Federico Garcia Lorca: La Fucilazione -Uccidere un uomo per cancellare ciò che rappresenta-
FEDERICO GARCIA LORCA
Federico Garcia Lorca:”Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”
UCCIDERE UN UOMO PER CANCELLARE CIO’ CHE RAPPRESENTA: LA FUCILAZIONE DI FEDERICO GARCIA LORCA
È l’alba del 19 agosto 1936. Spagna. Sono passate solo poche settimane dall’Alzamiento, il colpo di stato dei militari guidato da Francisco Franco. Due automobili lasciano la città di Granada e si dirigono verso una collina vicina, sulla strada tra Viznar e Alfacar. Nelle auto si trovano sei membri della Falange e i loro prigionieri. Ad un certo punto, lungo la strada, si fermano. I sei prigionieri scendono dalle auto e vengono fatti allineare. Il capo pattuglia dà l’ordine, è un attimo, ed i sei prigionieri vengono fucilati. Tra di loro, un insegnante locale, due anarchici e un poeta: Federico Garcia Lorca.
Federico Garcia Lorca, che già da vivo era considerato uno dei più grandi poeti della sua generazione, è un artista cosmopolita e decisamente fuori dagli schemi, un personaggio di spicco dell’avanguardia culturale spagnola insieme ad artisti come Luis Buñuel e Salvador Dalí. Viaggia per il mondo, visita e soggiorna soprattutto tra gli Stati Uniti e Cuba. Fin dalla caduta della dittatura di Primo de Rivera nel 1930, rientra in Spagna e appoggia il governo repubblicano. Aveva anche aderito ad una campagna di alfabetizzazione portata avanti dalla Repubblica, creando un teatro ambulante di poesia popolare, anticlericale e zingaresca. Garcia Lorca rappresentava quindi tutto quello in cui la Repubblica Spagnola credeva e nei cui valori i repubblicani si identificavano. Ucciderlo avrebbe avuto ben più di un significato.
Allo scoppio della guerra civile, Lorca ha 38 anni e si trova a Madrid. Rifiuta l’asilo che gli offrono paesi come Messico e Colombia perchè crede nella Spagna repubblicana. Riesce ad allontanarsi dalla capitale nel mese di agosto per andare a Granada, ospite di alcuni amici. Pensava che Granada fosse una destinazione sicura grazie alla rete di alcune amicizie personali. Purtroppo la decisione gli fu fatale. Venne tradito, e dopo solo un paio di giorni dal suo trasferimento si trovava già in mano ai franchisti.
Il regime pose fin da subito un bando integrale alle opere di Lorca rotto parzialmente solo nel 1953, lasciandole comunque fortemente censurate. Il governo franchista inoltre si dichiarerà sempre estraneo alla sparizione del poeta. Bisognerà aspettare fino al 1965 per avere una “versione” del regime, sul perchè Federico Garcia Lorca venne ucciso quel giorno: dei documenti ritrovati provavano che era stato condannato a morte perchè socialista, omosessuale e accusato di far parte della massoneria. Il luogo esatto dell’uccisione non è mai stato indicato e i resti di Garcia Lorca si trovano ancora da qualche parte, su quella strada tra Viznar e Alfacar, poco fuori Granada.
Nella sua ultima intervista, al giornale Sol, dichiarò “Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”
Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
Euridice
I
Così mi hai riportata indietro,
io che avrei potuto camminare con i vivi
sulla terra,
io che avrei potuto dormire tra i fiori vivi
finalmente;
così per la tua arroganza
e la tua spietatezza
sono riportata indietro
dove i licheni morti grondano
ceneri morte sul muschio del frassino;
così per la tua arroganza
io sono distrutta infine,
io che avevo vissuto incosciente,
che ero stata quasi dimenticata;
se tu mi avessi lasciata aspettare
sarei passata dall’apatia
alla pace,
se tu mi avessi lasciata riposare con i morti,
avrei dimenticato te
e il passato.
Giglio di mare
(da Sea Garden, 1916)
Giunco,
squarciato e strappato
ma doppiamente ricco –
le tue grandi cime
fluttuano sui gradini del tempio,
ma tu sei spezzato dal vento.
La corteccia del mirto
è punteggiata da te,
le squame sono distrutte
dal tuo stelo,
la sabbia spezza i tuoi petali,
lo solca con lamina dura,
come selce
su pietra brillante.
Eppure benché il vento
frusti la tua corteccia,
sei sollevato,
sì – benché sibili
per ricoprirti di schiuma.
Euridice (VII)
(da The God, 1913-17)
Almeno io ho i fiori per me stessa,
e i miei pensieri, nessun dio
me li può prendere,
ho il fervore di me stessa per presenza
e il mio stesso spirito per luce;
e il mio spirito con la sua perdita
sa questo;
benché piccola contro il buio,
piccola contro le rocce informi,
l’inferno deve spaccarsi prima che io sia perduta;
prima che io sia perduta,
l’inferno si deve aprire come una rosa rossa
per far passare i morti.
[31]
(The Walls Do Not Fall, in Trilogy, 1944)
Nostalgia, esaltazione,
nocciolo d’infuocate elucubrazioni,
appunti scritti in margine,
palinsesto indecifrabile, coperto di scarabocchi
con troppe emozioni in conflitto,
ricerca d’una definizione finita
dell’infinito, scivolando
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
troppo poroso per contenere il traboccare
dell’acqua-che-sta-per-divenir-vino
alle nozze; ricerca sterile,
arroganza, certezza, penosa reticenza,
presunzione, intrusione d’allusioni
improprie, forzate;
illusioni di dei perduti, di démoni;
gioco d’azzardo con l’eternità,
iniziata alla saggezza segreta,
sposa del regno,
miraggi, ritorno d’antichi valori,
interessa perduta, pazzia.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
[1]
(Tribute to the Angels, in Trilogy, 1945)
Ermete Trismegisto
è patrono degli alchimisti;
suo dominio è il pensiero;
scaltro, creativo, curioso,
suo metallo è il mercurio;
poeti, ladri e oratori sono i suoi clienti;
ruba, quindi, Oratore
e saccheggia, o Poeta,
prendi quel che l’antica chiesa
trovò nella tomba di Mitra,
candela, scritture, sonaglio,
prendi quel che la nuova chiesa ha disprezzato
rotto e frantumato;
raccogli i frammenti di vetro infranto
e col tuo soffio e il fuoco
fondi e integra,
re-invoca, ri-crea
opale, onice, ossidiana,
ora dispersi in schegge
calpestate da tutti.
[9]
(The Flowering of the Rod, in Trilogy, 1946)
Non è fantasia poetica
ma realtà biologica,
è un fatto: sono un’entità
come l’uccello, l’insetto, la pianta
o la cellula d’alga;
io vivo; io sono viva;
sta attento, ignorami,
rinnegami, non riconoscermi,
evitami; perché questa realtà
è contagiosa – estasi.
HEAT
O wind, rend open the heat,
cut apart the heat,
rend it to tatters.
Fruit cannot drop
through this thick air—
fruit cannot fall into heat
that presses up and blunts
the points of pears
and rounds the grapes.
Cut the heat—
plough through it,
turning it on either side
of your path.
CALORE
O vento, strappa il calore,
dividi il calore,
laceralo in stracci.
La frutta non riesce a cadere
attraverso questa aria densa―
la frutta non può cadere nel calore
che schiaccia e smussa
le punte delle pere
e arrotonda l’uva.
Taglia il calore―
apriti un varco attraverso di esso,
ruotandolo in ogni lato
del tuo cammino.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
LETHE
Nor skin nor hide nor fleece
Shall cover you,
Nor curtain of crimson nor fine
Shelter of cedar-wood be over you,
Nor the fir-tree
Nor the pine.
Nor sight of whin nor gorse
Nor river-yew,
Nor fragrance of flowering bush,
Nor wailing of reed-bird to waken you,
Nor of linnet,
Nor of thrush.
Nor word nor touch nor sight
Of lover, you
Shall long through the night but for this:
The roll of the full tide to cover you
Without question,
Without kiss.
LETE
Né la pelle né il cuoio né la lana
ti copriranno,
né la tenda cremisi né l’elegante
rifugio di legno di cedro sarà su di te,
né l’abete
né il pino.
Né la vista del ginestrone né della ginestra
né il tasso di fiume,
né la fragranza di un cespuglio in fiore,
né il pianto di una cannaiola a svegliarti,
né il fanello
né il tordo bottaccio.
Né la parola né il tocco né la vista
di un amante, tu
bramerai tutta la notte solo questo:
lo srotolarsi dell’alta marea che ti copre
senza dubbio,
senza bacio.
Traduzioni di Arianna Giovannini
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
L’evoluzione della poesia modernista: la visione poetica di Hilda Doolittle | L’Altrove
Hilda Doolittle, nota al mondo letterario come HD, è una figura fondamentale nel canone della poesia modernista, spesso trascurata nelle discussioni dominate dai suoi contemporanei maschi come EzraPound e TS Eliot. Tuttavia, i suoi contributi al movimento modernista sono profondi e trasformativi, catturando temi complessi di identità, genere e mitologia, nonché una distinta precisione linguistica che la contraddistingue. Questo saggio approfondisce l’opera poetica di HD, esaminando la sua voce unica, le preoccupazioni tematiche e le innovazioni stilistiche, che insieme illuminano la sua visione e consolidano la sua importanza nel panorama della letteratura del XX secolo.
Nata nel 1886 a Bethlehem, Pennsylvania, HD è cresciuta in una famiglia profondamente influenzata dal ricco arazzo della letteratura classica. La posizione di suo padre come professore di matematica e la discendenza di sua madre collegata all’influente poeta e critico, Theodore H. Doolittle, hanno fornito un ambiente stimolante per le sue ricerche intellettuali. Fu durante i suoi anni di formazione presso l’Università della Pennsylvania e in seguito nelle sue interazioni con i circoli d’avanguardia in Europa che HD avrebbe affinato la sua voce poetica. Divenne parte integrante del movimento Imagist, che sosteneva la chiarezza di espressione, la precisione delle immagini e l’economia ritmica, principi che risuonano attraverso il suo lavoro.
