Roma -La mostra fotografica di Gabriele Basilico è sicuramente da vedere. Indubiamente vale sempre la pena di ammirare le foto di uno dei grandi maestri della fotografia italiana.L’allestimento è interessante, con le foto collocate su pannelli inclinati che favoriscono la visione e cercano (riuscendoci solo in parte) di ridurre i riflessi. Poi il luogo è grandioso, uno dei più belli di Roma, ma confesso di non amare in modo particolare il dover fruire delle foto in mezzo a reperti di tale bellezza da risultare distraenti. Aggiungo che alcune delle foto (ad esempio quelle collocate su una sorta di lungo tavolo con incavo a “V”) erano illuminate in modo poco uniforme.
La Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, in collaborazione con il Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps, il MUFOCO – Museo di Fotografia Contemporanea e l’Archivio Basilico, presenta la mostra Gabriele Basilico. Roma. In occasione dell’ottantesimo anniversario dalla nascita del grande maestro della fotografia italiana, l’esposizione restituisce un inedito spaccato della sua ricerca visiva.
L’apertura al pubblico è prevista da giovedì 12 dicembre 2024 a domenica 23 febbraio 2025 nelle sale di Palazzo Altemps a Roma.
Curata da Matteo Balduzzi e Giovanna Calvenzi, la mostra presenta per la prima volta al pubblico un itinerario che attraversa le principali ricerche realizzate da Gabriele Basilico su Roma, città profondamente amata e intensamente frequentata dal fotografo milanese. Una selezione di oltre cinquanta opere in un percorso narrativo pensato appositamente per dialogare con gli spazi e le collezioni di Palazzo Altemps.
Filo conduttore della mostra è il legame tra Gabriele Basilico e la Città Eterna, costruito grazie a venti incarichi professionali ricevuti dal fotografo tra il 1985 e il 2011 e alle numerose campagne fotografiche che ne sono scaturite. Elementi fondamentali della ricerca di Basilico, come la stratificazione di epoche e stili e la dialettica tra monumenti e tessuto edilizio ordinario, trovano a Roma una propria apoteosi, fornendo al fotografo l’opportunità di raccontare anche una città moderna che sa includere simultaneamente le architetture imponenti, vivida espressione della modernità razionalista insieme ai templi, agli archi e palazzi della storia più antica dentro alla stessa grandiosa monumentalità.
Il percorso espositivo è articolato in due nuclei principali e spazia dagli affondi nell’architettura razionalista alla compresenza di edifici civili e monumentali come principio costante del tessuto urbano romano, dalle diverse sfaccettature del Colosseo, ai lavori che esplorano il rapporto tra figura umana e architettura contemporanea. Cuore pulsante della mostra e punto di congiunzione tra le due sale è il focus dedicato all’archivio del fotografo, che presenta 60 fogli originali di provini a contatto e una vasta selezione di appunti che Gabriele Basilico ha prodotto nel corso dei sette progetti principali realizzati su Roma, per un totale di oltre 250 immagini.
La mostra Gabriele Basilico. Roma accende i riflettori sulla straordinaria indagine dedicata alla condizione urbana che caratterizza la ricerca di Gabriele Basilico ed evidenzia il modo in cui il fotografo ha saputo dialogare con una delle città più ricche di riferimenti iconografici al mondo, traendone immagini che offrono punti di vista nuovi e inaspettati.
Amplia e completa il progetto espositivo la pubblicazione edita da Electa, promossa dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, in collaborazione con il MUFOCO – Museo di Fotografia Contemporanea e con l’Archivio Gabriele Basilico, e curata da Angelo Piero Cappello, Giovanna Calvenzi e Matteo Balduzzi.
GABRIELE BASILICO
Milano, 1944-2013
Dopo la laurea in architettura (1973), Gabriele Basilico si dedica con continuità alla fotografia. La forma e l’identità delle città e i mutamenti in atto nel paesaggio urbano sono fin dagli esordi i suoi ambiti di ricerca privilegiati. Milano. Ritratti di fabbriche (1978-80) è il primo lavoro dedicato alla periferia industriale e corrisponde alla sua prima mostra in un museo (1983, Padiglione di Arte Contemporanea, Milano). Nel 1983-84 partecipa a Viaggio in Italia, il progetto collettivo ideato da Luigi Ghirri che diventerà il manifesto della Scuola italiana di paesaggio. Nel 1984 è invitato a far parte della Mission Photographique de la DATAR, voluta dal governo francese, e documenta le coste del nord della Francia. Nel 1991 partecipa a un’altra missione fotografica internazionale a Beirut, alla fine della guerra durata oltre 15 anni. A Beirut tornerà altre tre volte: nel 2003, nel 2008 e nel 2011. Nel 1996, con Stefano Boeri, realizza un’accurata indagine sui mutamenti del paesaggio, Sezioni del paesaggio italiano, che verrà presentata alla VI Biennale di Architettura di Venezia. Basilico ha prodotto moltissimi lavori di documentazione di città in Italia e all’estero, e realizzato un ampio numero di mostre e di libri personali. Considerato un indiscusso maestro della fotografia contemporanea, ha esposto in molti Paesi e ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Ha inoltre intrecciato il suo instancabile interesse per le trasformazioni del paesaggio urbano con attività seminariali, lezioni, conferenze e riflessioni scritte. Le sue opere fanno parte di importanti collezioni internazionali, pubbliche e private. Nel 2023-2024 la città di Milano gli ha dedicato due grandi mostre, alla Triennale e a Palazzo Reale, con il titolo comune Le mie città.
Dal 12 Dicembre 2024 al 23 Febbraio 2025
Roma
Luogo: Palazzo Altemps
Indirizzo: Piazza di Sant’Apollinare 46
Orari: dal martedì alla domenica dalle 9:30 alle 19:00 La biglietteria chiude alle ore 18:00
Curatori: Matteo Balduzzi e Giovanna Calvenzi
Enti promotori:
Direzione Generale Creatività Contemporanea – Ministero della Cultura
Biblioteca di San Valentino (Pescara), per “Incontro con l’autore” si parla del Fucino con Gaetano Lolli –
Biblioteca di San Valentino (Pescara), per “Incontro con l’autore” si parla del Fucino – “Il cerchio dell’acqua” (Leonida edizioni) dell’avezzanese Gaetano Lolli verrà presentato sabato 11 gennaio 2025 presso la Biblioteca di San Valentino (Pe) alle ore 16:30 per l’appuntamento “Incontro con l’autore”: in dialogo con l’ingegnere marsicano, ci sarà la giornalista Alessandra Renzetti.
Il romanzo storico, record di ristampa in meno di un anno, continua il suo tour volto alla conoscenza della storia millenaria del Fucino con tante preziose curiosità anche tecniche sui lavori che hanno caratterizzato la più grande opera di ingegneria idraulica del tempo. La prefazione è dell’archeologa Emanuela Ceccaroni.
È lo stesso lago che condivide con il lettore le sue paure, le sue angosce ed il suo addio, un aspetto questo che sta incuriosendo il pubblico: ” ‘Il cerchio dell’acqua’ lascia ampio spazio alle riflessioni, anche perché la sua lettura è lineare e la storia è chiara. Nelle pagine del romanzo scorre anche un viaggio emotivo che lo stesso lago, con un senso di amarezza sempre maggiore, percorre fino all’ultimo dei suoi giorni in cui non nasconde il suo dolore e l’incapacità di capire l’uomo per la sorte che ha scelto per lui”.
Tante sono le riflessioni e gli interrogativi che il romanzo scatena ed ancora oggi divide l’opinione pubblica e politica sulla realizzazione di questa grande opera d’ingegneria che ha interessato grandi nomi della storia fra cui un orgoglioso e curioso Alexandre Dumas: era necessario prosciugare il Fucino? Ha portato davvero i suoi benefici? Lo stesso Lolli continua, durante le presentazioni del suo libro, a creare un interessante dibattito che ha coinvolto anche i ragazzi in età scolastica.
L’autore affida proprio ai pensieri e ai sentimenti del lago Fucino il compito di congiungere le storie degli uomini attraverso le varie epoche sul cui sfondo si muovono i singoli personaggi che animano le pagine di questo percorso, lungo le sponde del bacino lacustre.
Ingresso libero.
Per info è possibile seguire le pagine social di @gaetanololli, @gaetanololliscrittore ed il sito www.gaetanololliscrittore.it.
Una breve biografia di Gaetano Lolli Sono nato nella terra dei Marsi e vivo ad Avezzano.
Sono un ingegnere edile-architetto, lavoro in una società di ingegneria e questo è il mio lavoro; le mie passioni però non sono altrettanto univoche, sono molte, per questo mi piace definirmi “fedele discepolo della mia curiosità” che mi porta ovunque.
Leggo tantissimo e scrivere col tempo è diventata una conseguenza naturale, credo che sia un modo insensato e romantico di sottrarre tempo alle cose da fare.
Ho un retaggio di appartenenza fortissimo con il mio territorio, dalla mia terra, dalle montagne che la caratterizzano traggo sempre spunti e la volontà di scrivere, dopo tutto “l’universale si coglie anche restando presso di sé”.
-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore Milano 1934-
-Articolo di Guido Piovene per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Guido Piovene-Scrittore e giornalista italiano (Vicenza 1907 – Londra 1974). Formatosi all’incrocio di un cattolicesimo sensuale con un illuminismo attinto ai moralisti francesi del Sei-Settecento, aperto alle influenze del freudismo e dell’esistenzialismo, P. indagò le passioni e i vizi umani. Tra i romanzi più noti: Le furie (1963), in cui ha tentato di applicare la tecnica del nouveau roman, dando particolare rilievo alla memoria di un mondo in decadenza di fronte al quale lo scrittore subisce rimorsi e inibizioni, non senza però lasciare nel lettore un sapore di ambiguità; e Le stelle fredde (1970, premio Strega), in cui ritorna con gli stessi simboli la materia autobiografica.
