Poesie di Giampiero Neri- Grande solitario della Poesia italiana-
Giampiero Neri – Poeta e critico letterario e all’unanimità considerato uno dei maggiori poeti del Secondo Novecento Italiano nonché il più in ombra dei grandi maestri, come lo definì Andrea Cortellessa.
1. L’aspetto occidentale del vestito
A Giancarlo Majorino
Corso Donati, il metrò
scava diverse gallerie ai giardini
radici che non dissero inutilmente
le ossa di qualche romano in provincia
e una valigia di fibra
la ferrovia della stazione Nord,
ora non ricordo tutti i particolari
un tempo passato corre via dietro gli alberi.
Giampiero Neri
*
2.
La Pavonia maggiore o Saturnia
la farfalla Atropo ed altre specie notturne
sono un notevole esempio di mimetismo.
Si adattano in parte all’ambiente
per il colore più scuro e intenso
grigio bruno sulle ali
ma anche per i continui segni
che vi ricorrono in forma di cerchi
e nel modo uguali.
All’origine di questi ornamenti
si incontra una simmetria,
uno schema fissato in anticipo
muove insieme chi cerca
e chi ha interesse a non farsi riconoscere,
una corrispondenza alla fine.
*
3.
Il cattivo tempo è alle porte e consiglia la prudenza, come comanda nostra madre Chiesa.
In concreto il temporale minacciò di far volare un numero straordinario di carte.
Risultava sempre più difficile incontrare il professore, costantemente impegnato nella correzione di qualche compito.
E avendolo visto per caso:
“Il dottor Livingstone, suppongo” disse, mentre gli tendeva la mano attraversando vasti deserti di tavolini rossi e sedie impagliate.
*
4.
L’osservatore si orienta su alcuni particolari. Il colore delle foglie o la presenza di effimere sulle rive dei torrenti. Strani insetti che hanno breve vita, come dice il nome.
Verso il centro della riserva sta il falco rosso, cacciatore notturno. Durante il giorno è nascosto, ma qualche volta attraversa una valletta o una radura, molestato dai passeri.da: Liceo
5.
Villa Nena
La facciata era sicuramente liberty.
Come onde apparivano i balconi
verso il lago,
in parte nascosti dagli alberi.
Nella casa che è stata abbandonata
cigola la porta non chiusa,
della vecchia proprietà
non si hanno notizie da tempo.
E’ rimasto nel quadro alla parete
un documento del ’43,
un attestato che la signora è cittadina straniera
sotto la protezione del Consolato.
*
6
Due tempi
La civetta è un uccello pericoloso di notte
quando appare sul suo terreno
come un attore sulla scena
ha smesso la sua parte di zimbello.
Con una strana voce
fa udire il suo richiamo,
vola nell’aria notturna.
Allora tace chi si prendeva gioco,
si nasconde dietro un riparo di foglie.
Ma è breve il seguito degli atti,
il teatro naturale si allontana.
All’apparire del giorno
la civetta ritorna al suo nido,
al suo dimesso destino.
*
7
Pesce d’acqua dolce
Lavarello è il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago. Ha la testa piccola, come di chi deve pensare poco. Ma per la forma si adatta alla profondità. Il colore è bianco argento. Sta nei confini dell’acqua scura, fredda e si suppone pigro e pacifico.
Sul banco del pescivendolo si vede qualche volta, il corpo coronato dal rosso vivo delle branchie.
*
8
Capitolo ottavo, VII
Lo scrittore di provincia soffriva d’insonnia. Si dedicava a ricerche di interesse storico ma non aveva abbandonato i vecchi progetti letterari.
Stava leggendo il finale del capitolo ottavo “anche tu valoroso Casca, le tue lucertole sul muro”.
*
9
Delle misure, dei pesi, III
Del declinante mondo di Maria Signaroli
che abitava da noi in campagna
non si poteva domandare.
Oscillava fra le finestre della stanza,
qualche volta in giardino,
finché cadde sul pavimento.
Era una mattina se ricordo bene,
l’anno il ’32 o il ’33.
*
Giampiero Neri
10
Sovrapposizioni, I
Piegando indietro la testa, l’ospite imitò il verso di un gufo.
Una nota breve, simile a un abbaiare, a un colpo di tosse.
Aveva una barba rada, gli occhi grandi, giallastri.
*
11
IV
Del gufo reale o Sminteo, distruttore di topi, si può dire che è raro. Vive nei boschi abbandonati ma
imbattersi nel suo sguardo severo, nelle sue penne arruffate, può turbare.
Del suono kiok, kiok, del verso teck, teck.
Procedono dalla forma originaria, senza mutamenti. Segnali di un mondo scomparso.
Qualche volta si sente nella notte un richiamo stridulo, una voce alterata.
da : Dallo stesso luogo
13
Dallo stesso luogo alla memoria di Edoardo Persico
(Napoli 1900 – Milano 1936)
Come l’acqua del fiume si muove
contro corrente vicino alla riva
si disperde dentro fili d’erba
lontana dal suo centro
la memoria fa un cammino a ritroso
dove una materia incerta
torna con molti frammenti.
*
14
Dove il fitto bosco
scendeva con avvallamento profondo
verso un luogo nascosto
a un tratto gigantesco,
appariva mutato l’aspetto degli alberi
in quel punto
prendeva nome di orrido
.
*
15
Quella strana colonia
di rari villeggianti
era dispersa.
Dei loro campi di tennis
e vani conversari
era rimasto un eco di saluti notturni
di biciclette che si allontanavano
.
*
16
Viaggi I
Era una trappola per talpe
che aveva progettato, una tagliola
per la loro sortita allo scoperto
e del fumo insufflato nei cunicoli.
Ma era passato il tempo
si svolgeva un diverso avvenimento
anche noi diventati talpe
per il variare delle circostanze
*
da: Altri viaggi
17
Segnali
Dei vari colori
pericoloso è il giallo
accompagnato al nero
nella forma dell’ape
e di altre specie più rare,
e la diversità dei grigi
dei bianchi specialmente.
*
18
si era fermato e lasciato cadere la bicicletta
sulla strada, l’amico di mio padre
“se tutto doveva finire…” mi aveva detto abbracciandomi,
era stato il commento.
*
19
Variazione
Si nasconde il gufo sul ramo
durante il giorno,
si adatta a una diversa parte
nel suo breve travestimento.
Ma col variare della luce
abbandona la sua muta inoffensiva,
nella sua forma e figura
si presenta al rituale appuntamento.
*
20
Figura
In quella parte del campo
vicino al deposito di legna
si era levata una figura indistinta,
come una macchia più scura
nel buio della sera,
sembrava un cane che volava sopra i tetti.
*
21
Tracce
Presa fra i sassi dove si nasconde
la lumaca fa udire un breve suono
unico segno manifesto
della sua muta esistenza.
Del suo andare solitario
si vede qualche volta una traccia,
come una scia luccicante nell’erba.
Giampiero Neri
Biografia di Giampiero Nerinato a Erba (Como) nel 1927. è morto il 15 febbraio a Milano, dove ha vissuto dal 1950 – Poeta e critico letterario e all’unanimità considerato uno dei maggiori poeti del Secondo Novecento Italiano nonché il più in ombra dei grandi maestri, come lo definì Andrea Cortellessa. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: L’aspetto occidentale del vestito (Parma, Guanda, 1976), Liceo (ibid., 1986) e Dallo stesso luogo (Milano, Coliseum, 1992) confluite successivamente in Teatro naturale (Milano, Mondadori, 1988); Erbario con figure (Como, LietoColle, 2000) e Finale (Olgiate Comasco, Dialogolibri, 2002) sono invece parte di Armi e mestieri (Milano, Mondadori, 2004) cui seguono Paesaggi inospiti (Ibid., 2009). Molti gli studi sulla sua poesia ed i volumi pubblicati tra i quali si ricordano Giampiero Neri. Poesie e immagini, regia di Vincenzo Pezzella (Milano, Viennepierre, 2005), Giampiero Neri. Il poeta architettonico, a cura di Pietro Berra (Olgiate Comasco, Dialogolibri, 2005) Giampiero Neri. Il mestiere del poeta, a cura di Massimiliano Martolini (Ancona, Cattedrale, 2009), la traduzione apparsa negli Stati Uniti Natural Theater: Selected Poems, 1976-2009, introduzione e a cura di Victoria Surliuga, traduzioni di Ron Banerjee (New York, Chelsea Editions, 2010) e l’eccellente Giampiero Neri un maestro in ombra, a cura di Alessandro Rivali (Milano, Jaca Book, 2013). L’ultima raccolta di poesia pubblicata da Giampiero Neri è Il professor Fumagalli ed altre figure (Milano, Mondadori, 2012) ed è il volume che segna il distacco del poeta dalla poesia in favore delle prose brevi. Le brevi prose qui proposte sono una anticipazione del nuovo libro.
