, da tempo perdonato e l’offesa e la rovina
4
Come dimenticheremo il dolore?
Come lo dimenticheremo?
Chi illuminerà per noi La notte della sua memoria?
Lo berremo lo mangeremo
Seguiremo il vagare dei suoi passi
E se dormiremo, la sua ombra
Sarà l’ultima che vedremo
**
I suoi contorni la prima cosa
Che riconosceremo al mattino
Con noi lo porteremo ovunque
ci porteranno la speranza e le ferite
**
Gli permetteremo di erigere pareti
Fra i nostri aneliti e la luna
Fra la nostra passione e il fresco ruscello
Fra i nostri occhi e i nostro sguardo
**
Gli permetteremo di versare l’afflizione
E negli occhi la tristezza
Lo accoglieremo in una gola inebriata
Fra le pieghe dei nostri canti
**
Alla fine i fiumi se lo porteranno
Gli darà un guanciale il cactus
Scenderà nella valle l’oblio
Oh tristezza buona sera!
**
Dimenticheremo il dolore
Lo dimenticheremo
Poiché con fervore
Lo avremo dissetato
5
Ti abbiamo incoronato divinità nel sonno dell’alba
E sul tuo altare argenteo ci siamo imbrattati la fronte
Oh nostro amore, o dolore
E abbiam bruciato l’incenso con lino e sesamo
Offerto sacrifici, intonato versi
A melodie babilonesi
**
Per te abbiam costruito un tempio
dai muri profumati
E irrorato la terra
con olio e vino schietto
E lacrime brucianti
Per te abbiamo acceso fuochi
con foglie di palma
Stoppie di grano e la nostra angoscia,
lunga la notte
E il labbro silente
**
Abbiamo salmodiato e chiamato e fatto voti
Con datteri di un ‘ebbra Babilonia e pane e vini
E rose liete
Innanzi ai tuoi occhi abbiam pregato,
abbiamo offerto sacrifici
Infilato amare lacrime
In un rosario
**
Oh tu che ci hai concesso
e musica e canti
Oh lacrime che saggezza
ci avete elargito,
oh fonte dei pensieri
Abbondanza e fertilità
Crudele tenerezza, castigo colmo di pietà
Ti abbiam nascosto nei nostri sogni,
in ogni nota
Dei nostri canti desolati
CANTO D’AMORE PER LE PAROLE
Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?
Perché abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e vita?
Allora perché abbiamo paura delle parole?
Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere
le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto
invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,e caldi calici.
Perchè abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere
hanno estratto il tepore
della speranza da due labbra,e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada
tra la felicità momentanea di due occhi inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote,
suoni che, assopiti nella loro eco, colorano, una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.
Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.Su, versaci due calici di parole!
Domani ci costruiremo un nido di sogni di parole
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Costruiremo un terrazzo con la timida rosa
con colonne fatte di parole,
e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.
Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
Chi pregheremo… se non le parole
È considerata una delle prime poetesse che introdussero l’uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.
Nazik al-Mala’ika nacque a Baghdad nel 1922 da genitori entrambi poeti, prima di sette figli. Il padre, insegnante, fu anche editore di un’enciclopedia in 20 volumi; la madre aveva scritto poesie contro la dominazione britannica. Sin da piccola mise in mostra la sua propensione all’arte poetica componendo la sua prima poesia in arabo classico all’età di soli 10 anni.
Frequentò il College universitario di Baghdad, laureandosi in letteratura nel 1944, avendo studiato anche musica. Mentre era ancora al college, pubblicò alcune poesie su giornali e riviste. La sua prima raccolta di poesie, Āshiqat al-laylā (L’amante della notte), è pubblicata nel 1947.
Grazie alla sua buona conoscenza della lingua inglese vinse una borsa di studio presso l’università di Princeton nel New Jersey. Nel 1954 proseguì i suoi studi nel Wisconsin dove conseguì il master in Letterature Comparate, ottenendo poco dopo una cattedra universitaria di letteratura.
Nel 1961 sposò ‘Abd al-Hadi Mahbuba, suo collega nella sezione di lingua araba presso il College di Baghdad. Con il marito contribuì a fondare l’Università di Basra, nel sud dell’Iraq. Molte delle sue opere sono state pubblicate a Beirut, in Libano, dove si trasferì alla fine del 1950.
