Poesie di Simona Cerri Spinelli- Al centro dei rovesci-
– Interno Editoria –
C’è un grido che percorre i versi di Simona Cerri Spinelli. Una voce precipita e illumina le pagine di questa raccolta. Uno dei più grandi poeti italiani contemporanei come Giampiero Neri, scrive nella nota finale del libro come queste poesie “vengono da molto lontano, prive come sono di ornamenti, nude e non si possono ignorare”. Non si può non notare come “Al centro dei rovesci” rappresenti un chiaro invito a danzare il ballo della vita, a “non temere niente dai sogni”.
Goffa nel mio maglione nero a lato del binario
attonita nel vederti comparire,
la pena più lieve è guardare in fondo
la mano della ragazza
e le labbra pronunciano appena
che io ho perso il treno.
C’è qualcosa di intoccabile nella tua immagine
che ha resistito fino a oggi.
*
“Andiamo a prendere un po’ d’aria”.
Avrei voluto vederlo restare e piangere
nella strada di fango.
Non temere niente dai sogni,
se dormendo vedi qualcosa di terribile
non è un annuncio di catastrofe,
è il mio pensiero che affonda.
*
Sto in silenzio la maggior parte del giorno,
la casa mi scricchiola addosso.
Di notte osservo il brutto tempo.
Gli scherzi della mente,
io e te abbracciati
e tu parli.
Non dirmi che ancora, al posto tuo,
arriverà il mattino.
*
Arrivo presto al Caffè,
ti cerco negli occhi degli altri
che fanno colazione,
tua madre è lì da anni, non mi chiede
niente,
mi prende sotto braccio e dice:
“È andato via per primo”
“È sempre andato via per primo”.
Nota di lettura: Giampiero Neri
Collana: Interno Libri
ISBN: 9788885583030
Anno: 2018
Pagine: 64 Formato: 11×17 cm
Le liriche di Hirshfield, una tra le più note voci poetiche americane, aprono un varco per la riflessione e il cambiamento, invitando alla consapevolezza etica e stabilendo un delicato equilibrio. Molteplici sono i temi di questa importante antologia. Il tempo è quel borseggiatore perpetuo che agilmente se la cava con tutto, da pochi momenti indifesi a interi anni della nostra vita. Anche la malattia e la mortalità fanno la loro comparsa, forze brute che ci privano della libertà, dell’identità e alla fine della vita stessa. Ma il nostro bisogno di salvaguardare ciò che marchiamo come nostro ci espone solo a quel che ogni buddhista teme: l’attaccamento e tutte le sofferenze che ne derivano. Interessante è la risposta di Hirshfield a questa possibilità di perdita: la coltivazione di una voce poetica che combina equanimità e una tranquilla passione, per sottolineare che ciò che la pratica buddhista e la poesia insegnano, è dire di sì a tutto al livello più profondo, compreso il difficile, che si tratti di perdita, rabbia, confusione. Hirshfield cattura questa idea frase dopo frase, immagine dopo immagine, in un linguaggio al tempo stesso misterioso, sorprendente e comprensibile.
Breve biografia di Jane Hirshfield (New York City, 1953) è una delle voci più importanti della letteratura americana contemporanea. È autrice di 9 libri di poesie e di 2 raccolte di saggi.Dopo la laurea a Princeton, ha studiato al San Francisco Zen Center, dove ha ricevuto l’ordinazione laica nel 1979. Ha scritto di lei Czesław Miłosz: “Una profonda empatia per la sofferenza di tutti gli esseri viventi… È questo che ammiro nella poesia di Jane Hirshfield. Il soggetto della sua poesia è la nostra vita quotidiana, i nostri continui incontri con gli altri e con tutto ciò che la Terra ci porta: alberi, fiori, animali e uccelli… Nella profonda sensibilità dei suoi dettagli, la sua poesia illumina la virtù buddhista della consapevolezza”.
Alcune Poesie di Jane Hirshfield
Oggi che non potevo fare niente
Oggi che non potevo fare niente,
ho salvato una formica.
Doveva essere entrata con il giornale,
ancora consegnato
a chi deve stare a casa.
Un giornale è ancora un servizio essenziale.
Io non sono un servizio essenziale.
Ho caffè e libri,
tempo,
un giardino,
silenzio abbastanza da riempire cisterne.
Dapprima deve aver camminato
sul giornale, come inchiostro sbavato
che prendeva la forma di una formica.
Poi attraverso il portatile- caldo-
poi sul retro di un cuscino.
Piccola formica nera, sola,
che attraversava un cuscino blu,
si muoveva veloce perché è quello che poteva fare.
Messa fuori al sole,
non avrebbe potuto ritrovare il suo nido.
Allora che cosa ho salvato?
Non sembrava che avesse paura
nemmeno quando camminava sulla mia mano
che la muoveva rapida nell’aria.
Formica, sola, senza compagne,
il cui cuore di formica non potevo comprendere-
come ti va la vita- volevo chiedere.
L’ho sollevata e messa fuori.
Questo primo giorno in cui non potevo fare niente,
contribuire a niente
oltre a stare distante dal mio stesso genere,
ho fatto questo.
*
Today, When I Could Do Nothing
Today, when I could do nothing,
I saved an ant.
It must have come in with the morning paper,
still being delivered
to those who shelter in place.
A morning paper is still an essential service.
I am not an essential service.
I have coffee and books,
time,
a garden,
silence enough to fill cisterns.
It must have first walked
the morning paper, as if loosened ink
taking the shape of an ant.
Then across the laptop computer—warm—
then onto the back of a cushion.
Small black ant, alone,
crossing a navy cushion,
moving steadily because that is what it could do.
Set outside in the sun,
it could not have found again its nest.
What then did I save?
It did not look as if it was frightened,
even while walking my hand,
which moved it through swiftness and air.
Ant, alone, without companions,
whose ant-heart I could not fathom—
how is your life, I wanted to ask.
I lifted it, took it outside.