-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Via Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Rio Galeria
Via Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Via Aurelia-Località Malagrotta-Via Aurelia-Località Malagrotta-
Roma -Borgo Pio Art Gallery-Uniti per Dare una Mano – Una Tela per la Pace
Roma-L’Associazione Culturale Borgo Pio Art Gallery, in collaborazione con la curatrice di eventi Barbara Filippi, con il patrocinio della Regione Lazio e la collaborazione della Croce Rossa Italiana – Comitato Area Metropolitana di Roma Capitale, presenta, in occasione del Giubileo 2025, una mostra collettiva di arte contemporanea dal titolo “Uniti per Dare una Mano – Una Tela per la Pace“.
La mostra verrà inaugurata il 29 marzo alle 17:30 presso la sede della Borgo Pio Art Gallery, in via degli Ombrellari 2, Roma, e durerà fino al 12 aprile 2025.
Parteciperanno alla mostra pittori, scultori e fotografi la cui arte, intesa come strumento di unione, desidera trasmettere un messaggio di speranza in un momento storico segnato da conflitti e divisioni. Gli artisti esporranno opere caratterizzate da stili, tecniche, forme e contenuti dei più disparati, ma con un intento comune: promuovere la pace attraverso l’arte, comunicando l’importanza di azioni individuali e collettive per il suo raggiungimento e invitando i visitatori a partecipare attivamente all’evento, creando un senso di appartenenza e responsabilità condivisa.
La parola “Mano”, nel titolo della mostra, rappresenta il legame tra idea e azione. La mano può essere strumento di guerra, ma in questo contesto simboleggia l’importanza di contribuire, anche con piccoli gesti, alla costruzione di un mondo migliore.
Durante le giornate del 4 e 5 aprile, gli artisti saranno coinvolti nella realizzazione di un’opera d’arte collettiva attraverso un live painting, in cui i loro colori, segni, impronte e visioni si uniranno in un unico messaggio di pace. Una volta completata la tela, il ricavato della vendita e della raccolta di fondi sarà destinato a sostenere le attività di emergenza svolte dal Comitato Area Metropolitana di Roma Capitale della Croce Rossa Italiana.
Alla serata d’inaugurazione, sabato 29 marzo, sarà presente Daniele Nicosia, conduttore del programma televisivo “Arte24 – Il viaggio nella cultura”, in onda su Rete Oro. Sarà inoltre disponibile un banco d’assaggio dei vini del Casale del Giglio, sponsor dell’evento, e sarà presente Teresa Ingrosso, fondatrice di Endless by Teresa Roma e Italian Culture Collection, nonché licenziataria ufficiale del logo del Giubileo 2025. Teresa Ingrosso crea gioielli pensati per ispirare forza alle donne, poiché non sono solo belli, ma racchiudono emozioni e legami profondi.
“Uniti per Dare una Mano – Una Tela per la Pace” rappresenta un’opportunità unica per riflettere insieme sul potere dell’arte e sull’importanza di agire per la pace. In questa importante riflessione, verranno coinvolti cittadini, turisti e pellegrini. Con la partecipazione attiva di artisti e visitatori, si spera che questo evento memorabile possa ispirare un cambiamento positivo grazie all’arte, quale importante mezzo di comunicazione e cambiamento sociale.
Artisti partecipanti: Antonella Argiroffo, Luca Maiello, Claudia Artuso, Francesco Barnabei, Andrèe Bollella, Silvia Castaldo, Massimo Ceccaccio, Luisa Ciampi, Alessandro Croce, Antonio Di Bianca, Silvano Fabrizio, Fernanda Faggian, Vito Fulgione, Valeria Galasso, Gemma Garofalo, Daniela Giovannini, Teresa Ingrosso, Gloria Leonardi, Paolo Mariani, Silvia Mattioli, Michel Oz, Nino Palmieri, Paolo Pardi, Pia Parodi, Pietro Plutino, Alexandra Schaffer, Emanuela Tomassi, Andrea Trisciuzzi.
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
Sinossi-1911: la Triangle Waist Company di New York occupa i tre piani più alti dell’Asch Building di New York. La compagnia produce camicette e occupa circa 500 lavoratori, in gran parte giovani donne immigrate. Il 25 marzo scoppia un incendio. I proprietari si mettono in salvo e lasciano morire le donne e gli uomini intrappolati. L’incendio fa 146 vittime di cui 129 giovani donne italiane e ebree dell’Europa orientale. 62 di loro muoiono lanciandosi dalle finestre.
Il racconto del più grave incidente industriale della storia di New York, per voce di una di quelle camicette che, esposta in una vetrina davanti al grattacielo, vede tutto e tutto sa. Le sue parole illuminano sulle condizioni di sfruttamento delle lavoratrici, ma anche sulle lotte per l’emancipazione delle donne.
L’incendio di New York in cui perirono 146 operai, fra cui 129 giovani e giovanissime donne immigrate dall’Italia, dalla Germania e dall’Europa orientaleraccontato da una prospettiva insolita
Lei le vide quelle giovani operaie gettarsi dall’ottavo, dal nono, dal decimo pia della Triangle Shirtwaist Factory, la fabbrica di New York andata a fuoco in quel 25 marzo del 1911.
Lei, la voce narrante, è una di quelle camicette esposte in una vetrina di un negozio davanti al palazzo della manifattura. Da lì vede tutto e tutto sa. Il suo racconto illumina sulle condizioni di sfruttamento delle lavoratrici, ma anche sulle lotte sindacali e politiche che le donne in quegli anni stanno conducendo.
Per mille camicette al giorno ha sullo sfondo l’incendio di una fabbrica tessile di New York. Le operaie immigrate dall’Italia, dalla Germania e dall’Europa orientale muoiono arse vive, per asfissia, per i traumi riportati o per essersi gettate dall’ottavo, nono e decimo piano dell’Asch Building, sotto lo sguardo scioccato dei passanti.
Venduta e avvolta nella velina, alla fine lei attraversa l’oceano per approdare in Sicilia, quella terra che molte di quelle operaie avevano lasciato in cerca di una vita migliore.
Serena Ballista e Sonia Maria Luce Possentini scrivono un libro “per”: per riflettere sulle morti bianche, per ragionare sullo sfruttamento sul lavoro, per mettere a confronto passato e presente, per ricordarci di quando i migranti eravamo noi e infine per regalarlo insieme a una mimosa, da sempre simbolo di lotta politica delle donne.
L’Orfeo (SV 318) è un’opera di Claudio Monteverdi (la prima in ordine di tempo) su libretto di Alessandro Striggio. Si compone di un prologo («Prosopopea della musica») e cinque atti.
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
È ascrivibile al tardo Rinascimento o all’inizio del Barocco musicale, ed è considerata il primo vero capolavoro della storia del melodramma, poiché impiega tutte le risorse fino ad allora concepite nell’arte musicale, con un uso particolarmente audace della polifonia. Basata sul mito greco di Orfeo, parla della sua discesa all’Ade, e del suo tentativo infruttuoso di riportare la sua defunta sposa Euridice alla vita terrena.
Composta nel 1607 per essere eseguita alla corte di Mantova nel periodo carnevalesco, L’Orfeo è uno dei più antichi Drammi per musica a essere tuttora rappresentati regolarmente.