HD emerse nell’arazzo in divenire del modernismo insieme a una comunità di scrittori che cercarono di liberarsi dalle convenzioni della poesia vittoriana. Nei suoi primi lavori, in particolare nella raccolta Sea garden
(1916), esemplifica i principi dell’Imagismo attraverso il suo meticoloso uso di immagini e attenzione al mondo naturale. La poesia “Sea Iris” funge da prima illustrazione di questo aspetto. Attraverso il suo linguaggio preciso, cattura la tensione tra il fisico e il metafisico, illustrando come la natura possa evocare risonanze emotive più profonde:
Gli iris del mare sono di due colori; il bianco, luminoso nella luce dello scintillio dell’acqua, e il blu profondo, scuro, galleggiante, immobile.
In queste righe, HD evoca un immaginario vivido che invita il lettore a sperimentare la bellezza viscerale del mare, accennando anche alla dicotomia tra luce e oscurità, galleggiabilità e immobilità. Tali giustapposizioni riflettono le sue preoccupazioni per la dualità, un tema ricorrente che riecheggia in tutto il suo corpus di opere.
Mentre HD continuava a sviluppare la sua voce, la sua poesia iniziò a riflettere un profondo impegno con i miti antichi e gli archetipi femminili come mezzo per esplorare identità e genere. Le sue raccolte, in particolare “Helen in Egypt” (1961), offrono un riesame delle narrazioni classiche, accostandole a temi contemporanei di agency e resilienza femminile. Qui, HD riconfigura il mito di Elena di Troia, che è stata storicamente ritratta come una vittima passiva del destino, in una figura di forza e autonomia. Intrecciando storie antiche con l’esperienza personale, HD trascende i confini tra lo storico e il personale, suggerendo che le storie delle donne sono state ampiamente emarginate o travisate.
Il rapporto di HD con il mito di Eco esemplifica ulteriormente la sua esplorazione tematica di voce e silenzio. In The Walls Do Not Fall (1944), che affronta l’impatto della seconda guerra mondiale, gli echi del passato diventano un motivo potente, suggerendo come la storia riverberi nel presente, in particolare per le donne le cui voci sono state soffocate o rese inudibili. Il suo desiderio di connessione e comprensione in mezzo al caos emerge in modo toccante in versi che riflettono sia disperazione che resilienza, utilizzando il motivo dell’eco per evocare un senso di continuità anche di fronte alla desolazione.
Nelle sue opere successive, HD ha ulteriormente interrogato la nozione di identità, spesso attingendo alle sue esperienze e lotte con la salute mentale, in particolare la sua battaglia contro la depressione e le conseguenze delle sue relazioni tumultuose. La raccolta “Trilogy”, composta durante i suoi anni in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, incarna la sintesi delle sue influenze eclettiche: mitologia, femminismo e traumi personali. Il verso è intriso di una cupa meditazione sulla perdita e il rinnovamento, ma conserva una qualità eterea che cattura il potenziale trasformativo dell’arte.
Stilisticamente, la poesia di HD è caratterizzata dalla sua fluidità e densità, caratterizzata da versi liberi e strutture frammentate che sfidano le forme convenzionali. Il suo uso dell’enjambement crea un senso di movimento e urgenza, costringendo il lettore a impegnarsi con il testo a un livello più profondo. Inoltre, la sua profonda attenzione al suono e al ritmo le consente di infondere le sue immagini con profondità emotiva, elaborando versi che risuonano con il lettore sia sensualmente che intellettualmente.
L’eredità poetica di HD è una testimonianza del suo spirito innovativo e del suo incrollabile impegno nell’esplorare le complessità dell’esperienza umana attraverso la lente del modernismo. Le sue opere sfidano i lettori a considerare l’intersezione tra identità, mito e memoria, mentre le sue immagini vivide e la sua voce unica continuano a parlare al discorso artistico contemporaneo. Mentre studiosi e lettori rivisitano i suoi contributi, diventa innegabilmente chiaro che HD non solo occupa il suo legittimo posto all’interno del canone modernista, ma funge anche da profonda influenza per le future generazioni di poeti che navigano nelle complessità delle loro narrazioni. Nel celebrare Hilda Doolittle, dobbiamo riconoscerla come qualcosa di più di una semplice partecipante al movimento modernista; è una forza fondamentale il cui lavoro ci invita ad approfondire l’interazione tra testo, identità e il potere duraturo dell’espressione artistica.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Ricordata prevalentemente per la sua partecipazione alla nascita del movimento imagista guidato da Ezra Pound, con il quale ebbe una relazione nell’adolescenza, si distaccò con la maturità dallo stile modernista per abbracciare temi mitologici e personali, influenzati in parte dalle teorie psicoanalitiche di Carl Gustav Jung.
Se la sua lirica Oread (“Oreade”) venne giudicata da Pound come il miglior esempio poetico imagista, già ai tempi della prima guerra mondiale le sue opere, sia per il linguaggio e per gli argomenti si accostarono ai modelli dell’antica Grecia. Dal 1918 H.D. tradusse classici greci, tra i quali l’Ippolito di Euripide.
Nel periodo londinese diresse brevemente la rivista letterariaThe Egoist, vicina alla poetica di Pound e T.S. Eliot, e nel dopoguerra intensificò la pubblicazione di raccolte poetiche, come Hymen (“Imene”) (1921) e Heliodora and Other Poems (“Eliodora ed altre poesie”) (1924).[1]
Scrisse inoltre testi teatrali, adattamenti del teatro greco fra cui Hippolytus temporizes (“Ippolito temporeggia”) (1927), e numerosi romanzi.
Si sposò con Richard Aldington, ebbe una figlia, Perdita, da un’altra relazione, fu intima di D.H. Lawrence. Rimase permanentemente in Europa, ed ebbe una lunga relazione con la poetessa Bryher (pseudonimo di Annie Winifred Ellerman), con cui fondò la rivista cinematografica Close-up e la casa di produzione POOL. Di questa rimane solo il film Borderline, che annuncia i temi della produzione letteraria tardiva di H.D., quali l’inconscio e gli stati mentali.
Durante la seconda guerra mondiale la scrittrice raccolse le sue poesie di matrice religiosa nell’opera Tribute to the Angels (“Omaggio agli angeli”) (1945).
Si rivelò interessante anche il saggio psicoanalitico intitolatoTribute to Freud (1956), impreziosito dall’aggiunta delle lettere scambiate tra i due personaggi.
Opere
Poesia
Sea Garden (1916)
The God (1917)
Translations (1920)
Hymen (1921)
Heliodora and Other Poems (1924)
Hippolytus Temporizes (1927)
Red Roses for Bronze (1932)
The Walls Do Not Fall (1944)
Tribute to the Angels (1945)
Trilogy (1946), trad. Trilogia, a cura di Marina Camboni, Caltanissetta: Sciascia, 1993
Flowering of the Rod (1946)
By Avon River (1949)
Helen in Egypt (1961)
Hermetic Definition (1972)
Prosa
Notes on Thought and Vision (1919)
Paint it Today (scritto nel 1921, pubblicato nel 1992)
Asphodel (scritto nel 1921–22, pubblicato nel 1992)
Palimpsest (1926)
Kora and Ka (1930)
Nights (1935)
The Hedgehog (1936)
Tribute to Freud (1956), trad. I segni sul muro, con alcune lettere inedite di S. Freud all’autrice, trad. di Massimo Ferretti, Roma: Astrolabio, 1973
Visions and Projections (1982), trad. Visioni e proiezioni, a cura di Marina Vitale, Napoli: Liguori, 2006 ISBN 978-88-207-4014-6
Majic Ring (scritto nel 1943–44, pubblicato nel 2009)
The Sword Went Out to Sea (scritto nel 1946–47, pubblicato nel 2007)
White Rose and the Red (scritto nel 1948, pubblicato nel 2009)
The Mystery (scritto nel 1948–51, pubblicato nel 2009)
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
Fonte – Enciclopedia Treccani on line–Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
Mariella De Santis Scrive per tentare di mettere ordine tra le cose che stanno dentro, accanto, attorno al visibile e all’invisibile, senza smarrire il sorriso
Grammatica
Se io ti scrivo: oggi resto a casa
e tu mi rispondi: noi andiamo a fare spese
arriva sbiadito quel noi in cui non ci sono io.
Sarà che non si studia a scuola la grammatica dei cuori clandestini, ma imparare da questa pratica è ars amandi acrobatica.
Aspettando i Barbari
Non saremo noi esempio per i timidi i deboli di cuore
Non mescolammo il sangue per fare nuova specie
Rimarranno i forti con i forti i deboli coi deboli
Noi illusi d’essere primi strappati alla carena
Ci togliamo dalle labbra vocali e consonanti
Con cui ardimmo profetare di parole nuove
Non ci renderà migliori la disdetta al sogno
Non interesserà che a uno il nostro sacrificio
Ma tu mentre nella notte ti spogliavi eri solenne
Quanto me credevi nell’onore che portavi al rito.
Una sera di Febbraio
Diciotto minuti di attesa per l’autobus numero 62
In piazzale gabrio piola sciarpato dal freddo umido
Di una sera di febbraio. Non avevano avvisato i ricordi
Che sarebbero arrivati a stormi lasciando piume sul viso
Di te che ascoltavi non so se sorpreso o perplesso.
Di quanta vita sono fatti i silenzi, dici, mentre io mi affretto
a segnalare la fermata all’autista e apro un libro custodito in borsa.
Per il mio bloomsday
Ci lasciamo ridendo la morte nel cuore
Niente è più reale di questo mi hai detto
Nella notte mentre il tuo corpo bianco
Più del mio in me si inabissava.
La poesia di Cortàzar, il viaggio a Marrakesh
La pesca d’alto mare e le ragioni tecniche
Per cinque minuti ancora ci danno la forza
Di avanzare. Due caffè due biscotti una camicia
Da stirare sono i garbati passi dell’addio.
Don’t forget our future, mi raccomandi
Ma dalla finestra il passato tarda ad arrivare.
Non è finzione ne invenzione
Non è finzione né invenzione
Non è finzione né invenzione
che tra affondo e risalita
necessita restar sospesi
nel buio di un fondale.
Ma qui noi siamo emersi,
nel cerchio del tuo letto
lo stagno ha un sogno esteso
e tu radice hai nel buio
mio caldo e nel mio seno.