Vita e opere
Nel 1935 entrò a far parte del Corriere della sera per poi passare a La Stampa, della quale fu collaboratore fino alla fondazione, con I. Montanelli e altri, del quotidiano milanese Il Giornale (1974). La sua opera, che varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione, al racconto, al romanzo, è quella di un saggista formatosi all’incrocio di un cattolicesimo morbido e sensuale, di tradizione vicentino-fogazzariana, con un illuminismo attinto soprattutto ai moralisti e romanzieri francesi del Sei-Settecento; ma aperto alle suggestioni del freudismo e dell’esistenzialismo. Un saggista inteso all’esplorazione lenta, minuta delle passioni, dei vizi umani, colti nel loro sinuoso trasformarsi o dissimularsi in virtù (a cominciare dall’egoismo così spesso atteggiato a pietà); un osservatore e descrittore di «caratteri», il quale, come narratore, rivela, sotto il lucido intellettualismo della sua indagine e delle sue invenzioni, l’ansia di una ricerca soggettiva, di un personale riscatto. Ne è testimonianza, nei suoi racconti (La vedova allegra, 1931; Inverno di un uomo felice, post., 1977; Spettacolo di mezzanotte, post., 1984) e nei romanzi (Lettere di una novizia, 1941; La gazzetta nera, 1943; Pietà contro pietà, 1946; I falsi redentori, 1949; Le furie, 1963; Le stelle fredde, 1970; Verità e menzogna, post., 1975; Romanzo americano, post., 1979), quel procedere della narrazione, entro una cornice apparentemente oggettiva, per monologhi – in forma epistolare, di diario, di confessione, ecc. – dei protagonisti, che permette allo scrittore di eludere, come in un gioco o finzione scenica, quanto di troppo autobiografico urge al fondo della sua arte. Accanto alla produzione saggistica (Lo scrittore tra la tirannide e la libertà, 1952; Idoli e ragione, post., 1975), poi raccolta in Saggi (2 voll., post., 1986-90), e ai notevoli libri di reportage, di viaggio e di costume (De America, 1953; Viaggio in Italia, 1957; Madame la France, 1966; L’Europa semilibera, 1973; ecc.) è da ricordare il discusso La coda di paglia (1962), in cui P. rievocò i propri rapporti col fascismo. Al genere fiabesco appartiene Il Nonno Tigre (1972).
Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova. Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
LA TORRE DEI MORI
Scende come bronzo
dalla torre dei Mori
quel suono puro–
i dodici rintocchi battono
a martello l’ultima ora
Se dite al gallo di non cantare,
nessuno più verrà rinnegato
nel giorno che ancora segna il passo
( Non cercate la bella Aurora,
lei sta al Gritti Palace Hotel
——–Bloody Mary per due
alle ore undici… )
C’ERA UNA VOLTA
E piangere come potremo
per una storia che non è stata mai
-fogli in risma extra strong,
neppure dall’involucro mai tolti.
Mai il delicato fruscio
in un voltare di pagina,
né il segreto in una piccola piega.
Nell’aria noi allucinati
lo coglieremo pure
quel vago sentore di gelsomino
–ma sarà un nulla, come di fumo…
PER UN DIO SCONOSCIUTO
Abbassata la serranda sul negozio,
l’ondulato e inerte metallo
è scivolato fino a terra.
( Fulmineo come un artiglio
mi aggredisce il tuo non ricordo )
Resiste una scritta orizzontale,
impastata di carta, polvere e giorni:
“ Signori, il lunedì si chiude–
si chiude tutto il tempo “.
( Inutili clamori, e calda luce
laggiù, nel bar all’angolo… )
L’ISOLA
Lunghe notti ho vegliato e giorni
–e tu per me mai un segno
Sciolgo amore gli ormeggi
–e la nostra storia portala con te
nell’isola senza nome e ricordo
dove si consumerà il tuo tempo
–vuoto ormai di giorni.
EX VOTO
Non lo si poteva fare, mi dice la Signora–
benedetta non era l’acqua e le anime poi
non si lavano via così con uno sciacquo
Ma lei deve capirmi, Signora
erano le cinque in punto del mattino
e rossa colava l’anima cara
lungo il filo del sogno e se ne andava–
capisce, l’anima cara se ne andava
e cosa si poteva mai fare a quell’ora?
Eburnea Signora, mi creda, le mando il voto
di tutte le rose del mercato, ma non venga
ancora a sgranarmi i rosari dell’atto profano
Suvvia, Signora, la smetta ed esca pure lei–
fuori è maggio.
LILIALE I
Ben oltre i giorni della Pasqua
s’erano gingillati con la sfavillante carta
dell’uovo, che in realtà se ne stava
tutto nudo sopra una sedia di paglia–
–messo lì con svagata noncuranza.
Sembrava un banale piccolo inganno,
con degli effetti che potremmo definire
à trompe l’oeil, nulla di eclatante.
Il lato clamoroso dell’ affaire
veniamo a saperlo soltanto ora
che la Sfavillante, senza indulgenza alcuna,
si è sottratta al ruolo assegnatole dal gioco
e fuggitiva lascia nella più profonda
e sigillata indifferenza quelli che furono
i suoi sogni privati, del tutto privati.
Della storia qui conclamata rimane solo
un esile pensiero liliale, quasi ilare.
LILIALE II
Il colore bianco e la forma infantile
facevano dei miei sandali
due foglie calcinate
graziosamente oscillanti
in grembo alla dolce creatura del sud–
–dall’orto il ligustro si protendeva
fin sullo scalino dove quieta
rimanevo ad intrecciare attese.
E se la bella immagine m’incanta
il pensiero delle sue mani
esile ancora si leva all’alba.
AMORE E PSICHE
Perdonami amore se ancora strappo
piume e versi alla nostra casta camelia…
Nella cara stanza oggi è così buio
che solo arde giallo di tanta luce
il biglietto che s’appunta alla finestra…
L’ABITO ROSSO
Lungo la linea dell’abito rosso
molle scivolava il ventaglio nero
L’antico tondo trasudava vita
nello smalto che la racchiudeva
Incisa a filo dell’orlo floreale
la dedica ancora si leggeva
“zefiro di rugiada il prato bagna”
OPERA
Giocoliere gentile che nella mano
il cavo della bava fermo tieni
sicuro rimani e non visibile
——–pura mimica sospesa nell’aria.
Al cielo sia cangiante il tuo giullare.
L’ARIA
Smarrita nell’intreccio della storia
la piuma di ligustro si librava
in un cielo a noi ancora sconosciuto…
( era sua l’ombra sottile che ora si posa )
IL GRAFFIO
Segui amore il graffio della vita
e la brina che si posa sull’orlo
Non soffiarci sopra, non appannarla
Apri la nota alla voce del tempo.
AMARGO
Quel banchetto nudo dove la vita
si fa putta e graziosamente porge
la mandorla amara che solo al filo
della mente rilascia il suo gentile
………………………………………
( qui io non vi dirò nulla dell’albero
né della luna che lo sorvegliava )
ORO E BIANCO
per Stefania C.
Di giovane ramoscello è la tua mano–
Anima quasi bambina che a sé stringe
il nastro d’oro dei tulipani bianchi
( Indifferente il fioraio al nostro rito… )
SOVRAPPOSIZIONE
Il tram è in partenza verso il centro…
Si direbbe opaca la superficie
che sbuca dal manifesto murale,
se il riverbero e l’incerta materia
non mostrassero la forma ellittica,
dove lo specchio retrovisore filma
senza scatto il via vai della strada.
Tutto lo short sta in quello squarcio
–sospeso tra realtà e illusione.
CANTO FERMO
per Franco G.
Stasera lascia aperta la porta
ch’io possa entrare, e tu sciogliere
dai fili rossi il nostro carteggio.
La tenda s’alza ariosa come vela
che naviga verso il monte, nuvole
alle specchiere dell’altra stanza e cielo.
–Manica a vento, tu saluti Nina
e sali nell’incanto del tuo Chagall…
IL PAPAVERO
Neve perenne dorme la tua voce
sotto il bianco cappuccio del Subasio.
Lui nasce intoccabile e rosso–
–polvere della tua voce e sabbia
della mia gola, forse non fiore
ma trama di un sogno che non cede
al suo insostenibile peso d’ombra.
SILLABA
I.
S’inquieta come stormo che scolora
il tuo nome sul filo della mia mente
–alto volo da quel cielo scende in sillabe
II.
E se lieta nel liturgico fluire
le tue mani sento in me confuse
con rapido tocco svagata m’insinuo
nella piega che il brivido impone
III.
Si spezza nell’aria un delirio d’ali
( Colombe fremevano nel tuo cielo… )
ANDANTINO GRAZIOSO
Se ne stava quel chiaro spartito
incollato alla vetrina del liutaio–
con il suo si e la bella chiave di violino,
presi nel rigo della prima battuta
( Dal suono sciolte bende
liberano mani ferite )
All’ulivo santo della pietrosa
piccole anime beghine
cerimoniose vanno
al minuetto di pigolanti passi
Le mani tendono al tuo approdo
e avide il tuo nome afferrano
con l’unico riconosciuto fiore–
questo mio votivo monile di carta.
CARPE DIEM VARIAZIONE
Cara, non chiederti quale destino
gli dei abbiano per me e per te deciso
né struggerti (non è lecito saperlo)
sulle vane cifre di Babilonia.
Conviene accettare e patire la sorte –
–l’inverno che ora flagella le onde
sulle scogliere del mare Tirreno
potrebbe essere l’ultimo voto
o avere lungo seguito nella vita.
Sii saggia, continua a mescere il tuo vino
e raccogli la speranza nel breve suo filo.
Vivi questo giorno. Mentre parliamo,
l’avido tempo è già da noi fuggito.
VILLA R.
