MARINO (Roma)- Art x Peace-Progetto itinerante dove la pace è il tema principale-
MARINO (Roma)-Art x Peace-Dopo la grande partecipazione di pubblico ed enorme successo di ART X PEACE nella primo steep di Calcata L’ ASSOCIAZIONE CULTURALE ADRENALINA presenta:“ART X PEACE” 2° step artisti per la Pace.
Sabato 9 Novembre 2024 dalle ore 19:30 presso il Museo Civico U.Mastroianni di Marino. “ART X PEACE” è un progetto itinerante dove la PACE è il tema principale del racconto attraverso opere, performance ed eventi di ARTE, MUSICA, POESIA e SPORT all’interno di luoghi caratteristici e caratterizzanti, dove la socialità ed il messaggio che regalano le opere o i gesti, sono la base per la costruzione di un mondo migliore.
Artisti internazionali, testimonial sportivi e culturali arricchiranno con la loro presenza e con le loro testimonianze l’evento.
Sarà realizzato un docufilm che sarà testimonianza e messaggio.
Tutti gli eventi sono ad ingresso e partecipazione gratuita.
Programma evento:
ore 19:30 Inaugurazione mostra
presentano Mr Ferdy il Guru & Alessandro Gatta
Sigla d’apertura evento ART X PEACE, saluti istituzionali del Sindaco Stefano Cecchi, dell’assessore alla Cultura Pamela Muccini, del Direttore del Museo Alessandro Bedetti del rappresentante dell’associazione culturale Adrenalina, di Mario Placidini giornalista e autore del programma Borghi D’Italia.
Presentazione opere degli artisti partecipanti:
Ferdinando Colloca (autore dell’opera ufficiale dei campionati europei di Atletica Leggera Roma 2024),
Barbara Berardicurti,
Gilda Luzzi,
Angelo Cortese,
Stina Ekelund,
Gaetano Iaccarino,
Nicolo’ Caito
Michele Barbaro,
Carmen Carriero,
Michela Lenzi,
Nina Kulishova,
Julius Kaiser,
Marina Petroni,
Stefania Rossi,
Lidia Scalzo,
Matteo Tomaselli,
Kyrahm Chessa e Julius Kaiser,
Luca Di Bianca (Il Cacciatore Errante) Io sono del Mondo
+ ulteriori artisti in adesione alla mostra/evento
Apertura attività con la presentazione del libro “VOARCHADUMIA”.
In anteprima assoluta, dopo il lancio alla BuchMesse di Francoforte, il romanzo alchemico “Voarchadumia” di Carla Isabella Elena Cace approda ad Adrenalina.
Opera prima della giornalista e storica dell’arte, edito da Idrovolante, promette di affascinare i lettori con un viaggio coinvolgente tra mistero, storia e alchimia. Questo avvincente romanzo, ambientato su due piani temporali — un’indefinita contemporaneità romana e il XVI secolo a Venezia — esplora il profondo legame tra passato e presente attraverso gli occhi di due protagoniste femminili: Isabella e Loredana Tron.
Presente all’evento l’autrice CARLA ISABELLA ELENA CACE e reduce dal Premio Campiello, la super moderatrice Anna Laura Consalvi.
A seguire performance di body art di Nora Lux “TURAN” (progetto Octogon)
Installazione vivente “SKIN & PEACE fluo” del Maestro Ferdy Colloca.
Reading di poesie di Tonino Colloca tratte dalla raccolta “Olive Nere”, Mario Sandro Panico tratte da “L’intimidezza dell’infinito”, Alessandra Iannotta tratte da “Muse sciamane” e di Stefano Ambrosi.
Si ringrazia il Comune di Marino e tutta la Giunta, Il Direttore del Museo Alessandro Bedetti.
E ‘un’iniziativa volte alla valorizzazione della Regione Lazio, anche in modo da favorire la promozione e divulgazione dell’immagine della stessa e produrre importanti ricadute positive in ambito turistico ed economico sui territori interessati.
Si consiglia di parcheggiare le autovetture al Parcheggio Sotterraneo multipiano di Via Mons. Grassi aperto h24.
Quattro Poesie dalla raccolta MURALES CASTELNUOVESI
di Franco Leggeri
Franco Leggeri Fotoreportage-Castelnuovo di Farfa e i suoi colori-Biblioteca DEA SABINA-Brano da “Murales Castelnuovesi” di Franco Leggeri-Muoversi nelle intuizioni e immergersi nei problemi irrisolti . Era questa l’equazione che sia i bambini e sia i giovani castelnuovesi degli anni ’50 dovevano risolvere in assenza dei media : radio, televisione , giornali e cinema.I media che dovevano essere vitamina e “stimolatori” della fantasia e creatività per le giovani menti castelnuovesi non esistevano ancora per tutti, sino al giorno in cui fu aperta la “scatola magica” della “piccola-grande “ sala cinematografica “su nell’Acchiesola”, ora Aula consigliare .Questa sala fu una prima miniera della fantasia , in Bianco e Nero, per le giovani menti castelnuovesi. Fu il cinema, per la sua capacità di “parlare” ad ogni pubblico : dal proletario, la maggioranza di noi castelnuovesi, sino a quello “aristocratico” .Proprio per il suo linguaggio, il cinema è un luogo comune nel senso di condiviso. Il cinema è allo stesso tempo un formidabile mezzo per la trasmissione, sia di mentalità che di ideologie, sia che si presenti nella forma di documentario e sia come finzione. Con il cinema, molti di noi giovani scoprimmo la grande città e l’esotismo di luoghi lontani. Scoprimmo le melodie delle colonne sonore, la sottolineatura e il clima da suspense che solo la musica e il gioco delle luci sanno evidenziare. Il vento prese “voce” e scoprimmo il canto dei fiumi e del mare. Ho nella memoria una presenza reale dell’attesa per l‘inizio del film, poi il silenzio e le immagini “enormi” proiettate sullo schermo che ci raccontavano una storia . Devo dire che ero affascinato! Ricordo, per esempio ,la “fantasiosa e furbesca” storia di un assalto alla diligenza e gli spari delle “colt”. E così che provai a risolvere l’equazione del paradosso dell’algebra astratta. La fantasia veniva , man mano, trovando i passaggi giusti nelle semplificazioni, tra realtà, finzione ed emozione, sino al coinvolgimento e all’identificazione nei personaggi del film . Fu allora che scoprimmo il Far West ( poi imparammo che il West era l’Ovest delle grandi praterie) e fu così che riuscimmo, in questa “Grande-minuscola sala”, a provare l’emozione di essere partecipi di una avventura sino a scoprire che , alla fine, “arrivava sempre il settimo cavalleria” e tutto aveva un lieto fine.
