Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” :IL GIORNO DELLA MEMORIA-Tra Storia e Contro-storia-
Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” –Castelnuovo di Farfa-Il mattino a Castelnuovo, al risveglio, certe volte, mi piace prendere tempo per poi decidere se scriverò qualcosa. Ogni risveglio lo devo immaginare come il ritorno a Castelnuovo per la prima volta, cercando di pensarlo circondato da una terra sconosciuta :la Valle del Farfa. Poi prende il sopravvento il profumo del caffè e così inizio un nuovo giorno con il foglio bianco e una carovana di pensieri da trascrivere. Una collezione di immagini che pian piano si andranno, possibilmente, a sistemarsi nello spazio delle pagine non scritte. Poi uscire dalla staticità e, al terzo caffè, iniziare un viaggio negli scaffali dei libri che forse non leggerò .Muovo i libri come pedine nella scacchiera della mente , quasi sempre,poi, il desiderio di scrivere mi riporta alla scrivania. Sì, così esco dalla notte ,dai pensieri e dai disegni bui . Segni poggiati nel nulla e nel nero ma poi , pian piano, la planimetria e il progetto della pagina diventa chiaro e ben definito. E’ questo un Gennaio diverso, freddo ma con un silenzio che ricorda il momento triste della pandemia. Oggi è il GIORNO DELLA MEMORIA, e allora ecco di cosa scrivere su questo foglio bianco. Il 27 gennaio, qui a Castelnuovo, sono tutti eruditi e acculturati “storici “ .Peccato che i cosiddetti “storici” alla “castelnuovese” non ricordino perché e come iniziò l’orribile olocausto. Ma voi che vi riempite la bocca di “MEMORIA”, sì dico a voi che, con le vostre bocche piene delle parole “cultura e memoria”, gridate e vi stracciate le vostre giacchette “firmate” e continuate tutte le volte a dire e a scrivere :”Affinché non accada mai più! “. E anche oggi continuate a dirlo!E allora vi chiedo se veramente ricordate com’è iniziato l’orribile olocausto.Non certo con i campi di sterminio, non certo con i lager, non certo con le deportazioni di massa.Iniziò con l’eliminazione del dissenso, con il controllo e la paura. Iniziò con l’eugenetica. Iniziò con la divisione del popolo in categorie. Iniziò con il sospetto e la sfiducia del vicino. Voi che riempite le vostre bocche della parola “MEMORIA”, poi isolate le persone solo perché di intralcio alla vostra narrazione tesa a coprire le vostre politiche. Voi che predicate la Democrazia, siete stati i creatori del “LISTONE UNICO” , di triste memoria, oggi al “potere”. Voi isolate e cancellate la VERA STORIA CASTELNUOVESE, manovrandola e incanalandola nella direzione , a beneficio, del vostro “potere” . Credo che “la clessidra” e “il vostro tempo” si stia esaurendo, ma continuerete a cercare ogni scappatoia per galleggiare ancora per un po’. Credo che ognuno di voi avrà presto una casella che si è costruita nei “Gironi” del Nostro Castelnuovo. Concludo questa mia nota con i versi del Sommo Poeta:” E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno XXXIV, 139)”.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
Castelnuovo di Farfa :” La SMEMORIZZAZIONE” dei Giovani castelnuovesi e gli avvinazzati “AMARCOD da CANTINA” .
Castelnuovo di Farfa-A Castelnuovo è in atto una operazione di “SMEMORIZZAZIONE” . Operazione di pura barbarie porta avanti da individui “APPECORONATI” e “ACCAPEZZATI” che conducono, da sempre, una vita da servi e ascari dei vari capibastone. Questi personaggi, ahimè, sono addetti alla demolizione di Castelnuovo. Questi barbari ne distruggono la storia , le tradizioni ed esiliano, culturalmente, i nativi non graditi ai capibastone. Evidentemente questi ascari ,ed i vari sotto panza, non comprendendo che senza memoria storica le società , in particolare le piccole comunità, sono candidate all’autodistruzione se non a quella fisica: certamente a quella morale e culturale. Gli appecoronati castelnuovesi non comprendono che la storia serve certamente a conoscere il passato: ma in funzione del presente e nella prospettiva del futuro. E’ questo, a mio avviso, che sta avvenendo a Castelnuovo. La maggior parte dei giovani castelnuovesi è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale è mancato ogni tipo di rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono e non hanno radici che si nutrono dell’Orgoglio Castelnuovese. E dunque, se non è una scempiaggine, è per lo meno un’ingenuità ritenere che il passato sia passato del tutto o stia sepolto o fermo nella “teca del tempo”. Al passato, anche il più gravoso, – certo se ne abbiamo la forza e la capacità –, può essere restituita energia, fino a farne sprizzare fuori qualcosa di utile non solo per il presente ma anche per il futuro. Se tutto questo discorso vale per la storia in generale credo che sia ancor più valido per la storia locale. Voglio ricordare ai giovani castelnuovesi che la prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è ,in gran parte, un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo sarà eseguito bene allora l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato. Ma se di quell’abito dismesso,-memoria-, ci vergogniamo e lo buttiamo allora indossiamo altri abiti e questo, ahimè, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo e , quindi, noi crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altra parte ma sicuramente non a Castelnuovo allora , sicuramente, non saremo mai veri castelnuovesi.
La FONTANELLA della PIAZZETTA-Disegno di Tatiana CONCAS
CASTELNUOVO DI FARFA La FONTANELLA della PIAZZETTA
Castelnuovo di Farfa (Rieti)
nei disegni di Francesca Vanoncini-
La Fontanella della Piazzetta
Franco Leggeri –Castelnuovese
Franco Leggeri-POESIA Castelnuovo noi che siamo andati via-Biblioteca DEA SABINA
dall’introduzione Murales Castelnuvesi :“-………..E’ innegabile che la maggior parte dei morti tace. Non dice più niente. Ha – letteralmente – già detto tutto. Ho cercato di raccogliere, scrivere, un flusso tempestoso o calmo di pensieri: Emozioni che ho cercato di trasformare in poesia. Ho cercato di attraversare il confine verso la prateria della poesia, dove riposano i Castelnuovesi………..”.
Castelnuovo noi che siamo andati via.
Noi castelnuovesi che abbiamo viaggiato dietro la polvere
alzata dagli zoccoli dei cavalli del padrone.
Noi che abbiamo bevuto l’acqua del nostro fiume Farfa
e mangiato il pesce pescato in quelle Gole
maestre del nostro nuoto .
Castelnuovo , siamo andati via
seguendo la luna del mattino
tra gli sguardi nascosti dietro le finestre.
Siamo andati via cercando il sole,
il suo nascondiglio dietro Fara.
Siamo andati via , non ricordo, o non voglio ricordare la stagione
dei silenzi, madre dei nostri mille perché.
Siamo andati via noi che conoscevamo
il suono della cedra solo dal racconto dei vecchi castelnuovesi
guerrieri reduci di assurde e folli guerre in terre lontane.
Siamo andati via , noi poveri tra i poveri,
accolti da Pasolini e da Mamma Roma.
Siamo stati neorealismo e protagonisti
di pellicole in bianco e nero.
Castelnuovo, noi torniamo con le nostre cicatrici e i nostri racconti.
Noi castelnuovesi abbiamo nostalgia
dei vecchi sorrisi , di volti amici,
siamo tornati con lo zaino ancora pieno di perché.
Siamo tornati alla ricerca dei suoni e voci antiche,
quelle conservate in angoli chiusi e bui.
Siamo tornati per rileggere lapidi a noi care.
Castelnuovo, siamo tornati ora
tra sguardi estranei alle nostre cicatrici.
Eppure, Castelnuovo
noi non siamo mai andati via
perché abbiamo nelle nostre vene il tuo sangue.
Torniamo a prenderci e testimoniare quel che nessuno
potrà mai riscrivere o certificare: la nostra Storia.
La Storia quella che abbiamo lasciato
chiusa dietro le nostre vecchie porte.
Castelnuovo, si quelle porte dove aspettavamo
di uscire dietro i passi certi da seguire.
Castelnuovo, siamo tornati forti con il coraggio di terminare
l’inverno e l’amara stagione dei rancori e dell’odio.
Sonia Petroni Poesie da Di*vento-Rivista l’Altrove-Eretica Edizioni
Sonia Petroni
Sonia Petroni è nata a Roma nel 1977. Psicologa Psicoterapeuta vive a Bari dove svolge il suo lavoro privatamente. Dipinge, crea oggetti di design ed ama immensamente la natura da cui trae ispirazione. Il mare è suo padre adottivo. Gli ulivi suoi fratelli. Di*vento è il suo primo componimento in versi.
Di*vento di Sonia Petroni (Eretica Edizioni, 2023) eleva la saggia persuasione del tempo umano in relazione all’infinito, consuma il primitivo desiderio del silenzio in un patrimonio d’armonia e di pienezza emotiva, nella riflessione di una sorgente formata nel linguaggio simbolico della natura incontaminata e rivelatrice d’ispirazione.
DESCRIZIONE
Ecco di seguito alcuni testi tratti dalla raccolta:
Il dolore come inizio la luce mi attraversa nulla inizia né finisce in me. Accade. Non sono l’ombra sul pavimento né il muro che s’accende. Sono il vetro che lascia entrare la misericordia del sole.
Sentire le cose senza ragione. Arrivare dove loro sono ed io non ancora.
Posso essere ferma come gli alberi che non è immobilità, ma movimento fisso. Lo vedo nei riccioli dei rami, nei miei capelli. Accogliere è restare anche per il fuoco. Le radici continueranno a cercare.
La poesia è il mio posto luminoso come può esserlo una fiamma protetta dal vento. Il raggio trova aperture e si posa dritto nell’oscurità della caverna. Tra il nero e la luce eccomi essenziale a brillare come pietra scheggiata.
La felicità è come neve tra i capelli l’azzurro ne detta la fine ma il bianco resta a contornare le attese la mimosa zavorra i sogni l’ulivo ispessisce le forze tra i campi pettinati di fragilità.
Radunare le radici ed i rami farsi uliveto e fiori di mandorlo per i nidi e poi per i voli per il Silenzio che disperde i rumori richiamando a sé le erbe, anche quelle secche i legni spezzati i segreti degli iris e le verità delle foglie verdi. Discende nel cadere dei petali per farti dire la tua prima parola dopo aver detto la sua.
Ho fiducia nella paglia su questo accenno di strada vegetale l’invito al nido per il nascere tra il verde delle ere, dei passi, i crepitii.
Finisce la mia assenza dentro l’intreccio d’un pezzo di rovo un gioiello luminoso, carte colorate resti presi per gusto, per gioco.
Tra il dare ed il ricevere senza alcun debito ad uno ad uno si posa il mio essere qui.
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
L’AUTRICE
Sonia Petroni
Sonia Petroni è nata a Roma nel 1977. Psicologa Psicoterapeuta vive a Bari dove svolge il suo lavoro privatamente. Dipinge, crea oggetti di design ed ama immensamente la natura da cui trae ispirazione. Il mare è suo padre adottivo. Gli ulivi suoi fratelli. Di*vento è il suo primo componimento in versi.
Di*vento di Sonia Petroni (Eretica Edizioni, 2023) eleva la saggia persuasione del tempo umano in relazione all’infinito, consuma il primitivo desiderio del silenzio in un patrimonio d’armonia e di pienezza emotiva, nella riflessione di una sorgente formata nel linguaggio simbolico della natura incontaminata e rivelatrice d’ispirazione.
Sonia Petroni concede, all’immanente qualità dei suoi immacolati versi, il prezioso e raffinato intuito meditativo per trascrivere la direzione della transitorietà esistenziale e indicare la successione delle presenze e la tessitura delle assenze lungo le stagioni itineranti del sentire. Accoglie la dimensione contemplativa del pensiero nella compassione, nella capacità di alleggerire il dolore attraverso la comunanza cognitiva della coscienza. L’autrice modula il suo respiro poetico con l’intonazione essenziale di una esperienza interiore, concentrando l’appassionato perimetro espressivo nell’inesauribile, sapiente equilibrio tra il nutrimento lirico del naturalismo e il vincolo della materia, declinando il solco dei versi nella percezione del percorso vitale e nella sensazione dello smarrimento e del rinvenimento. Seduce l’autentico miracolo della poesia con la disposizione a cogliere in ogni disposizione d’animo la dimensione interpretativa del molteplice, a ritrovare, nella diffusione del battito in relazione ricorrente con la natura, il richiamo della realtà come applicazione della proiezione all’ascolto. L’analisi costante e spontanea del mistero umano compone il mosaico della conversazione intorno alla frammentaria erosione dell’esistenza, permette di cogliere il flusso di connessione e di attenzione ai doni della vita, aggrappati alla devozione della luce.
La poesia di Sonia Petroni intensifica la corrispondenza dell’incanto, l’improvvisa e imprevedibile risonanza dell’orizzonte emotivo, commuove l’inclinazione all’applicazione letteraria della spiritualità in ogni sentimento, abitato dalla fiduciosa generosità di una permanenza nella vibrazione della meraviglia, dialoga intorno alla benedizione di una preghiera invisibile che attende di ricevere l’immensità delle promesse avvolte nelle radici della terra. “Di*vento” racconta il territorio dell’identità, nel confine tra la timorosa solitudine delle domande e la condivisione silenziosa delle risposte, illustra l’inviolabile requisito stilistico di inaugurare il rifugio intimista tra noi e il significato dei valori nella sfera sensibile, riempie le pagine con una declinazione scultorea delle parole, nell’intesa confidente dell’energia divinatoria della consapevolezza, nella compiutezza della prospettiva profetica che gravita intorno a noi.
Sonia Petroni lascia intatta la località tumultuosa del buio per aggirare il tragitto iniziatico della sofferenza, immerge nella ferita del dolore l’incisione del riflesso luminoso, dissolve il raccoglimento di ogni vincolo verso la benevola meditazione, rinnova la cadenza di una conversione panteistica che assimila l’apertura, intensamente viva, di ogni luogo a essere definito un luogo dell’anima. Sonia Petroni alberga con la sua poesia l’entità indivisibile suggerita dalla congiunzione tra il corpo e la mente, sussurrata dalla delicatezza di un alito di vento che accarezza l’insegnamento della voce nuda, trattiene il torpore della sacralità, conforta la religiosità dell’abbraccio universale nel paesaggio rapito dallo sguardo primordiale.
da “Tutte le poesie“Mondadori- dalla Rivista Avamposto
Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere. Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica».
Mi chiedi cosa vuol dire
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
Il benessere
Quanti hanno avuto ciò che non avevano:
un lavoro, una casa – ma poi
che l’ebbero ottenuto vi si chiusero.
Ancora per poco sarò tra voi.
Dal cuore del miracolo
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.
La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli istanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
GIOVANNI GIUDICI
Quando piega al termine
Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando
volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.
Ciao, Sublime
Tu, cosa della cosa
o Sublime.
Al di là della fine
e senza fine.
Senza principio
al di qua del principio.
Sublime – esser per essere.
Sublime – divenire.
Crisma dell’immanenza.
Sublime – stella fissa del durare.
Superfluità della coscienza.
Ciao, Sublime.
Ciao, Sublime.
Sublime che non si volta.
Sublime che non si ascolta.
Sublime senza prima
né ultima volta.
Io no – che sempre aspetto
il cominciare, l’apertura.
Io no – per poca fede.
Per poca paura.
Io – senza occhi per contemplarti.
Io che non ho ginocchi per adorarti.
Cosa della cosa.
Rosa della rosa.