È cresciuta a dismisura quella rosa–
rosso struggente di velluto e spine
Il tempo si posa su cristallo sottile
mentre sfiora lame di ilare argento
( S’adagiava sul tappeto la figlia dei giorni… )
D’INVERNO
Nell’incerta grazia di una gemma
di te ritrovo quella che non eri
La radicella che pulsa nell’ombra
dall’umido umore risale alla linfa
( Sottili e nati già gli alberi d’inverno )
Biografia di Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova. Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
La raccolta La casa sull’albero, Kathleen Jamie, Ladolfi Editore, 2016, ha vinto il Premio Marazza 2017 per la traduzione poetica.
Osservavo un falco
planare lento lungo il pendio,
la sua forma scura
negli artigli come una preda.
Inclinò le ali,
cadde nell’aria –
l’ombra proseguì
senza di lui, come una lepre.
Ero ai ferri corti
con la mia cosiddetta anima,
parte libero falco,
parte ombra in libertà vigilata,
così agii d’impulso:
ne tenni uno ben in vista
e lasciai andare l’altra.
Il falco si librò in aria:
la compagna a terra
cominciò a sbiadire,
finché colle e cielo furono vuoti,
ed ebbi paura.
L’albero del mondo
Che specie di albero era quello, che stazionava
come un mendicante in fondo al nostro viottolo
dove noi ci sfidavamo su monopattini e biciclettine?
Segnava la fine del nostro mondo, mutilato,
grigio come una reliquia, laggiù oltre l’ultimo cancello
dove cominciavano i campi,
era cresciuto prima che si costruisse il complesso residenziale.
Era là che stavamo accovacciati,
dall’infanzia fino al tramonto dell’adolescenza,
le ginocchia raccolte sul mento, a sussurrare
dolci orrori …
Compagno albero, radice tribale,
da anni non penso a te, la tua linfa
in me, ma ora mi chiedo che specie eri
– sambuco o biancospino,
– e perché d’un tratto me ne importi.
Migratorio II
alla maniera di Hölderlin
Mentre gli uccelli migrano lentamente
lui guarda dinanzi a sé,
il principe e impassibile affronta
il vento che gli soffia contro il petto
c’è silenzio intorno a lui
lassù nell’aria
ma splendenti sotto di lui
si estendono i suoi territori
e con lui
per la prima volta inseguendo la vittoria
ci sono i giovani
ma con un colpo d’ala
lui li governa
Nota
‘Hawk and Shadow’ (Falco e ombra) è tratta da ‘Falco e ombra’, (Hawk and Shadow) antologia di poesie e prose scelte, cura e traduzione di Giorgia Sensi, Interno Poesia Editore, 2019
‘World Tree’ (L’albero del mondo) e ‘Migratory II’ (Migratorio II) sono tratte da
La compagnia più bella (The Bonniest Companie), cura e traduzione di Giorgia Sensi, Edizioni Medusa, 2018
Kathleen Jamie è nata in Scozia. Laureata in filosofia all’università di Edimburgo. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia: Black Spiders (1982); The Way We Live (1987); The Queen of Sheba (1994), Jizzen (1999),The Tree House (2004), The Overhaul (2012), The Bonniest Companie (2015). Ha ricevuto premi importanti, tra gli altri: con The Tree House il Forward Poetry Prize come Best Poetry Collection of the Year, 2004, e Scottish Arts Council Book of the Year Award, 2005; con The Overhaul il prestigioso Costa Award, e finalista del TS Eliot Prize. L’ultima raccolta, The Bonniest Companie ha vinto sia il Saltire Society Book of the Year sia il Poetry Book of the Year. Jamie scrive anche non-fiction; in particolare qui si citano Findings (2005); Sightlines (2012), e Surfacing,(2019) tre volumi di narrativa di viaggio nella sua nativa Scozia, sulla sua flora e fauna, su escursioni da lei fatte nelle isole Orcadi, Ebridi, e in altre isole al largo delle coste scozzesi, sui loro insediamenti neolitici. KJ vive a Fife, è Professore di Scrittura Creativa all’Università di Stirling.
In Italia Kathleen Jamie è tradotta da Giorgia Sensi:
La casa sull’albero, poesie scelte, Giuliano Ladolfi Editore 2016, ha vinto il premio Achille Marazza per la traduzione poetica 2017.
La compagnia più bella, Edizioni Medusa, 2018
Falco e ombra, poesie e prose scelte, Interno Poesia Editore 2019
Scrutare gli orizzonti (Sightlines), Luciana Tufani Editrice 2019
Kathleen Jamie ha vinto il Premio Internazionale del Ceppo, Pistoia 2019
Breve bio di Giorgia Sensi traduttrice freelance dall’inglese di fiction, non-fiction e soprattutto poesia.Fa parte della redazione di «Interno Poesia», blog e casa editrice per la promozione della poesia.Ha tradotto raccolte di Carol Ann Duffy, Jackie Kay, Gillian Clarke, Margaret Atwood, Eavan Boland, Kate Clanchy, Kathleen Jamie, Patrick McGuinness, John Barnie, Philip Morre, e curato diverse antologie.
Qui si citano per esteso le pubblicazioni più recenti:
Pubblicazioni nel 2018:
La compagnia più bella, (The Bonniest Companie) Kathleen Jamie, Medusa Editore;
Scrutare gli orizzonti, (Sightlines) Kathleen Jamie, narrativa di viaggio, Luciana Tufani Editrice;
una raccolta di poemetti di Natale di Carol Ann Duffy,Un Natale inglese, con Andrea Sirotti, Le Lettere.
Pubblicazioni nel 2019:
Déjà-vu, poesie scelte di Patrick McGuinness, IP Editore,
Falco e ombra, (Hawk and Shadow) antologia di poesie e prose di Kathleen Jamie, IP Editore;
La testa di Shakila, poesie e prose di Kate Clanchy, Lietocolle-gialla oro;
8 poesie di Jenny Mitchell per la rivista Versodove, n. 21;
Istantanea di ippopotamo con banane e altre poesie, (Snapshot of Hippo with Bananas and other poems) Philip Morre, IP.
La raccolta La casa sull’albero, Kathleen Jamie, Ladolfi Editore, 2016, ha vinto il Premio Marazza 2017 per la traduzione poetica.
Giorgia Sensi ha ricevuto il ‘Premio Nazionale per la Traduzione’ 2019, conferito da ‘Ministero dei Beni e delle Attività Culturali’.
Poesie di Akiko Yosano -Poetessa e scrittrice giapponese-
Akiko Yosano-(1878-1942)- Poetessa e scrittrice giapponese. Profonda conoscitrice della letteratura classica giapponese, manifestò interesse per le nuove correnti letterarie ispirate a modelli occidentali, rinnovando uno dei più tradizionali generi poetici grazie a una grande forza immaginativa, tesa all’esaltazione della passione amorosa.
poesie di Akiko Yosano
SE QUI ADESSO
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
—————————————————–
Sebbene così fragile
e così breve l’amore,
ha sangue troppo giovane
questa ragazza, per bruciare
poesie di primavera.
*
Ho sentito, non so perché
che tu mi aspettavi
e sono uscita – Nella notte
improvvisa spuntò la luna
sui campi in fiore.
*
Appoggio il mio corpo al cancello
e mi perdo in pensieri
infiniti
guardo il vento autunnale
passare sui fiori rossi.
*
Capelli neri arruffati in mille trecce. Arruffati i miei capelli e arruffati i miei arruffati ricordi delle nostre lunghe notti d’amanti
*
Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle.
*
La mia giovinezza è presso a finire simile a una pianura docile che, subita, spiombi nel mare
*
Amore o sangue?
tutta la primavera
è in questa peonia che mi ossessiona,
scende la notte, sono sola,
sola senza una poesia.
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione,
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
*
Mi piace questo alto cantare di vento. L’alba quando cammino sotto l’albero di hi dal vecchio tronco…
Nel 1904, Akiko Yosano scrisse e pubblicò quella che è probabilmente la sua più celebre poesia, Kimi shinitamou koto nakare (“Ti prego, fratello, non morire”). Suo fratello minore, Chuzaburo, era stato mobilitato per la guerra russo-giapponese (che si concluse con la famosa disfatta russa di Port Arthur, o Lüshun); nella poesia, Akiko espresse tutte le sue preoccupazioni. Musicata poco tempo dopo, la poesia è diventata una delle più classiche canzoni contro la guerra in lingua giapponese, dato che così è sentita da tutti nonostante sia molto “lieve” e non contenga espressioni antimilitariste. In particolare, la poesia fu pubblicata su Myōjō proprio quando il numero delle vittime della battaglia di Port Arthur fu reso noto pubblicamente, ed il carattere antibellico della composizione risultò chiaro. Va da sé che piovvero le accuse di disfattismo sulla poetessa. Non sono purtroppo riuscito a determinare chi sia stato l’autore della musica, ed è possibile anche che esistano più versioni musicate della poesia (che in Giappone è davvero famosissima: è arrivata, manco a dirlo, anche alle sigle dei cartoni animati). Il testo giapponese, le note originali e tradotte e la traduzione inglese le ho trovate invece su questa pagina, e così le riproduco. [RV]
君死にたまふことなかれ
La versione inglese. English Translation
Port Arthur, 1904/05.
Le note alla traduzione contenute nella pagina di provenienza sono state fedelmente riprodotte. L’autore della traduzione non è indicato.
PRITHEE DO NOT DIE
Lamenting my younger brother in combat as one
of the troops besieged at Lüshun(Port Arthur)
Yosano Akiko
Oh, younger brother mine, for thee I weep,
Prithee do not die,
For you were born the very last,
And our parents loved you all the more,
Yet they made thee grasp a blade in hand,
Taught thee kill a man you shall,
Kill a man, and die you too,
groomed you thus to age twenty-four.