Nel 1970 lasciò il suo paese in compagnia del marito e visse in Kuwait fino a che nel 1990Saddam Hussein invase il paese. Dopo il 1990 si trasferì al Cairo, dove trascorse il resto della sua vita.
Morì nel 2007, all’età di 85 anni a causa di una serie di problemi di salute tra i quali la malattia di Parkinson.
Poetica
Sebbene altri poeti prima di lei avessero già tentato il verso libero, è con Nazik al-Mala’ika che il metro della poesia araba viene rivoluzionato secondo un programma ben preciso. Nel 1962 è lei stessa che scrive:
“Il movimento della poesia libera ha avuto origine nel 1947, in Iraq. E dall’Iraq, anzi dal cuore di Baghdad, questo movimento ha strisciato estendendosi fino a sommergere l’intero mondo arabo e poi, a causa dell’estremizzazione di quanti vi hanno aderito, ha rischiato di trascinare via con sé tutte le altre forme della nostra poesia araba. E la prima poesia in versi liberi ad essere pubblicata, è stata la mia poesia intitolata Il colera “. Il colera è una poesia ispirata ad un fatto di cronaca: un’epidemia di colera che attraversò l’Egitto e l’Iraq nel 1947. Un intento coraggioso quindi, tenuto anche conto del suo sesso.
Nel 1949 al-Mala’ika pubblica Schegge e cenere, preceduta da una lunga prefazione sulla teoria della metrica della nuova poesia. L’accettazione nel mondo accademico non fu semplice, ma la poetessa non si lasciò intimidire. La poesia di al-Mala’ika non è comunque priva di metro, anzi fa preciso riferimento a sedici metri della tradizione classica araba, è quindi più corretto parlare di verso libero e non di verso sciolto.
L’attenzione della poetessa al metro è strettamente coniugata al suo amore per la scrittura, per la parola in sé come elemento magico: Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole, | in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere. | Nutriremo i suoi germogli con la poesia | e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Altra tematica importante è quella della condizione femminile nel mondo arabo. La poetessa scrisse anche alcuni saggi, come Donne fra due estremi: passività e scelta etica, del 1954. In una delle sue più note poesie, Orazione funebre per una donna insignificante, così si esprime: La notizia si è dissolta nei vicoli | senza che il suo eco si diffondesse | e si è rifugiata nell’oblio di alcune fosse | la luna ha pianto questa tragedia.
Bibliografia
The Poetry of Arab Women: A Contemporary Anthology, edited by Nathalie Handal, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, by Khalid Al-Maaly, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, vol. 3, ed. 3, ed. by Steven R. Serafin, 1999.
‘Nazik al-Mala’ika’s poetry and its critical reception in the West, by Salih J. Altoma, in Arab Studies Quarterly, 1997.
Reflections and Deflections, by S. Ayyad and N. Witherspoon, 1986.
Women of the Fertile Crescent: Modern Poetry By Arab Women, ed. Steven R. Serafin, 1999.
Opere
Opere tradotte in italiano
Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee, a cura di Valentina Colombo, Mondadori 2007.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Arredava la mota stradale
l’asporto sirenato di pacciame.
Lindore titillato alla lontana
per contrasto, dai reflui di discarica.
Il tanfo e la grandeur, motivo per parlarne.
Scattavano foto alle brande cartonate per guardarli comunque hanno tutti il cellulare[i].
Soltanto i cani da festare, erano i più puliti.
*
Nell’angolo decubita annodato
un assorbente in nembi ematici.
Riversa tra i cartoni dei corrieri
e i take away, la nuca pallida[ii]
cullata dal vibrame del cassone.
Il gigante ha progredito
da quando dalla stanza
pachidermava inerte.
Tra i passi svelti dei passanti
sgusciano dei ratti.
*
Tra i cormorani squamati, stagnante
difformità marina, il petrolio era
il solco nero arso delle stagnole
sul PVC lercio nel box degli autoscatti.
Fumo e sudore feticci di tenda
sputi di gomma a piombare la lente.
Le giuste distanze, norme di legge.
[i] È un meccanismo di difesa e rappresentazione comune il riportare le dinamiche sociali alla propria esperienza, con il notevole risultato di avere da un lato semplificato la dinamica e dall’altro aver complessificato la propria visione.