This first day when I could do nothing,
contribute nothing
beyond staying distant from my own kind,
I did this.
Together in a Sudden Strangeness: America’s Poets Respond to the Pandemic, 2020
Versione tradotta in italiano da Stefania Zampiga
PIOGGIA A MAGGIO
Il ferro annerito
della stufa
si raffredda ticchettando
alle prime gocce
che iniziano a incontrare il tetto.
È tardi: la notte
s’è fatta scura così
come un frutto –
un sùbito
aroma di pere riempie la stanza.
Giusto prima dell’alba
ritorna più forte,
un bianco, costante rullio di pioggia diurna
preso nel secchio profondo della luna.
Una luce di latta ammaccata
trabocca di oceano e cielo,
colle che s’apre sul colle davanti,
e mi sveglio a un semplice desiderio,
ciò che voglio da quest’ora comune,
da questa terra comune
che in passato fu sposa del tempo:
sentire come un granchio sente l’onda,
forte come un secondo cuore;
vedere come una cosa verde vede il sole,
con l’attenzione esclusiva dell’amore cieco.
Prendi il cuore logoro come un sasso
e lancialo lontano.
Presto non ne rimarrà nulla.
Presto l’ultima increspatura si esaurirà
tra le erbacce.
Una volta a casa, affetta carote, cipolle, sedano.
Glassali in olio prima di aggiungere
le lenticchie, acqua e odori.
Poi le caldarroste, un po’ di pepe, sale.
Completa con formaggio di capra e prezzemolo. Mangia.
Puoi farlo, davvero, ti è concesso.
Ricomincia la storia della tua vita.
Tratta da “Ogni felicità assediata dai leoni” di Jane Hirshfield, traduzione e cura di Loredana Foresta e Andrea Sirotti
DOPO UN LUNGO SILENZIO
La cortesia sbiadisce,
un piccolo bagliore d’acciuga
abbandona la pentola capovolta nello scolapiatti
dopo che la luna s’è dileguata dalla finestra.
Una delle ultime libertà, là nel buio.
Gli avanzi della zuppa messi via.
Le distinzioni contano. Se il muso
quieto di una capra debba dirsi nobile
o indifferente. La differenza tra un giusto rigore e l’orgoglio.
Il pensiero intraducibile dev’essere il più preciso.
Eppure le parole non sono la fine del pensiero, ma là dove comincia.
Tratta da “Ogni felicità assediata dai leoni” di Jane Hirshfield, traduzione e cura di Loredana Foresta e Andrea Sirotti
Speranza e Amore
Per tutto l’inverno l’airone azzurro ha dormito tra i cavalli. Non so le abitudini degli aironi, non so se siano solitari per natura, o se quello attendesse un richiamo da chi non c’era – senza neanche rendersene conto – tra i suoni spiranti nella notte. So che la speranza è l’amore più duro che portiamo. Ha dormito con il collo lungo ripiegato, come una lettera messa via.
***
Hope and Love
All winter the blue heron slept among the horses. I do not know the custom of herons, do not know if the solitary habit is their way, or if he listened for some missing one— not knowing even that was what he did— in the blowing sounds in the dark, I know that hope is the hardest love we carry. He slept with his long neck folded, like a letter put away.
Nella Cacciata
dal Paradiso di Masaccio
che aria indulgente ha quell’angelo.
Sembra un bravo pubblico ufficiale
che fa solo rispettare
le regole. Ricordo
quei volti al corso di Belle Arti 13.
Ero abbastanza giovane allora
da pensare che la perdita dell’innocenza
avesse solo a che fare col sesso.
Ora che vedo Eva coprirsi
i seni con le mani
lo so che non è per nasconderli
ma solo per proteggerli
da quello che immagina le dovrà
capitare con Abele attaccato
da una parte, e Caino dall’altra.
(traduzione di Andrea Sirotti)
In lingua originale:
Fresco
In Masaccio’s Expulsion
From the Garden
how benign the angel seems,
like a good civil servant
he is merely enforcing
the rules. I remember
these faces from Fine Arts 13.
I was young enough then
to think that the loss of innocence
was just about Sex.
Now I see Eve covering
her breasts with her hands
and I know it is not to hide them
but only to keep them
from all she must know
is to follow from Abel
on one, Cain on the other.
Linda Pastan (New York May 27, 1932 – Chevy Chase January 30, 2023).Poeta laureata dello stato del Maryland dal 1991 al 1994, è considerata una delle voci più importanti della poesia americana contemporanea. Ha pubblicato dieci volumi di poesia: A Perfect Circle of Sun, Aspects of Eve, The Five Stages of Grief, Waiting for My Life, PM/AM: New and Selected Poems, A Fraction of Darkness, The Imperfect Paradise, Heroes in Disguise, An Early Afterlife, e Carnival Evening: New And Selected Poems 1968-1998. The Last Uncle, la sua ultima raccolta, è uscita nel 2002 per l’editore Norton.Tra i suoi numerosi riconoscimenti ricordiamo il Dylan Thomas Award, il Di Castagnola Award, il premio Bess Hokin della rivista Poetry, il Virginia Faulkner Award della rivista Prairie Schooner, e il prestigioso Pushcart Prize. A Fraction of Darkness ha vinto il Maurice English Award; PM/AM: New and Selected Poems ha ottenuto la nomination per il National Book Award; e The Imperfect Paradise è stato incluso tra i finalisti per il Los Angeles Times Book Prize. Alcuni critici hanno indicato Emily Dickinson come prima ascendente dello stile lapidario e del wit metafisico di Linda Pastan, un confronto che, benché ingombrante, appare perfettamente giustificato dalle sue migliori, memorabili poesie. Nella sue liriche più riuscite le parole non sono mai una successione casuale e occasionale di belle immagini, di metafore ispirate. Non sono nemmeno sterili esercizi formali secondo la più recente moda delle ‘creative writing schools’. La sua è una scrittura che ricorda da vicino l’etimologia della parola poesia, legata al concetto di ‘fare’, di creare il nuovo, di rivelare. Nella sua opera c’è il ritorno al ruolo che il poeta ha avuto per secoli: stimolare la riflessione, mostrare il mondo nei suoi aspetti meno consueti, tendere all’universalizzazione dei sentimenti.