Due lacrime – umido nell’umido –
avrei voluto darti, ma la gioia
è pianto breve e vedi amor mio,
ora che un po’ di me il limite
amo, mi fletto al tuo confine
di bianco e melograno.
Sei natura e splendore
nei tuoi angoli acuti
e di te conosco stanze
larghe d’improvviso.
Ami di me quello che
a nessuno ho permesso.
Tu di me conosci la segreta luna
ed io di te disvelo il sole ombrato
(pure notte e nebbie di te io amo)
Ora di me angelo e custode,
espugni dal silenzio
il liquido mio gelo.
Non rimproverarmi gli anni negati
io non ti imporrò le assenze
di memoria che ormai non so colmare.
Ritroverai in una piazza senza platani
il ricordo di un momento che al tempo
torna breve.
Mi germini nel petto e
mi germogli sangue.
Nei nostri nomi
ripetuti per conferma
s’appiana ogni rivolta.
Vengo a te mancante
e forse mi perdoni.
Ti dico che sei angelo
di corpo e sangue e
l’ala che mi stendi
su occhi e bocca
non è farmaco né medicamento
ma pura verità che si fa vera.
Aspetterò il tuo ritorno nuda
sul bianco del ricamo,
dalle finestre a guardare
il tuo passo
che nel ventre mi sale.
Rallenterai il venire per
farmi soffrire d’attesa,
aprirai la porta, aprirai la bocca,
riceverai il mio pianto, la mia gioia
e il dileguato silenzio.
Mai più dirò che sono qui per te,
mai più saprai quel che volevo dirti.
Eppure non c’è parola che non
potrei donarti, né ansa di me
in cui tu non possa trattenerti.
Se tu sei su di me o su di te io,
nessuna ombra più ci tormenta.
Saremo, tu lo sai,
la somiglianza di
una unità che non
s’interrompe mai.
Io a te dico
Io a te dico
voglio abbia i miei occhi
la morte quando arriva,
voglio specchiarmi appena civettuola
dentro la vita fatta e da finire.
Per una volta essere
la mia garbata ospite,
porgermi la mano in piedi
poi farmi accomodare,
piano accostare le persiane
e senza rimpianti uscire.
Arriva a ondate il passato
Arriva a ondate il passato
Grandi muri alle spalle
Cadono d’improvviso
Sulla scrivania, nella tazza del the.
Troppa vita? Le chiedo
Alla mia età è solo tanta
Risponde Silvana torpida nel corpo pesante
Lasciando qualche capello tra le dita
Della mia mano già distante dalla sua testa.
Salutarsi sempre
Salutarsi sempre, col sacchetti del pane in mano
sull’ultimo gradino di casa, sotto la luce sbieca
della metropolitana, tra i colleghi in ufficio.
Salutarsi sempre, dita contro dita
guancia su guancia o a labbra socchiuse.
In stazione imbarazzata lasciare una moneta
a chi la chiede, mentre il treno su cui tu sei
dame e dalla città operosa ti allontana.
Salutarsi sempre, te che sopra ogni altro amo
fingendo di ignorare l’addio in agguato
in ogni nostro arrivederci.
Mariella De Santis è nata a Bari in un raro giorno di neve del 1962. Vive tra Roma e Milano . Nel 1991, per la sezione inediti, viene segnalata al Premio Internazionale Eugenio Montale. Suoi racconti sono trasmessi dalla Radio Nazionale Croata e dalla Radio della Svizzera Italiana. Ha collaborato alla realizzazione di prodotti videopoetici. E’ presente nel lavoro antologico curato da Mariella Bettarini Donne e poesia. E’ autrice teatrale rappresentata in rassegne e festivals. Le sue ultime pubblicazioni in poesia sono: Porta d’ingresso (Bergamo,2005), Silenziosi Immobili Frammenti (Milano,2006), La cura di te, poemetto per il libro fotografico di Viviana Nicodemo Necessità dell’anatomia (Milano,2007), Ipnos il poema del sonno, in Gli Smerilliani ( 2011). Con Gilberto Finzi è curatrice di Menhir, opera omnia di Delfina Provenzali( Milano,2004). Suoi testi sono musicati da compositori contemporanei (www.novurgia.it). Collabora con artisti, case editrici e cura progetti di animazione culturale. È stata vice direttore della rivista Smerilliana, luogo di civiltà poetiche.
Breve biografia Corrado Govoni nasce a Tamara, in provincia di Ferrara, nel 1884. Vive per un breve periodo a Milano e poi stabilmente a Roma e muore ad Anzio nel 1965. Appena diciannovenne, esordisce con la raccolta Le fiale (1903). Seguono: Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Poesie scelte (a cura di A. Neppi, 1918), Tre grani da seminare (1920), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), La Trombettina (1924), Brindisi alla notte (1924), Il flauto magico (1932), Canzoni a bocca chiusa (1938), Pellegrino d’amore (1941), Govonigiotto (1943), Aladino. Lamento su mio figlio morto (1946), L’Italia odia i poeti (1950), Patria d’alto volo (1953), Preghiera al trifoglio (1953), Antologia poetica (a cura e con prefazione di G. Spagnoletti, 1953), Manoscritto nella bottiglia (con un saggio di G. Ravegnani, 1954), Stradario della primavera e altre poesie (1958), Poesie 1903-1959 (a cura di G. Ravegnani, 1961). È autore di numerosi libri in prosa, racconti, testimonianze, romanzi. Entrato in contatto con Marinetti, si avvicina al futurismo, collaborando ad alcune riviste come “Lacerba”, “La Voce” e “Poesia”, ma ritorna gradualmente alle forme più tradizionali, soprattutto nelle poesie dedicate al figlio, vittima dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.
Le cose che fanno la domenica
L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.
Il canto del gallo nel pollaio.
Il gorgheggio dei canarini alle finestre.
L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolìo della puleggia.
La biancheria distesa nel prato.
Il sole sulle soglie.
La tovaglia nuova nella tavola.
Gli specchi nelle camere.
I fiori nei bicchieri.
Il girovago che fa piangere la sua armonica.
Il grido dello spazzacamino.
L’elemosina.
La neve.
Il canale gelato.
Il suono delle campane.
Le donne vestite di nero.
Le comunicanti.
Il suono bianco e nero del pianoforte.
Le suore bianche bendate come ferite.
I preti neri.
I ricoverati grigi.
L’azzurro del cielo sereno.
Le passeggiate degli amanti.
Le passeggiate dei malati.
Lo stormire degli alberi.
I gatti bianchi contro i vetri.
Il prillare delle rosse ventarole.
Lo sbattere delle finestre e delle porte.
Le bucce d’oro degli aranci sul selciato.
I bambini che giuocano nei viali al cerchio.
Le fontane aperte nei giardini.
Gli aquiloni librati sulle case.
I soldati che fanno la manovra azzurra.
I cavalli che scalpitano sulle pietre.
Le fanciulle che vendono le viole.
Il pavone che apre la ruota sopra la scalèa rossa.
Le colombe che tubano sul tetto.
I mandorli fioriti nel convento.
Gli oleandri rosei nei vestibuli.
Le tendine bianche che si muovono al vento.
poesie di Corrado Govoni
Punta secca
Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell’uncino di riccio
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t’impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d’ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l’orchidea tu l’hai negli occhi.
Paesi
Esplodon le simpatiche campane
d’un bianco campanile, sopra tetti
grigi: donne, con rossi fazzoletti,
cavano da un rotondo forno il pane.
Ammazzano un maiale nella neve,
tra un gruppo di bambini affascinati
dal sangue, che, con gli occhi spalancati,
aspetta la crudele agonia breve .
Gettano i galli vittoriosi squilli.
I buoi escono dai fienili neri;
si spargono su l’argine tranquilli,
scendono a bere, gravi, acqua d’argento.
Nei campi, rosei, bianchi, i cimiteri
sperano in mezzo al verde del frumento.
Naufragio
Sul mio capo di naufrago
galleggiante sul mare nero della vita
afferrato a una tavola sfasciata
materna culla
vedo ancora ondeggiare le stelle
come un tenero ramo di mandorlo.
Luce di fuori mondo
o vertigine
degli abissi incantevoli del nulla?
Ne la corte.Tre stracci ad asciugare
– Ne la corte – Tre stracci ad asciugare
sul muricciuolo accanto il rosmarino.
Una scala seduta. Un alveare
vedovo, su cui giuoca il mio micino.
Un orciuolo che ha sede sul pozzale
di marmo scanalato da le funi.
Dei cocci gialli. un vaso vuoto. Un fiale
che ha vomitato. Dei fogliami bruni.
– Su le finestre – Un pettine sdentato
con due capelli come dei pistilli.
Un astuccio per cipria. Uno sventrato
guancialino di seta per gli spilli.
Una scatola di belletto. Un guanto
mencio. Un grande garofano appassito.
Una cicca. Una pagina in un canto
piegata, da chissà mai quale dito!
– Per l’aria – La docile campana
d’un convento di suore di clausura.
Una lunga monotonia di zana.
Un gallo. Una leggera incrinatura
di vento. Due rosse ventarole
cifrate. Delle nubi bianche. Un treno.
Un odore acutissimo di viole.
Un odore acutissimo di fieno.
Contro corrente come bionde trote
Contro corrente come bionde trote
fendevano la calca cittadina
due fanciulle insolenti di bellezza.
Curiosando strusciarono i musini
di maliziosa cipria qua a un acquario
di lusso di dormenti onde ravvolte
di stoffe per murene ed aragoste,
più in là a un brillante altar di calzature,
spume di cardi rossi per pianelle
di Cenerentola, lustrini e argenti
per taccuini da ballo. Scantonarono
a un tratto e una si chinò nascosta
dall’inquieta compagna ad allacciarsi
la giarrettiera a mezza coscia ignuda.
Le succhiò la corrente cittadina.
Vedo sempre la strada illuminata
da quel fulgore di carne di donna
nel marmo della pioggia settembrina.
Siepe
All’odore crudele
che viene dalle spine della siepe
il tuo sangue amareggia l’amore,
e ti diventan gli occhi
una luce cattiva pigiata.
Sulla tua statua che cammina
aprendo una nuova strada nel vento
invano battono le mie parole
come gocce di rugiada da me scossa.