Master now of the proud old house,
The merchant-house of Sakai1, our town,
You must now carry on our name,
So I prithee, do not die,
Though Lüshun’s2 fortress should perish,
Should it be saved, what of that?
Thou ought know, it nowhere commands
On the familial codes3 of our merchant house.
I prithee do not die,
The Heavenly-Prince does not himself
Lead by his own august presence his troop to battle.
For to command that men shed blood of men,
And die following the beastly path4,
And tell us death be the glory of men,
If his Highness’ heart be compassionate,
How could he truly think it so?
Oh young brother mine in battle,
I prithee you mustn’t die.
Our mother who has lagged behind father
In the passing of the autumn years of life,
It sores me to watch her lament,
Deprived of son to guard the home,
And though she hears our Highness hale and safe,
Our mother’s gray hair grows.
Stooping in the shade of the noren5 she weeps,
The frail young wife of yours,
Or have you forgotten? Or do you think of her?
Think on her maidenly feeling,
Together ere ten months, then parted,
And there’s none another the likes of you,
Oh once again I ask,
Prithee do not die.
— pub. in Myōjō Sept. 1904.
Translation’s Notes / Note alla traduzione
Notes:
1 Sakai is a merchant town with a rich history, which prospered by foreign trade in the age of Warring-States, and its merchants were proud and independent-minded. The famous tea ceremony master Sen-no-Rikyū (1522-1591) who committed harakiri was a Sakai merchant.
2 Lüshun (Port Arthur), pronounced “Ryojun” in Japanese, was a naval port for Russia’s Eastern Fleet.
3 An “old family” often has something called kakun or lessons — do’s and don’ts that are passed down generation to generation. The poetess is saying that since they are merchant family, dying to defend a castle is certainly not one of those lessons.
4 “Beastly path” is a reference to a course of conduct without morality or discipline; In Buddhism, if your conduct in this life is poor, you are said to be relegated to chikushōdō “way of beasts” in the next life.
5Noren is the shop curtain, the drape of cloth hanging at the shop entrance. There is also such a curtain between the storefront and the back area.
Breve biografia di Akiko Yosano-(1878-1942)-Nata come Sho Ho il 7 dicembre 1878 nel villaggio di Sakai, presso Osaka, Akiko Yosano è stata una delle più famose e controverse poetesse giapponesi del primo’900. E’ considerata una delle prime pacifiste e femministe attive nel Giappone dell’epoca Meiji: il suo anno cruciale può essere considerato il 1901. In quell’anno, all’età di 23 anni, sposò Tekkan Yosano, il responsabile editoriale della rivista Myōjō (“Stella lucente”), sulla quale aveva cominciato a pubblicare le proprie poesie. Tekkan era regolarmente sposato e divorziò dalla prima moglie per sposare Akiko, ma in pieno accordo con essa continuò a frequentarla ( oggi si definirebbe famiglia allargata). Nello stesso anno, Akiko Yosano pubblicò Midaregami (“Capelli arruffati”), una raccolta di 400 poesie ritenuta il faro del libero pensiero nel Giappone dell’epoca; come è lecito attendersi, la critica ufficiale stroncò la raccolta e la definì scandalosa. Ciò nonostante, Midaregami riscosse un successo clamoroso, e la fama di Akiko Yosano eclissò quella del marito, anch’egli comunque valente poeta. Akiko morì d’infarto il 29 maggio 1942, in piena guerra; la notizia della sua morte passò inosservata, dopo che per tutta la vita si era spesa contro il crescente militarismo giapponese ed aveva combattuto per la condizione delle donne in una società del tutto oppressiva nei loro confronti. Le sue opere non erano state messe al bando, ma comunque ignorate; solo negli ultimi due decenni è stata riscoperta, tornando a godere del successo di un tempo.
Lo Studio di Pirandello ha sede in via Antonio Bosio in un villino costruito intorno agli anni Dieci nell’allora Via Alessandro Torlonia in una zona di Roma immersa nel verde e che ritorna in numerose pagine pirandelliane.
Corrado Alvaro così ricorda il verde che circondava la casa:“Nel mezzo dello studio c’era un divano con le spalle a una grande vetrata che dava, a destra, in un giardino. Il giardino era uno scenario vicino di lauri e di cipressi. Ma oltre a questo verde perenne e grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a certe stagioni quel fruscìo … È strano che questo fruscìo faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato”.
L’appartamento è costituito da un ampio soggiorno-studio, da una camera da letto e da una terrazza. L’arredo è quello originale: risale al 1933, quando lo scrittore vi si trasferì al suo rientro in Italia, dopo gli anni trascorsi a Berlino e a Parigi. Parte della mobilia, in stile fiorentino, risale al 1910 e proviene da precedenti abitazioni dello scrittore (una scrivania, due librerie a vetrine, due savonarola). Acquisti successivi furono invece il grande divano, le poltrone, una seconda scrivania, alcune scaffalature e l’intera camera da letto, in stile razionale.
La biblioteca comprende circa 2.000 volumi appartenuti allo scrittore. Lo studio conserva inoltre gli oggetti d’uso, compresa la piccola macchina da scrivere portatile divenuta un inseparabile strumento di lavoro. Tra i quadri figurano quattro opere del figlio Fausto. Numerosi i manoscritti relativi a poesie, romanzi e drammi.
Lo Studio, oltre ad essere il luogo della scrittura (nei primi anni della permanenza in via Bosio, Luigi Pirandello portava a compimento Pensaci Giacomino! e Così è (se vi pare), era anche luogo di conversazione e ritrovo: il divano e le poltrone accoglievano i suoi incontri con i familiari e con le personalità a lui vicine; ricordiamo, tra gli altri, i nomi di Lucio d’Ambra, Silvio d’Amico, Eduardo De Filippo.
Dalla luminosità e dall’ampiezza dello Studio si passa alla sobrietà di una stanza da letto dalle linee essenziali con un terrazzo dal quale, allora, si potevano scorgere i pini di Villa Torlonia. Gli abiti, i cappelli, il bastone, la divisa della Reale Accademia d’Italia sono ancora conservati nell’armadio.
È in questa stanza che il 10 dicembre del 1936 Pirandello muore.
Di quel giorno, Corrado Alvaro ha tracciato pagine indimenticabili:
Noi entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di casa l’avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. … Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c’era quel silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di “povero cristo” … E di là, nello studio, quel chiacchiericcio da ricevimento, come aspettando che egli apparisse. … Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata .. La bara di abete tinto da poco con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al viale.
[Le citazioni di Corrado Alvaro sono tratte dalla Prefazione a Novelle per un anno, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, pp. 6-41]
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Biografia di Luigi Pirandello
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 nella contrada Caos nei pressi di Girgenti (oggi Agrigento) da Caterina Ricci-Gramitto e Stefano Pirandello. La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune miniere di zolfo. Nel 1886 dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, Luigi Pirandello rientra a Girgenti, per lavorare con il padre nella gestione di una miniera di zolfo. Nel 1886 si iscrive all’Università di Palermo, per poi trasferirsi nel 1887 a Roma dove frequenta la Facoltà di Lettere, nel 1889, a causa di un contrasto con Onorato Occioni, professore di Lingua e Letteratura Latina, si trasferisce all’Università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con la tesi Suoni e sviluppo dei suoni nella parlata di Girgenti.
Intanto ha già esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Länder, di cui a Bonn si è innamorato.
Nel 1892, fermamente deciso a dedicarsi alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive grazie ad un assegno mensile del padre. Nell’ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana che lo esorta a scrivere narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L’esclusa. Non abbandona comunque la poesia: escono nel 1895 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portolano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (detta Lietta, 1897) e Fausto (1899).
La vita familiare scorre abbastanza tranquillamente ma a partire dal 1903 l’allagamento della miniera di Aragona condiziona negativamente il tenore di vita familiare, e i disturbi nervosi di Maria Antonietta, fino ad allora latenti, si aggravano. Lo stato di alterazione psichica di Maria Antonietta si riverserà sempre più spesso sulla famiglia. Luigi assiste la moglie fino al 1919, anno in cui la donna verrà ricoverata in una casa di cura (dove resterà fino alla morte nel 1959).
Luigi modifica il rapporto fino ad allora totalmente disinteressato con la letteratura ed inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali. In opposizione all’estetismo dominante, fonda con Ugo Fleres ed altri amici il settimanale letterario «Ariel», dove tra l’altro pubblica il testo teatrale L’epilogo (poi La morsa). Dal 1898 al 1922 insegna Stilistica presso l’Istituto Superiore Femminile di Magistero di Roma.
Nel 1904 esce a puntate sulla «Nuova Antologia» il romanzo Il fu Mattia Pascal; Pirandello riscuote un tale successo che uno dei più importanti editori di Milano, Emilio Treves, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere.
Nel 1908 pubblica due saggi, Arte e scienza e L’umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario ordinario. L’anno successivo pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani che ripercorre la storia del fallimento e della repressione dei Fasci; la seconda parte uscirà in volume nel 1913. Del 1911 è anche il romanzo Suo marito. Nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira …, ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra e il figlio Stefano parte volontario, presto viene fatto prigioniero nel campo di Mauthausen prima e in quello di Plan poi. La prigionia di Stefano durerà tre anni, il periodo è testimoniato da un intenso scambio epistolare tra padre e figlio.
Gli anni della Grande Guerra, sono vissuti da Luigi ancora più dolorosamente per la perdita, nel 1915, dell’amata madre Caterina.
Nel 1916 e nel 1917 scrive alcune delle più celebri opere in dialetto siciliano poi tradotte in italiano: Pensaci, Giacuminu!, ‘A birritta cu’ i ciancianeddi, Liolà, ‘A giarra; Cappiddazzu paga tuttu, ‘A vilanza, La patente; sempre nel 1917 scrive Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà, L’innesto, Ma non è una cosa seria; nel 1918 – anno in cui viene rappresentato Il giuoco delle parti – esce il primo volume di Maschere nude, titolo sotto cui Pirandello raccoglie i suoi testi teatrali.