Dopo l’anteprima, avvenuta all’Accademia degli Invaghiti di Mantova il 22 febbraio 1607 (con il tenore Francesco Rasi nel ruolo del titolo), la prima è stata il 24 febbraio al Palazzo Ducale di Mantova. In seguito il lavoro fu eseguito nuovamente, anche in altre città italiane, negli anni immediatamente successivi. Lo spartito venne pubblicato da Monteverdi nel 1609 e, nuovamente, nel 1615.
In seguito alla morte del compositore (1643), dopo la prima del 1647 al Palazzo del Louvre di Parigi il lavoro non venne più interpretato, e cadde nell’oblio.
Dopo la seconda guerra mondiale, le nuove versioni dell’opera iniziarono a presentare l’uso di strumenti d’epoca, per perseguire l’obiettivo di una maggiore autenticità. Vennero quindi pubblicate molte nuove registrazioni e L’Orfeo divenne via via sempre più popolare. Nel 2007 il quarto centenario della prima venne celebrato con numerose rappresentazioni in tutto il mondo. Nel 2009 va in scena alla Scala diretta da Rinaldo Alessandrini con Roberta Invernizzi, Sara Mingardo e Robert Wilson, di cui esiste un video trasmesso da Rai 5.
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
Nella partitura pubblicata Monteverdi elenca circa 41 strumenti da impiegare nell’esecuzione. Lo spartito include (oltre a monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, cori a cinque voci con basso non cifrato, ecc.) pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti da utilizzare sono a volte citati (ad esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese»).
Tuttavia, nonostante le indicazioni sulla partitura, ai musicisti dell’epoca era concessa una notevole libertà di improvvisare (questa permissività non si riscontra nei lavori più maturi di Monteverdi). Pertanto ogni rappresentazione dell’Orfeo è differente dalle altre, oltre che unica e irripetibile.
La passione di Vincenzo Gonzaga per il teatro musicale crebbe grazie ai suoi legami familiari con la corte di Firenze. Verso la fine del XVI secolo, infatti, i musicisti fiorentini più innovativi stavano sviluppando l’intermedio—una forma musicale stabilita da tempo come un interludio inserito tra gli atti dei drammi parlati— reideandolo in forme più innovative.[2] Guidati da Jacopo Corsi, questi successori della celebre Camerata Fiorentina[n 1] diedero vita al primo lavoro appartenente al genere melodrammatico: Dafne, composta da Corsi e Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598. Questo lavoro unisce in sé elementi canori madrigalistici e monodici, oltre a passi strumentali e coreografici, col fine di stabilire un unicum drammatico. Di quest’opera ci restano solo dei frammenti. Tuttavia, altri lavori fiorentini dello stesso periodo (tra cui la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, L’Euridice di Peri e quella di Giulio Caccini) sono giunti interamente fino a noi. In particolare, queste ultime due opere furono le prime dedicate al mito di Orfeo (tratto dalLe metamorfosi di Ovidio), tema che ispirerà i compositori di epoche successive fino al giorno d’oggi. In questo, furono diretti precursori de L’Orfeo di Monteverdi.[5][6]
La corte dei Gonzaga era da tempo celebre per il mecenatismo nei confronti dell’arte teatrale. Un secolo prima dell’epoca di Vincenzo Gonzaga, si rappresentò a corte il dramma lirico di Angelo PolizianoLa favola di Orfeo. Circa la metà di questo lavoro era cantata invece che parlata. In seguito, nel 1598, Monteverdi aiutò la compagnia musicale di corte a mettere in scena il dramma Il pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Mark Ringer, storico del teatro, descrive questo come un “lavoro teatrale spartiacque” che ispirò la moda italiana del dramma pastorale.[7] Il 6 ottobre 1600, durante una visita a Firenze per il matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, il duca Vincenzo assistette a una rappresentazione dell’Euridice di Peri.[6] È probabile che allo spettacolo fossero presenti anche i musicisti più importanti del duca, tra cui Monteverdi. Il duca si rese subito conto dell’originalità di questa nuova forma di intrattenimento drammatico, e del prestigio che avrebbe conferito a chi l’avesse patrocinata.[8]
Anche il giovane Striggio era un abile musicista. Nel 1589 (a 16 anni), aveva suonato la viola alla cerimonia nuziale di Ferdinando di Toscana. Assieme ai due figli più giovani del duca Vincenzo (Francesco e Fernandino), era membro dell’esclusivo circolo intellettuale mantovano: l’Accademia degli Invaghiti, che rappresentava un importante trampolino di lancio per le opere teatrali della città.[10][11]
Non si sa esattamente quando Striggio abbia iniziato la stesura del libretto, ma il lavoro era evidentemente già avviato nel gennaio del 1607.
In una lettera scritta il 5 gennaio, Francesco Gonzaga chiede a suo fratello (all’epoca vicino agli ambienti della corte fiorentina) di fargli ottenere i servigi di un abile cantante castrato (quest’ultimo impiegato nella compagnia musicale del granduca), per la rappresentazione di un dramma per musica da eseguirsi durante il carnevale mantovano.[12]
Le fonti principali impiegate da Striggio per la scrittura del libretto furono il decimo e l’undicesimo libro dalle Metamorfosi di Ovidio, e il quarto libro dalle Georgiche di Virgilio. Questi documenti gli fornirono il materiale di partenza, ma non suggerivano già la forma di un dramma completo (per esempio: i fatti narrati negli atti 1 e 2 de l’Orfeo occupano appena tredici righe nelle Metamorfosi).[13]
Il musicologo Gary Tomlinson sottolinea le numerose similarità tra i testi di Striggio e Rinuccini, evidenziando che alcuni dei discorsi contenuti ne L’Orfeo rassomigliano, come contenuto e come stile letterario, ad alcuni corrispettivi ne l’Euridice.[15]
La critica Barbara Russano Hanning fa notare come i versi di Striggio siano meno raffinati di quelli di Rinuccini, nonostante la struttura del libretto scritto da Striggio sia più interessante.[10]
Nel suo lavoro Rinuccini fu obbligato a inserire un lieto fine (il melodramma era stato pensato per le festività legate alle nozze di Maria de’ Medici). Striggio, invece, che non scriveva per una cerimonia di corte ufficiale, poté attenersi di più alla conclusione originale del mito, in cui Orfeo è ucciso e smembrato dalle Menadi (dette anche Baccanti) iraconde.[14] Scelse infatti di scrivere una versione mitigata di questo finale cruento: le Menadi minacciano di distruggere Orfeo, ma il suo vero destino, alla fine, non viene mostrato.[16]
Il libretto edito a Mantova nel 1607 (in concomitanza con la prima) presenta la conclusione ambigua ideata da Striggio. Tuttavia lo spartito monteverdiano, pubblicato a Venezia nel 1609 da Ricciardo Amadino, termina in maniera del tutto diversa, con Orfeo che ascende al cielo grazie all’intercessione di Apollo.[10]
Secondo Ringer, il finale originale di Striggio fu quasi di sicuro impiegato alla prima de l’Orfeo, ma indubbiamente (a dire del critico) Monteverdi ritenne che la nuova conclusione (quella dell’edizione dello spartito) fosse esteticamente corretta.[16]
Il musicologo Nino Pirrotta, invece, sostiene che il finale con Apollo facesse già parte della pianificazione originale della messa in scena, ma che alla prima non fosse stato messo in atto. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la spiegazione di Pirrotta, poiché la piccola stanza che ospitò l’evento non era in grado di contenere gli ingombranti macchinari teatrali richiesti da questa conclusione. Quella delle Menadi, secondo questa teoria, non sarebbe altro che una scena sostitutiva. Le intenzioni del compositore vennero ristabilite al momento della pubblicazione dello spartito.[17] Recentemente la spiegazione di Pirrotta è stata messa in discussione: l’espressione «sopra angusta scena» che si legge nella lettera di dedica di Claudio Monteverdi non indicherebbe uno spazio piccolo per la rappresentazione, ma sarebbe da opporre al «gran teatro dell’universo», cioè al più vasto pubblico raggiungibile dal compositore dopo la pubblicazione a stampa della partitura.[18]