P.S. “Su nell’Acchiesola” noi “monelli de Castellu” quelli della generazione del dopoguerra abbiamo votato per la prima volta, perché “l’Acchiesola” era adibita, sin dall’800 , a sede di seggio elettorale. E’ qui che per molti Castelnuovesi ebbe inizio la speranza del “biennio rosso” del 1919 -1921 ,con il voto al Partito Socialista Italiano di Filippo Turati . In questa sala fu pronunciato, per la prima volta a Castelnuovo, il voto alla Lista “Falce, Martello e Libro”. Di queste elezioni del 1919 ne ho raccolto e trascritto la testimonianza diretta così come mi è stata raccontata dal nostro compaesano Fiore Tancioni che , assieme ad altri compaesani da me intervistati, ne fu testimone . Ma questa è una storia che tratto in un capitolo del libro “Castenuovo, la riva sinistra del Farfa”.
Franco Leggeri, Castelnuovese
Quattro Poesie dalla raccolta MURALES CASTELNUOVESI
di Franco Leggeri
Se Castelnuovo (Archivio 1981)
Castelnuovo,
Parole meravigliose, se le saprò vestire e dipingere, con le foglie degli ulivi , nella dolcezza della sera.
Castelnuovo, se saprò descrivere, scrivere e incidere, il fascino raffinato dei colori, così come sono tradotti e vissuti nella spiritualità dell’anima.
Non ho un teschio in mano, non ho i dubbi di Amleto, non scriverò i tormenti, i miei dubbi, non sono Shakespeare.
Non trovo statico il legittimo dubbio che vaga , da sempre, nel labirinto di Dedalo.
Castelnuovo, non è il Castello di Elsinore o quello di Dracula. Castelnuovo è, a volte ,un inquieto schema di vie dove si rincorrono i pensieri partoriti da uno spirito notturno per un progetto del bello.
Castelnuovo è un pensiero filtrato, Castelnuovo è potenzialità: non idea, ma sostanza.
Il fuori posto della mia poesia ,Castelnuovo se lo chiami “musica” o “poesia”,
( neanche Cartesio mi aiuta ad uscire dai meandri del nozionismo)
Le ferite aperte sono il suono di una domanda antica, la pericolosa,( gesuitica?), insoddisfazione. Eppure la notte si adagia , sempre, sui tetti e il “genio maligno” fugge, finalmente , dalla mia esistenza.
Conosco la luce di Castelnuovo, Castelnuovo non è la mia “provincia oscura”. Castelnuovo è una divinità ed io ai suoi piedi ho lasciato i miei sogni, i miei sguardi, i miei pensieri, i miei versi.
Castelnuovo: ora non confondo più il buio con la tenebra. Oggi, ora non ho più paura della notte.
Castelnuovo, i colori e l’ideologia.
Questa mattina i colori di Castelnuovo
si disperdono come stelle filanti.
Colori profumati, impercettibili, e nascosti
tra il linguaggio degli ulivi.
E’ questa una mia visione interiorizzata,
ma sempre in cerca di un approdo sicuro.
Si, Castelnuovo non può essere un racconto sommario
ma, come le sequenze chimiche , deve espandersi
in una litania nell’immenso cielo.
Castelnuovo diventa una litania senza amen,
e senza consistenza, un oggetto fantasma
all’interno di una storia inaccessibile
che si frantuma come stelle filanti
nell’intimità di esperienze sofferte e malate
che diventano , esse stesse, oggetti appesi alle pareti del mio io.
Castelnuovo mi tenta ancora al peccato dell’illuminismo,
e così l’ideologia diventa il mio luogo del “niente”,
l’elemento misterioso di una poesia forgiata con i colori della pietra.
Colori castelnuovesi e tristezza ideologica
che sono come i dubbi di Amleto
in cerca di Ofelia che disperde, così tremante, i colori
della sua fragile innocenza.
Piange Castelnuovo in cerca dei colori,
sepolti trai vecchi tronchi deposti a terra ,
terra scura come i sogni svaniti all’alba
di questa poesia, ora diventata logora e affaticata
mentre rincorre il colore di questo giorno
sempre uguale agli altri.
I vecchi libri
I vecchi libri sono come sculture
Di una vita del dopo
Sono ritagli di tempo
E risultati di calcoli per una rotta tracciata
alla ricerca di sentieri che segnano l’anima.
Sentieri solitari e sospesi sulle emozioni
Che si anellano all’interno di un cerchio
Di passione e scrittura.
Ed è così, mentre i gatti si addormentano
Sull’autobiografica di un’oscura psicologa analista,
Che io mi interrogo sui Dialoghi, ormai scheletri, di Platone,
Si, proprio quelli
Che ho sepolto
Nei miei appunti tra i libri, nascosti in alto sugli scaffali.
L’Estate castelnuovese (1978)
Dai campi si leva
Un coro serrato di cicale
Il rosso , taciturno, dei papaveri
Veglia il riposo delle poche parole
di desiderio silenzio.
Poi, la sera ,lo sguardo abbraccia fosforescenti geometrie
Che nascono dall’immobilità della stanchezza.
Ascolto note di avventure eccessive, affogate in follie singolari.
I miei occhi (pallidi) sono sguardi (stanchi) ai margini dei campi.
Ora,
Del giorno, che corre al tramonto, ne dimentico l’alba.