Maria Rosaria De Santis-Poesie da “L’amore immaginario”-
Editore L’Erudita -ROMA
allora scoppiare
svanire sprofondare nel magma al centro della terra riemergere in cenere dall’altro lato volare libera in cerca di una nuova forma solleticare le narici di giorni nuovi cambiare nome, identità vivere tutte le esperienze degli stati di materia mangiare ghiaccio tagliente per insegnare alle labbra e ai denti a resistere al freddo e a soffrirne in silenzio scivolare su un liquido tiepido denso freddo alla fonte riscaldando da sola ciò che non ha spessore. Meravigliosamente urlare aria leggera coprire le parole inutili, vecchie, risentite imparare una nuova voce aerea e usarla per presentarmi sulla mia nuova parte di emisfero.
Trame di conversazioni immaginate mi affollano la mente quando è sera: è allora che ti comincio a reinventare, è allora che ti fai parola. Anneghi in me confusa che mi perdo in questa opera di ricostruzione per questo poi ti lascio improvvisare e al mattino non ti riconosco.
Ti ho spiegato molte volte che fraintendo le parole io apro le frasi e le spacco a metà prima le rompo dall’interno scavando con costanza poi mi nascondo nella fossa che ho creato e da lì urlo che non capisco niente. Ormai scivolata sotto la crosta della rabbia solo una delicatezza straordinaria può riportarmi in [superficie e lungo il tragitto verso l’aria pulita spiegarmi che le parole che mi squarciano le ho già sentite da bambina e ora dalle bocche di altri vengono a ricordarmi che tutto il bene fatto con innocente autoindulgenza è sempre, a ben vedere, male.
Ti ho invitato nelle mie stanze chiuse e ti ho lasciato solo con i miei segreti, ho aspettato che li facessi a pezzi e tu me li hai restituiti interi.
A rimanere sole saremo sempre in due escluse dal nostro reciproco torpore nell’inseguire appuntamenti senza senso insieme a volti già pieni di noi sempre saremo noiose, arroganti, vuote streghe superficiali e stupide ma nell’astio per noi stesse troviamo un’unica spinta per continuare a odiare noi da sole e gli altri insieme felici di gridare e non essere sentite: è la più dolce forma di amarezza.
DESCRIZIONE-
Emozioni e sentimenti si allineano tra immaginario e consapevolezza, le tracce della speranza sono il ponte per dare voce a ciò che nel buio può diventare luce. La creatività dei versi di Maria Rosaria De Santis crea con delicatezza e autenticità un ritmo empatico e attraverso la condivisione del pensiero le parole diventano un gioco armonico che trasforma la profondità dell’animo in una culla essenziale, affidando al nostro sé l’incarico di nostro portavoce della magica sfera emozionale. I versi tracimano esuberanza, voglia di vivere ma anche angoscia e tristezza, in un caleidoscopio di emozioni che ritraggono l’interno spettro dell’esperienza umana.
Recensione
“La vita è troppo lunga per immaginarla intera: sono vecchia per la stanchezza di essere giovane”
Ci vuole del talento per scrivere, per immaginare una cosa del genere. Io non sono un amante della poesia. Ma sono uno capace di capire il talento altrui, la bravura. E questa raccolta di poesie è dimostrazione di talento, di capacità di scrivere, e scrivere bene. È anche fin troppo “facile” scrivere un racconto breve, un piccolo libro. Ma la poesia è altro. E quando riesci a leggere qualcosa di bello, come questa raccolta di poesie, rimani incantato. Gioire del talento altrui, non essendo invidiosi di ciò, ma anzi ringraziare per gli scritti degli altri. La poesia è forse “la bellezza limpida delle cose inutili”, come recita un altro componimento di questo libro. Ma avercene di più, di bellezza limpida così.
Breve biografia di Maria Rosaria De Santis è nata a Castellammare di Stabia (NA) nel 1998.
Laureata in Giurisprudenza, sin da bambina impiega la maggior parte del suo tempo nella lettura e nella scrittura. A luglio 2022 ha pubblicato per L’Erudita, marchio di proprietà di Giulio Perrone editore, il suo primo libro.
It’s the world you imagined.
Step outside: wren tail,
dragonfly, fiddlehead …
a sack of lime the weight
of a child to spread
till the garden’s bright
as marble. You get it
all over you, too, Michelangelo
slaving away deliberately
unfinished.
senza un’eco
a Marco Sadori
nocciòlo con gli occhi chiusi medito i boschi
pioviggina sono una parola in piedi
il pero più chiaro a primavera il più rosso di sangue ora
un eremo — sì ma non voglio un’eco
come parlano le pietre voglio parlare interiormente
spegne la sua sigaretta per lui anche oggi termina il mondo
su una strada di campagna mi abbraccia la notte dov’è Rilke?
spolvero spolvero ma ancora resta questo fangoso sé
L’AUTORE
John Martone Figlio di un emigrato Campanese, è nato a Mineola (NY) 1952.Tra una ventina di libri di poesia si accenna ai recenti Homelands, A landscape in pieces, e All my kind. Homelands ha ricevuto il premio Gin’yu e Ksana il Touchstone Award dell’Haiku Foundation. È stato fondatore e redattore delee riviste tel-let e otata. Lavora come badante in un laboratorio per i diversamente abili.
John Martone’s translation of Giovanni Pascoli, O Little One and Selected Poems recently appeared from Laertes Books. Collections of Martone’s poetry include So Long (Ornithopter), Ksana (Red Moon Press), and Storage Case (Otoliths). Martone also edited Frank Samperi’s Spiritual Necessity: Selected Poems (Station Hill Press) and over the years has edited and published two poetry journals, tel-let and otata. Much of Martone’s work has been privately printed and volumes in English and Italian appear on Scrib’d.