Quando Monteverdi scrisse la musica per L’Orfeo, possedeva già un’approfondita preparazione nell’ambito della musica per teatro. Aveva infatti lavorato alla corte dei Gonzaga per sedici anni, nel corso dei quali si era occupato di varie musiche di scena (in qualità sia di interprete sia di arrangiatore). Nel 1604, per giunta, aveva scritto il ballo Gli amori di Diana ed Endimone (per il carnevale mantovano del 1604–05).[19] Gli elementi da cui egli attinse per comporre la sua prima opera di stampo melodrammatico — l’Aria, l’Aria strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli interludi musicali— non furono, come sottolineato dal direttore d’orchestra Nikolaus Harnoncourt, creati ex-novo da Monteverdi, ma fu lui che “amalgamò l’insieme delle vecchie e nuove possibilità, creando un unicum veramente moderno”.[20] Il musicologo Robert Donington scrive al riguardo: “Lo spartito non contiene elementi che non siano basati su altri già ideati in precedenza, ma raggiunge la completa maturità in questa forma artistica appena sviluppata… Vi si trovano parole espresse in musica come [i pionieri dell’opera] volevano fossero espresse; vi è musica che le esprime… con l’ispirazione totale del Genio”[21]
Monteverdi pone i requisiti orchestrali all’inizio della partitura pubblicata ma, in conformità con la pratica del tempo, non ne specifica l’utilizzo esatto.[20] A quell’epoca, infatti, era normale consentire a ogni interprete di fare scelte proprie, basate sulla manodopera orchestrale di cui disponeva. Quest’ultimo parametro poteva variare considerevolmente da un luogo a un altro. Inoltre, come fa notare Harnoncourt, gli strumentisti sarebbero stati tutti compositori e si sarebbero aspettati di collaborare creativamente a ogni esecuzione, piuttosto che eseguire alla lettera ciò che era scritto sullo spartito.[20] Un’altra pratica in voga era quella di permettere ai cantanti di abbellire le proprie arie. Monteverdi, di alcune arie (come “Possente spirito” da l’Orfeo), scrisse sia la versione semplice sia quella abbellita,[22] ma secondo Harnoncourt “è ovvio che dove non scrisse abbellimenti non voleva che essi venissero eseguiti”.[23]
Ogni atto dell’opera è collegato a un singolo elemento della storia, e si conclude con un coro. Nonostante la struttura in cinque atti, con due cambi di scenografia richiesti, è probabile che la rappresentazione de l’Orfeo abbia seguito la prassi in uso per gli spettacoli d’intrattenimento a corte, ovvero fu eseguito come un continuum, senza intervalli o calate di sipario tra i vari atti. Erano difatti in uso, all’epoca, i cambi di scenografia visibili agli occhi degli spettatori, e quest’abitudine si riflette nelle modifiche dell’organico strumentale, della tonalità e dello stile che si riscontrano nella partitura dell’Orfeo.[24]
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
Trama
La recitazione ha luogo in due posti contrastanti: i campi della Tracia (negli Atti 1, 2 e 5) e nell’Oltretomba (negli Atti 3 e 4). Una Toccata strumentale (una fioritura di trombe) precede l’entrata della Musica, rappresentante lo “spirito della musica”, che canta un prologo di cinque stanze di versi. Dopo un caloroso invito all’ascolto, La Musica dà prova delle sue abilità e talenti, dichiarando:
Detto ciò, canta un inno di lode al potere della musica, prima di introdurre il protagonista dell’opera, Orfeo, capace di incantare le belve selvatiche con la sua musica.
Atto Primo
Dopo la richiesta di silenzio dell’allegoria della Musica, il sipario si apre sul Primo Atto per rivelare una scena bucolica. Orfeo ed Euridice entrano insieme con un coro di ninfe e pastori, che recitano alla maniera del Coro greco antico, entrambi cantando a gruppi e individualmente. Un pastore annuncia che è il giorno di matrimonio della coppia; il coro risponde inizialmente con una maestosa invocazione (“Vieni, Imeneo, deh vieni”) e successivamente con una gioiosa danza (“Lasciate i monti, lasciate i fonti”). Orfeo ed Euridice cantano del loro reciproco amore prima di lasciarsi con tutto il gruppo della cerimonia matrimoniale nel tempio. Quelli rimasti sulla scena cantano un breve coro, commentando su Orfeo:
«Orfeo, di cui pur dianzi furon cibo i sospir, bevanda il pianto, oggi felice è tanto che nulla è più che da bramar gli avanzi.»
Orfeo ritorna in scena con il coro principale, elogiando le bellezze della natura. Orfeo medita poi sul suo precedente stato di infelicità, proclamando:
«Dopo ’l duol vi è più contento, Dopo ’l mal vi è più felice.»
Questa atmosfera di gioia ha termine con l’ingresso della Messaggera, che comunica che Euridice è stata colpita dal fatale morso di un serpente nell’atto di raccogliere dei fiori. Mentre la Messaggera si punisce, definendosi come colei che genera cattive situazioni, il coro esprime la sua angoscia. Orfeo, dopo avere espresso il proprio dolore e l’incredulità per quanto accaduto, comunica l’intenzione di scendere nell’Aldilà e persuadere Plutone a fare resuscitare Euridice.
Atto Terzo
Orfeo viene guidato da Speranza alle porte dell’Inferno. Dopo avere letto le iscrizioni sul cancello (“Lasciate ogni speranza, ò voi ch’entrate.”), Speranza esce di scena. Orfeo deve ora confrontarsi con il traghettatore Caronte, che si rifiuta ingiustamente di portarlo attraverso il fiume Stige. Orfeo prova dunque a convincere Caronte cantandogli invano un motivo lusinghiero. In seguito, Orfeo prende la sua lira, incantando il traghettatore Caronte, che piomba in uno stato di sonno profondo. Orfeo prende poi il controllo della barca, entrando nell’Aldilà, mentre un coro di spiriti riflette sul fatto che la natura non può difendersi dall’uomo.
Atto Quarto
Nell’Aldilà, Proserpina regina degli Inferi, viene incantata dalla voce di Orfeo, supplicando Plutone di riportare Euridice in vita. Il re dell’Ade viene convinto dalle suppliche della moglie, a condizione che Orfeo non guardi mai indietro Euridice nel ritorno sulla terraferma, cosa che la farebbe scomparire nuovamente per l’eternità. Euridice entra in scena al seguito di Orfeo, che promette che in quello stesso giorno egli giacerà sul bianco petto della moglie. Tuttavia, un dubbio comincia a sorgergli nella mente, convincendosi che Plutone, mosso dall’invidia, lo abbia ingannato. Orfeo, spinto dalla commozione, si gira distrattamente, mentre l’immagine di Euridice comincia lentamente a scomparire. Orfeo prova dunque a seguirla, ma viene attratto da una forza sconosciuta. In seguito, Orfeo spinto dalle proprie passioni a infrangere il patto con Plutone.
Atto Quinto
Tornato nei campi della Tracia, Orfeo tiene un lungo monologo in cui lamenta la sua perdita, celebra la bellezza di Euridice e decide che il suo cuore non sarà mai più trafitto dalla freccia di Cupido. Un’eco fuori scena ripete le sue frasi finali. Improvvisamente, in una nuvola, Apollo scende dal cielo e lo castiga: “Perch’a lo sdegno ed al dolor in preda così ti doni, o figlio?”. Invita Orfeo a lasciare il mondo e a unirsi a lui nei cieli, dove riconoscerà la somiglianza di Euridice nelle stelle. Orfeo risponde che sarebbe indegno non seguire il consiglio di un padre così saggio, e insieme salgono. Un coro di pastori conclude che “chi semina fra doglie, d’ogni grazia il frutto coglie”, prima che l’opera si concluda con una vigorosa moresca.
Roma- Frida Kahlo in mostra al Museo Storico della Fanteria-
Per la prima volta a Roma, uno sguardo su Frida Kahlo al Museo Storico della Fanteria- “Questa mostra racconta uno degli aspetti meno conosciuti della vita e dell’arte di Frida Kahlo, cercando di restituire la persona dietro l’artista e l’artista dietro la persona. Il tutto attraverso le opere di uno dei più grandi fotografi del primo ‘900, Nickolas Muray, e le fedeli ricostruzioni degli abiti, gioielli e ambienti di Frida, cimeli che evidenziano come l’artista messicana sia diventata una icona mondiale che pervade la cultura popolare”.
