Antonio Nazzaro – Poesie Inedite pubblicate dalla Rivista AtelierRivista Atelier-
Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963). Giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collezioni di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici.
* * *
adesso che non ho più il silenzio
ma un fischio senza fine
sento solo il silenzio degli altri
quello a fare solitudine
la lingua incagliata tra i denti
della parola non detta
quella di un mondo del lavoro
a negare la dignità senza dire
orfano di terra di madre
parlo con te acufene
un ascoltare te
che non ascolti me
*
sono una conchiglia di terra
muovo passi sul mattino alpino
alla finestra lo sguardo
fa il cielo mare piatto
sono una conchiglia
l’orecchio porta nella testa
l’eco degli oceani e dei mari
tutti quelli possibili dell’emigrante
l’acufene seduto sul lobo
canta mille lingue e terre
in un solo fischio
*
sento il canto delle sirene d’Ulisse
il richiamo dell’onda mediterranea
il frangersi della spuma degli oceani
il muoversi lento del lago
il vento a spazzare le strade d’Europa
il ciclone a scuotere le palme caraibiche
il turbinio delle foglie d’autunno
il pizzicare della cetra sull’incendio di Roma
il ritmo del charango sulla povertà dei barrios
il ballo del tango e delle balere di periferia
il suono dell’arte continuo
come Van Gogh lascio
l’orecchio sul comodino
a sentire lo scorrere del Rodano
a passare senza posa come un acufene
*
non mi perderò nella nebbia densa di Londra
trafitta dal canto perduto di Trafalgar
né in quella spessa dell’Eridano
a riecheggiare le urla della batracomiomachia
né in quella impigliata alle cime andine
attraversata dal fischiettare del Libertador
né in quella versata da Atena sulle coste d’Itaca
a nascondere lo sguardo d’Ulisse
né in quella dolce addormentata sulle Highlands
tessuta dagli elfi dell’acqua
il fedele acufene destriero dello stridio
dalle nebbie richiama alla terra
e non si può perdere il cammino
solo seguire l’infinito sibilo
*
ho un dio nella testa
sicuramente ortodosso
non scende mai dal pulpito
o dal minareto
la sua chiamata è costante
si è rubato il silenzio
confonde le parole sulla lingua
e gioca a girarmi intorno a farmi girare
è un demiurgo che non smette di battere
uno stakanovista dimenticato in miniera
sbatte come il vento le finestre
e si porta via i pensieri
anche quelli amorosi soffia via
lasciandomi in una solitudine piena
piena di lui ovviamente
e non è neanche bello
sembra un neon impazzito
che non smette di vibrare la luce
tutti mi dicono di non pensarci
ma lui non smette di pensarmi
acufene l’allarme che
un ladro non sa spegnere
Biografia di Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963). Giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collezioni di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici. Ha pubblicato le sillogi: Amore migrante e l’ultima sigaretta (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), Corpi Fumanti (Uniediciones, Bogotá, 2019) e Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021), La dittatura dell’amore (Edizioni Delta 3, collezione Aeclanum, Italia, 2022). Un libro di racconti brevi: Odore a (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e il libro di cronaca e poesia: Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017). Suoi testi sono stati pubblicati in differenti lingue su riviste e antologie nazionali e internazionali.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Per la mano sinistra
La forma è limpida – per esprimere cose e opache.
Ma se, dalla porta in cui appaio, fossi già scomparso?
Certi giorni, che trascorrono senza di me.
Scrivere è un atto di violenza, un magico errore, una gioia senza nome.
La poesia non nasconde e non svela.
La forma della poesia confluisce in suoni che ne cancellano l’architettura.
Prima di scrivere, maturo la gioia di tacere.
Sciolse la scena del disastro con parole che risuonarono armoniose.
Somigliando a qualcuno mi scopro inimitabile.
Lo spostamento di un avverbio è più eversivo di una rivoluzione vittoriosa.
Le opere inessenziali hanno una grazia particolare.
I fiumi si differenziano per i detriti che trascinano.
***
La pertinenza del testo: modulare una passione.
Le perfezioni sono attimi.
La poesia è abitare desideri impossibili.
Il fulmine frantuma lo specchio che riflette il lampo.
Lo scrittore ha un solo dovere: essere cosciente delle proprie visioni.
Perché la mia lingua sia vera, deve averla nutrita il buio.
L’immobilità: limite estremo del rallentamento del moto.
Lo scoglio non esaurisce il flusso delle onde.
Scrivo per prepararmi a scrivere in qualche impossibile giorno
Siamo perduti, solo se siamo stati ingiusti.
Disimpari lo stupore e cominci a morire.
Disorientare il presente: sopravvivere.
***
Allo scrittore accade di anticipare se stesso senza conoscersi ancora.
La parola è indicibile. Ma occorre scrivere per saperlo.
Morirò per non essere sopraffatto dalla morte.
Maldestri e inutili, stupidi e balordi. Eletti.
Qualcuno si crede originale per eccesso d’ignoranza.
Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza.
Non c’è nulla di conforme: mi aiuta la scienza del deforme.
Nascere sempre nel tempo sbagliato.
Scrivo per ripetere ciò che non sono. Per allontanarmi da me
Non avendo più nessun desiderio, come posso desiderare la morte?
Solo quando la casa va a fuoco, è visibile la sua architettura.
***
Chi è cieco grida di non vedere. Non scrive aforismi sulla cecità.
Distruggere quel suono solo per aprire le orecchie a un altro suono.
L’arte, consumando opere, non si annulla ma cambia forma.
La parola è trasparenza dell’io all’esperienza dell’abisso.
Non si crea verità ma la si dissotterra.
Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. Da dove si inizia?
Un uomo che guardi se stesso da lontananze estreme e trovi un linguaggio possibile.
La forma dell’io, alla radice, è visione del non-io: vertigine dello specchio.
Un dio – ma simile al fumo che sale dalle macerie.
La forma più primitiva del sapere è un soffio di vento.
Il passato non è mai certo della sua estinzione.
***
La follia, come l’arte, presume di sconfiggere la morte.
La scrittura è spartito per la voce.
Troppe parole, nella pagina, e pochissimi ricordi, nella mente.
Uccidermi sarebbe perdere il flusso vivente di cui solo io sono occhio e orecchio.
Avvicinarsi alla mancanza di maschere è la via maestra per togliersi la vita.
Scrivere è parlare di un vento di cui non ricordiamo il suono.
Nessuna interiorità è personale.
Tutte le idee vengono dal sonno.
Solo chi si sveglia può osservare dormire.
Dormire è appartenere al segreto di un altro.
All’interno del sonno c’è un risveglio di cui la scrittura è complice.
Il testo è il risveglio ma il fondo della parola è il sonno.
Stile: gioco di equilibri attorno a un precipizio.
***
La scrittura è il sogno illegittimo ma reale della resurrezione.
Il sonno rende la veglia un territorio misterioso.
La vita: progressivo misconoscimento del mondo.
Ci sono fantasmi che devono esistere per noi e oltre di noi.
Farsi sopraffare dalle voci è la volontà di creare un non-luogo della letteratura.
Il punto più in ombra corrisponde al centro della luce più intensa.
Disegni fatti di fuliggine e cenere, di ciò che è esistito ed è bruciato.
Il vero incendio è dove soffochi, non nel chiarore delle fiamme.
Ricordo impossibile: il sole sotto il cuscino.
L’opera deve restare segreta, se occorre, contro il suo stesso autore.
Annotare, ma lentamente.
***
Missione impossibile ma necessaria: trovare le frasi lucide dello stordimento.
E’ l’opera stessa a inventare l’io nel quale vuole esprimersi.
La scrittura può descrivere i colori, ma ogni descrizione è un’ombra.
La musica tradisce il corpo meno della parola.
Della musica attrae il silenzio suscitato dalle note.
Scrivere: emorragia che non può essere fermata.
Ci sono ferite che richiudere sarebbe un delitto.
Aveva molto buio, nelle dita.
Accettare il fallimento personale come la linfa necessaria.
***
Perseverare nel sogno: scegliere il delirio contro l’annientamento.
Alcuni intervalli, dentro il mio sonnambulismo: gli atti vitali.
Riposare dai miei folli. Non vivere più in loro ostaggio.
Ritrovare, sotto il torace, la gaia, palpitante oppressione di creare.
Letteralmente non togliere mai la penna dal foglio.
Stupirsi per chi ti chiede cosa stai scrivendo.
I libri: la propria ferita, inarrestabile, scesa a patto con delle cicatrici.
La «cifra del tappeto» di tutta la mia opera è la necessità di vivere nonostante.
Per chi esige una certa luce, l’ombra non sarà mai sufficiente.
Non vivere neppure un attimo senza le potenzialità della parola.
Pagina mai vuota – inesauribile esorcismo.
Silloge dal titolo celaniano, incantevole: Da quale rupe riflessa (finalista al Premio Lorenzo Montano 2021, sezione «Raccolta inedita»). Ossia: dall’impossibilità di guardare in faccia, senza schermi, la luce. E qui si parla di giochi sui sipari che sono riverberi di oggetti deprivati di consistenza, ombre d’acqua, resti del diluvio.
Marco parla di uno «stormire» come brezza della dismisura oceanica più che brusio di foglie. L’acqua e l’aria appaiono elementi trionfali e trionfano, vorticosi e dolorosi elementi, sulla terra e sul fuoco, esperienze deludenti. Che il poeta si sia annidato nel riflesso per deviare l’urlo del ‘reale’ lacaniano, della Chose?
Protezione, forse, raffica parata continuamente per un indice di salvezza. Ercolani tenta di mettersi salvo, lungi dal suo credo ogni senso o sentimento della Redenzione. Sparire è il suo traguardo, nel silenzio, tra le ammirate nuvole, tra i fumi e gli ectoplasmi di una Genova opaca e graffiante, sparire, walserianamente. Quasi un sì, quasi un’obbedienza in extremis. Obbedienza all’altrove, alle nebbie.
Poesia mentale, tutta tesa alla cosa estraente, al nucleo e alla polvere particellare. Fino al sinistro di certe ombre persecutrici. Ombre che sopraggiungono allorché la distanza si fa più netta ed esatta. Appare allora il desiderio taciuto del salto, l’affondo nel buio. Non un buio romantico, decadente, ma deangelisiano, irto di editti e spaventi.
Tutto avviene, scrive il poeta, come se «quel lungo incredibile altrove […] non esistesse e l’aria fosse / ancora quel precipizio del volo perfetto / sopra la pietra finale».
Alfonso Guida
***
Non parli la nostra lingua
arrivi e non parli:
guardi quel doppio sole,
come i fuggiti dal mondo guardano,
senza lacrime dopo la fuga,
la doppia luce e non abbassano gli occhi.
Arrivi, e questo cielo a picco
è tuo.
***
Cenere sognata dai morti
numero primo –
sillaba.
Senza una parola che rompa il muro della lingua
posso trascrivere me?
Vagabondo nelle stazioni
ma non ho occhio di folle.
La corda dondola vuota dal ramo.
Quale testa sprofonderà nell’ombra?
***
Qui non foglie, non alberi,
ma l’immagine esatta di una porta
nel profumo del giorno.
I venti, sulla maniglia,
indifferenti alla morte.
Torniamo
verso la luce bianchissima
inventiamo
un cielo mai, mai
notturno.
La vista ritorni,
del mare muto.
Marco Ercolani è nato nel 1954 a Genova, dove vive e lavora come psichiatra. S’interessa alla poesia contemporanea e al rapporto arte-follia. Numerose sono le sue pubblicazioni, in ambito sia scientifico sia letterario, sia come unico autore sia in coppia con Lucetta Frisa.
* Marco Ercolani, Nel fermo centro di polvere (Il Leggio, Chioggia (Ve), 2018
LA POESIA COME ENIGMA NECESSARIO
Marco Ercolani è nato a Genova nel 1954. E’ psichiatra e scrittore. Artista complesso: narratore, critico letterario, saggista, curatore di collane, aforista, poeta. Insomma un autore che pratica la parola ed usa il linguaggio nelle sue forme, stili e strutture diverse. Come ha scritto Dario Capello, questo “È il libro di un poeta che da sempre conosce il senso della vertigine, del doppio movimento, imprendibile, delle cose e della lingua che le nomina. La parola di Marco Ercolani è qui scagliata, scagliata fuori dal suo stesso fluire ritmico, dopo essere stata a lungo macerata, febbrilmente meditata.” E’ la padronanza del linguaggio che prima di tutto colpisce in questa raccolta raffinata, articolata, profonda. La lingua qui “ritrova una forza non comune, un’originalità di dizione che altri poeti hanno perduto o non sanno trovare” (così scrive Antonio Devicienti nella sua introduzione) per cui la raccolta è portatrice di un piacere in sé, quello di incontrare una scrittura forte e piena, consapevole e ricca di sfumature. In un momento storico in cui la perdita di qualità del linguaggio va di pari passo con lo scadere della qualità della vita sociale e culturale del nostro Paese, credo che Ercolani ci offra una via di riflessione critica necessaria. Persona che analizza lucidamente, spietatamente il proprio lavoro, autore critico con se stesso, come con gli altri, Ercolani, nell’intervista curata da Gabriela Fantato che arricchisce il libro, chiarisce il senso del suo lavoro e della sua poetica. “La poesia, in quanto enigma, è esperienza dell’inconciliabile. Tutto non è mai come appare: l’universo di ogni parola ha l’inafferrabilità e la potenza del miraggio. La magia del canto incrina la compattezza del discorso, lo dissolve…”. La scrittura di Ercolani, per sua stessa indicazione, cerca “sequenza musicali” che nascono non dalla retorica (vera o presunta) della rima, ad esempio, ma dalla forza intrinseca dei significati che il poeta esprime, allude, indica, scolpisce. La poesia assume così un senso ontologico, fluttuante magari in certi momenti, ma sempre determinato. La poesia di Ercolani è un viaggio che cerca l’Altro dentro di noi e così facendo si sorprende e sorprende il lettore di pari passo. Il lirismo di Ercolani è di una forma diversa da quello abituale: siamo dinnanzi ad un lirismo “metafisico” non perché trascenda le cose, ma perché accede alle cose, entra nel vivo della materia poetica. Un lirismo quindi che sa fondere intelletto ed emozione, riflessione e visione intuitiva. La poesia di Ercolani è colta, ricca di riferimenti espliciti ed impliciti, ma mai pedante; egli sa connettere pensiero e visionarietà, un po’ come accade appunto per la musica. La scrittura nella poesia di Ercolani cerca il senso ed è senso essa stessa nel momento in cui si dice; la lingua accade e così si descrive, riflette su se stessa, propone una direzione a se stessa nel momento in cui indica le cose. Non ci si attenda quindi una poesia cerebrale, intellettualistica: “Nel fermo centro di polvere” è fuoco, passione che brucia, segreto che non si svela, miraggio necessario del nostro andare.
Stefano Vitale
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Lei tace, tu abbandoni le braccia.
Torna segreto, il sole.
Lettere ancora bianche, mai scritte, mai perdute.
Aprono i cancelli. Ma del vento nessuna traccia.
Soffierà, forse.
In cima alle pietre.
Buio agli occhi. Vertigine.
Naufraghi sul tavolo.
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Torre alta. Parto da qui.
Il bianco che le onde lasciano alla notte
è schiuma viva, dove l’acqua evapora:
restano, sempre, le fitte d’ombra dei versi.
Io parlo da qui:
insperabile reale limpida
voce.
Respiro, ma ai miei giorni
manca qualcosa di terrestre e di dolce.
Il lavoro poetico?
Rigorosa dilapidazione.
Essere nel nulla e non salvarsi. Cancellare
le parole nel foglio vuoto.
Leggere le pagine di chi fu vivo
e guardare la bellezza del cielo:
ritardare il congedo dal mondo,
léggere, non
scrivere più,
smettere di ripararsi dal cielo.
Finalmente
non capire.