È il morso dell’assenza che dilania i versi di Vascello fantasma, il ricordo delle persone e dei luoghi perduti aleggia resistente, riverbera in tutto il corpo. A lui simmetrici, ci sono i luoghi immersi in una visionarietà unica. La città dello Stretto, la Città di Sabbia, si staglia espandendo la sua storia reale o narrata dalle voci familiari e dalle leggende dei cantori. I flussi, le invasioni, i saccheggi, gli attraversamenti violenti che ne hanno determinato le strade e le sponde, tanto della città quanto del corpo con la sua memoria e i suoi sogni; l’autrice rivisita con i colori e gli odori questa commistione di eventi, mischiando i flussi vecchi e nuovi, i vecchi e nuovi imbarbarimenti, le invasioni reali e immaginifiche. La lingua, le parole e le sensazioni sono quelle della corporeità, tanto fisica e immediata quanto lirica, che trova forma e potenza in una ricerca linguistica che si incarna nella tradizione come nello slancio originale. La sperimentazione del verso e la promiscuità dei suoni di Marietta Salvo riportano sempre al corpo, carne e sangue, e al dolore, generato dall’assenza del corpo stesso. Le ossessioni si intrecciano ai sentieri percorsi e la Città di Sabbia, lingua stretta tra le colline e i due mari, è un territorio vacillante dove i sentimenti devono farsi strada tra fantasmi e relitti e che “lega il dolore a un palo / come fosse un sogno”
Le stelle procedono
Le stelle procedono a piccoli passi nell’incanto mattino.
Mi trovo
al centro infuocato
di questo pianeta (fu notte).
Alluno
improvvisa
in un corpo – (succhiai sangue e riebbi
la vita) –. Non so farne che fagotti però
in cerca della fenice – del ritrovarsi ancor in questa selva oscura –
e di bruto e dell’uomo che uccise e il motivo del bruteggio di bruto.
– La notte ha dita di cera (poi) –
E di nuovo cerco i corpi col dentro d’eterno.
Mi disse
Mi disse di comprare lowry
quando ancora non si usava
sotto il vulcano è splendente aggiungeva
magra la mano
di una bellezza procace il gesto
con uno sfrenato lampo lampante che divampa al posto della pupilla.
Era genio sfogliatezza di fiore.
Misurò il tempo giusto fino al prossimo maggio. Andò a saltelli col fiatone e rifiutò le pause boicottando gli ordini
del caposquadra.
***
Noi tornammo dal sentiero – gli ultimi quattro o cinque –.
Fu cosa penosa vedere l’ampia sala buia
e pensare alla corteccia che si apre e cola acqua
Racconti di mare
Templi vuoti si aggrappavano a dei. Troneggiava preghiera.
C’era nell’aria foresta gialla. Come gatto. Una donna schiacciava con sassi
magre pompe che sorbivano acqua. Ombra sola – lampioni al mercurio – flaveggiava come fosse foglietta
nel vento.
Si racconta come piedi non ebbe ma prudenti piumelle e lische
di pesce straniero.
La guardava da brusca collina.
Poi mai seppe se fosse sirena o uccello spiumato
o un notturno gabbiano che si andò
a incastonare
tra due vele rigonfie in tartàna.
Compagna di stanza
Pur avendo io allora soltanto trentanni
o di meno o di più
la morte diventò compagna di stanza.
Ne avevo trovato traccia e ogni giorno ne aggiungevo. Era comparsa una volta tra di noi sorelle
come un grido di gabbiano affamato – becco aperto – e aveva sganciato una molla. Dopo fu
difficile trovare un posto nel viale con gli alberi. Soleggiato disse mia madre. Sì risposi potrebbe ancora svegliarsi volendo.
Anche volle rosalba che portassimo sempre
fiori. Preferibilmente gialli e bianchi
non volgari per favore – tinte forti –. Nell’andarci molti sempre ne toglieva.
Io pensai di avere una fede e lottai col marmo beige
a schizzetti con gli stucchi di tre chiese col vetro degli occhi di un gesso formoso e languido. Lessi libri di spiriti incrociai le mani a raggiera pagai un ciondolo e lo
[attorcigliai
sul collo due volte. Il problema fu sempre però la gruccia
vuota.
Breve biografia di Marietta Salvo –
Marietta Salvo nasce a Messina nel 1952,è vincitrice per la Poesia del Premio Internazionale di Letteratura “Eugenio Montale” nel 1989. Pubblica con la casa editrice Scheiwiller la silloge poetica Aritmie nel 1989 e nel 1993 esce per Il Girasole Edizioni la raccolta poetica dal titolo L’insano gesto. Nel 1999 esce il volume Il senso del racconto (Perap Edizioni, Palermo). Ha collaborato negli anni alle pagine culturali de «L’Ora» e della «Gazzetta del Sud».
Devota come un ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,
su acutissime lamine
in bianca maglia di ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…(in Passo d’addio, Scheiwiller – All’insegna del pesce d’oro, Milano 1956)
Biglietto di Natale a M.L.S.(*)
Maria Luisa quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città turrite?
La primavera quante volte
turbinerà i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue orme
sconsolate – a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più miti:
le tuniche d’ortica, i sette mari,
la danza sulle spade.
“Mirabilmente il tempo si dispiega…”
ricondurrà nel tempo questo minimo
corso, una donna, un àtomo di fuoco:
noi che viviamo senza fine.
Immagine: da “La tigre assenza”, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991. Dettaglio di copertina
Devota come un ramo
Devota come un ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,
su acutissime lamine
in bianca maglia di ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…
(in Passo d’addio, Scheiwiller – All’insegna del pesce d’oro, Milano 1956)
Biglietto di Natale a M.L.S.(*)
Maria Luisa quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città turrite?
La primavera quante volte
turbinerà i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue orme
sconsolate – a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più miti:
le tuniche d’ortica, i sette mari,
la danza sulle spade.