Frida Kahlo in mostra al Museo Storico della Fanteria
Vittoria Mainoldi, curatrice della mostra internazionale Frida Kahlo through the lens of Nickolas Muray, ha così illustrato, durante la presentazione alla stampa, il contenuto e il messaggio dell’esposizione, che sarà visitabile al pubblico dal 15 marzo fino al 20 luglio, per la prima volta a Roma al Museo Storico della Fanteria. La mostra esplora il legame tra il fotografo ungherese, naturalizzato americano, e la pittrice messicana, ma soprattutto restituisce un’immagine della femminilità e della personalità di Frida Kahlo, attraverso lo sguardo di chi condivise con lei una profonda amicizia e una relazione romantica per circa 10 anni.
Documenti e ricostruzioni del variopinto universo di Frida completano la rassegna. La mostra, prodotta da Navigare srl, da una iniziativa di Difesa Servizi S.p.A – Ministero della Difesa, con il patrocinio di Regione Lazio, Città di Roma e Ambasciata del Messico in Italia, è curata da Vittoria Mainoldi. L’esposizione, che intende evidenziare il profilo di Frida Kahlo come persona dietro all’artista, ricade nel 100° anno dall’incidente che devastò la vita dell’artista-icona messicana. Il tragico epilogo, con le numerose fratture subìte, che la costrinsero ad una vita di sofferenze e dolori, segna, allo stesso tempo, la nascita di Frida artista.
La mostra presenta un percorso con circa 50 fotografie, in bianco e nero e a colori, scattate tra il 1937 e il 1946, provenienti dall’archivio di Nickolas Muray, che immortalano l’artista messicana in diverse situazioni, pubbliche e private, rivelando molteplici aspetti della sua personalità e del suo carattere, mettendo in risalto la sua forza interiore e la sua bellezza unica. Tra queste anche la celebre fotografia di Frida sulla panchina bianca (1939). Insieme al percorso fotografico, la mostra presenta, inoltre, riproduzioni di letterem dipinti, dello studio di Frida, e di abiti e gioielli di Frida. A completare la mostra, una ricca selezione di francobolli dal mondo a lei dedicati e una sala video in cui assistere al documentario sulla vita dell’artista messicana e del marito Diego Rivera.
A sottolineare la profondità del legame tra i due, in mostra sono presenti anche alcune delle lettere che si scambiarono, in un rapporto fatto di amicizia, stima e amore, durato fino alla morte di Frida avvenuta nel 1954 all’età di 47 anni. Molte delle fotografie realizzate da Muray sono entrate nell’immaginario collettivo riferito a Frida Kahlo, ritraendola con i suoi caratteristici abiti tradizionali e accessori floreali, che in questa mostra occupano uno spazio a sé, grazie alla minuziosa ricostruzione di 8 abiti con relativi accessori e 6 parure di gioielli realizzate artigianalmente e che intendono restituire la potenza della comunicazione che Frida affidava ad un abito, ad un accessorio o a un gioiello, considerati come qualcosa di più di un mero oggetto estetico.
Frida Kahlo in mostra al Museo Storico della Fanteria
A completare il percorso espositivo, anche una sezione dedicata ai francobolli emessi da numerosi Paesi in omaggio a Frida Kahlo, a cominciare dal 2001 ? con la prima emissione da parte degli Stati Uniti d’America, a testimonianza dell’ammirazione per Frida come artista e come donna, simbolo di forza e tenacia ? oltre alla ricostruzione fedele in scala reale dello studio di Frida, a Coyoacàn, con la fotografia che ritrae Muray e Frida proprio nel suo studio.
La mostra aprirà al pubblico dal 15 marzo al 20 luglio 2025 con i seguenti orari: dal lunedì al venerdì ore 9:30 – 19:30 mentre sabato, domenica e festivi chiuderà alle 20:30. Costo biglietto intero: 15 euro. Biglietteria in sede e su ticketone.it. Informazioni: www.navigaresrl.com
Francesco Cardelli Romarcord Divagazioni su Roma tra nostalgia e amnesia
Descrizione del libro di Francesco Cardelli-Una vita raccontata attraverso i cambiamenti di una città amatissima, o meglio: una città raccontata attraverso il pretesto di un’autobiografia, quella di Francesco Cardelli, nato allo scoppio della Seconda guerra mondiale e cresciuto in una Roma che poteva essere allo stesso tempo aristocratica e popolare, cinica e bonaria, obbediente alla Chiesa eppure già aperta alla controcultura di sinistra. Da una parte la «scola de preti», i riti familiari, il Circolo della Caccia, le udienze papali, gli scout, i rosari serali; dall’altra il Folkstudio, i primi cinema d’essai, il teatro delle cantine: luoghi trasgressivi, eccitanti per i figli di quella Roma ancora provinciale e bigotta che andavano così scoprendo il blues, il cinema d’autore, le avanguardie. I dettagli, soprattutto linguistici, sono registrati perché resti una traccia della città che non c’è più: i richiami degli ambulanti, i menù delle osterie, i giochi dei bevitori, i proverbi, le tante parole di un romanesco che nessuno parla più (la fojetta per versare il vino, la giannetta che soffia da nord), i cibi dimenticati (le fusaje, i mostaccioli), le filastrocche. E così le tradizioni dimenticate: gli zampognari con le «cioce» ai piedi, la «Befana del vigile», le corse dei cavalli «barberi» in via del Corso, la banda musicale al Pincio; e i mestieri scomparsi, come il bottijaro, il robbivecchi, l’ombrellaro o l’«uomo del sacco». Poi c’è la piccola storia: le rare memorabili nevicate, Mister Okay che si tuffa nel Tevere, le Olimpiadi del ’60 con gli atleti a zonzo per via del Corso, Bob Dylan al Folkstudio, Sartre e Beauvoir alla birreria Santi Apostoli, Liz Taylor intravista nel pubblico al concorso ippico di piazza di Siena. E ovviamente ci sono le strade, i cui nomi evocano «una piccola città da libro di fiabe», i quartieri, i negozi ormai chiusi, i mercati, tutta una topografia che tiene insieme, nel lutto dei tanti irreversibili cambiamenti, passato e presente.
L’autore
Francesco Cardelli
Francesco Cardelli è nato accidentalmente a Lugano, nel 1940, ma è sempre vissuto a Roma. Questa è la sua prima pubblicazione
Francesco Cardelli
Romarcord
Divagazioni su Roma tra nostalgia e amnesia
ISBN 9788822906274 2021, pp. 192 145×210, brossura € 14,00 € 13,30 (prezzo online -5%)
Francesco Cardelli Romarcord
Recensioni / Tuffo nella Roma Anni ’60 ritratto di tutta l’Italia-Giacomo Giossi da «L’Eco di Bergamo»
Roma è quasi sempre sinonimo di passato: passato artistico e culturale, passato geopolitico e imperiale così come cinematografico come quando Roma veniva definita la Hollywood sul Tevere e la dolce vita era uno stile di vita famoso nel mondo. Questa idea di un passato quale riferimento ideale e assoluto è chiaramente un limite allo sviluppo e all’idea stessa di città ed è in parte anche la causa dei tanti limiti soprattutto strutturali – che oggi rendono complicata la vita ai suoi cittadini e visitatori. Tuttavia il rapporto vivo e continuo di Roma con il passato la rende anche uno dei pochi luoghi al mondo in cui il passato riesce ad avere un ruolo attivo potenzialmente virtuoso e in cui la memoria può intrecciarsi con la contemporaneità regalando visioni e possibilità uniche. Il romanzo di Francesco Cardelli, Romarcord, centra fortemente questo punto perché costruisce un vivido racconto autobiografico che prende il via dai primi anni del secondo dopoguerra e descrive Roma attraverso un lessico famigliare. La Roma di Cardelli è quella composta da strade e quartieri che fanno da sfondo ad una quotidianità anni Sessanta che tuttavia pulsa ancora oggi viva nella memoria nazionale: la prima auto, la prima coca cola, la cena in pizzeria, il cinema e la scuola. Cardelli assembla i propri ricordi intrecciandoli con quelli di un Paese che esce poverissimo dalla Seconda guerra mondiale e conosce la prima ricchezza (e le prime contraddizioni) con il boom economico. Romarcord è un ricordo affettuoso e malinconico di un tempo finito e concluso, ma anche della forza e della presenza assoluta di quel tempo nelle strade e nei palazzi di Roma. Una memoria dunque non antica, ma che riguarda il passato possibile nel tempo breve di un’esistenza. Ed è in questo lasso di tempo, di un Novecento complicato ed oggi esaurito, che si palesa anche la forma di una città che altro non potrebbe essere che la capitale d’Italia. Un titolo e un ruolo che veste a pennello non tanto per la centralità del potere (che è pure effettiva) o per la maestosità dei suoi palazzi e delle sue opere d’arte, ma per quella capacità minima se si vuole di rappresentare in ogni suo borgo un qualunque altro possibile borgo italiano. Un tempo si diceva che a Roma si diventava dopo pochi giorni tutti romani, e lo si diceva come nota di demerito. La verità è che quella romanità attraversa come un fiume carsico tutto il Paese rappresentando la nostra storia tra vizi e virtù, e soprattutto chi potremo essere in futuro.