Prego l’erba dell’argine ti venga incontro
con la lampada avvelenata del gigaro
per far soffrire la tua bocca rossa.
Il lampione
Il crepuscolo si sfogliò
su i tegoli muscosi;
l’ultimo suono di campana si smorzò
ne l’abbandono dei sagrati erbosi.
In una svolta, un fanale
notifica! la sua vittoria
sopra l’ombra cocciuta.
La sua fiamma claustrale
sembra una fiamma provvisoria
ed instabile. Si direbbe che sternuta.
Il fanale s’illude d’essere un sacro lampadario
che nel suo cuore chiude
come in un vaso un elettuario
infiammabile.
Ma il vento precario
lo prende per un disadorno e vitreo erbario
con un gìgaro
friabile che si diverte a gualcire.
Ed il fanale si rassegna
a la notturna passione
senza imbroncire.
Il silenzio, come un cane,
segue le pestè dei rumori.
Il sonno sente a gli occhi dei pizzicori.
E l’alba soffia il dente di leone
del lampione.
Il palazzo dell’anima
Triste dimora! Aborti nelle fiale,
rachitici e verdastri. Sorridenti
bambole sparse ovunque. Sofferenti
in vasi d’ambra fior di digitale.
Campane di cristallo su agonie
di cera, rosee maschere di seta
annegate nell’acqua ovale inquieta
degli specchi, malinconie impagliate.
Laggiù la città bianca col suo rombo
d’api e il suo fiume di ardente piombo,
come un pallido sogno di morfina.
Oh i crepuscoli tristi d’anilina
sulle mura echeggianti di fanfare!
Da una finestra si scorge il mare.
Crepuscolo ferrarese
Il mao si stira sopra il davanzale
sbadigliando nel vetro lagrimale.
Nella muscosa pentola d’argilla
il geranio rinfresca i fiori lilla.
La tenda della camera sciorina
le sue rose di fine mussolina.
I ritratti che sanno tante storie
son disposti a ventaglio di memorie.
Nella bonaccia della psiche ornata
il lume sembra una nave affondata.
Sul tetto d’una prossima chiesuola
sopra una pertica una ventarola
agita l’ali come un uccelletto
che in un laccio per i piedi sia stretto.
Altissimi, per l’aria, dai bastioni,
capriolano fantastici aquiloni.
Le rondini bisbigliano nel nido.
Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.
Il cielo chiude nella rete d’oro
la terra come un insetto canoro.
Dentro lo specchio, tra giallastre spume
ritorna a galla il polipo del lume.
La tristezza s’appoggia a una spalliera
mentre le chiese cullano la sera.
Chimerica corriera
Mi sfiorò la corriera all’improvviso,
e prima che pensassi di gridare:
«Ferma! vengo pure io oltre frontiera!».
era passata a volo, sollevando
un turbine di opaco polverone,
scomparendo alla vista: belle ignote,
contro i vetri di bambole le gote,
e il postiglione con la lunga frusta
che fulminava a fuoco la quadriglia…
Passò ancora in un vortice di neve,
e passò nell’estivo polverone.
Poi si fece vederesernpre più rararnente,
con i cavalli alati e il postiglione
un’ornbra con la frusta alta nel cielo;
e quando la rnia voce
fu così forte da coprir le ruote
la frusta e le cantanti sonagliere,
non passò più né lenta né veloce…
Eppure certe sere,
quando sono più stanco e ancor più bianco
e l’antica ferita
rni si torna ad aprire ed a dolere;
se aguzzo un po’ le orecchie
odo ancora venire da lontano,
rna è un sussulto del sangue o forse il tuono,
corne un fievole suono,
dal fondo della via o della rnia vita
che senza averla rnai raggiunta
ho per sernpre srnarrita:
non può esser che il vostro, sonagliere,
in viaggio per chirneriche frontiere.
Corrado Govoni
Breve biografia Corrado Govoni nasce a Tamara, in provincia di Ferrara, nel 1884. Vive per un breve periodo a Milano e poi stabilmente a Roma e muore ad Anzio nel 1965. Appena diciannovenne, esordisce con la raccolta Le fiale (1903). Seguono: Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Poesie scelte (a cura di A. Neppi, 1918), Tre grani da seminare (1920), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), La Trombettina (1924), Brindisi alla notte (1924), Il flauto magico (1932), Canzoni a bocca chiusa (1938), Pellegrino d’amore (1941), Govonigiotto (1943), Aladino. Lamento su mio figlio morto (1946), L’Italia odia i poeti (1950), Patria d’alto volo (1953), Preghiera al trifoglio (1953), Antologia poetica (a cura e con prefazione di G. Spagnoletti, 1953), Manoscritto nella bottiglia (con un saggio di G. Ravegnani, 1954), Stradario della primavera e altre poesie (1958), Poesie 1903-1959 (a cura di G. Ravegnani, 1961). È autore di numerosi libri in prosa, racconti, testimonianze, romanzi. Entrato in contatto con Marinetti, si avvicina al futurismo, collaborando ad alcune riviste come “Lacerba”, “La Voce” e “Poesia”, ma ritorna gradualmente alle forme più tradizionali, soprattutto nelle poesie dedicate al figlio, vittima dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.
-La collana «Interno Novecento» pubblica Zero, il poema più esteso del poeta spagnolo-
La collana «Interno Novecento» pubblica Zero, il poema più esteso del poeta spagnolo Pedro Salinas (1891-1951). Il successo ottenuto da raccolte come La voce a te dovuta (1933), internazionalmente riconosciuto come uno dei capolavori assoluti della lirica amorosa di tutti i tempi, ha talora lasciato in ombra la voce del Salinas successivo, il non meno raffinato e interessante poeta meditativo e civile che riflette, dal suo esilio nordamericano, sulle contraddizioni della modernità e del progresso, e mostra la sua profonda preoccupazione spirituale davanti alla perversione delle nuove scoperte tecnologiche capaci di condurre l’uomo all’autodistruzione. Composto nel 1943, sulla scia della commozione suscitata dai devastanti bombardamenti aerei che colpirono l’Italia nell’estate di quell’anno, Zero è un componimento, in ottonari e endecasillabi sciolti, che descrive, con una visione straordinariamente anticipatoria rispetto alle spaventose esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, il terrificante potere distruttivo di un ordigno (denominato nel poema sempre e solo zero) che un anonimo pilota fa precipitare, dall’alto di un aereo, distruggendo l’umanità. Attraverso il topos della contemplazione delle rovine, senza trascurare l’immenso tema del problema della coscienza e della responsabilità individuali nei conflitti bellici, Salinas descrive il profondo dolore e smarrimento dell’io poetico che vede come in un solo istante viene polverizzato non solo il presente e la possibilità di futuro, ma anche tutta la vita creata, difesa e resa eterna dall’arte nel corso dei secoli. Lia Ogno, fine traduttrice e ispanista, ci propone, per la prima volta in italiano, una curatissima traduzione in versi – rigorosa tanto dal punto di vista filologico quanto nel rispetto della costruzione metrica dell’originale ̶ di questo straordinario ed emblematico poema del Novecento.
LO zero ci cade sopra.
Più non le vedo, le molte,
le bellissime, distrutte,
in quell’unità straziante
che le confonde nel nulla,
solo in detriti e in macerie.
Tra quei detriti cerco io i miei morti;
sono invisibili e questo più mi duole.
Non li vede nessuno; sono forme
mozze; erano prodigi, singolari,
che, sconfitti, ritornano alla pietra.
Morti vetusti, cadaveri lontani,
scheletri perduti che la terra
in ignorato ossario perfeziona.
Son morti già da tempo. Speranzosa
di non morire, quella loro morte.
Vita diedero a masse
che giacevano informi nelle cave.
Riempirono le pietre di tremori.
Minerale che va verso l’immagine,
misterioso tepore che già scorre
nelle vene del marmo,
quando il lento cesello lo conduce
al suo massimo: al seno di una ninfa […]
EL cero cae sobre ellas.
Ya no las veo, a las muchas,
las bellísimas, deshechas,
en esa desgarradora
unidad que las confunde,
en la nada, en la escombrera.
Por el escombro busco yo a mis muertos;
más me duele su ser tan invisibles.
Nadie los ve; lo que se ve son formas
truncas; prodigios eran, singulares,
que retornan, vencidos, a su piedra.
Muertos añosos, muertos a lo lejos,
cadáveres perdidos,
en ignorado osario perfecciona
la tierra, lentamente, su esqueleto.
Su muerte fue hace mucho. Esperanzada
en no morir, su muerte. Ánima dieron
a masas que yacían en canteras.
Muchas piedras llenaron de temblores.
Mineral que camina hacia la imagen,
misteriosa tibieza, ya corriendo
por las vetas del mármol,
cuando, curva tras curva, se le empuja
hacia su más, a ser pecho de ninfa […]
Zero
Interno Novecento
Autore: Pedro Salinas A cura di: Lia Ogno
Collana: Interno Novecento
ISBN: 978-88-85583-63-4
Data di pubblicazione: 22 dicembre 2021
Pagine: 84 Formato: 11×17 cm
Breve biografia di Olav Håkonson Hauge (18 agosto1908 – 23 maggio1994) è stato un poeta norvegese . E ‘nato a Ulvik e ha vissuto tutta la sua vita lì, lavorando come giardiniere nel proprio frutteto .Oltre a scrivere le sue poesie, era orientato a livello internazionale, e tradusse poesie di Alfred Tennyson , William Butler Yeats , Robert Browning , Stéphane Mallarmé , Arthur Rimbaud , Stephen Crane , Friedrich Hölderlin , Georg Trakl , Paul Celan , Bertolt Brecht eRobert Bly a norvegese.E ‘stato anche ispirato dalla poesia classica cinese , ad esempio, nel suo poema “T` ao Ch `IEN” nella raccolta Spor vinden (Chiedere al vento).Prime poesie di Hauge sono stati pubblicati nel 1946, il tutto in una forma tradizionale. In seguito scrisse la poesia modernista e, in particolare, la poesia concreta che ha ispirato altri, più giovani poeti norvegesi, come Jan Erik Vold .
Qui sono al sicuro
Qui sono al sicuro, qui ci sono querce intorno ai muri,
qui scintilla lo stretto tra monti corrosi dal mare.