Fotoreportage di Franco Leggeri -La Cappella di Santa Brigida di Svezia è stata costruita nel territorio di Castelnuovo di Farfa, si accede dall’Agriturismo Zucchegni, proprio sui ruderi dell’antico “ripostiglio” o “capanno”, dove Santa Brigida aveva trovato posto nel periodo in cui si trovò a Farfa. Quei ruderi, sopravvissero alle intemperie dei secoli successivi, e nel 2007 furono portati a termine i lavori per la costruzione della Cappella, che è ora luogo di culto per i gruppi che frequentano la Casa e per quanti desiderano recarsi sulle orme di Santa Brigida.
Nel corso di questi anni, le suore hanno continuato a pregare e a lavorare in questo luogo e il ricordo della figura di Santa Brigida è andato sempre più crescendo; nel 1993 il Santo Papa Giovanni Paolo II, visitando la Diocesi di Sabina-Poggio Mirteto, il 19 marzo, si fermò a Farfa, dove benedisse una statua di Santa Brigida. La statua è posta sul piazzale antistante la Cappella delle Suore, presso la foresteria del monastero.
Breve biografia della Santa-
Santa Brigida di Svezia, Brigida o Brigitta o Birgitta, nacque nel giugno 1303 nel castello di Finsta presso Uppsala in Svezia; suo padre Birgen Persson era ‘lagman’, cioè giudice e governatore della regione dell’Upplan, la madre Ingeborga era anch’essa di nobile stirpe. la prima parte della sua vita fu quella di una laica felicemente sposata,ebbe ben otto figli. Il suo ceto sociale le permise di studiare. La vita di corte la mette in contatto con la travagliata vita sociale del suo tempo e con la politica europea. Ebbe grande influenza sui giovani sovrani e finché fu ascoltata, la Svezia ebbe buone leggi e furono abolite ingiuste ed inumane consuetudini, come il diritto regio di rapina su tutti i beni dei naufraghi, inoltre furono mitigate le tasse che opprimevano il popolo. Ma poiché non ha mai smesso di pensare alla vita religiosa, studia la letteratura mistica, legge molto, principalmente le Sacre Scritture. Questa fu la sua vita per oltre vent’anni, finché il marito morì nel 1344. Dopo un pellegrinaggio a Santiago de Compostela Brigida diventa una grande mistica, è anche una donna molto pratica, quindi non appena stabilita a Roma nella casa di piazza Farnese, la adattò per i pellegrini che fossero giunti dai paesi scandinavi, a cui si offrivano ospitalità e alta spiritualità. La sua vita era molto austera, totale la sua povertà. Brigida ha una natura forte e volitiva.Per il Papa e per l’Europa si sentirà spinta a partire alla volta di Roma in occasione dell’anno santo del 1350 e da lì non se ne andrà più.
Per Brigida ora è il momento della svolta. Decide di indossare l’abito cinerino del Crocifisso della Verna, simbolo di povertà e penitenza. Ha fondato un Ordine contemplativo femminile e maschile, l’Ordine Suore Brigidine del SS.Salvatore – la cui Regola venne approvata nel 1370 – che disgraziatamente fu spazzato via in seguito alla Riforma protestante in Europa. Profetessa dei tempi nuovi, questa grande santa scandinava, lavorò instancabilmente per la pace in Europa. Morì dopo lunga malattia nel 1373.
Fonte Suore Brigidine dell’Abbazia di FARFA (RIETI)-
L’Olio di Oliva nella Mitologia-Un mito greco attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi- “… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
ROMA Municipio XIII-La VILLA ROMANA delle COLONNACCE
– Fotoreportage di Franco Leggeri
Roma- Municipio XIII-Castel di Guido- Fotoreportage di Franco Leggeri –I visitatori che in questi giorni , a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, sono stati ospiti del GAR a Villa Romana delle Colonnacce e qui guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana molti ospiti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi , muniti di cartello con la relativa descrizione di Plinio, che si trovano nell’angolo in fondo all’area archeologica sono alcuni esemplari di : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato una occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
ROMA – Municipio XIII-Castel Di Guido – Villa Romana delle Colonnacce
Fotoreportage di Franco Leggeri -Anno 2005-
Castel di Guido- La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale.La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
Mariangela Gualtieri- L’ incanto fonico. L’arte di dire la poesia
Giulio Einaudi editore
Descrizione del libro di Mariangela Gualtieri «Lei, essa poesia, ha ritmica, ha melodia, timbro. Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha». «Ogni poesia implora un respiro che la dica». Dire la poesia non avviene sempre. Eppure anche nel dire la poesia consiste, da sempre, la poesia. Lo sapeva Carmelo Bene con il suo personalissimo teatro della crudeltà, lo sapevano i Romantici e i Surrealisti, lo sapeva García Lorca, quando trovava il suo duende nella musica, nella danza e, appunto, nella poesia a viva voce (hablada), arti tutt’e tre, sosteneva, che hanno bisogno di un corpo vivo che le interpreti. Lo sa bene, benissimo, Mariangela Gualtieri, che da quarant’anni «dice la poesia in pubblico», avvolgendo chi la ascolta in un «mondo orale aurale» che non ha uguali. Sí perché «spesso», come dice Gualtieri, i professionisti, gli attori, leggono il verso puntando «sulla sua componente razionale e di significato, trascurando tutto il resto». Nella sua «arte di dire la poesia», Gualtieri ci parla invece solo del resto. E per farlo trova un linguaggio nuovo e sorprendente: non un discorso sul dire la poesia ma una scrittura con il dire la poesia. Non concetti astratti, ma figure, immagini, sensazioni fisiche, echi. E analogie, fino a costruire un libro di poesia saggistica, a opporre visione a discorso, a parlarci vicino e alto, lontani dalla chiacchiera. E così: «Formule magiche schiacciate nei libri – solo al pronunciarle si fanno efficaci. E formule mantriche, solo in voce trovano compimento. E spartiti di musica, tutti, chiedono fiato, gole, dita per farsi forma sonora. Così ogni verso. Ogni poesia implora un respiro che la dica. Essere detta. Detta per bene in sua ritmica e melodia e timbrica e interni silenzi».