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Le maschere della mente
Immobile durante il giorno a leggere e a pensare,
ma ogni notte, la testa sul cuscino,
le gambe ferme, a perdifiato
nella terra lucente per sognare,
nella terra sconosciuta, in cima ai torrenti,
fra i monti percossi dai venti,
correre,
con cose strane da guardare,
nessun incubo a potermi spaventare…
Ma poi svegliarsi
e inutile e lungo torna il giorno.
Impossibile trovare la terra non vista,
impossibile riascoltare il sogno:
muto alle parole adulte
diventare il bambino trasparente
che abita la stanza di niente,
fumo di parole
le maschere della mente.
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Ostuni
Dove sono le pietre che l’occhio inventava fra viso e mondo,
la masseria tra gli ulivi, le mura circolari e in alto
l’abbagliante, bellissima Ostuni?
La ricordo e la cerco
mentre scrivo all’interno del foglio,
lettera sotto lettera:
sotterro le frasi
concentro lo spazio
attendo che si laceri
la mia invisibile, affilata parola.
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Tornare e tacere
A chi mi chiede, scrollo la testa.
È un no a ogni domanda:
appena ricorderei
qualcosa come odissee e ciclopi,
uno spazio invaso da navi e acqua,
il mondo interrotto dal ritmo del navigare
fra cieli sotterranei.
Il segreto è tornare, e tacere.
Ciò che ha vibrato
tradurlo in brevi bisbigli e rinascere
in silenzio, la nebbia dissolta,
in una vaga fedeltà
di testimoni di nulla.
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Note sull’Autore Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore.
Per la narrativa scrive: Col favore delle tenebre, Praga, Il ritardo della caduta, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa, Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, Destini minori.
Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, L’opera non perfetta, Il poema ininterrotto, L‘archetipo della parola. René Char e Paul Celan e Fuochi complici.
Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. I suoi taccuini sono raccolti in Nottario. Partecipa al convegno internazionale Bruno Schulz: il profeta sommerso. Suoi testi in riviste (Nuova Corrente, Poesia, La mosca di Milano), antologie (Altra marea) e siti web (La dimora del tempo sospeso, Doppio zero).
Vince il Premio Montano, il Premio per l’Aforisma “Torino in sintesi”, il Premio Morselli e il Premio Smasher. In coppia con Lucetta Frisa cura “I libri dell’Arca” e scrive: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane (Âmes inquiètes, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils, 2011), Sento le voci (J’entends les voix, ibidem, 2011), Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio e Furto d’anima.
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Nota biobibliografica–Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Poesie scelte di ALEJANDRA PIZARNIK-Poetessa argentina-
Alejandra Pizarnik -(Buenos Aires- il 29 aprile 1936 – 25 settembre 1972)-nasce ad Avellanedain una famiglia di emigrati ebrei di origine russa. Assieme alla sorella maggiore Myriam compie i primi studi in una scuola ebraica, dove impara a leggere e a scrivere in yiddish. Durante l’adolescenza comincia a fare uso di anfetamine per curare i disturbi fisici di origine nervosa che la affliggono. A 18 anni si iscrive alla facoltà di Filosofia, poi a quella di Lettere e infine alla Scuola di giornalismo, ma non porta a termine gli studi. Dal 1960 al 1964 vive a Parigi. Muore a Buenos Aires nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose di barbiturici.
Testi selezionati da La figlia dell’insonnia (trad. di C. Cinti, Crocetti, 2004)
Poesia
Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.
Anelli di cenere
a Cristina Campo
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
La notte
Della notte so poco
ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.
Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a esistere.
Le opere e le notti
per riconoscere nella sete il mio emblema
per significare l’unico sogno
per non aggrapparmi di nuovo all’amore
sono stata tutta un’offerta
un puro errare
di lupa nel bosco
nella notte dei corpi
per dire la parola innocente
Presenza
la tua voce
in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Questa notte, in questo mondo
a Martha Isabel Moya
questa notte in questo mondo
le parole del sogno dell’infanzia della morte
non è mai questo che si vuol dire
la lingua materna castra
la lingua è un organo di conoscenza
del fallimento di ogni poesia
castrata dalla sua stessa lingua
che è l’organo della ri-creazione
del ri-conoscimento
ma non della resurrezione
di qualcosa in forma di negazione
del mio orizzonte di maldoror col suo cane
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l’amore
fanno l’assenza
se dico acqua berrò?
se dico pane mangerò?
questa notte in questo mondo
straordinario il silenzio di questa notte
con l’anima succede che non si vede
con la mente succede che non si vede
con lo spirito succede che non si vede
da dove viene questa cospirazione d’invisibilità?
nessuna parola è visibile
ombre
spazi viscosi dove si occulta
la pietra della follia
neri corridoi
li ho percorsi tutti
oh fermati un altro po’ tra di noi!
la mia persona è ferita
la mia prima persona singolare
scrivo come chi alza un coltello nel buio
scrivo come dico
la sincerità assoluta sarebbe sempre
l’impossibile
oh fermati un altro po’ tra di noi!
lo sfacelo delle parole
che sloggiano il palazzo del linguaggio
la conoscenza tra le gambe
che cosa hai fatto del dono del sesso?
oh miei morti
li ho mangiati mi sono strozzata
non ne posso più di non poterne più
parole camuffate
tutto scivola
verso la nera liquefazione
e il cane di maldoror
questa notte in questo mondo
dove tutto è possibile
tranne
la poesia
parlo
sapendo che non si tratta di ciò
sempre non si tratta di ciò
oh aiutami a scrivere la poesia più prescindibile
quella che non serva nemmeno
a essere inservibile
aiutami a scrivere parole
in questa notte in questo mondo
***
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.
***
no, la verità non è la musica
io, triste attesa di una parola
qual è il nome che cerco
e che cosa cerco?
non il nome della deità
non il nome dei nomi
ma i nomi precisi e preziosi
dei miei desideri nascosti
qualcosa in me mi punisce
da tutte le mie vite:
– Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi
e hai preferito l’attesa,
come se tutto ti annunciasse la poesia
(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile
– sono solo venuta a vedere il giardino –)
Poesie pubblicate da «Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Poesie di Maria Pia Quintavalla da MaledettiPoeti-
Maria Pia Quintavalla, nata a Parma, vive a Milano, è una delle voci più alte della Poesia italiana degli ultimi quarant’anni. Andrea Zanzotto la considerava nel 2000 un’autrice “che ha un posto di singolarissimo rilievo, di forte evidenza entro il quadro della ricerca poetica attuale.”
Narratrice e critica letteraria, la scrittrice e poetessa emiliana è laureata in Pedagogia. Dal 1983 collabora con l’Università Statale di Milano curando laboratori sulla Lingua italiana.
Ha pubblicato la sua prima raccolta di liriche, ‘Cantare semplice’, nel 1984. Da allora tutte le sue numerose sillogi sono state tradotte in diverse lingue, inglese, rumeno, serbo-croato, spagnolo, francese e tedesco, e prefate nelle edizioni originali da importanti poeti, come Nadia Campana, Maurizio Cucchi, Giancarlo Majorino, Andrea Zanzotto, Giampiero Neri e Franco Loi.
Quest’ultimo, nel 2005 ha accostato la ricerca poetica della Quintavalla a quella di una protagonista storica della letteratura italiana del ‘900, Amelia Rosselli: “La parola -afferma Loi- è rivelazione di sé e della propria esperienza nelle cause più profonde. Maria Pia sa ormai quale sia il cammino e come ci si debba applicare al passo. Mi viene in mente un altro percorso e un’altra fede nella taumaturgia della parola, quella di Amelia Rosselli. Anche in Maria Pia è sopravvenuta la resistenza alla corruzione e al dolore del vivere.”
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CARO PADRE
(Maria Pia Quintavalla)
Caro padre
dal cappello e cappotto infagottato,
come un uomo dell’ultima guerra
che fu soldato, maestro povero,
poi deportato; infine fu salvato
e ritornato, qui generò la sua secondogenita
uscita da un getto d’amore imprevisto,
un interruptus che mia madre non pensava,
facendola pregna –
Caro padre,
senza nessun foulard o corona,
si mantenne agli studi mentre lavorava,
che sgobbando ricordava
cosa è la fame –
ERA FIGLIA
Era figlia già quando nessuno conosceva,
era lombrico molle piccolo
nella tua mano, e silenziosa.
Ora che scappa e ride con le amiche
piano poi copia parole da poeta,
da una canzone, come un’orsa agile leggera;
dicono non ti somigli, e invece
piano, lei scrive in versi la sua notte,
si trucca gli occhi, ride. Si seduce.
L’immagine che guarda fissa è la sua vita,
non lo sai se è aperta
o chiusa al tuo orizzonte ma
decisa, scende dalla sua strada
in una sua radura…
Ogni mattina,
chiude piano le porte.
ESISTE LA DELIZIOSA
Esiste la deliziosa,
prossimità, non il perfetto amore.
E intanto
lunghi tragitti tratti
erosi da pianto, polvere
di sentieri assembrati angoli della mente
che stavano per sfollare e – sostano,
campi desertici
trasferimento, letto come strada
silenzio non ancora pace.
La Casa dodici dedicato alla dodicesima casa astrale, ultima, connessa al segno dei pesci
La Casa dodici è uno spazio ospitale,
tutte le struggenti grazie piovono
e segnano
di religiose dimore i rossi sogni
struggenti di sangue piovàno
esse parlano –
da soffitti immensi o a cielo aperto:
nella casa dodici
noi si entrerà aux splendides villes.
A volte le parole non servono
a descrivere
di epiche navigazioni, a cavalcare
la casa delle sciagure perché
in fondo essa dista miglia
e se più saggi, ce ne dimentichiamo,
le sue struggenti angosce.
Ma un cavallo puntato ad
est
verso il cielo, le ausculta
è diritto e corre
un cavallo più bianco è la sua mente
e corre più veloce del baleno
fu il passato –
ma nell’oceano possiamo alfine riposare,
disposti i musi dei cavalli all’eterno
dove sono rivolti,
le teste sui cuscini o alle ginocchia
dei nostri estatici compagni.
Ed ora non vedo più l’angelo sterminatore
che accompagnò la prima volta
che seppi di abitare, anch’io
la casa dodici –
casa dalle infinite e rutilanti procelle,
dove le barche progrediscono
nel non visto e temibile eco.
Ecco,
sono giovani sirene a farsi incontro
nella magnifica casa dodici,
di procellose promesse
e addormentati sogni a loro prova,
ma Lei è viva.
Le scalinate delle rose, a esempio
sono reali,
sono di un trono che abbandonammo,
divino, per sederci in basso
da pellegrini sempre più
piccoli. E che fare allora,
ritirare le allettanti promesse.
Nella casa dodici si procede
e si nuota come pesci
nell’infinito rotante delle lune.
*
Sono un nave libica
Sono una nave libica migrante
in rotta,
la sembro e vedo mentre mi parlano
qui dentro il tram serale,
code di cavallo rinverdite da mèche
mi scuotono
davanti ai gesti che parlano nel tram;
e i tram corrono circolarmente,
su circonvallazioni eterne
di periferia.
Ero una vita in tram,
ero una donna in treno e troppe vite insanamente,
chi spezzate, chi incapaci a parlarsi,
sordomute
ero una nave libica sferzata,
ogni giorno e ogni notte a viaggiare,
rifuggendo, e poi morire;
fiato di molle rabbia ragionata,
stortura del controllo sulle vite
trattate, e poi vendute
come la mia, migrante.
Per una vita di periferico abbandono,
io, tradotta di melma e nulla,
sgranata forma del mio nulla,
e della cenere che non guarisce.
Sembro una nave già affondata,
da anni senza più pensiero senza
sue parole, senza un suo cuore fluido
nero,
incattivita senza un piano bar una musica,
un silenzio dove
nelle formate storie riprodurre
il senso suono della vita.
*
SAUDADE 2020-2022
dal latino: solitas, solitatis = solitudine,
intenso desiderio di qualcosa di ASSENTE
in quanto perduto, o non ancora raggiunto
Assetati di giustizia
Gli assetati di giustizia non sanno scrivere
i comizi dell’amore;
dove rinascono parole la terra cresce
sul limen del paesaggio,
in case già disabitate –
(da quando tu sparisti, l’eterno tutto
qui insepolto, chiuso
in un pugno della mano).
Quello che fu distrutto
non fu per distrazione, ma per incuria
per assenza di tempo,
di battito del cuore, e intorno tante piccole vite –
le più vicine erano a lei lontane.
Gli assetati di giustizia deposero le colpe,
le ossessioni, le calmarono
in un composita solvantur
e dietro, la visione-fioritura,
le fattezze dell’amore.
*
Giorni come fucilazioni
Giorni come fucilazioni,
i lunedì come bolle d’aria
e restare là apneici, per giorni interi –
senza pensieri tortorelle, senza
più luminose della fronte, stelle
in una fucilazione imprevedibile,
di serenate attese.
Invece,
la vita fu accettata (tu, accettala
perché un dono),
cosi avrai la tua parte di appestata,
inebetita di anima viva,
solamente perché così si è vivi –
Essere felice per volere di una
figlia, è possibile.
Ecco la bontà della plastica, le dissi un giorno,
mostrandole il filmato ecologico
sulla deriva galoppata di monnezza,
nelle acque interne del pianeta si parlava
di cambi climatici
e Lei là, che si truccava gli occhi,
ad essi soli riconsegnava il mondo.
Ogni fare è potente, e valoroso
come un arco:
un soldato che difende la vita,
tutto questo è una figlia.
Mi piacerebbe scrivere prose religiose
per non ferirmi più,
per il volere di un dio sopra ogni cosa
dire che io e te siamo già un cosmo,
ripensarlo, e il grazie costruire.
Ma la gente non accoglieva i suoi tesori,
e quindi li stipava insieme.
Maria Pia Quintavalla, nata a Parma, vive a Milano I suoi libri: Cantare semplice, Tam Tam‘84, Lettere giovani Campanotto ’90, Il Cantare, Campanotto‘91, Le Moradas, Empiria‘96, Estranea(canzone)Manni 2000, Corpus solum, Archivi‘900, 2002, Album feriale Archinto 2005, Selected Poems, Gradiva 2008, N.Y. China, Effige 2010, I Compianti, Effigie 2013/ ‘15, Vitae, La Vita felice 2017, Quinta vez, Stampa2009, 2018, Estranea (canzone), ristampata e riveduta, Puntoacapo 2022. Cura dal 1985 la rassegna, Donne in poesia/Incontri con le poetesse italiane, e le sue antologie e sue rubriche, da Le Silenziosea a La giovinezza del canone. Ha curato Bambini in rima / La poesia nella scuola dell’obbligo, Atti su Alfabeta 1988, Coppie del ‘900 in poesia / Un canone italiano, Palatina 2018, Parma. Tra i premi: Cittadella, Alghero Donna, Nosside, Città S.Vito, Contini, Alda Merini, Pontedilegno, Città di Como, Europa in versi. In cinquina al Viareggio.Premio alla carriera a Cerreto d’Esi, Paesaggio interiore, 2023. Ultime antologie: Braci a cura di Arnaldo Colasanti, Bompiani 2020, La Poesia italiana degli anni ottanta, IV volume a cura di Sabrina Stroppa, UniTo, ed.Pensa. Tradotta: Certa, Une autre poésie italienne, Tubinga Università, Europa in versi etc).Compare nell’Atlante voci poesia, curato da Giovanna Iorio, e sue installazioni,(Londra,Praga, Italia). Redattrice Menabò, in Giuria Premio Terre d’ulivi. Collabora a Metaphorica. Conduce labs lingua italiana a Lettere, UniMi.
Poesie di Antonio Porta- Poeta e scrittore vicentino –
Versi e biografia di Antonio Porta (Vicenza, 1935 – Roma, 1989).Scrittore, poeta ed accademico, oltre che manager delle case editrici Rusconi, Bompiani e Feltrinelli ed autore-conduttore di programmi di Radio Rai, l’autore veneto è stato precursore e protagonista della Poesia sperimentale degli anni ’60.
“Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte” diceva a proposito della sua ricerca creativa.
Spiega il critico Leonardo Bizzarri: “Porta era uno dei più celebri rappresentanti di quel gruppo di poeti che furono definiti Novissimi (tra gli altri c’erano Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani e Nanni Balestini) e che contribuirono non poco al rinnovamento del linguaggio poetico, rivoluzionandolo completamente e, come avvenne nel caso dei futuristi, lasciando spesso sconcertato il pubblico della poesia, per via di arditezze e sperimentazioni inimmaginabili. Il suo debutto letterario non fu però affatto caratterizzato da tentativi o da esperimenti poetici atti a stravolgere la base del fare poetico tradizionale”.
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BUIO CONTRO BUIO
(Antonio Porta, pseudonimo di Leo Paolazzi)
Buio contro buio
la scrittura come un lume lontano
o invece si apre al presente
e respiro di nuovo
e ho voglia di anticanto
poesia dell’antimateria.
I PUNTI DI SOSPENSIONE
Vedere solo si vede quello che si vuole
una foto sbiadisce poco a poco
e un volto, poi la figura intera scompaiono.
Dov’erano tracce di felicità, attimi
ora un grigio sbiadisce e se resiste
qualcosa, un sorriso molto tirato,
stupisce chi lo osserva
e la memoria rifiuta di saltare l’ostacolo.
Ma per capire fino in fondo che cosa
significa una cancellazione occorre
sentirsi cancellati, quando un’ombra
non è più un’ombra, un fiato, un vapore,
nel trionfo dei punti di sospensione…
QUELLO CHE È RIMASTO
Quello che è rimasto,
quello che resiste,
là sotto, tu lo vedi,
airone, sotto le montagne di macerie,
dentro i crateri delle bombe,
sotto le colline d’immondizia,
lí dove resiste, continua,
rinasce la semplice vita,
ultima, dimenticata, dileggiata
rimossa, ridotta a poltiglia
nella mente degli uomini,
la semplice vita,
il nascere e morire
rinascere e volare via,
aprirsi, amare,
quello che è vivo, amore,
sotto la semina dell’odio.
[Da I rapporti (1958-1964)]
Aprire
1.
Dietro la porta nulla, dietro la tenda,
l’impronta impressa sulla parete, sotto,
l’auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda,
un vento che la scuote, sul soffitto nero
una macchia più scura, impronta della mano,
alzandosi si è appoggiato, nulla, premendo,
un fazzoletto di seta, il lampadario oscilla,
un nodo, la luce, macchia d’inchiostro,
sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che raschia,
sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che raschia,
sul pavimento gocce di sudore, alzandosi,
la macchia non scompare, dietro la tenda,
la seta nera del fazzoletto, luccica sul soffitto,
la mano si appoggia, il fuoco della mano,
sulla poltrona un nodo di seta, luccica,
ferita dal chiodo, il sangue sulla parete,
la seta del fazzoletto agita una mano.
***
Rapporti umani
XI
“Della mia vita, in un certo giorno,
non seppi più nulla, soltanto quello
che rivelò il barbiere domandando dei
miei figli e m’accorsi di non averne mai
saputo, guardandomi bene negli occhi sopra
la schiuma e i riflessi del rasoio.
Uscii e impolverai le scarpe tra le
pietre, e proseguii, le stringhe
slacciate, sulla via di casa, il
gocciolìo del sudore: entrando qualcosa
accadde, non ricordo; dietro il portone,
immobile tra i cristalli, l’ostilità di
mia moglie e mi chiesi chi era.
Per togliere la polvere, chinato, si recidevano
le stringhe, la fronte mi sanguinava, tra i
cristalli spezzati, le stringhe tra i capelli,
e premevo, frugando tra le schegge, scrivendo
nella polvere, la lingua mi si tagliava,
lambendo, il sangue colava dagli occhi, sulle tempie,
i figli non sanno nulla…”
***
[Da Week-end]
Utopia del nomade, Movimenti (2)
ricchezza prima sono mani e intelligenza
la seconda ricchezza avvicina l’altro da sé
può ritornare in luoghi uguali transumante
mutare itinerario ripetere il giro della terra
torna verso la fine in un luogo stabilito al principio
***
Utopia del nomade, Movimenti (6)
la città si chiama Immagine non ha limiti
né centri può specchiarsi in sé stessa
luogo dove incontrarsi non è dunque
una città ma punto di protezione
porticati o tende luogo vegetale e animale
luogo di acque e coltivazioni uomini
vi s’incontrano o lasciano come vogliono si manifesta
il pensiero linguaggio che va preso alla lettera
sistema di piani e curve per scendere e salire
dietro a donne dietro a figli e animali
non esiste proprietà del suolo
***
i piedi affondano nella terra molle
i piedi si dimenticano dentro la terra molle
smemorato si allontana con le stampelle di legno
le gambe cedono a una svolta del sottobosco
qui il suolo rifiorisce tutto a tappeto
c’è una testa appoggiata al davanzale
una lingua si sporge per sete
stracolmo di inganni
paese di Primavera
ricordate
***
[Da Invasioni]
è l’uragano della primavera
fischi di uccelli e schiocchi di foglie
travolge la dimensione del tempo
è uno specchio che s’infrange dentro un altro specchio
in quel buco l’uragano passa
soffia sempre più forte
occhi incantati lo guardano
ancora un guizzo nel regno dei pesci
e nuotiamo in un silenzio d’acquario.
Ne hai dunque paura? Oh no,
amico mio, pieno di gioia
vuoto di spiegazioni
colmo di ira
io sono
***
Per caso mentre tu dormi
per un involontario movimento delle dita
ti faccio il solletico e tu ridi
ridi senza svegliarti
così soddisfatta del tuo corpo ridi
approvi la vita anche nel sonno
come quel giorno che mi hai detto:
lasciami dormire, devo finire un sogno
***
[Da Il giardiniere contro il becchino]
Airone (frammento da)
quando il mio essere si fa opaco lo distendo
ai tuoi piedi, airone
io disteso come prateria
invasa dalle acque dai semi
opposto ai buchi luminosi dello stellato
come in attesa di essere ancora luce
all’alba quando il conflitto si placa e si racchiude
in un uovo minuscolo
dove già pulsa il cuore di un usignolo
dove batte il minuscolo mio cuore neonato
come milioni di altri muscoli nascosti
potenti macchine da guerra che avanzano
che scuotono la cintura della terra
e misurano ogni altro respiro.
***
[da Yellow]
Buio contro buio
la scrittura come un lume lontano
o invece si apre al presente
e respiro di nuovo
e ho voglia di anticanto
poesia dell’antimateria.
Le poesie di Antonio Porta-Scritto Roberto Nespola-Settembre 5, 2018
: le vie del canto sono (in)finite
Il neutro non seduce, non attira: in ciò sta la vertigine della sua seduzione a cui non si sfugge. E scrivere significa mettere in gioco questa seduzione senza seduzione, esporvi il linguaggio e liberarlo con un atto di violenza che lo abbandona di nuovo ad essa fino alla parola frammentaria: sofferenza della vuota frammentazione.
Maurice Blanchot, La conversazione infinita
Un canto dell’anti-lirico, quello del Porta de “I rapporti” – un contrappunto che fluisce silente da una trama polifonica sottesa, dalla giustapposizione di segmenti iconici ed icastici slegati solo sintatticamente, come isolati in uno sguardo al microscopio. Una vivisezione di momenti come i fotogrammi di cui parla Bergman: “Nessuna altra arte è come il cinema. Va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna. Un nulla del nostro nervo ottico, uno shock, ventiquattro quadratini illuminati al secondo e tra di essi il buio”. E proprio di cinesi si tratta, e di buio, anche se scleroticamente frammentata: un (som)movimento drammatico, drammatico in quanto profondamente dialettico, che scandisce l’ansimare dell’esserci, dello stare-al-mondo. E tale canto si muove, in controluce, profilato ed intrecciato da questi spazi di buio; un canto fatto di corpo e sangue. Un canto affatto etereo o anodino.
Anche il gioco furiosamente modulare del Porta successivo, poi, quello delle raccolte più sperimentali (Cara, Metropolis, Week-end), a differenza di ciò che accade invece nei testi omologhi di Balestrini, non esautora affatto l’espressività del testo, non taglia il cordone ombelicale tra significazione ed espressività: l’oggettivo a tutti i costi e il discontinuo feroce sono solo mezzi per aprire delle crepe nel linguaggio abusato dai media e dall’uso quotidiano, per aprire delle brecce da cui far fuoriuscire il secretum oscuro e contraddittorio dell’espressione. Per non dire ambiguo.
Successivamente, in “Passi passaggi” le immagini cominciano e dilatarsi e a disciogliersi, a disorientarsi nel labirinto dell’atto vocale. Che sia in forma di lettera, voce differita, o del consueto diario, voce interiore, o ancora di teatro smesso di scena, la vocalità in cerca di concrezione è il trait d’union di questi testi. Il canto diventa voce: documento dell’indocumentabile.
È come se, per Porta, nel profondo nodo del reale, esperire ed esperienza fossero due vuoti, uno specchio contro specchio; come se l’esperienza fosse un fare il vuoto nella propria esistenza (un vuoto che ci appare falsamente come pienezza) e questo vuoto diventasse poi la cassa di risonanza di tutte le sensazioni dell’esistere, il luogo dove farle risuonare.
Snudare il linguaggio, metterne alla berlina i nervi scoperti, per riconquistare il canto, taglio dopo taglio, goccia di sangue dopo goccia di sangue. Un canto che, però, non potrà mai essere pieno, estasi, purezza, un oltre: un canto vuoto, anzi, sempre nuovamente dilaniato. È questo ciò che l’immagine dell’Airone, la sua ultima immagine, attesta, svettando in un’unione di cielo e terra.
Dall’ottobre 1936 ha vissuto a Milano, dove ha compiuto studi regolari. Giocatore di tennis, ha vinto la Coppa Lambertenghi nel 1950. Nel novembre 1960 si è laureato in lettere moderne all’Università Cattolica, con una tesi intitolata La poesia di D’Annunzio verso il 900. Rapporti con alcuni poeti, relatore Mario Apollonio (110/110).
Dal 1956 al 1967 ha lavorato per la casa editrice Rusconi e Paolazzi s.p.a., Milano, nel settore periodici (Gioia, Gente, Rakam) e nel settore libri (per le edizioni de Il Verri) con compiti di coordinamento anche per quel che riguarda la produzione industriale. Sempre per lo stesso gruppo editoriale si è occupato in prima persona della gestione del quotidiano sportivo romano Corriere dello Sport – Stadio per circa tre anni. Nel 1968 è stato assunto dalla casa editrice Bompiani, Milano, in qualità di direttore amministrativo e assistente di Valentino Bompiani. Nel 1972 è nominato direttore generale delle case editrici Bompiani, Sonzogno, Etas libri, per assumere poi la direzione editoriale della sola Bompiani. Nel 1977 è passato alla casa editrice Feltrinelli in qualità di dirigente, a fianco del consigliere delegato e direttore generale.
Ha lasciato la carica di dirigente nel 1981 per dedicarsi soprattutto al lavoro di scrittore, pur continuando a svolgere lavoro di tipo culturale presso la Cooperativa Intrapresa e la Cooperativa Alfabeta, nel cui ambito ha partecipato all’ideazione e organizzazione dei convegni: “Il senso della letteratura”, Palermo, novembre 1984, “Stabat Nuda Aestas. D’Annunzio e la poesia oggi”, Viareggio, ottobre 1985, “Ricercatori & Co.”, Viareggio, febbraio 1987 e le manifestazioni di “Milanopoesia” 1984, 1985, 1986 e 1988.
Antonio Porta è stato tra i fondatori e collaboratori delle riviste Tabula, rivista trimestrale di letteratura, primo numero 1979, ultima data di uscita 1981, Cavallo di Troia, trimestrale della Cooperativa scrittori e Lettori, primo numero inverno 1981. Era il direttore responsabile e attivo redattore della rivista Alfabeta, mensile di cultura edito a Milano in cooperativa, fondato nel 1979 e La Gola, rivista del cibo e delle tecniche di vita materiale, fondato nel 1982, co-direttore insieme ad Alberto Capatti.
È stato critico letterario de Il Giorno dal 1972 al 1978 e dal 1979 in poi al Corriere della Sera; ha collaborato con Tuttolibri, Panorama, e L’Europeo, “L’Unità” e un breve periodo al Il Sole 24 Ore; dal 1988 con scritti civili e di opinione ha collaborato regolarmente con Sette (supplemento del sabato del Corriere della Sera). Con scritti teorici sulla pubblicità ha collaborato a Target, Comunicare e Strategia, poi raccolti in volume e pubblicati da Lupetti Editore nel 2003.
Ha lavorato per la RAI nel gennaio-marzo 1987 e nell’ottobre-dicembre dello stesso anno come autore e conduttore del settimanale “Settantaminuti” in onda il sabato mattina su Radiodue. Nel 1988 ha curato la presentazione del settimanale Prima di cena, tra speranza e nostalgia, in onda su Radiodue.
È stato membro del consiglio di amministrazione della Fonit Cetra S.p.A. dal 23 luglio 1985. È stato poi confermato consigliere per la Nuova Fonit Cetra S.p.A. il 27 luglio 1987.
L’8 dicembre 1989 il Comune di Milano gli ha conferito l’Ambrogino d’oro alla memoria con la seguente motivazione:
«Il suo vero nome è quello di Leo Paolazzi, ma con quello d’arte di Antonio Porta aveva raggiunto statura internazionale di poeta. La sua origine lombarda si è presto rivelata nella forte tensione espressionistica dello stile e nell’apertura a interessi che ne hanno fatto un fautore tenace del coinvolgimento politico e civile. Appartato e schivo, ha instancabilmente operato per dare lustro alla cultura della sua città e immetterla sempre di più in un flusso internazionale di cultura.»
Dal 1963 al 1967 prende parte attiva alla redazione della rivista di punta della nuova avanguardia Malebolge a Reggio Emilia. In quegli stessi anni Porta si dedica alla poesia visiva, partecipando ad alcune mostre a Padova, Milano, Roma, Londra. La sua opera più strettamente legata a questa esperienza è Zero, pubblicata in edizione numerata nel 1963. È stato fondatore e collaboratore della rivista Quindici, giornale di cultura del Gruppo ’63. Primo numero ottobre 1966, pubblicato fino a tutto il 1969.
Nel 1968 è andato in scena a Roma nel Teatro del Porcospino Non sono poi tanto bestie. Ha tradotto La Marge (Il Margine) di André Pieyre de Mandiargues, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1968; Journal Particulier (Settore Privato) di Paul Léautaud (la prima parte), con lo pseudonimo Emilio Liviano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1968; in collaborazione con Marcelo Ravoni ha tradotto i Poeti Ispanoamericani contemporanei, dalle prime avanguardie ai poeti d’oggi (Universale Economica Feltrinelli, Milano 1970), Premio Argentario; Le Voleur (Il ladro di talento) di Pierre Reverdy, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1972.