Se me ne sto in piedi alla finestra
le querce immense hanno
una profonda tonalità oleosa
come un dipinto antico,
sul cielo di smalto azzurro
nubi ritardatarie
si rincorrono dal mare.
Querce nel sole d’autunno!
Terra azzurra, terra di monti, terra di mare
ed ere alle mie spalle
in una festa di colori
e ardore.
Oggi ci sono freddo e fiocchi di neve nell’aria,
i rami nudi si protendono come artigli
verso il caldo e l’ultimo ozono.
Mi inoltro nella terra azzurra
sotto le foglie che cadono.
E un giorno sarà spoglio Yggdrasil.
Giornata d’inverno
Cosa vuole questa luce strana?
Il giorno è sotto stelle bianche.
E i sogni germogliano sotto la luna.
La montagna ha parole racchiuse dentro di sé
ma il petto è rigido e la barba gelata.
Il fiume risponde con brevi riflessi, si apre per un attimo breve,
e i pini offrono un po’ di resina.
Il regalo scuote la neve
e il cavallo freme con il muso coperto di brina.
La legna spreme fuori una crosta di grasso gelato,
e il ghiaccio divora il taglio della scure.
Ma ora la vetta manda in mille pezzi il disco del sole, torce
il suo sguardo furtivo verso un mondo lontano.
Gli alti abeti candele sulle creste dei monti si spengono,
e gli alberi si acquietano nel bosco per la notte.
Il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare,
e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore.
Olav Håkonson Hauge
Giorno
Le grandi tempeste le hai alle tue spalle. Non domandavi un tempo perché esistevi, da dove venivi o dove stessi andando, eri soltanto nella tempesta, eri nel fuoco. Ma si può anche vivere nella vita d’ogni giorno, il grigio calmo giorno, piantare patate, rastrellare foglie e raccogliere rametti, ci sono tante cose a cui pensare al mondo, a tutto non basta la vita di un uomo. Dopo il lavoro puoi arrostire il maiale e leggere poesie cinesi. Il vecchio Laerte tagliava i rovi e rincalzava il fico, e lasciava gli eroi combattere a Troia.
Olav H. Hauge
(Traduzione di Fulvio Ferrari)
da “La terra azzurra”, Crocetti Editore, 2008
Olav Håkonson Hauge
“Una buona poesia deve odorare di tè”
Ho tre poesie,
disse.
Pensa, contare le poesie.
Emily le gettava
in un baule, io
non credo proprio che le contasse,
apriva solo un pacchetto di tè
e ne scriveva una nuova.
Era giusto. Una buona poesia
deve odorare di tè.
O di terra umida e legna appena tagliata.
VERSI
Se riesci a comporre un verso
che soddisfa un contadino
devi esserne contento.
Un fabbro non lo capirai mai.
Il più difficile da accontentare è il falegname.
Traduzione di Fulvio Ferrari
Il gatto è seduto
Il gatto è seduto davanti
Quando vieni
parla un po ‘con il gatto.
È il più sensibile qui.
Disegno
Fosco giorno d’autunno, nevischio.
Un morbido grigio disegno,
tracciato come in un sogno.
I pini han raccolto cotone di cielo
e infilato i fiocchi tra i capelli,
e le betulle tendono i rami sottili
delicatamente, delicatamente…
Su pozze ghiacciate scrivono gli uccelli
su nuove lavagne.
Olav Håkonson Hauge
La tua strada
Nessuno ha segnato la strada
che tu devi percorrere
verso l’ignoto,
verso l’incerto.
Questa è la tua strada.
Solo tu
puoi percorrerla. E non
puoi tornare indietro.
E non segni la strada,
nemmeno tu.
E il vento cancella le tue impronte
sulla montagna deserta.
In barca
Il mare rumoreggia nel buio.
Uscire in barca ora?
Impossibile.
Sì, proprio ora.
La notte si apre, fa spazio.
Il cielo alza un muro a occidente.
La luna si mostra luminosa –
Ora deve accadere.
Canto, cammina adagio sul mio cuore
Canto, cammina adagio sul mio cuore,
cammina adagio come erica sull’acquitrino,
come un uccello su ghiaccio vecchio d’una notte.
Se spezzi la crosta del dolore
annegherai, canto.
La falce
Sono tanto vecchio
da non lasciare la falce.
Canta sommessa nell’erba,
e i pensieri possono correre.
Non fa nemmeno male,
dice l’erba, cadere sotto la falce.
Non darmi tutta la verità
Non darmi tutta la verità,
non darmi il mare per la mia sete,
non darmi il cielo, quando chiedo la luce,
dammi un riflesso, rugiada, pulviscolo,
come gli uccelli portano gocce d’acqua
e il vento un granello di sale.
Riccio
L’altra sera, tornando a casa,
ho preso il sentiero attraverso
il campo dove sapevo che
c’era una sorgente.
Quella primavera gorgogliava, brillando
nell’oscurità, catturando la notte.
Seduto davanti allo specchio scuro
ho visto questo fagotto dissetarsi!
Ogni picco si
rilassava, in pace,
mentre il suo muso nero
sorseggiava il suo drink.
Dissetati! Posso aspettare,
così pazientemente mi sono alzato.
Forse noi due siamo
simili in molte cose.
Come me, ti piace
passeggiare nell’oscurità
tra le foglie d’autunno, trovare sorgenti,
bacche e simili
preferisci l’esplorazione solitaria.
Ma se qualcuno si avvicina troppo,
ci ritiriamo e mostriamo loro le
nostre spine.
Non navighiamo sullo stesso mare
Non navigliamo sullo stesso mare
eppure così sembra.
Grossi tronchi e ferro in coperta,
sabbia e cemento nella stiva,
io resto nel profondo
procedo con lentezza
a fatica nella tempesta
urlo nella nebbia.
Tu veleggi in una barca di carta
e il sogno sospinge la vela azzurra.
È così dolce il vento, così delicata l’onda.
(Traduzione di Fulvio Ferrari)
da “La terra azzurra”, Crocetti Editore, 2008
Olav Håkonson Hauge
Breve biografia di Olav Håkonson Hauge (18 agosto1908 – 23 maggio1994) è stato un poeta norvegese . E ‘nato a Ulvik e ha vissuto tutta la sua vita lì, lavorando come giardiniere nel proprio frutteto .Oltre a scrivere le sue poesie, era orientato a livello internazionale, e tradusse poesie di Alfred Tennyson , William Butler Yeats , Robert Browning , Stéphane Mallarmé , Arthur Rimbaud , Stephen Crane , Friedrich Hölderlin , Georg Trakl , Paul Celan , Bertolt Brecht eRobert Bly a norvegese.E ‘stato anche ispirato dalla poesia classica cinese , ad esempio, nel suo poema “T` ao Ch `IEN” nella raccolta Spor vinden (Chiedere al vento).Prime poesie di Hauge sono stati pubblicati nel 1946, il tutto in una forma tradizionale. In seguito scrisse la poesia modernista e, in particolare, la poesia concreta che ha ispirato altri, più giovani poeti norvegesi, come Jan Erik Vold .
Bertolt Brecht cominciò a scrivere le prime poesie nel 1913 , tra cui L’albero in fiamme. Tra il 1914 e il 1915 scrisse altri componimenti, imbevuti di patriottismo (si pensi a Der Freiwillige, in cui la popolazione getta rose a un volontario di guerra, o a Der belgische Acker, dove esalta il lavoro dei militari tedeschi in Belgio durante la Grande Guerra) e di entusiasmo per la guerra e per tutto ciò che è tedesco.
Le presentò al giornale di Augusta, il Neueste Nachrichten, e malgrado fossero ancora ingenue e vittime del tempo, già rivelarono un inconfondibile talento che non sfuggì al redattore Wilhelm Brüstle, che, in un articolo di trentacinque anni successivo, disse di avervi intravisto la stessa aria di novità portata da Baudelaire nella poesia francese.
Bertolt Brecht
“Aria del dio della felicità”
Mi fai spuntar le lagrime, fratello,
vedo che la tua vita non è allegra.
Ecco una mela: io ne possiedo tre,
perciò una la regalo a te.
Non ci vedo niente di eccezionale:
e l’uno e l’altro possiamo vivere.
Solo i semi, promettimelo,
avido non inghiottirli,
sputali invece a terra
prima che mi allontani.
E se poi cresce un melo
dentro il mio campicello
vieni a prenderti i frutti:
è il tuo albero quello!
Bertolt Brecht
“IL Fumo”
“La piccola casa sotto gli alberi sul lago.
Dal tetto sale il fumo.
Se mancasse
Quanto sarebbero desolati
La casa, gli alberi, il lago!”
Bertolt Brecht
“Gli uccelli aspettano davanti alla finestra”
Io sono il passero.
Bambini, la mia fine è quasi certa.
E sempre vi ho chiamato nella trascorsa annata
Quando il corvo era di nuovo in mezzo all’insalata.
Vi prego, una piccola offerta.
Passero, fatti avanti.
Passero, ecco il tuo grano.
E tante grazie per il tuo lavoro!
Io sono il picchio rosso.
Bambini, la mia fine è quasi certa.
E picchio tutta la stagione estiva
E distruggo ogni bestia nociva.
Vi prego una piccola offerta.
Picchio, fatti avanti.
Picchio, ecco il tuo verme.
E tante grazie per il tuo lavoro.
Io sono il merlo.
Bambini, la mia fine è quasi certa.
E pure sono io che nel grigio del mattino
Cantai tutta l’estate nell’orto vicino.
Quando durò l’estate, dall’orto dei vicini.
Vi prego una piccola offerta
Merlo, fatti avanti.
Merlo, ecco il tuo grano.
E tante grazie per il tuo lavoro.
Bertolt Brecht, nato Eugen Berthold Friedrich Brecht (Augusta, 10 febbraio 1898 – Berlino Est, 14 agosto 1956) è stato un drammaturgo, poeta, regista teatrale e saggista tedesco naturalizzato austriaco.Secondo la sua volontà, Brecht fu seppellito senza cerimonie nel Cimitero di Dorotheenstadt in Chausseestrasse, che si scorgeva dalle finestre della sua abitazione dove viveva da separato in casa con la moglie. Là giace in un angolo adiacente la strada, di fronte alle tombe di Hegel e di Fichte, sotto una pietra dai contorni irregolari, che porta incise soltanto le lettere del suo nome: Bertolt Brecht.