“Mirabilmente il tempo si dispiega…”
ricondurrà nel tempo questo minimo
corso, una donna, un àtomo di fuoco:
noi che viviamo senza fine.
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(*) Maria Luisa Spaziani. Cristina Campo scrisse questa poesia a Firenze e vi appose la data “Ognissanti 1954″
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto,
lungo le notti piovose che io m’accendo
nel buio delle pupille,
tu, senza più fanciulla che disperda le voci…
Strade che l’innocenza vuole ignorare e brucia
di offrire, chiusa e nuda senza palpebre o labbra!
Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansiae attento:
fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
là dove giunge il tuo piede.
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
La tigre assenza pro patre et matre
Ahi che la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera…
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
Il Maestro d’arco
a B.B.
Tu, Assente che bisogna amare …
termine che ci sfuggi e che ci insegui
come ombra d’uccello sul sentiero:
io non ti voglio più cercare.
Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,
se la corda del cuore non sia tesa:
il maestro d’arco zen così m’insegna
che da tremila anni Ti vede.
(Giardino Bonaccossi, ottobre ’54, a B.B.)
(in La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, 1ª ed., Milano, Adelphi, 1991)
Biografia di Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (Bologna 1923, Roma 1977), ormai riconosciuta come una delle voci poetiche più alte del novecento, è stata straordinaria ed originale interprete della più profonda spiritualità insita nella letteratura europea.
Appassionata studiosa di Hofmannsthal, rivisitò il mondo misterioso delle fiabe svelandone le trascendenti simbologie. Fu traduttrice e critica di originale metodologia, enucleando dalle opere letterarie l’idea del destino e il dominio della legge di necessità sulle vicende umane che l’arte esprime in una aurea di bellezza. Appartenne al ristretto nucleo di intellettuali che avviarono l’introduzione di Simone Weil in Italia.
Negli anni cinquanta maturò la sua prima formazione nella Firenze dei grandi poeti del tempo ove conobbe Gianfranco Draghi che la indusse a pubblicare i suoi primi saggi su “ La Posta Letteraria del Corriere dell’Adda e del Ticino”.Dal ’56 si trasferì per sempre a Roma.
Studiosa di spessore leopardiano, stabilì intensi sodalizi umani e spirituali e innumerevoli frequentazioni di grandissimo rilievo, basti menzionare: Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller. Tra i filosofi ricordiamo Elémire Zolla, Andrea Emo, Lanzo del Vasto, Maria Zambrano, Danilo Dolci che sostenne nei momenti difficili, ed Ernst Bernhard che le fece conoscere il pensiero di
Jung, di cui era stato allievo. Fu consulente editoriale, scrisse su importantissime riviste e studiò l’esicasmo, la mistica occidentale ed orientale, i grandi classici e i poeti di ogni tempo. La sua “metafisica della bellezza” la indusse a una controversa e profonda riflessione sulla liturgia, ritenendo la sacralità dei riti e la comprensione del valore della trascendenza efficaci difese dalla minaccia della despiritualizzazione del mondo incombente sulla modernità che secondo la Campo, in una certa misura, è disattenta alla bellezza ed esposta alla vanificazione delle intenzioni. L’architettura culturale e spirituale dell’universo campiano si desume anche dai tanti e ricchi epistolari. In particolare dalle “Lettere a Mita” (la scrittrice Margherita Pieracci Harwell), uno degli epistolari più affabulanti di tutta la letteratura italiana, è infatti possibile ricostruire la storia di un’anima che palpita per l’incanto e la tragedia della vita. Vita che per la Campo è teatro della sfida al destino condotta dalla poesia e dal sacro.
Falsa identità Prima o poi qualcuno lo scopre: io sono già morta da viva. È di donna straniera la faccia tra i capelli in giù sporta che subito si ritira, l’ombra che dietro le tende s’aggira di sera, il passo che viene alla porta e non apre. Suo il canto che intriga i vicini coprendo i miei gridi sepolti. Qualcuno prima o dopo lo scopre. Ma intanto…
Lei a proclamarsi non esita, lei mostra il mio biglietto da visita. Io nel buio, in catene, a un palmo da voi di distanza, sul muro graffio questa riga contorta: testimonianza che mio era il nome alla porta, ma il corpo non ero io.
Il tredicesimo invitato
Grazie – ma qui che aspetto? Io qui non mi trovo. Io fra voi sto qui come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto e mangia nel piatto scompagnato. E fra tutti che parlano – lui ascolta. Fra tante risa – cerca di sorridere. Inetto, benché arda, a sostenere quel peso di splendori, si sente grato se alcuno casualmente lo guarda. Quando in cuore si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» E all’improvviso capisce che siede un’ombra al suo posto: che – entrando – lui è rimasto fuori.
Ad occhi chiusi
E mentre dormi, e dura l’armistizio fra l’anima ed il corpo suo sudario, vorrei scenderti in petto, mescolarmi allo stormo dei palpiti al comizio dei sentimenti. In balìa, sorpreso senza sigilli: stai come un diario di bordo pieno d’isole e di venti, come un albero offerto al plenilunio. Terribile e indifeso (questo taglio fra i cigli, fino all’animia…) E non oso più decrifarti. Sacro – simile a morte – il tuo riposo. Meglio che incognite le sigle, che i cifrari siano confusi. Meglio ch’io seguiti ad amarti ad occhi chiusi.
Niente
Morte, se vieni per condurmi via, lascia che ombra su ombra io ripercorra la gente. In quest’incrocio di rotte casuali, ci siamo incontrati – fra vivi – così inutilmente. Per migliaia di giorni, ogni giorno: all’andata, al ritorno. Per migliaia di notti, ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. Non ci siamo scambiati niente.
Lei
Lei non ha colpa se è bella, se la luce accorre al suo volto, se il suo passo è disciolto come una riva estiva, se ride come si sgrana una collana. Lo so. Lei non ha colpa del suo miele pungente di fanciulla, della sua grazia assorta che in sè non chiude nulla. Se tu l’ami, lei non ha colpa. Ma io – la vorrei morta.