Nel 1977 ha raccolto il proprio lavoro poetico edito (La palpebra rovesciata, I Rapporti, Cara, Metropolis (finalista Premio Viareggio), Week-end) e inedito dal 1958 al 1975, nel volume Quanto ho da dirvi (Feltrinelli, Milano). Ha inoltre pubblicato due romanzi, Partita (Feltrinelli, Milano 1967 e poi Garzanti, Milano 1978) e l’apocalitticoIl re del magazzino (Mondadori, Milano 1978, poi San Marco dei Giustiniani, Genova 2003 e Lampi di Stampa, Milano 2008), e un testo teatrale La presa di potere di Ivan lo sciocco (Einaudi, Torino 1974) messo in scena dal Teatro Artigiano di Cantù il 12 febbraio 1974 a Milano, Teatro Uomo, con la regia di Sergio e Marzio Porro. Testo ripreso da altre compagnie in varie parti d’Italia. Ha curato con Giovanni Raboni, l’antologia Pin Pidin, poeti d’oggi per i bambini, (Feltrinelli, Milano, 1978) e Poesia degli anni settanta Antologia di poesia italiana dal 1968 al 1979, con introduzione e note critiche (Feltrinelli, Milano 1979, quattro edizioni). Nel 1980 ha pubblicato Passi passaggi (Mondadori, Milano), poesie 1976-1979. Nel 1981 una serie di racconti Se fosse tutto un tradimento (Guanda, Milano). Nel 1982 ha raccolto le poesie della serie “brevi lettere”, 1976-1981, con il titolo L’aria della fine (Lunarionuovo, Catania, Premio Gandovere – Franciacorte, poi San Marco dei Giustiniani, Genova 2004 con allegato CD audio Bande sonore). Sempre nel 1982 ha pubblicato Emilio, poemetto per fanciulli, (Emme, Milano, poi con nuovo testo inedito scritto a partire dalle illustrazioni di Altan della prima edizione, Nuages, 2002). Lo stesso anno è tornato al teatro con la messa in scena a Milano di Fuochi incrociati (a cura e con Paolo Bessegato e Caterina Mattea). Per la RAI, terza rete, con la regia di Gianni Jannelli ha contribuito alla realizzazione del film per la TV, La poesia che dice no, unico attore Paolo Bessegato. Nel 1984 è uscito Invasioni (Mondadori, Milano), poesie 1980-1983, che ha avuto il premio Viareggio e il premio Città di Latina. Nel 1985 esce Nel fare poesia (Sansoni, Firenze), una antologia personale dal 1958 al 1985, con una sezione di inediti (Essenze), accompagnata da scritti di metodo sul proprio lavoro. Nel gennaio del 1985 debutta al Teatro Ridotto di Venezia “Penultimi sogni di secolo”, un suo testo di drammaturgia poetica curato insieme con Carmelo Pistillo, attore protagonista Luigi Pistillo. Si occupa ancora di teatro (nel 1985 Michele Perriera ha messo in scena a Palermo l’atto unico Pigmei, piccoli giganti d’Africa) e nell’ottobre dello stesso anno è andato in scena a Milano, con la Compagnia Stabile del Teatro Filodrammatici La stangata persiana, da Persa di Plauto, con la regia di Alberto e Gianni Buscaglia. Ha completato la stesura di una nuova opera: La festa del cavallo, poema per teatro, uscita nelle Edizioni Corpo 10, Milano. Nell’autunno 1987 è uscita da Mondadori la traduzione di Edgar Lee Masters Spoon River Anthology e presso Crocetti Editore Melusina, una ballata e diario. Nel marzo 1988, sempre da Mondadori, è uscito Il giardiniere contro il becchino (poesia), che ha ottenuto il Premio Carducci, Premio Acireale, Premio Stefanile, Premio Arcangeli.
Nel 1990 è andato in scena La festa del cavallo al Teatro Verdi di Milano, con la regia di Alberto e Gianni Buscaglia. Nel luglio 1994 nell’ambito degli “Incontri con il Teatro Classico”, curata dall’Associazione teatrale Campania grandi classici, a Salerno è andata in scena l’elaborazione drammaturgica dal poemetto Salomè, poi dal 15 al 27 febbraio 2000 al Teatro dell’Arsenale, Milano. Dal 1990 sono stati pubblicati Partorire in Chiesa, racconto, Libri Scheiwiller, Milano, 1990; Il Progetto Infinito a cura di Giovanni Raboni, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991 che raccoglie una scelta di testi critici sulla letteratura; Los(t) angeles, romanzo inedito, Vallecchi Editore, Firenze, 1996; Poesie 1956-1988, antologia a cura di Niva Lorenzini, Oscar Mondadori, 1998; Poemetto con la madre e altri versi, copertina di Emilio Tadini, Book Editore, 2000; Yellow, poesie inedite a cura di Niva Lorenzini e con note di Fabrizio Lombardo, Mondadori, Milano, 2002. La traduzione di Amelia Rosselli, Sonno-Sleep (1953-1966) con in appendice la corrispondenza tra i due poeti, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2003. Tutti gli scritti sulla pubblicità sono stati raccolti nel volume Lo specchio della seduzione, Lupetti, Milano, 2003. Nel marzo 2009 le raccolte di poesia edite in vita sono state pubblicate in un unico volume col titolo Tutte le poesie, Garzanti Libri, Milano. A settembre 2010 Manni Editori, Lecce ha raccolto tutti i racconti nel volume La scomparsa del corpo.
Poesie di Antonio Porta sono presenti in tutte le principali antologie della poesia italiana del ‘900, a partire da quella di Edoardo Sanguineti, Poesia italiana del Novecento, Einaudi Editore, 1969, per arrivare a quella di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del novecento, edita da Mondadori nel 1978. Nell’archivio sono conservate numerose opere terminate da Antonio Porta e ancora oggi inedite in volume: poesie, teatro, racconti, traduzione di poesie di Trakl e molti altri materiali che sono costantemente rese disponibili agli studiosi.
Opere
Calendario, Schwarz, Milano, 1956, firmata come Leo Paolazzi
La palpebra rovesciata, Azimuth, Milano, 1960
I novissimi, Edizioni de il verri, Milano, 1961
Zero, edizione numerata, in proprio, Milano, 1963
Aprire, poesie, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1964
I rapporti, poesie, Feltrinelli Editore, Milano, 1966
Partorire in chiesa, racconto, Libri Scheiwiller, Milano, 1990
La mia versione del canto V dell’inferno dantesco, a cura di Daniele Oppi, Raccolto Ed., cascina del Guado, 1991. Con una litoserigrafia di Gianfranco Baruchello – 230 copie numerate e firmate
Il Progetto Infinito, a cura di Giovanni Raboni, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991 (distribuito da Garzanti)
Los(t) angeles, romanzo inedito, Vallecchi Editore, Firenze, 1996
Poesie 1956-1988 a cura di Niva Lorenzini, Oscar Mondadori, Milano, 1998
Emilio, poemetto per tutti, nuovo testo scritto a partire dalle illustrazioni di Altan, Nuages Edizioni, Milano, 2002
Yellow, poesie inedite, a cura di Niva Lorenzini, Mondadori, Milano, 2002
Lo specchio della seduzione. L’arte della pubblicità, raccolta degli scritti sulla pubblicità e tre sceneggiature pubblicitarie, organizzato da Rosemary Liedl Porta, Lupetti, Milano, 2003
Il re del magazzino. Romanzo, introduzione di Stefano Verdino, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2003
L’aria della fine. Brevi lettere 1976, 1978, 1980, 1981, prefazione di Niva Lorenzini, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2004
Tutte le poesie (1956-1989), a cura di Niva Lorenzini, Garzanti, Milano, 2009
La scomparsa del corpo, tutti i racconti, Manni Editori, Lecce, 2010
Piercing the Page: Selected Poems 1958-1989, Edited with an introduction by Gian Maria Annovi and an essay by Umberto Eco, Otis – Seismicity, Los Angeles, 2012
Poesie in forma di cosa, poesie visive di Leo Paolazzi/Antonio Porta, a cura di Rosemary Liedl P. con un testo di Mario Bertoni, Edizioni del Foglio Clandestino, Sesto San Giovanni, 2012
Abbiamo da tirar fuori la vita. Scritti per “Sette” e per il “Corriere della Sera” (1988-1989), a cura di Daniele Bernardi, Edizioni Cenobio, Lugano 2013
Perché tu mi dici: poeta? (per un teatro di poesia), a cura di Carmelo Pistillo, Antonio Porta e Fabio Jermini, La Vita Felice, Milano, 2015
Una poesia, con un frammento di cartografia di Veronica Azzinari, Officina del giorno dopo, Monte Sant’Angelo, 2020.
Note
^Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci.it. URL consultato il 9 agosto 2019 (archiviato dall’url originale il 18 febbraio 2015).
NANCY CUNARD, la poetessa dalla vita intensa e spericolata….
LA POETESSA PIÙ BELLA DEL MONDO NANCY CUNARD,EREDITIERA, MUSA DI HUXLEY E MAN RAY, AMANTE DI POUND, ELIOT E ARAGON, VIAGGIATRICE E PASIONARIA, FU LA PRIMA A PUBBLICARE BECKETT CON LA SUA CASA EDITRICE – IMITATISSIMO IL SUO STILE: CILINDRO, ABITI D’ARGENTO, BRACCIALI E CAPELLI CORTI – NON SPOSATA, RIBELLE, FUMAVA, BEVEVA E AMAVA IL SESSO-Articolo scritto da Eleonora Barbieri per “il Giornale”
Quando nel 1925 scrive Parallax, Nancy Cunard ha in mente due uomini: T.S. Eliot e Ezra Pound. Il primo perché, due anni prima, aveva scritto La terra desolata, che è il modello per il poema lungo della Cunard; le due opere sono pubblicate dalla stessa casa editrice, la piccola e prestigiosa Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf.
Il secondo perché era stato proprio Pound, dopo avere letto le poesie della raccolta Outlaws del 1921, a spingere la Cunard a continuare a scrivere, spiegandole, in una lunga lettera, che doveva riuscire a «rendere il discorso della poesia perfino più vivido di quello della prosa» e ricordandole che «l’arte è lunga».
In quella lettera, Pound le diceva anche quanto desiderasse che Nancy tornasse a Parigi. La loro storia d’amore, lunga cinque anni, era già cominciata. In realtà anche Eliot era stato amante di Nancy Cunard, pur se per una notte soltanto, nell’estate del ’22: anche se la disapprovava, e la considerava una tentatrice (in seguito l’aveva perfino dipinta come una prostituta, sotto le spoglie di Fresca, in una parte della Terra desolata che Pound lo convinse a tagliare), nemmeno lui era riuscito a resisterle, come lei stessa raccontò in una Lettera in versi scritta dopo la morte del poeta nel gennaio del 1965 (lei morì due mesi dopo), e pubblicata ora nei Selected Poems, una raccolta di poesie, in parte inedite, a cura di Sandeep Parmar (Fyfield Books).
Del resto era difficile, quasi impossibile resistere a Nancy Cunard. Nata nel 1896 a Nevill Holt, nel Leicestershire, in una residenza immensa (il salone da solo era più grande della New York Public Library), erede di un impero di costruttori navali baronetti dai tempi della Regina Vittoria, discendente di Benjamin Franklin, figlia di un padre, Bache, interessato soltanto alla caccia e alla campagna inglese e di una madre americana ricchissima, Maud, arrivata in Europa per ottenere un titolo e entrare nell’alta società politica, aristocratica e letteraria di Londra (e Lady Cunard ne fu una regina), Nancy si abitua subito ad alcune cose poco comuni, specialmente per l’epoca: i suoi genitori vivono vite separate;
la madre ha decine di amanti, e non li nasconde affatto; il suo primo amico a quattro anni non è una bambina, bensì il romanziere irlandese George Moore, amante della madre, a cui resta legata per tutta la vita e che le fa da padre insieme a Norman Douglas; viaggia e viene istruita per tutta Europa; ai balli e ai tè organizzati da Lady Cunard arrivano Somerset Maugham, i Balfour, gli Asquits, Pound (che chiede soldi per sostenere James Joyce mentre scrive l’Ulisse), Eliot…
Ereditiera, poetessa, editrice per tre anni, come racconta nel libro, ricchissimo di aneddoti, These were the Hours – Memories of My Hours Press, scrittrice, giornalista in prima fila durante la guerra di Spagna, pasionaria quasi ossessiva per le cause della repubblica in Spagna e per la difesa della cultura e dei diritti dei neri in America (sua è la raccolta Negro, una antologia che è la prima nel suo genere, e che nel ’34, quando esce, è accolta con derisione perfino dalla stampa di sinistra), collezionista di arte «primitiva» dall’Africa all’Oceania e, in particolare, di vistosissimi braccialetti d’avorio che portava a decine fino al gomito, amante di artisti, poeti, scrittori e musicisti celebri, fra cui T.S. Eliot, Samuel Beckett e Pablo Neruda (tutti anni prima del Nobel…) e poi Ezra Pound, Louis Aragon, Tristan Tzara e Aldous Huxley, Nancy Cunard era una donna bellissima e magnetica.
Gli occhi enormi e blu, la figura esile, la voce dolce e acuta insieme, la falcata leggendaria. E poi lo stile, imitatissimo per il resto del secolo, dal cilindro agli abiti d’argento, dai quattrocento bracciali ai capelli corti, una giovane donna non sposata (lo fu per pochissimi anni, con un soldato australiano), ribelle, che fumava e beveva e non si negava nulla.
Così racconta Anthony Thorne nel volume Nancy Cunard. Brave Poet, Indomitable Rebel (1968, a cura di Hugh Ford) che raccoglie i ricordi di amici e ammiratori: «Un giorno una ragazza mi ha detto: Entro in una stanza e in fondo c’è la donna più bella che abbia mai visto. Poi mi avvicino e mi rendo conto che è Nancy Cunard».
Thorne incontra Nancy per la prima volta a Venezia, dove lei versa una flûte di champagne nel Canal Grande in nome di un suo vecchio amore, il jazzista di colore Henry Crowder; poi, dopo una notte insieme, lasciano il palazzo a bordo di una gondola. Undici anni dopo, di nuovo a Venezia, Thorne ritrova lo stesso gondoliere che ricorda esattamente Nancy.
Anche quando è ormai anziana, zoppicante, rovinata dall’alcol, dalle malattie respiratorie e dalla magrezza eccessiva, se entra in un locale, o si presenta a teatro, tutti gli occhi si volgono immediatamente verso di lei, e nel silenzio che si crea si sente solo il tintinnio dei suoi bracciali. Questa è Nancy Cunard, «un corpo come una scultura» a detta di Langston Hughes, che collaborò a Negro.
Non soltanto una avventuriera: lo è stata, nel sesso (si dice che si sia fatta asportare l’utero per avere libertà totale), nelle abitudini quotidiane, nei viaggi per mezzo mondo, nelle cause sposate spesso d’istinto.
Ma è stata una figura letteraria, e non soltanto come musa, anche se ha ispirato Huxley (innamorato perso, l’ha riprodotta in varie sue eroine), il bestseller degli anni Venti Green Hat di Michael Arlen, Aragon (che fu quasi sul punto di sposare), Tzara, Evelyn Waugh, Pound e Neruda, e poi pittori come Oskar Kokoschka e Alvaro Chile Guevara, fotografi come Man Ray e Cecil Beaton, lo scultore Brancusi. Williams Carlos Williams, che giocava a tennis con lei e Hemingway, la definì «uno dei più grandi fenomeni di quel mondo», gli anni Venti.
La prova della sua sensibilità letteraria, oltre che nelle opere di poesia, è soprattutto nella sua attività di editrice e curatrice di raccolte. L’avventura della sua Hours Press comincia nel 1928 e finisce nel 1931. Nasce in Normandia, a Réanville, in una casa di campagna acquistata e arredata da Nancy con grande amore (sua madre riteneva che «solo i banali hanno bisogno di una casa»); poi si sposta a Parigi, in rue Guenégaud, a due passi dalla Galleria Surrealista.
Londra non era la città giusta per Nancy, anche se si era creata una sua «Corrupt Coterie», cenava con Keynes e Lytton Strachey, frequentava i Woolf (poco, perché Virginia era gelosa…). È a Parigi, nei primi anni Venti, che trova il suo mondo: fra i Surrealisti e i Dada, tutti suoi amici e spesso amanti, ospiti fissi nel suo appartamento all’Île Saint-Louis, che era appartenuto a Modigliani.