Nel 1920 vengono pubblicate Tutto per bene, La Signora Morli, una e due, Come prima, meglio di prima.
Il 1921 è un anno fondamentale per il suo teatro: il 10 maggio la compagnia Dario Niccodemi mette in scena al Teatro Valle di Roma Sei personaggi in cerca d’autore: mentre a Roma la commedia da fare viene accolta tra contrasti, Pirandello raggiunge il grande successo internazionale.
Nel 1921 inizia la stesura di Enrico IV che in una lettera a Ruggero Ruggeri egli stesso definisce una delle sue opere più originali; la tragedia di Enrico IV rappresenta il primo incontrastato successo di Luigi Pirandello. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno. La sua produzione teatrale prosegue con Vestire gli ignudi (1922), L’uomo dal fiore in bocca (1923), La vita che ti diedi (1923), Ciascuno a suo modo (1924).
Nel 1923 Adriano Tilgher pubblica Studi sul teatro contemporaneo con cui offre la prima interpretazione del teatro pirandelliano in cui chiarisce la presenza nell’opera di Luigi Pirandello del contrasto tra la vita e la forma. A Pirandello inizialmente piacque l’analisi tilgheriana ma nel tempo la ritenne troppo limitante e qualche anno dopo il rapporto tra i due si interruppe.
Nel 1924 Pirandello si iscrive formalmente al partito fascista; l’anno seguente inizia l’esperienza del capocomicato con l’avventura del Teatro d’Arte che durò tre stagioni teatrali, dal 1925 al 1928, prima nella sede stabile del Teatro Odescalchi a Roma poi con l’esperienza della Compagnia nomade che portò nel mondo le innovazioni teatrali dell’autore-regista. Per la serata inaugurale del Teatro d’Arte (2 aprile 1925), Pirandello scelse l’atto unico La Sagra del Signore della Nave composto nel 1924. L’interprete per eccellenza delle sue scene è l’attrice Marta Abba, conosciuta nel 1924 a cui Pirandello resterà legato tutta la vita.
Nonostante l’adesione formale di Pirandello al Partito Fascista, il suo stile di vita ed il pensiero espresso dalla sua arte non erano certo allineati alla “filosofia” fascista, tanto meno lo erano i suoi personaggi; non si può infatti definire Pirandello un intellettuale fascista.
Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila al quale l’autore aveva lavorato per molti anni; nel 1926 e nel 1927 scrive Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, Bellavita.
Nel 1928, sciolta la sua Compagnia, Pirandello inizia gli anni del suo volontario esilio, Berlino prima, Parigi poi.
La nuova colonia (1928) inaugura l’ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che prosegue con Lazzaro (1929) e culmina nell’opera incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929, mentre si trova a Berlino, è nominato membro della Reale Accademia d’Italia, parteciperà all’inaugurazione dell’Accademia alla presenza di Mussolini.
Sempre nel 1929 termina la stesura di O di uno o di nessuno e dell’atto unico Sogno (ma forse no), che verrà rappresentato la prima volta a Lisbona nel 1931; nel gennaio del 1930 a Königsberg avrà invece luogo la prima rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto; seguono Sgombero (1931), Trovarsi (1932), nel Quando si è qualcuno (1933). Nell’aprile del 1933 prima proiezione a Roma del film Acciajo, tratto dal regista tedesco Walter Ruttmann dallo scenario di Pirandello Gioca, Pietro! (musiche di Gian Francesco Malipiero). Alla fine del 1933 si stabilisce a Roma in un appartamento in via Antonio Bosio, nella stesso villino alloggia il figlio Stefano con la famiglia. Una volta rientrato in Italia, ritorna ad occuparsi del suo progetto di fondare il Teatro di Stato, un teatro d’arte con una sede stabile; fino alla fine dei suoi giorni sperò – invano – che il Partito lo aiutasse concretamente a realizzare il suo grande sogno.
Nel gennaio 1934, a Braunschweig, va in scena l’opera di Malipiero su libretto di Pirandello La favola del figlio cambiato: nonostante il successo di pubblico e di critica le autorità naziste vietano le repliche dell’opera; nel mese di marzo La favola andrà in scena al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Duce il quale, irritato, ne proibisce ogni replica.
Nel mese di ottobre Pirandello presiede il IV Convegno della Fondazione Alessandro Volta dedicato al Teatro Drammatico; per l’occasione metterà in scena La figlia di Iorio di d’Annunzio al Teatro Argentina di Roma.
Il 10 dicembre 1934 a Stoccolma gli viene consegnato il Premio Nobel per la Letteratura «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte del dramma e della scena».
Nel 1935 proseguono i suoi tentativi con il Duce per realizzare un Teatro di Stato che non si farà mai, alla fine del 1935 prima rappresentazione di Non si sa come al Teatro Argentina di Roma.
Nel 1936, deluso dal disinteresse del Partito per il suo grande progetto teatrale, Pirandello si dedica alla promozione di Marta Abba sulle scene americane. Numerosi i viaggi in Italia e all’estero, ma anche i momenti trascorsi con i familiari e gli amici più intimi. In dicembre si ammala di polmonite mentre segue le riprese del film di Pierre Chenal L’homme de nulle part tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa di via Antonio Bosio il 10 dicembre 1936.
Tra le sue carte si scoprono le ultime volontà da rispettare. Il giorno dopo la morte, un carro funebre solitario si avvia verso il cimitero del Verano dove il suo corpo verrà cremato. Le ceneri sono conservate al Caos, in una roccia all’ombra del famoso pino solitario non lontano dalla casa natia di fronte al mare africano.
Dina Saponaro – Lucia Torsello, Profilo Biografico,
in Luigi Pirandello, Opere,
a cura di Franca Angelini
Illustrazioni di Mimmo Paladino
Classici Treccani,
I grandi autori delle Letteratura Italiana
Collana diretta da Carlo Maria Ossola,
Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma, 2012.
MUSEI GRATUITI A ROMA
ROMA- La città eterna offre delle perle di storia e arte senza chiedervi di mettere mano al portafogli. Sono almeno 20 i musei di Roma che prevedono ingresso gratuito tutto l’anno tra cui la collezione privata di Carlo Bilotti, l’imprenditore che ha donato al comune di Roma il proprio “bottino” di opere di DeChirico, Warhol, Rotella e Severini. Anche il museo Napoleonico e della MemoriaGaribaldina, a Roma, sono gratis. Noi però vi consigliamo di visitare lo studio di Pirandello, visto che di arte a cielo aperto farete indigestione a Roma, e considerato che sicuramente avrete scelto di visitare le cose imperdibili come la Cappella Sistina o il Colosseo. E quindi in una Roma “letteraria” e meno iconica e simbolica della sua stessa storia, potete andare a vedere lo studio, che si trova sulla Nomentana, di uno dei maggiori artisti della parola. La casa è stata trasformata in museo e conserva arredi, biblioteca e cimeli originali, così come sono stati lasciati dal Pirandello.
Yolanda Bedregal ((21 September 1916 – 21 May 1999))-Poetessa e scrittrice boliviana, nota anche come Yolanda di Bolivia. La sua poesia, affine agli inizi al Simbolismo, esalta i sentimenti comuni agli esseri umani con linguaggio chiaro e preciso, virando verso una visione più religiosa.
L’AUTUNNO DEI TUOI PARCHI, NEW YORK
*
Chi ha cantato, New York, la dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Chi ha sentito il fruscio dei tuoi baci d’oro
quando l’albero ossuto ha lasciato cadere le foglie
brune nella fucina del ventre della roccia?
Ogni foglia che cade non è forse un tuo pensiero?
Città, perché la gente ti guarda con stupore
come se fossi un mostro dagli occhi milionari?
Perché tutti ti cercano nell’elevazione dell’acciaio
e nessuno nella dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Ho percorso da sola i tuoi grandi viali,
dimenticando la tua severa struttura metallica,
sottomessa solo alla terra su cui posi;
avevi tanta nostalgia di uno sguardo umano
che la terra sorrideva sentendo che la amavo.
Forse è per questo, città di New York,
che ti ho sentito mia, come una fata madrina
quando, attraversando i tuoi parchi, le foglie mi seguivano
con un mormorio profondo, muto tra i rumori,
mettendo a tacere la loro angoscia di soli infranti.
Ho amato la tua erba secca quando soffiava il vento
dei primi freddi in caduta verticale.
Ho amato i secchi filari di tronchi spogli
che sembravano bambini affamati in casa
di un avaro magnate, o lavoratori congelati
nello sciopero forzato da giorni senza pane.
Città, quanto ti amo pensando alla tua nebbia!
È così che sei più intima e più tu,
con gli occhi chiusi davanti a un cielo arancione,
inviando il tuo messaggio al fiume in cui si culla
la commovente lacrima dell’esistenza umana.
Città, ti conosco perché ti ho baciato i piedi
nell’erba gialla del tuo parco muto.
Città, ho visto i tuoi alberi scrivere geroglifici
sulla pagina aperta del cielo biancastro
fini tracce scure di segno terreno
e poi ho udito il canto liturgico degli esseri
che in solenne processione dimorarono nelle tue viscere.
Ho visto sulle tue fredde banchine galleggiare le grandi navi,
e anche la vela più alta a stelle e strisce,
dall’acqua sorgeva il tuo cuore nascosto;
ed era solo l’ombra della mia mano nell’addio
che accarezzava la carena gravida dei tuoi viaggi.
Ho visto i tuoi ponti scavalcare il tumulto della gente,
ragnatele giganti di meditazione.
Ho sentito nella notte la tua voce intima gonfia
di un respiro caldo come un seno sognante.
Mi sono sentita piccola nella tua rete di luci
(ma c’era Aladino a guidare i miei passi)
e mi hai dato ombre, riflessi, folla, solitudine.