Tu – rosa e cosa
ma senza le parole cosa e rosa.
Tu – non foglia che cresce
ma crescersi di foglia.
Tu – non mare che splende
ma splendersi del mare.
Tu – amore nell’amare.
Ciao, Sublime.
Ciao, Essere Umano semplicemente.
E io che passeggio con te.
Io che posso prenderti per mano.
Io che mi brucio di te
nel corpo, nella mente.
Maria de las angustias
Un massimo di impostura è inevitabile
Considerato quanto futile è il cuore:
Anche dalla finzione tuttavia il vero può nascere
Smascherata maschera all’incerto amore.
Egli fabbrica e notturno arzigògola
La via donde buscar el Levante:
A te sale e ti osa, Maria de las angustias,
Ti chiama presenza/assenza, essenza miracolante.
Ma tu per mano a angoli d’acque lo guidavi,
Che in ombre marezzavano le arcate discrete:
E lui con te così tortuosamente naturale
Nell’estraneità di quella quiete.
***
Maestra di enigmi
Affermate che basta una parola
E quella sola che nessuno ha –
Lei che trasvola via dalla memoria
Lucciola albale e falena
È nera spina di pena
Brùscolo a un occhio di storia –
Venisse al mio parlare
Èffeta e poi per sempre bocca muta
Al servo vostro stretto
Frugando sul sentiero
Dove non scende lume di pietà –
Se la felicità sia il nostro vero
O il nostro vero la felicità
L’amore dei vecchi
In una gloria di sole occidente
Vaneggi, mente stanca:
Inseguito prodigio non si adempie
Nell’aldiquà del fiore che s’imbianca
Ma tu, distanza, torna a ricolmarti
Tu a farti terra in questa ferma fuga
Mare di nuda promessa
Ai nostri balbettati passi tardi
E tu, voce, rimani
Persuàdici – un poco, un poco ancora
Nostro non più domani,
Usignolo dell’aurora.
Il mio delitto
Se scrivere era vivere
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un’isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto
GIOVANNI GIUDICI
Breve biografia di Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere.Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica». Dopo un breve periodo trascorso a Torino, nel 1958 è nella sede Olivetti di Milano, dove lavora come copywriter nella Direzione pubblicità e stampa. Nel 1953 pubblica la prima raccolta di versi, Fiorì d’improvviso. La vita in versi, uscito nel 1965, lo impone definitivamente all’attenzione di lettori e critici. Negli anni successivi dà alle stampe Autobiologia (1969, Premio Viareggio), O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984), Salutz (1986, Premio Librex-Guggenheim Montale), Prove del teatro (1953-1988) (1989), Fortezza (1990), Poesie (1953-1990) (1991), Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresie della sera (1999). Nel 2000 la sua opera poetica è raccolta nel Meridiano I versi della vita. Nel 2004 esce l’ultima raccolta, Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002. Muore a La Spezia il 24 maggio 2011.
Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 2014) dalla RIVISTA «Avamposto»
«Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
CONTATTI- RIVISTA «Avamposto»
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Poeta cileno VICENTE HUIDOBRO-Poesia MONUMENTO AL MARE-
VICENTE HUIDOBRO
Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral.
MONUMENTO AL MARE
Pace sulla costellazione cantante delle acque Scontrate come gli ombri della moltitudine Pace nel mare alle onde di buona volontà Pace sulla lapide dei naufragi Pace sui tamburi dell’orgoglio e le pupille tenebrose E se io sono il traduttore delle onde Pace anche su di me.
Ecco qui lo stampo pieno di frantumi del destino Lo stampo della vendetta Con le sue frasi iraconde che si staccano dalle labbra Ecco qui lo stampo pieno di grazia Quando sei dolce e stai lì ipnotizzato dalle stelle
Ecco qui la morte inesauribile dal principio del mondo Perché un giorno nessuno se ne andrà a spasso per il tempo Nessuno lungo il tempo lastricato di pianeti defunti
Questo è il mare Il mare con le sue onde proprie Con i suoi propri sensi Il mare che cerca di rompere le sue catene Che vuole imitare l’eternità Che vuole essere polmone o nebbiolina di uccelli in pena O il giardino degli astri che pesano nel cielo Sulle tenebre che trasciniamo O che forse ci trascinano Quando volano di repente tutte le colombe della luna E si fa più oscuro dei crocevia della morte
Il mare entra nel carro funebre della notte E si allontana verso il mistero dei suoi paraggi profondi S’ode appena il rumore delle ruote E l’ala degli astri che soffrono nel cielo Questo è il mare Che saluta laggiù lontano l’eternità Che saluta gli astri dimenticati E le stelle conosciute.
Questo è il mare che si desta come il pianto di un bambino Il mare che apre gli occhi e cerca il sole con le piccole mani tremanti Il mare che spinge le onde Le sue onde che mescolano i destini
Alzati e saluta l’amore degli uomini
Ascolta le nostre risa e anche il nostro pianto Ascolta i passi di milioni di schiavi Ascolta la protesta interminabile Di quell’angoscia che si chiama uomo Ascolta il dolore millenario dei petti di carne E la speranza che rinasce dalle proprie ceneri ogni giorno.
Anche noi ti ascoltiamo Rimuginando tanti astri catturati nelle tue reti Rimuginando eternamente i secoli naufragati Anche noi ti ascoltiamo
Quando ti rigiri nel tuo letto di dolore Quando i tuoi gladiatori si battono tra di loro
Quando la tua collera fa esplodere i meridiani Oppure quando ti agiti come un gran mercato in festa Oppure quando maledici gli uomini O fingi di dormire Tremante nella tua grande ragnatela in attesa della preda.
Piangi senza sapere perché piangi E noi piangiamo credendo di sapere perché piangiamo Soffri soffri come soffrono gli uomini Che tu possa ascoltare digrignare i tuoi denti nella notte E rigirarti nel tuo letto Che l’insonnio non ti lasci placare le tue sofferenze Che i bambini prendano a sassate le tue finestre Che ti strappino i capelli Tosse tosse faccia esplodere in sangue i tuoi polmoni Che le tue molle si arrugginiscano E tu venga calpestato come cespuglio di tomba
Però sono vagabondo e ho paura che mi ascolti Ho paura delle tue vendette Dimentica le mie maledizioni e cantiamo insieme stanotte Fatti uomo ti dico come io a volte mi faccio mare Dimentica i presagi funesti Dimentica l’esplosione delle mie praterie Io ti tendo le mani come fiori Facciamo la pace ti dico Tu sei il più potente Che io stringa le tue mani nelle mie E sia la pace tra di noi
Vicino al mio cuore ti sento Quando ascolto il gemito dei tuoi violini Quando stai lì steso come il pianto di un bambino Quando sei pensieroso di fronte al cielo Quando sei dolorante tra le tue lenzuola Quando ti sento piangere dietro la mia finestra Quando piangiamo senza ragione come piangi tu.
Ecco qui il mare Il mare dove viene a scontrarsi l’odore delle città Col suo grembo pieno di barche e pesci e altre cose allegre Quelle barche che pescano sulla riva del cielo Quei pesci che ascoltano ogni raggio di luce Quelle alghe con sonni secolari E quell’onda che canta meglio delle altre
Ecco qui il mare Il mare che si distende e si afferra alle sue rive Il mare che avvolge le stelle nelle sue onde Il mare con la sua pelle martirizzata E i sussulti delle sue vene Con i suoi giorni di pace e le sue notti di isteria
E all’altro lato che c’è all’altro lato Che nascondi mare all’altro lato L’inizio della vita lungo come un serpente O l’inizio della morte più profonda di te stesso E più alta di tutti i monti Che c’è all’altro lato La millenaria volontà di fare una forma e un ritmo O il turbine eterno dei petali troncati
Ecco lì il mare Il mare spalancato Ecco lì il mare spezzato all’improvviso Affinché l’occhio veda l’inizio del mondo Ecco lì il mare Da un’onda all’altra c’è il tempo della vita Dalle sue onde al mio occhio c’è la distanza della morte.
Traduzione di Gianni Darconza per Raffaelli Editore
Breve biografia di Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral. Il creazionismo vuole fare della poesia uno strumento di creazione assoluta, in modo che i segni linguistici acquistino valore per la loro capacità di esprimere bellezza in sé e non per il loro significato sostanziale. Huidobro stesso descrisse, nella sua raccolta di saggi Manifesti, del 1925, cosa sia una poesia creata: «È una poesia nella quale ogni parte che la costituisce, e tutto l’insieme, mostra un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno, slegato da qualunque altra realtà che non sia la propria, che prende il suo posto nel mondo come fenomeno singolo, a parte, distinto dagli altri. Questa poesia è qualcosa che non può esistere se non nella testa del poeta. E non è bella perché ricorda qualcosa, perché ricorda cose viste, a loro volta belle, né perché descriva cose belle che potremmo anche vedere. È bella in sé e non ammette termini di comparazione. E nemmeno può essere concepita fuori dal libro. Niente le somiglia del mondo esterno; rende reale quel che non esiste, cioè si fa realtà a se stessa. Crea il meraviglioso e gli dà vita propria. Crea situazioni straordinarie che non potranno mai esistere nel mondo oggettivo, per cui dovranno esistere nella poesia perché esistano da qualche parte. Quando scrivo: “L’uccello fa il nido nell’arcobaleno”, si presenta un fatto nuovo, qualcosa che non avevate mai visto, che mai vedrete e che tuttavia vi piacerebbe molto vedere. Il poeta deve dire quelle cose che mai si direbbero senza di lui. Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; ci danno in ogni momento il vero sublime, quel sublime del quale i testi ci presentano esempi tanto poco convincenti. E non si tratta del sublime eccitante e grandioso, ma di un sublime senza pretese, senza terrore, che non vuole opprimere o schiacciare il lettore: un sublime da taschino. La poesia creazionista si compone di immagine create, di situazioni create, di concetti creati; non stiracchia alcun elemento della poesia tradizionale, salvo che in essa quegli elementi sono integralmente inventati, senza preoccuparsi assolutamente della loro realtà o veridicità precedenti l’atto della realizzazione».
Poesie di MASSIMO LIPPI-Poesie tratte da Nuovi poeti italiani-
MASSIMO LIPPI
Massimo Lippi è nato il 14 Gennaio del 1951 a Ponte a Tressa, vicino a Siena, dove vive e lavora.Sono essenziali alla sua formazione l’apprendistato presso lo zio Olinto, figura di ingegnoso artigiano, e l’insegnamento di Zita Pepi, che gli fa incontrare la poesia.Frequenta l’Istituto d’Arte di Siena avendo fra i suoi insegnanti più cari Virgilio Carmigniani. Inizia a frequentare il maestro Albert Lassuer.Si laurea in Storia dell’Arte con Giuliano Briganti con una tesi sullo scultore Alberto Sani.
Da Non popolo mio, 1976-1981
Increato àugure bene domestico
oscuro dedalo di bisogni
piuma irredenta del mio corpo
orda libertaria filamenti di rammarico
e d’ozono svenano anch’oggi a Pluto
perenne latrocinio di banca
acido monoteista davvero
se la bandiera rossa sterro piccionato
fisima di quando partì co’ gesuiti
in multiple cose si radduce
soffici mimose d’incantatori
doppia fascia da noi ai Capetingi
Boccadoro stese le chiarine
sui muri a Gerico il rematore
in contumacia scagliona le acque sul fiume de’ morti
trovato per caso in tasca di Togliatti
PASSI IL MONDO E VENGA LA GRAZIA
giorno tremendo e amaro sarà Quello
specie pel tordo e la ghiandaia.
* * *
Canto le finezze del boscaiolo e gli amori
dell’orsa che le rame dell’olmo scoscia
e il gracile nibbio che solo per morire
plana vincoli infrange il socio del pilano
in santificazione e scandalo viene con stringhe
sigilla verità in documento quant’è rivelato
puntualmente adora non che ci aspetti lepido
mago al balzello dei tassi granturco che Guidino
scròna ma dolce e festevole pegno che ride.
A che mi valse dunque precorrere il giudizio
se come la lepre ho a debito la vita
patire fiero e austero e inveisce sordo
censura sarchia l’orto e il giardino dell’odalisca
che quando ha figliato per legge non è più schiava
incauto designa i migliori gobboni ne le grotte
d’Altamira quand’era elegante ribellarsi
frasi ellittiche cannonate di segatura
sappiatelo enòrmi fa la Rinuncia
sincretismo scettico odierno al massimo
grado l’eco e il rintrono dell’eco
e il dubbio metodico e il biriuntume dei distinguo
passerà non essendoci più la materia del contendere
difatti deficienza di bene è il male eppure
anch’io ero giovane come l’acqua.
Traluce fin qui Zita Pepi e questo cartoccino
di lievito benevolenza non priva d’assempri manda.
* * *
Ancora una giornata di libeccio!
da dove si scatenerà il vento?
draghi proclivi all’azione in una poderosa
fuga svaporano da mare a mare
tempeste alte anelli rutilanti
e raffiche nei grani verdi e bassi
gualcati da colonne impalpabili d’aria
tenaci fino a quando i fossi rabbrividiscono
nell’ora del tramonto allora dai campi
a schiere, non visti, riescono pattuglie
e singoli Animali grandi Animali
di proiezioni paranoidi e belli più dei soliti
recinti cari a la zoologia una bizzarra indomita
geometria li scova e li compone a sparute
famiglie dal bosco ispido al suono dei Forti,
alzano le imprese filiformi esseri aguzzi
denti, vampe d’occhi sul muso lacerato
da un diadema pensile di penne:
fiat dei giardini cinesi.
Al secondo segnale convenuto
calandosi dai rami nodosi babbuini
con serbatoi di viola e terra d’ombra
e lanceolate eruzioni a limitar del cranio
orrendo e ricadenti in due distinti lobi
spugnosi giravano intanto che altri
a rotelle di cinque o sei tréscano col muso lungo
nel fondone de le Caggiòle podere sfitto
terre sode ormai in mano ai pastori
diresti una teoria spregiosa di quest’italianissima
primavera, tutta boccucce e complimenti per
i meglio equipaggiati; di là il mondo soffre
col suo pietoso e protervo spudorato campionario
di pazzi furiosi che lasciano al monaco
il suo fruire del Padre e del Figlio
e degli Innumeri canti del Santo Spirito
Corona inaspettata di èsili e rimarciti
successi portano da sole a sole il barbaglio
e la clamide di ciò che in solido eravamo
prima di smarrirci in un dedalo
di promesse dannive.
* * *
Da Passi il mondo e venga la Grazia
Da ragazzi in campagna
e da per tutto
quando la fornace del giorno
è spalancata per noi
come un carcere di sterpi
che fiorisca
in un grido salutare
circolano umane parole
ed un silenzio vivace
assottiglia il cuore.
Quell’ora sbrecciata
e festevole e muta
cerco da sempre
come fosse il prencipio
del canto
e di ogni miseria.
Marzo 1991
D’inverno poi era un omone goffo
col male da ragazzi
la moglie lo portava all’aria
per riguardo gli metteva un gavòggiolo
di lana ‘ntorno al collo
la gente lo scansava da lontano.
Avrebbe portato la pappa al diavolo.
Una mattina rideva forte
non chiamò nessuno
perché era fatto strullo
sparì dai vincoli
prese da campione
una spettacolosa morte.
Settembre 1984
L’ANGELO DI GÓRGITI
A Lorenzo Bonechi,
in memoria
I
Se a notte albergando
in piedi
co’ la gòta al vetro
Giovannino di Lorenzo
da viva voce mosso
a indicarci a dito
venisse
con lieve tremito di stupore
venisse a indicare
per via di sangue e Rivelazione
il passaggio del luminoso pellegrino
in pochi allora vedrebbero
levarsi
una caverna di luce
camminante
nel buio ingordo
che quaggiù stringe
a la dimora.