In nemmeno quattro anni la Hours Press pubblica 23 libri di pregio, con copertine firmate da artisti come Man Ray, John Banting, Yves Tanguy: in catalogo vanta George Moore, l’amico che le garantisce un esordio da «tutto esaurito»; Louis Aragon che traduce l’«intraducibile» Caccia allo Snark di Lewis Carroll; due titoli di Norman Douglas; Mes Souvenirs, saggi scritti apposta per lei da Arthur Symons, il critico letterario che «esportò» Verlaine e i simbolisti Oltremanica; le poesie di Robert Graves e Laura Riding; i versi di Richard Aldington (suo è il bestseller della casa editrice, Last Straws); This Chaos di Harold Acton, per il quale Nancy è stata «la Gioconda degli anni Venti»; i primi trenta Cantos di Pound (A Draft of XXX Cantos); una raccolta di poesie di John Rodker, editore di Eliot e della «più bella edizione dei Cantos» di Pound, secondo la stessa Cunard. Le promette «qualcosa» James Joyce, «il mio visitatore più famoso in rue Guenégaud», dove si reca con insistenza in cerca di una raccomandazione per un suo amico, un cantante irlandese.
Non se ne fa nulla, né per la raccomandazione, né per l’opera da pubblicare. Ma la sua vera «scoperta» è Samuel Beckett. Nel senso che è la prima a pubblicarlo. In These were the Hours (pubblicato postumo nel ’69) la Cunard spiega il suo obiettivo di editrice: «Fare soprattutto poesia contemporanea di genere sperimentale – sempre cose molto moderne, pezzi brevi di grande qualità che, per loro natura, possono avere difficoltà a trovare editori commerciali». Così, a caccia di talenti nuovi, lancia un concorso: dieci sterline in premio all’autore della migliore poesia sul tempo, cento righe al massimo. Fino all’ultimo, Nancy e l’amico Aldington si trovano a leggere roba impubblicabile; ma, la notte della scadenza…
Qualcuno ha lasciato una poesia, si intitola Whoroscope; l’autore è sconosciuto, si chiama Samuel Beckett, è nato a Dublino e già questo lo rende simpatico alla Cunard che ha antenati illustri e ribelli anche in Irlanda, e comunque le basta scorrere i versi per capire che il vincitore del concorso è proprio lui.
E che felicità prova venticinque anni dopo, quando Aspettando Godot va in scena a Parigi e il mondo si accorge del merito che spetta al suo autore. Beckett le rimane sempre amico e affezionato; nel 1956 le scrive: «Ho ancora Negro comodo nella mia libreria, a differenza della maggior parte di ciò che avevo… E perfino qualche Whoroscope».
Le chiede di spedirgli una copia di Parallax, perché vorrebbe rileggerlo. Per l’antologia black Beckett ha tradotto diciotto saggi, fra cui un Manifesto dei Surrealisti francesi e un articolo su Louis Armstrong e il jazz; ha firmato per Henry-Music, versi dedicati alla musica di Henry Crowder, uno dei volumi di maggior pregio della Hours Press. Il loro legame dura per tutta la vita, anche se Beckett la trova sempre più esile e troppo «ossessionata» dalla questione spagnola.
Eppure, anche in questo caso, la Cunard dimostra il suo talento. Nel 1937 rimette in funzione la vecchia pressa Mathieu di Réanville per pubblicare sei pamphlet, o plaquettes, che finiscono sotto il titolo The Poets of the World Defend the Spanish people!. A stampare accanto a lei c’è Pablo Neruda, i versi, in inglese, spagnolo e francese sono di Tzara, Aragon, Hughes, García Lorca e W.H. Auden, di cui appare la controversa Spain.
Dopo le plaquettes è la volta di un questionario agli scrittori, un’idea nuova all’epoca: Nancy spedisce a tutti quelli che conosce (e non) delle domande sulla guerra, per capire da che parte stiano. Il volume che raccoglie le 148 risposte si intitola Authors Take Sides on the Spanish War: non pubblicata quella indimenticabile di George Orwell, che la prega di non scocciarlo più. Lui, in Spagna, si è appena preso una pallottola.
Dopo la guerra, la vita per Nancy non è più la stessa. La sua casa di Réanville è distrutta dai nazisti, il suo mondo è in pezzi. La madre l’ha diseredata da un decennio, al grido di: «Davvero mia figlia conosce un Negro?». Ha ancora degli amanti, sempre più giovani; continua a viaggiare, a bere troppo e a scrivere: nel ’54 e nel ’56 pubblica due biografie di George Moore e Norman Douglas, molto elogiate dalla critica. Rifiuta ogni proposta di scrivere la sua autobiografia (perciò bisogna accontentarsi di due biografie, comunque ricche di dettagli, una del ’79 di Anne Chisholm e una del 2007 di Lois Gordon).
Paga, più che mai, l’esclusione da un mondo per il quale lei è troppo diversa. E che l’ha punita, a modo suo: non potendole impedire la libertà di dire, scrivere e fare, per lo più ha tentato di negarle la patente della serietà intellettuale.
Descrivendo Lucy, l’anti-eroina di Punto contro punto, Huxley parla così (indirettamente) di Nancy: «Era tutto ciò che le persone, per invidia o per disapprovazione, dicevano di lei, eppure era la più squisita e meravigliosa delle creature». Muore sola, a Parigi, pochi giorni dopo avere compiuto 69 anni. Le sue ceneri sono al Père-Lachaise, il cimitero degli immortali.
Fonte Articolo scritto da Eleonora Barbieri per “il Giornale”
Ilaria Giovinazzo nasce a Roma nel 1979. Laureata in Lettere. Nel 1999 vince il premio Segnalazione speciale della Giuria al concorso europeo di poesia e narrativa “Massimo Grillandi”. Ha pubblicato i seguenti romanzi “Anime perdute (Effedue, 2001), “Non posso lasciarti andar via” (Prospettiva, 2005), “Donne del destino” (Besa, 2007) e le raccolte poetiche “Come un fiore di loto” (Ensemble, 2020), “La simmetria dei corpi” (Ensemble, 2021). Sue poesie sono state pubblicate su riviste specializzate e blog (De sur a sur, Atelier, Metaphorica, Transiti Poetici, La Bottega della Poesia de giornale La Repubblica, Centro cultural Tina Modotti). Con Fuorilinea nel 2022 pubblica il libro illustrato per bambini “Life. 10 cose importanti” e nel 2023 cura la plaquette, edita da Ensemble, dell’evento “Sinfonie Poetiche. Concerto per corde e fiati” da lei concepito e diretto. Attualmente vive e lavora tra le colline sabine.
Appartenere alle nuvole,
porsi come girasole alla luce,
libera ghianda in evoluzione di destino.
Sciogliersi e sorridere
come il ghiaccio innamorato del sole,
senza dolore.
Essere. Essere. Essere.
Senza convincimento di peccato.
*
Lo senti questo logorio continuo
delle corde intorno all’argano?
L’incontro perfetto del corpo
che aderisce all’ombra?
Sei nelle armonie improvvise
a cui accedo negli attimi illuminati
delle mie giornate.
Sotto il peso delle cose
questo muscolo idiota schianta.
Dimmi solo che la vita non tradisce
Dimmelo ancora. Menti.
*
Sono le illuminazioni del vento,
il canto ripetuto del cuculo
sul ramo di magnolia
a darmi la consistenza del seme,
l’efflorescenza del respiro,
a dirmi: taci.
La dea Tara sorride al Caos
mentre prego le cime innevate
del mio Himalaya personale.
Inspira. Espira.
Tutto sta lì a dirmi: taci.
*
Ho tentato di ricomporre
le ossa della bambina spezzata,
quella che nessuno vede
nascosta dentro i vestiti
incisa nella carne
che sorride a tutti
senza trovare la via di casa.
*
Sono composta di silenzi
e ubriacature d’anima
che non riesco a nascondere
e fede in orizzonti lontanissimi.
Paio vivere di poco
ma l’infinito abita
dentro le mie cellule.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Castelnuovo di Farfa – La riva sinistra del Farfa-
Brani e Poesie dal libro di Franco Leggeri-MURALES CASTELNUOVESI-
Castelnuovo di Farfa -Brani e Poesie dal libro di Franco Leggeri– la riva sinistra del Farfa-MURALES CASTELNUOVESI– ………..Al termine della salita che porta dalla campagna al borgo di Castelnuovo , si trova un vecchio edificio ricoperto di edera, muschi e arbusti vari che crescono sul muro , ma vi è anche l’immancabile pianta di fico. All’interno delle vecchie mura , frammenti di mura, cresce spontaneo un giardino incolto che alimenta la fantasia di architetture fantastiche , scenografia di storie medievali in quel che resta del manufatto. Eppure questo rudere assume, nella fantasia del visitatore attento e non superficiale, una valenza magica ch’è l’unione tra realtà e immaginario letterario. Chissà se il rudere la sera si veste di colori bluastri, scala del “bleu gotico” l’ora amica dei fotografi e dei pittori, oppure ha lo stesso colore del vecchio insediativo storico racchiuso nelle mura di cinta costruite in pietrame a difesa dell’antico borgo di Castelnuovo. Rudere che potrebbe essere un eremo solitario posto ai confini del mondo, ma anche luogo dove si consuma da secoli l’instancabile opera dell’uomo per conquistare e domare la natura del colle dove sorge il Borgo di Castelnuovo di Farfa………….
-Castelnuovo, gli speroni della Luna.
La luna, i suoi speroni, ha ferito la notte castelnuovese. Il tempo, l’insulto del tempo si è smarrito nella ruggine dei ricordi. Occasioni uccise da barbari affamati di euro . Ora incidere la memoria su lastre di pietra. Il verde, la verde Valle del Farfa era un invito alla contemplazione .La colpa , se colpa è l’aver creduto di possedere la luna nell’età dei sogni. La colpa è nell’aver camminato nei sentieri dell’erica. La Valle , il mito , la sua Storia è qui nel mio cuore che colora di rosso gli spini delle siepi. Se il sogno si disperde lascio le mie parole sulla pietra. La stagione del gelo uccide le gemme della speranza , il tragitto segnato dal forte profumo, tragitto senza bandiere, del fieno falciato dai ricordi e illuminato dalla luna che uccide l’ombra dei cespugli. Ho rigirato tra le mie mani le parole, contato i sospiri come si contano le monete, ho cercato di scrivere l’ombra della sera , i ricordi degli anni giovani e l’altalena delle spinte infinite, le stagioni senza croci e le mani legate. Se la morte mi resta come l’ultimo sogno , l’ultima arma prima che anche le parole scritte siano morte per sempre. Cerchi un lapis , un foglio , una sedia per ricomporre, con calma, i fili, i fumi delle illusioni, le nuvole che portano la pioggia carica di poesia. Le vecchie porte dei fienili, il cigolio dei cardini vecchi, le note delle passate avventure prima che i fuochi si spengano . I ricordi, come le rondini, tornano sempre a scandire la forte stagione della follia mente negli uliveti la brezza accarezza le foglie , la brezza intrisa di fumo , di fieno, e sono i fuochi del bivacco del tempo immutato scolpito nell’attesa di un’alba rossa che trasformano i vicoli del Borgo nel labirinto di Dedalo e ad ogni incrocio trovi una epigrafe , un ricordo e un nuovo inizio.
I tetti di Castelnuovo di Farfa, il mio Dedalo.
Scoprire, o riscoprire Castelnuovo, cercando di aver gli occhi disincantati, mi permette comunque di vederne l’anima del mio Dedalo la più popolare, la più vissuta dalla gente comune. Scopro e riscopro, nuovo punto di vista, dopo tanti anni i vicoli del mio “Borgo Dedalo”, dove ho trascorso l’infanzia e la mia giovinezza che, nell’età dell’incoscienza, appare eterna. Se da adulti, in modo crudo, ci rendiamo conto che la vita passa in fretta, ci consola il pensiero che l’eterno rimane non nella materia, ma nelle vibrazioni, nelle sensazioni che aleggiano intorno a noi e che percepiamo secondo la nostra sensibilità e i nostri stati d’animo. Ora, osservando i tetti , vale la pena ricordare e raccontare e magari riflettere su queste nuove sensazioni che danno i tetti di Castelnuovo. Quante cose sono cambiate in queste vie , tante persone ,attori nella mia fanciullezza, non esistono più, altre sono invecchiate e altre ancora sono lontano altrove a cercare una vita diversa . E’ strano cercare dai tetti, di aprirli, e vedere, nei ricordi, le persone che abitavano la casa, scoprire l’atmosfera, rivivere gli stati d’animo con occhi diversi, con esperienza ,“lunga esperienza della vita”, reinventare ed animare anche i più piccoli dettagli del quotidiano la vita semplice e minimalista di una volta.
Vedo le vie di Dedalo là dove diventano più ripide, più stette , gli incroci e giù per i vicoli e scalette e ancora piccoli cortili e scale buie, soprattutto d’inverno. Nel mio paese, nel mio Dedalo ora sono cambiate molte, moltissime cose forse troppe .Sono cambiate le persone, le case, anche le storie non sono più le stesse. Ma non il “Borgo Dedalo” , il mio Castelnuovo , quello carico di storie scritte su di epigrafi marmoree “inchiodate” nella mia anima. Queste storie, immutabili e solide, che parlano e raccontano alla mia memoria, come una canzone poetica infinita ,di un Castelnuovo tramontato per sempre. Il mio paese, Castelnuovo, il mio Dedalo è un posto così sconosciuto alla “nuova gente” che ora lo abita e lo “consuma” e che ne distrugge il verde e la sua storia. La “nuova gente” che non ha l’abitudine di menzionarne il nome del mio Dedalo. La “nuova gente” non può ricordare la musica , dolci suoni, che uscivano da ogni porta , non può godere il trionfo e la purezza dei sogni che nascondono i cuori carichi di emozioni che creano le case del “mio paese” .
Castelnuovo, via Roma Est
Avete mai aspettato e visto il sole
che dona il primo bacio a Castelnuovo?
E se una mattina anche tu cerchi tra il sillogismo e il controesempio
di questo nostro dialetto, si di questo “sporco latino”
di cui adoro il categorico del disadorno,
ma essenziale canto invisibile che emerge da tracce nascoste .
Tracce, si quelle arate nella terra Sabina, che fermentano nel decasillabo armonioso che varia al ritmo dei versi sciolti e che , poi, li ricompone
nell’armonia del canto che allontana il “genio crudele”
che ha violentato la notte castelnuovese
e che , ora, aspetta il coagulo del sangue al sole
che ne rallenta la fecondità del passato fervore.
Castelnuovo,
ho negli occhi la quotidiana immagine, se pur superficiale,
del puntuale equilibrio e solo allora , se sarò libero, cercherò
di narrare la meraviglia dei racconti nascosti
che, da sempre ,dormono senza avere risposta,
ma era luce assoluta e felicità degli antichi castelnuovesi.
Rivisitare Castelnuovo, il suo profondo contraddittorio sillogismo filosofico
che , da sempre, cerco nella spiritualità
che diventa fulcro del mio soggettivismo
così relativo al mio pensiero pendolare.
Cerco la chiarezza nella mia anima ch’è tela
pronta per caratteri del libro che mai ho consultato.
Mi chiedo se troverò a Castelnuovo
il controesempio del sillogismo aristotelico?
A Castelnuovo, a volte , le risposte le trovi nascoste ,
ma esse sono sempre testimoni di dolci sere e serene albe,
lente, pallide e timide promesse future
che puoi trovare soltanto quando Castelnuovo diventa attico
e dialoga , dopo le stelle, con il primo raggio del sole.
Si potrebbe ascoltare, dai colli, forse anche la dolce,
filosofica voce dei castelnuovesi che si avviano ,
incontro al sole, camminando lungo via Roma Est.
Ed è allora che il sole riaccende, per il giorno,
i giochi linguistici dei fiori di campo.
Ecco, dunque, che, adesso, io ridivento una decomposizione
di sogni e illusioni in cerca di approdo,
una salvezza tra le ombre acute,
ma pronte a scomparire in un futuro senza storia e senza epoca.
“Se le pietre,
il cuore delle pietre,
l’acqua,
è la sua carezza che traccia l’ombra dei sogni,
sono e diventano
allora
l’inizio dei ricordi.