New York, città intima, come ho saputo amarti
negli angoli lontani dove sei più tu!
Chi ha cantato, New York, la dolcezza
autunnale dei tuoi parchi?
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
forte nel nobile flusso del tuo Hudson.
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
nell’erba arida che i tuoi sandali dorano.
Dammi il vento dei moli, la mano dei tuoi ponti.
New York, continuo ad amarti nei tuoi parchi
come un’altra foglia bruna nel tuo vento d’autunno.
—————————————————–
Me llegaré al altar del hombre
en ofrenda de huída y rebeldía.
Hombre de ahora y de siempre,
abre tu mano a recibirme
y levántame al cielo como una hostia
aunque soy sólo pétalo de lágrima.
Hombre nuevo y eterno,
escúchame.
Sobre tu pecho roto
llamo y clamo.
Mi palabra golpea
-obsesionante ala obsesionada-
contra las sienes.
Mi palabra del grito
te taladra la frente,
sangre de luz de la herida
bautizará por un instante,
hombre frágil,
a la mujer eterna.
Eterna como el sueño fugaz.
Yo te miro sin ojos desde siempre.
tú me llevas en ti desde que existes.
Si antes no lo sabías,
ahora
ya no lo puedes olvidar.
Yo he crecido en el mar
sobre una ola que se alargó
para volverse tallo.
En ese tallo de agua limpia
he subido a mirar a los ojos de Dios.
Ahora me inclina un hálito a tu mano,
y estoy en ti como la mujer muerta
por la que todos los hombres han llorado.
Tú también has llorado
por tu hija, por tu madre,
por la mujer eterna de cuya muerte vives.
Ya no lo puedes olvidar.
Cuando tus ojos caminen en la sombra,
sentirás todavía por el cuerpo
una dulzura amarga y tibia:
beso en las palmas juntas
y una paloma que huye de tus dedos.
Con mi cara de piedra
yo estoy en la otra orilla.
Existo para ti en este momento;
y para mí no existo
porque soy más que eterna en cinco letras.
En el altar de Hombre fuerte como la vida,
hombre de hierro y hielo,
metal, sangre y espíritu,
cae la ofrenda íntegra
de la mujer lejana.
Mujer de canto y llanto
eterna como el sueño.
Alegato inútil
Cada día tenemos más salobre la saliva.
La migaja se crispa
ante la entornada puerta del perdón.
Cada día se saltan a las uñas
los dos niños morenos de los ojos
que fueron ángeles despiertos
a celestes honduras.
¿Con qué habrá de rematar el alegato
que está y en el tope del sollozo?
Cada hora se ha hecho voraz
como engranaje de colmillos;
los pasos se han desacostumbrado
a la caricia de la grama húmeda;
el aire avanza granizado de saetas.
Conduélete, Señor, a ti clamamos.
¡Así tu mundo tambalea!
No somos Job, oh Padre; ¡no te tornes padrastro!
¿Acaso estás enfermo, o te pudres
con este vaho que te sube desde nos?
No te tornes padrastro, buen Dios.
Sonríe una vez sobre tu Hechura.
Regresa a tu niñez de Primer Día
cuando soplabas burbujas de color
y te brotaba de las sienes
boscaje y pleamar.
Eras entonces sin arrugas,
y era tu barba de cristal
lira entre los dedos de la luz.
Sonríe, Padre, sobre el Libro mancillado,
y todos en Tu nombre
escribiremos PAZ.
La simple trinidad de una palabra:
bandera universal para soñar;
hostia de comunión para construir;
extramaunción para vivir.
Perdona, Dios, esta mi turbia arena…
Canción de la esperanza
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura
Elegía humilde
Un auto ha arrollado a la vieja sirvienta
¡La pisó como una hoja!
Era una flor del campo, toronjil, yerbabuena.
En la casa hubo duelo
por su muerte de plata.
Esta mujer oscura de noble cepa aymara
endulzaba la vida de seres y de cosas.
Llena está nuestra infancia de su imagen
de Mamita Copacabana;
debajo de su manta de castilla
siempre traía la sorpresa
de frutas, empanadas o juguetes.
¡Ay dulce abuela nuestra
de las macetas y del canario!
Tendida en su mortaja,
con unción le besamos las santas manos toscas
quietas por fin del cotidiano afán.
Parecían avergonzadas del reposo;
dos angelitos blancos bajaron a cubrirlas.
Su nombre era Mama-Usta, y nada más.
Las hadas humildes sólo tienen un nombre
pero es varita mágica de gracia y bendición.
De la mano llevaba a mi padre a la misa;
la conocieron los abuelos y bisabuelos.
Era lazo entre el ahora y lo perdido.
Todo lo daba, todo, su bondad y su alegría,
el cobre de la dádiva, el óleo del consuelo.
Cual sombra milagrosa
colmaba de manjares la olla de cada día,
y con agua y con sol daba celajes
a los visillos y manteles.
Ella prendía el fuego del hogar.
Un auto la ha matado. ¡Ay, Dios mío!
Su frente estaba herida
y su cuerpo, nunca tocado,
salpicado de barro.
Cuando llegaba al cielo,
con un solo zapato, la falda desgarrada
un coro de jilgueros le cantaba aleluyas.
Con humilde inocencia, debió de imaginar
que era fiesta pascual para nosotros.
-¿Como para ella el aleluya?
¿Como para ella nuestro llanto?-
Sencilla y limpia entró en la gloria
cuidando todavía la canasta
para la cena de hoy.
Nuestra Mama Usta ha muerto.
¡Ay canario, ay macetas, patio y agua!
Final
(Fragmento)
Ansiosa, ansiosa, ansiosa
como los cuerpos jóvenes,
allí donde quiebra la inquietud de los hombres,
allí donde diluyen su anhelo las mujeres,
en ese mismo límite
yo soy la curva flecha
que se lanza a sí misma.
Salí del duro sueño
que se rompió la quilla
contra la fina arista de mi primer naufragio.
Era mi nave nueva,
era mi sueño intacto.
Eras tú, marinero, un marinero abstracto
que me echaba en sus hombros -San Cristóbal enorme-
y yo un rosado peso: pétalo sin historia.
¿Ahora qué? Yo me digo.
El amor sólo existe en el borde del beso.
¿Y después? En el borde del sueño.
¿Y después? En el borde del mundo,
donde los hombres trizan su propia vida trunca
y donde las mujeres se alegran con las lágrimas.
En ese mismo borde
me detuve de súbito.
Me desnudaba el aire.
Por mis piernas subían suaves hilos rosados,
los senos me brotaron como pequeñas lunas.
Mi voz era la muda
rugiente voz de todas las mujeres del mundo.
Tres pinceladas ágiles
escribieron tres puntos en cruz sobre mi cuerpo.
En ese mismo borde
se me quedaron quietos
los breves pies errantes.
Mis brazos levantados
hacían señas largas
a los astros maduros.
Nieblas, nubes en polvo y líquidos arcoiris,
sangre de estrellas rotas, harapos de los mares
todo estaba caído en mis ojos cerrados
porque unos raros pájaros me arrancaron los ojos.
Ahora qué ¡Yo me dije!
Amor para mis quietos pequeños pies clavados.
Amor para mis ojos en el pico de un ave.
Para aquellos que saben desenterrar un sueño.
Los hombres están tristes porque el amor es eso.
Ya no te llamo ahora.
Ahora mi carne joven
tiene pequeñas lunas
y es más fácil hundirse
en el mar que en la tierra.
Holocausto
Oh Cristo, yo quisiera de tu augusta cabeza
desclavar los espinos; endulzar tu martirio;
darte mi adolescencia como incienso en delirio;
alabándose en salmos, restañar tu tristeza.
Te volcaría en mi alma con la dulce certeza
de corporal expolio a cabezal de lirio.
Me inmolaría entera como ala sobre cirio.
El humo, en holocausto de mi cuerpo ofrendado
empapada en perfume la esponja de la hiel
y, unida entre llaga, mi vida en tu costado.
La culpa redimida y el mundo sin pecado
a la ultima palabra de Dios crucificado,
urgiría con rosa de amor tu humana piel.
Juan Gert
Mi sueño se hizo dulcemente cal.
La bóveda perfecta de tu cráneo
enclavada en la mariposa de mis huesos
es frágil tulipán
coronando las alas abiertas de la pelvis.
Sacas el molde al mundo
en mi cintura breve;
recogido y devoto como un rezo,
hilas con mi sangre el Universo,
hijo mío.
Creces dentro de mí
como en vaso ritual.
Por ti conozco
la humildad de ser la tierra fértil,
por ti el orgullo del vital milagro;
por ti soy urna bíblica,
por ti soy comunión y penitencia.
Por ti la muerte en su medalla acuna
perfil de piedra en querubín de niebla.
El vivo tulipán de tu cabeza
saca de nuevo el molde al Universo.
Nacimiento
Ultimo día del invierno y primero de la primavera.
Ultimo día de la tibia tiniebla de la entraña
para entrar en la fría luz del mundo.
Yo estaría madura de la sombra, de la nada,
del amor: madura de la carne en que crecía.
Y asomo mi cabeza con un grito:
flor de sangrante herida
cúspide lúcida del dolor mas hondo
jubiloso momento de tragedia!
Mi madre habrá tenido sus ojos, lacrimosa,
a la semilla de las cruces.
Nadie pensaba entonces que relojes
de cuarzo o girasol la esperarían.
Al vórtice de esta hora, cuantos muertos
habrá resucitado en el vagido
que tenia la alcoba de luz verde.
Yo habría de cumplir cuantos designios,
tendría que repetir la mascara de algún antepasado
quién sabe la ponzoña de su alma, o su nobleza;
realizar sus venganzas, restañar sus fracasos.
Venir de la resaca de unos seres lejanos
que se amaron un día
que se encadenaron con la vida
ser argolla mas de esa condena.
