L’Altrove Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Breve biografia di Vittorio Sereni (1913-1983)-Una delle voci poetiche più incisive del Novecento italiano è Vittorio Sereni. Nato a Luino nel 1913, vive gran parte della sua vita a Milano. Nel 1941 pubblica il suo primo libro di versi, Frontiera, ancora pregno della poetica ermetica. Richiamato alle armi, viene fatto prigioniero in Africa settentrionale e recluso per due anni in un campo di prigionia, tra Algeria e Marocco. Questo periodo ispira una delle sue opere più evocative e dense, Diario d’Algeria (1947). La prigionia e la guerra mutano il suo modo di vedere il mondo, ai suoi occhi sempre più indecifrabile. La voce narrante di Vittorio, mescolata a elementi lessicali arcaizzanti, è funzionale a estraniarsi dalla realtà per poterla descrivere con impeto personale e nostalgico, utilizzando modulazioni da una strofa all’altra e continui sbalzi all’interno del testo.
Le mani
Queste tue mani a difesa di te: mi fanno sera sul viso. Quando lente le schiudi, là davanti la città è quell’arco di fuoco. Sul sonno futuro saranno persiane rigate di sole e avrò perso per sempre quel sapore di terra e di vento quando le riprenderai.
DaFrontiera.
In me il tuo ricordo
In me il tuo ricordo è un fruscìo solo di velocipedi che vanno quietamente là dove l’altezza del meriggio discende al più fiammante vespero tra cancelli e case e sospirosi declivi di finestre riaperte sull’estate. Solo, di me, distante dura un lamento di treni, d’anime che se ne vanno. E là leggera te ne vai sul vento, ti perdi nella sera.
DaFrontiera
Dimitrios
Alla tenda s’accosta il piccolo nemico Dimitrios e mi sorprende, d’uccello tenue strido sul vetro del meriggio. Non torce la bocca pura la grazia che chiede pane, non si vela di pianto lo sguardo che fame e paura stempera nel cielo d’infanzia.
È già lontano, arguto mulinello che s’annulla nell’afa, Dimitrios, su lande avare appena credibile, appena vivo sussulto di me, della mia vita esitante sul mare.
DaDiario d’Algeria.
Anni dopo
La splendida la delirante pioggia s’è quietata, con le rade ci bacia ultime stille. Ritornati all’aperto amore m’è accanto e amicizia. E quello, che fino a poco fa quasi implorava, dall’abbuiato portico brusìo romba alle spalle ora, rompe dal mio passato: volti non mutati saranno, risaputi, di vecchia aria in essi oggi rappresa. Anche i nostri, fra quelli, di una volta? Dunque ti prego non voltarti amore e tu resta e difendici amicizia.
DaGli strumenti umani.
I versi
Se ne scrivono ancora. Si pensa ad essi mentendo ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri l’ultima sera dell’anno. Se ne scrivono solo in negativo dentro un nero di anni come pagando un fastidioso debito che era vecchio di anni. No, non era più felice l’esercizio. Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte. Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro. Si fanno versi per scrollare un peso e passare al seguente. Ma c’è sempre qualche peso di troppo, non c’è mai alcun verso che basti se domani tu stesso te ne scordi.
Da Gli strumenti umani.
Gli squali
Di noi che cosa fugge sul filo della corrente? Oh, di noi una storia che non ebbe un seguito stracci di luce, smorti volti, sperse lampàre che un attimo ravviva e lo sbrecciato cappello di paglia che questa ultima estate ci abbandona. Le nostre estati, lo vedi, memoria che ancora hai desideri: in te l’arco si tende dalla marina ma non vola la punta più al mio cuore. Odi nel mezzo sonno l’eguale veglia del mare e dietro quella certe voci di festa.
E presto delusi dalla preda gli squali che laggiù solcano il golfo presto tra loro si faranno a brani.
Da Tutte le poesie.
FONTE-L’Altrove
Le più belle poesie di Vittorio Sereni -FONTE-L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.-Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
Poesie e prose di Vittorio Sereni -Autore- Giovanni Raboni
Per poche altre figure della lirica italiana novecentesca si può dire, come scrisse di Vittorio Sereni l’amico e critico Pier Vincenzo Mengaldo, che «l’uomo e il poeta facevano tutt’uno». Per il poeta di Luino, infatti, la poesia era una divorante passione, vissuta senza falsi pudori; una passione fatta di attese, della capacità di selezionare i componimenti, tanto che ognuno appare a noi inevitabile. Come Leopardi, come Mallarmé, Sereni concentra il suo estro su pochi testi, essenziali, derivati da una assoluta necessità interiore e dotati di una impareggiabile finitezza formale. Ma accanto all’esigenza di scrivere versi, Sereni sentì altrettanto potente quella che egli stesso chiamava «la tentazione della prosa». Dell’una e dell’altra produzione dà conto questo volume che riunisce integralmente le raccolte poetiche, da “Frontiera” (1941) a “Diario d’Algeria” (1947) a “Gli strumenti umani” (1965) a “Stella variabile” (1981), la sua scelta di traduzioni “Il musicante di Saint-Merry”, i due volumi di prose, “Gli immediati dintorni” e “La traversata di Milano”, infine un’ampia scelta di testi critici dedicati all’arte e alla letteratura. Con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo.
La Poetica di Vincenzo Cardarelli -Poesie e opere di Vincenzo Cardarelli, poeta e scrittore appartenente alla corrente letteraria dell’Avanguardia. Successivamente Cardarelli vivrà un ritorno al classicismo rifacendosi ad autori come Leopardi e Pascoli.
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Versi discorsivi Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, colloquialeUna poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasioneLa soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morteSi legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del tempoIl tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
Il tema del vagabondaggioC’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Il tema del tempo è molto importante per CardarelliAbbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo: passaggio in cui la realtà si rinnova Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
L’amore, il tema dei poetiL’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Cardarelli innamoratoCompito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
La fine di un amore Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
L’addioE qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
I ricordiNascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Nostalgia e rimpiantoCon una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
L’Attesa“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
Amore e solitudineL’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
AMICIZIA
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam rispettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.
ATTESA
Oggi che t’aspettavo non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava,
nel vuoto che hai lascito,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
S’annuncia e poi s’allontana,
cosi’ ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere, ha di quest improvvisi pentimenti.
Silenziosamente ci siamo intesi.
Amore, Amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
GABBIANI
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
PASSATO
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
SERA DI LIGURIA
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
SCHERZO
Il bosco di primavera
ha un’anima,una voce.
è il canto del cucù
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dentro il richiamo lieve
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi:
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriali.
PRIMAVERA
Oggi la primavera
é un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi:
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce:
Tutto è color di prato.
Anche l’edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
d’umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.
PASSAGGIO NOTTURNO
Giace lassù la mia infanzia.
Lassù in quella collina
ch’io riveggo di notte,
passando in ferrovia,
segnata di vive luci.
Odor di stoppie bruciate
m’investe alla stazione.
Antico e sparso odore
simile a molte voci che mi chiamino.
Ma il treno fugge. Io vo non so dove.
M’è compagno un amico
che non si desta neppure.
Nessuno pensa o immagina
che cosa sia per me
questa materna terra ch’io sorvolo
come un ignoto, come un traditore.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
ABBANDONO
Volata sei, fuggita
come una colomba
e ti sei persa là, verso oriente.
Ma son rimasti i luoghi che ti videro
E l’ore dei nostri incontri.
Ore deserte,
luoghi per me divenuti un sepolcro
a cui faccio la guardia.
ALLA MORTE
Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell’ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell’orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all’amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppo volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s’involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L’immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
ma da lontano annunciati
e da amica mi prendi
come l’estrema delle mie abitudini.
BALLATA
Ecco la casa ov’io vidi la luce
e la chiesa lì accanto,
dove fui battezzato.
Consolanti evidenze!
Qui antiche donne vivono, mai sazie
di ricordare.
E narrano una storia
ch’io so a memoria e non vorrei sapere.
Narrano la mia storia famigliare.
Dicono che una notte,
col cuore fasciato
di crudeltà e d’ira fredda,
un uomo fece guasto
senza pietà nei suoi affetti più sacri,
disperse una famiglia appena in fiore.
E la casa natale era al mattino
tranquilla e disertata
come se visitata
l’avessero le streghe.
Il tempo come un ciclone
spazzò da questi luoghi
le care immagini.
Di ciò che fu non rimane
che un tacito agitarsi
di memorie e di ombre.
Ma quelle voci ch’io dico
sono implacabili e vive.
Lamentose quale un funebre canto,
alla pietà l’invettiva alternando,
mi rammentano come, ancora in fasce,
m’abbia poco la sorte vezzeggiato.
SERA DI GAVINANA
Ecco la sera e spiove
sul toscano Appennino.
Con lo scender che fa le nubi a valle,
prese a lembi qua e là
come ragne fra gli alberi intricate,
si colorano i monti di viola.
Dolce vagare allora
per chi s’affanna il giorno
ed in se stesso, incredulo, si torce.
Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,
un vociar lieto e folto in cui si sente
il giorno che declina
e il riposo imminente.
Vi si mischia il pulsare, il batter secco
ed alto del camion sullo stradone
bianco che varca i monti.
E tutto quanto a sera,
grilli, campane, fonti,
a concerto e preghiera,
trema nell’aria sgombra.
Ma come più rifulge,
nell’ora che non ha un’altra luce,
il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.
Sui tuoi prati che salgono a gironi,
questo liquido verde, che rispunta
fra gl’inganni del sole ad ogni acquata,
al vento trascolora, e mi rapisce,
per l’inquieto cammino,
sì che teneramente fa star muta
l’anima vagabonda.
ESTIVA
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore –
ci si risveglia come in un acquario –
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.
AUTUNNO VENEZIANO
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
ILLUSA GIOVENTU’
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che , esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
OTTOBRE
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest’aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d’autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell’anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t’inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch’è tutta una dolcissima agonia.
ADOLESCENTE
Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!
Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.
* * * * * * * * * *
BIOGRAFIA DI VINCENZO CARDARELLI:
1887 – Vincenzo Cardarelli (il suo vero nome ra Nazareno) nasce a Corneto Tarquinia (Viterbo) il primo maggio. Da giovane pratica diversi mestieri e studia in modo irregolare.
1905 – È l’anno della morte del padre. Abbandona il paese natale, al quale fu per sempre legato da un rapporto di odio e amore, a causa dell’infanzia infelice e solitaria che vi aveva trascorso, lui afflitto da una menomazione al braccio sinistro spesso veniva affidato alla carità e alla cura di estranei.