Breve biografia di Mariangela Gualtieriè nata a Cesena nel 1951 ed è una delle voci poetiche piú apprezzate della scena contemporanea. Nel 1983 ha fondato insieme a Cesare Ronconi il Teatro Valdoca. Da Einaudi ha pubblicato le poesie di Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (2003), Senza polvere senza peso (2006), Bestia di gioia (2010), Le giovani parole (2015), Quando non morivo (2019). E, per il teatro, Caino (2011) e Paesaggio con fratello rotto (2021). Per Einaudi ha inoltre pubblicato L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia (2022).
Descrizione del libro di Sandor Marai–Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: “una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione”. Tutto converge verso un “duello senza spade” ma ben più crudele. Tra loro, nell’ombra il fantasma di una donna.
Breve biografia di Sándor Márai, il patriota malinconico .
Articolo di Gian Paolo GRATTAROLA
Nel tracciare il profilo biografico di quello è stato indubbiamente uno dei più grandi scrittori del Novecento, ci si trova purtroppo a chiedersi chi era mai Sándor Márai. Perché è vero che, meritoriamente, l’editore Adelphi ha pubblicato in Italia tutte le sue principali opere; ma è altrettanto vero che egli rappresenta l’incarnazione di una concezione della letteratura troppo faticosa e impegnativa per essere digerita senza difficoltà dal lettore di oggi.
Nato nel 1900 a Kassa (oggi Košice), un estremo lembo dell’Impero Austroungarico ormai avviato al tramonto, da una famiglia ricca di passato e priva di avvenire, aveva nel sangue le radici di un’Europa che stava morendo per troppa nobiltà e troppo sapere, come racconterà tra il 1934 e il 1935 nel suo primo romanzo memoriale Le confessioni di un borghese. E ungherese lo resterà per sempre, sia quando si recherà in Germania allo scopo di frequentare la scuola universitaria di giornalismo, sia quando insieme con la moglie Lola sposata nel 1928 si trasferirà a Parigi e Londra in Italia e in Medio oriente come inviato del “Frankfurter Zeitung”. La percezione dolorosa che i cardini morali, che avevano sostenuto la civiltà aristocratica durante la stagione mitteleuropea, stanno per essere spazzati via dall’ansia di affermazione di una società borghese cinica e materialista innervano già le prime opere scritte in patria quali L’isola (1934), Divorzio a Buda (1936), La recita di Bolzano e Sindbad torna a casa (entrambi 1940), La donna giusta (1941) e La sorella (1946).
Quando, dopo essere sopravvissuto agli orrori della guerra e dell’occupazione nazista di cui fu fiero oppositore, assiste alle prime avvisaglie della non meno feroce dittatura sovietica, decide nel 1948 di lasciare l’Ungheria e inizia a girovagare tra Svizzera, Stati Uniti e Italia. Esule di un mondo in cui non riesce tuttavia a riconoscersi, la nuova forma di inquietudine di cui è prigioniero diviene il tratto essenziale e inconfondibile della psicologia dei protagonisti dei suoi più romanzi più importanti. Prima a San Diego, dove prende residenza, e più tardi a Salerno, dove si trasferisce quando il figlio János entra in rotta di collisione con i genitori assumendo la decisione di americanizzare il proprio nome rifiutando la sua discendenza ungherese, Màrai continua a scrivere nella lingua madre. In questo lungo periodo di esilio vedono la luce, tra le molte altre opere i capolavori che usciranno postume e faranno di lui uno dei maggiori romanzieri del secolo scorso: da Liberazione a Le braci, dal secondo romanzo memoriale Terra, Terra!… a L’eredità di Eszter, da Il sangue di San Gennaro a L’ultimo dono.
Romanzi che egli scrive non per comprendere la realtà, ma per fuggire da un presente che detesta e che non ci chiedono di comprendere l’autore, ma di seguirlo attraverso i suoi verbosi e interminabili monologhi, lungo le sue sfavillanti digressioni in cui si sofferma ad analizzare con grande finezza psicologica i personaggi in tutte le loro sfumature, a scrutare ogni increspatura dell’animo umano, a registrare ogni loro parola e ogni loro sospiro. Leggerlo e addirittura non cercar neanche di capirlo. Perché il chiedere risposte è la motivazione meno opportuna per andare a bussare alla porta della sua arte: si correrebbe inutilmente il rischio di non farsi aprire. E allora meglio ricorrere alle cinque dita dei sensi, affidandosi all’odore che si respira nelle abitazioni e per le strade delle sue storie, degustando i sapori delle sue trame, lasciandosi inebriare dalla musica e dall’eleganza di una scrittura sontuosa. Quando al duro fardello sopportato a causa delle sorti avverse della propria patria lontana si aggiunge il dolore della perdita della moglie e del figlio, Sándor Márai decide nel febbraio del 1989 di togliersi la vita. Mancano solo pochi mesi all’agognato crollo dell’impero sovietico e al definitivo affrancamento del popolo ungherese. Ma egli purtroppo non vi potrà assistere.
Brani dal libro di Franco Leggeri- “Murales Castelnuovesi”-
Disegni originali sono di Tatiana Concas
Brano dal libro di Franco Leggeri- “Murales Castelnuovesi”Scoprire, o riscoprire Castelnuovo, cercando di aver gli occhi disincantati, mi permette comunque di vederne l’anima del mio Dedalo la più popolare, la più vissuta dalla gente comune. Scopro e riscopro, nuovo punto di vista, dopo tanti anni i vicoli del mio “Borgo Dedalo”, dove ho trascorso l’infanzia e la mia giovinezza che, nell’età dell’incoscienza, appare eterna. Se da adulti, in modo crudo, ci rendiamo conto che la vita passa in fretta, ci consola il pensiero che l’eterno rimane non nella materia, ma nelle vibrazioni, nelle sensazioni che aleggiano intorno a noi e che percepiamo secondo la nostra sensibilità e i nostri stati d’animo. Ora, osservando i tetti , vale la pena ricordare e raccontare e magari riflettere su queste nuove sensazioni che danno i tetti di Castelnuovo. Quante cose sono cambiate in queste vie , tante persone ,attori nella mia fanciullezza, non esistono più, altre sono invecchiate e altre ancora sono lontano altrove a cercare una vita diversa . E’ strano cercare dai tetti, di aprirli, e vedere, nei ricordi, le persone che abitavano la casa, scoprire l’atmosfera, rivivere gli stati d’animo con occhi diversi, con esperienza ,“lunga esperienza della vita”, reinventare ed animare anche i più piccoli dettagli del quotidiano la vita semplice e minimalista di una volta.