II
A pochi sarebbe dato in sogno
vedere l’Angelo di Górgiti
salire
verso la sua chiamata
al guado
de la terribile volontà
e misericorde
salire frusciando l’alie
sui muri de le case
dove ancora resiste
il lumino a la Madonna.
III
Recide un’altra gioia
lo spasimo d’ombre
che la Fonte salutare
appiana.
Come per noi
come per noi
vedo salire e crescere
il solitario battistrada
fragile ostaggio
del fuoco dell’Amore
muto fiore
che invoca intatto
per dentro l’anima
che geme
dal trasparente
nostro gelo.
IV
Ma non è da morte
il cielo spaventoso de la morte
l’aria che nel giorno brilla
l’aria che d’ineffabile passo
con luce nutriente
sposa
l’aria che di porpora veste
ogni mattino
non è da morte.
L’aria del tuo atroce pianto
l’aria del muto cerchio
del cielo muto
l’aria che l’immane deserto
asciuga
non è da morte.
L’aria del pianto sordo
de la notte scura.
Non è da morte.
V
Vedo che il cielo buio
de la morte
cadrà in cenere
nel lento mormorìo
dell’Angelo
che noi sequestra
o in un tonfo solo
precipite
se ne andrà confusa
perché non è da morte.
VI
Nome per nome
da vero l’Angelo sequestra
ma non è da morte
se chi muore s’addorme
lieve
ne la verzura del candido Giardino.
VII
Verso l’ignoto
oltre i bastioni
invisibili del pianto
ne la Città Celeste
l’Angelo del Mistero
scorta l’anima di Lorenzo
lassù dove soltanto
di luce
risuona
il Verbo dell’Agnello
immacolato.
21 gennaio 1997
Da Dell’invincibile sogno
Che rimbalzo ha nella tempesta fragorosa
il martoriato canto del vostro cuore
eccolo nel mio quartiere acquarteriato
m’arriva
come a notte un lumicino
mi cammina dentro e sale come
vapore turchino che vada in cerca
de la mamma.
Lo sento in me
rugliare in corpo
come per voi
è una sillaba
dolce e asprigna come la mora
che dondola nei rovi
l’occhi acuti del settembre.
Distinguo meglio ora
un’ape da lo sciame
che ronza ammontinato al miele.
Un rusignolo distinguo da un agile pettière
entrambi già nella rosa del piombo fino
due capi salvati in extremis
da un vago moscerino
che fastidia tutto il cacciatore.
Verrò in bicicletta come mio padre
che a Buonconvento in Val d’Arbia
trovò per strada Piero Bargellini
romèo dell’Anno Santo
Giovanni Scheiwiller come
un fanale che ne la notte cerca
tra orti segnalati qualcosa che combini
con lui, un barbaglio di Speranza
da uno strame
folto di verzure e un male
chiuso-bene a ceralacca
dove la voce che trapela
è di suo padre morto
sotto un tranvai
la notte gridolina di Natale.
Poesie tratte da Nuovi poeti italiani, 2 ; a cura di Alfonso Berardinelli ; Torino : G. Einaudi, 1982 · Collezione di poesia ; 179
Massimo Lippi, Passi il mondo e venga la grazia ; prefazione di Giovanni Raboni ; Milano : All’insegna del pesce d’oro, 1999 · Acquario ; 265 · [ISBN] 88-444-1440-6
Massimo Lippi, Dell’ invincibile sogno ; Milano : s.n., 2004 · Stampato per i novant’anni di Paolo Franci ricordando Vanni Scheiwi-
MASSIMO LIPPI
Breve biografia di Massimo Lippi è nato il 14 Gennaio del 1951 a Ponte a Tressa, vicino a Siena, dove vive e lavora.
Sono essenziali alla sua formazione l’apprendistato presso lo zio Olinto, figura di ingegnoso artigiano, e l’insegnamento di Zita Pepi, che gli fa incontrare la poesia.
Frequenta l’Istituto d’Arte di Siena avendo fra i suoi insegnanti più cari Virgilio Carmigniani. Inizia a frequentare il maestro Albert Lassuer.
Si laurea in Storia dell’Arte con Giuliano Briganti con una tesi sullo scultore Alberto Sani.
Enzo Carli accompagna con un importante scritto di presentazione la sua personale a Empoli (1987).
Si sposa con Elisabetta da cui ha quattro figli.
Insegna per 10 anni scultura all’Istituto D’arte di Siena, e quindi all’Accademia di Carrara e Macerata.
Lascia l’insegnamento per dedicarsi interamente all’attività artistica che lo vede presente in Italia, in Europa e nelle Stati Uniti con opere monumentali. Viaggia per motivi di studio e di lavoro negli Stati Uniti, in Russia e Cina. Espone in Italia e all’estero.
E’del 1982 l’esordio poetico nell’antologia einaudiana dei Nuovi Poeti Italiani, con prefazione di Alfonso Berardinelli. Escono quindi presso Scheiwiller i suoi primi libri di poesia, Non popolo mio (1981) e Passi il mondo e venga la Grazia (1999, finalista al Premio di Viareggio), autorevolmente prefatti da Franco Fortini e da Giovanni Raboni, che lo segnalano tra i poeti più forti e originali della sua generazione. Seguono altri tre volumi di poesia, Nuziale (Giorgio Lucini,2003), Dell’invincible Sogno (Giorgio Lucini,2004), ed il recente Exilium (Cantagalli, 2008, finalista al Premio Viareggio-Rèpaci 2009).
Nel mese di marzo 2004 è Visiting Professor all’Università S.M.U. di Dallas, Texas.
Debutta come autore di teatro e regista con l’allestimento di una Sacra rappresentazione, Trasfigurazione, per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni (5 Agosto 2006), a cui seguono Il Gommone messo in scena al Teatro dei Rozzi di Siena il 31 ottobre 2007, e ancora per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni l’atto unico Marta e Maria (7 marzo 2008).
E’presente con una scultura in pietra di grandi dimensioni al IV Convegno Ecclesiale di Verona (ottobre 2006).
Tra i suoi lavori di maggior impegno si ricordano Il Presbiterio della Chiesa di S. Francesco a Pienza (2002), Il Portale in Bronzo della Chiesa di SS. Giusto e Donato di Monteroni D’Arbia (2003), della Chiesa di Cristo Redentore di Monsummano Terme (2004) e recentemente della Chiesa di S. Domenico Savio a Vittoria-Ragusa (2010).
Esegue il monumento Il canto del gallo risveglia la Pace tra Forte dei Marmi e Querceto (2008) e la statua in marmo di S. Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore (2009).
Per la città di Siena ha dipinto il Palio del 2 luglio 1993, ha realizzato le sculture per il museo della Nobile Contrada dell’Oca (1995), Il Crocifisso della Madonna del Voto per il Duomo (2003), il ciborio in bronzo per la Basilica di S. Maria di Provenzano (2005), il Gavinone di Piazza del Campo (2006) e il portale bronzeo della Basilica di S. Domenico dedicato a S. Caterina (2000-2006).
Lascia l’insegnamento per dedicarsi interamente all’attività artistica che lo vede presente in Italia, in Europa e nelle Stati Uniti con opere monumentali. Viaggia per motivi di studio e di lavoro negli Stati Uniti, in Russia e Cina. Espone in Italia e all’estero.
E’del 1982 l’esordio poetico nell’antologia einaudiana dei Nuovi Poeti Italiani, con prefazione di Alfonso Berardinelli. Escono quindi presso Scheiwiller i suoi primi libri di poesia, Non popolo mio (1981) e Passi il mondo e venga la Grazia (1999, finalista al Premio di Viareggio), autorevolmente prefatti da Franco Fortini e da Giovanni Raboni, che lo segnalano tra i poeti più forti e originali della sua generazione. Seguono altri tre volumi di poesia, Nuziale (Giorgio Lucini,2003), Dell’invincible Sogno (Giorgio Lucini,2004), ed il recente Exilium (Cantagalli, 2008, finalista al Premio Viareggio-Rèpaci 2009).
Nel mese di marzo 2004 è Visiting Professor all’Università S.M.U. di Dallas, Texas.
Debutta come autore di teatro e regista con l’allestimento di una Sacra rappresentazione, Trasfigurazione, per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni (5 Agosto 2006), a cui seguono Il Gommone messo in scena al Teatro dei Rozzi di Siena il 31 ottobre 2007, e ancora per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni l’atto unico Marta e Maria (7 marzo 2008).
E’presente con una scultura in pietra di grandi dimensioni al IV Convegno Ecclesiale di Verona (ottobre 2006).
Tra i suoi lavori di maggior impegno si ricordano Il Presbiterio della Chiesa di S. Francesco a Pienza (2002), Il Portale in Bronzo della Chiesa di SS. Giusto e Donato di Monteroni D’Arbia (2003), della Chiesa di Cristo Redentore di Monsummano Terme (2004) e recentemente della Chiesa di S. Domenico Savio a Vittoria-Ragusa (2010).
Esegue il monumento Il canto del gallo risveglia la Pace tra Forte dei Marmi e Querceto (2008) e la statua in marmo di S. Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore (2009).
Per la città di Siena ha dipinto il Palio del 2 luglio 1993, ha realizzato le sculture per il museo della Nobile Contrada dell’Oca (1995), Il Crocifisso della Madonna del Voto per il Duomo (2003), il ciborio in bronzo per la Basilica di S. Maria di Provenzano (2005), il Gavinone di Piazza del Campo (2006) e il portale bronzeo della Basilica di S. Domenico dedicato a S. Caterina (2000-2006).
Poesie di Giulia Fuso–Poesie inedite pubblicate dalla Rivista Atelier-
Giulia Fuso ha pubblicato le raccolte poetiche “E dentro luccica” (Miraggi Edizioni, 2016), “Tu non dismetti mai le cose” (Eretica Edizioni, 2018) e “Le rimanenze” (Interno Libri, 2021).
Ricordo l’odore del tuo collo
appena ti ho visto con il naso
ha affittato un piccolo piatto mansardato
nella mia bocca chiusa
joli petit plat
descrivo un suono con il colore che è
che sarebbe, se fosse vincolabile
paragonabile a qualsiasi forma di vita
descritta con aggettivi omologanti
studiati alle scuole primarie
è quindi un suono blu
l’odore del tuo collo
una bacchetta magra di peli
fradicia di sudore e cibo,
la cosa più amata da me
se cosa fosse.
*
Ci vuole un altro volto
essere pesci pacati mio incostante rifugio atomico
per far passare il tempo,
il tempo che fa marachelle
fuori dal mio ombelico
le lucertole dicono sì,
con la testa cotta.
*
Metto i piedi al sole per far festa
per far la festa ai passi, alla strada
che l’unica via aperta è una parola
non stringo che reflusso postprandiale
quando ricordo l’alfabeto emozionale
e collego a ad amore, b a balneare t a tram delle diciotto con la morte sotto;
sarò crosta, peduncolo mortale.
Breve biografia –Giulia Fuso ha pubblicato le raccolte poetiche “E dentro luccica” (Miraggi Edizioni, 2016), “Tu non dismetti mai le cose” (Eretica Edizioni, 2018) e “Le rimanenze” (Interno Libri, 2021).
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea, secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Elegia
Troppo orgoglioso per morire, morì debole e cieco
Nel più oscuro dei modi, e non indietreggiò,
Un uomo freddo; e gentile, coraggioso nel suo angusto amor
proprio!
Nel più oscuro dei giorni. Oh, possa egli per sempre
Riposare sereno, finalmente, sull’estrema collina
Delle croci, sotto l’erba, in amore, e qui tra i lunghi
Stormi ringiovanire, e mai giacere smarrito
O inerte i giorni innumerevoli della sua morte,
Benché sopra ogni cosa desiderasse il seno di sua madre.
Che era polvere e sonno, e nella terra cortese
La nera giustizia della morte, cieca e sconsacrata.
Che non trovi mai requie ma sia generato e mantenuto,
Pregai nella stanza accovacciante, presso il suo cieco letto,
Nella casa attutita, qualche secondo prima
Di mezzogiorno, e col buio, e alla luce. Il fiume dei morti
Gli venava la povera mano che stringevo, e io vedevo
Attraverso i suoi occhi senza lume le radici del mare.
Questo pane che spezzo
Questo pane che spezzo un tempo era frumento,
questo vino su un albero straniero
nei suoi frutti era immerso;
l’uomo di giorno o il vento nella notte
piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell’uva.
In questo vino, un tempo, il sangue dell’estate
batteva nella carne che vestiva la vite;
un tempo, in questo pane,
il frumento era allegro in mezzo al vento;
l’uomo ha spezzato il sole e ha rovesciato il vento.
Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
devastare le vene, erano un tempo
frumento ed uva, nati
da radice e linfa sensuali.
E’ il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.
E morte non avrà dominio
E morte non avrà dominio.
E i morti nudi saranno uno
Con l’uomo nel vento e la luna occidentale;
Quando le loro ossa saranno scarnificate e dissolte,
Avranno stelle ai gomiti e ai piedi;
Per quanto impazziti saranno savi,
Per quanto affondino nel mare torneranno a risorgere;
Per quanto gli amanti si perdano amore resterà;
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Sotto i gorghi del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Torcendosi ai tormenti al cedere dei tèndini,
Legati a una ruota, pur non si romperanno;
Si spaccherà la fede in quelle mani,
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Strappati da ogni lato non si spaccheranno
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Mai più possano i gabbiani gridargli agli orecchi
Né onde frangersi furiose sulle rive;
Dove fiore sbocciò possa fiore mai più
Sollevare il capo agli scrosci della pioggia;
Per quanto impazzite e morte come chiodi,
Le teste di quei tali martellano fra le margherite;
Irromperanno nel sole fin che il sole cadrà,
E morte non avrà dominio.
Non andartene docile in quella buona notte
Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
Perchè dalle loro parole non diramarono fulmini
Non se ne vanno docili in quella buona notte,
I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide
Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
Troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.
Biografia di Dylan Marlais Thomas( 1914-1953)-
Dylan Marlais Thomas, poeta gallese
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea,secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Appassionatosi alla poesia fin da piccolo, scrive i primi componimenti già a undici anni sul giornalino della scuola, arrivando a pubblicare “Diciotto poesie”, la sua prima raccolta, nel 1934. Il debutto è clamoroso, e suscita scalpore nei salotti letterari di Londra. La lirica più nota è “And death shall have no dominion”: la morte è, insieme all’amore e alla natura, uno dei temi più importanti delle sue opere, incentrate sull’unità drammatica ed estatica del creato. Nel 1936 Dylan Thomas pubblica “Venticinque poesie” e sposa Caitlin MacNamara, ballerina che gli darà tre figli (tra i quali Aeronwy, futura scrittrice).
Trasferitosi in una casa sul mare a Laugharne, nella cosiddetta Boathouse, scrive molte poesie nella solitudine di quello che in “The writing shed” descrive come il suo capanno verde. A Laugharne è ispirata anche Llareggub, località immaginaria che farà da sfondo al dramma “Under milk wood”. Nel 1939 Thomas pubblica “Il mondo che respiro” e “La mappa dell’amore”, cui fa seguito, nel 1940, una raccolta di storie dall’evidente matrice autobiografica, intitolata “Ritratto dell’artista da cucciolo”.