Il 17 agosto alle nove del mattino ebbero luogo i funerali in forma strettamente privata. La famiglia, i collaboratori più stretti, come pure gli amici Hanna Eisler, Erich Engel, J. Becher accompagnarono il feretro alla tomba. Alla tomba, al cimitero lì vicino, per giorni si poté osservare un continuo andirivieni. Accanto alla tomba di Brecht ora riposano le persone che gli hanno voluto bene e che hanno lavorato con lui: la moglie Helene Weigel, Elisabeth Hauptmann, Ruth Berlau, Kurt Engel, Gaspar Neher.-Fonte – biografia su Wikipedia
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Sono presenti numerose rubriche che trattano settimanalmente argomenti su cui si cerca di sensibilizzare il pubblico dei lettori come le due storiche rubriche Le mètier de la critique e Life After Death, la rubrica Contro il Femminicidio nella quale uomini e donne definiscono 4 lemmi, la rubrica Neon Ghènesis Sandàlion che interroga gli archeologi sul passato della Sardegna, la rubrica iSole aMare, la rubrica Meditazioni Metafisiche che parte da Platone e Schopenhauer cercando di portare luce nella scoperta di questa antica disciplina e si incaglia in Carl Gustav Jung, la rubrica Dalle Enneadi secondo Plotino, la rubrica La casa dei Tarocchi, le varie rubriche sulla Nautica, le due rubriche sul cinema Oscar e Far East Film Festival, et cetera.
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traduzione e introduzione di Franco Fortini, Oscar Mondadori, Milano, 1985
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Poesie di Paul ELUARD, Poeta francese
Novembre 1936
Guardateli al lavoro i costruttori di macerie
Sono ricchi pazienti neri ordinati idioti
Ma fanno quel che possono per esser soli al mondo
Sono agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco
Piegano fino a terra palazzi senza capo.
*
A tutto ci si abitua
Ma a questi uccelli di piombo no
Ma non al loro odio per tutto quel che luccica
Non a lasciarli passare.
*
Parlate del cielo e il cielo si vuota
Poco c’importa l’autunno
I nostri padroni hanno pestato i piedi
Noi l’abbiamo dimenticato l’autunno
Dimenticheremo i padroni.
*
Città in secca oceano d’una goccia scampata
Di un unico diamante coltivato alla luce
Madrid città fraterna a chi ha patito
Lo spaventoso bene che nega essere esempio
A chi ha patito
L’angoscia indispensabile perché splenda quel bene
*
E alla sua verità salga la bocca
Raro alito sorriso come rotta catena
E l’uomo liberato dal suo passato assurdo
Levi innanzi ai fratelli un volto uguale
E alla ragione dia vagabonde ali.
Da « Cours naturel » (1938)
Paul Éluard
La vittoria di Guernica
1
Bel mondo di tuguri
Di miniere e di campi
2
Visi buoni al fuoco visi buoni al freddo
Ai rifiuti alla notte agli insulti alla frusta
3
Visi buoni a tutto
Ecco il vuoto vi fissa
La vostra morte servirà d’esempio
4
Morte cuore rovescio
5
Vi han fatto pagare il pane
Il cielo la terra l’acqua il sonno
E la miseria
Della vostra vita
6
Dicevano di volere il buon accordo
Razionavano i forti giudicavano i pazzi
Facevano l’elemosina spartivano in due un soldo
Salutavano i cadaveri
Si colmavano di cortesie
7
Perseverano esagerano non sono del nostro mondo
8
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Di primavera verde e latte puro
E di durata
Nei loro occhi puri
9
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Negli occhi
Gli uomini come possono lo difendono
10
Le donne e i bimbi hanno negli occhi
Le stesse rose rosse
Mostra ognuno il suo sangue
11
La paura e il coraggio di vivere e morire
Tanto difficile la morte tanto facile
12
Uomini per cui questo tesoro fu cantato
Uomini per cui questo tesoro fu sprecato
13
Uomini reali cui la disperazione
Alimenta la fiamma divorante della speranza
Apriamo insieme l’ultima gemma dell’avvenire
14
Paria la morte la terra l’orrore
Dei nemici hanno il colore
Monotono della nostra notte
E noi li vinceremo.
Da « Cours naturel » (1938)
Dubitare del delitto
Una corda una torcia un sol uomo
Strangolò dieci uomini
Arse un villaggio
Avvilì un popolo
La dolce gatta acquattata nella vita
Come una perla nella sua conchiglia
La dolce gatta ha mangiato i gattini
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Paul Éluard
Far vivere
Erano pochi uomini che vivevano nella notte
Sognando del cielo materno
Erano pochi uomini che amavano la selva
Credendo al legno ardente
Fin da lontano beati al profumo dei fiori
La nudità dei desideri li velava
Il respiro ritmato univano nel cuore
All’ambizione minima di vita naturale
Che nell’estate cresce come estate più forte
Alla speranza del tempo venturo
E che pur da lontano altro tempo saluta
Univano nel cuore
Amori più ostinati del deserto
Pochissimo sonno bastava
Per renderli al sole futuro
Duravano sapevano che vivere fa eterni
Dal buio dei sogni generavano luce
*
Erano pochi uomini
Furono folla a un tratto
Sempre è stato così. Da « Au rendez-vous allemand » (1942-1945)
I
Tutte le donne felici hanno
Ritrovato il loro marito egli torna dal sole
Tanto è il calore che porta.
Ride e piano saluta
Prima di dare un bacio alla sua meraviglia.
II
Splendida, il seno teso leggermente,
Santa mia donna, sei mia più di quando
Con lui, e lui e lui e lui e lui,
Io reggevo un fucile, un bidone – la vita!
VII
Per molto tempo ho avuto un volto inutile
Ma ora
Ho un volto per essere amato
Un volto per essere felice.
X
Sogno di tutte le belle
Che di notte vanno in giro,
Lente e calme,
Con la luna che viaggia.
XI
Tutto il fiore dei frutti m’illumina il giardino,
Gli alberi di bellezza e gli alberi da frutta
E io lavoro e sono solo nel mio giardino,
E il Sole cupo fuoco arde sulle mie mani.
Da « Poèmes pour la paix » (1918)
Zampa
Il gatto nella notte si fissa per gridare,
Nell’aria libera, nella notte, il gatto grida.
E triste, a altezza d’uomo, l’uomo ode quel grido.
Da « Les animaux et leurs hommes » (1920)
L’innamorata
Mi sta dritta sulle palpebre
E i suoi capelli sono nei miei,
Di queste mie mani ha la forma,
Di questi miei occhi ha il colore,
Dentro l’ombra mia s’affonda
Come un sasso in cielo.
Tiene gli occhi sempre aperti
Né mi lascia mai dormire.
I suoi sogni in piena luce
Fanno evaporare i soli,
E io rido, piango e rido,
Parlo e non so che dire.
Senza rancore
Lacrime delle palpebre, dolori dei dolenti,
Dolori che non contano e lacrime incolori.
Non chiede nulla, lui, non è insensibile,
Triste nella prigione e triste quand’è libero.
È un tempo tetro, è una notte nera
Da non mandare in giro nemmeno un cieco. I forti
Siedono, il potere è in pugno ai deboli,
E in piedi è il re, vicino alla regina assisa.
Sorrisi e sospiri, insulti imputridiscono
Nella bocca dei muti e negli occhi dei vili.
Non toccar nulla! Qui brucia, là arde;
Codeste mani son per le tasche e le fronti.
*
Un’ombra…
Tutta la pena del mondo
E il mio amore addosso
Come una bestia nuda.
Da « Mourir de ne pas mourir » (1924)
Paul Éluard
Non smetto ma per così dire di parlare di te eppure l’essenziale è presto detto.
Quando l’alba leva gli artigli
E il primo versante di selva
Tra riflessi di brividi
L’abisso delle vette s’apre
Quando a picco ti s’apre la veste
E dà alla luce il corpo tenero
E offre il seno lustrato docile
Seno che mai ha lottato
Ranuncoli tigrati di piombo
Eclissi fatali a chi è forte
Gradi di ermellino immolato
O quando in volto ti turbi
Quel che mi piace del tuo volto è l’apparire
D’un lume ardente in pieno giorno.
Da « La rose publique » (1934)
Nessuno può conoscermi
Nessuno può conoscermi
Come tu mi conosci
Gli occhi tuoi dove dormiamo
Tutti e due
Alle mie luci d’uomo han dato sorte
Migliore che alle notti della terra
Gli occhi tuoi dove viaggio
Han dato ai gesti delle strade un senso
Separato dal mondo
Negli occhi tuoi coloro che ci svelano
La solitudine nostra infinita
Non sono più quel che credevan essere
Nessuno può conoscerti
Come io ti conosco.
Da « Les yeux fertiles » (1936)
Un lupo
La buona neve il cielo nero
Le rame morte lo squallore
Della selva piena d’insidie
Onta alla bestia inseguita
La fuga in freccia nel cuore
Tracce d’una atroce preda
Dàgli al lupo e quello è sempre
Il lupo più bello ed è sempre
L’ultimo vivo sotto la minaccia
Dell’assoluta massa di morte.
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Sorelle di speranza
Sorelle di speranza o donne coraggiose
Contro la morte avete stretto un patto
Quello di unir le virtù dell’amore
Sopravvissute sorelle
Vi giocate la vita
Perché la vita vinca
Vicino è il giorno o mie sorelle di grandezza
Che delle parole guerra e miseria noi rideremo
Di quanto fu amarezza nulla resisterà
Ogni viso avrà diritto alle carezze.
Da « Poèmes politiques » (1948)
Buona giustizia
È la calda legge d’uomini
Con le uve fanno vino
Col carbone fanno fuoco
Con i baci fanno uomini
È la dura legge d’uomini
Rimanere integri contro
E la guerra e la sciagura
Contro i rischi della morte
È la dolce legge d’uomini
Tramutare l’acqua in luce
Ed i sogni in realtà
E in fratelli i tuoi nemici
Una legge antica e nuova
che si va compiendo e va
Dal cuore infante che non sa
Fino alla ragion suprema.