Francesco Cardelli
Romarcord
Divagazioni su Roma tra nostalgia e amnesia
ISBN 9788822906274 2021, pp. 192 145×210, brossura € 14,00 € 13,30 (prezzo online -5%)
Giacomo Puccini-La Tosca,un melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica-
Giacomo Puccini-La Tosca-1964 – IL SOPRANO MARIA CALLAS NELLA “TOSCA”, PA, CANTANTE, OPERA, LIRICA, COSTUME, SCENA, TEATRO, TAVOLO, CANDELE, PUNTARE, BRACCIO, ANNI 60, ITALIA, B/N, 03-00007881
Tosca è un melodramma in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900. A partire dal 1890 la scena del melodramma vide una fase di straordinaria vitalità; l’inizio di questa fase può farsi coincidere con il successo improvviso dell’opera Cavalleria Rusticana di Mascagni. A seguire esordì una nuova generazione di compositori (Leoncavallo, Franchetti, Cilea, Mascagni, Giordano e lo stesso Puccini), tanto da spingere a coniare il termine “Giovine Scuola“.
Tale terminologia non voleva indicare un’apparteneza culturale o anagrafica comune, quanto piuttosto un radicale cambiamento improntato alla ricerca di nuovi moduli drammaturgici e musicali che inaugurò una nuova stagione creativa.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Per abbracciare questa richiesta di novità, anche grazie a soggetti di forte impatto emotivo, Puccini aveva manifestato l’intenzione di scrivere un’opera basata sul dramma in cinque atti di Victorien Sardou “La Tosca“.
Puccini assistette ad una rappresentazione de “La Tosca” nel 1889 a Milano, rimanendone profondamente colpito: vi riconobbe subito il soggetto perfetto per un’opera lirica.
L’editore Giulio Ricordi si attivò per avere i diritti dell’opera, ma sorsero alcuni problemi con Victorien Sardou che spinsero Puccini a rinunciare.
Giacomo Puccini-La Tosca-Opera-Carlo-Felice-
Una confessione di Giuseppe Verdi al suo biografo (“Vi sarebbe un dramma che, se io fossi ancora in carriera, musicherei con tutta l’anima, ed è Tosca“) spinse l’editore Ricordi a ritentare la strada di un accordo per i diritti del dramma, questa volta con esito positivo.
Il primo destinatario dell’incarico di comporre l’opera fu Alberto Franchetti, reduce dal recente successo del suo “Cristoforo Colombo” (1892). Pochi mesi dopo aver ottenuto l’incarico (fine 1893) Franchetti decise però di rinunciare all’opera.
Fu così che gli subentrò Giacomo Puccini.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Nonstante la composizione dell’opera particolarmente travagliata, tra ripensamenti e modifiche dell’ultimo minuto, la Tosca di Puccini debuttò il 14 Gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma.
Il ruolo di Tosca venne affidato a Hariclea Darclée, Emilio De Marchi fu il primo Cavaradossi e Eugenio Giraldoni ricoprì con successo il ruolo di Scarpia. L’orchestra venne diretta da Leopoldo Mugnone.
Il clima della prima era quello delle grandi occasioni: tutti gli esponenti della “Giovine Scuola” erano presenti (compreso Alberto Franchetti). Inoltre anche l’allora Regina e il Capo del Governo assistettero a parte della rappresentazione.
La Tosca di Puccini ottenne da subito un considerevole successo; il compositore riuscì così a scrollarsi definitivamente di dosso il cliché di “cantore delle piccole cose”.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Floria Tosca, celebre cantante – soprano
Mario Cavaradossi, pittore – tenore
Il Barone Scarpia, capo della polizia – baritono
Cesare Angelotti, un prigioniero politico evaso – basso
Il Sagrestano – basso
Spoletta, agente di polizia – tenore
Sciarrone, Gendarme – basso
Un carceriere – basso
Un pastore – ragazzo,voce bianca
L’azione si svolge a Roma, il 14 Giugno 1800, data della battaglia di Marengo. La Repubblica Romana è caduta e feroci rappresaglie sono in corso verso gli ex-repubblicani simpatizzanti di Napoleone Bonaparte.
Giacomo Puccini-La Tosca-Maria Callas
ATTO I
Angelotti, già console della Repubblica e per questo prigioniero politico, riesce a evadere da Castel Sant’Angelo e trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea Della Valle. Sua sorella, la Marchesa Attavanti, gli ha lasciato la chiave della cappella di famiglia, ove egli trova nascondiglio.
Arriva il sagrestano per ripulire i pennelli del pittore Mario Cavaradossi, impegnato nella realizzazione di un affresco raffigurante la Madonna. Il pittore entra poco dopo per rimettersi al lavoro. Quando toglie il telo dal suo affresco, il sagrestano ha un sobbalzo: nell’effige della Madonna riconosce un volto già visto. Cavaradossi confessa di essersi ispirato ad una devota della chiesa, non sapendo che si tratta proprio della Marchesa Attavanti.
Continua a dipingere il quadro guardando, di tanto in tanto, una foto della sua amata Floria Tosca.
Pur se inquieto, il sagrestano fa per uscire, quando nota che il paniere con il pranzo di Cavaradossi è ancora intatto; pensa ad un digiuno di penitenza, ma il pittore lo rassicura dicendo di non aver appetito.
Angelotti, pensando di esser rimasto solo, esce dal nascondiglio. Incontra però Cavaradossi, suo vecchio amico e anch’egli simpatizzante per Napoleone Bonaparte. I due vengono interotti bruscamente dall’arrivo di Tosca; Angelotti è costretto a nascondersi frettolosamente, non prima di aver preso il paniere di Cavaradossi.
Floria Tosca, cantante e amante di Cavaradossi è per sua indole molto gelosa. Ha sentito il suo amato parlare con qualcuno e teme la presenza di un’altra donna. Dopo essere stata rassicurata dal Cavaradossi di essere l’unica donna da lui amata, lo invita a passare la serata insieme nella villa del pittore. Prima di uscire però, riconosce nello sguardo della Madonna gli occhi della Marchesa Attavanti; di nuovo viene presa da un’impeto di gelosia, e di nuovo Cavaradossi le proclama il suo unico e incondizionato amore.
Allontanatasi Tosca, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. Racconta che la sorella ha nascosto nella cappella per lui delle vesti femminili; aspetterà il tramonto per fuggire dalla caccia del barone Scarpia. Cavaradossi consiglia all’amico di recarsi subito alla sua villa e – in caso di pericolo – nascondersi nel pozzo. Un colpo di cannone sparato da Castel Sant’Angelo annuncia che la fuga di Angelotti è stata scoperta. Questi è dunque costretto alla fuga.