Vedo le vie di Dedalo là dove diventano più ripide, più stette , gli incroci e giù per i vicoli e scalette e ancora piccoli cortili e scale buie, soprattutto d’inverno. Nel mio paese, nel mio Dedalo ora sono cambiate molte, moltissime cose forse troppe .Sono cambiate le persone, le case, anche le storie non sono più le stesse. Ma non il “Borgo Dedalo” , il mio Castelnuovo , quello carico di storie scritte su di epigrafi marmoree “inchiodate” nella mia anima. Queste storie, immutabili e solide, che parlano e raccontano alla mia memoria, come una canzone poetica infinita ,di un Castelnuovo tramontato per sempre. Il mio paese, Castelnuovo, il mio Dedalo è un posto così sconosciuto alla “nuova gente” che ora lo abita e lo “consuma” e che ne distrugge il verde e la sua storia. La “nuova gente” che non ha l’abitudine di menzionarne il nome del mio Dedalo. La “nuova gente” non può ricordare la musica , dolci suoni, che uscivano da ogni porta , non può godere il trionfo e la purezza dei sogni che nascondono i cuori carichi di emozioni che creano le case del “mio paese”.
Adriana Zarri-Poesie di una grandiosa pensatrice spirituale
Adriana Zarri” Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene.Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue.Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano la patria senza senso civico”.
Poesie
Dacci Signore il tuo mantello –
Arriveremo con i piedi sporchi
e ce li laverai,
come facesti con gli apostoli.
Guarda, Signore, al nostro autunno
e raccogli le colpe
come una triste vendemmia.
Lasciaci nudi e soli,
senza consolazioni ambigue,
senza inganni pietosi,
senza grappoli verdi.
Donaci gli occhi di Maria peccatrice
e, scaldaci con il tuo mantello.
I giorni sono brevi
e le nottate lunghe.
Il fuoco si spegne nel camino.
Le castagne
si sono fatte nere,
il letto, è gelido e deserto.
Dacci, Signore, il tuo mantello!
– Adriana Zarri –Tratto da “Il pozzo di Giacobbe. Raccolta di preghiere da tutte le fedi”
Piedi nuovi
Un Gesù biondo
custodirà vuote basiliche
impolverate
di ragnatele.
E l’erba
crescerà sopra le soglie
finché non torneranno
piedi disincantati,
piedi stanchi,
piedi sporchi,
piedi lavati
da te
nella tua ultima cena.
Finché non torneranno
piedi nuovi
sopra ai prati dell’Eden
dell’ultimissimo giorno.
Preghiera d’inverno
Ora è la morte,
Ma non è la morte:
è soltanto l’attesa.
Facci attendere, Dio, senza stancarci,
senza timore di morire per sempre.
Anche i colori sono trapassati
dal verde, al giallo, al viola,
al grigio.
Presto sarà la neve
come un immenso fiore bianco,
grande quanto la terra.
Il mondo è sbocciato di gelo
e il bianco è la somma dei colori
Dopo il fiorire e il declinare della vita,
l’inverno, o Dio, è la tua eternità.
E sulla neve
candide danze di angeli
e carole di santi luminosi,
che non lasciano impronta.
Aprici gli occhi, o Dio,
facci vedere ciò che non si vede,
facci danzare coi beati
e guardare i tuoi occhi:
più vasti
di una pianura innevata
più bianchi
di un gelido novembre
più caldi
di un fuoco acceso
in una notte d’inverno.
[da Il pozzo di Giacobbe. Geografia della preghiera da tutte le religioni, Camunia, Brescia 1985, pagina 260]
Questo è l’epitaffio che Adriana Zarri ha scritto per se stessa
Non mi vestite di nero: è triste e funebre. Non mi vestite di bianco: è superbo e retorico. Vestitemi a fiori gialli e rossi, con ali di uccelli. E tu, Signore, guarda le mie mani. Forse c’è una corona. Forse ci hanno messo una croce. Hanno sbagliato. In mano ho foglie verdi e sulla croce, la tua resurrezione. E, sulla tomba, non mi mettete marmo freddo con sopra le solite bugie che consolano i vivi. Lasciate solo la terra che scriva, a primavera, un’epigrafe d’erba. E dirà che ho vissuto, che attendo. E scriverà il mio nome e il tuo, uniti come due bocche di papaveri.
– Amo pregarti seguendo i ritmi stagionali Adriana Zarri –
In inverno
La preghiera è immersa nella vita e non se ne può scostare
di casa, di fuoco e di memorie.
anche la neve sembra calda guardata dal di dentro.
In Primavera
è timida, fatta di tenerezza e di stupore, come un amor adolescente che riscopre la vita.
La terra si riveste di verde
L’aurora si riveste di luce
abbiamo voglia di rifiorire
di continuare il ritmo della vita:
quel ritmo sempre nuovo
che a volte ci sembra sempre vecchio
In estate
è densa e forte e ha il calore
della passione matura e consumata.
è impregnata di terra e di sole
ha il biondo delle messi e l’odore
del suolo crepitante e delle more mature.
In autunno
prepara il riposo della terra
dove il tramonto s’incrocia con l’aurora
dove il sole si affoga dolcemente nella nebbia,
tempo della fede, del credere
tempo dei tuoi doni..
frasi sciolte di Adriana Zarri tratte dal libro Quasi una preghiera.
Musica “As Music in the Trees”
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori turchini e rossi
e con ali di uccelli.
…
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che ho atteso,
che attendo.
Pregare sei tu che preghi,
tu che respiri,
tu che mi ami;
e io mi lascio amare da te.