L’arido cuore delle pietre è (si fa) prigioniero nella mia anima.
Solo ora, adesso
La bassa marea tra i vicoli di Dedalo travolge il ragazzo
Che si accende nel nuovo giorno al sole
che entra solenne dalla via Roma est”.
Franco Leggeri, castelnuovese-
Poesia-Castelnuovo, via Roma Est
Dalla raccolta Murales Castelnuovesi
AMARCORD – Castelnuovo nel cuore.
Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo raccolti con i padroni è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia . Anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi. Il vecchio e il giovane nella storia , Castelnuovo per sempre. Castelnuovo nel cuore.
dal libro – “MURALES CASTELNUOVESI”
di Franco Leggeri , Castelnuovese
Castelnuovo, il racconto scritto col chiodo forgiato.
(alla scoperta di vecchi casali, ruderi castelnuovesi)
Ho trovato,
nell’angolo estremo,
in alto, in quella vecchia trave le sagome tracciate dal chiodo forgiato,
segni del tempo di guerra.
E’ lo stupore e la finezza del racconto disegnato,
lasciato da questa donna castelnuovese
che ha distrutto la legge di gravità.
E questo disegno,
così neanche in bianco e nero, ma solo legno,
solo un fossile e scena del passato
riverberi onirici dell’immaginazione.
Traccia di armonia del creato,
traccia segnata solo per alcuni riti passeggeri, ma solenni.
Nella trave è disegnata e immaginata
l’esplosione della luce
mentre si espande l’azzurro infuocato
immaginazione della sfrenata insoddisfazione
nella ricerca di un cielo sereno.
Ora sono tracce di parole e gridi inascoltati,
ora che sono “fossili” testimoni che narrano una tragedia,
tutta castelnuovese, ma ancora inascoltata
e nascosta in questa trave “intonsa” .
“Castelnuovo il chiodo forgiato
all’ombra della polvere.
Castelnuovo, c’è sempre la luna pronta per la nuova notte
carica di illusioni e inattesi veleni,
pensieri segreti depositati
, frettolosamente,
all’interno di nuvole di fumo.
Ed ecco che, ora, l’anima si commuove
e partorisce una luna piena,
la preghiera gemella che brucia l’amore,
quella che viene respinta nella via segreta,
che si illumina alla luce,
distratta , della luna nuova”.
Castelnuovo, il sogno e l’UTOPIA CONSUMATA.
Sono nato a Castelnuovo in una casa senza libri, ma , poi, la vita , i fatti tristi della vita mi fecero sconfinare nella Poesia. Io divenni un castelnuovese clandestino, emigrante all’interno di una biblioteca, e ,quindi, iniziai a navigare in un “OCEANO DI LIBRI”. Ogni libro era ed è un’isola su cui mi è stato possibile vivere libero .
La Poesia e la scrittura sono il giusto modo , forse, per ripagare il mio Borgo. Ripagare Castelnuovo, con moneta giusta per avermi accolto, per avermi regalato i sogni scritti sui muri, suoni e profumi , la sua bella storia , e le piccole storie che, assieme, sono diventate il mio Castello di Kafka e forse l’isola per un nuovo “naufrago castelnuovese”.
Sono nato castelnuovese , da genitori castelnuovesi e da nonni castelnuovesi , ma ho vissuto anche altrove una parte della mia vita. A Castelnuovo ho trascorso anni importanti, quelli che danno “l’impronta” alla formazione umana. Sono castelnuovese “dentro” e incatenato a Castelnuovo da sentimenti contrastanti come : Ammirazione per le sue straordinarie risorse , ma anche, ahimè, frustrazione per il modo in cui, quotidianamente, esse vengono sprecate da incapaci, si quelli della “Dittatura della Maggioranza”.
Come castelnuovese, orgoglio castelnuovese, sono parte di quella pattuglia che pensa che fare qualcosa , anche poco, sia meglio che non fare nulla ed abbandonare il Borgo, l’amato Castelnuovo, al suo triste destino di :”colonia della sottocultura Sabina”. Troppi castelnuovesi, senza altra colpa se non quella di essere nati a Castelnuovo, meritano di avere una chance , cioè quella di valorizzare le loro straordinarie qualità nascoste che spesso non sanno nemmeno di possedere. Credo , fortemente, che la politica dei piccoli passi, in un Borgo come Castelnuovo, sia quella da percorrere, quindi, piccoli passi e non spese faraoniche , soldi pubblici mal spesi per passerelle pre-elettorali, che diventano solo un pallido ricordo “snocciolati e bevuti” nei discorsi del bar.
Spero che altri “castelnuovesi dentro”, anche se residenti altrove, vogliano unire le loro idee e le loro voci in un progetto di Rinascimento culturale castelnuovese.
Piccola riflessione di un castelnuovese
Castelnuovo, La Notte.
Si adagia la notte su Castelnuovo
Ne assume, diligentemente, le forme,
essa si fa architettura, ridisegna le vie e i vicoli.
La notte castelnuovese , la mia notte,
quella che raccoglie le ombre depositate dal giorno
e che il vento sa disperdere e nascondere
dietro gli scricchiolii della vecchie porte
così solenni al gioco dei lampioni che ne esaltano i colori.
E’ la notte la sentinella del riposo,
dei pianti e dei sorrisi.
E’ la notte che fa volare l’ultimo , esile, fumo dei camini
custodi di nudezze e specchio di grazie nascoste
e di profili di cose semplici.
E’ la notte castelnuovese
che scrive, solitaria, storie dettate da folletti senza nome.
Il mio Castelnuovo è tazza e culla
del latte che versano le nuvole
che troviamo al risveglio del giorno.
Notte castelnuovese dimora amica delle stelle
e delle rose alle finestre dolci come i sorrisi delle mamme.
Notte castelnuovese gemella della solitudine e della quiete,
resoconto di lunghi intervalli tra il fuoco e la tristezza ,
ma così immobile nella solitudine del buio.
Notte che, infine, libera il sole sui cumuli
di speranze respinte dal filo irto della realtà.
Ed io, allora, ridivento pastore
del mio gregge di delusioni che ritornano,
rientrano dagli spiragli delle finestre.
Castelnuovo, è la notte la mia prigione
Ben costruita e cucita alla mia anima senza ali.
E ora, finalmente, senza una benedizione mi addormento.
“ Si può trattenere la notte?
Si può simulare il niente?
Vestiti di crudo realismo
Siamo al centro del niente,
mentre fugge la notte
nostro riparo dalle voci
delle finestre vicine.”
Castelnuovo, storie ai suoi margini.
Castelnuovo se diventa il margine e recinto
di una notte senza perché,
allora raccontiamoci storie
sussurrate tra le sbarre di cancelli inopportuni e indesiderati.
Ora ci ritroviamo qui a contare , a catalogare
le costellazioni disperse in lontane dimensioni
fuori dai confini bisbigliati
e scritti sui nostri pezzi di carta silenziosa.
Pensieri scritti con le gocce d’acqua
che ci regala, sempre, la notte castelnuovese.
E’ questa corteccia così ostinatamente
aggrappata ai fuggitivi e ribelli pensieri,
veri dominus di questa oscurità
ch’è spazio dove si espande
il profumo antico degli indugi
dei nostri silenziosi dibattiti, alcune volte inconsistenti,
che si evolvono nel brevissimo tempo a noi concesso dalle emozioni.
Ed ecco che la notte,
se pur essa superficiale e a volte emozionata
e dispersa nel circolo delle nostre mani
si fa ora luce lieve, vicina alla volontà
che si coniuga con l’irruenza nascosta in un desiderio impreparato.
Si ,la notte ,ora, diventa anarchia e poesia
Che evade oltre le fragili braccia,
esse imprudenti guardiane di una libertà
che si eclissa dietro la luce delle stelle
che diventano così sensuali
in questa melodia che incornicia la nostra notte castelnuovese.
I campi arati
Così come il sangue delle parole
Si posa sopra le note
Che nascono dalle pietre
Che difendono i campi arati
E la fatica lenta e severa dei buoi
Hanno profanato,
Hanno invaso
Hanno calpestato
Hanno deriso
La nostra sacra terra e la nostra valle
Hanno ucciso gli ulivi
E le spighe del grano maturo,
Hanno tagliato i riflessi dell’acqua
con il ferro e il rumore dell’argano
Hanno disperso nel vuoto
il profumo della nostra pace.
Ora il pane viene impastato con il cemento
e l’acqua è sepolta nelle rocce delle Gole del Farfa.
Nessuno di noi sentirà il grido
e la speranza della vittoria dispersa
nella nebbia che disegna questa notte nemica delle stelle.
I campi arati- Murales castelnuovesi di Franco Leggeri.
Citazione:“Ci sono domande a cui le risposte si hanno solo se si riesce a dare del tu a Dio “
Castelnuovo ,le sue Colline.
Castelnuovo ha le colline
Come cupole coperte di ulivi
Dove l’erba si lascia cullare
Dall’alito del Farfa
Mentre nasce l’attimo di Pace
Che si abbandona al riposo dei pensieri.
L’erba, come Castelnuovo,rinasce come fosse immortale
E risorge dalla meravigliosa terra
Per donarsi alla dolcezza del giorno
Come coperta e cuscino
Dove poter sognare melodie
Che addolciscono gli anni passati
Mentre scrivo del tempo che ancora mi accompagna
Mentre sogno su questo foglio bianco.
Ricordo che Fu Euripide la mia prima fuga dall’adolescenza,
mentre la neve rubava il mio sguardo
che tratteggia la soglia ,
il confine, del mio sentimento che fu strutturato e descritto
in una liturgia che esautorò le orditure ,
i simboli di struggenti antitesi.
Fu anche il blu che ,seminato nel silenzio della notte,
accese il dubbio e la paura.
Ora anche il vento si ripara dalla notte castelnuovese,
notte innamorata di Euripide e della luna.
Luna che trafigge il silenzio dell’anima,
dispersa tra le pietre dei giovani sogni.
Sogni che nascono così disadorni in questo novembre
che li ha rinchiusi tra le siepi di bosso.
Castelnuovo, Come la Pioggia.
Cadono le ore dalla torre
così come cadono le gocce di pioggia
infinite e ritmiche
come le note di jazz.
Le gocce e le note
così dolci e misteriose
come se , assieme, fossero
da poco arrivate da Nashville.
E’ la pioggia
che danza in questa nebbia,
mantello dell’autunno castelnuovese,
che diventa collezione romantica di perle
che, come gocce infinite,
si disperdono nei vicoli e vie di Castelnuovo.
Con la pioggia, gli angoli castelnuovesi
travolti e disegnati sulla nebbia,
sono le quinte e scenografia
del palcoscenico per rappresentare
e immaginare, le metafore,
le analogie di inediti racconti
che ,come gli occhi delle donne castelnuovesi ,
sono sempre in attesa del sole,
mentre, nell’angolo ,si trovano
angeli che ascoltano racconti che cercano mani
annegate nel vento del nulla.
Dalla torre cadono le ore
avvolte nei sogni all’interno di bolle di sapone
sogni in cerca di occhi
che mi accompagnano verso
il crudo cibo della realtà
del gelo freddo castelnuovese.
P.S.
Racconti in cerca di occhi
che come le mie mani cercano, sempre, le tue.
Castelnuovo, lo scantinato del chiacchiericcio .
L’orgia delle chiacchiere castelnuovesi
ha partorito il libro dei rancori ,
album così caro a voi che affilate le parole
e lo sguardo per colpire in silenzio,
un silenzio che riempie il vuoto del vostro scantinato
dove vivete ,galleggiando, sulle acque nere del vostro odio.
Voi vi nutrite del male, avete fame del male .
Voi siete il buio che vestite con la nebbia dei vostri occhi,
la vostra voce è come il sibilo della serpe.
Al vostro richiamo rispondono solo i latrati, lontani, dei cani randagi.
L’umido, insopportabile, del vostro respiro
è un virus letale che infetta il mio Castelnuovo.
Castelnuovo, i colori e l’ideologia.
Questa mattina i colori di Castelnuovo
si disperdono come stelle filanti.
Colori profumati, impercettibili, e nascosti
tra il linguaggio degli ulivi.
E’ questa una mia visione interiorizzata,
ma sempre in cerca di un approdo sicuro.
Si, Castelnuovo non può essere un racconto sommario
ma, come le sequenze chimiche , deve espandersi
in una litania nell’immenso cielo.
Castelnuovo diventa una litania senza amen,
e senza consistenza, un oggetto fantasma
all’interno di una storia inaccessibile
che si frantuma come stelle filanti
nell’intimità di esperienze sofferte e malate
che diventano , esse stesse, oggetti appesi alle pareti del mio io.
Castelnuovo mi tenta ancora al peccato dell’illuminismo,
e così l’ideologia diventa il mio luogo del “niente”,
l’elemento misterioso di una poesia forgiata con i colori della pietra.
Colori castelnuovesi e tristezza ideologica
che sono come i dubbi di Amleto
in cerca di Ofelia che disperde, così tremante, i colori
della sua fragile innocenza.
Piange Castelnuovo in cerca dei colori,
sepolti trai vecchi tronchi deposti a terra ,
terra scura come i sogni svaniti all’alba
di questa poesia, ora diventata logora e affaticata
mentre rincorre il colore di questo giorno
sempre uguale agli altri.
”Novembre castelnuovese.”(1976)
Sono debole ed è allarme fragilità.
Il dolore cronico di un’opera senza citazioni,
ma, per fortuna, sono gli zuccheri
a indicarmi la luna .
Ma è l’Ulysses di James Joyce che insiste e logora la mia fragilità.
Percorsi, postumi, per correre nella bellezza dell’acqua piovana
Non più incubi illustrati,
ma solo semplici foto di una luce debole,
Fragile.
Debole come il probabile ,ammirando, di viziati ritratti,
ora
è sempre più fragile dipingere il desiderio in modo godibile
nel “mentre”, gli affreschi dei miei sogni non hanno illustrazioni patinate.
Castelnuovo è la mia, orrenda, poesia per odiarmi,
è tutto inutile so già che il foglio bianco
è di un nero brillante .
Castelnuovo , a volte aristocratico e dominante
È una nave pregiata , visibile e bella, che naviga in formazione
Dentro la flotta dei Borghi sabini.
Castelnuovo non prenderà il largo
In quell’oceano del futuro,
Castelnuovo
Un colore diverso della schizofrenia tracciata da un sismografo impazzito.
Castelnuovo il borgo delle decapitazioni delle idee e tomba dei sogni.
Le illusioni di un sabato castelnuovese
È una comicità tragica di un copione senza parole.
Ombre,
si ,ombre cinesi
sono adagiate sul mio foglio bianco
e
dal nero volano gialle farfalle
esse
“PARLANO PAROLE DENTRO LE BOLLE DI SAPONE”
Raccontano , elevandosi in un vortice,
di un Castelnuovo disperso all’interno di mura ciclopiche.
E’ forse l’ora
Che torni alla montagna,
Alla roccia,
Alla neve,
Alla nebbia di questo sabato di novembre
Ho ora l’inchiostro nelle mie mani
Per dipingere cerchi senza misura,
e senza diametro.
Come sono lontani dal mare questi sabati castelnuovesi.
P.S. Ogni libro intorno a me ha un’anima, ma non riesco a trovarla essa corre e si nasconde per le vie di Dedalo.
Come disse James: “non so in che ordine vanno le parole”.
Allora che senso ha scolpire in forma dedalica una pagina bianca?
Certamente Castelnuovo non è una scultura greca, ma ha , possiede, un’anima : “ossessiva, assordante.”
Castelnuovo, il mio Castelnuovo, è un libro raro per pochi eletti.
Castelnuovo di Farfa le tracce del Razzismo- (Archivio 1986)
Brividi, incubi
Appesi a una catenella, come l’odio “Cara Poesia”.
Non può essere la cultura della nostalgia.