1906 – Giunge a Roma, privo di una regolare istruzione, in cerca di fortuna; si accosta agli ambienti socialisti iniziando una attività giornalistica che lo porterà alla redazione dell’Avanti!. Inizia la relazione amorosa con la scrittrice Sibilla Aleramo, che si esaurirà nel 1912. Intanto prosegue nelle sue intense seppure disordinate letture e, abbandonate le velleità socialiste, entra in contatto con gli ambienti culturali che gravitano attorno alle principali riviste: nel 1911 invia alla Voce prezzoliniana uno studio su Charles Pégluy e inizia una assidua collaborazione al “Marzocco”.
Pubblica anche lo scritto Metodo Estetico e le prime poesie sparse. Particolarmente significativa è, in questa fase, il sodalizio con Riccardo Bacchelli, mentre fallisce il progetto a lungo vagheggiato di dare vita a una nuova rivista. Nella capitale collabora, prima del conflitto mondiale, a numerose riviste: Il Marzocco, La Voce, Lirica ed è tra i fondatori de La Ronda.
La Civita, Corneto, Roma, le memorie della sua infanzia solitaria e della sua focosa gioventù, sono i temi essenziali di un’opera che pur senza essere abbondante costituisce un alto e raro esempio di coerenza e di coscienza artistica.
Ma sarebbe difficile, e probabilmente arbitrario voler isolare nella sua produzione questo o quel titolo di una singola opera, perché Cardarelli è soprattutto il creatore di uno stile. A tale esigenza massima egli subordina, quando era in vita, ogni altra ambizione e ogni ricerca di un successo facile ed effimero.
1916 – Esce Prologhi, una raccolta di brevissime prose. Nel medesimo anno collabora alla Voce di Giuseppe De Robertis, maturando via via quelle convinzioni di un ritorno all’ordine e alla tradizione da cui nascerà nel 1919 l’esperienza decisiva della Ronda. Della rivista Cardarelli fu fra i più strenui ispiratori, dirigendola fino al 1923, quando cessò definitivamente le pubblicazioni.
1929 – Vince il Premio letterario Bagutta per il libro Il sole a picco
Io nacqui forestiero in Maremma, di padre marchigiano, e crebbi come un esiliato, assaporando con commozione tristezze e indefinibili nostalgie. Non mi ricordo la mia famiglia, né la casa dove son nato, esposta a mare, nel punto più alto del paese, buttata giù in una notte come dall’urto di un ciclone, quando io avevo due anni appena.
Sono venuto a conoscere mio padre un giorno che, nientedimeno, aveva sposato, e io soffiavo nel fornello a tutto andare, con una ventola nuova nuova. Ci fu un tempo ch’io vissi sotto la protezione d’un angelo custode e non ne ho altro ricordo se non che ero un ragazzo come tutti gli altri, curato, ben vestito e corretto con severità ed amore. Il destino, dopo avermi tolto la madre mi aveva regalato in compenso una matrigna, tutta d’oro, dal cuore alle mani. Me la aveva portata da lontano, parlava un dialetto settentrionale.
Tutta questa felicità durò poco, tre anni appena. Un dopo pranzo, che tornavo dalla scuola, passando davanti alla camera dove la mia cara madre giaceva malata e mentre son lì per entrare (ma già mi aveva sorpreso il lenzuolo che le avevano tirato fin sopra il capo) due braccia mi sollevarono e mi deposero nella camera accanto, dove una sorella della morta stava, in quel momento, levandosi di letto, dopo aver trascorso la notte vicino a lei. Erano quelle di mio padre.
Da allora la mia esistenza si complicò. I confini della mia famiglia si confusero e si dispersero. Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a collocarmi ora qui ora là, a dozzina. Conobbi altre case, dove fui accolto e trattato quasi in qualità di parente, attesa la mia facilità a familiarizzare. Il mondo mi allevò. […]
Per farla corta, mio padre pretendeva che io diventassi nient’altro che un buon commerciante, alla sua maniera. Ecco la ragione vera per cui non volle che studiassi e fece, senz’accorgersene, la mia rovina. […]
A sedici anni, cioè un anno avanti che mio padre morisse, ero già lontano da lui e dal mio paese. […]
Per vivere, nei primi anni, dovetti fare i mestieri più vari: addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi; ammanuense nello studio d’un bisbetico avvocato piemontese e socialista; impiegato nella segreteria della Federazione metallurgica; contabile; infine giornalista.
1948 – “Villa Tarantola” vince il Premio Strega per la prosa.
1959 – Muore il 18 giugno nell’Ospedale del Policlinico di Roma. Egli riposa ora nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca secondo la volontà espressa nel testamento. La Civita etrusca, che il poeta ha così di frequente evocato nelle sue poesie e nelle sue prose, aveva ai suoi occhi più il valore di un simbolo morale che non di un tema autobiografico: era stato il faro che lo aveva guidato durante la sua avventurosa navigazione tra gli scogli dell’esistenza. Visse nella povertà e nella solitudine, e morì a settantadue anni ancora più povero e più solo.
LE OPERE
Narrativa e Poesia:
• Prologhi, Milano, 1916;
• Viaggi nel tempo, Firenze, 1920;
• Terra genitrice, Roma,1935;
• Favole e memorie, Milano, 1925;
• II sole a picco, Bologna, 1928; Premio Bagutta 1929
• Prologhi viaggi, favole, Lanciano, 1929;
• Giorni in piena, Roma, 1934;
• Poesie, Roma, 1936 ristampa accresciuta, Roma, 1942;
• Rimorsi, Roma, 1944;
• Lettere non spedite, Roma, 1946;
• Poesie nuove, Venezia, 1946;
• Solitario in Arcadia, Milano, 1947;
• Villa Tarantola, Milano, 1948;Premio Strega
• Poesie, Milano, 1949;
• Invettiva ed altre poesie disperse, Milano, 1964;
• Autunno, sei vecchio, rassegnati, a cura di C. Martìgnoni, Lecce, 1988;
• Opere complete, a cura di G. Raimondi, Milano, 1962;
• Opere, a cura di C. Martignoni, Milano, 1981.
I prologhi
In quasi tutte le prose e le poesie contenute nella raccolta, le parole usate da Cardarelli sono lineari. Il mondo rappresentato è un mondo intellettuale, senza mistero. I temi che affiorano più spesso, oltre a quelli dell’addio, del distacco, della solitudine, dello sgombero, sono la morte (“Angosce letargiche le quali sono state i miei anticipi di morte”), l’anima (“Sento che il tempo cade e fa rumore nell’anima mia”), la purità (“Io sono grato al male per gli obblighi di purità che mi ha posti”), la carne (“Perché io ho ecceduto nella carne fino all’ironia”).
I viaggi nel tempo
Fin dalle prime prose e liriche, si avvertono i fremiti precorritori di un mutamento radicale e di un trapasso di paesaggio oltre che di clima. La composizione delle liriche coincide con il ritorno dello scrittore a Roma, dopo i suoi vagabondaggi in Italia e all’estero. L’ansia, l’inquietudine che avevano dominato la gioventù di Cardarelli e nelle quali si doveva ravvisare l’origine delle sue molteplici e disordinate esperienze umane e culturali, si placano via via a contatto con Roma, la città dei suoi sogni, la circe mondiale, la reggia favolosa che i papi costruirono a consolazione dei derelitti.
Settembre a Venezia, Autunno Veneziano
Autunno, Ottobre
Liguria, Sera di Liguria
Questi tre gruppi di liriche hanno molti punti in comune. Si compongono ognuno di una lirica breve, simile ad un “mottetto” musicale, alla quale si contrappone una poesia più elaborata, maggiormente orchestrata, una “sonata” o un canto a più voci. Ma l’elemento di partenza è lo stesso: una stagione, una città, un ricordo, un’emozione. Nelle prime due liriche di argomento veneziano il poeta traduce in note musicali le sensazioni suscitate nel suo animo dal trapasso dall’estate all’autunno.
LO STILE
Nel 1919, ormai affermatosi negli ambienti letterari della capitale, Cardarelli fondò la rivista La Battaglia, dalle cui pagine cominciò a combattere quella che sarebbe stata la lunga battaglia letteraria della sua vita: la restaurazione del classicismo, inteso come severa disciplina.
La restaurazione cardelliana muove dalla riscoperta e dalla rivalutazione dell’opera di Leopardi. Cardarelli, da mente acuta di critico quale era, si era accorto che l’operazione di fondo da realizzare per riportare la poesia nel suo alveo e nei suoi giusti limiti era quella di ricreare lo stile, senza il quale, i contenuti non possono che produrre oratoria. Il suo limite consiste forse nell’aver identificato lo stile con quello di una tradizione ben determinata, il suo merito sta invece nell’aver restituito alla lingua, vergini e brillanti come nuovi, parole e modi di dire consumati dal cattivo uso, sbiaditi dalla genericità dei contesti e praticamente privi della loro significazione.
Ad un ideale di classica compostezza, di perfezione stilistica e di limpidezza formale restò fedele in tutto l’arco della sua produzione: versi prima dispersi in alcuni volumi di prose e poi raccolti in Poesie nelle tre edizioni del 1936, 1942 e 1958. E’ una poesia ragionata, nella quale il discorso si sviluppa e si stende con limpidezza e fluidità, tutto avvolto da un tono meditativo, che comunica al lettore quasi sensibilmente un desolato senso di vivere.
I TEMI DELLA POESIA
Cardarelli fu un conversatore brillante ed un letterato polemico e severo, avendo vissuto una vita vagabonda, solitaria e di austera e scontrosa dignità. Suoi maestri sono stati Baudelaire, Nietzsche, Leopardi, Pascal, i quali lo hanno portato ad esprimere le proprie passioni con un senso razionale, senza troppe esaltazioni spirituali. La sua è una poesia descrittiva lineare, legata a ricordi passati di qualunque tipo, siano paesaggi animali persone e stati d’animo, che vengono espressi con un uso di un linguaggio discorsivo e nello stesso tempo impetuoso e profondo.
I temi ricorrenti nelle sue liriche sono il trascorrere delle stagioni, avvertito come simbolo dell’eterna mutevolezza delle cose, lo sfiorire dell’adolescenza e della bellezza, i vagheggiamenti dell’infanzia e dei paesaggi ad essa collegati. Sia nell’esplosione della vitalità estiva o sia nel malinconico disfarsi del paesaggio autunnale, il trascorrere delle ore del giorno e delle stagioni diventa simbolo delle vicissitudini della vita. Come scrive nella prima strofa di Ottobre:
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
Dal colore che inebria,
Amo la stanca stagione
Che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
Nulla più mi consola,
Di quest’aria che odora
Di mosto e di vino,
Di questo vecchio sole settembrino
Che splende nelle vigne saccheggiate.