Questo verso della poesia “Pregare è un prato d’erba” tratto dalla raccolta “TU – quasi preghiere” rispecchia il rapporto personale ed intimo che legava la teologa Adriana Zarri a Dio. E non solo a Dio, ma a tutto ciò che la circondava e che avesse a che fare con la vita, a cominciare dalle rose del suo giardino e dalla gatta che si accoccolava sul suo grembo per finire alle questioni più scottanti della Chiesa e della politica italiana del secondo Novecento.
Il settore d’attività che diede ad Adriana Zarri maggiore notorietà fu il giornalismo. Da radicale antifascista con una particolare sensibilità per i problemi sociali, difendeva in modo convinto e convincente la libertà di pensiero. Visse in varie città d’Italia, soprattutto a Roma. Si trovò molto giovane a dirigere l’Azione cattolica italiana e scrisse articoli, recensioni e saggi per riviste e giornali come L’osservatore Romano, Rocca, Studium, Politica oggi, Sette giorni, Il Regno, Concilium, Servitium, Anna, Adista, Avvenimenti e MicroMega. Tenne una rubrica settimanale sul quotidiano comunista Il Manifesto dal titolo Parabole, che veniva pubblicata ogni domenica. Partecipò a trasmissioni radiofoniche e televisive per trasmettere ad un pubblico più vasto il frutto dei suoi studi e delle sue riflessioni. Rimangono in tal senso memorabili i suoi regolari interventi a Samarcanda di Michele Santoro. (2)
Dal settembre del 1975 fino alla sua morte, Adriana Zarri visse da eremita in Piemonte. Prima si ritirò in una casa ad Albiano d’Ivrea, poi si trasferì a Fiorano Canavese e infine, a partire dalla metà degli anni ’90, si stabilì a Strambino, in provincia di Torino. Il motivo che la spinse a fare una scelta così radicale non fu certo la delusione o il desiderio misantropo di isolarsi dal resto dell’umanità, quanto piuttosto il suo profondo bisogno di coltivare nella solitudine, nella preghiera e nel silenzio il suo rapporto di vicinanza con Dio e da lì continuare a svolgere la sua attività letteraria, critica e saggistica, perché “la solitudine non è una fuga: è un incontro”. (3)
Seguiva una rigida routine quotidiana: sveglia alle 6, poi colazione e recita delle laudi, disbrigo delle faccende domestiche e cura del giardino. Durante il giorno si occupava della corrispondenza e delle incombenze quotidiane e scriveva articoli per giornali e riviste. Nella sua cappella privata celebrava tutti i giorni la liturgia e a volte riceveva visite da parte di amiche, amici e ospiti. Preparava da mangiare nella sua piccola cucina, utilizzando perlopiù prodotti del suo orto. Nel pomeriggio e dopo cena si riposava, a partire dalle 22 iniziava il suo lavoro vero e proprio – pensare e scrivere – che proseguiva fino alle 3 del mattino.
Da teologa cattolica e attivista comunista riuscì a colmare il varco tra posizioni apparenti inconciliabili e a sviluppare una sua personale, peculiare teologia che convince per l’intrinseca coerenza. Prese le distanza da movimenti religiosi fondamentalisti come Comunione e Liberazione e l’Opus Dei. Forse la si potrebbe definire come rappresentante italiana di una sorta di “teologia della liberazione”. La sua scelta di vivere da eremita si inseriva nel solco della tradizione ascetica. Traeva ispirazione dai padri e dalle madri del deserto e per tutta la vita rinunciò in modo consapevole a titoli e glorie, potere e denaro. Ciò non le impedì tuttavia di dedicarsi allo studio di questioni teologiche e di immischiarsi nei dibattiti di teologia, anche nella sua funzione di membro del consiglio direttivo dell’ “Associazione teologica italiana.” Negli anni ’60 aveva partecipato al Concilio Vaticano II e il suo approccio alle cose religiose spesso non coincideva con quello delle alte sfere vaticane, cosa che da un lato la rese popolare, mentre dall’altro le causò non pochi problemi e inimicizie.
“Vive al di fuori degli “interessi mondani” – che piacciono invece molto ai clericali e al clero stesso – pur restando interessata alle sorti del mondo: non si era mai visto un eremita che apparisse in televisione o che scrivesse sul “manifesto.”, dice di lei la giornalista e politologa Giancarla Codrignani nella Enciclopedia delle donne (4)
La libertà è un concetto chiave che attraversa come un filo rosso tutta l’opera e la vita di Adriana Zarri. Ciò per cui a suo parere vale veramente la pena battersi è la libertà di pensiero svincolata da qualsiasi istituzione o ideologia. Zarri infatti si rifiutò di aderire al partito comunista e non prese mai i voti, anche se da giovane aveva spesso vagheggiato di farlo.
Continua Codrignani: “È diventata, anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, una delle più importanti testimoni di quella fedeltà al Vangelo che si coniuga – proprio in virtù di una verità che rende liberi – con la più schietta laicità.” (5)
Zarri nel corso degli anni si espresse più volte sul tema della parità dei sessi e sul cosiddetto “pensiero della differenza” delle femministe italiane. Riteneva che la differenza tra i sessi non dovesse scomparire o appiattirsi, bensì portare ad uno svolgimento dei compiti comuni caratterizzato da una coloritura maschile o femminile. In altre parole: “Fare le stesse cose in modo diverso.” (6) In un suo saggio sulla preghiera, ad esempio, sottopose a dura critica il modo di pregare arido, liturgico, ufficiale e senza cuore che spesso appartiene agli uomini, sostenendo che “lasciare la preghiera ai soli uomini significa distruggere la preghiera” (7); ma non fu tenera nemmeno con le donne, di cui osteggiava l’eccesso di sentimentalismo, secondo lei espressione di sottomissione, vittimismo e superstizione. (8)
Si schierò a favore della regolamentazione legale dell’aborto e nel 1981 sostenne la campagna referendaria a favore della legge 194, che riconosce alle donne il diritto di interrompere la gravidanza a determinate condizioni. A questo tema dedicò anche un libro (Dedicato a).