Nel febbraio del 1941, Swansea viene bombardata dalla Luftwaffe: subito dopo i raid, il poeta gallese scrive un dramma radiofonico, “Return journey home”, che descrive il Kardomah Cafè della città come raso al suolo. A maggio, Thomas e la moglie si trasferiscono a Londra: qui egli spera di trovare lavoro nell’industria del cinema, e si rivolge al direttore della divisione film del Ministero dell’Informazione. Non avendo ricevuto risposta, ottiene comunque un impiego presso la Strand Films, per la quale sceneggia cinque pellicole: “This is colour”, “New towns for old”, “These are the men”, “Conquest of a germ” e “Our country”.
Nel 1943 intraprende una relazione con Pamela Glendower: solo una delle tante scappatelle che hanno contraddistinto e contraddistingueranno il suo matrimonio. Nel frattempo, la vita del letterato si caratterizza anche per vizi ed eccessi, sperpero di denaro e alcolismo: un’abitudine che conduce la sua famiglia sino alle soglie della povertà. E così, mentre nel 1946 viene edito “Death and entrances”, il libro che costituisce la sua consacrazione definitiva, Dylan Thomas deve fare i conti con i debiti e la dipendenza dall’alcol, nonostante i quali ottiene comunque la solidarietà del mondo intellettuale, che lo assiste moralmente ed economicamente.
Nel 1950 intraprende un tour di tre mesi a New York, su invito di John Brinnin. Nel corso del viaggio in America, il poeta gallese viene invitato a numerose feste e celebrazioni, e non di rado si ubriaca, diventando molesto e rivelandosi un ospite difficile da gestire e scandaloso. Non solo: spesso beve anche prima delle letture che deve tenere, al punto da far sì che la scrittrice Elizabeth Hardwick si chieda se arriverà un momento in cui Thomas crollerà sul palco. Tornato in Europa, egli inizia a lavorare a “In the white giant’s thigh”, che ha modo di leggere nel settembre del 1950 in televisione; comincia a scrivere anche “In country heaven”, che però non viene mai completato.
Dopo un viaggio in Iran effettuato per la lavorazione di un film della Anglo-Iranian Oil Company che poi non vedrà mai la luce, lo scrittore fa ritorno in Galles per scrivere due poesie: “Lament” e “Do not go gentle into that good night”, un’ode dedicata al padre morente. Nonostante le numerose personalità che gli offrono un sostegno economico (la Principessa Margherita Caetani, Margaret Taylor e Marged Howard-Stepney), egli si trova sempre a corto di soldi, così che si risolve a scrivere diverse lettere di richieste di aiuto a importanti esponenti della letteratura del tempo, tra cui T.S. Eliot.
Confidando nella possibilità di ottenere altri lavori negli Stati Uniti, compra a casa a Londra, a Camden Town, al 54 di Delancey Street, per poi attraversare nuovamente l’Oceano Atlantico nel 1952, insieme con Caitlin (che vuole seguirlo dopo avere scoperto che nel viaggio americano precedente lui l’aveva tradita). I due continuano a bere, e Dylan Thomas diventa sempre più sofferente a causa di problemi ai polmoni, complice il tour de force americano che lo porta ad accettare quasi cinquanta impegni.
E’, questo, il secondo dei quattro tour nella Grande Mela. Il terzo va in scena nell’aprile del 1953, quando Dylan declama una versione non definitiva di “Under milk wood” all’Università di Harward e al Poetry Centre di New York. La realizzazione del componimento, per altro, è piuttosto turbolenta, e viene completata solo grazie all’assistente di Brinnin, Liz Reitell, che chiude a chiave in una camera Thomas per costringerlo a lavorare. Con la stessa Reitell egli passa gli ultimi dieci giorni del suo terzo viaggio newyorchese, per una breve ma passionale relazione amorosa.
Tornato in Gran Bretagna non prima di essersi rotto un braccio cadendo dalle scale mentre era ubriaco, Thomas è sempre più malato. Nell’ottobre del 1953 si reca a New York per un altro tour di letture delle sue opere e conferenze: afflitto da problemi respiratori e dalla gotta (per le quali in Gran Bretagna non si era mai curato), affronta il viaggio nonostante le sue difficoltà di salute e portando con sé un inalatore per respirare meglio. In America, festeggia il sue trentanovesimo compleanno, anche se deve abbandonare la festa organizzata in suo onore a causa dei soliti malanni.
Il clima e l’inquinamento della Grande Mela si rivelano letali per la salute già precaria dello scrittore (che tra l’altro continua a bere alcol). Ricoverato al St. Vincent’s Hospital in stato di coma etilico dopo essersi ubriacato, Dylan Thomas muore a mezzogiorno del 9 novembre 1953, ufficialmente per le conseguenze di una polmonite. Oltre a “Under milk wood”, verranno pubblicati postumi anche “Adventures in the skin trade”, “Quite eraly one morning”, “Vernon Watkins” e le lettere scelte “Selected letters”.
Edward Taylor, Poeta nordamericano (Sketchley, Leicester, 1642 circa – Westfield, Massachusetts, 1729) –
Edward Taylor Poeta nordamericano
Edward Taylor Poeta nordamericano (Sketchley, Leicester, 1642 circa – Westfield, Massachusetts, 1729). Scelta la via dell’esilio dall’Inghilterra a causa del suo dissenso in seno alla comunità protestante, si stabilì nel 1668 presso la colonia della Massachusetts Bay, dove divenne amico dei Mather e di S. Sewall. Completati gli studî di teologia alla Harvard University, dal 1671 fu ministro di culto a Westfield.
Preparatory Meditations – First Series: 1
What love is this of Thine that cannot be
In Thine infinity, O Lord, confined,
Unless it in Thy very person see
Infinity and finity conjoined?
What hath Thy godhead, as not satisfied,
Married our manhood, making it its bride?
Oh matchless love! Filling heaven to the brim!
O’errunning it: all running o’er beside
This world! Nay, overflowing hell; wherein
For Thine elect there rose a mighty tide!
That there our veins might through Thy person bleed,
To quench those flames that else would on us feed.
Oh! that Thy love might overflow my heart!
To fire the same with love: for love I would.
But oh! my straitened breast! my lifeless spark!
My fireless flame! What chilly love, and cold?
In measure small! In manner chilly! See.
Lord, blow the coal: Thy love enflame in me.
Head of a White Woman Winking
She has one good bumblebee
which she leads about town
on a leash of clover.
It’s as big as a Saint Bernard
but also extremely fragile.
People want to pet its long, shaggy coat.
These would be mostly whirling dervishes
out shopping for accessories.
When Lily winks they understand everything,
right down to the particle
of a butterfly’s wing lodged
in her last good eye,
so the situation is avoided,
the potential for a cataclysm
is narrowly averted,
and the bumblebee lugs
its little bundle of shaved nerves
forward, on a mission
from some sick, young godhead.
Edward Taylor Poeta nordamericano
Prologue From Preparatory Meditations Before my Approach to the Lord’s Supper
Lord, can a crumb of dust the earth outweigh,
Outmatch all mountains, nay the crystal sky?
Imbosom in’t designs that shall display
And trace into the boundless deity?
Yea, hand a pen whose moisture doth gild o’er
Eternal glory with a glorious glore.
If it is pen had of an angel’s quill,
And sharpened on a precious stone ground tight,
And dipped in liquid gold, and moved by skill
In crystal leaves should golden letters write,
It would but blot and blur, yea, jag and jar,
Unless Thou mak’st the pen and scribener.
I am this crumb of dust which is designed
To make my pen unto Thy praise alone,
And my dull fancy I would gladly grind
Unto an edge on Zion’s precious stone;
And write in liquid gold upon Thy name
My letters till Thy glory forth doth flame.
Let not th’ attempts break down my dust I pray,
Nor laugh Thou them to scorn, but pardon give.
Inspire this crumb of dust till it display
Thy glory through’t: and then Thy dust shall live.
Its failings then Thou’lt overlook, I trust,
They being slips slipped from Thy crumb of dust.
Thy crumb of dust breathes two words from its breast,
That Thou wilt guide its pen to write aright
To prove Thou art and that Thou art the best
And shew Thy prosperties to shine most bright.
And then Thy works will shine as flowers on stems
Or as in jewelary shops do gems.
Happy as the Day Is Long
I take the long walk up the staircase to my secret room.
Today’s big news: they found Amelia Earhart’s shoe, size 9.
1992: Charlie Christian is bebopping at Minton’s in 1941.
Today, the Presidential primaries have failed us once again.
We’ll look for our excitement elsewhere, in the last snow
that is falling, in tomorrow’s Gospel Concert in Springfield.
It’s a good day to be a cat and just sleep.
Or to read the Confessions of Saint Augustine.
Jesus called the sons of Zebedee the Sons of Thunder.
In my secret room, plans are hatched: we’ll explore the Smoky Mountains.
Then we’ll walk along a beach: Hallelujah!
(A letter was just delivered by Overnight Express–
it contained nothing of importance, I slept through it.)
(I guess I’m trying to be ‘above the fray.’)
The Russians, I know, have developed a language called ‘Lincos’
designed for communicating with the inhabitants of other worlds.
That’s been a waste of time, not even a postcard.
But then again, there are tree-climbing fish, called anabases.
They climb the trees out of stupidity, or so it is said.
Who am I to judge? I want to break out of here.
A bee is not strong in geometry: it cannot tell
a square from a triangle or a circle.
The locker room of my skull is full of panting egrets.
I’m saying that strictly for effect.
In time I will heal, I know this, or I believe this.
The contents and furnishings of my secret room will be labeled
and organized so thoroughly it will be a little frightening.
What I thought was infinite will turn out to be just a couple
of odds and ends, a tiny miscellany, miniature stuff, fragments
of novelties, of no great moment. But it will also be enough,
maybe even more than enough, to suggest an immense ritual and tradition.
And this makes me very happy.
Edward Taylor Poeta nordamericano
The Joy If Church Fellowship Rightly Attended
In heaven soaring up, I dropped an ear
On earth: and Oh, sweet melody:
And listening, found it was the saints who were
Encroached for Heaven that sang for joy.
For in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Oh, joyous hearts! Enfired with holy flame!
Is speech thus tassled with praise?
Will not your inward fire of joy contain:
That it in open flames doth blaze?
For in Christ’s coach saints sweetly sing,
As they to glory ride therein.
And if a string do slip by chance, they soon
Do screw it up again, whereby
They set it in a more melodious tune
And a diviner harmony.
For in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
In all their acts, public and private, nay,
And secret too, they praise impart.
But in their acts divine and worship, they
With hymns do offer up their heart.
Thus in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Some few not in; and some whose time and place
Block up this coach’s way do go
As travelers afoot, and so do trace
The road that gives them right thereto,
While in this coach these sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Preparatory Meditations – Second Series: 143
(Canticles 6:10. Who is She that Looks Forth as the Morning,
Fair as the Moon, Clear as the Sun, Terrible as an Army with Banners)
Wonders amazed! Am I espoused to Thee?
My glorious Lord? What! Shall my bit of clay
Be made more bright than brightest angels be,
Look forth like as the morning every way?
And shall my lump of dirts wear such attire?
Rise up in heavenly ornaments thus, higher?
But still the wonders stand, shall I look like
The glorious morning that doth gild the sky
With golden beams that make all day grow light,
And view the world o’er with its golden eye?
And shall I rise like fair as the fair moon,
And bright as in the sun, that lights each room?
When we behold a piece of China clay
Formed up into a China dish complete,
All spiced o’er with gold sparks display
Their beauty all under a glass robe neat,
We gaze thereat, and wonder rise up will,
Wond’ring to see the Chinese art and skill.
How then should we and angels but admire
Thy skill and vessel Thou hast made bright thus
Out for to look like to the morning tire
That shineth out in all bright heavenly plush?
Whose golden beams all varnish o’er the skies
And gild our canopy in golden wise?
Wonders are nonplussed to behold Thy spouse
Look forth like to the morning whose sweet rays
Gild o’er our skies as with transparent boughs
Like orient gold of a celestial blaze.
Fair as the moon, bright as the sun, most clear,
Gilding with spiritual gold grace’s bright sphere.
O blessed! Virgin spouse, shall thy sharp looks
Gild o’er the objects of thy shining eyes
Like fairest moon and brightest sun do th’ fruits
Even as that make the morning shining rise?
The fairest moon in ‘ts socket’s candle-light
Unto the night and th’ sun’s day’s candle bright.
Thy spouse’s robes all made of spiritual silk
Of th’ web wove in the heaven’s bright loom indeed,
By the Holy Spirit’s hand more white than milk
And fitted to attire thy soul that needs.
As th’ morning bright’s made of the sun’s bright rays,
So th’ Spirit’s web thy soul’s rich loom o’erlays.
I frown, chide, strike, and fight them, mourn and cry
To conquer them, but cannot them destroy.
I cannot kill or coop them up: my curb
‘S less than a snaffle in their mouth: my reins
They as a twine thread snap: by hell they’re spurred:
And load my soul with swagging loads of pains.
Black imps, young devils, snap, bite, drag to bring
And pick me headlong hell’s dread whirlpool in.
Lord, hold Thy hand: for handle me Thou mayst
In wrath: but oh, a twinkling ray of hope
Methinks I spy Thou graciously display’st.
There is an advocate: a door is ope.
Sin’s poison swell my heart would till it burst,
Did not a hope hence creep in ‘t thus and nurse ’t.
Joy, joy, God’s son’s the sinner’s advocate,
Doth plead the sinner guiltless, and a saint.
But yet attornies’ pleas spring from the state,
The case is in: if bad, it’s bad in plaint.
My papers do contain no pleas that do
Secure me from, but knock me down to, woe.
I have no plea mine advocate to give:
What now? He’ll anvil arguments great store
Out of His flesh and blood to make thee live.
O dear-bought arguments: good pleas therefore.
Nails made of heavenly steel, more choice than gold
Drove home, well-clenched, eternally will hold.
Oh! Dear-bought plea, dear Lord, what buy ‘t so dear?
What with Thy blood purchase Thy plea for me?
Take argument out of Thy grave t’ appear
And plead my case with, me from guilt to free.
These maul both sin and devils, and amaze
Both saints and angels; wreathe their mouths with praise.
What shall I do, my Lord? What do, that I
May have Thee plead my case? I fee Thee will
With faith, repentance, and obediently
Thy service gainst Satanic sins fulfill.
I’ll fight Thy fields while live I do, although
I should be hacked in pieces by Thy foe.
Make me Thy friend, Lord, be my surety: I
Will be Thy client, be my advocate:
My sins make Thine, Thy pleas make mine hereby.
Thou wilt me save, I will Thee celebrate.
Thou’lt kill my sins that cut my heart within:
And my rough feet shall Thy smooth praises sing.
Edward Taylor was an American Puritan poet and minister of the Congregational church at Westfield, Massachusetts for over 50 years. Considered one of the more significant poets to appear in America in the 17th and 18th centuries, his fame is the result of two works, the Preparatory Meditations … (written 1682–1725) and Gods Determinations touching his Elect … (written 1682?). But he also wrote many other poems during his long life, and he was an indefatigable preacher. Over 60 of his sermons are extant as well as a long treatise, The Harmony of the Gospels. With the exception of two stanzas of verse, his works were unpublished in his lifetime.
Taylor’s birth year and place are still unknown, but the most convincing evidence indicates that he was born in 1642 in the hamlet of Sketchley, Leicestershire, England. His mother, Margaret, died in 1657, and his father, William, a yeoman farmer, in 1658. The civil war was raging in Leicestershire during his infancy, but by 1650 the future poet was enjoying the peace and stability of a prosperous midland farm. His poetry is replete with imagery drawn from the farm and from the countryside of both Old and New England. The Leicestershire dialect occasionally appears in his colloquial verses, as do words drawn from the weaver’s trade (in which he may have been employed at nearby Hinckley).