Entra il sagrestano circondato da una folla di chierici e confratelli, tutti festosi per la notizia dell’imminente (e presunta) sconfitta di Napoleone da parte degli austriaci.
Li interrompe bruscamente Scarpia, accompagnato da Spoletta, giunto nella chiesa per ricercar il fuggitivo. Trova il paniere vuoto e un ventaglio femminile con lo stemma Attavanti. Riconoscendo alfine il volto della Marchesa nell’effige della madonna, capisce che il piano di fuga di Angelotti è stato ordito con la complicità di Cavaradossi.
Tosca torna in chiesa per annunciare al suo amato un cambio di programma: dovrà presenziare ad un concerto a Palazzo Farnese quella sera stessa, quindi non potrà recarsi alla sua villa. Il barone Scarpia utilizza il ventaglio per instillare il dubbio nella mente di Tosca. Ella riconosce lo stemma sul ventaglio e crede che Cavaradossi abbia una relazione con la Marchesa; corre quindi alla villa del pittore per poter cogliere i due sul fatto.
Scarpia la fa seguire da Spoletta e da alcuni poliziotti. Il suo scopo è duplice: avere per sè Floria Tosca e catturare Angelotti.
Giacomo Puccini-La Tosca-Maria Callas
ATTO II
Interno di Palazzo Farnese, camera di Scarpia al piano superiore; dalla finestra provengono le note del concerto e – di lì a poco – la voce inconfondibile di Tosca. Il capo della polizia è in compagnia del gendarme Sciarrone.
Spoletta entra trascinando con sè Cavaradossi. Nella villa infatti vi era solo quest’ultimo, nessuna traccia del fuggitivo Angelotti. Scarpia cerca di fargli confessare l’ubicazione del suo amico, senza però riuscirvi.
Tosca entra nella stanza; vedendo Cavaradossi gli fa un cenno per fargli intendere d’aver capito tutta la situazione. Lui la implora di non dire nulla.
Cavaradossi viene portato nella camera di tortura mentre Scarpia, rimasto solo con Tosca, cerca di farle rivelare il nascondiglio di Angelotti. Per convincerla a parlare le fa sentire le urla di dolore di Cavaradossi, provenienti dalla stanza attigua.
Solo allora Tosca capisce cosa sta succedendo al suo amato. Cerca di resistere, sopportando le urla strazianti del pittore, finchè non cede: urla a Scarpia che Angelotti è nascosto nel pozzo del giardino.
Cavaradossi, sanguinante e fisicamente provato, viene condotto da Tosca, mentre Spoletta va a catturare Angelotti.
Irrompe nella stanza Sciarrone con una notizia preoccupante dal fronte: quella che sembrava essere una sconfitta pesante per Napoleone, in realtà si è trasformata in una vittoria decisiva. L’esercito austriaco è stato sconfitto a Marengo.
Cavaradossi ritrova le forze e urla alla vittoria, facendosi beffe di Scarpia. Quest’ultimo non tollera l’affronto del rivale e lo condanna a morte.
Rimasto di nuovo solo con Tosca, Scarpia le dice che potrebbe esserci un modo per salvare Cavaradossi: ella dovrà concedersi a lui.
Tosca rifiuta sdegnata la proposta, ma il barone alfine la convince, complice anche l’imminenza dell’esecuzione capitale.
Spoletta ritorna con la notizia della morte di Angelotti: il fuggiasco, pur di non farsi catturare, si è tolto la vita.
Sugellato il patto con Tosca, il barone finge di accordarsi con Spoletta per una finta fucilazione di Cavaradossi: in questo modo il pittore avrebbe salva la vita e il barone manterrebbe il suo rruolo di capo della polizia.
Tosca, non capendo l’inganno del barone, chiede inoltre un salvacondotto per poter fuggire da Roma con il suo amato. Scarpia le consegna il documento e chiede a Tosca di rispettare il patto; in tutta risposta lei prende un coltello dalla tavola imbandita e lo pugnala, uccidendolo.
ATTO III
Dalla sua cella di reclusione, Mario Cavaradossi chiede al suo carceriere di poter scrivere un’ultima lettera alla sua amata Tosca.
Mentre si strugge per trovare le parole adatte, Tosca fa il suo ingresso nella cella accompagnata da Spoletta (il quale ancora non è a conoscenza della morte di Scarpia). Quando i due amanti restano soli, Tosca confessa il suo crimine e mostra a Cavaradossi il salvacondotto firmato da Scarpia prima di morire.
Tutto ciò che dovrà fare Cavaradossi è cadere quando i soldati spareranno con i loro fucili caricati a salve. Tosca infatti non immagina che la messa in scena della finta fucilazione sia in realtà un inganno perpetrato da Scarpia per approfittare di lei.
Cavaradossi viene portato sul ponte di Castel Sant’Angelo per essere fucilato; quando i soldati sparano lui cade a terra.
Tosca attende che i soldati se ne siano andati, prima di accorrere verso il suo amato e aiutarlo a rialzarsi; solo allora capisce che, quella che avrebbe dovuto essere una simulazione, in realtà è stata una vera fucilazione.
Dalle stanze di Castel Sant’Angelo si odono le urla di Spoletta e dei soldati che hanno trovato il corpo di Scarpia.
Si recano in fretta sul ponte per arrestare Tosca. Lei sale sul parapetto del ponte e si getta nel vuoto, non prima di aver lanciato un’ultima maledizione a Scarpia.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista, activista y defensora de los Derechos Humanos, Alaíde Foppa escribió desde su propia vida con la contundencia de quien quiere transformar con la palabra. Gabriella Borrelli analiza la poesía de esta escritora desaparecida durante la dictadura guatemalteca de Romeo Lucas García. Ilustra Aymará Mont.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Hay vidas que son como un grito. Un grito que permanece en el aire por décadas, no ensordecedor sino potente para sonar bien lejos. Esa necesidad de alzar la voz para atravesar continentes es una de las características de la poesía, la obra y la vida de Alaíde Foppa. Española de nacimiento, guatemalteca por decisión política y amorosa, pasó su infancia en Argentina y se formó en Italia. Poeta, crítica de arte, traductora, activista por los derechos humanos y catedrática universitaria, fundó un periódico fundamental para la historia del feminismo latinoamericano: FEM.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por los pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
–no corteza vacía–
una imagen que brilla en el espejo
–no sombra que se esfuma–
y una voz clara
–no pesado silencio–
alguna vez escuchada.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
La vida de Alaíde Foppa estuvo signada por el movimiento político de Latinoamérica. Lo personal y lo político borran sus límites (im)precisos cuando la militancia política se hace de los días y de la vida. Tres de sus cinco hijos pertenecían al Ejército Guerrillero de los Pobres, lo que a dos de ellos les costó la vida.
Cinco hijos tengo,
cinco caminos abiertos,
cinco juventudes,
cinco florecimientos.
Y aunque lleve el dolor
de cinco heridas
y la amenaza
de cinco muertes,
crece mi vida
todos los días.
Alaíde permanece aún desaparecida desde que en 1980 un grupo de inteligencia guatemalteca conocido como G-2 la secuestró una mañana en el centro de Ciudad de Guatemala.
Anatomía no es destino (1976):
Durante milenios la mujer ha sido considerada en función de su cuerpo y de su sexo: el parto, la crianza, la «satisfacción» sexual que puede dar al hombre, su intrínseca impureza determinada por las hemorragias, su efímera belleza, su condición de ser inútil y agotado cuando ya no es fecunda. Aún los llamados trabajos «femeninos», dependen sobre todo del cuerpo, pues son en su mayoría tareas «manuales». La mujer, por su parte, aceptó el papel que se le asignaba y, consciente de que su cuerpo era lo único importante que poseía, no pudo menos que dedicarle toda su atención, si deseaba valorar sus atributos; estuvo por lo tanto, casi siempre dispuesta a ser de uno u otro modo «objeto sexual». Hoy las cosas han cambiado, ya no se discute, por ejemplo, si la mujer tiene o no alma, como sucedió todavía en los primeros siglos del cristianismo oficial, y muchas mujeres desempeñan tareas que no son precisamente inútiles. Sin embargo, los estereotipos persisten y en una forma implícita se les sigue regateando a las mujeres el derecho –y el deber– de ser algo más que un cuerpo.