[ii] “Empoli, 28 marzo 2022 – Scoperta choc, questa mattina 28 marzo, in una azienda cartiera di Empoli. All’interno di un container è stato trovato il cadavere di un giovane straniero. Lo ha scoperto verso le 10.30 un addetto con mansioni di smistamento della carta della raccolta differenziata attraverso una gru. Il cadavere è di un ventenne somalo.” (La Nazione, online).
Biografia di Adriano Cataldo, cilentano, è nato nel 1985 in un paese che non esiste più: la Germania Ovest. Dal 2008 è attivo nella Grande Distribuzione di parole, attraverso pubblicazioni di testi su blog, riviste e collettanee di poesia contemporanea, tra cui Soglie di Transito (Digressioni 2019). Ha inoltre pubblicato due raccolte di poesie (Liste Bloccate, 2018; Famiglia nucleare, 2021) e due plaquette autoprodotte (Amore, morte e altre cose compostabili, 2019; Come poter dire alla fine, 2020). È coautore, assieme a Mauro Milanaccio, di Divani (2022) ed è presente come autore in La Trento che vorrei (2019) e Le parole e il consenso (2021). Ha creato il movimento Breveintonso, di cui ha curato una pubblicazione autoprodotta Poesie il cui titolo è più lungo della poesia stessa (2017). Si occupa di progetti di poesia e musica, tra cui Electro Montale e Subalterna. Dal 2015 organizza reading ed eventi di poesia in Trentino e Campania, come presidente dell’associazione Trento Poetry Slam e membro del CdA dell’Università popolare del Cilento. È tra gli ideatori di Poè Trento, il Festival delle Parole ed è membro della redazione del litblog Poesia del nostro tempo. Ha curato i podcast “Il pubblico della poesia”, “Le domande della poesia” e “Lungo l’Adige, la poesia trentina in podcast”. Vive a Trento.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
http://www.atelierpoesia.it La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo)
cura di Edoardo Gerlini
MARSILIO Editori-Venezia
-DESCRIZIONE-
Fin dai primi contatti con l’Occidente la poesia giapponese non ha smesso di colpire l’immaginazione degli europei per via delle sue peculiari caratteristiche come la brevità dei componimenti, il costante riferimento agli elementi naturali, la particolare importanza data alla calligrafia, la sostanziale assenza di rima compensata dalla scelta di strutture ritmiche e prosodiche estremamente durature: caratteristiche queste spesso fraintese o deformate da una visione tipicamente orientalista ed eurocentrica di stampo novecentesco. Questo inedito progetto editoriale in tre volumi, corrispondenti al periodo antico (fino al 1185), periodo medievale (fino al 1868) e periodo moderno (fino alla fine del secolo scorso), si propone di selezionare e presentare sotto una nuova luce versi, canti e liriche prodotti in Giappone nell’arco di più di diciotto secoli. Un ricco apparato critico e il testo a fronte rendono questa antologia un prezioso strumento di studio e riferimento sia per l’esperto di culture dell’Asia orientale che per il semplice appassionato di poesia e letteratura mondiale.
Il primo volume dell’Antologia, Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo), raccoglie più di trecento componimenti scaturiti dal pennello di circa un centinaio tra i più rappresentativi poeti dei periodi Nara (710-794) e Heian (794-1185). Le venti sezioni che compongono il volume corrispondono alle più importanti raccolte e antologie compilate nei primi secoli della storia della letteratura giapponese, come il Man’yōshū, il Kokinshū, il Kaifūsō, ma anche opere mai tradotte in italiano come il Kudai waka o lo Honch ō monzui. Canti religiosi, struggenti poesie d’amore, elaborati giochi di parole e artifici retorici che diventeranno modello imprescindibile per tutta la successiva storia letteraria dell’arcipelago. Un’attenzione particolare è stata inoltre dedicata alla poesia in cinese composta da giapponesi, che rappresenta l’altra faccia di questa tradizione poetica, spesso sconosciuta al lettore europeo.