Marta López Vilar- Poesie inedite-Rivista Atelier-
traduzione dallo spagnolo di Marcela Filippi Plaza
Marta López Vilar (Madrid, 1978) è una poetessa, traduttrice di letteratura, professoressa universitaria e scrittrice spagnola. Mantiene una partecipazione attiva a eventi culturali e letterari quali la distribuzione del Premio Cervantes, la gestione di attività di critica letteraria o commentatore radiofonico (SER) tra gli altri. Si è laureata in Filologia Spagnola e ha una vasta conoscenza del portoghese e del catalano. Ha realizzato diversi lavori di traduzione di poesia catalana, portoghese e greca contemporanea. Ha studiato lingua, letteratura e filosofia neo-elleniche all’Università di Atene. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Spagnola presso l’Università Autonoma di Madrid, con una tesi sul misticismo e il simbolismo delle Elegie di Bierville di Carles Riba. Per il libro Di ombre e cappelli dimenticati nel 2003 ha vinto il premio di poesia “Blas de Otero” e nel 2007 ha vinto il premio “Arte Giovane di Poesia” della Comunità di Madrid col libro La parola attesa. La sua terza raccolta di poesie che si chiamerà Nelle e acque d’ottobre sta per giungere nelle librerie. Insegna presso l’Università di Alcalá. Ha trascorso un anno a Debrecen (Ungheria) contribuendo alla diffusione della lingua e cultura spagnola in Europa centro orientale.
Porto de Mágoas
Elegí los puertos que más se parecieran a tu voz.
Elegí los barcos, las olas, los peces
que tuvieron que morir entre cenizas…
Elegí los puentes desde donde mirar la noche.
Pero nada importa.
Elegí la vida y tus palabras nunca regresaron.
Porto de Mágoas
Ho scelto i porti che più somigliassero alla tua voce.
Ho scelto le navi, le onde, i pesci
che hanno dovuto morire nelle ceneri…
Ho scelto i ponti da dove guardare la notte.
Ma nulla importa.
Ho scelto la vita e le tue parole non sono mai ritornate.
Después de un sueño
De muy lejos vengo, como el viento claro
que abandoné en tu voz
para protegerte de la muerte.
No me despedí de tí.
Por eso ven a mí
y sálvame como tantas otras noches
de mis sueños.
Dopo un sogno
Da molto lontano vengo, come il vento chiaro
che ho lasciato cadere nella tua voce
per proteggerti dalla morte.
Non ti salutai.
Perciò vieni a me
e salvami come tante altre notti
dai miei sogni.
Melancolía de una statua
Cansada, reclinas la cabeza buscando tu memoria
entre esa pesadumbre.
Cierras los ojos en busca de ese mar
que a otros cuerpos se llevó de tu lado,
vuelto en cenizas y vejez, siendo calor
prematuro de la muerte.
Reclinas la cabeza y no sientes la mano
frágil que sostiene tu cansancio,
esa oscuridad que albergan tus ojos
en pleno amanecer.
Nada tienes salvo la soledad esculpida
en todo lo guardado, el oleaje minucioso
del dolor horadando el tiempo
hasta borrarte.
Cansada, te preguntas dónde se hará
el cántico hermoso de la noche,
en qué lugar recogerás tu luz y tu presencia,
y hacia qué lugar se marcharon las palabras
de todo lo perdido.
Malinconia di una statua
Stanca, inclini la testa cercando la tua memoria
in quella pena.
Chiudi gli occhi alla ricerca di quel mare
che portò via altri corpi che ti erano accanto,
trasformato in cenere e vecchiaia, essendo calore
prematuro della morte.
Inclini la testa e non senti la mano
fragile che sostiene la tua stanchezza,
quell’oscurità che i tuoi occhi ospitano
in piena alba.
Non hai nulla tranne la solitudine scolpita
in ciò che è custodito, il moto ondoso minuzioso
del dolore penetrando il tempo
fino a cancellarti.
Stanca, ti chiedi dove si farà
il bellissimo cantico della notte,
in quale luogo raccoglierai la tua luce e la tua presenza,
e in quale luogo sono andate le parole
di quel che è perduto.
Marta López Vilar (Madrid, 1978) è una poetessa, traduttrice di letteratura, professoressa universitaria e scrittrice spagnola. Mantiene una partecipazione attiva a eventi culturali e letterari quali la distribuzione del Premio Cervantes, la gestione di attività di critica letteraria o commentatore radiofonico (SER) tra gli altri. Si è laureata in Filologia Spagnola e ha una vasta conoscenza del portoghese e del catalano. Ha realizzato diversi lavori di traduzione di poesia catalana, portoghese e greca contemporanea. Ha studiato lingua, letteratura e filosofia neo-elleniche all’Università di Atene. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Spagnola presso l’Università Autonoma di Madrid, con una tesi sul misticismo e il simbolismo delle Elegie di Bierville di Carles Riba. Per il libro Di ombre e cappelli dimenticati nel 2003 ha vinto il premio di poesia “Blas de Otero” e nel 2007 ha vinto il premio “Arte Giovane di Poesia” della Comunità di Madrid col libro La parola attesa. La sua terza raccolta di poesie che si chiamerà Nelle e acque d’ottobre sta per giungere nelle librerie. Insegna presso l’Università di Alcalá. Ha trascorso un anno a Debrecen (Ungheria) contribuendo alla diffusione della lingua e cultura spagnola in Europa centro orientale.
Marcela Filippi Plaza (1968) è una traduttrice cilena che vive in Italia. E’ impegnata da molti anni nello studio e nella traduzione della poesia contemporanea in lingua spagnola, portoghese e italiana. Ideatrice del progetto delle antologie bilingue Buena Letra 1 (2012) e Buena Letra 2 (2014) di scrittori ibero-americani tradotti per la prima volta in italiano, e della collana bilingue Fascinoso Verbum che, nei primi tre volumi, comprende il poeta e critico letterario italiano Domenico Cara, la poetessa cilena Jeannette N. Catalàn e il poeta spagnolo Miguel Veyrat. Per Atelier ha tradotto Edmundo Herrera.
La poesía de Marta López Vilar: Convivencia con la herida
Marta López Vilar (Madrid, 1978) es ganadora del Premio de Poesía Blas de Otero, con De sombras y sombreros olvidados (Amargord, 2007), y del Premio Arte Joven de la Comunidad de Madrid, con La palabra esperada (Hiperión, 2007). Continúa su andadura literaria al ritmo con el que regresan los ecos y recuerdos de personas y lugares que demandan una traducción en palabras precisas. La poeta y profesora vuelve con su nuevo poemario, En las aguas de octubre (Bartleby, 2016), y la antología (Tras)lúcidas, poesía escrita por mujeres (Bartleby, 2016). Como en el resto de sus anteriores trabajos, en estos se concentran, una vez más, el poso de una erudición y una sensibilidad tan penetrantes como prudentes.
Entiendo que, para los autores, no debe ser fácil —por no decir, no debe ser divertido— someterse a estos procesos inquisitoriales del periodismo y la crítica literaria que son las entrevistas. Sobre todo en los años en que, como es tu caso, son varias las obras que han salido a la luz. Me planteo: «seguro que piensan… otra vez las mismas preguntas, las mismas respuestas…» ¿Puede, entonces, el escritor sacar algún provecho de estos mecanismos mediáticos?
Personalmente, creo que sí que se puede sacar provecho. Es más, creo que siempre ayuda a comprender lo que se escribe. La mirada ajena —en este caso la del entrevistador— siempre saca a la luz cuestiones que, en el extraño e inexplicable proceso de escritura, nunca nos habíamos planteado. Esa misma mirada ajena genera preguntas. Responderlas hace que lo escrito tome cuerpo, lógica interna, cierto orden. Por todo esto, no pienso en absoluto que siempre sean las mismas preguntas ni respuestas. De hecho, esta pregunta es la primera vez que me la hacen, y me ha hecho comprender cómo el otro puede crear una nueva existencia ajena al escritor, convirtiendo la escritura —su creación— en un objeto nuevo para cada lectura, prismático.
¿La propia obra se puede enriquecer?
Sí que puede enriquecerse. Creo que siempre hemos cometido el error de pensar que una obra se acaba cuando el poeta decide concluir un libro. Bajo mi punto de vista, es un error porque la obra siempre está en continuo movimiento: nunca acaba, y no concluye tampoco cuando el poeta decide poner fin a un libro. Tras esa conclusión —ficticia— queda la otra mirada que da sentido, aquella que pertenece al lector que siente todo aquello amoldado a su mundo, a sus razones y necesidades. No hay libro sin escritor, como tampoco lo hay sin aquel que lo lea. Con ello no quiero decir que sea indispensable la publicación del libro. El propio escritor, pasado un tiempo, ya se ha convertido en el otro. Leer lo escrito tras las huellas del tiempo hace que el texto tenga otro lugar, otro sentido y necesidad.
Tu poesía brinda por la poesía, la respeta, se preocupa por ella, por la intimidad humana y el recuerdo. Además, no eres dada a la proliferación de textos ni a la publicidad, sino a la precisión y la brevedad. ¿Cómo lidiar, entonces, con los mecanismos a los que nos obliga el mercado literario?
Confieso que, para mí, es complicado. Siempre he sentido la poesía, su escritura, como un ejercicio íntimo, alejado del ruido. Me resulta muy difícil asimilar el proceso posterior de exposición pública. Por ello, aunque una vez que se publica un libro existen esos mecanismos del mercado literario que son inevitables, procuro que cada acto público sea un espacio cercano para «entregar» los textos a los asistentes, explicar cómo es ese lugar íntimo del que nacieron, para que ellos los acojan en sus espacios de intimidad.
¿Cómo congeniar la pureza con el comercio?
Es algo muy complicado. Por ello, más allá de estos gestos, procuro mantenerme alejada del ruido, permanecer en ese espacio silencioso y humilde que, sin embargo, provoca deslumbramiento cuando leo; y un encuentro callado conmigo misma, cuando escribo. Las excesivas voces del afuera, los movimientos muchas veces previsibles y, en otros casos, luciferinos, las muestras estruendosas de logros, me disuelven, no me siento cómoda en ellos, me dicen que ahí no estoy yo. Las redes sociales están ayudando mucho a generar ese ruido —con el añadido de la distancia que produce una pantalla de ordenador—, sin embargo, casi nunca uso las redes para difusión de mi propia obra, sino para compartir textos literarios de otros autores que me han conmovido, que me han dado una respuesta a algo que desconocía, con la esperanza de que para alguien signifiquen lo mismo que han significado para mí. En ese caso sí que siento que las redes sociales ayudan. Sólo siento la literatura desde el lugar interior. Comparto un fragmento literario con la esperanza de que, después, alguien a quien le ha conmovido se acerque a una librería o a una biblioteca a por ese mismo libro.