Saber que somos frutos de un punto de alegría
y ese germen, ¡Dios mío!
desde qué grietas sube, de qué simas?
De la tibia tiniebla a la luz fría
hendiendo vida y muerte
la frágil levadura su eternidad mordida.
Rebelión
Miraba yo la pampa inmensa soñando con el mar.
Miraba yo la pampa tensa, tan alta, tan serena,
tocando con el cielo su frente de cristal;
un acorde de grises y violetas su manto,
que altura en la belleza!
que altura en la belleza!
que majestad estática en el día altiplánico!
De pronto un niño llora.
Entre la paja brava, con su ponchito viejo
llora un niño. Por que?
Quien sabe…
El indio aymará se lleva el grito en su raza,
y su clamor innato
desgarra la serena nobleza del paisaje.
Un niño, un llanto humano es una herida abierta
que ensangrienta este mundo.
Tiemblan y se estremecen los monolitos míticos:
se rompen y entreveran los caminos de paz.
Hay maldad en la tierra.
Arde lo que era de hielo.
Las palabras suaves se crispan en los puños
desafiando al relámpago.
Corro sobre la pampa desaforadamente;
me quema el corazón como una brasa.
Hay maldad en la tierra, hay injusticia.
Quizás mas lejos halle la bandera que busco.
Quiero la gleba abierta con sus labios de surcos
como un libro de música.
Quiero que se calme este llanto de niño
que es llanto del mundo.
Resaca
Cuando ya la resaca deje mi alma en la playa,
y del arco agobiado de mi espalda se vaya
el ala cercenada, cual vela desafiante,
en cicatriz y estela prolongará el instante.
Quedarán vigilando, símbolo intrascendente,
dos pobres ojos pródigos y una mendiga frente.
¡Catacumba de agua, amor! ¡No me conoces!
Ni nadie nos conoce. Sólo hay fugaces roces,
desencuentros, en la prieta mudez de encrucijadas.
Expían su demora presencias nunca halladas.
No son cruz ya los brazos ni altar para holocausto
de salvajes ternuras. Con su claror exhausto,
un sol desalentado ahonda los abismos.
Somos polvo y lucero, todo en nosotros mismos.
Para esta elemental ceniza taciturna
sea la inmensa lágrima del Mar celeste urna.
Salada savia
Padre mío, el invierno -espada de tu muerte-
sus varillas de hielo sobre mi pecho inclina.
Crujen las hojas secas en desolada sombra
al filo del minuto que te arrancó a la luz.
Ya no hablaremos nunca del verdeciente pino
aunque giren los meses hacia la primavera;
yo veré conmovida hundirse contra el cielo
la erguida copa oscura, y ya estarán tus ojos
perennemente mudos en el carbón azul.
Se esponjarán los días, descenderán las noches
hacia asoladas playas del Siempre y del Después,
mas la salada savia del amor está herida
al filo el minuto que te quitó de mí.
Contigo platicamos del trino y la gavilla,
del papel y el amigo, la reja y la parábola,
del agridulce zumo en el cristal humano.
Fraternales rondaban por tu voz de maestro
San Francisco de Asís, Don Quijote y Jesús.
Padre mío, en las horas del hogar apacible
devanamos la lana del cotidiano afán;
y siempre tu sonrisa tendía el hilo de oro
que bendecía el agua y suavizaba el pan.
Presagio de ventura, flotaban nuestros nombres
con halo de alegría si los decías tú.
Hoy me duele hasta el nombre que tú ya no pronuncias
y me pesan las manos tendidas hacia ti.
Tus ojos amparaban la senda de mi verso.
Mi infancia en tus rodillas todavía mecía
la muñeca de trapo que el tiempo sepultó.
Ahora me llueven años por cada hora que faltas.
Nuestro pino ha llorado hasta su último espino.
Aúlla la madera de su sillón vacío;
los platos en la mesa tienen sonido a roto;
las pisadas resuenas indagando algún eco.
Esta salada savia del amor se hace niebla
al filo del minuto que te llevó a la luz.
Tus manos
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura.
Viaje inútil
Para qué el mar?
Para qué el sol?
Para qué el cielo?
Estoy de viaje hoy día
en viaje de retorno
hacia aquella palabra sin orillas
que es el mar de mi misma
y de tu olvido.
Después de que te he dado mar y cielo
me quedo con la tierra de mi vida
que es dulce como arcilla
mojada en sangre y leche.
Ahora me sobra todo lo que tuve
porque soy como acuario y como roca.
Por mi sangre navegan peces ágiles
y en mi cuerpo se enredan las raíces
de unas plantas violetas y amarillas.
Tengo en la espalda herida
cicatrices de alas inservibles,
y un poquito en mis ojos todavía
hay humedad inútil de recuerdos.
Pero, que importa todo esto ahora?
cuanto estiro los brazos y no hay nada
que no sea yo misma repetida.
Acaso no soy mar y no soy roca?
Misterios de colores en mi vida
suben y bajan en mareas altas
y extraños animales y demonios
se fingen ángeles y helechos en mis grutas.
Están además el mar, el sol, la tierra.
Ahora que he vuelto de un amor inmenso,
tengo ya en la palabra sin orillas
lo que pudo caber entre sus manos.
“Tre di uno”, l’opera prima di Beatrice Cristalli, come sostiene nella postfazione il lessicografo Silverio Novelli, “è un libro forte”. Un percorso umano, prima ancora che linguistico, rigoroso e tenace, nel quale il lettore è spinto a fare i conti con le proprie certezze, attraversando le pagine di una raccolta che, per intensità stilistica e di tematiche trattate, non può non catturare l’attenzione. Come afferma Giovanna Rosadini all’inizio della prefazione, “fin dalla prima poesia di questa compatta e intensa raccolta, i temi fondanti della poetica di Beatrice Cristalli si annunciano e delineano: quello dell’identità di un soggetto depotenziato dalle dinamiche del mondo contemporaneo, e il suo rapporto con la parola”.
1)-Dabar
Se l’appello poetico è un grido
Obiettivato
Io non sono più soggetto ma sono
Altro
E già nel ritorno non sono più io;
La follia ricostruirà da capo
2)-Del buio esaurito
«Per cui, non farti perdonare».
Mai che mi fosse accaduto considerarti
Un progetto, ma un suono di qualche buona tecnica
Non c’è tuttavia rimedio al voler essere
A tutti i costi; a quest’ora, se hai bisogno, trovi
Qualche pezzo di ciabatta e le immagini
Della sera delle scelte
È tardi – era davvero presto – per
Commettere ancora qualche grosso sbaglio.
Il tempo di riordinare la posa
O di chiarire gli spasmi; ma le chiavi
Non erano già più,
Non erano più gli anni,
Gli attimi, le vigorose alleanze del vivere.
Inventerei,
Per ricominciare dove
La disillusione pesava
Screpolato il ventre – ma non è poi
Così male essere e basta – le parole
Non frugano più. Nell’adagio tutto
Può schiudersi in un’annoiata bugia
O in un pianto che voleva stare da solo
Nell’umido che sempre salva
Guarda che sei libero, verrà un ladro
E vorrà rubarti perché non potrà mai capire.
Essere le immagini della sera
Delle scelte, delle rivolte mature,
Essere tutte le mie volte; al di qua
Della tua mano la riva da cui le buone
Proposte ripresentano le mancanze
E credono di essere cambiate.
Non è vero niente
3)-Uno di uno
C’è un impulso vero
E pochi sobbalzi – entusiasta
Io so cosa fare:
Sentire senza pace le cose
Dicevi che è un dono
«Un dono che fa male»
Ma io guardo sotto
È perfetto nella sua
Inconsistenza – mare
Non può salire
Regge il suo farsi senza fondo
Nel pozzo che vedo anche io
Perché soffro i silenzi come un
Neonato
E solo le comete conoscono
I passaggi – tra sinapsi e globuli
Sparerei un canto che è solo
Sangue trattenuto
Ma quanto bene mi fa
Guardarti dopo anni senza volerti
Musa
Per dirmi quello che rimane fuori
Dalle parole – le altre
Quelle che non si dicono
Con il peso dell’ironia e l’abisso
Facile – è così, è così:
Sentirmi lontana dal mio sentimento
E fingermi a posto.
Dovrei rispondere solo a me,
Dici che troverei la meraviglia
Ma quel verso non sai indirizzarlo
Io non voglio alcun atto
Nel teatro qui sotto
Io pretendo il mare in cima
Che resta:
Ci sono cose che ritornano
E non avvisano
Le vedo, tra una mano mai chiesta
E la voglia di intrufolarsi
Nel giardino privato
Con il piacere di una sola carezza.
Nessuno apre
Ma non chiederti le cause
Vale solo la forza degli effetti,
Come guardare il vento che passa
E volerne prendere parte
In mezzo a una forma,
A un amore che squilla
4)-Il nome delle cose che iniziano
Che fastidio prude tra le banconote
Roma col derby
Ho silenziato ogni radio in quella tratta:
Domanda e risposta
Ho raccontato la mia storia
A un taxista
In corsa
Ma stavo già diventando altro
Tra la concentrazione e un atto meccanico
In fieri, in fieri
Come il cuore di un orologio
E io per questo non sono stata felice
Mai
C’è un nuovo modo di amare
Ma non ne sono capace:
Farò finta di avere un amico
Con cui guardare una pozza d’acqua
Senza niente attorno,
Più avanti metto i pensieri
Che non posso abbandonare,
I pali veri dei sogni
In queste ore che mordono ogni sosta.
Non regge bugia
Una mano, due per ogni cosa
Insieme alle cose che vedo
Dietro i palazzi, dietro ogni cielo
Del nuovo
Sui tetti che non conosco
Prometto di ricominciare
O di iniziare per la prima volta.