Educated by a nonconformist schoolmaster, Taylor taught school for a short time at Bagworth. His firm religious convictions as a Protestant dissenter, formed in childhood and strengthened in the favorable atmosphere of Cromwell’s regime, were severely tested during the first years of the Restoration. He refused to sign the Act of Uniformity of 1662 and was therefore prevented from teaching school and from worshiping in peace. On April 26, 1668, he sailed from Execution Dock, Wapping, bound for the Massachusetts Bay Colony.
His earliest verses, written in England, exhibit his lifelong love of the Protestant cause and his anti-Anglican and anti-Roman position. In “A Dialogue between the writer and a Maypole Dresser” the young poet berates the maypole dancers for worshiping the Roman harlot Flora when they “sacrificed a slaughtered tree to her.” He attacked the Church of Rome with the same kind of invective in the long poem written toward the end of his life, The Metrical History of Christianity. The most eloquent of his early poems, “The Lay-mans Lamentation,” praises the zeal of the dissenting preachers silenced by the Act of Uniformity, which finally drove Taylor himself to the Bay Colony. In “A Letter sent to his Brother Joseph Taylor and his wife after a visit” Taylor exhibited his early interest in acrostic verse, a form in which he continued to write in Massachusetts. The names of himself, his brother, and his brother’s wife appear in the initial and final letters of each line.
The hardships of Taylor’s crossing of the Atlantic during the 70 days in which his ship was slowed by calms and buffeted by contrary winds are described in his diary, which also includes perceptive observations of natural phenomena, and of birds and fish, anticipating the imagery of his later poetry. On July 5, 1668, Taylor disembarked at Boston, and, after a visit with Charles Chauncy, president of Harvard College, he entered Harvard on July 23 as an upperclassman. He was the college butler in charge of kitchen utensils and responsible for collecting payment for food and drink consumed from the buttery—a position usually given a mature upperclassman. Taylor’s life at Harvard for the next three years was busy and rigorous with recitations, disputations, and lectures carried on in Latin; with studies in Greek, Hebrew, logic, metaphysics, rhetoric, and astronomy; and with daily morning and evening prayers.
During his student years, Taylor continued to write poetry, including elegies on Zecharia Symmes, Francis Willoughby, and John Allen—all members of the Board of Overseers of Harvard College who died when Taylor was in residence at Harvard. Also extant is a fragment of an elegy that may be on the famous Richard Mather, founder of the Mather dynasty, who died in 1669. An elegy on Charles Chauncy, who died in 1672, was written during Taylor’s first year at Westfield. All of these verses are similar in style, displaying more wordplay and wit than genuine feeling. The poem to Willoughby is an acrostic, and the verses to Chauncy are an elaborate double acrostic. They are an interesting historical addition to the corpus of 17th-century funeral verse but are of little literary value. Taylor’s later elegies to his wife and to Samuel Hooker are much more successful exercises in the genre.
After graduating with his class from Harvard College in 1671, Taylor was faced with the necessity of choosing a vocation. He decided to become a resident scholar at Harvard, and on November 16, he was, according to his diary, “instituted … scholar of the house.” However, a few days later he was persuaded to undertake the hazardous journey of a hundred miles through deep snowdrifts in the dead of winter to Westfield to become minister to that small farming community in the Bay Colony. He remained in Westfield for the rest of his life, with only occasional visits to Boston and other New England towns.
By 1673 Taylor had a parsonage and a new, small meetinghouse, built to serve also as a fort during the Indian troubles. The worshipers were summoned to meeting by the roll of a drum. By the summer of 1674 Taylor had fallen in love with Elizabeth Fitch of Norwich. On September 8th, he sent her a love letter written in the florid rhetoric of the period, and the next month he composed for her an elaborate acrostic love poem. They were married on November 5, 1674 and had eight children, five of whom died in infancy.
King Philip’s War began in June 1675 and was waged with savage ferocity on both sides. In the spring of 1676 the citizens of Westfield were asked to consider removal to the larger town of Springfield for their protection, but Taylor refused the invitation, and Westfield escaped serious damage. During these troubled times Taylor apparently composed little or no verse. The Indian chief King Philip was killed in August 1676, and with the coming of peace Taylor was finally able to organize his church. At his ceremony of ordination on August 27, 1679, Taylor preached his first extant sermon: A Particular Church is Gods House, in which he demonstrates with his customary Calvinistic rigidity that the members of this “Particular Church” at Westfield are among God’s chosen people, the elect, as distinct from the damned; for all people, he said, are “either in a State of Wrath, or a State of Favourits.”
Taylor now resumed his poetic activity. By about 1682 (the date is conjectural) he was composing his major poem Gods Determinations touching his Elect: and The Elects Combat in their Conversion, and Coming up to God in Christ together with the Comfortable Effects thereof. The long title (typical of the period) indicates the subject and movement of the poem—the various ways of God in converting the predestined elect to Christianity (specifically to orthodox Congregationalism) and the spiritual joys of saving grace once the Christian has ascertained the effects of grace in his soul. The poem is somewhat polemical in tone, suggesting that Taylor may have intended to publish it and distribute it to the citizens of Westfield for the purpose of convincing some of the more recalcitrant members of the community to accept saving grace and to enter into full communion with the church. There are a number of passages written to convince the reader that past sins are not certain signs of damnation and that excessive doubts as to a person’s worthiness to accept full membership in the church are the devil’s work. The poem was not published in Taylor’s lifetime, but passages may have been read to his congregation during Sunday morning worship or at evening prayer meetings.
In justifying the ways of God to the elect and in exposing the machinations of the devil, Taylor had a number of previous works—such as John Milton’s Paradise Lost (1667), John Bunyan’s The Holy War (1682), Michael Wigglesworth’s The Day of Doom (1662), and Lorenzo Scupoli’s The Spiritual Conflict (translated from the Italian in 1613)—which could have served as models for his own poem of spiritual combat. A possible source for the psychological aspects of Taylor’s poem, and one much closer to home, is William Ames’s Conscience with the Power and Cases thereof (1639), a copy of which (in Latin) was in Taylor’s library. Ames’s psychological profile of the devil as one who tempts men to damnation by convincing them they are not of the elect is similar to Taylor’s concept of Satan. Sermons and tracts depicting what John Downame called Christian Warfare (1633), that is the clash between personified virtues and vices, were numerous in Taylor’s day, and despite what some scholars have suggested, they probably had more influence on the poem than did the morality plays or the Elizabethan drama.
Gods Determinations touching his Elect … is a dramatization of Taylor’s Calvinistic religious beliefs concerning predestination, creation, the nature of God, original sin, saving grace, redemption through faith in Christ, the division of mankind into the damned and the elect, and the joys of eternal salvation. There is some allegory, and the devil reminds us of the personified vices of the morality plays, but the poem is not an exercise in symbolism nor in Neoplatonism. Heaven and hell are depicted as real places. Christ, Satan, and the angels may sometimes take on the physical attributes of real persons.
The major part of the poem depicts the various methods by which God, through Christ, brings salvation to the elect. The struggle for their salvation is dramatically presented as a combat for the souls of the elect between Mercy and Justice on the one hand and the devil on the other. The effect of sin on natural man and the combats for his redemption are graphically presented, often in a colloquial, down-to-earth style. Of disobedient man’s terror of God’s wrath Taylor writes:
Then like a Child that fears the Poker Clapp
Him on his face doth on his Mothers lap
Doth hold his breath, lies still for fear least hee
Should by his breathing lowd discover’d bee.
Satan, raging at those of the elect who deserted him for Christ, says that now they have two enemies—God and Satan—both of whom will never trust them: “You’l then have sharper service than the Whale, / Between the Sword fish, and the Threshers taile.”
For the modern reader the most interesting part of the poem, perhaps, is to be found in what Taylor calls “Satans Sophestry,” in the devil’s psychological warfare against those who may wish to think of themselves as the elect. His temptations range from appeals to the baser passions to the attempt by subtle arguments to insinuate doubts in the soul’s assurance of saving faith. One of his most insidious arguments is that, if a person has any doubts at all about the possibilities of his spiritual regeneration, then he is not one of the elect because God is supposed to give the elect assurance of saving faith. On the other hand, if a person believes he is assured of saving faith, then he (poor sinner that he is) is guilty of pride, the cardinal sin, and so damned. Another line of attack is to convince the sinner that his so-called love of God is really love of self (a sin) and that his real motivation is fear of hell and desire for the joys of heaven. A third method of attack is what Taylor calls the “ath’istick Hoodwinke”—that the attributes of the Christian God—his ubiquitousness and his incarnation in “a mortal clod”—are contrary to reason and to common sense and that in fact God does not exist. These arguments and many more were probably suggested to Taylor by such books as William Ames’s Conscience with the Power and Cases thereof.
Gods Determinations touching his Elect …, unlike Milton’s Paradise Lost, is a “dated” poem, quite obviously of its period. It does not have the universal and permanent appeal of Milton’s epic, nor can Taylor at any time equal the skill of Milton’s blank verse. The poem is like an anthology of poems written in various meters and in various styles, sometimes colloquial, sometimes ornate, sometimes plain and direct, but it is given coherence and dramatic effectiveness by a single theme (the redemption of the elect) and a single narrative line (the rise of the elect from anguish and despair to the glories of heaven).
At about the same time he was writing Gods Determinations touching his Elect …, Taylor was also composing a series of occasional poems. Only one can be dated precisely—“Upon the Sweeping Flood Aug: 13:14. 1683.” This, the most powerful of the series, has been widely admired. (Joyce Carol Oates used its title as the title for a collection of her short stories.) The flood, which Taylor refers to in his church record, is given allegorical and religious significance: the storm and flood were sent by God to drown man’s carnal love, for the sins of man have acted as a purge on the heavens. Allegorizing natural events, “occurants” as Taylor called them, was habitual among Puritan writers. Several other occasional poems are also allegorical. The spider in “Upon a Spider Catching a Fly” is the devil destroying sinful, natural man, and in “The Ebb and Flow” the tide suggests Taylor’s rising and falling expectations of election. Allegory occurs also in Taylor’s most moving occasional poem, two stanzas of which, published in Cotton Mather’s Right Thoughts in Sad Hours … (1689), were the only lines by Taylor to appear in print during his lifetime. “Upon Wedlock and Death of Children,” written in 1682 or 1683, refers to the deaths of two of his children and to his marriage to Elizabeth Fitch, which he calls a “True-Love Knot.” The word knot has the 17th-century meaning of “garden” as well as the modern meaning. Because theirs is true love, the knot can never be untied; it is a Gordian knot. From this garden sprang four flowers, two of which grew to maturity, two of which died: “But oh! the tortures, Vomit, screechings, groans, / And six weeks Fever would pierce hearts like stones.” But Taylor’s grief is assuaged with the acceptance of God’s will:
Lord, theyre thine.
I piecemeal pass to Glory bright in them.
I joy, may I sweet Flowers for Glory breed,
Whether thou getst them green, or lets them seed.
In 1682 Taylor embarked upon Preparatory Meditations before my approach to the Lords Supper, a series of more than two hundred poems grouped in two series written, “Chiefly upon the Doctrin preached upon the Day of administration.” Unpublished until the 20th century, the poems are a private spiritual diary of great significance to our understanding of the religious and psychological history of the period. The poems are uneven in poetic merit and frequently repetitious in theme and diction, but a few of them are written in the metaphysical and baroque style and may properly be considered the last exemplars of the metaphysical school.
In his imagery Taylor frequently made use of the metaphysical conceit of what Samuel Johnson called, in commenting on Donne, discordia concors “a combination of dissimilar images … the most heterogenous ideas are yoked by violence together.” But Taylor is sometimes even more fantastic than Donne. His imagery may be as extravagant as that of Crashaw or the now-forgotten poet John Cleveland, whom Taylor mentions in his poem on Pope Joan. Today we would call such yoking of images surrealistic, as in his famous line “Should Stars Wooe Lobster Claws.” The strongest influence from the metaphysical school is George Herbert, an Anglican poet and preacher, widely respected by the American Puritans in spite of doctrinal differences and especially admired by Taylor, who was perhaps at his best when writing under Herbert’s influence, as in meditation six of the first series, “Am I thy Gold?”
In his diction Taylor combined the colloquial with the cosmic (again like Donne), employing abstruse theological or philosophical terms with the homely idiom of the farm or the weaver’s trade. The line “My tazzled Thoughts twirld into Snick-snarls run” illustrates his fondness for “domestic diction” and also the influence of the 16th-century rhetorician Petrus Ramus, the followers of whom eschewed the ornate style and, like Emerson later, preached that the poet should “fasten words to things.” Taylor’s frequent use of the plain style is Ramist. His occasional employment of the ornate style is derived from the King James version of the Bible, and especially from the Song of Solomon, which Taylor loved and which had a pervasive influence on his last meditations. Taylor also employed, sometimes to excess, the various rhetorical devices of the 16th- and 17th-century handbooks such as irony, synecdoche, metonymy, meiosis (diminishing), and amplification. He was especially fond of amplification, which combined with ploce (repetition of a word) and polyptoton (repetition of a word root) results in what Yvor Winters has called “a punning piety.” In meditation 2.48 he writes with reference to the devil and the powers of darkness:
Their Might’s a little mite, Powers powerless fall.
My Mite Almighty may not let down slide.
I will not trust unto this Might of mine:
Nor in my Mite distrust, while I am thine.
In the emblem tradition as it appears in the poetry of Francis Quarles (1592–1644), a poet the Puritans admired, a poem makes a moral, epigrammatic comment on a picture that illustrates a theological or philosophical idea. The tradition is also evident in Taylor’s verse, most obviously “Upon a Spider Catching a Fly,” where the spider in his web symbolizes the devil. Typology as used in biblical exegesis—an object, event, or person in the Old Testament (the type) foreshadows an object, event, or person in the New Testament (the Antitype)—is also pervasive, especially in the meditations of the second series. The Jewish Passover considered as a type of Christian Communion, or Lord’s Supper as Taylor called it, is one of Taylor’s favorite constructs.
Taylor’s meditations are an important part of a long tradition of meditation writing in verse and prose, beginning, as far as verse is concerned, with Robert Southwell and continuing through John Donne, George Herbert, Richard Crashaw, Henry Vaughan, Andrew Marvell, Thomas Traherne, and, finally, Taylor. Richard Baxter’s treatise, The Saints Everlasting Rest (1650), which had considerable influence on meditation writing in verse, advocated an orderly method of meditation involving the three faculties of the soul—memory, understanding, and will (the emotions) in that order. Louis Martz has shown in his introduction to Donald E. Stanford’s edition of Taylor’s poems that some of Taylor’s Preparatory Meditations … are organized according to this tripartite division. Frequently the Puritan poet appears to be following another threefold pattern—despair as he contemplates the sins of mankind and his own personal sin, joy when he thinks of Christ’s promise of redemption to the elect, and hope and resolution when he considers the possibility that he too may be one of the elect. There are also many meditations that appear to have no preset pattern. Taylor was writing at the end of, that is during the decadence of, the meditative tradition, and his poems usually do not have the closely-knit logical organization of the best poems of Donne and Herbert.