GERLINI Edoardo -Ricercatore-Università Ca’ Foscari di Venezia
SSD-LINGUE E LETTERATURE DEL GIAPPONE E DELLA COREA [L-OR/22]
Struttura-Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea Sito web struttura: https://www.unive.it/dsaam Sede: Palazzo Vendramin-Research Institute for Digital and Cultural Heritage
-L’antica poesia giapponese ci parla quasi in italiano –
Articolo di Daniele Abbiati
FONTE Articolo-IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
Una lingua profondamente diversa dalla nostra ma in cui ritroviamo Petrarca, Leopardi, Merini…
Articolo di Daniele Abbiati–La lingua giapponese non è soltanto figlia della lingua cinese, ne è anche allieva. Un’allieva fedele, solerte e molto, molto paziente, perché cominciò a studiare un secolo prima della nascita di Cristo e finì (anche se, come sappiamo, non si finisce mai di imparare…) al termine del XIX secolo, quando si poté dire che i giapponesi parlavano e scrivevano secondo un autentico (e autoctono e autonomo) «canone giapponese». Anche noi, qui in Europa, abbiamo dovuto sudare per costruirci l’italiano, il francese, lo spagnolo e via, appunto, discorrendo. Ma il nostro corso di studi è stato molto più accelerato, decisamente più breve di una laurea breve, in confronto a quello dei giapponesi. Per due motivi. Da un lato i maestri latini avevano già acquisito, in centinaia e centinaia di anni, il patrimonio culturale di altri maestri, quelli greci, cucinandolo da par loro. Dall’altro… ma a questo punto è meglio cedere la parola a chi ha facoltà di parlare: «mentre con un alfabeto fonetico come quello latino siamo teoricamente in grado, una volta apprese le convenzioni ortografiche e fonetiche basilari, di pronunciare correttamente anche parole di una lingua che non conosciamo, con i sinogrammi è praticamente impossibile conoscere con totale certezza la pronuncia di un carattere che non abbiamo mai visto, ed è di conseguenza molto difficile risalire esattamente al tipo di pronuncia legata a un determinato carattere in una certa area o contesto storico». Lo spiega Edoardo Gerlini, docente di Lingua giapponese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Insomma, a noi studenti europei l’alfabeto fonetico latino ha dato una grossissima mano, mentre dall’altra parte del mondo i nostri omologhi giapponesi hanno dovuto vedersela con quella sorta di rebus spaccameningi dei sinogrammi.
Gerlini ha curato per Marsilio il primo volume di un progetto editoriale inedito (e non soltanto perché contiene anche testi giapponesi mai tradotti in italiano): Antologia della poesia giapponese. I. Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo). Nell’Introduzione al volume, cui ne seguiranno due, fino a giungere ai nostri giorni, Gerlini dice molte cose che noi occidentali mediamente acculturati non potremmo immaginarci, portandoci oltre le porte di Tannhäuser (guarda caso, ecco un altro poeta, per quanto tedesco) che si aprono su un lontanissimo universo linguistico. Per esempio si dice che in Giappone il bilinguismo paritetico è proseguito fino agli inizi del Novecento; che i giapponesi lentamente si affrancarono dalla dittatura dei sinogrammi dotandosi dell’alfabeto fonetico dei katakana, molto più semplice da leggere e quindi da diffondere; che fu la scrittura onnade, cioè «per mano di donna», divergendo da quella otokode, cioè «per mano di uomo», a emancipare le lettere giapponesi. Così, seguendo la lezione del prof Gerlini, il lettore/studente completamente digiuno di sinologia e rimasto fermo alla fascinazione fluttuante di qualche haiku, quindi al XVII secolo, quando la lingua giapponese già si reggeva sulle proprie gambe, un po’ si preoccupa, aspettandosi una materia oscura e impenetrabile.