Tu Tu, che chiamiamo anima.
Colore negro, odore ebreo. Tu profuga,
tu reietta, intoccabile. Tu transfuga
dal soffio dell’origine.
Non ti spetta razione, né coperta,
né foglio di reimbarco.
Per registri e frontiere
non esisti.
Ma in sere come queste, di cangianti
vaticini fra i monti,
ad ogni varco
può apparire improvvisa la tua faccia
d’eremita o brigante.
“Fronda smossa,
pietra caduta…” trasale in sé il passante
che la tua ombra assilla
di crinale in crinale,
mentre corri ridendo nell’occhiata
del cielo, che ti nomina e sigilla.
Capro espiatorio Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All’aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
– senza uscita –. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un’unghia
sotto le porte). Capro espiatorio
già caduto sul fianco, otre di sangue
già mezzo vuoto – come scalci ancora
forte, mia vita.
Oggetti I piccoli oggetti, i piccoli
amici schiavi, che tirano
troppo in lungo la vita! Miei cari,
vi licenzio in tronco. È più dura
forse per me: ma chi monco,
chi gobbo, chi spelato da lebbra;
e il mazzo di chiavi risputato
da ogni serratura.
Gli ipocriti inermi! Bisbigliano
aiuto, pietà.
E s’uncinano a tutti gli appigli,
a tutti i ricordi come labbra
s’attaccano, come vermi.
Giù nel sacco – un tonfo – coraggio!
Non sarà un lungo viaggio.
In cantina, il bel dormitorio.
Col teatrino dei topi, il tanfo
del vino, la grata
(tarlata) del parlatorio
per la piuma, per la foglia di passo.
Tra vecchi fratelli… Diciamo
che a noi padroni va peggio,
quand’è l’ora nostra… Ma adesso
muoviamoci, andiamo.
Fernanda Romagnoli, dimenticata poetessa, è una delle più grandi voci del Novecento italiano, con il potere di folgorare il lettore con la sua poesia.
Nata a Roma il 5 novembre 1916, si diploma in pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia della capitale.
Nel 1943 pubblica la sua prima raccolta, Capriccio, con l’editore Signorelli.
Nel frattempo fa parte della redazione di alcune riviste del tempo, come La Fiera Letteraria. Nel 1973 pubblica per Guanda Confiteor, raccolta premiata da Vittorio Sereni.
Sette anni dopo, Attilio Bertolucci, da lei considerato il proprio maestro, la consacra facendo pubblicare con Garzanti Il tredicesimo invitato, la sua opera più importante.
Sempre Bertolucci, in un’intervista del 1991, afferma: «Preferisco non fare nomi. O forse potrei limitarmi a due donne di sicuro valore: Alda Merini e Amelia Rosselli, cui vorrei aggiungere Fernanda Romagnoli che è una poetessa che è morta e non ha ancora avuto quello che merita».
Purtroppo, infatti, la poetessa viene via via dimenticata, si ammala di epatite e si spegne a Roma nel 1986.
C’è nella poesia di Fernanda Romagnoli una forte tensione emotiva, una potenza inaspettata. La forza nel verificare arriva all’estremo travolgendo chiunque legga.
Donatella Bisutti curatrice della nuova versione de Il tredicesimo invitato e altre poesie (2003) descrive la poesia della Romagnoli in questo modo: «È una poesia dell’anima, dello spirito, dell’energia incontenibile dello spirito.»
Da ciò non comprendiamo come sia possibile che tale autrice possa essere accantonata. Allo stesso tempo è vero che la poetessa, già in vita, rifiutava qualsiasi salotto letterario, rimanendo nella sua Roma. Gli unici contatti con alcuni letterati degli anni (Bertolucci in primis, o Nicola Lisi) lì ebbe attraverso delle lettere.
Sembra quasi un’autopunizione inflittasi, dettata forse dal matrimonio con un militare o da un carattere taciturno e introverso che trova il suo linguaggio, la sua esplosione nella scrittura. Questo lo deduciamo anche solo dai titoli scelti per le raccolte pubblicate. Il Confiteor, ad esempio, è la preghiera penitenziale della celebrazione eucaristica, Il tredicesimo invitato indica qualcuno che non dovrebbe esserci, perché semplicemente porta sfortuna.
Allo stesso tempo non si può dire che la poesia della Romagnoli sia pacata, stretta nello schema di una vita vissuta in solitaria. È chiaro, quindi, che la poetessa trova nel verseggiare la propria vocazione, il modo per rendere visibile quel genio, quel valore insito in lei.
È in poesie come Falsa identità che dà prova di questo. Fernanda si distacca da un mondo che non le appartiene (io sono già morta / da viva) e ricalca il tema della morte, molto spesso trattato. In una poesia dedicata al padre la poetessa, invece, scrive:
Così mio padre mi s’accende accanto nel buio che mi fascia. “Vieni per dare o per chiedere?” m’affanno “È la medesima cosa!
Quindi la poesia di Fernanda marca quell’oltre che le fu precluso nella vita. Il grido della poetessa giunge ancora chiaro e comprensibile.
Senza pietà, senza pietà, Signore, il Tuo immenso lasciarmi. Senza fine, senza fine il mio grido Ti voglio!
scrive in Senza requie, oppure:
ed io, abbagliata, più non mi difendo – confitta nel limo terrestre come uno spino -.
in Quando.
Un grido lacerante, soffocato, che solo nel pensiero della morte trova come uscire fuori, prepotente, invadendo il resto.
– io – che piangete morta. Invaderò la casa: un solo giro come fa il lampo.
in Avvento
E tu già stavi disciolta da noi vivi. Verso incerte balugini dischiusa. Maturavi sola – nella placenta della morte
in Sola.
È una terribile pena quella a cui Fernanda è stata condannata. Una donna che viva si ritrova morente, sepolta ancora fremente.
otre di sangue già mezzo vuoto – come scalci ancora forte, mia vita.