Como profesora, ¿qué se siente cuando pasamos de críticos a criticados? Supongo que debe de ser una de las mayores frustraciones eso de leer desvaríos sobre la obra propia.
Bueno, eso forma parte del mecanismo de publicación de un libro, y hay que aceptar las cosas. Creo que hay un tipo de crítica, cada vez más minoritario, que sí que construye de manera esclarecedora la obra que reseña, aunque pueda destacar cosas negativas. Ese tipo de crítica, constructiva, muestra un pensamiento estructurado y lúcido aunque, repito, muestre aspectos negativos de una obra. Pero hay otros tipos de crítica que, confieso, no entiendo: aquellas que sólo se escriben para hacer publicidad editorial, o bien para destruir.
Creo que nos equivocamos, porque cada lectura es subjetiva, y aquel crítico que parece mostrar su verdad como única no está siendo justo con su trabajo. Siempre me espantaron los pensamientos extremos. Por supuesto que he tenido situaciones en las que, si no he leído desvaríos completos —bueno, alguno sí—, sí que no he entendido realmente lo que el crítico quería decir, como si la reseña hubiera sido un medio para mostrar su teoría acerca de algo —generalmente sin mucho que ver con el libro del que tendría que hablar—, o para encapsular en la página su malestar por algo que poco tiene que ver con el libro. Eso no he llegado a entenderlo y creo que empobrece el concepto de la crítica literaria. Hace que deje de ser un género desde el momento en el que el crítico piensa que por destruirlo todo muestra mejor sus conocimientos, o es más lúcido, más llamativo. La destrucción empobrece en todos los aspectos. Mientras te estoy diciendo esto, recuerdo una carta que le escribió Walter Benjamin a Gershom Scholem en 1930, creo. En ella le decía que la crítica literaria ya no era considerada un género serio en Alemania. Creo que aquí está ocurriendo lo mismo aunque, afortunadamente, hay excepciones, por supuesto. Sigue leyendo en Revista Borrador
Rita Pacilio-Poesie e Recensione “Così l’anima invoca un soffio di poesia”
dalla Rivista L’Altrove-
Recensione di Rosa Pacillo-La cifra poetica di Rita Pacilio contiene una collezione privata e suggestiva dell’essenzialità sensibile, consolida la capacità di decantare la qualità introspettiva dei versi nella sorgente creativa di un linguaggio spontaneo, colto nell’immediatezza emblematica dell’indirizzo intuitivo dell’anima. Rita Pacilio orienta la direzione dell’intensità nel sublime itinerario intorno al riflesso umano, concentrando in accordo con il silenzioso contatto con la caducità, la disposizione interiore dei pensieri, la vocazione a fronteggiare la provvisorietà attraverso la percezione consolatoria della natura, nell’innata emozione dell’arrendevole sguardo verso una realtà che elargisce il dono di distinguere l’infinito, oltre il confine delimitato della ricerca umana. Amplia il registro scrupoloso e inesorabile dell’inclinazione generatrice delle cose, riconosce la predisposizione contrastante delle persone catalogando la motivazione del paradosso umano nell’evoluzione speculativa tra le tendenze incompatibili di indifferenza e desiderio, nella determinazione ponderata di dipendenza emotiva e libertà, nella volontà di razionalità e impulso affettivo, nell’interpretazione di spirito e materia.
La poesia di Rita Pacilio è in divenire, nel flusso perenne della sostanza poetica, esposta alla vulnerabilità del tempo e alle sue suscettibili trasformazioni, ammette la scrittura elegiaca come confessione lirica nel valore universale dell’urgenza espressiva in grado di illuminare la vita e gli azzardi del mondo. Le poesie scelte racchiudono la consistenza di una coscienza sconfinata, rinnovata in una vertiginosa catarsi tra l’incessante avvertimento delle assenze e l’autenticità compassionevole della memoria, custodiscono la profonda attrazione sovrumana nella trascendenza delle intonazioni significanti, nel legame strutturale ed evocativo tra segno linguistico ed elemento concettuale, esplorano la regione segreta e contemplativa dell’inconoscibile. Sperimentano l’estensione della poesia come intesa corrispondente alla selezione stilistica e letteraria, annotano la responsabilità delle inquietudini morali lacerate, illustrano l’inaugurazione sensibile alla meraviglia della bellezza, il filamento impercettibile e inafferrabile della spiritualità. Il soffio della poesia muove il passaggio esistenziale di una voce impalpabile ed esitante che sussurra il tremolio appassionante delle parole e modella i versi nella corrente dell’invisibile, nell’alito di vento sfiorato dalla purificazione del vissuto.
Rita Pacilio pone l’accento sull’accuratezza del dolore e sulla rivelazione confortante delle confidenze, annota la gravità dell’abisso nei dettagli obliqui della contemporaneità, supplica la presenza fedele dei ricordi, codifica la cadenza visionaria del linguaggio, la sua inattesa possibilità di mutamento, consacra forma e contenuto nella funzione esegetica dell’immaginazione, adottando una comunicazione elegante e saggia, nell’identificazione di un’appartenenza, nel discernimento dal varco impenetrabile di ogni orizzonte.
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Alcuni testi selezionati per voi dalla raccolta:
Io l’ho amata ogni mattina nell’eternità celeste questa terra travestita a festa e silenzio. L’ho amata di felicità sull’isola come fossi io stessa stesa sull’acqua nel canto libero di chi crede ancora che amarsi è tutto questo coprirsi di baci.
Benedirò con ogni benedizione le betulle di mio padre i cristallini riflessi sulla pioggia soleggiata la speranza in continua trasformazione tra il bianco latte del tronco e la libertà. Benedirò le voci che passano nelle nuvole per ricordare che non potrai tornare indietro nemmeno nei legni intagliati, saperti a piedi uniti e con le spalle appoggiate.
Così hai imparato la misura dello spazio hai aperto la cerniera del vento come fa l’abisso baciato la pupilla osando il perdono di te stesso davanti a tutte le finestre che danno sul retro lì hai sentito la magnificenza nello stesso momento in cui metti a confronto le lettere maiuscole e minuscole.
Hai mai pensato di svegliarti presto passeggiare l’occhio fresco e la guancia nella neve nuova frugare a lungo con il naso gli invisibili segreti voci profetiche sospese intorno ai lampioni, alla fontana padrona della piazza. La luce fa così quando scuote il fuoco di dicembre e si sparge sopra i tetti, sugli specchi impolverati, sul monte. Un rito silenzioso e astuto testimone di chi scrive da lontano e aspetta il giorno crescere lievito o anima.
L’assenza ha una forma quieta dischiusa, indecifrabile, bianchissima un tumulto di cellule nella gravità delle spalle fino a riaprire un rumore spezzettato
fermato nell’ansietà del chiarore tra due costole nello stesso istante piegate alla redenzione mansueta. Sembra possibile la partecipazione la prima appartenenza fuori da queste cose
in cui metto le mani, un bicchiere, un rosario, un libro, tante voci e mai la tua.
Mille volte i canti delle magnolie ritornano nell’imbrunire al mio respiro. Non temono l’intreccio dei venti né linee curve nel seno delle nuvole. Indugiano solo quando l’eco disperata le insegue.
L’AUTRICE –Rita Pacilio è poeta, scrittrice, collaboratore editoriale, Sociologo e Mediatore familiare, nata a Benevento nel 1963. Si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro e di vocal jazz.
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
Testi selezionati da Il barbagianni. L’ignorante (trad. di F. Pusterla, Einaudi, 1992)
Breve biografia di Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera francese, ed è morto a Grignan nel 2021.Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie, cui sono seguite Poesie (1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (1994), E tuttavia (2001). La sua attività di prosatore e saggista trova l’espressione più alta nei taccuini di Appunti per una semina (1984), seguiti da La seconda semina (1996) e dal saggio La parola Russia (2002).
Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Interno
Cerco da tempo di vivere qui,
in questa stanza che fingo d’amare,
tavolo, oggetti quieti, la finestra
che in fondo ad ogni notte apre altri verdi,
e il cuore del merlo che batte nell’edera scura,
punti di luce sulle macchie d’ombra.
Anch’io cerco di dirmi: «L’aria è dolce,
sono a casa, la giornata sarà buona».
C’è solo, in fondo al letto, questo ragno
(si sa, è il giardino), che non ho abbastanza
ucciso, sembra stia tessendo ancora
la trappola al mio fragile fantasma…
***
Di notte, nella città dove vivo in immagine,
la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini,
in cui vanno i fantasmi, come portando altrove
quel lieve vapore che sale dal fondo del cuore.
Eppure insisto, per quanto sia incapace il solitario,
e osservo le figure della luce. E se poi fosse
appunto per la pietra che vacilla, o perché il vento
di fronte ai bar impazza come un cane, o perché squassa
foglie, finestre malchiuse, che finalmente
stavo per incrociarvi, distrutta la forza,
estrema fragilità sempre sfuggente: e se poi avessi
acciuffato il vostro mantello di cuoio… Ora sapendo
che i muri più alti non sono che leghe di polvere,
che chiasso e arditi specchi dei caffè improvvisamente
s’incrinano ai primi suoni del mattino, e che salendo
ai belvedere di periferia la città appare
povero mucchio di braci fumanti,
più non accoglierò queste figure terrificanti,
e ancora camminerò, benché sia inverno, e gli ultimi
ricordi di ieri il fiume abbia travolto…
Vivrò meno tremante in queste fortezze di sabbia,
poiché desidero solo una cosa che sfugge, vaga,
questa parola detta in un soffio alla bocca in attesa,
sull’astro degli occhi brucianti questo passaggio di nebbia.
L’ignorante
Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano: cosa resta? cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»
Il lavoro del poeta
Compito dello sguardo che s’offusca
non è sognare o piangere, è vegliare
come un pastore il gregge, e richiamare
ciò che rischia di perdersi nel sonno.
*
Così, sul muro acceso dall’estate
(ma non sarà piuttosto dal ricordo)
vi guardo dentro la pace del giorno,
voi che andate lontano, che fuggite,
vi chiamo, luminosi dentro l’erba
più scura, come un tempo nel giardino, voci o luci
(chi sa) che legano i defunti con l’infanzia…
(È morta, la signora sotto il bosso,
spento il suo lume, al vento il suo corredo?
O un giorno tornerà da sotto terra
e potrò dirle, io, andandole incontro: «Che ne è stato
di tutto questo tempo, in cui tacevano
il riso e i vostri passi per la via? E non si poteva
che andarsene così, senza avvisare?
O signora! tornate ora fra noi…»)
Nell’ombra ed ora d’oggi sta in silenzio,
nascosta, l’ombra di ieri. E questo è il mondo.