Lei chiama Michele
Lei chiama Michele
E Michele non arriverà
Perché è troppo facile
Rispondere ed esistere
Insieme
Allora pensi che frugare
Tra la stoffa che è solo cartone
Sia l’ultima prova
Per dimostrarci
Che di Michele tu
Ne sai
Ma poi riparti
Con nello zaino il peso
Del polistirolo – però!
Tu non lo togli
Tu chiami Michele
E Michele non esiste;
Allora ti ascolto
E mi siedo un secondo perché
Devo sostenere le parole che
Non posso ricevere
Ma non è colpa mia
Se chiamo anche io Michele
E Michele non esiste
Lo chiami ancora nella piazza
E tutti mi stanno guardando:
Ma cosa c’è di male a scrivere
In chiesa e sui gradini di
Questa città
Che odio – per tutto;
Chiamo Michele a voce grossa
Perché non mi interessa
Nessuno risponde mai
C’è solo una chiavetta
C’è solo lei che resta
E condivido questo anche io
Anche se non so
Come mi dovrei comportare
Tra le parole che ripeto
A me:
Non leggerai nulla di così diretto.
Tanto non ci riesco
Perché ne sono cosciente
Michele non arriverà
Ma si incastra negli spazi
Senza alcuna mia subordinazione
Vola da solo – vicino ai miei sogni
Quando la gente ti guarda
Un po’ si vergogna
Ti muovi goffa
Chiami Michele di nuovo
La direzione l’hai presa.
Vorrei essere quel polistirolo
Che finge di essere vero peso
Il mio l’ho dimenticato
In ogni giornata
Negli occhi – tu cercalo di sera
Nota biografica- Beatrice Cristalli (Piacenza, 1992) è laureata in Stilistica del testo presso l’Università degli Studi di Milano.La sua tesi dal titolo “L’invenzione della colpa. L’antropologia negativa leopardiana tra Zibaldone e Operette morali” ha vinto il secondo premio al Concorso per il Premio Giacomo Leopardi riservato alle tesi di laurea specialistica e dottorato 2017 del Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Collabora con diverse testate culturali online, tra le quali Treccani, Il Tascabile, Doppiozero e Cultweek. Per il Portale Treccani, in particolare, ha condotto una indagine a puntate sulla critica letteraria del web. Un suo saggio su Mario Luzi è presente nella raccolta saggistica dal titolo “Un’idea di poesia. L’officina dei poeti in Italia nel secondo Novecento”, a cura di Laura Neri (Mimesis, 2018). “Tre di uno” è la sua prima opera in versi.
Origine e diffusione-Franco Leggeri Fotoreportage-La Maremmana è conosciuta come la razza della maremma toscana e laziale, e discende dal Bos Taurus Macroceros, il bovino dalle grandi corna (razza grigia della steppa) che dalle steppe asiatiche si è diffuso in Europa. I reperti archeologici di Caere (Cerveteri) e la testa taurina del museo di Vetulonia sono la conferma che la razza Maremmana occupava le attuali aree di allevamento (maremma toscana e laziale) fin dai tempi degli Etruschi. Nel tempo i bovini sono stati poi esportati in varie zone e diversi Paesi. Ad esempio, i Granduchi di Toscana esportavano i tori maremmani nei loro possedimenti in Ungheria per rinsanguare la razza Pustza. Con la progressiva bonifica dei terreni paludosi, la razza ebbe un notevole impulso tra le due guerre mondiali, grazie anche ad una intensa opera di selezione. La Maremmana in passato era una razza “da lavoro” e “da carne” ed il secondo dopoguerra, contraddistinto dalla meccanizzazione agricola e dalla riforma agraria, è stato l’evento che ha portato alla sua diminuzione in termini numerici. Oltre ciò, anche gli incroci hanno ulteriormente ridotto il numero dei capi in purezza.
Oggi continua il mantenimento e la valorizzazione della razza Maremmana che è conosciuta come “razza da carne”, ma anche come simbolo di biodiversità.
Questa razza è diffusa maggiormente nella sua culla d’origine, ovvero nelle regioni Lazio e Toscana, in particolare nelle province di Grosseto, Viterbo, Roma, Terni, Latina, Pisa, Livorno e Arezzo, ma possiamo trovare bovini maremmani, in minor numero, anche in altre regioni, come Marche, Umbria, Basilicata e Puglia. L’interesse verso questa razza è cresciuto anche da parte di operatori stranieri, in particolare spagnoli e centro americani, che vedono nella Maremmana il mezzo ideale per la valorizzazione di ambienti particolarmente difficili.
L’allevamento è di tipo brado: gli animali vivono all’aperto per tutto l’anno, riparandosi nelle macchie durante l’inverno. Le mandrie al pascolo vengono gestite, ancora oggi, dai butteri in sella ai cavalli maremmani. In primavera avviene la marcatura a fuoco dei soggetti di 1 anno e le vacche vengono imbrancate con i tori. La stagione delle monte dura circa 3 mesi: vengono formati dei gruppi di monta in cui il toro viene inserito con un rapporto di 1:20/30. Riguardo l’alimentazione, oltre all’erba di pascolo e ghiande dei boschi, vengono integrati fieno e granaglie; i bovini maremmani può essere somministrato anche foraggio di qualità inferiore.
Associazione allevatori
Nel 1957 è stata fondata l’Associazione Nazionale Allevatori Bovini da Carne (ANABIC) con sede a S. Martino in Colle (PG), che promuove il miglioramento genetico, valorizza e diffonde le razze bovine autoctone italiane (Marchigiana, Chianina, Romagnola, Maremmana e Podolica) e detiene il Libro Genealogico Nazionale unico delle Razze Bovine Italiane da Carne, il cui Regolamento fu approvato nel 1969. L’associazione partecipa anche alle iniziative di carattere promozionale e divulgative, collabora ai programmi di ricerca degli Organismi statali competenti ed Università, e fornisce l’assistenza tecnica agli operatori stranieri interessati ad allevare le Razze Italiane.
Consistenza
I capi di razza maremmana iscritti all’ANABIC* sono 11593. Le regioni più rappresentative della razza sono quelle d’origine: il Lazio (con 8844 capi e 168 allevamenti) e la Toscana (con 2543 capi e 65 allevamenti). E’ diffusa anche in altre regioni italiane come Basilicata (con 93 capi e 5 allevamenti) e Puglia 8con 86 capi e 3 allevamenti).
Secondo i dati della BDN – Anagrafe Nazionale Zootecnica (aggiornati al 31/12/2020), che include anche i capi iscritti, in Italia sono allevati 14785 bovini di razza Maremmana. Nel dettaglio, in base alla categoria di animali sono così suddivisi in: 809 da 0 a 6 mesi, 2059 da 6 a 12 mesi, 1715 da 12 a 24 mesi, e 10202 da 24 mesi in su. In particolare, nel Lazio sono presenti 10269 capi ed in Toscana 3468, in totale.
Caratteristiche morfologiche
I bovini maremmani sono di taglia grande e sono caratterizzati da elevata rusticità, solidità, robustezza scheletrica e tonicità muscolare. Inoltre, sono longevi e raggiungono anche i 15-16 anni di età.
Di seguito sono riportate le caratteristiche morfologiche indicate dallo “standard di razza”.
La grande struttura ossea è leggera, gli arti sono molto solidi, gli unghioni sono duri, gli appiombi sono generalmente perfetti ed i piedi sono forti e ben serrati, con talloni alti. La capacità addominale è idonea a contenere alimenti a bassa digeribilità, e il dorso è lungo e largo. La pigmentazione è nera nelle parti del musello, fondo dello scroto, nappa della coda ed unghioni. La persistenza di peli rossi è limitata alla regione del sincipite, la coda è grigia e la depigmentazione è parziale nelle aperture naturali. La cute è fine, elastica e nera. La testa è leggera, con musello ampio.
Il dimorfismo sessuale in questa razza è rappresentato dal colore del mantello e dalla forma delle corna. Il mantello è di colore grigio, più scuro nei tori e più chiaro nelle vacche. Le corna sono un tratto caratteristico della razza: a forma di semiluna nei maschi ed a forma di lira nelle femmine; negli adulti il colore delle corna è bianco-giallastro alla base e nero in punta.
Maschi: per i tori il peso medio è di 10-12 quintali e l’altezza media è di 150 cm. Hanno il mantello grigio scuro. Il collo è ben proporzionato e muscoloso con giogaia sviluppata; il profilo superiore è marcatamente convesso.
Femmine: per le vacche adulte il peso medio è di 6 – 8 quintali e l’altezza media è di 145 cm. Le bovine hanno il mantello grigio chiaro, il collo è lungo e leggero con giogaia sviluppata, e il profilo superiore è più rettilineo. La mammella appare sviluppata e vascolarizzata, con tessuto elastico e spugnoso, quarti regolari e con capezzoli ben diretti e di giuste dimensioni per l’allattamento. I parti sono spontanei e sono concentrati in primavera. Le vacche possiedono una spiccata attitudine materna ed assicurano una produzione di latte abbondante per l’accrescimento giornaliero del vitello ( > 1 kg).
I vitelli nascono con i mantello color fromentino che, dopo 3 mesi d’età, diventa grigio. Alla nascita pesano 30-40 kg e rimangono con la madre fino ai 6/7 mesi d’età. Vengono poi svezzati e venduti, oppure rimangono in azienda per l’ingrasso.
*(dati ANABIC aggiornati al 31/12/2020): le consistenze del Libro Genealogico includono sia gli animali iscritti ai Registri Principali Vacche e Tori, che hanno almeno due generazioni di ascendenti note (definiti dalla normativa comunitaria “di razza pura”), sia quelli iscritti al Registro Supplementare Vacche ed al Registro del Giovane Bestiame, che, pur appartenendo alla razza ed essendo iscritti al Libro, non possiedono una genealogia completa fino alla seconda generazione.
Fonte-Rivista online: RUMINANTIA®Web Magazine del mondo dei Ruminanti
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