E sbaglia, perché fin dalle prime pagine dell’antologia che presenta i testi in giapponese e in italiano, scopre (vale a dire: ricorda) che, al netto degli artifici retorici, pur importantissimi e caratterizzanti ogni lingua, l’anima della Poesia distillata dai traduttori parla un solo idioma in tutto il mondo. Per tutte le poesie vale la definizione che di quella giapponese diede, fra IX e X secolo, il poeta e funzionario di corte Ki no Tsurayuki: «ha come seme il cuore dell’uomo, che si tramuta, ecco, in innumerevoli foglie di parola». Prendiamo ad esempio un canto shintoista: «Dai remoti tempi/ delle auguste divinità,/ le foglie di bambù nano/ prendendo in mano, dicono,/ si cantava e si danzava». Ma questo è Platone, quando nel Fedone riporta il detto dei preposti ai Misteri: «i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi»… E prendiamo questi versi di Kasa no Iratsume dal Man’yoshu, la più antica antologia di poesia giapponese: «Come candida rugiada/ sull’erbe all’ombra della sera/ nella mia dimora/ che sembra svanire, vano/ è forse il mio rimembrarti». Non sentiamo un’aria petrarchesca, in quel «rimembrarti»? Eccola qui, Sonetto CCXXXI. «E ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora». E Mansei che scrive: «Il mondo umano/ a che cosa compararlo?/ A una nave che vogando/ lascia il porto all’alba/ senza tracce dietro di sé…» ci suona vicino al giovane e senile Leopardi come in questo Pensiero XXXIX: «Però parmi che i vecchi sieno alla condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta». E ancora qui, in queste sinestesie: «Freddo il suono delle foglie che cadono…», oppure «La fredda voce del grillo, soffiata qui dal vento…», echeggia Foscolo: «mentr’io sentia dai crin d’oro commosse/ spirar d’ambrosia l’aure innamorate». L’amore, certo, e per giunta proprio quello cortese, sbocciato dalle parti dell’imperatore di turno, l’amore che trabocca per Minamoto no Yoshi: «Un corso d’acqua montana/ tra gli alberi/ freme nascosto, impetuoso/ il mio amore,/ e più non riesco oramai ad arginarlo», parallelo a quello di Alda Merini: «Ruscello vivo è l’amore che corre/ nei giardini dei poeti/ e genera rose, e genera pioggia e pianto».
Dunque, fra raccolte imperiali, sillogi personali, collezioni che escono dalla comfort zone dei palazzi nobiliari per scendere fino a sfiorare i sentimenti del volgo, questa antologia dell’antica poesia giapponese ci conforta. Mostrandoci un’altra, eccelsa interpretazione di uno spartito che è anche il nostro.
Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Penso che in questo momento
Penso che in questo momento
forse nessuno pensa a me nell’universo,
che solo io mi penso,
e se morissi ora,
nessuno, neppure io, mi penserebbe.
E qui inizia l’abisso,
come quando mi addormento.
Sono il mio sostegno e me lo tolgo.
Contribuisco a rivestire tutto di assenza.
Sarà per questo
che pensare ad un uomo
assomiglia a salvarlo.
L’estremo di un segno
Si deve cadere e non si può scegliere dove
Ma c’è una forma del vento nei capelli,
una pausa del colpo,
un certo angolo del braccio
che possiamo piegare mentre cadiamo
È soltanto l’estremo di un segno,
la punta impreveduta di un pensiero
Ma basta ad evitare il fondo avaro di alcune mani
e la miseria azzurra di un Dio deserto
Si tratta di piegare un po’ di più una virgola
in un testo che non possiamo correggere.
Dimenticare
Talvolta dimentico l’amore,
come dimentico la mia mano
Solo loro possono prendere il mondo
e mettermelo davanti
perché possa toccarlo,
ma non mi ricordano il suo compito.
Cercare una cosa
Cercare una cosa
è sempre incontrarne un’altra.
Così, per trovare qualcosa,
bisogna cercare quello che non è.
Cercare l’uccello per incontrare la rosa,
cercare l’amore per trovare l’esilio,
cercare il nulla per scoprire un uomo,
tornare indietro per andare avanti.
La chiave del cammino,
più che nelle sue biforcazioni,
il suo incerto inizio
o il suo dubbio finale,
è nel caustico umore
del suo doppio senso.
Si arriva sempre,
ma da un’altra parte.
Tutto passa.
Però al contrario.
Breve biografia di Roberto Juarroz nasce nella Provincia de Buenos Aires, il 5 ottobre del 1925 e muore il 31 di Marzo del 1995. Laureato in Lettere e Filosofia all’ Università di Buenos Aires, ricevette dalla stessa istituzione una borsa di studio che gli offrì l’opportunità di perfezionare i suoi studi alla Sorbona. Da questa prestigiosa università ottenne successivamente l’incarico di professore titolare. Dal 1958 al 1965 fu direttore della rivista Poesía;. Fu critico del giornale La Gaceta (Tucumán, 1958-63), critico cinematografico della rivista Esto e traduttore di vari libri. Ricevette, tra tante distinzioni, il Gran Premio d’Onore della Fondazione Argentina per la Poesia (1984) e il Premio Esteban Echeverría.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.