Non lo vediamo a lungo, quel che basta
a trattenerne quello che scintilla, e a poco a poco
si spegne, a chiamare ancora e poi ancora, e a tremare
di non vedere più. Così si sforza
il misero, come chi, inginocchiato, contro vento,
tenta di radunare un magro fuoco…
***
Adesso so che non possiedo nulla,
neppure l’oro delle foglie fradicie,
né questi giorni che a gran colpi d’ala
vanno da ieri a domani, rimpatriano.
Lei fu con loro, pallida emigrante,
tenue beltà coi suoi segreti vani,
brumosa. E ora condotta certamente
via, tra i boschi piovosi. Come prima
eccomi in faccia a un irreale inverno,
ricanta il ciuffolotto, unica voce
che insiste, come l’edera. Ma il senso
chi lo può dire? E la salute scema,
simile oltre la nebbia al fuoco breve
che un vento glaciale smorza… Ed è già tardi.
Il barbagianni
La notte è una grande città addormentata
battuta dal vento… È venuto fin qui da lontano,
all’asilo del letto. È mezzanotte di giugno.
Tu dormi, mi hanno portato a questi bordi infiniti,
freme al vento il nocciolo. Ecco il richiamo
che viene e si ritrae, sembra davvero
una luce in fuga nei boschi, o quel che dicono
il vorticare d’ombre giù negli inferi.
(Questa voce nella notte estiva, quante cose
potrei dirne, e dei tuoi occhi…) Ma è soltanto
il grido del barbagianni che ci invita
nel folto di questi boschi suburbani.
E subito il nostro odore
è quello del marciume al far dell’alba,
subito sbuca l’osso
sotto la nostra pelle così calda,
e intanto le stelle svaniscono in fondo alle strade.
Breve biografia di Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera francese, ed è morto a Grignan nel 2021.Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie, cui sono seguite Poesie (1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (1994), E tuttavia (2001). La sua attività di prosatore e saggista trova l’espressione più alta nei taccuini di Appunti per una semina (1984), seguiti da La seconda semina (1996) e dal saggio La parola Russia (2002).
-Avvenire- Giornale della CEI-
Addio a Philippe Jaccottet, poeta in ascolto della presenza e della natura
Articolo di Alberto Fraccacreta -giovedì 25 febbraio 2021
Aveva 95 anni, è tra i massimi poeti in lingua francese. Nato in Svizzera, viveva da tempo nell’Alta Provenza, “ambiente” delle sue poesie, in cui si sposano leggerezza e profondità.
Ho telefonato a casa di Philippe Jaccottet qualche tempo fa. «Jaccottet… Oui?», la subitanea risposta. Ho cominciato a biascicare qualche parola in un francese da arresto. Desideravo chiedere al poeta, scomparso ieri a 95 anni, la sua disponibilità per un’intervista. L’energica seppur pacata voce che era all’altro capo del telefono, sembrava sorridere alla richiesta e adduceva alcune ragioni per un diniego che in verità non ho compreso del tutto. Certo è che, alla fine, in perfetto italiano Jaccottet ha chiosato: «Sono vecchissimo… ormai…». La mia attenzione, una volta chiuso l’ancora tremolante telefono, s’indirizzò più all’“ormai” che al “vecchissimo”. “Ormai” significava l’essere entrato in una dimensione che osservava l’esteriorità del mondo con uno sguardo indulgente ma distaccato.
Il Philippe che aveva ribattuto così cortesemente era lo stesso io lirico di E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006): un io povero, capiente. Più sganciato dalle cose. Attento alla loro lucentezza. Già Starobinski lo aveva sottolineato nel memorabile saggio Parlare con la voce della luce, presente in forma di postfazione in Il Barbagianni. L’ignorante (a cura di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992): «È forse questo l’aspetto più ammirevole dell’opera di Philippe Jaccottet: […] il soggetto cui essa rinvia è il più discreto che esista, desideroso unicamente di alleggerire la propria presenza, di renderla quasi invisibile». Insomma, la poesia di Jaccottet è umile, discreta, come ha evidenziato lo stesso Pusterla, uno dei massimi esperti mondiali del poeta svizzero, autore della prefazione delle Œuvres nella prestigiosa edizione Gallimard (“Bibliothèque de la Pléiade”, 2014).
Avevo inviato persino una lettera, alcuni mesi prima, alla quale rispose declinando sempre la sospirata intervista ma esultando del «beau souvenir» che arrivava da Urbino: qual era il souvenir? La lettera stessa, scritta anche in quell’occasione in un francese spericolato. La lettera era Urbino. Questa, in fondo, è la poesia: il mezzo è la traccia inderogabile del messaggio. E Urbino era Raffaello, Piero della Francesca, la Madonna di Senigallia (di cui Jaccottet parlò raffrontandola curiosamente ai quadri di Morandi in La ciotola del pellegrino (traduzione di Fabio Pusterla, Casagrande, 2007).
Nato a Moudon nel 1925, dopo gli studi a Losanna, Jaccottet andò a vivere a Parigi. Il frenetico ambiente letterario della capitale non gli era familiare, al punto che decise di trasferirsi nell’ottobre del ’53 con la moglie e pittrice Anne-Marie Haesler a Grignan, paese medievale in Alta Provenza non lontano dal Rodano. Nella solitudine essenziale del suo studiolo intraprende la strada della traduzione, lavorando a Omero, ai classici tedeschi e alla poesia italiana (Ungaretti su tutti, ma anche Montale, Bigongiari e molti altri). In un’intervista televisiva (reperibile su Vimeo) Jaccottet ha confessato che la sua vita cambiò quando, durante una passeggiata dal sapore esiodeo, vide «un albero di mele cotogne sul ciglio della strada»: «Un albero abbastanza raro che io non avevo mai visto in fiore. Allora è successo qualcosa che mi ha a dir poco influenzato».
Lì nella Drôme provenzale costruisce la mitologia delle sue ambientazioni poetiche: il nido dell’anemone, le carote selvatiche come «piccole galassie in sospensione», il pettirosso «porta-lanterna», i colori diafani del tramonto simili a «lame vetrificate», l’usignolo in un «ruscello nascosto nella notte». Questi soggetti – a prima vista “insignificanti” – sono latori di uno spazio intermedio (entre-deux) che non si oppone né alla terra né al cielo, ma tenta di cogliere “rasoterra” una trascendenza dentro il reale, uno scorcio di ulteriorità nell’atto della presenza. Il punto di vista dello scrittore è quello di un ignorant («Più invecchio e più io cresco in ignoranza,/ meno possiedo e regno più ho vissuto»), capace di annotare la limpidezza sorgiva di una immacolata percezione.
La poesia di Jaccottet nasce sotto gli auspici di questa levità e di un classicismo disarmante. Pian piano, però, sin dagli anni Settanta e Ottanta con Alla luce d’inverno e Pensieri sotto le nuvole (poi tradotte ancora da Pusterla per Marcos y Marcos, 1997) si sviluppa la predilezione per una lirica larvale che slaccia la cerniera del verso e apre la scrittura a un grembo di osservazioni, bozzetti, sequenze estremamente moderne. Una scrittura legata in maniera indissolubile all’occhio purificato («Che cos’è lo sguardo?/ Una freccia più aguzza della lingua/ la corsa da un estremo all’altro/ dal più profondo al più lontano/ dal più scuro al più chiaro// un rapace», da Arie, traduzione di Albino Crovetto, Marcos y Marcos, 2001), con uno stile paesaggistico e impressionistico che coinvolge l’amato Cézanne e Morandi nel contemplare l’«immemoriale respiro divino», come accade in Paesaggi con figure assenti (a cura di Fabio Pusterla, Armando Dadò, 2009).
Dagli inizi degli anni Novanta a oggi – lasso di tempo in cui fioccano premi importanti, tra cui il Goncourt per la poesia (2005) e il Premio Mondiale Cino-del-Duca (2018), oltre alla sempiterna candidatura al Nobel – la svolta del poème en prose cambia definitivamente i connotati all’opera jaccottetiana: saggi, riflessioni, pezzi narrativi confluiscono nell’unico genere lirico che acquista la forza di un’epica slabbrata, di una totalizzante ossessione elegiaca. Assieme al diario di viaggio (in Russia, Austria, Libano, Siria e Israele) e agli immarcescibili carnets, viene fuori un’idea di silloge destinata a mutare per sempre la percezione fisionomica della poesia: versi e non versi nel medesimo calderone, lirismo e saggismo coagulati, appunti e riquadri romanzeschi (non dimentichiamo la pubblicazione di Appunti per una semina, a cura di Antonella Anedda, Fondazione Piazzolla, 1994; e il romanzo L’oscurità, a cura di Gianluca Manzi, Fazi, 1998), fino alle prose di Passeggiata sotto gli alberi (prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos), in uscita il 17 marzo prossimo: tutto, davvero tutto è poesia.
Sulla scorta di tale slargo espressivo nasce il capolavoro assoluto di Jaccottet, il già citato E, tuttavia con le paroles à la limite de l’ouïe, «parole al limite dell’udito, a nessuno attribuibili, raccolte nella conca dell’orecchio proprio come la rugiada da una foglia». Il gesuita Hopkins, Juan de la Cruz, Claudel e persino Gesù si affacciano al testo nelle vesti sfolgoranti dell’intuizione poetica effigiata dall’azzurro e dall’arancio del martin pescatore, passando sotto lo schiocco di viole che sgombrano la vista, convolvoli rosa che richiamano il poeta a «una sorta d’origine». Qui, nell’infimo e nel consueto, s’infrange ogni resistenza, ogni inchiodatura di scetticismo – pure segnalato dall’esperienza del dolore e della morte nelle coeve Note dal botro – per dar luogo a una forma di immacolatezza, di mariologia della letteratura che offre speranza e consolazione: «Ripenso al verso di Nerval che accosta la santa e la fata: potrei assistere qui, nel mio giardino, alla trasfigurazione della fata ancora rosa, ancora incarnata, nella sua propria anima purissima e priva di peso? Sarebbe troppo bello, troppo conforme ai miei sogni. Credo ci sia piuttosto in questa scena qualcosa come un’acqua molto pura».
La recente monografia di Maurizio Nascimbene, Philippe Jaccottet, un poeta “qui creuse dans la brume” (Nulla Die, 2020) registra come tale «valore attribuito all’innocenza» appaia strettamente connesso a un’«attività poetica volta a indagare il Tutto». E proprio in questi giorni Crocetti ha tradotto un libro che prosegue e celebra il senso di ospitalità lirica, Quegli ultimi rumori… (a cura di Ida Merello e Albino Crovetto).