La sua vita da eremita è al centro del libro “Erba della mia erba. Bilancio di una vita”, pubblicato nel 1981 per i tipi di Cittadella edizioni. In cinque capitoli Adriana Zarri descrive, condensandoli, i pensieri e le esperienze di un intero anno solare – da un autunno all’autunno seguente – passati nella sua casa “Il Molinasso” a Fiorano Canavese. Fin dai titoli dei vari capitoli – »le foglie secche dell’ autunno«, »le stufe e i fuochi dell’ inverno«, »la dolce luna della primavera«, »le messi e il sole dell’ estate«, »i prati verdi dell’ autunno« – si intuisce l’intimo legame di Zarri con le stagioni e il loro carattere che si rinnova e varia di giorno in giorno. La sintonia dell’autrice con la natura traspare evidente da ogni singola riga di quest’opera, in cui ci parla della sua vita insieme alle galline, il cane e il gatto, delle condizioni atmosferiche, del sole, del freddo, della semina, della crescita e del raccolto, dell’eremitaggio, del silenzio, della preghiera, del fuoco, della morte, del lavoro, delle stelle, della luna, della notte.
»E ci sarà il silenzio e il grido, la rilassata immobilità e l’ armonica danza; il momento in cui il corpo non si sente e l’ altro in cui rivela tutta la sua armoniosa consistenza ed accompagna l’ invocazione e la lode; ci sarà la richiesta e l’ offerta, la gratuità e la passione, il momento del pianto e della gioia: atteggiamenti che veranno scelti o creati da noi, volta per volta, in sintonia con il momento che viviamo.« (9)
Nel 2002 lessi il volume »Il respiro delle donne«, in cui Luce Irigaray presenta varie forme di credo al femminile attraverso le voci di teologhe, scrittrici, pensatrici e terapeute. Un articolo di Adriana Zarri intitolato “La teologia della vita” risvegliò il mio interesse nei suoi confronti. Alla fine di novembre dello stesso anno la andai a trovare nel suo “eremo” e vi passai una settimana indimenticabile. Un tardo pomeriggio, mentre ero seduta in cortile con la sua gatta in braccio, Adriana Zarri apparve alla finestra e mi fece cenno di salire al primo piano del suo granaio ristrutturato. In mezzo alla grande stanza c’era un baule che divideva lo spazio in due ambienti abitativi. Sul baule era allineata un’incredibile quantità di civette dei materiali più vari, tutte di ottima fattura. Due di esse erano decorate con dei piccoli specchi che riflettevano la luce del sole al tramonto, creando così un magicamente uno splendido effetto caleidoscopico sulle pareti, cui Adriana mi fece assistere con occhi raggianti.
Negli ultimi anni della sua vita Adriana Zarri si indebolì molto e alla fine non riuscì più ad alzarsi dal letto. Ciò nonostante non smise di pensare e di pubblicare i suoi sagaci commenti e le sue profonde riflessioni, che si trattasse di teologia o di spiritualità, della posizione della chiesa o dei suoi legami con la politica e la società. I toni critici che Zarri spesso usa nei suoi scritti non derivano dalla voglia di provocare, bensì dall’esigenza di esprimere liberamente la sua opinione più intima, maturata nel silenzio e nella solitudine attraverso lo studio dei testi teologici, l’esperienza della vita intorno a lei, la fede e il rapporto con Dio.
Rimase paziente ad aspettare la morte, anche se non riusciva a considerarla un’amica o una salvatrice. Era troppo legata alla vita in tutte le sue molteplici forme e in tutta la sua pienezza.
“Ma non intendo programmare la mia morte: sarebbe l‘ ultimo attaccamento alla vita. La morte non si programma: si aspetta, quietamente, come si aspetta la vita. E sarà come viene: magari nella corsia di un ospedale, o per la strada, o chissà. E sarà sempre impastata con la vita: vita, essa stessa nel suo punto più alto e dirompente.” (10)
Già molti anni prima di morire aveva pubblicato una delle sue belle poesie in cui affronta il tema della propria morte:
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri. (11)
(1) Zarri, Adriana (1985): »Tu« quasi preghiere. Piero Gribaudi editore, Torino, p.17.
(2) http://it.wikipedia.org/wiki/Adriana_Zarri, pagina visitata il 10.12.2010.
(3) http://www.rsi.ch/home/channelslifestyle/personaggi/2010/11/19/adrian-zarri.html, pagina visitata il 10.12.2010.
(4) http://www.enciclopediadelledonne.it, pagina visitata il 10.12.2010.
(5) ibidem.
(6) Irigary, Luce (1997): Der Atem von Frauen. Luce Irigary präsentiert weibliche Credos. Christel Göttert Verlag, Rüsselsheim, p. 119.
(7) Zarri, Adriana (1991): Nostro signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera. Citadella editrice, Assisi, p. 40.
(8) ibidem, p. 49.
(9) Zarri, Adriana (1999): Erba della mia erba. Resoconto di vita. Citadella editrice, Assisi, p.50
(10) ibidem, p. 245.
(11) http://www.enciclopediadelledonne.it, pagina visitata il 10.12.2010.
Premi e onorificenze
1995 Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana,
”Premio speciale Testimone del Tempo” (Premio Acqui Storia),
”Premio Matilde di Canossa” della Provincia di Reggio,
”Premio Minerva 1989” nella sezione “Ricerca scientifica e culturale”,
“Premio Igino Giordani 2002” del comune di Tivoli,
“Premio letterario Domenico Rea” nella sezione “Narrativa” 2008
”Premio letterario Alessandro Tassoni” nella sezione “Narrativa” 2008
Author: Ingrid Windisch
Bibliografia & fonti
Pubblicazioni
Zarri, Adriana (1955): Giorni feriali. Milano. Istituto di propaganda libraria.
Zarri, Adriana (1960): L’ ora di notte. Romanzo. Torino. SEI.
Zarri, Adriana (1962): La Chiesa nostra figlia. Vicenza. La Locusta.
Zarri, Adriana (1964): Impazienza di Adamo. Ontologia della sessualitá. Torino. Borla.