Of the more than 200 meditations, a number appear to be independent or occasional poems, but some form well-defined, coherent groups. The central theme of the 49 poems of the first series is love—the divine love of God and Christ for man as proven by Christ’s saving grace to the elect and, conversely, the human love that the elect should have for Christ and God. Three unnumbered poems, entitled “The Experience,” “The Return,” and “The Reflexion,” which Taylor placed among his first meditations, graphically depict the minister-poet’s love of Christ, and one of them, “The Reflexion,” presents what appears to be a mystic moment in which Taylor actually saw a vision of Christ at the Communion table:
Once at thy Feast, I saw thee Pearle-like stand
‘Tween Heaven, and Earth where Heavens
Bright glory all
In streams fell on thee, as a floodgate and,
Like Sun Beams through thee on the
World to Fall.
The experience may have been the inspiration for the first series of preparatory meditations. The meditations consist of poems contemplating the truths of the scripture as seen typologically; attacks on the various “heresies” which are not in agreement with his view of Christ’s perfect humanity and divinity; and moving statements of Taylor’s belief in the perfect humanity and perfect divinity of Christ. Toward the end of his life Taylor wrote a series of meditations (series two, 115–133) on sequential texts from the Song of Solomon, or Canticles, which many Christians of the 17th century considered to be an allegorical poem celebrating the “wedding” of Christ with the members of his church. Taylor adopts the view of Origen, a church father whom he greatly admired, that Canticles may be interpreted as a celebration of the wedding of Christ with the individual soul. In these moving poems, heavily influenced by the diction and imagery of the Bible, Taylor meditates on his union with Christ with almost mystical intensity.
In 1688, when he heard that Stoddard was about to allow unregenerate sinners to partake of the Lord’s Supper, Taylor sent him a letter opposing the move. Stoddard laconically replied that he was not at leisure to go into the reasons for his innovation and then proceeded to liberalize the communion service in the manner Taylor feared. The church at Northampton appears to have followed Stoddard’s practice until his grandson, the great Calvinist preacher Jonathan Edwards, returned to the conservative restrictions of former days, a decision which was eventually instrumental in his being discharged of his duties as pastor of that church and sent out to preach to the Indians. The controversy over Stoddard’s practice was widespread and bitter; yet it was engaged in by some of the chief pastors of the period, including Increase and Cotton Mather.
In 1690 Taylor entered in his commonplace book six syllogisms arguing that the Lord’s Supper is not a converting ordinance, and in this same year, after reading a sermon by Stoddard defending his practice, he wrote in his book 34 pages of animadversions against Stoddard. He made use of this material in 1694 in his series of sermons preached on his own doctrine of the Lord’s Supper. In the course of these sermons he continually attacks Stoddard for destroying a precious sacrament.
The first Mrs. Taylor died on July 7, 1689. Taylor’s moving elegy on her describes the joys and griefs of their married life, especially those caused by the deaths of their children, and his own grief at the death of the children’s mother:
Five Babes thou tookst from me before this Stroke.
Thine arrows then into my bowells broake,
But now they pierce into my bosom smart,
Do strike and stob me in the very heart.
On June 6, 1692, Taylor married Ruth Wyllys of Hartford, who survived him.
Late in 1697 Taylor engaged in controversy with Benjamin Ruggles, pastor of the church at Suffield in the Bay Colony, who began to express what Taylor considered to be dangerous Presbyterian views, dangerous not for doctrinal reasons—for the doctrines of the two churches were almost identical—but because Presbyterianism would deprive the independent Congregational minister of power over his church and place it in the hands of a church synod. Taylor’s struggle against the establishment of Presbyterianism in New England is described in the Westfield church record and is referred to in his poem on the death of Samuel Hooker (circa 1635–1697), minister of the Congregational church in Farmington, Connecticut. In this most powerful of all of Taylor’s elegies Ruggles is referred to as one of several “Young Cockerills” and Presbyterianism is called “refined Prelacy at best.” The next year Taylor wrote an elegy on his sister-in-law Mehetabel Woodbridge. On January 18, 1701 James Taylor, Taylor’s son by his first wife, died in Barbados. The poet refers to his death in meditation 2.40: “Under thy Rod, my God, thy smarting Rod, / That hath off broke my James, that Primrose, Why?” In the same year Taylor began, on August 31, a series of fourteen sermons, entitled Christographia, on the nature of Christ’s person and the unity of the divine and human natures in Christ. The series was finished on October 10, 1703. In his day, Taylor had a reputation for pulpit eloquence. His Harvard classmate Samuel Sewall wrote in his Letter-Book, “I have heard him preach a sermon at the Old South upon short warning which as the phrase in England is, might have been preached at Paul’s Cross,” Sewall, who lived in Boston, had access to the best preaching of the day. Taylor’s poetry was almost completely unknown in his lifetime, but now that almost all of Taylor’s extant poetry and prose have been published, it seems unlikely that his reputation as a preacher will ever equal his reputation as a poet. In his sermons he never exhibits the power and the beauty of the great Calvinist preacher Jonathan Edwards.
In structure and style his sermons are in the tradition of the Puritan preaching of his time. There is usually a three-fold structure—doctrine, reason, and use—or as Taylor put it on the title page of Christographia, each sermon is “Opened, Confirmed, and Practically improved.” The purpose of the Puritan sermon was to explain the scripture and to instruct the congregation in the practical application of scriptural doctrine. Taylor came naturally to the plain style he employed, for most Puritan divines preferred it to the learned and ornate style of the Anglican preachers. Yet he was also preaching to a congregation of poorly educated farmers for whom a plain style and at times colloquial diction were necessary. He refers to the Quakers as “the old Clucking hen of antichrist” and to natural man as “a mushroom.” In his attacks on Stoddard he refers to the Communion bread: “Hands off: its Childrens bread; a Crumb of it may not fall to dogs. But all of it belongs to every Child in the Family.” However, Taylor’s talent as a poet sometimes appears in his sermons, especially in passages depicting the sweetness of saving grace and the mystical union of Christ and the believer.
In June 1705 the bones of a “monster” were discovered at Claverack on the bank of the Hudson River near Albany, New York. The discovery caused considerable excitement, and accounts of the remains appeared in the Boston News-Letter and several years later in the Philosophical Transactions of the Royal Society. At the time their discovery was considered proof of the existence of giants in the earth before the flood. Today the bones are thought to be mastodon remains, the first to be discovered in America.
At least two of the teeth were brought to Taylor in Westfield for examination. He claimed that one weighed five pounds, the other two. Combining this evidence with the report that a 17-foot-long thigh bone had also been discovered and that the ground was discolored for 70 feet, Taylor constructed in his imagination a marvelous giant 70-foot-tall and described him in a remarkable poem of 190 verses, entitled “The Description of the great Bones dug up at Claverack …” Taylor, like his contemporaries Increase and Cotton Mather, had a fondness for prodigies and remarkable providences.
Early in the 18th century (the exact date has never been determined) Taylor began a long poem that eventually ran to well over 20,000 lines. The first part of the poem presents the sufferings and persecutions of the Christians from the beginning until the 12th century, and, after a lacuna in the manuscript, there is an account of the martyrdoms of Queen Mary’s reign in England. The poem is untitled. Donald E. Stanford, who in 1960 made and later published a transcript of the poem, called it A Metrical History of Christianity. The primary sources are the Magdeburg Centuries (1567–1574) of Matthias Flaccus and the well-known book Actes and Monuments of these Latter Perilous Days, first published in English in 1563 and usually known as The Book of Martyrs by John Foxe. Written in decasyllabic couplets and in eight other verse forms, Taylor’s long and frequently tedious poem is uneven in literary merit, varying from the crudest doggerel to exalted hymns to God’s grace. There are a few powerful lines on the operation of God’s justice, but there are also unnecessarily detailed descriptions of the physical agonies of the martyrs and some extremely vitriolic language in several attacks on the Papacy reminiscent of the pamphlet war of the previous century.
Taylor was ill and enfeebled in the final years of his life, but he persisted in writing poems until almost the end. “Upon my recovery out of a threatening Sickness,” which begins, “What, is the golden Gate of Paradise / Lockt up ‘gain that yet I may not enter?,” was written in December 1720. In January 1721 he composed “A Valediction to all the World preparatory for Death,” a flawed, eccentric, but moving, poem (which exists in several heavily corrected versions). In it Taylor bids farewell to the physical world including the stars, sun, moon, and air, while he eagerly anticipates the joys of singing, above the angels, God’s praises in heaven. Throughout the eight cantos he enumerates in vivid detail the pleasures and sorrows of earthly life, including his “study, Books, Pen, Inke, and Paper,” all of which he is about to relinquish for his life in a heaven which he believes in and depicts with absolute conviction:
When I’ve skipt ore the purling Stile with joy
Twixt Swift wing’d Time and Fixt Eternity
And am got in the heavenly strand on High
My Harp shall sing thy praise melodiously.
In 1723 Taylor wrote his elegy on Increase Mather (1639–1723), who had died on August 23. The long title begins “Increase Mather,” Mather is praised as a champion of Congregational orthodoxy, and his opponents, especially the Roman Catholics who made Mather “their Maypole Music,” are denounced at some length. Timothy Cutler, a rector of Yale University who defected to Anglicanism, is more briefly dismissed: “Cutler’s Cutlery gave th’ killing Stob.” In October 1725 Taylor wrote his last preparatory meditation, which begins: “Heart sick my Lord heart sick of Love to thee!” During his final years Taylor composed a scurrilous attack upon the so-called Pope Joan, the legendary Pope John VIII of the 9th century, who according to some Protestant apologists was a woman disguised as a man. The myth had wide circulation from medieval times through the 17th century. The poem is in six versions or drafts and several fragments, indicating that Taylor spent more time on the poem than it was worth.
Taylor died on June 24, 1729 and was interred in the old burying ground at Westfield, Massachusetts. His interesting tombstone, engraved with the face of a primitive angel, fell into disrepair but has now been reconstructed.
Poesie scelte di Emanuel Carnevali–un poeta all’inferno-
ADELPHI EDIZIONI
Emanuel Carnevali
Risvolto-Descrizione del libro di Emanuel Carnevali-un poeta all’inferno-ADELPHI EDIZIONI-Come Dino Campana, Emanuel Carnevali ha avuto il destino di un ‘poète maudit’: nato a Bologna nel 1897, partì da ragazzo per gli Stati Uniti, che dovevano diventare, per lui, il luogo simbolico della vita e della letteratura. Passò attraverso numerosi e umili mestieri («raccogliere cicche per strada non fu certo la cosa più spregevole a cui mi ridussi») finché lo incontriamo nella cerchia degli scrittori americani di punta in quegli anni. Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon lo accolsero come uno dei loro, con ammirazione e insieme sconcerto dinanzi a questo difficile e imprendibile personaggio, e inclusero subito testi suoi nelle loro celebri antologie e riviste. Carnevali scriveva in inglese, la sua unica lingua era quella dell’esilio, e portava così nella poesia americana un soffio selvatico, di cui fu avvertita la novità. Il suo destino era tragico: nel 1922 fu colpito da encefalite e dovette tornare in Italia. Trascorse in un ospedale vicino a Bologna gli ultimi anni della sua vita, e lì ancora lo raggiungevano le lettere dei suoi amici americani. In questo volume abbiamo voluto raccogliere le parti più significative della sua opera, finora inedita in italiano. Innanzitutto il romanzo Il primo dio, una prosa di febbrile intensità, carica di immagini, di sogni, di angosce, di camere mobiliate, l’autoritratto di un nomade, braccato dalla vita, che ci lascia sbalorditi per la modernità del suo accento. Poi una scelta dalle sue poesie: anche queste ‘eccentriche’, rispetto all’America e tanto più rispetto all’Italia, scritte in una lingua reinventata con felicità e uno strano candore, leggere e disperate. Infine alcune prose critiche, da cui apparirà l’ottica singolare di questo ‘poeta maledetto’, insofferente delle raffinatezze formali e compositive dei suoi amici americani, lui che si sentiva preso in un terribile risucchio verso la morte. Nel loro disordine e nella loro amarezza, i testi di Carnevali hanno un suono ‘giusto’ che percepiamo solo oggi, come quello di chi poteva essere uno dei grandi scrittori italiani di questo secolo e invece giunge filtrato da un’altra lingua, da un’altra storia, e pur sempre come un’emozionante scoperta.
Emanuel Carnevali
3 poesie di Emanuel Carnevali
Menzogne colorate
I
Le case in lunga schiera
hanno rosse facce arse dal vento.
Queste bare d’aria immobile
con sguardo ottuso e stupido
se l’intendono con i venti che soffiano
un bell’insulto sulle loro facce-
vecchie zitelle
ingoiano con dignità l’odio
verso il passo vanitoso
di alte ragazzine dalle gonne ondeggianti.
Hanno rosse facce arse dal vento.
Tentano con dignità
di sorridere
una rossa menzogna
per un momento
in lunga schiera
mentre soffiano i venti.
II
Uomini vestiti di blu, nero e grigio
questi sono i tre colori del cielo.
Odio, amore e bontà pigiati nello spazio
di una giacca mal abbottonata.
Poiché il cielo
guardando giù
tanto dolcemente
chiederà a questi uomini la ragione,
queste piccole, indaffarate cose sotto la giacca
nasconderanno il disagio,
e strisceranno via
in abiti blu, nero e grigio-
tre colori di menzogna
per tradire
lo sguardo gentile del grande cielo innocuo…
Oh l’intrusione
confonderebbe
lo stomaco degli uomini,
striscerebbero via
armati di bugie nere blu e grigie.
(Gennaio 1918)
*
Quando è passato
L’amore lo pensavo come un lungo giro in battello
su un lago tranquillo: intorno
i salici lasciavano cadere le loro fronde
in acqua;
e tra quelle fronde, i raggi
che il sole dimenticava andandosene
erano tutto un indaco-rosa-viola-blu.
Ma ora che è finito so che era una corrente
impetuosa, e ruggendo distruggeva tutto, tutto.
Nell’anima mia, mi resta soltanto un cespuglio
che oscilla e ondeggia nel vento come la chioma di una strega.
Sibila e bestemmia il vento come il braccio tremendo di una strega:
la memoria.
(Marzo 1918)
*
Ai poeti
Essenze di ogni bellezza popolare
violini dalle corde vibranti
lunghe, soffici, delicate armonie-
anche se sfiorati dalle ruvide dita del mondo,
anche se sfiorati dalle fredde dita del dolore-
pensate al giorno in cui, dormendo nelle vostre tombe,
sarete svegliati dal tuono delle vostre voci
e dal vento forte e gelido della vostra musica:
poiché nel suolo fertile degli anni
le vostre voci fioriranno mutando in tuono,
la vostra musica muterà in vento che monda e genera.
(Marzo 1918)
Emanuel Carnevali
BIOGRAFIA di Manuel Federico Carlo Carnevali nacque a Firenze il 4 dicembre 1897 in via Montebello 11, da Tullio Carnevali (Lugo di Romagna, 1869), ragioniere-capo di prefettura, e da Matilde Piano (Torino, 1873). Emanuel, Em o Manolo, come veniva alternativamente chiamato, venne al mondo dopo che i genitori si erano separati; dopo l’infanzia trascorsa tra Pistoia, Biella e Cossato e dopo la morte della madre (1908), venne messo in collegio dal padre che, risposatosi, volle che raggiungesse la nuova famiglia a Bologna. Nel 1911 Emanuel vinse una borsa di studio del Collegio Marco Foscarini di Venezia e vi trascorse quasi due anni, prima di esserne espulso. Nel 1913 fece il suo ingresso nell’Istituto Tecnico “Pier Crescenzi” di Bologna, dove fu allievo del critico letterario e narratore Adolfo Albertazzi. Questo rapporto col maestro, non del tutto pacifico, rappresenterà per Carnevali un’iniziale conferma della sua vocazione letteraria.