Da « Tout dire » (1951)
AVVERTENZA:tutti i testi qui presentati sono tratti da:
Paul Éluard POESIE traduzione e introduzione di Franco Fortini Oscar Mondadori Milano, 1985
Antonino Caponnetto
Pubblicato da Antonino Caponnetto venerdì 13 aprile 201
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Antonia Pozzi: la drammatica fine della Poetessa dell’Anima-
Articolo di Giovanna Potenza
Antonia POZZI
ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … …
È strana, a volte, la vita. Se osserviamo dall’esterno, alcune persone sembrano insolitamente privilegiate e la loro esistenza fluisce serena, senza ostacoli, come un fiume che scorre inarrestabile. Eppure, talvolta, quel moto lento e inesorabile si interrompe bruscamente, magari per una casualità o per un intervento volontario, e noi restiamo attoniti e smarriti ad interrogarci sul perché. Cosa può aver spinto, a soli 26 anni, Antonia Pozzi a compiere il suo tragico gesto in una gelida giornata decembrina di tanti anni fa, quando sull’Europa si addensavano minacciose le nubi di guerra? Forse non sapremo mai se le ragioni del suo suicidio sono da ricercarsi in un oscuro “male di vivere”, oppure in un sentimento di disperazione fatale. Possiamo asserire con certezza però che il panorama letterario italiano ne risultò impoverito perché, come ebbe a commentare Dino Formaggio, un famoso filosofo legato da profonda amicizia con la donna: “la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo“. Una voce isolata e solitaria, quella della Pozzi, a lungo poco nota, fino alla “riscoperta” da parte di Montale, che ne decretò la fama definitiva. Milanese, nata nel 1912 da una facoltosa famiglia alto-borghese (il padre era un noto avvocato, la madre, una nobildonna nipote di Tommaso Grossi, scrittore amico di Carlo Porta e del Manzoni), Antonia Pozzi studia al liceo classico “Manzoni”, nella sua città, e intreccia ben presto una relazione con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, relazione fortemente avversata dai genitori, terminata nel 1933, con il trasferimento dell’insegnante a Roma. L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935. Viaggia in Italia, Austria, Germania e Inghilterra, ma visita anche le periferie della sua città, un mondo per il quale prova compassione, sentendosi quasi in colpa per i suoi natali privilegiati. Non a caso preferisce all’elegante mondanità milanese la solitudine della vita immersa nella natura incontaminata di Pasturo, presso Lecco, dove si erge la settecentesca villa di famiglia. Antonia fa lunghe escursioni a piedi o in bicicletta, ama la selvaggia bellezza di quei paesaggi ricchi di picchi innevati, di torrenti e di crepacci. Trae fonte di ispirazione dalla natura, è il silenzio delle alture che la induce alla meditazione sulla finitezza umana. Scatta fotografie ai luoghi ed agli abitanti, colti nelle loro umili mansioni quotidiane. Solo in alcuni e brevi momenti la giovane riesce a sentirsi in pace con se stessa. Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: <<l’età delle parole è finita per sempre>>. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce. “Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo. Le sue prime opere vengono pubblicate postume, dalla Mondadori, un anno dopo la sua morte, dopo essere state revisionate dal padre, che modifica soprattutto quelle dai contenuti amorosi. Ma, a dispetto delle manipolazioni subite, la produzione lirica della Pozzi affascina tuttora generazioni di lettori per la modernità e per la scarna essenzialità dei suoi versi soffusi di tristezza, debitori del crepuscolarismo e dell’espressionismo tedesco.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Dopo un lungo periodo di oblio, persino il cinema si è interessato ad Antonia e la sua vita è stata ricostruita nel cine-documentario della regista Marina Spada in “Poesia che mi guardi”, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 2009. In occasione del centenario della sua nascita, i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno, poi, realizzato un film-documentario dal titolo “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” e nel 2016 è stato proiettato, al Cinema Mexico di Milano , un film sulla sua vita intitolato “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino. Oggi ella riposa nel cimitero di Pasturo, e la sua tomba è vegliata dal monumento funebre dello scultore Giannino Castiglioni, un “Cristo Giovane” che ha lo sguardo rivolto alla Grigna, alle amate montagne testimoni silenti e imperturbabili della “breve sosta” di Antonia nella nostra dimensione terrena.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Articolo di Giovanna Potenza , è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.
Fonte- Vanilla Magazine-
VOCE DI DONNA 18 settembre 1937
Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
PRATI Milano, 31 dicembre 1931
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l’abbaglio estremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
Antonia POZZI
INCANTESIMI 22 dicembre 1935
Alti orli ghiacciati
si disfecero al mondo.
Solcava
lenta e lieve la barca
laghi d’oro,
andando così noi nel sole
abbracciati.
Gracili reti bionde
imprigionavano l’ora.
E nacquero brividi;
crebbero
voci tristi;
fischiò
a sponda il dilacerarsi delle canne.
Belve chiare
guardarono dal folto
a lungo
il tramonto nell’acqua,
andando così verso l’ombra
io libera
e sola per sempre.
ANTONIA POZZI-Bambina
Lampi
Stanotte un sussultante cielo
malato di nuvole nere
acuisce a sprazzi vividi
il mio desiderio insonne
e lo fa duro e lucente
come una lama d’acciaio.
Margherita, 23 giugno 1929
ANTONIA POZZI-Poetessa
Sfiducia
Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggére
per lasciare un’impronta –
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
– altre cose intendendo –
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.
16 ottobre 1933ù
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Pensiero
Avere due lunghe ali
d’ombra
e piegarle su questo tuo male;
essere ombra, pace
serale
intorno al tuo spento
sorriso.
maggio 1934
Antonia Pozzi
Convegno
Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –
sul mio volto.
29 maggio 1935
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Brezza
Mi ritrovo
nell’aria che si leva
puntuale al meriggio
e volge foglie e rami
alla montagna.
Potessero così
sollevarsi
i miei pensieri un poco ogni giorno:
non credessi mai
spenti gli aneliti
nel mio cuore.
8 giugno 1935
Antonia Pozzi
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
ANTONIA POZZI-Poetessa
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Santa Spanò:”La voce di Nadia Anjuman diventa così la voce di tutte le donne note e sconosciute, uccise e suicide, ferite e umiliate, usate e cancellate”.
Il diritto di gridare
Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore non può che parlare del lutto
nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo che trema nell’aria
sono una figlia afgana, con il diritto di urlare.
Imprigionata in quest’angolo
Sono imprigionata in questo angolo
Piena di malinconia e di dispiacere.
Le mie ali sono chiuse e non posso volare.
Il canto più triste.
Divento fumo nello spazio del mio credo
Lentamente mi avvolgo e mi anniento
Finché vengo allevata dalle mani dell’ansia
Nell’abisso del cuore i miei battiti aumentano
E quel battito intende conoscere la terra della fossa del tardi
Mi preparo al momento trascorso
A volte dall’amore arido e dal buon miraggio di una nuvola
Mi trasformo nel più arido deserto salato
Ma l’immaginazione dei miei occhi mi trasforma in acqua
Nel letto della morte per sete, mi trasformo in ruscello
Se arriva a me il capo di uno dei fili della speranza
Divento l’ordito nella sottile trama del cuore
Questo se n’è andato senza commiato, l’immaginazione mi porta via
Sono ancora io che mi riempio di ricordi
Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio.
(Nadia Anjuman, Il canto più triste. Raccolte Come un uccello in gabbia e Elegia per Nadia Anjuman, a cura di I. Scarparolo e C. Contilli -Ed. Carta e Penna- Torino)
Nessuna voglia di parlare
Che cosa dovrei cantare?
Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.
Perché dovrei parlare di dolcezza?
Quando sento l’amarezza.
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?
Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Soltanto io e la mia forzata solitudine
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.
Sono stata silenziosa troppo a lungo.
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore
Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia
Per volare via da questa solitudine
E cantare come una persona malinconica.
Io non sono un debole pioppo
Scosso dal vento
Io sono una donna afgana
E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi.
Magari
A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida.
(Nadia Anjuman, da Poesie scelte, Torino, Edizioni Carta e Penna, 2008)
Nadia Anjuman (Herat, Dicembre 1980 – Herat, Novembre 2005) è stata una poetessa afghana.
Il 4 novembre 2005, ad Herat nel centro occidentale dell’Afghanistan, Nadia Anjuman, poetessa, è morta massacrata di botte dal marito: aveva appena 24 anni e da 6 mesi era diventata madre di una bambina.
Una breve premessa è necessaria, è necessario ricordare che il territorio afghano si è guadagnato il soprannome di “tomba degli imperi”, direi di aggiungere anche “tomba delle donne”, dopo una parentesi durata vent’anni, i talebani hanno riconquistato l’Afghanistan (da qui si capisce il soprannome). Con il ritiro dei vari organismi internazionali i diritti civili a fatica conquistati, soprattutto dalle donne, con tutta probabilità diventeranno fumo. Per le donne lo sport in pubblico è già vietato, le scuole per le donne, separate dagli uomini, diventeranno una sorta di seminari religiosi e comunque studi o non studi, le donne non le cariche pubbliche se le potranno scordare, frustate a chi indossa abiti occidentali, le donne saranno costrette a indossare il burqa, sarà vietato uscire di casa senza il marito o un mahram (parente), sono ripresi i rapimenti di donne ridotte a schiave sessuali, future mogli promesse a chi si arruola, fustigazioni pubbliche, lapidazione, amputazione di arti e mani ed esecuzioni sommarie (da qui si capisce anche il soprannome che ho suggerito io).
Il titolo “Ritorno al futuro” – ricorderete sicuramente questa pellicola degli anni ’80 con Michael J. Fox e Christopher Lloyd – è una sintesi perfetta di quanto accaduto, la sensazione è proprio questa, come se tutti questi anni fossero trascorsi invano mentre i talebani viaggiavano indisturbati nel tempo per far in modo che in questo territorio martoriato, oggi ribattezzato Emirato islamico dell’Afghanistan, tutto tornasse al periodo 1996-2001.