Zarri, Adriana (1967): Teologia del probabile. Riflessioni sul postconcilio. Torino. Borla.
Zarri, Adriana (1970): Il grano degli altri. Meditazioni sull’Isolotto. Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1971): Tu. Quasi preghiere. Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1975): E piu facile che un cammello … Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1978): Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera. Assisi. Cittadella.
Zarri, Adriana (1981): Erba della mia erba. Resoconto di vita. Assisi. Cittadella.
Zarri, Adriana (1989): Dodici lune. Romanzo. Milano. Camunia.
Zarri, Adriana (1990): Apologario. Le favole di Samarcanda. 1. Aufl. Milano. Camunia. (Fantasia & memoria) ISBN 8877671084.
Zarri, Adriana (1991): Il figlio perduto. La parola che viene dal silenzio. Celleno. La Piccola Editrice. ISBN 9788872583012.
Zarri, Adriana (1994): Quaestio 98. Nudi senza vergogna. Romanzo. Milano. Camunia.
Zarri, Adriana (1998): Dedicato a. Milano. Frontiera.
Zarri, Adriana (2007): Il Dio che viene. Il Natale e i nostri Natali. Celleno. La Piccola Editrice.
Zarri, Adriana (2007): In quale dio crediamo? Le povere immagini di Dio. Celleno. La Piccola Editrice. ISBN 9788872583203.
Zarri, Adriana (2007): L’ amante dell’uomo. La preghiera e le preghiere. Celleno. La piccola. ISBN 9788872583197.
Zarri, Adriana (2008): Vita e morte senza miracoli di Celestino 6. Romanzo. Reggio Emilia. Diabasis. ISBN 8881035707.
Città di Latina-Premio COMEL: grande successo per l’inaugurazione di Alluminio, sotto la superficie-
Città di Latina-Inaugurata lo scorso sabato, 26 ottobre 2024, la mostra “Alluminio, sotto la superficie”, fase conclusiva della XI edizione del Premio COMEL, è stata letteralmente un bagno di folla, che si è riversato nella galleria di via Neghelli a Latina. Tantissimi appassionati, artisti del capoluogo e venuti da fuori, esperti del settore, cittadini curiosi di scoprire l’arte in alluminio.
Questa XI mostra del Premio COMEL ne è un bellissimo esempio: 13 opere che utilizzano l’alluminio in 13 modi diversi e scavano nell’intimità del sentire, forti del tema proposto quest’anno che ha invitato i partecipanti ad andare al di là delle apparenze, al cuore delle cose superando ogni esteriorità, ogni finzione. Partendo dalla capacità dell’alluminio di proteggere sé stesso dagli agenti esterni attraverso una patina protettiva, che gli permette di mantenere intatte le sue caratteristiche, gli artisti sono andati oltre questa barriera protettiva, che ricorda le maschere che le persone più sensibili mettono su per proteggere i propri sentimenti, le proprie vulnerabilità.
In queste 13 opere si nota infatti il mettersi a nudo degli artisti partecipanti, il desiderio di vedere la realtà per come si presenta: priva di orpelli e sovrastrutture.
L’acqua, la natura, il magma primordiale da cui nasce la vita, sono i luoghi ideali di queste opere; la mente, i ricordi, i tasselli che compongono l’Io, le esperienze ne sono il contenuto, e la mostra offre un viaggio in 13 mondi differenti, che lavorano il materiale con tecniche e stili diversi, ma tutti di altissimo livello tecnico.
E se l’arte contemporanea è esattamente la sperimentazione, l’ecletticismo, la continua fluidità, si può dire che “Alluminio, sotto la superficie” ne è un felice esempio. Come hanno potuto testimoniare gli artisti e i membri della giuria presenti alla serata: oltre a Giorgio Agnisola che ha introdotto l’esposizione, Bruna Esposito artista di fama internazionale e il critico d’arte Stefano Taccone, che insieme ad Alessandro Beltrami hanno selezionato i 13, tra quasi 400 iscritti, e decreteranno il vincitore della XI edizione.
I visitatori della mostra saranno altrettanto protagonisti perché votando le tre opere preferite potranno scegliere il vincitore del Premio COMEL del Pubblico. L’invito ai cittadini è quello di esserci, passeggiare tra le opere e provare a capire quale mondo interiore in esposizione si avvicina di più al proprio, al personale modo di sentire, alla propria sensibilità e scegliere le tre opere che parlano dirette al loro cuore. Si potrà votare fino al 10 novembre.
In attesa della cerimonia di premiazione che si terrà sabato 16 novembre, la mostra sarà visitabile tutti i giorni (tranne il 1° novembre) dalle 17 alle 20.
I 13 finalisti:
Sasho Blazes (Ocrida, Macedonia); Maria ElenaBonet (Minsk, Bielorussia/Sant’Elia Fiumerapido, FR, Italia); Massimo Campagna (Napoli, Italia); Stefania De Angelis (Roma, Italia); Rebecca Diegoli e Francesca Vimercati (Pavia e Besana in Brianza, Italia); Gianluigi Ferrari (Altilia, CS, Italia), James Fausset Harris (Gedda, Arabia Saudita/Carrara, MS, Italia); Robert Hromec (Bratislava, Slovacchia); Rosy Losito (Bari/Latina, Italia); Dimitar Minkov (Pleven, Bulgaria); Gloria Rustighi (Massa, MS, Italia); Karolina Stefańska (Cracovia, Polonia); Achilles Vasileiou (Atene, Grecia).
INFO
Alluminio, sotto la superficie – Premio COMEL Vanna Migliorin Arte Contemporanea XI edizione
Promossa e organizzata da Maria Gabriella Mazzola e Adriano Mazzola
Dal 26 ottobre al 16 novembre 2024
Inaugurazione: 26 ottobre 2024 ore 18.00
Fine votazioni del pubblico: 10 novembre 2024
Premiazioni: 16 novembre 2024 ore 18.00
Apertura: tutti i giorni dalle 17.00 alle 20.00 eccetto il 1° novembre
Spazio COMEL Arte Contemporanea, Via Neghelli 68 – Latina
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