Con vera commozione rivolgiamo oggi il nostro pensiero alla scomparsa di un autore che ha associato, se non sovrapposto del tutto, la sua esperienza di poeta alla sua esperienza di uomo. Un uomo e un poeta la cui opera, lungi dal digradare a evento moralizzatore, ha in sé una radice di ethos insradicabile, una passione originale per la verità e la bellezza, una volontà di bene come raramente si è potuto osservare a queste altezze, con questo vigore e impeccabilità stilistica, nella storia della letteratura occidentale. Se è possibile utilizzare un’espressione di Amelia Rosselli, “tutto il mondo è vedovo” se Philippe Jaccottet non cammina ancora per le strade di Grignan.
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto-Rivista di Poesia
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Descrizione del libro di Luca Ariano “Un libro compatto e autenticamente esperienziale”, queste le parole di sintesi di Alberto Bertoni, che firma una prefazione utile e puntuale, rendendo merito al poeta sia per le intenzioni – “riaprire la poesia alla sua possibilità di essere per tutti” – che per l’esito letterario del suo lavoro, “una poesia polifonica e dialogica”. La raccolta s’apre evocando Gramsci – Odio gli indifferenti… – e si conclude con un’intervista all’autore condotta da Luigi Cannillo, dalla quale emergono interessanti riflessioni sull’intrecciarsi di Storia e di storie, linguaggio alto e linguaggio parlato, mito e modernità. La memoria dei senza nome è una lezione di salvataggio della memoria, la quale si salva raccontando le storie vissute e quelle ascoltate, dando voce a persone concrete, colte nelle loro passioni e nelle più diverse età, descrivendo luoghi, scorci di paesi e città della vita – capaci a loro volta di preservare il ricordo di chi li ha abitati, grazie all’imponderabile opera del genius loci. Ci sono le vite di Nena e Giggino, il mosaico di racconti della guerra, i ricordi dell’autore; molto frequente la scelta del salto temporale, con conseguente rivisitazione del luogo o di una fuga in altra età. Il disorientamento, proprio della contemporaneità, entra in scena spesso e si coglie già scorrendo l’indice delle sezioni, dove si passa da ‘Damnatio memoriae’ ad ‘Amore capitale’, dall’apocalittico ‘Arresto del sistema’ all’improprio connubio di ‘Animae digitali’. Ma alla fine, a ben pensarci, questo libro non si può ‘raccontare’ se non sgranandolo verso su verso, se non lasciandosi condurre da Luca Ariano in un percorso che risulterà insieme di alto tenore civile e teneramente amoroso, di preoccupazione e denuncia per il futuro ma anche di ostinata fiducia nelle fatiche della memoria.
Antonio Fiori
*
Partito dopo l’alba
in una mattina di scarnebbia
– un altro giorno di novembre
da marcare sul calendario;
l’auto costeggia i resti del fiume…
torri di telecomunicazioni
immaginando il suo treno accanto.
Non è lontano Rogoredo
tra edifici eretti in fretta:
in bocca il ricordo di baci notturni.
Non pensavi di vedere Giggino così:
per te eterno ragazzino
ma ora trema nel letto tra flebo e fili…
sguardo sgomento spaventato
stringendoti la mano.
*
Muglia il torrente dopo la pioggia:
non ricordano più ponti travolti…
strade tracimate.
Questa sera di quasi primavera
una tela di Latino Barilli;
sotto terra vi erano canali,
barche portarono pietre e marmi
per la cattedrale.
Sono rimasti solo i nomi
di antiche vie, resti di mulini
che non macinano più.
Giggino in quella chiesa pregò
bambino, forse con la nonna,
a San Domenico una domenica
da dopoguerra anni Cinquanta.
Sapevi che studiò Giordano Bruno?
Tra le colonne ti dissero
che ancora qualcuno vide
il suo spirito inseguito dalle fiamme.
*
Ormai quasi tradizione
ammalarti prima delle feste:
… gli esami, forse il timore
di tornare, la conta di assenze,
una tavola in meno da imbandire.
Ti diranno che lo sapevano
che prima o poi sarebbe toccato…
Che fine faranno?
Schiavi di robot come antiche plebi
in guerra per un sorso d’acqua,
per terre non ancora di sabbia
e foreste reperti di civiltà prerobotiche.
Miniere di carbone cancellano
gli ultimi villaggi,
chiese medioevali senza liturgie.
Non ti servirà prendere treni:
ancora pioggia gelida sui tuoi passi
attendendo da lei un altro Natale
prima che cumuli di plastica
sommergano siti archeologici.
.
Breve biografia di Luca Ariano (Mortara – PV – 1979) vive a Parma. Di poesia ha pubblicato: Bagliori crepuscolari nel buio (Cardano 1999), Bitume d’intorno (Edizioni del Bradipo 2005), Contratto a termine (Farepoesia, 2010, Qudu, 2018) Nel 2012 per le Edizioni d’If è uscito il poemetto I Resistenti, scritto con Carmine De Falco. Nel 2015 per Dot.com.Press-Le Voci della Luna ha dato alle stampe Ero altrove, finalista al Premio Gozzano 2015
Breve biografia di Edith Irene Södergran (San Pietroburgo, 4 aprile 1892 – Raivola, 24 giugno 1923) è stata una poetessa finlandese di lingua svedese. Iniziatrice dell’espressionismo in Finlandia, ha influenzato la lirica in lingua svedese fra le due guerre mondiali. Dopo aver frequentato a San Pietroburgo la scuola tedesca, trascorse lunghi anni in sanatorio, soprattutto in Svizzera, dove venne in contatto con le avanguardie letterarie europee. Tornata in patria, diede inizio a un’attività poetica, eroicamente proseguita in anni bui di guerra, di difficoltà materiali e di isolamento. Alla prima raccolta Dikter (“Poesie”, 1916), seguirono Septemberlyren (“Lira settembrina”, 1918), Rosenaltaret (“L’altare di rose”, 1919) e Framtidens skugga (“L’ombra del futuro”, 1920), in cui è evidente l’influsso nietzschiano. Il linguaggio, sostenuto sempre da una forte tensione spirituale (dopo l’iniziale atteggiamento estatico di fronte alla natura e alla vita la S. si accostò all’antroposofia per approdare infine alla semplicità evangelica), raggiunge una consapevole, rigorosa misura/”>misura, che l’estrema musicalità del verso esalta soprattutto in Landet som ikke är (“Il paese che non c’è”, post., 1925).
-Notte stellata-
Tormento vano,
attesa vana,
il mondo è vuoto come le tue risa.
Le stelle cadono –
notte fredda e magnifica.
L’amore sorride nel sonno,
l’amore sogna l’eternità…
Paura vana, dolore vano,
il mondo è meno di niente,
scivola giù nel fondo della mano dell’amore
l’anello dell’eternità.
-Buio di bosco-
Nel bosco malinconico
vive un dio malato.
Nel bosco buio i fiori sono così pallidi
e gli uccelli così timorosi.
Perché il vento è pieno di bisbigli, avvertimenti
e la via oscura piena di presentimenti?
Nell’ombra posa il dio malato
e sogna malvagi sogni…
-Il giorno si fa freddo-
Il giorno si fa freddo verso sera…
Bevi il calore dalla mia mano,
la mia mano ha lo stesso sangue della primavera.
Prendimi la mano, prendimi il braccio bianco,
prendi il desiderio delle mie spalle strette…
Sarebbe strano sentire,
una notte sola, una notte come questa,
il tuo capo pesante contro il mio petto.
Hai gettato la rosa rossa del tuo amore
nel mio grembo bianco −
io stringo nelle mani calde
la rosa rossa del tuo amore che appassisce presto…
O sovrano dallo sguardo freddo,
ricevo la corona che mi porgi
e reclina il mio capo sul cuore…
Ho visto il mio signore per la prima volta, oggi,
tremando, l’ho subito riconosciuto.
Ora sento già la sua mano pesante sul mio braccio leggero…
Dov’è la mia sonora risata di vergine,
la mia libertà di donna a testa alta?
Ora sento già la sua stretta salda intorno al mio corpo fremente,
ora odo il duro suono della realtà
di contro ai miei fragili, fragili sogni.
Cercavi un fiore
e hai trovato un frutto.
Cercavi una sorgente
e hai trovato un mare.
Cercavi una donna
e hai trovato un’anima −
tu sei deluso
-Le stelle –
Quando viene la notte,
io sto sulla scala e ascolto,
le stelle sciamano in giardino
ed io sto nel buio.
Senti, una stella è caduta risuonando!
Non andare a piedi nudi sull’erba;
il mio giardino è pieno di schegge.
-Non temo nulla-
Io ho energie.
Non temo nulla.
Luce è il cielo per me.
Se rovina il mondo-
io non rovino.
I miei orizzonti stanno luminosi
sopra la notte tempestosa della terra.
Uscite dal campo di luce misterioso!
Inflessibile, la mia forza aspetta.
Breve biografia di Edith Irene Södergran (San Pietroburgo, 4 aprile 1892 – Raivola, 24 giugno 1923) è stata una poetessa finlandese di lingua svedese.Iniziatrice dell’espressionismo in Finlandia, ha influenzato la lirica in lingua svedese fra le due guerre mondiali. Dopo aver frequentato a San Pietroburgo la scuola tedesca, trascorse lunghi anni in sanatorio, soprattutto in Svizzera, dove venne in contatto con le avanguardie letterarie europee. Tornata in patria, diede inizio a un’attività poetica, eroicamente proseguita in anni bui di guerra, di difficoltà materiali e di isolamento. Alla prima raccolta Dikter (“Poesie”, 1916), seguirono Septemberlyren (“Lira settembrina”, 1918), Rosenaltaret (“L’altare di rose”, 1919) e Framtidens skugga (“L’ombra del futuro”, 1920), in cui è evidente l’influsso nietzschiano. Il linguaggio, sostenuto sempre da una forte tensione spirituale (dopo l’iniziale atteggiamento estatico di fronte alla natura e alla vita la S. si accostò all’antroposofia per approdare infine alla semplicità evangelica), raggiunge una consapevole, rigorosa misura/”>misura, che l’estrema musicalità del verso esalta soprattutto in Landet som ikke är (“Il paese che non c’è”, post., 1925).
Roma- Presentazione del libro di poesie di Laura Mancini:” L’anima non vola”
Cose Note Edizioni
Roma-Giovedì 10 ottobre alle 19, il libro di poesie L’anima non vola, di Laura Mancini uscito il 7 giugno 2024 con Cose Note Edizioni, viene presentato per la prima volta a Roma presso gli spazi dell’associazione culturale Gialloimmaginavo in via Alessandro Cialdi, 1.
L’autrice, affiancata da Luigi Di Terlizzi (socio fondatore dell’Associazione che ospita l’evento) e Sandra Albanese, la quale interpreterà alcuni dei componimenti della silloge, racconterà ai presenti cosa l’ha avvicinata sin da bambina alla scrittura in versi e allargherà il discorso a cosa significa fare poesia oggi, come nelle epoche passate. Il pubblico potrà partecipare attivamente e approfittare dell’incontro per acquistare una copia del libro autografata.