Così
Le ragazze che abitano a Nord, nel buio
Leggono le lapidi con le dita della mano
Non hanno lo sguardo per nuovi fantasmi
La loro lentezza , come nelle onoranze funebri
Sottolinea il desiderabile
Esalta
“l’estetica della fatica”
Castelnuovo , il razzismo è scritto in cifre
Nei conti correnti del cemento.
Castelnuovo mostri usciti da un thriller
Delle follie umane,
si
l’altra faccia di Castelnuovo:
L’altra parte della barricata;
Castelnuovo, l’alcool
E il pezzo della bassa manovalanza.
Castelnuovo: Dare voce alla volontà di esistere
Oltre le follie ,
i sorrisi e i racconti da osteria.
La lavanderia degli anni non cancella
Il seme dell’odio
RANCORE AVVELENATO:
“i feroci anni castelnuovesi”
sono sulla sponda avversa.
Ora posso vedere, ho catturato
L’impressione di una Rivoluzione.
“NON UN LAMENTO ESCE DALLE FERITE”.
Sulle sponde del Farfa-
Dove ho lasciato a riposare il sole
carnefice inchiodato al cielo
e la luna che aspetta l’ora silenziosa
di una solitaria speranza
scritta sui muri bianchi
e come i pensieri riflessi nei torrenti
che cercano la luce degli occhi.
Si
Io getto i miei pensieri nell’acqua
e rintraccio i miei occhi.
Apro i silenzi ,come riti al crepuscolo,
quando il vento fa crollare
le foglie
e la mia angoscia mi fa vivere il nulla.
Ora è il tempo del silenzio
ho già spento le grida
di schegge taglienti.
Il docile germoglio
di lotte essenziali
sono gocce di opaco sole
che annodano il sangue
e rincorrono gli echi
nascosti nell’ombra
di una cascata di acqua
e tu, assassino feroce,
hai distrutto il sogno,
scritto sul pentagramma,
mentre lo recitavo a braccia nude tra i profumi dell’erba
sulla riva del Farfa.
I vecchi libri
I vecchi libri sono come sculture
di una vita del dopo,
sono ritagli di tempo
e risultati di calcoli per una rotta tracciata
alla ricerca di sentieri che segnano l’anima.
Sentieri solitari e sospesi sulle emozioni
che si anellano all’interno di un cerchio
di passione e scrittura.
Ed è così, mentre i gatti si addormentano
sull’autobiografica di un’oscura psicologa analista,
che mi interrogo sui Dialoghi, ormai scheletri, di Platone,
si, proprio quelli
che ho sepolto
nei miei appunti tra i libri e nascosti in alto sugli scaffali.
L’Estate castelnuovese (1978)
Dai campi si leva
un coro serrato di cicale .
Il rosso , taciturno, dei papaveri
veglia il riposo delle poche parole
di desiderio silenzio.
Poi, la sera ,lo sguardo abbraccia fosforescenti geometrie
che nascono dall’immobilità della stanchezza.
Ascolto note di avventure eccessive, affogate in follie singolari.
I miei occhi (pallidi) sono sguardi (stanchi) ai margini dei campi.
Ora, del giorno, che corre al tramonto, ne dimentico l’alba.
Se Castelnuovo (Archivio 1981)
Castelnuovo,parole meravigliose, se le saprò vestire e dipingere, con le foglie degli ulivi , nella dolcezza della sera.
Castelnuovo, se saprò descrivere, scrivere e incidere, il fascino raffinato dei colori, così come sono tradotti e vissuti nella spiritualità dell’anima.
Non ho un teschio in mano, non ho i dubbi di Amleto, non scriverò i tormenti,la nebbia dei miei dubbi, non sono Shakespeare.
Non trovo statico il legittimo dubbio che vaga , da sempre, nel labirinto di Dedalo.
Castelnuovo, non è il Castello di Elsinore o quello di Dracula. Castelnuovo è, a volte ,un inquieto schema di vie dove si rincorrono i pensieri partoriti da uno spirito notturno per un progetto del bello.
Castelnuovo è un pensiero filtrato,
Castelnuovo è potenzialità: non idea, ma sostanza.
Il fuori posto della mia poesia ,Castelnuovo se lo chiami “musica” o “poesia”,
( neanche Cartesio mi aiuta ad uscire dai meandri del nozionismo).
Le ferite aperte sono il suono di una domanda antica, la pericolosa,( gesuitica?), insoddisfazione.
Eppure la notte si adagia , sempre, sui tetti e il “genio maligno” fugge, finalmente , dalla mia esistenza.
Conosco la luce di Castelnuovo, Castelnuovo non è la mia “provincia oscura”.
Castelnuovo è una divinità ed io ai suoi piedi ho lasciato i miei sogni, i miei sguardi, i miei pensieri, i miei versi.
Castelnuovo: ora non confondo più il buio con la tenebra. Oggi, ora, non ho più paura della notte.
MURALES CASTELNUOVESE- libro di Franco Leggeri
….e la lancia dell’ultimo sole
squarciò il sipario della notte alla luna castelnuovese…
Ho iniziato a scrivere MURALES CASTELNUOVESE , non perché ci fosse bisogno di altra carta stampa, ma perché volevo viaggiare, con la fantasia, in un Borgo solidale e pacifico di un tempo e questo era il mio Castelnuovo e questo è il mio modo di raccontarlo.
Ho trovato semplicemente delizioso, un po’ come aprire un barattolo di marmellata, quando appassionatamente rivivo in forma di Poesia questo mondo e l’emozione di scrivere esperienze incise sui volti dipinti nei miei Murales.
Mi emoziono a ogni pagina… sento sempre più forte il desiderio di partire e di terminare il viaggio . Caro Castelnuovo, ti ho conosciuto, in profondità, poco per volta devo dire che ho trovato , l’intuizione, l’alfabeto, e le parole da scrivere ad ogni tuo angolo ad ogni tua via. Confesso che mi emoziono , rileggendo gli scritti “ammassati “sulla scrivania. Devo lavorare sulle citazioni, ma ormai , forse, sono in dirittura di arrivo. Il mio lungo MURALES CASTELNUOVESE me lo sto gustando…lo rileggo poco per volta, e lo gusto come un vecchio whisky . Il fascino incredibile di questa avventura letteraria tutti i volti, i soggetti bè sono anche “metropolitanizzati” e per questo i miei “editor”, si ho due “editor”, i miei nipoti Flavio e Flaminia Leggeri. Flaminia mi corregge i passi successivi e i viaggi fantasiosi mentre Flavio , ahimè, i “congiuntivi” e l’architettura della pagina.
Sono felice di aver avuto l’opportunità di scrivere, devo terminarlo, per poi condividere questa esperienza con altri , forse, pochissimi Castelnuovesi.
Sto controllando che ogni parola abbia la sua giusta collocazione, per questo leggo senza fretta, cercando di comprendere bene il significato di ogni frase che mi trasmette l’energia di chi riesce a vivere veramente il cammino e realizza il sogno di trasferirlo agli altri attraverso le parole, così da rendere la “strada dei Murales ” infinita, nella speranza di passeggiarvi nuovamente.
E’ solo una parentesi
E’ un’ora di riflessione e mi approprio
di metafore e strumenti.
Ora il mio lirismo è prigioniero
in un cerchio di rose
rosse come infuocate armate
e avanzano petali di parole,
regimenti di sogni,
che sono pronte a combattere contro
la repressione della libertà.
Ho il lusso della fantasia
per correre dietro le nuvole
cariche d’ideali.
A volte ,
solo certe volte,
quantifico le emozioni che sono voci e gridi
così
come l’eterogeneo collettivo
delle note che occupano gli spazi e le righe
in assemblea permanente
nel pentagramma della mia anima.
A volte, le invertebrate note
si nascondono nei colori della mia terra
e le parole e l’immagine
del vecchio neorealismo
offusca l’esordio di questa strana parentesi
inserita e , forse, inopportuna
nel discorso di un vecchio castelnuovese.
Castelnuovo, Noi i ragazzi di via Coronari.
Amici miei, siamo quelli che abbiamo intrecciato i nostri sogni
come i vimini di un canestro
e, poi, li abbiamo riposti, nascosti
così lontano dalla vita vera.
Erano le inutili verità
rifiutate da noi adolescenti
che sapevamo annegare nel pane
i fiori del nostro sorriso.
Ora siamo diventati realtà dei sogni dei nostri padri
e artisti nel raccontarci una vita dispersa
nelle difficoltà di un percorso asfaltato da incognite.
Amici miei ora il sorriso
e il sospiro (soddisfatto?) di essere arrivati nell’oasi dei ricordi
quelli da noi sussurrati e nascosti tra sassi di via Coronari.
Ricordate?
Allora ci è stato impossibile
Far volare i nostri aquiloni che, oggi, ritroviamo
Se un Castelnuovese abita a Roma, ve ne sono moltissimi, nei fine settimana o per qualsiasi altro motivo decide di lasciarsi alle spalle rumori, stress e cemento dove andare se non in Sabina . E’ innegabile che la mente e il corpo si distendono immergendosi nel “morbido” paesaggio collinare , ma come descrivere , trovare le parole, il piacere di “affogare” gli occhi e l’anima tra gli uliveti . Tornando in Sabina , a Castelnuovo, ritrovi sepolti sotto una strato spesso di fogli polverosi, migliaia di immagini archiviate nella memoria. Questi fogli si sono stratificati e appiccicati l’uno all’altro, ma è ancora leggibile lo scritto. Qui a Castelnuovo ritrovi i volti del passato vedendo i giovani che corrono per la piazza. Certo a Castelnuovo , tappa intermedia tra passato e futuro, scopri che puoi ancora incontrare un sorriso e chi crede ancora nella stretta di mano. Si , qui a Castelnuovo puoi incontrare ancora un sorriso che si allarga e ti viene incontro per una stretta di mano per dimostrare , a me, che esistono ancora ricordi e voci che hanno segnato , inciso, le notti castelnuovesi senza lampioni. Disperdi l’ansia quotidiana, ma ricordi e rivivi l’ansia di guadagnarsi il futuro , proprio qui dove hai costruito il timbro della rabbia e lo slancio per la lotta.E’ qui che mi chiedevo cosa ci fosse oltre l’orizzonte, ma non è questo il giorno, oggi, per essere l’archeologo del ricordo.Ormai, forse, solo la Poesia ha un effetto tellurico e carnale che sa trasformare il mio tempo. Il “tempo differente” in tempo di Poesia; di salvezza e di recupero di tutto ciò che l’uomo perde nel suo allontanarsi dall’infanzia, beata età dell’innocenza, che nella memoria poetica diventa un luogo di simboliche appartenenze. Qui a Castelnuovo, le fragili figure dei sogni rivivono , sono ferite, le più insanabili ferite, fatte di carne e di sangue. Ferite, sogni feriti che incontro nei vicoli di Dedalo (Castelnuovo) con un destino , un tragico destino di dolore, ma forse questa è una storia di ordinaria follia dove il pathos si genera in stigmatiche narrazioni che, poi, riesco sempre a diluirsi nella “retorica dei sentimenti”. Ai primi segni di pioggia va in frantumi, nel mio ricordo, il mondo arcadico, bucolico, ma fragile come un presepe di cartapesta. Ora a Castelnuovo regna la stirpe della “razza carnefici”, a Castelnuovo sono escluso, sono l’intellettuale-poeta, con la testa tra le nuvole e nel cuore i versi di una poesia. Si, è vero riesco ancora a sentire tra i vicoli di Dedalo le canzoni ingenue e sentimentali dell’anteguerra. E’ ora di andare ,ma resterò sempre col cuore castelnuovese. E ora lancio lo sguardo verso questo cielo carico di nubi e di spazi azzurri , sembra un cielo di Raffaello, dove le leggi della natura mescolano la vita e morte anche nel misto colore di un pomeriggio qualunque passato qui a Castelnuovo.
Castelnuovo, noi che siamo andati via.
Noi castelnuovesi che abbiamo viaggiato dietro la polvere
alzata dagli zoccoli dei cavalli del padrone.
Noi che abbiamo bevuto l’acqua del nostro fiume Farfa
e mangiato il pesce pescato in quelle Gole
maestre del nostro nuoto .
Castelnuovo , siamo andati via
seguendo la luna del mattino
tra gli sguardi nascosti dietro le finestre.
Siamo andati via cercando il sole,
il suo nascondiglio dietro Fara.
Siamo andati via , non ricordo, o non voglio ricordare la stagione
dei silenzi, madre dei nostri mille perché.
Siamo andati via noi che conoscevamo
il suono della cedra solo dal racconto dei vecchi castelnuovesi
guerrieri reduci di assurde e folli guerre in terre lontane.
Siamo andati via , noi poveri tra i poveri,
accolti da Pasolini e da Mamma Roma.
Siamo stati neorealismo e protagonisti
di pellicole in bianco e nero.
Castelnuovo, noi torniamo con le nostre cicatrici e i nostri racconti.
Noi castelnuovesi abbiamo nostalgia
dei vecchi sorrisi , dei volti amici,
siamo tornati con lo zaino ancora pieno di perché.
Siamo tornati alla ricerca dei suoni e voci antiche,
quelle conservate in angoli chiusi e bui.
Siamo tornati per rileggere lapidi a noi care.
Castelnuovo, siamo tornati ora
tra sguardi estranei alle nostre cicatrici.
Eppure, Castelnuovo
noi non siamo mai andati via
perché abbiamo nelle nostre vene il tuo sangue.
Torniamo a prenderci e testimoniare quel che nessuno
potrà mai riscrivere o certificare: la nostra Storia.
La Storia quella che abbiamo lasciato
chiusa dietro le nostre vecchie porte.
Castelnuovo, si quelle porte dove aspettavamo
di uscire dietro i passi certi da seguire.
Castelnuovo, siamo tornati forti con il coraggio di terminare
l’inverno e l’amara stagione dei rancori e dell’odio.
Castelnuovo, siamo tornati per testimoniare,
per essere humus della nostra Storia .
Castelnuovo, riportiamo il tuo sangue
per nutrire il sogno vecchio e nuovo
di un Castelnuovo futuro.
Il volto senza titolo
È l’astratto segno in una cornice oscura
Divisa da un’introspezione psicologica
E dal suono primitivo del battere le mani
In mille riflessi
Si
Ho dimorato nell’inconscio
Dove
Il suono e l’armonia
Sono una narrazione di ombre rubate
Ai sogni di geometrie e geografie
Di scarabocchiati ritratti
Su di uno scarto di pensiero
Di trame d’amore
Affogo nel piacermi agitato
Mentre resto
Annoiato nel nulla
Ora sono entrato in un meccanismo ,perverso, di un’evoluzione continua.
SERA CASTELNUOVESE
La dignità è un fiore
che torna la sera.
La sera castelnuovese,
è come un evento letterario
vi sono i frammenti dei sorrisi,
luce di paradossi,
baci e fiori di campo
e la mia trasgressione
di un materialismo infinito.
Così la sera estiva è consumata,
mentre emerge la notte con le sue regole silenziose.
Ecco ora s’è spenta
anche l’ultima luce, dolce e supplichevole
come una voce umana.
Troppo umana tutta
questa sera castelnuovese.
Adesso nell’aria, c’è un vellutato riposo
di palpebre abbassate.
Castelnuovo, lo ami sempre di più…..
Finche non si arrende.
Ed ora nel buio io mi trovo ,come Telemaco, in un godimento dissipativo in riva al mare.
P.S. nota a piè pagina .
“Quale è il più grande peccato dell’uomo? E’ dormire di notte, quando l’universo è disposto a lasciarsi guardare.”(Lilaschon)
Castelnuovo,la nostalgia leggendo Cechov
Si , per avere nostalgia
Devi avere, possedere , una casa,
ma, ora, i miei ricordi sono di un rosso sbiadito
e io mi lascio cadere addosso la sera
mia compagna fedele, essenziale madre dei sogni.
La mia anima
ora è
Simile al vetro della finestra
che raccoglie le gocce di pioggia.
Nostalgia è il mio veleno Lucifero
È lui il padrone del foglio bianco
Che io cerco inutilmente di incidere con la penna rossa.