Da Capro espiatorio
Quella donna dal viso indifeso Un poco sfiorita- che passa nello specchio in una scolorita veste rossa, senza fruscio, di fretta, rialzando sul capo i capelli con mano distratta: quella donna dall’anima dimessa dicono che son io.
Ed anche l’amore è un sentimento sofferto, fatto di gelosie quasi adolescenziali, che definiscono meglio il quadro caratteriale della poetessa
Se tu l’ami, lei non ha colpa. Ma io – la vorrei morta.
in Lei.
o da perentorie esclamazioni di colpevolezza:
Meglio ch’io seguiti ad amarti ad occhi chiusi.
Donatella Bisutti, grande estimatrice della Romagnoli, ci mette di fronte ad una certezza dicendo: «Forse lo spirito di Fernanda ha ancora bisogno di placarsi e non riesce a farlo. Forse è ancora alla ricerca di un perdono.»
Anche noi lo crediamo, come crediamo che questo spirito abbia bisogno di essere riscoperto e mai più nascosto.
Fortunatamente per la rivista Nuova Corrente di Interlinea è uscito recentemente “Ogni gloria e misura sconvolgendo.” Studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli, un volume che propone una rilettura della sua poesia con alcuni inediti e approfondimenti.
Nuova corrente 161. «Ogni gloria e misura sconvolgendo». Studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli Copertina flessibile – 1 luglio 2018
Un destino di silenzio, lo definì qualcuno. E così sembra essere stato il destino di Fernanda Romagnoli. Assente in molte antologie, dimenticata, ignorata. Eppure Paolo Lagazzi la definisce “una poetessa grandissima”. E una poeta così grande non può e non deve rassegnarsi a un destino di silenzio. Non può e non deve essere un’ombra nella Storia.
Prima o poi qualcuno lo scopre:/io sono già morta/da viva.
Nasce a Roma il 5 novembre 1916. A diciotto anni si diploma in pianoforte al conservatorio di S. Cecilia, e a vent’anni conclude gli studi magistrali, da privatista. Tra il 1941 e il 1944 lavora come impiegata nel Consiglio Nazionale delle Ricerche.
La sua prima raccolta di poesie, Capriccio, viene pubblicata nel 1943, edizione Signorelli, con la prefazione di Giuseppe Lipparini. L’anno successivo si trasferisce a Erba con la famiglia, e poi torna a Roma nel 1946. Si sposa con Vittorio Raganella, un ufficiale di cavalleria con il quale dal 1948 al 1965 vive a Firenze, Pinerolo e Caserta. Infine Roma.
Tra il 1961 e il 1965 è maestra in alcune sedi di montagna. Ma perlopiù sarà moglie, madre, e poeta. Ruoli che non s’intersecano, abiti che Romagnoli indossa scompagnati. Come se la vita e la scrittura fossero due strade parallele, e questo la porta a vivere costanti sensi di colpa.
Io nel buio, in catene, a un palmo/da voi.
È del 1965 la seconda raccolta di versi, Berretto rosso, pubblicato da Sestante. Sono i primi anni Settanta che la vedono amica di Carlo Betocchi e Nicola Lisi, e nel 1973 esce la terza raccolta di poesie, Confiteor, edita da Guanda. Questo fu possibile grazie ad Attilio Bertolucci che dirà della sua poetica “uno scontro tra il quotidiano e il visionario”.
Io distendo le mani, che vi piova la chiarità…/tu aprimi i capelli/o brezza di levante.
Romagnoli passa dallo stampo ottocentesco della prima raccolta, a liriche visionarie e metafisiche. Una poetica che all’inizio parla di comunione di elementi, la natura percepita a livello sensoriale, un’atmosfera panica che ricorda D’Annunzio e Pascoli, con reminiscenze quasi leopardiane.
[…] i grandi fiori/dissetati splendevano, che un tempo/come piccoli pugni si serravano/per resistere a un marzo di gran vento.
Negli anni Settanta, Fernanda Romagnoli collabora con alcune riviste letterarie, «La Fiera Letteraria» e «Forum Italicum», per la radio Approdo. Scrive quelle che saranno le poesie de Il tredicesimo invitato che uscirà nel 1980 per Garzanti. La poesia che dà il titolo alla raccolta riporta a quel destino, al vivere in disparte.
Grazie – ma qui che aspetto? /Io qui non mi trovo. Io fra voi/sto come il tredicesimo invitato, /… E all’improvviso capisce/che siede un’ombra al suo posto:/che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.
Il senso di inadeguatezza e l’estraneità alla vita sociale che Romagnoli vive, e soffre, sono espliciti, tangibili, e ne scaturisce un’insoddisfazione che la fa sentire scomoda dentro qualunque ruolo. Moglie, madre e poeta. Ruoli che non riuscirà mai a gestire come vorrebbe.
Avrà un difficile rapporto con la figlia, con la quale non farà in tempo a spiegarsi veramente. Scrive una poesia per lei, che fa così:
Si stringe chiusa, dura, /come nelle sue ciglia/la margherita sotto il temporale… Ma il mattino /dritta come una pianta, /spensierata, m’è presso il capezzale/che con l’aroma del caffè mi canta/ “sveglia”, col carillon del cucchiaino.
Vive ogni ruolo con sensi di colpa, che serpeggiano nelle sue poesie. Poesie che, tralasciate le atmosfere naturalistiche, si concentrano sugli oggetti di uso quotidiano. Oggetti da cui ci separiamo a fatica, così vicini ma al tempo stesso così estranei. La poesia Oggetti è dedicata proprio a loro.
I piccoli oggetti, i piccoli/amici schiavi, che tirano/troppo in lungo la vita! … Gli ipocriti inermi! Bisbigliano/ aiuto, pietà.