Come racconta lui stesso nel suo romanzo Il primo dio, scritto in inglese e tradotto in italiano dalla sorellastra Maria Pia (figlia di suo padre e della nuova moglie) per i continui litigi con il padre che lui considerava autoritario e troppo reazionario, decise di emigrare negli Stati Uniti nel 1914, a soli 16 anni. Emanuel partì da Genova sul Caserta il 17 marzo 1914 e arrivò a New York il 5 aprile.
Visse quindi fino al 1922 tra New York e Chicago, all’inizio senza conoscere una sola parola d’inglese ed esercitando lavori saltuari: lavapiatti, garzone di drogheria, cameriere, pulitore di pavimenti, spalatore di neve ecc., e soffrendo fame, abietta miseria e privazioni di ogni sorta. Col tempo imparò la lingua (leggendo le insegne commerciali di New York), cominciò a scrivere e ad inviare i suoi versi a tutte le riviste che conosceva. Inizialmente rifiutate, le sue poesie cominciarono man mano ad essere pubblicate ed Emanuel a farsi conoscere nell’ambiente letterario, diventando amico di diversi poeti, tra cui Max Eastman (1883-1969), Ezra Pound, Robert McAlmon (1896-1956), e William Carlos Williams (che lo nomina nella sua Autobiography del 1951).
Dimenticato dalla critica e dal pubblico, ha lasciato un piccolo, ma tagliente e forte segno nella letteratura americana del Novecento. Pur vivendo quasi in miseria, passando da un lavoro all’altro, e da un amore all’altro, frequentando prostitute e teppistelli, riuscì a partecipare, da straniero, al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana dell’epoca.
Sherwood Anderson si ispira a lui quando scrive il racconto Italian Poet in America (1941). Le sue poesie vengono pubblicate dalla rivista “Poetry Magazine”, fondata nel 1912 e diretta da Harriet Monroe (1860-1936) e di cui diventa lui stesso, per un breve periodo, vicedirettore.
Fu autore dei racconti Tales of an hurried man (1925), poi lasciò New York ed Emilia Valenza, la ragazza d’origine piemontese che aveva sposato nel 1917 e che viveva con lui nell’allora malfamato “East Side” di Manhattan, per andarsene a Chicago, dove visse ancora in stenti traducendo e collaborando a «Others».
Le sue lettere a Benedetto Croce e a Giovanni Papini verranno poi pubblicate col titolo Voglio disturbare l’America (1980), a cura di Gabriel Cacho Millet, il quale ha anche raccolto i Saggi e recensioni e il Diario bazzanese.
Colpito da una malattia nervosa, l’encefalite letargica, nel 1922 ritornò in Italia, dove visse gli ultimi vent’anni fra l’ospedale e varie pensioni di Bazzano, il Policlinico di Roma e la clinica bolognese Villa Baruzziana, e dove continuò a scrivere, come sempre, in lingua inglese.
Placca in memoria di Emanuel Carnevali nel Chiostro delle Madonne della Certosa di Bologna.
Morì l’11 gennaio 1942 nella Clinica Neurologica di Bologna, soffocato da un boccone di pane. Due giorni dopo venne sepolto a Bologna nel cimitero della Certosa.
Opera
Durante la sua vita è stata pubblicata solo la raccolta di racconti Tales of an Hurried Man nel Contact Editions di Robert McAlmon, Paris 1925, di cui è uscita solo nel 2005 una versione italiana col titolo Racconti di un uomo che ha fretta.
Il romanzo autobiografico Il primo dio è stato pubblicato postumo nel 1978, a cura di Maria Pia Carnevali e ha vinto il Premio Brancati.[1]
Riconoscimenti
A lui è dedicata la canzone Il Primo Dio[2] dei Massimo Volume (contenuta nel loro disco Lungo i bordi), ed una sua poesia (Almost a God) è stata musicata dalla band Movie Star Junkies.
Il Comune di Bazzano, la Fondazione Rocca dei Bentivoglio di Bazzano e l’Archivio storico comunale di Bazzano hanno pubblicato Sono un vagabondo e semino parole da un buco della tasca, a cura di Aurelia Casagrande, Bazzano: Quaderni della Rocca, 2008. Presso il Comune di Bazzano è conservato l’archivio delle carte dello scrittore Carnevali acquisite dalla famiglia da parte del Comune di Bazzano e ora conservate nell’archivio comunale.
Il gruppo musicale Acustimantico ha pubblicato un cd che si chiama “Santa Isabel” con la canzone Em, ovvero Emanuel Carnevali va in America (I Palombari, 2004).
Il cantautore Bobo Rondelli nell’album “Come i carnevali” (Picicca Dischi / The Cage marzo 2014) apre la raccolta con la canzone “Carnevali” che, nella terza di copertina, è spiegato essere “ispirata e dedicata a Emanuel Carnevali (Semino parole da un buco della tasca…)”
Tra le folle di migranti che agli inizi del secolo scorso sbarcarono a Ellis Island, si nascondeva un grande poeta proveniente dall’Emilia.
Emanuel Carnevali lascia Bologna e sbarca a New York il 5 aprile 1914 per sfuggire a un padre autoritario che “nasconde un cuore nero”. Cacciato dal collegio in cui studiava a Venezia e rimproverato dal genitore per le assenze dalla scuola di Bologna, “Manolo” arriva in America a soli 16 anni, come Rimbaud all’epoca delle prime fughe a Parigi. A New York il ragazzo di Bologna non conosce nessuno, se non il fratello che lo raggiunge due settimane dopo e con il quale litiga subito. Comincia un’esistenza di lavori saltuari e camere ammobiliate: fa il cameriere, il lavapiatti, il garzone di drogheria, lo spalatore di neve, e impara l’inglese in strada decifrando le insegne pubblicitarie. Nel 1917 legge avidamente i poeti francesi e scrive il suo primo verso in inglese: Love is a mine hidden in the mountain of our old age. Manda le sue prime poesie alle riviste, regolarmente rifiutate, e cambia lavoro in continuazione vivendo di espedienti. Fa amicizia con un francese, aspirante scrittore, Louis Grudin, che lo introduce alla letteratura americana e con il quale visita alcuni importanti scrittori americani come Max Eastman e Louis Untermeyer. A settembre The Seven Arts gli pubblica un paio di poesie.
Il mese dopo Carnevali conosce una sua vicina di camera, una piccola piemontese emigrata, e la sposa. Per la prima volta ha una casa, anche se nel malfamato East Side. Nel marzo 1918 la prestigiosa rivista Poetry diretta da Harriet Monroe lo premia per una serie di poesie, grazie alle quali entra in contatto con i grandi intellettuali del tempo: William Ca
rlos Williams, che gli dedica l’intero ultimo numero della rivista Others (luglio 1919), Ezra Pound, Edgar Lee Masters, Carl Sandburg, Sherwood Anderson.
Carnevali traduce in inglese Croce, Papini e i nuovi poeti italiani, pubblica un saggio su Rimbaud, collabora a riviste, ma rimane uno sradicato, un nomade braccato dalla vita, un poeta maledetto. Febbrile, selvatico, con una certa affinità di stile ed esistenziale con Dino Campana, tradisce la moglie con avventure occasionali, la abbandona a New York – e non la rivedrà mai più – per trasferirsi a Chicago, chiamato da Harriet Monroe come vicedirettore di Poetry. Fa q
ualche lavoretto per campare, senza mai riuscire a liberarsi della sua congenita instabilità. Si innamora di una ragazza ebrea, e quando questa nel febbraio 1920 lo lascia per trasferirsi a New York, anche lui abbandona il poco che aveva conquistato, come l’incarico alla rivista, e vaga di notte per le strade di Chicago facendosi mantenere dalle prostitute.
Cominciano le prime crisi di nervi. Ricoverato per sospetta sifilide nel reparto psicopatici del St. Luke’s Hospital, grazie all’aiuto di un gruppo di amici viene trasferito in una clinica privata. Dimesso, gli trovano un posto di giardiniere al Lincoln Park, che deve abbandonare per la sua debolezza. Chiede allora di essere mandato alle dune dell’Indiana: lì – scrive – “la solitudine era tutto ciò che possedevo”. Passata l’estate del 1920, torna a Chicago dove vive chiedendo l’elemosina. A Milwaukee, invitato per una lettura delle sue poesie, si ferma e va a dormire all’ospedale. Ricacciato a Chicago dalle autorità, trova altri effimeri lavori. Scrive a Williams: “Caro Bill, ora sono una miseria ambulante”. Nel giugno 1921 riparte per le dune del lago Michigan, dove si costruisce una capanna e vive quasi da selvaggio. Poi fa di nuovo rotta a Chicago, mendicante tra i mendicanti. Nel gennaio 1922 è ancora in ospedale: trema tutto, non riesce a fissare l’attenzione su niente. La diagnosi sarà terribile: encefalite letargica. L’ultimo suo lavoro è quello di trasportare sacchi di tappi di sughero da una parte all’altra di Chicago. Dopo, si abbandonerà completamente alla malattia.
A New York, Grudin lo aspetta al porto per salutarlo. Emanuel torna in Italia grazie al viaggio pagato dal padre: “piegato su se stesso, calmo, tremante, incapace di accendersi una sigaretta” – racconta l’amico. La sera dell’11 settembre 1922 è a Bologna. Il padre, commissario prefettizio a Bazzano, lo fa ricoverare all’ospedale di questa cittadina a 30 km da Bologna. Nel 1923 Em, come lo chiamavano in America, riceve in dono dai suoi amici d’Oltreoceano una macchina da scrivere, e l’anno seguente lo scrittore ed editore Robert McAlmon gli paga un anno di soggiorno a Villa Baruzziana a Bologna. Nel ’25 McAlmon, raccogliendo gli scritti di Carnevali sparsi per le riviste americane, pubblica A Hurried Man. Tra il ’26 e il ’36 Carnevali è sistemato in due pensioni di Bazzano (nel ’28 scrive A History, un diario bazzanese). Gli amici americani non lo dimenticano: in molti vengono a trovarlo a Bazzano, tra cui Ernest Walsh nel ’24, la Monroe nel ’29 e Pound, che nel ’36 gli porta in dono una radio. Ridotto in condizioni pietose da anni di malattia, Carnevali muore nella Clinica Neurologica di Bologna nel 1942, soffocato da un pezzo di pane. L’editore Adelphi nel 1978 fa uscire Il primo dio, che comprende l’omonimo romanzo autobiografico, una scelta di poesie, alcuni racconti, scritti critici e testimonianze. Quel che colpisce, è la ventata di novità, l’urgenza e la selvatichezza che Carnevali introduce nella poesia americana. Scrive in inglese, la lingua dell’esilio, spinto dall’entusiasmo barbarico di chi arriva dalla periferia. Lui, il “poeta delle camere ammobiliate”, è riconosciuto da Williams come “il poeta nero, l’uomo vuoto, la New York che non esiste”. Con la sua lingua raccolta per strada, costringe gli anziani poeti a liberarsi della tecnica, a uscire allo scoperto nella vita, come un topo che scivoli fuori dalle immondizie di New York. Disceso all’inferno, Em, il “miserabile ragazzo sperduto nel sudiciume” che ha scoperto la poesia nei retrocucina dei ristoranti (“Quante volte nelle strade di Manhattan / ho scagliato il mio odio!”), ne riemerge come lo sciamano che ha visto la morte e riconosciuto dio.
Se la malattia, il tremore incessante in tutto il corpo, non l’avesse messo fuori campo a soli 25 anni, costringendolo a giocare di rimessa con le parole e con le sue intemperanze, la Certosa di Bologna custodirebbe oggi i resti di uno dei più grandi scrittori del Novecento.
Poemas de Maria do Rosário Pedreira- Poetessa e scrittrice portoghese-
Maria do Rosário Pedreira è un’editrice, scrittrice, poetessa e paroliera portoghese. Laureata in Lingue e letterature moderne, con specializzazione in studi francesi e inglesi, ha insegnato per cinque anni negli anni ’80.Nel 1987 diventa editrice grazie all’impegno del prof. Antonio Manuel Baptista, iniziando questa attività nel campo dei libri di divulgazione scientifica.
Non c’è piùnessun nome
Non c’è più nessun nome. Dopo di te mi destinarono solo nomi che non amai, volti sui quali non volli posare gli occhi per paura di fissarli, mani che erano sempre l’ombra delle tue mani sotto le lenzuola. Mai neanche le vidi né toccai quelle dita che, nel buio, celebravano nella mia la tua carne – se un altro motivo le portò, per quanto vago, anche non volli udirlo, mai lo seppi. Dopo di te, dopo gli altri uomini, è ancora il tuo nome che dico. E nessun altro.
Lascia il tempo cadere sul tuo nome
Lasciai cadere il tempo sul tuo nome, come si adagia il marmo sulla terra e l’acqua si sparge sulle braci. Mi vestii di lutto come le donne che disfano le culle vuote da tanto le guardano; e vidi il sangue scendere finalmente sulla ferita, come la cera che si rapprende sul palmo della mano prima di perdersi nelle dita in polvere. Se ti dimenticai, fu perché volli qualcuno che mi chiamasse, un corpo che fosse un altro sul mio corpo, una voce offerta per la mattina. Ma niente, ma nessuno. Se il tempo non si fosse abbattuto sul tuo nome, avrei potuto almeno ora ricordarti – poiché non c’è lapide senza corpo né cenere che non abbia arso. E la casa è oggi più fredda che mai: lasciai passare il tempo sul tuo nome, e non c’è focolare, non c’è nido, non ci sono figli che si possano perdere da me, né candele per riempire di memoria questo silenzio.
So chi sei, ma mi manca il tuo nome
So chi sei, ma mi manca il tuo nome – né sempre le parole arrivano agli occhi. Ma non dare importanza: ci sono altre cose che non dimenticherò mai – le mie braccia ancorate al tuo corpo, una cecità, e il mondo improvvisamente tanto piccolo – e queste, tu non lo sai, mi mancano anche. Il tuo volto, dammelo per un secondo, La tua bocca, chiaro. Sono tanti gli anni senza te nelle pieghe della mia gonna, tanta vita custodita per un giorno così. Adesso ritorna, dunque. Lascia cadere quel sorriso delle tue labbra, – nelle mie deve distendersi come il sole, all’imbrunire, quando di nuovo sopra di loro respirerai con il profumo salato delle maree. Ma non dire niente del mio corpo stanco – è una camicia d’estate dimenticata sulla spiaggia, e l’abito è sempre il meno, tanto fa. Non vedi chi sono? Il tempo non può aver castigato solo il mio sguardo. Vieni più vicino e spia adagio: sono tanti gli anni senza le tue braccia nelle maniche del mio vestito, tanto sangue custodito nelle vene per una notte così. E tu già te ne vai?
Fra noi c’è una ferita
Fra noi c’è una ferita che ormai non sanguina, ma non si rimargina – un amore che dura ancora ed è perso. Se rimaniamo insieme, non vediamo mai passare la lamina del tempo, ma diventiamo sempre più vecchi di quando partimmo. Dicono che ci sono bende e bavagli tra di noi, ma sono tanti i lacci, tante le fasciature, che mi domando perché si allontanano gli occhi nel toccarsi, perché solo dice il silenzio ciò che non dura. Non ci sono parole possibili – fra di noi – il vento è sempre più vento nella camicia e il dolore più dolore nelle mani quando le sciogliamo. Ma niente di questo conta, perché gli occhi che ridono tanto nelle pieghe del vestito sono i più tristi del mondo se li guardiamo. So che mento quando paragono ciò che la vita ci rubò a ciò che ci ha dato; ma, se mi tocco e ormai non sono un corpo, mi limito a indovinare un nome per ciò che non sento e mi rifiuto di credere che sia il tuo.