Proverò, ancora una volta, a disegnare Cechov
E “La signora con il cagnolino”
All’interno della mappa arancione
Inchiodata alla mia anima.
Ora lascio Cechov in un mare tropicale
Mentre io torno a creare un nuovo sogno
Per una casa castelnuovese inesistente.
Luna Castelnuovese. (1978)
Si muovono lentamente le foglie
come timide onde al soffio della brezza
mentre la luna, la sua faccia bianca
trafigge la fragilità dei pensieri.
Le (romantiche ) case di Castelnuovo
producono sogni, incompiuti
lontani, non al passo del tempo veloce.
Castelnuovo,
se il silenzio diventa una melodia per l’anima,
e mi segue per le vie di Dedalo, sempre uguale,
vado a contare i sogni e le lacrime
in questa notte senza un sussulto
mentre cerco i tuoi occhi dispersi nel corteo delle stelle che seguono la luna.
E pur mi associo a un sogno collettivo per il nulla ,
per, poi, ritornare nella certezza delle tue vie ,
e tu
Dedalo ,
sempre uguale, che mi segui nei miei ricordi
per godere
mentre annego nella faccia bianca della luna castelnuovese.
Né surreale , né metafisico
Portate i “fallacciani” al padrone
Castelnuovo, l’uomo servizievole che, camminando, aspetta di mangiare i “FALLACCIANI” del padrone.
Il “Vero sindaco”, quello ombra, merita l’omaggio:” E il servo devoto gli rifornisce la tavola con deliziose primizie.”
E’ questa l’immagine di una quieta giornata castelnuovese senza tempo. La resa, quasi pittorica, del gesto servile, minuziosa nei dettagli e sapiente nei colori dell’offerta dei “fallacciani” . Quadretto che appare in perfetto equilibrio con l’idea struggente della vita che, in continuo divenire, anima e illumina di senso, contenuti e spessore, la realtà del nostro piccolo Borgo.
E se anche una bugia
Può essere una verità
Sarà come parlare
Della dialettica di Platone
Con uno sconcertante
Essere
la mente e destino da retrovie,
Appunto,
è navigare le bugie per trasformarle in verità …apparenti.
Il servo che guarda sgomento il “ cesto pieno di fallacciani” che , ahimè, sfuggitogli di mano è il simbolo di un tempo che evidenzia e sottolinea la ,triste, verità.
È lui il” tuo padrone”: rendigli omaggio.
E ,in fine, il servo con la cravatta ha gridato :
”PORTATE I FALLACCIANI AL PADRONE”.
Mentre uno stormo di uccelli volteggia attorno al campanile e l’aria della sera si fa umida e profumata. Ora sembra avverarsi, quasi vicino, il sogno del servo fedele . Sogno che, da molto tempo già assapora il servo e che, forse, un giorno anche lui assaggerà , finalmente,
il“ FALLACCIANO ” del padrone.
I BASTIONI di Castelnuovo.
Le distese arate
Erano come seni
Della madre che offre la vita
Alle labbra del bambino.
L’anima lasciata sui bastioni di Castelnuovo,
mi allontana dalla giovinezza.
Lascio i libri , e coagulo l’attimo
del “prima” e del “poi”.
La lotta e la clemenza infinita
Sono la traccia per il dialogo con me stesso.
Ora uscirò illeso da poesie sconosciute.
I GRAFFITI di CASTELNUOVO
Ho contemplato le facciate di Castelnuovo
Ho memorizzato, cercato, ogni dettaglio
Ho inciso tutto nella mia memoria
Ho registrato i suoni, grida, i pianti, i singhiozzi e i gemiti
Ho evidenziato i colori del giorno e della notte
Ho scritto Castelnuovo nel mio muro degli appunti.
Ecco, ora i sogni stanno fuggendo dalle mie mani.
P.S.
Castelnuovo, i suoi bastioni
Dall’umile casa della mia semplice giovinezza, ricordo le scale buie, le stanze piccole e basse, dove si respirava la dignitosa povertà. Non vi erano tende di seta blu con risvolti cremisi, non si serviva il caffè agli ospiti in visita. Era questa la mia casa, la casa dell’infanzia, la mia infanzia . I libri furono i miei canali satellitari e Montale, Ossi di Seppia, la mia navicella spaziale. La semplicità dei rapporti , il rapporto sociale, era una condizione , inconsapevole, ma fondamentale di una vita serena .
Possiedo ancora Ossi di Seppia, la III ristampa del 1954 Ed. Mondadori.
dal libro di Franco Leggeri-“Castelnuovo, la riva sinistra del Farfa”
Testi selezionati da Tutte le poesie –Editore Mondadori-
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes) nasce a Firenze da padre ebreo il 10 settembre 1917. Qui compie gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere (Storia dell’arte). Battezzato valdese nel 1939, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fugge in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Finita la guerra si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione, e unisce all’insegnamento un’intensa attività di collaborazione a riviste politiche e culturali.
Fare e disfare
La foglia tornava all’albero e la nuvola al ramo.
Il ricordo coronava le vecchie case.
Il sangue abbandonato faceva piangere.
Si muravano nuove case, altre opere.
Leggi dolorose guidavano la città.
Nel museo brilla la fiala delle tombe e la cenere
che il vento agita agli acrotèri
è delle guerre spente ma è già seme.
Si mutano invisibili i pensieri,
storia e speranza insieme è quanto fu attimo e pianto,
dall’incertezza nasce la determinazione,
ma dalla volontà buona la voglia di non essere
e dal piacere di morte la tenera foglia.
Tutto sopporta tutto.
E si vorrebbe
cedere, uscire, non essere più.
Ma ancora dieci passi prima della scarpata
prima del piombo in cuore
ancora dieci attimi prima della corsa ultima
nella luce del fosforo
ancora dieci anni per chiedere la pietà.
Ma anche per rivivere e lavorare
e disperare per rivivere
morire per lavorare
disperare per morire
lavorare per rivivere.
Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
I destini generali
È vero che sono stanco:
questo scendere scale e salire
deride, finché uccide, gli stanchi.
Avere negli occhi pomeriggi interi
soli agri, irrazionali realtà!
Se nemmeno l’augurio mi dà gioia
allora sparire diviene necessario.
Se la gioia non mi vince
rovinando sulle querce
lavando le scogliere
invadendo la fronte
il rancore dell’inganno
e danno e pianto divorato e spento
anche distrutte queste labbra
e sciolti in creta gli occhi tanto ansiosi
veleno saranno e vergogna
nelle vene degli altri
e mai lasceranno le menti!
Secolo di calce e fluoro, bava
di aniline e corpi come lava
di visceri: ecco i cordiali aperitivi
con gli assassini e la valutazione
obiettiva del niente… Se non trionfo
dureranno eterni,
saranno in uno che è me stesso, me
sempre sopravvissuto.
Immortale io nei destini generali
che gli interessi infiniti misurano
del passato e dell’avvenire, io pretendo
che il registro non si chiuda
che si cerchi ragione, che si vinca
anche per me che ora voce mozza vo,
che volo via confuso
in un polverio già sparito
di guerre sovrapposte, di giornali,
baci, ira, strida…
Ragione degli anni
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
La partenza
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire,
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
Il presente
Guardo le acque e le canne
di un braccio di fiume e il sole
dentro l’acqua.
Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
Il mio verbo è al presente.
Questo mondo residuo d’incendi
vuole esistere.
Insetti tendono
trappole lunghe millenni.
Le effimere sfumano. Si sfanno
impresse nel dolce vento d’Arcadia.
Attraversa il fiume una barca.
È un servo del vescovo Baudo.
Va tra la paglia d’una capanna
sfogliata sotto molte lune.
Detto la mia legge ironica
alle foglie che ronzano, al trasvolo
nervoso del drago-cervo.
Confido alle canne false eterne
la grande strategia da Yenan allo Hopei.
Seguo il segno che una mano armata incide
sulla scorza del pino
e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.
***
Era la guerra, la notte tremavano
nelle credenze i cristalli al ronzio
delle ondate da ovest ad oriente
o a sud, verso l’Italia. Chi ero io
e tu chi eri? Cominciò così.
Lungo e grigio era il lago di Zurigo
e i tram celesti nell’aria di neve.
Une tache de sang intellectuel
Una macchia di sangue intellettuale
che il sole non asciuga mai. «Oh, che cosa vuoi fare!»
mi gridano i compagni coraggiosi
alti tra le bandiere e le sostanze reali
della festa di corpi naturali
di lotta e di amor vero.
«Voglio esistere e voi perdonatelo»
rispondo io, di quaggiù, dalla segreta.
«Anche come il viscere della bestia stracciata
anche come il sangue rappreso nella polvere.
Anche il cieco nato può in sé vedere il lampo
e parlarne con gesti imperfetti
e il suo discorso in catene
può atterrire e può dissuggellare.
E chi sempre ha negata l’avventura
può non lontano dalle nostre case
disvelare una terra di miracolo.»
«Oh, cosa aspetti» mi gridano i viventi
impetuosi ancora tra le vendemmie.
«Passa il tuo giorno» gridano, bocche al sole.
«Nessun orgoglio» rispondo «amici miei cari!
E mi sarebbe dolce essere anch’io
dove voi siete. Ma a ognuno le sue armi.
A voi il fuoco felice e il vino fraterno
a me la speranza acuta dentro la notte.»
Forse il tempo del sangue
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
Parabola
Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliare
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.
Breve biografia di Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes) nasce a Firenze da padre ebreo il 10 settembre 1917. Qui compie gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere (Storia dell’arte). Battezzato valdese nel 1939, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fugge in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Finita la guerra si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione, e unisce all’insegnamento un’intensa attività di collaborazione a riviste politiche e culturali. Dopo il 1957, anno in cui lascia le file del Partito Socialista, continua la sua partecipazione alla vita politica italiana da posizioni della sinistra non ufficiale. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo: Foglio di via e altri versi (1946), Poesia ed errore (1959), Questo muro (1973), Paesaggio con serpente (1984). Muore nel capoluogo lombardo il 28 novembre 1994.
Fonte –AVAMPOSTO- Rivista di Poesia- Reggio Calabria
Contatti-Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Antonella Sbuelz scrittrice e poeta:”Chiedi a ogni goccia il mare “
Antonella Sbuelz scrittrice e poeta è nata e vive a Udine. Insegna da molti anni in un Liceo Scientifico.Ha esordito in versi, ma poi ha scritto racconti lunghi “Amori minimi” (Mobydick, 1997) mentre il suo primo romanzo è “Il nome nudo” (Mobydick, 2001).Nel 2007, per Frassinelli, è uscito il secondo romanzo, “Il movimento del volo” (Premio Biblioteche di Roma, Premio Predazzo, Premio Caterina Percoto; Premi Selezione Rhegium Julii, Domenico Rea) la cui storia si snoda attraverso il corso dell’intero Novecento.
ONDE DI SUONO
Amavi ogni singola parola, ma di un amore poco corrisposto. Erano ponti minati i ponti I punti fra sillabe e suoni, fra suoni e nomi detti tutti interi. La tua voce zoppicava in mezzo ai denti spingendo fuori desideri muti, moncherini di pensieri mutilati. Però non ti arrendevi. Ritentavi. Radunavi risorse di fiato, indossavi la tua dignità in una muta dolorosa. Staccavi dalla sua buccia d’aria la polpa del senso di ogni cosa. Ma il tuo cuore ignorava la balbuzie, e la matita quando disegnava dava vita a ogni onda del suono: versi di uccelli, nitriti dei cavalli, il rombo di un’auto o un aeroplano. E personaggi dalla bocca muta. Tacevano, ma dandosi la mano.
LA PAROLA TORNARE
Ma torneremo, dicevi la parola era fragile. Tremava. E forse rivedervi te bambina: il vento si gonfiava in onde e nubi, i passi dei profughi in fila erano lenta conquista nella conquista di un domani astratto che prometteva la normalità. È facile vederti anche da qui: calzette bianche, scarpe impolverate, le dita che tormentano, una crosta sopra un ginocchio sbucciato. La sovversione dell’infanzia sta nel cucciolo che hai regalato senza volerlo regalare: il suo miagolio ti ha inseguito fino a farsi miagolio di bora e mare.
Torneremo, dicevi. Torneremo.
E finalmente ieri sei tornata. Ti abbiamo riportata di nascosto. Se non profuga, di nuovo clandestina. Sopra il tuo angolo d’Istria soffiava un vento gentile. Il golfo pungeva di luce. Sei scivolata in acqua con dolcezza: un brivido di polveri leggere dentro la sera che rabbrividiva. E si è fermata la mano che torturava il ginocchio. La fila ha ripreso a marciare verso un’idea di domani. Il tuo gatto ha ripreso a miagolare. Oltre il buio che ci scopriva nudi, si aprivano nuovi ritorni nella parola tornare.
RIMANI
Libera dall’abitudine lo sguardo, dall’usura dei giorni i tuoi pensieri. Stacca il cielo di oggi la prima nube vista da bambina, dal grigio di questa neve sfatta il candore della tua prima neve. Lascia che sotto i tuoi piedi mettano erba i prati elementari, i padri dei padri dei prati. Ritrova in questa notte di febbraio le forme del vento e del buio, le voci dei gelsi di confine. Congeda i nomi: i tanti, troppi nomi. Attraversa, e fatti attraversare. Ricorda l’innocenza e il suo tremare. Chiedi perdono alle cose. E infine r imani. Respira. Nel cuore del gelo che si spacca, riconosci il profumo delle rose.
Antonella Sbuelz scrittrice e poeta è nata e vive a Udine. Insegna da molti anni in un Liceo Scientifico.Ha esordito in versi, ma poi ha scritto racconti lunghi “Amori minimi” (Mobydick, 1997) mentre il suo primo romanzo è “Il nome nudo” (Mobydick, 2001).Nel 2007, per Frassinelli, è uscito il secondo romanzo, “Il movimento del volo” (Premio Biblioteche di Roma, Premio Predazzo, Premio Caterina Percoto; Premi Selezione Rhegium Julii, Domenico Rea) la cui storia si snoda attraverso il corso dell’intero Novecento.
Greta Vidal (Frassinelli, 2009; si concentra invece su un momento controverso del primo dopoguerra: l’occupazione di Fiume dal parte di Gabriele D’annunzio e dei suoi legionari. Nel 2013 Greta Vidal è stato pubblicato in Inghilterra ( Greta Vidal. A season in Utopia. )
E’ del 2016 “La fragilità del leone” (Universitaria Forum) , ambientato tra Venezia e laguna friulana nei sussulto finale della Repubblica Veneta.
Nel 2018 è uscito La ragazza di Chagall , imperniato su uno dei momenti più cupi del nostro passato: la promulgazione delle leggi razziali.
La ragazza di Chagall ha esaurito sette edizioni in pochi mesi e ricevuto diversi riconoscimenti ( Premio Fiuggi Storia, Rosa finalista Premio Viareggio, Segnalazione Premio Campiello, Premio Raffaele Crovi, Premio Raccontami la Storia, Premio Città di Arce.)
A fine aprile 2021 è uscito Questa notte non torno ( Feltrinelli ), romanzo di formazione che racconta la fatica di crescere, intrecciando le vite di due adolescenti diversissimi fra loro. Sullo sfondo, la rotta balcanica e i suoi drammi. Attualmente, Questa notte non torno risulta il romanzo più venduto su Amazon nel settore Letteratura per ragazzi sul tema migrazioni.
Fra le sue ultime raccolte poetiche, Transitoria (Raffaelli, 2011; premio Colline di Torino, Città di Forlì, Città di Alberona), La prima volta delle cose (Culturaglobale, 2016), La misura del vicino e del lontano ( Raffaelli, 2016; Premio Caput Gauri e Città di Moncalieri; finalista premio Acqui Terme e Raffaele Crovi; Selezione Premi Città di Como e Tirinnanzi ) e Chiedi a ogni goccia il mare (Stampa2009, 2020; Premio Camaiore).
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