La raccolta poetica
La raccolta è stata presentata in anteprima dall’Editore alla scorsa edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. L’autrice ha realizzato il primo, intimo, firma copie a luglio presso la Libreria Incipit di Anzio, in Provincia di Roma e annuncia finalmente il debutto dell’opera in questo evento autunnale della Capitale. Questo un estratto della sinossi che descrive lo spirito dell’opera: “Siamo fatti di fantasie, sogni, speranze, desideri. Molti di questi prendono forma solo nella nostra mente e non nella realtà. L’anima non vola è l’esplorazione in versi di molteplici situazioni in cui ciò che abbiamo voluto e sognato non si è concretizzato: forse perché tale realizzazione deve ancora avvenire – come nei momenti che caratterizzano la gioia emozionante dell’attesa – forse perché la realtà si è rivelata ben diversa dalle aspettative. Talvolta, pure, le fantasie non nascono per divenire realtà ma solo per il gusto di giocare con le emozioni e i sensi, quasi per provare a noi stessi di esser ancora vivi e capaci di sentire.” La prefazione è a cura della scrittrice e arteterapeuta Marilde Trinchero, autrice di La solitudine delle madri, Reclusione di corpi e di menti e La vita è bella. Dialoghi al tramonto del tempo.
L’autrice-Laura Mancini è una scrittrice, blogger e copywriter romana, già autrice della silloge poetica Brucia (Ego Valeo Edizioni) e di numerosi componimenti inseriti in diverse raccolte e antologie, tra cui Enciclopedia dei poeti italiani contemporanei (Aletti Editore). Ha ideato e cura il magazine di arte, cultura e spettacolo Moozart.it e il blog CandyValentino.it che tratta di moda ed enogastronomia.
Cose Note Edizioni Fondata da Filippo Cosentino, la casa editrice nasce nel 2021 come ulteriore asset del Dragonfly Music Studio di Alba per gestire il publishing della label Ipogeo Records. Nel 2023 CNE amplia il catalogo con la creazione di collane editoriali dedicate a libri a stampa su temi a noi cari, per professionalità acquisite e interessi: natura, saggistica, poesia, bambini, ragazzi, manualistica. Dal 2024 CNE approda in Messaggerie Libri e Emme Promozione, due grosse realtà del mondo dell’editoria che ci danno la possibilità di raggiungere i nostri lettori nella maniera più diretta possibile, in libreria, e di offrire ai nostri autori la visibilità commerciale che meritano.
Data la capienza limitata della sala, è consigliata la prenotazione prima di partecipare
tel. 3398055310
Ad Avellaneda, il padre lavorava come cuentenik, mestiere tipico ebreo: vendita porta a porta, a volte di gioielli, a volte di elettrodomestici[1].
L’infanzia fu complicata dagli echi della seconda guerra mondiale, soprattutto per il massacro di Rivne, di cui parte dei suoi parenti lontani rimase vittima. Ebbe inolte diversi problemi di salute, come asma, acne e tendenza ad aumentare di peso; questi fattori influenzarono la sua autopercezione fisica e la sua autostima, e, congiuntamente alle pressanti aspettative ”borghesi” dei suoi genitori, sono ritenute il punto di partenza dei suoi tormenti e dei suoi disturbi degli anni a seguire[2].
Nel 1954, dopo molti dubbi, entrò nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires, cambiando spesso indirizzo (dapprima Filosofia, poi Giornalismo poi Lettere). In seguito, si dedicò anche alla pittura col surrealista Juan Batlle Planas, per poi abbandonare definitivamente l’accademia e dedicarsi a pieno alla scrittura. Un incontro che la segnò in questo periodo fu con Juan Jacobo Bajarlia, detentore della cattedra di Lettere moderne, che fu un punto di riferimento e un aiuto per le prime pubblicazioni, sia per le correzioni delle bozze sia perché la introdusse personalmente ad editori (Antonio Cuadrado) e poeti (Oliverio Girondo).
I suoi primi maestri furono dunque esponenti del surrealismo, sebbene tra le sue letture e i suoi primi scritti figuri una fascinazione notevole per l’esistenzialismo e la psicoanalisi. Legge con fervore Sartre, Faulkner, Joyce ma anche Mallarmé, Artaud, Kierkegaard, incontrando in essi non solo temi e ispirazione ma anche “tracce della sua stessa identità”[2]. Ebbe diverse sessioni di psicoanalisi con León Ostrov (a cui poi dedicò la poesia “El despertar”) attraverso cui riuscì sia a lenire i suoi problemi sia ad innovare la sua poetica, unendovi l’esplorazione dell’inconscio e della soggettività[2].
Nel 1962 conobbe la poetessa italiana Cristina Campo, per cui provò una profonda attrazione e con cui scambiò per alcuni anni poesie e lettere. Dagli scritti emerge una la pulsione erotica di Alejandra che avvolge la “casta” Cristina, la quale ne resta sopraffatta ma distante[3]. Nonostante l’apparente inconciliabilità tra loro, le due donne accomunate dall’amore per il mistero della poesia[3] mantennero questa relazione epistolare forse fino all’ultima lettera mai spedita della poetessa argentina datata 1970, in cui accetta parzialmente la distanza e la divergenza tra i loro mondi. A Cristina Campo Alejandra Pizarnik dedicò la poesia Anelli di cenere.
Tornata a Buenos Aires scrisse alcuni dei lavori più conosciuti ed apprezzati, come I lavori e le notti, Estrazione della pietra della pazzia e L’inferno musicale.
I suoi diari personali, per molti anni tenuti nascosti da lei e successivamente dai suoi eredi testamentari, lasciano intendere la bisessualità o l’omosessualità della scrittrice.
Nel 1967 il padre morì di infarto; questo avvenimento viene descritto nei suoi diari come una “Morte interminabile, oblio del linguaggio e perdita di immagini. Come mi piacerebbe stare lontano dalla follia e la morte (…) La morte di mio padre rese la mia morte più reale” e segna l’inizio di un progressivo incupimento dei suoi scritti. In alcune lettere successive dichiara apertamente di provare una fatica nel riuscire a dire per davvero ciò che vorrebbe dire, di percepire una “abissale distanza tra desiderio e atto”. Sembra quasi che il linguaggio poetico che prima era stato il suo nutrimento ed il suo vestito si stesse dissolvendo, perdendo “la materica consistenza in grado di renderla corpo, vita, donna”[4].
Successivamente, andò ad abitare con la sua compagna fotografa, Martha Isabel Moia, mentre il suo stile di vita divenne decisamente più irregolare, acuendosi la sua dipendenza da farmaci.
Nel 1969 esce La contessa crudele (o sanguinaria), testo in prosa. Lo stesso anno va a New York per ricevere la borsa di studi Guggenheim,[5] e ne viene frastornata, percependo a pieno la “ferocia insostenibile” della città. Dopo due anni vince anche la borsa di studio Fulbright.
Compie un ritorno in Francia cercando un approdo verso ciò che credeva rimasto del suo precedente periodo parigino. Disillusa fa ritorno in Argentina, iniziando un processo di chiusura e disgregazione che culminerà in due tentativi di suicidio e un internamento in clinica psichiatrica.
Muore a 36 anni, il 25 settembre 1972, dopo aver ingerito cinquanta pastiglie di seconal, mentre era in permesso dalla clinica.
Sul suo letto di morte i suoi ultimi versi “non voglio andare / nulla più / che fino al fondo”
Dopo la sua morte, lo scrittore argentino Julio Cortázar le dedicò la poesia Aquí Alejandra.
Fu sepolta nel cimitero ebreo di La Tablada, ad est di Buenos Aires; ogni due o tre mesi scompare la sua foto dalla tomba[1].
La notte
Della notte so poco
ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.
Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a esistere.
Poesia
Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.
Anelli di cenere
a Cristina Campo
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
Presenza
la tua voce
in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Questa notte, in questo mondo
a Martha Isabel Moya
questa notte in questo mondo
le parole del sogno dell’infanzia della morte
non è mai questo che si vuol dire
la lingua materna castra
la lingua è un organo di conoscenza
del fallimento di ogni poesia
castrata dalla sua stessa lingua
che è l’organo della ri-creazione
del ri-conoscimento
ma non della resurrezione
di qualcosa in forma di negazione
del mio orizzonte di maldoror col suo cane
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l’amore
fanno l’assenza
se dico acqua berrò?
se dico pane mangerò?
questa notte in questo mondo
straordinario il silenzio di questa notte
con l’anima succede che non si vede
con la mente succede che non si vede
con lo spirito succede che non si vede
da dove viene questa cospirazione d’invisibilità?
nessuna parola è visibile
ombre
spazi viscosi dove si occulta
la pietra della follia
neri corridoi
li ho percorsi tutti
oh fermati un altro po’ tra di noi!
la mia persona è ferita
la mia prima persona singolare
scrivo come chi alza un coltello nel buio
scrivo come dico
la sincerità assoluta sarebbe sempre
l’impossibile
oh fermati un altro po’ tra di noi!
lo sfacelo delle parole
che sloggiano il palazzo del linguaggio
la conoscenza tra le gambe
che cosa hai fatto del dono del sesso?
oh miei morti
li ho mangiati mi sono strozzata
non ne posso più di non poterne più
parole camuffate
tutto scivola
verso la nera liquefazione
e il cane di maldoror
questa notte in questo mondo
dove tutto è possibile
tranne
la poesia
parlo
sapendo che non si tratta di ciò
sempre non si tratta di ciò
oh aiutami a scrivere la poesia più prescindibile
quella che non serva nemmeno
a essere inservibile
aiutami a scrivere parole
in questa notte in questo mondo
***
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.