Maria do Rosário Pedreira
Ho messo un abito scollato
Ho messo un abito scollato e non so se ritorni, ma le parole sono pronte sulle labbra come segreti imperfetti o germogli di acqua custoditi per l’estate. E, se di notte le ripeto in sordina, nel silenzio della stanza, prima di addormentarmi, è come se all’improvviso gli uccelli fossero già arrivati a sud e tu ritornassi in cerca di questi antichi messaggi lavati dal tempo: Andiamo a casa? Il sole dorme sui tetti la domenica e c’è un intenso odore di lino sparso sui tetti. Possiamo rivoltare i sogni al rovescio, dormire dentro il pomeriggio e lasciare che il tempo si occupi dei gesti più piccoli. Andiamo a casa. Ho lasciato un libro aperto a metà sul pavimento della stanza, sono sole nella scatola le vecchie foto del nonno, c’erano le tue mani strette con forza, quella musica che eravamo soliti ascoltare d’inverno. E io voglio rivedere le nuvole ritagliate nelle finestre rosse del crepuscolo; e voglio andare di nuovo a casa. Come le altre volte. E così mi preparo per il sonno, notte dopo notte, dipanando la lenta matassa dei giorni per scontare l’attesa. E, quando la nidiata allontanerà alla fine le ali della chiglia al suo primo volo, di certo mi troverò ancora qui, ma potrò dire che, per lo meno qualche volta, già inviai i messaggi, già dalla mia bocca udii queste parole, che tu ritorni o non ritorni.
Non ho saputo il tuo nome
Non ho mai saputo il tuo nome. Entrasti un pomeriggio, per sbaglio, a domandare se io ero un’altra persona – un sole che improvvisamente aggiungeva calce ai muri, un incendio capace di divorare il cuore del mondo. Non ti mentii; mi alzai e ti condussi alla porta giusta come un veliero trascina i sogni in mare; ma, prima di lasciarti, ti dissi ancora che in quel pomeriggio mi sarebbe piaciuto molto chiamarmi un’altra cosa – o essere un gatto, per poter avere più di una vita.
Il cammino fino a te
È sempre stato così incerto il cammino fino a te: tanti mesi di pietre e di spine, di cattivi presagi, di rami che graffiavano la carne come tridenti, di voci che mi dicevano che non valeva la pena continuare, che il tuo sguardo era già una menzogna; e il mio cuore sempre così sordo a tutto questo, sempre a gridare qualcos’altro più alto affinché le gambe non potessero ricordare le loro ferite, perché i piedi ignorassero le pene del viaggio e avanzassero tutti i giorni di un poco, quel poco che era tutto per raggiungerti. Fu per questo che, al contrario di te, non volli dormire quella notte: i tuoi baci si trovavano ancora tutti sulla mia bocca e il disegno delle tue mani sulla mia pelle. Io sapevo che addormentarsi era smettere di sentire, e non volevo perdere i tuoi gesti sul mio corpo un secondo che fosse. Allora mi sedetti sul letto a guardarti dormire, e sorrisi come mai avevo sorriso prima di quella notte, sorrisi tanto. Ma tu parlasti improvvisamente nel sonno, allungasti il braccio verso me e chiamasti sottovoce. Chiamasti due volte. O tre. E sempre così sottovoce. Ma nessuna fu per dire il mio nome.
Maria do Rosário Pedreira
A cosa mi è servito correre
A cosa mi è servito correre per tutto il mondo, trascinare, di città in città, un amore che pesava più di mille valigie; mostrare a mille uomini il tuo nome scritto in mille alfabeti e un’immagine del tuo volto che io giudicavo felice? A cosa mi è servito respingere questi mille uomini, e gli altri mille che fecero di tutto perché mi fermassi, mille volte pettinando le pieghe del mio vestito stanco di viaggi, o dicendo il tuo nome così bello in mille lingue che io mai avrei compreso? Perché era solo dietro te che correvo il mondo, era con la tua voce nelle mie orecchie che io trascinavo il fardello dell’amore di città in città, il tuo nome sulle mie labbra di città in città, il tuo volto nei miei occhi durante tutto il viaggio.
Si ricordava di lui
Si ricordava di lui e, per amore, anche se pensava a un serpente, avrebbe detto solo un arabesco; e avrebbe nascosto nella gonna il morso caldo, la ferita, l’impronta di tutti gli inganni, avrebbe fatto quasi tutto per amore: avrebbe dato il sonno e il sangue, la casa e la felicità, e avrebbe custodito silenziosi i fantasmi della paura, che sono i padroni delle piú grandi verità. Già un’altra volta aveva mentito e per amore si sarebbe seduta alla tavola di lui e avrebbe negato che lo amava, perché amarlo era un inganno ancora piú grande che mentirgli. E, per amore, si mise a disegnare il tempo come una linea stordita, sempre al cadere di una pagina, a prolungare il mancato incontro. E faceva stelle, anche se pensava alle croci; arabeschi, anche se ricordava solo serpenti.
Non dire per cosa vieni.
Non dire per cosa vieni. Lasciami indovinare dalla polvere dei tuoi capelli che vento ti ha mandato. È lontana la … tua casa? Ti do la mia: leggo nei tuoi occhi la stanchezza del giorno che ti ha vinto; e, sul tuo volto, le ombre mi raccontano il resto del viaggio. Dai, vieni a dar riposo ai tormenti del cammino nelle curve del mio corpo – è una meta senza dolore e senza memoria. Hai sete? Avanza dal pomeriggio solo una fetta d’arancia – mordila nella mia bocca senza chiedere. No, non dirmi chi sei né per che cosa vieni. Decido io.
Paura dell’amore
Non aver paura dell’amore. Posa la tua mano lentamente sul petto della terra e senti respirare i nomi delle cose che lì stanno crescendo: il lino e la genziana, la verzura odorosa e le campanule blu; la menta profumata per le bevande dell’estate e l’ordito delle radici di una pianticella d’alloro che si organizza come un reticolo di vene nella confusione di un corpo. Mai la vita è stata solo inverno.
Maria do Rosário Pedreira
Questa mattina
Questa mattina il sole è passato improvvisamente dall’altra parte della via – sono così in ombra le case quando di loro si perde il nome di qualcuno, così scuri i cuori di quelli che restano là dentro per abitare il dolore.
Maria do Rosário Pedreira
Maria do Rosário Pedreira (Lisbona , 21 settembre 1959) è un’editrice, scrittrice, poetessa e paroliera portoghese.Laureata in Lingue e letterature moderne, con specializzazione in studi francesi e inglesi, ha insegnato per cinque anni negli anni ’80.
Nel 1987 diventa editrice grazie all’impegno del prof. Antonio Manuel Baptista, iniziando questa attività nel campo dei libri di divulgazione scientifica.
Dal 1989 al 1998 è stata autrice della raccolta giovanile “Clube das Chaves”, con Maria Teresa Maia Gonzalez, pubblicandone 21 titoli. In seguito, nel 2000, ha pubblicato la raccolta giovanile “Detective Maravilhas”, con 17 volumi.
Cura attualmente autori come Nuno Camarneiro, Ana Cristina Silva, Vasco Luís Curado, Gabriela Ruivo Trindade, Norberto Morais, Nuno Amado, Cristina Drios, Carlos Campaniço, João Rebocho Pais e Paulo Moreiras.
Come scrittrice ha pubblicato diverse opere di narrativa, poesia, cronaca e letteratura giovanile, ricercando in quest’ultimo genere la trasmissione di valori umani e culturali. Per l’autrice, già premiata con alcuni premi letterari, la casa può essere considerata come un mondo dove tutto ciò che dura è contenuto, anche se sotto forma di memoria, con nostalgia.
È autrice di diversi testi musicali di fado, cantati da Carlos do Carmo, António Zambujo, Aldina Duarte, Ana Moura e, più recentemente, da Salvador Sobral.
Maria do Rosário Pedreira-Nació en Lisboa, Portugal, en 1959. Esta reconocida poeta, escritora y editora estudió Lenguas y Literaturas Modernas en la Universidad Clásica de Lisboa.En 1996 publicó su primer libro de poesía, A Casa e o Cheiro dos Livros, y desde entonces ha sido autora tanto de poesía como de novelas, literatura juvenil, ensayos, crónicas y letras para fado. Como editora, estuvo detrás del surgimiento de varios de los autores contemporáneos más destacados de Portugal, como José Luís Peixoto y Valter Hugo Mãe, y también publicó las colecciones de literatura juvenil O Clube das Chaves y Detective Maravilhas, las cuales han tenido una excelente acogida en Portugal. Entre sus libros publicados está su antología Poesía reunida, que en 2012 ganó el premio de literatura de la Fundación Inês de Castro.
Poemas de Maria do Rosário Pedreira
Maria do Rosário Pedreira
Arte poética
Num romance, uma chávena é apenas uma chávena — que pode derramar café sobre um poema, se o poeta, bem entendido, for a personagem.
Num poema, mesmo manchado de café, a chávena é certamente a concha de uma mão — por onde eu bebo o mundo em maravilha, se tu, bem entendido, fores o poeta.
No nosso romance, não sou sempre eu quem leva as chávenas para a mesa a que nos sentamos à noite, de mãos dadas, a dizer que a lata do café chegou ao fim, mas a pensar que a vida é que já vai bastante adiantada para os livros todos que ainda pensamos ler.
No meu poema, não precisamos de café para nos mantermos acordados: a minha boca está sempre na concha da tua mão, todos os dias há páginas nos teus olhos, escreve-se a vida sem nunca envelhecermos.
Arte poética
En una historia, una taza es tan sólo una taza, que puede derramar café sobre un poema, si el poeta, entiéndase bien, es el personaje.
En un poema, así esté manchado de café, la taza es con seguridad el cuenco de una mano; por donde yo bebo el mundo en éxtasis si tú, entiéndase bien, eres el poeta.
En nuestra historia, yo no soy siempre quien lleva las tazas a la mesa donde nos sentamos cada noche, enlazando las manos, para comentar que la lata del café se terminó, pero pensando que es la vida la que ya ha avanzado mucho para los libros que todavía quisiéramos leer.
En mi poema no necesitamos café para mantenernos despiertos: mi boca está siempre en el cuenco de tu mano, todos los días hay páginas en tus ojos, la vida se escribe y nunca envejecemos.
***
O meu mundo tem estado à tua espera; mas não há flores nas jarras, nem velas sobre a mesa, nem retratos escondidos no fundo das gavetas. Sei
que um poema se escreveria entre nós dois; mas não comprei o vinho, não mudei os lençóis, não perfumei o decote do vestido.
Se ouço falar de ti, comove-me o teu nome (mas nem pensar em suspirá-lo ao teu ouvido); se me dizem que vens, o corpo é uma fogueira — estalam-me brasas no peito, desvairadas, e respiro com a violência de um incêndio; mas parto antes de saber como seria. Não me perguntes
porque se mata o sol na lâmina dos dias e o meu mundo continua à tua espera: houve sempre coisas de esguelha nas paisagens e amores imperfeitos — Deus tem as mãos grandes.
Maria do Rosário Pedreira
***
Mi mundo ha estado esperándote; pero no hay flores en los jarrones, ni velas sobre la mesa, ni retratos escondidos al fondo de los cajones. Sé
que un poema se escribiría entre nosotros dos; pero no compré el vino, no cambié las sábanas, no perfumé el escote del vestido.
Si oigo hablar de ti, me conmueve tu nombre (pero ni pensar en suspirarlo a tu oído); si me dicen que vienes, el cuerpo es una hoguera: me crepitan brasas en el pecho, trastornadas, y respiro con la violencia de un incendio; pero parto antes de saber cómo sería. No me preguntes
por qué el sol se mata en el filo de los días y mi mundo continúa esperándote: siempre hubo cosas de soslayo en los paisajes y amores imperfectos; Dios tiene las manos grandes.
Fado
Dizem os ventos que as marés não dormem esta noite. Estou assustada à espera que regresses: as ondas já engoliram a praia mais pequena e entornaram algas nos vasos da varanda. E, na cidade, conta-se que as praças acoitaram à tarde dezenas de gaivotas que perseguiram os pombos e os morderam.
A lareira crepita lentamente. O pão ainda está morno à tua mesa. Mas a água já ferveu três vezes para o caldo. E em casa a luz fraqueja, não tarda que se apague. E tu não tardes, que eu fiz um bolo de ervas com canela; e há compota de ameixas e suspiros e um cobertor de lã na cama e eu
estou assustada. A lua está apenas por metade, a terra treme. E eu tremo, com medo que não voltes.
Fado
Dicen los vientos que las mareas no duermen esta noche. Estoy asustada esperando que regreses: las olas ya se tragaron la playa más pequeña y derramaron algas en las macetas del balcón. Y, en la ciudad, se cuenta que la plazas acogieron por la tarde a decenas de gaviotas que persiguieron a las palomas y las mordieron.
La chimenea crepita lentamente. El pan todavía está tibio en tu mesa. Pero el agua ha hervido ya tres veces para el caldo. Y en casa la luz se debilita, no tardará en apagarse. Y tú no tardes, que hice una tarta de hierbas con canela; y hay mermelada de ciruelas y merengues y una manta de lana en la cama y yo
estoy asustada. Sólo está la mitad de la luna, la tierra tiembla. Y yo tiemblo, temiendo que no vuelvas.
Maria do Rosário Pedreira
***
Mãe, oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão: com o menino ao colo, fez-se a estrada maior do que o meu desespero, amarrotou-se de velho meu coração tão claro. Eu tinha catorze anos antes
do estrondo, catorze anos e meio antes do teu grito, quinze anos cumpridos quando afastei o véu dos teus cabelos: se me dizias sempre que não fosse para longe, porque pediam o contrário os teus olhos parados? Ainda por cima, mãe, chegar
ao campo foi como bater a uma porta cansada – mil tendas que eram velas remendadas, barcos para ficar de novo pelo caminho. Trouxeram-nos mantas cheias de perguntas; tentaram-me com doces para me pôr no lugar; mudaram ao meu irmão a fralda com as mãos frias. Mãe, eu disse-lhes que
o menino era meu; e agora, quando ele procura os teus seios no meu corpo sem formas, cubro com o teu véu os meus cabelos e canto-lhe baixinho canções de açúcar. Não sei que idade tenho, mãe, mas oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão.
***
Madre, ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano: con el niño en brazos, se hizo el camino más largo que mi desesperación, se arrugó de viejo mí corazón tan claro. Yo tenía catorce años antes
del estruendo, catorce años y medio antes de tu grito, quince años cumplidos cuando alejé el velo de tus cabellos: si me decías siempre que no me alejara, ¿por qué pedían lo contrario tus ojos parados? Además, madre, llegar
al campo fue como llamar a una puerta cansada; mil tiendas que eran velas remendadas, barcos para quedarse de nuevo por el camino. Nos trajeron cobijas llenas de preguntas; me tentaron con dulces para ponerme en mi lugar; con las manos frías le cambiaron el pañal a mi hermano. Madre, yo les dije que
el niño era mío; y ahora, cuando él busca tus senos en mi cuerpo sin formas, cubro con tu velo mis cabellos y le canto bajito canciones de azúcar. No sé qué edad tengo, madre, pero ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano.
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