E nel loro “ritorno al futuro” avranno attraversato anche la vita di Nadia Anjuman che nella sua autobiografia scriveva […]“Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia. L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia… ma… ahimè… tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso”…
Nadia gli anni del regime talebano li ha vissuti in pieno, in quell’età, l’adolescenza, in cui le ragazze vogliono sentirsi subito grandi, fanno tardi la sera, s’innamorano perdutamente, leggono e scrivono poesie, sognano ad occhi aperti e fanno un mucchio di sciocchezze, le ragazze, ma in Afghanistan in quegli anni non sono esistite le “ragazze”, né l’adolescenza delle ragazze.
Alle donne era vietato persino ridere ad alta voce, figurarsi andare a scuola, a loro era vietata qualsiasi forma di istruzione, si poteva studiare solo clandestinamente, col rischio di essere arrestate e impiccate. Tra le poche concessioni del fondamentalismo islamico: i corsi di cucito.
La “Scuola di cucito l’ago d’oro” di Herat accoglieva le ragazze desiderose d’imparare a cucire, ufficialmente, clandestinamente era un circolo letterario, le lezioni tenute da professori di letteratura della locale università aprivano alle donne la possibilità di studiare i grandi autori, di approfondire la lettura e la scrittura, tutto questo a costo della vita.
Nadia Anjuman era una delle allieve del “l’ago d’oro”, e non tardò a farsi notare per stile e talento, l’amore per la poesia, come lei stessa scrive nell’autobiografia, le consentì di “appoggiarsi alla penna” e scrivere, tanto che uno degli organizzatori del circolo, il professore Muhammad Ali Rahyab iniziò a guidare l’allora sedicenne Anjuman, e “la aiutò a trovare la voce che presto avrebbe affascinato migliaia di lettori”.
Nel 2001 l’Alleanza del Nord appoggiata dagli Stati Uniti liberò l’Afghanistan dalla dittatura talebana, Anjuman aveva 21 anni e finalmente, cessate le criminali limitazioni imposte dai religiosi integralisti, era libera di seguire il proprio percorso di studi iscrivendosi al corso di laurea di Letteratura e Lingue Farsi all’Università di Herat, dove si è immatricolata nel 2002.
La situazione socio-politica si rinnova con l’entrata in vigore della nuova Costituzione dal 26 gennaio 2004, rifacendosi a quella del 1964, alle donne vengono (sulla carta) riconosciuti gli stessi diritti degli uomini, di fatto la condizione della donna, soprattutto nelle aree rurali e nelle famiglie conservatrici non muta (e non è mai mutata), le mentalità misogine e patriarcali, una cultura oramai radicata, continuano a considerare le donne sottoposte agli uomini, oggetti, incubatrici, domestiche, schiave, appendici di servizio.
In mezzo a tanto fermento anche la nostra giovane promessa Nadia Anjuman compie con tenacia la sua personale “rivoluzione”, si laurea in letteratura e pubblica il suo primo libro di poesie “Gul-e-dodi” (“Fiore di fumo”), libro che divenne molto popolare anche fuori dei confini afgani, in Pakistan e anche in Iran.
Nel frattempo non si sottrasse ai suoi doveri filiali e sposò Farid Ahmad Majid Neia, laureato anche lui in lettere all’Università di Herat e direttore della locale biblioteca. Neia e la sua famiglia consideravano le pubblicazioni di Nadia imbarazzanti, che leggesse in pubblico e avesse tanto seguito una vergogna per la loro reputazione.
Nonostante la difficile situazione familiare Nadia Anjuman continuò a lavorare al secondo volume di poesie che sarebbe andato in stampa nel 2006 intitolato “Yek sàbad délhoreh” (“Un’abbondanza di preoccupazioni”), la sua voce sul registro della sincerità nel raccontare il suo isolamento e la tristezza del matrimonio.
Non riuscì a vederlo pubblicato, il 4 novembre 2005, a pochi mesi dalla nascita della sua bambina, e dal suo compleanno, il 27 dicembre avrebbe compiuto 25 anni, il marito Farid Ahmad Majid Neia la picchiò a morte.
Se per sopraffare un “nemico” occorre un M4, per sopraffare una donna sono sufficienti schiaffi, pugni e qualche calcio ben assestato, questo il destino di Nadia Anjuman, secondo alcune fonti tutto iniziò con un litigio, per il fratello di Nadia il vero movente dell’omicidio fu il rancore. Il marito non poteva sostenere il confronto con la moglie diventata una delle voci più apprezzate della poesia, non poteva tollerare una moglie con il vizio della notorietà, brava, seguita e amata, e la uccide fracassandogli la testa.
Per le autorità si tratterà di infarto o suicidio. Le autorità in un primo tempo avalleranno le dichiarazioni di Farid Ahmad Majid Neia che la giovane dopo la loro lite prese del veleno, nessuna autopsia venne eseguita per espresso divieto del marito e della sua famiglia. L’intervento delle Nazioni Unite, l’evidente morte per trauma cranico dovuto alle percosse, portarono in un secondo tempo all’arresto del marito, arresto che durò qualche mese, i capi tribali del distretto di Herat fecero pressione sul padre di Nadia perché perdonasse pubblicamente il genero, assicurando che l’uomo sarebbe rimasto in carcere per almeno cinque anni. Farid Ahmad Majid Neia grazie al perdono dopo un solo mese di detenzione ritornò alla sua vita e l’omicidio della poetessa Nadia Anjuman archiviato come suicidio.
Oltre ogni dibattimento, il movente di questo efferato assassinio resta uno: essere donna.
E non è certo il solo, l’Afghanistan non è un paese per donne, anche la legge sull’Eliminazione della Violenza sulle Donne nel 2009, riconfermata poi nel 2018, ha potuto poco nelle aree interne del Paese, dove gli uxoricidi, le violenze domestiche sono di fatto fatti privati. Una maggiore consapevolezza e miglioramento delle condizioni lo si è avuto in questi vent’anni soprattutto nelle grandi città, non senza dimenticare le uccisioni e le aggressioni di donne che si sono impegnate per l’emancipazione e il miglioramento delle condizioni di vita della donna. Oggi con il ritorno al potere dei Talebani il timore che delle donne ci si dimenticherà dei diritti, ma ancora più straziante anche del volto, segregato sotto un manto o dietro i vetri oscurati, è quasi certo, lo testimoniano le prime 300 “vittime” ufficiali, 300 donne afghane filo-talebane che l’11 settembre hanno partecipato a una conferenza all’Università di Kabul indossando il velo integrale a sostegno delle politiche sulla segregazione delle donne. Coperte integralmente, finanche le mani con guanti neri, in conformità con le nuove rigorose politiche di abbigliamento per l’istruzione, hanno sventolato le bandiere bianche dei talebani felici di non esistere più.
La voce di Nadia Anjuman diventa così la voce di tutte le donne note e sconosciute, uccise e suicide, ferite e umiliate, usate e cancellate.-
Fonte –La Bottega del Barbieri
COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE Onlus Via dei Transiti 1 – 20127 Milano
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Le donne del CISDA sono attive nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 1999. Il nucleo iniziale è stato costituito da un gruppo di “Donne in Nero” che ha invitato le donne afghane di due associazioni (RAWA e HAWCA) all’Onu dei Popoli di Perugia.
Da allora, questo nucleo di donne ha continuato la sua attività, collaborando con altre associazioni.
Dal 2014, su sollecitazione degli attivisti afghani, l’attività di sostegno del Cisda si è rivolta anche alla resistenza curda.
Le finalità del CISDA si collocano nell’ambito della solidarietà sociale, della formazione, della promozione della cultura, della tutela dei diritti civili e dei diritti delle donne in Italia ed all’estero.
L’Associazione ha come fondamento la condivisione dei valori umani di ogni persona quali ne siano religione, origine, cultura e nazionalità; lo scopo prioritario è la promozione di iniziative di carattere politico-sociale sia a livello nazionale che internazionale, sulla condizione delle donne che si trovano in situazioni svantaggiate dal punto di vista familiare, economico, sociale e politico, con particolare riferimento alle donne afghane.
All’interno del tessuto sociale CISDA intende, promuovendo la diffusione di una cultura e di una prassi di solidarietà:
contribuire al superamento di atteggiamenti emarginanti, con l’apertura all’accoglienza e all’integrazione e per l’educazione a una convivenza sociale multi razziale, in spirito di fraternità e di non violenza
favorire l’eliminazione dei fattori che ostacolano il pieno e libero sviluppo umano, sociale ed economico
realizzare una crescita e uno sviluppo, sia a livello locale che internazionale, nella ricerca di una maggiore giustizia tra i popoli, nel rispetto del razionale sfruttamento delle risorse e dei limiti ambientali del pianeta
La nostra attività si svolge a stretto contatto con i nostri partner afghani, con cui condividiamo progetti concreti, lettura della realtà locale e internazionale, con uno scambio continuo di visioni ed esperienze. Queste le organizzazioni di riferimento: [
RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan)
HAWCA (Humanitarian Association of Women and Children of Afghanistan)
OPAWC (Organization Promoting Afghan Women Capabilities
SAAJS (Social Afghan Association of Justice Seekers);
AFCECO (Afghan Child Education and Care Organization).
Il CISDA è oggi attivo nelle città di Milano, San Giuliano Milanese, Sesto San Giovanni, Cologno Monzese, Firenze, Como, Roma, Torino, Piadena, Verbania e nel Tigullio. Periodicamente invitiamo in Italia delegate delle organizzazioni afghane e curde con cui collaboriamo per tenere conferenze e incontri sulla situazione del loro paese e sulle loro attività.
Promuoviamo delegazioni in Afghanistan e in Kurdistan, quando possibile.
Organizziamo incontri pubblici, presentazioni di libri e filmati, incontri nelle scuole, cene di solidarietà, raccolte fondi a sostegno dei progetti.
In Italia collaboriamo con varie associazioni e reti tra cui: Insieme si puo’ di Belluno, Emmaus di Piadena, “La Sosta” di Roma, “Liberi Pensieri” di S. Giuliano Milanese, La Casa in movimento di Cologno Monzese (MI), Da donna a donna, di Sesto san Giovanni (MI), Casa delle donne di Viareggio, Milano, Torino, Roma e altre città, Trama di terre di Imola, Centro Balducci di Zugliano (Udine), Donne in Nero, Circoli Arci
CISDA ha pubblicato libri e filmati che potete trovare nella sezione multimedia.
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