***
no, la verità non è la musica
io, triste attesa di una parola
qual è il nome che cerco
e che cosa cerco?
non il nome della deità
non il nome dei nomi
ma i nomi precisi e preziosi
dei miei desideri nascosti
qualcosa in me mi punisce
da tutte le mie vite:
– Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi
e hai preferito l’attesa,
come se tutto ti annunciasse la poesia
(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile
sono solo venuta a vedere il giardino –)
BIOGRAFIA
-FONTE- Rivista «Avamposto»
Le Poesie sono pubblicate dalla Rivista di Poesia «Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Contatti
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Breve biografia Corrado Govoni nasce a Tamara, in provincia di Ferrara, nel 1884. Vive per un breve periodo a Milano e poi stabilmente a Roma e muore ad Anzio nel 1965. Appena diciannovenne, esordisce con la raccolta Le fiale (1903). Seguono: Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Poesie scelte (a cura di A. Neppi, 1918), Tre grani da seminare (1920), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), La Trombettina (1924), Brindisi alla notte (1924), Il flauto magico (1932), Canzoni a bocca chiusa (1938), Pellegrino d’amore (1941), Govonigiotto (1943), Aladino. Lamento su mio figlio morto (1946), L’Italia odia i poeti (1950), Patria d’alto volo (1953), Preghiera al trifoglio (1953), Antologia poetica (a cura e con prefazione di G. Spagnoletti, 1953), Manoscritto nella bottiglia (con un saggio di G. Ravegnani, 1954), Stradario della primavera e altre poesie (1958), Poesie 1903-1959 (a cura di G. Ravegnani, 1961). È autore di numerosi libri in prosa, racconti, testimonianze, romanzi. Entrato in contatto con Marinetti, si avvicina al futurismo, collaborando ad alcune riviste come “Lacerba”, “La Voce” e “Poesia”, ma ritorna gradualmente alle forme più tradizionali, soprattutto nelle poesie dedicate al figlio, vittima dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.
Le cose che fanno la domenica
L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.
Il canto del gallo nel pollaio.
Il gorgheggio dei canarini alle finestre.
L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolìo della puleggia.
La biancheria distesa nel prato.
Il sole sulle soglie.
La tovaglia nuova nella tavola.
Gli specchi nelle camere.
I fiori nei bicchieri.
Il girovago che fa piangere la sua armonica.
Il grido dello spazzacamino.
L’elemosina.
La neve.
Il canale gelato.
Il suono delle campane.
Le donne vestite di nero.
Le comunicanti.
Il suono bianco e nero del pianoforte.
Le suore bianche bendate come ferite.
I preti neri.
I ricoverati grigi.
L’azzurro del cielo sereno.
Le passeggiate degli amanti.
Le passeggiate dei malati.
Lo stormire degli alberi.
I gatti bianchi contro i vetri.
Il prillare delle rosse ventarole.
Lo sbattere delle finestre e delle porte.
Le bucce d’oro degli aranci sul selciato.
I bambini che giuocano nei viali al cerchio.
Le fontane aperte nei giardini.
Gli aquiloni librati sulle case.
I soldati che fanno la manovra azzurra.
I cavalli che scalpitano sulle pietre.
Le fanciulle che vendono le viole.
Il pavone che apre la ruota sopra la scalèa rossa.
Le colombe che tubano sul tetto.
I mandorli fioriti nel convento.
Gli oleandri rosei nei vestibuli.
Le tendine bianche che si muovono al vento.
Punta secca
Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell’uncino di riccio
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t’impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d’ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l’orchidea tu l’hai negli occhi.
Paesi
Esplodon le simpatiche campane
d’un bianco campanile, sopra tetti
grigi: donne, con rossi fazzoletti,
cavano da un rotondo forno il pane.
Ammazzano un maiale nella neve,
tra un gruppo di bambini affascinati
dal sangue, che, con gli occhi spalancati,
aspetta la crudele agonia breve .
Gettano i galli vittoriosi squilli.
I buoi escono dai fienili neri;
si spargono su l’argine tranquilli,
scendono a bere, gravi, acqua d’argento.
Nei campi, rosei, bianchi, i cimiteri
sperano in mezzo al verde del frumento.
Naufragio
Sul mio capo di naufrago
galleggiante sul mare nero della vita
afferrato a una tavola sfasciata
materna culla
vedo ancora ondeggiare le stelle
come un tenero ramo di mandorlo.
Luce di fuori mondo
o vertigine
degli abissi incantevoli del nulla?
Ne la corte.Tre stracci ad asciugare
– Ne la corte – Tre stracci ad asciugare
sul muricciuolo accanto il rosmarino.
Una scala seduta. Un alveare
vedovo, su cui giuoca il mio micino.
Un orciuolo che ha sede sul pozzale
di marmo scanalato da le funi.
Dei cocci gialli. un vaso vuoto. Un fiale
che ha vomitato. Dei fogliami bruni.
– Su le finestre – Un pettine sdentato
con due capelli come dei pistilli.
Un astuccio per cipria. Uno sventrato
guancialino di seta per gli spilli.
Una scatola di belletto. Un guanto
mencio. Un grande garofano appassito.
Una cicca. Una pagina in un canto
piegata, da chissà mai quale dito!
– Per l’aria – La docile campana
d’un convento di suore di clausura.
Una lunga monotonia di zana.
Un gallo. Una leggera incrinatura
di vento. Due rosse ventarole
cifrate. Delle nubi bianche. Un treno.
Un odore acutissimo di viole.
Un odore acutissimo di fieno.
Contro corrente come bionde trote
Contro corrente come bionde trote
fendevano la calca cittadina
due fanciulle insolenti di bellezza.
Curiosando strusciarono i musini
di maliziosa cipria qua a un acquario
di lusso di dormenti onde ravvolte
di stoffe per murene ed aragoste,
più in là a un brillante altar di calzature,
spume di cardi rossi per pianelle
di Cenerentola, lustrini e argenti
per taccuini da ballo. Scantonarono
a un tratto e una si chinò nascosta
dall’inquieta compagna ad allacciarsi
la giarrettiera a mezza coscia ignuda.
Le succhiò la corrente cittadina.
Vedo sempre la strada illuminata
da quel fulgore di carne di donna
nel marmo della pioggia settembrina.
Siepe
All’odore crudele
che viene dalle spine della siepe
il tuo sangue amareggia l’amore,
e ti diventan gli occhi
una luce cattiva pigiata.
Sulla tua statua che cammina
aprendo una nuova strada nel vento
invano battono le mie parole
come gocce di rugiada da me scossa.
Prego l’erba dell’argine ti venga incontro
con la lampada avvelenata del gigaro
per far soffrire la tua bocca rossa.
Il lampione
Il crepuscolo si sfogliò
su i tegoli muscosi;
l’ultimo suono di campana si smorzò
ne l’abbandono dei sagrati erbosi.
In una svolta, un fanale
notifica! la sua vittoria
sopra l’ombra cocciuta.
La sua fiamma claustrale
sembra una fiamma provvisoria
ed instabile. Si direbbe che sternuta.
Il fanale s’illude d’essere un sacro lampadario
che nel suo cuore chiude
come in un vaso un elettuario
infiammabile.
Ma il vento precario
lo prende per un disadorno e vitreo erbario
con un gìgaro
friabile che si diverte a gualcire.
Ed il fanale si rassegna
a la notturna passione
senza imbroncire.
Il silenzio, come un cane,
segue le pestè dei rumori.
Il sonno sente a gli occhi dei pizzicori.
E l’alba soffia il dente di leone
del lampione.
Il palazzo dell’anima
Triste dimora! Aborti nelle fiale,
rachitici e verdastri. Sorridenti
bambole sparse ovunque. Sofferenti
in vasi d’ambra fior di digitale.
Campane di cristallo su agonie
di cera, rosee maschere di seta
annegate nell’acqua ovale inquieta
degli specchi, malinconie impagliate.
Laggiù la città bianca col suo rombo
d’api e il suo fiume di ardente piombo,
come un pallido sogno di morfina.
Oh i crepuscoli tristi d’anilina
sulle mura echeggianti di fanfare!
Da una finestra si scorge il mare.
Crepuscolo ferrarese
Il mao si stira sopra il davanzale
sbadigliando nel vetro lagrimale.
Nella muscosa pentola d’argilla
il geranio rinfresca i fiori lilla.
La tenda della camera sciorina
le sue rose di fine mussolina.
I ritratti che sanno tante storie
son disposti a ventaglio di memorie.
Nella bonaccia della psiche ornata
il lume sembra una nave affondata.
Sul tetto d’una prossima chiesuola
sopra una pertica una ventarola
agita l’ali come un uccelletto
che in un laccio per i piedi sia stretto.
Altissimi, per l’aria, dai bastioni,
capriolano fantastici aquiloni.
Le rondini bisbigliano nel nido.
Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.
Il cielo chiude nella rete d’oro
la terra come un insetto canoro.
Dentro lo specchio, tra giallastre spume
ritorna a galla il polipo del lume.
La tristezza s’appoggia a una spalliera
mentre le chiese cullano la sera.
Chimerica corriera
Mi sfiorò la corriera all’improvviso,
e prima che pensassi di gridare:
«Ferma! vengo pure io oltre frontiera!».
era passata a volo, sollevando
un turbine di opaco polverone,
scomparendo alla vista: belle ignote,
contro i vetri di bambole le gote,
e il postiglione con la lunga frusta
che fulminava a fuoco la quadriglia…
Passò ancora in un vortice di neve,
e passò nell’estivo polverone.
Poi si fece vederesernpre più rararnente,
con i cavalli alati e il postiglione
un’ornbra con la frusta alta nel cielo;
e quando la rnia voce
fu così forte da coprir le ruote
la frusta e le cantanti sonagliere,
non passò più né lenta né veloce…
Eppure certe sere,
quando sono più stanco e ancor più bianco
e l’antica ferita
rni si torna ad aprire ed a dolere;
se aguzzo un po’ le orecchie
odo ancora venire da lontano,
rna è un sussulto del sangue o forse il tuono,
corne un fievole suono,
dal fondo della via o della rnia vita
che senza averla rnai raggiunta
ho per sernpre srnarrita:
non può esser che il vostro, sonagliere,
in viaggio per chirneriche frontiere.
Breve biografia Corrado Govoni nasce a Tamara, in provincia di Ferrara, nel 1884. Vive per un breve periodo a Milano e poi stabilmente a Roma e muore ad Anzio nel 1965. Appena diciannovenne, esordisce con la raccolta Le fiale (1903). Seguono: Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Poesie scelte (a cura di A. Neppi, 1918), Tre grani da seminare (1920), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), La Trombettina (1924), Brindisi alla notte (1924), Il flauto magico (1932), Canzoni a bocca chiusa (1938), Pellegrino d’amore (1941), Govonigiotto (1943), Aladino. Lamento su mio figlio morto (1946), L’Italia odia i poeti (1950), Patria d’alto volo (1953), Preghiera al trifoglio (1953), Antologia poetica (a cura e con prefazione di G. Spagnoletti, 1953), Manoscritto nella bottiglia (con un saggio di G. Ravegnani, 1954), Stradario della primavera e altre poesie (1958), Poesie 1903-1959 (a cura di G. Ravegnani, 1961). È autore di numerosi libri in prosa, racconti, testimonianze, romanzi. Entrato in contatto con Marinetti, si avvicina al futurismo, collaborando ad alcune riviste come “Lacerba”, “La Voce” e “Poesia”, ma ritorna gradualmente alle forme più tradizionali, soprattutto nelle poesie dedicate al figlio, vittima dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.
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