Talvolta gli oggetti sono intrisi di significati metaforici, come nella poesia Bruco, dove Romagnoli osserva con lucidità e freddezza una vita che finisce. Solo un feroce distacco dalle cose le permette di sopportare il pensiero della morte.
Tagliato in due col suo frutto/il bruco si torce, precipita/nel piatto, ove un attimo orrendo /sopravvive al suo lutto.
Questo scrivere delle piccole cose di tutti i giorni ricorda la poetica di Kavafis. Ma il quotidiano è una tenaglia che stringe forte e Romagnoli si trova a vivere un continuo conflitto interiore, un conflitto dell’anima, e un senso di precarietà che la farà sentire estranea alla vita stessa.
Tu, che chiamiamo anima. Tu profuga, /reietta, indesiderabile. Tu transfuga/dal soffio dell’origine. /… Per registri e frontiere:/non esisti.
Fernanda Romagnoli si muove tra un forte desiderio di ribellione e un’amara rassegnazione al quotidiano.
Morte, se vieni per condurmi via, /lascia che ombra su ombra/io ripercorra la gente. /In quest’incrocio di rotte/casuali, ci siamo incontrati/ – fra vivi – così inutilmente.
Paragonata a Salinas, Caproni e Carducci, Romagnoli viene accostata anche a un’altra poeta, Emily Dickinson. Entrambe propense all’isolamento, a quel vivere in disparte, un certo distacco dal resto del mondo. Un distacco totale per Dickinson che vivrà tra le mura domestiche, reclusa nella propria stanza, mentre Romagnoli, pur non arrivando a questo estremo, vivrà in disparte, silenziosa, come un ospite che non vuole disturbare. E, come per Dickinson, nella poetica di Romagnoli emerge la tensione al divino.
Con Lui non abbiamo contatti. /Firma e sigillo: l’impronta del suo pollice…/ Le finestre non guardano che pietre, / da che segarono l’albero e l’uccello/portò altrove il suo canto.
Quella di Romagnoli è stata definita una poesia dell’anima. Anima che ha bisogno di evadere, spaziare, essere libera.
Così a portata d’anima! / «Tu aspettami!» /Non udì. Sfavillò vuota la cruna. /Anima – o forma umana:/ah, già svanita.
Ma c’è un altro aspetto che ci fa ricordare Dickinson: il dolore, la malattia. Proprio il dolore, a partire dagli anni Settanta, sarà un compagno sgradito ma fedele di Fernanda Romagnoli. Un’epatite contratta nel periodo bellico la costringerà, nel 1977, a subire un intervento chirurgico al fegato. Nonostante i ripetuti ricoveri, Romagnoli non trascura la poesia.
Poi ti raggiungerò/là dove – abbandonata/la via terrestre, simile/a rotaia in disuso – s’incammina lo spirito, esitante.
In questo verso la vita viene paragonata a una rotaia in disuso, una similitudine come se ne trovano tante nelle sue liriche. E si trovano anche metafore, anafore, rime e assonanze.
Questo cuore mio, gonfio di pietre, / suona ancora conchiglie/ e il sudore dell’anima concima praterie di camelie.
E ancora:
…se tu l’ami, lei non ha colpa. /Ma io la vorrei morta.
Se in vita Romagnoli ebbe un breve periodo di notorietà, veloce come una meteora, dopo la morte sprofondò nell’oblio.
Voglio alzarmi. Ho paura. /Nel pozzo del cranio/ – senza uscita -. Nel buio sacrario/sconsacrato.
Alcune poesie inedite saranno pubblicate poco prima della sua morte dal quotidiano «Reporter», grazie a Ginevra Bompiani e Gianfranco Palmery, e dalla rivista «Arsenale».
Ma sarà solo nel 2003 che Donatella Bisutti, dedicandoci anima e corpo, riuscirà a far ripubblicare, dall’editore Sheiwiller, Il tredicesimo invitato. Ma fu un’altra meteora, poi ancora quel destino che ritorna, di nuovo il silenzio. Di nuovo l’oblio. È per questo che abbiamo voluto scrivere di lei, e per lei. Perché ancora una volta potesse uscire da quel silenzio.
E affacciati guardando fluttuare/questa frangia di sera sui palazzi, /che di sprazzi vermigli ci colora.
Riportiamo il pensiero di Barbara Lanati circa la sua biografia su Emily Dickinson, facendolo nostro e dedicandolo a Fernanda Romagnoli.
Avrei voluto che fosse stata lei a parlare di sé. Lei tuttavia non c’è. Nonostante la sua assenza, non voglio attribuirle ciò che lei non avrebbe voluto le fosse attribuito. Né voglio offrirne un’immagine in cui non avrebbe voluto riconoscersi.
Fernanda Romagnoli muore all’età di settant’anni, a Roma, presso l’Ospedale Sant’Eugenio. È il 9 giugno 1986.
Fu feroce/il dettato di resa. In un minuto/la tua carne divenne un ectoplasma/dai gesti incomprensibili…/Maturavi/sola – nella placenta della morte.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Ogni gloria e misura sconvolgendo, studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli, «Nuova Corrente»
«Poesia», rivista trimestrale di poesia
Donatella Bisutti, Il fantasma di Fernanda, in «Le Voci della Luna», quadrimestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica
Emilia Sirangelo, Fernanda Romagnoli: l’esilio di un poeta
Pozzo-Martini
PAOLA POZZO Ottenuto il diploma presso lo Ied, illustra libri per ragazzi in Italia e all’estero, ed. San Paolo e Grimm Press di Tawian; lavora nella moda per Giorgio Kauten; disegna biglietti augurali e carte regalo per La Carterie di Panini e Auguri Mondadori. Illustra poesie per B. Mondadori Scolastica.
Per le ed. San Paolo pubblica un libro per ragazzi sulla pace.
Giornalista pubblicista, scrive recensioni presso una rivista. Vince vari concorsi letterari di narrativa breve, tra cui GialloMilanese e Keltia edizioni.
Pubblica racconti su tre antologie di genere Steampunk.
Vive a Milano.
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