La idea de una poesía de combate, de verso corto y directo que la acompañara en su militancia se vuelve palabra. La presencia del romancero en algunos poemas atraviesa un castellano hecho del exilio, una lengua que puede dar cuenta del sueño latinoamericano de la revolución y también lanzar una línea histórica hacia los movimientos de mujeres revolucionarias.
«Mujer»
Un ser que aún no acaba de ser,
No la remota rosa angelical,
que los poetas cantaron.
No la maldita bruja que los inquisidores quemaron.
No la temida y deseada prostituta.
No la madre bendita.
No la marchita y burlada solterona.
No la obligada a ser buena.
No la obligada a ser mala.
No la que vive porque la dejan vivir.
No la que debe siempre decir que sí.
Un Ser que trata de saber quién es
Y que empieza a existir.
Alaíde nació en Barcelona en diciembre de 1914 y publicó: Poesías (1945), La sin ventura (1955), Los dedos de mi mano (1960), Aunque es de noche (1962), Guirnalda de primavera (1965), Elogio de mi cuerpo (1970) y Las palabras y el tiempo (1979).
«Un día»
Este cielo nublado
de tempestad oculta
y lluvia presentida
me pesa;
este aire denso y quieto,
que ni siquiera mueve
la hoja leve
del jazmín florecido,
me ahoga;
esta espera
de algo que no llega
me cansa.
Quisiera estar lejos,
donde nadie
me conociera:
nueva
como la yerba fresca,
ligera,
sin el peso
de los días muertos
y libre
ir por caminos ignorados
hacia un cielo abierto.
Elogio de mi cuerpo puede leerse como manifiesto poético y estético de un feminismo activo conectado con las luchas de liberación latinoamericanas sin perder la búsqueda poética. Un corazón como puño en alto, una dulzura potente, una vida que vuelve.
«El corazón»
Dicen que es del tamaño
de mi puño cerrado.
Pequeño, entonces,
pero basta
para poner en marcha
todo esto.
Es un obrero
que trabaja bien,
aunque anhele el descanso,
y es un prisionero
que espera vagamente
escaparse.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
BIOGRAFÍA
Alaíde Foppa nació en Barcelona, el 3 de diciembre de 1914, su padre era un periodista liberal argentino y su madre, Julia Falla, guatemalteca, provenía de una familia de ricos hacendados. Vivió en Argentina e Italia, donde cursó sus estudios de secundaria. Cursó el bachillerato en Bélgica, y la universidad en Roma, en el Departamento de Letras y de Historia del Arte. En 1943 llegó a Guatemala, y en 1944 asumió la nacionalidad guatemalteca. Colaboró activamente en la revolución, se casó con Alfonso Solorzano con quien vivió un primer exilio en México, fue docente de la Facultad de Filosofía y Letras de la Universidad Nacional Autónoma de México en la que ejerció la cátedra de literatura italiana y de sociología. Se trasladaron a París cuando su marido fue nombrado cónsul en la capital francesa. En 1950 regresó a Guatemala junto con su familia, pero cuatro años después tuvieron que salir nuevamente al exilio tras el derrocamiento del gobierno del coronel Jacobo Árbenz Guzmán en junio de 1954.
Durante la década de los años setenta algunos de sus hijos se involucraron con la guerrilla guatemalteca, específicamente con el Ejército Guerrillero de los Pobres (EGP). En 1980 su hijo Juan Pablo, murió en Nebaj, su esposo murió atropellado en la Avenida Insurgentes de la ciudad de México.
En 1980, viajó a Guatemala a renovar su pasaporte guatemalteco vencido y el 19 de diciembre fue secuestrada en pleno día, se asumió que fue el gobierno del general Fernando Romeo Lucas García el que ordenó la desaparición y más tarde el asesinato de Alaíde Foppa, pero no pudo comprobarse. En 1999, su hijo mayor, Julio, residente en México, realizó una campaña internacional, para tratar de encontrar sus restos y a los culpables de su muerte.
Foppa fue pionera en el feminismo, en 1976 fundó la revista Fem, la primera revista semanal feminista de México. Colaboró también en el Foro de la Mujer, programa radiofónico transmitido por Radio Universidad en México durante varios años y se integró activamente a la Agrupación Internacional de Mujeres contra la Represión. También fue crítica de arte y en 1977 organizó en el Museo de Arte Carrillo Gil una exposición de mujeres artistas.
BIBLIOGRAFÍA
Poesía:
El ave Fénix: Las palabras y el tiempo (1945)
Poesías (1945)
La sin ventura (1955)
Los dedos de mi mano (1958)
Aunque es de noche (1959)
Guirnalda de primavera (1970)
Elogio de mi cuerpo (1970)
Poesía. Guatemala: serviprensa centroamericana (1982)
Ensayo:
La poesía de Miguel Ángel. México (1966)
Confesiones de José Luis Cuevas. México (1975)
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Parole di carne e ossa : Alaide Foppa
Costa poco la parola, anzi, non costa nulla. Tanto, la si dice soltanto e dire non è fare. Dire non vale. Non è vincolante. Non è una promessa. Si può sempre tornare indietro, tanto l’ho solo detto. Siamo abituati a poter dire tutto ciò che vogliamo senza temere alcuna conseguenza e infatti diciamo tutto, siamo circondati di parole e produciamo in continuazione fiumi di parole, parliamo senza fine, senza pensare, scriviamo, leggiamo, pensiamo, le parole non ci lasciano mai in pace ( e nemmeno noi a loro concediamo un attimo di tregua), ci girano sempre intorno, le sentiamo, ma non le ascoltiamo e se le ascoltassimo, scopriremmo che il più delle volte non significano nulla. Tutto è possibile, tutte le parole sono permesse e in questo fiume traboccante le parole non si distinguono più.
Nell’arco di un’ora, si afferma tutto e il contrario di tutto, si parla, si mente, si dimentica ciò che si è appena detto ( e ciò che hanno detto gli altri ), tanto, dire non è fare, la parola non costa nulla e come tutto ciò che non ha un costo, vale poco. Mentre lentamente stiamo soffocando in quel mare di parole senza senso, prive di contenuto che produciamo in ogni istante, le nostre amate chiacchiere, in altre parti del mondo – e in altri tempi – per una parola sola, si può finire in carcere o addirittura perdere la propria vita. Lo so che questa non è una novità. Non è un’ affermazione originale, anzi, lo sanno tutti. Sto facendo del moralismo? E’ come quando si osa dire che noi mangiamo fino al vomito mentre altrove ogni trenta secondi si muore per mancanza di cibo? Non si può dire questo, perché tanto si sa? Perché tanto non cambia nulla. Perché tanto…
Ma non parlo della fame nel mondo. Parlo di chi ha perso la vita per aver detto la sua parola. Perché una parola non è solo una parola, ma è già un atto. Dire è fare. Ogni parola crea una nuova realtà. Dipende da noi.
(Questo non è un bel testo, non è scritto bene e non dice nulla di nuovo. Eppure non intendo limarlo. Non ho in questo momento alcuna voglia di scrivere un bel testo molto originale e very sophisticated, perché la mia stessa abilità di manovrare le parole, come di volta in volta conviene, mi spaventa. Mi è sospetta. Io, donna di lettere che ha condotto tutta la sua vita nella o con la parola, talvolta non mi fido più di me stessa.
Alaide Foppa : Tre poesie
Alaide Foppa (*1914) fu rapita il 19.12.1980 in Guatemala. Da allora non si ha più notizie di lei.
Nata in Italia da madre guatemalteca e padre argentino, trascorse la sua infanzia e gioventù in Italia e Belgio. Sposa Alonso Solórzano, un giurista che, negli anni ’50 fu membro di due governi in Guatemala. Nei tempi della dittatura, la famiglia chiede asilo politico in Messico.
Alaide Foppa fu una donna emancipata che, oltre ad occuparsi dei suoi 5 figli, fu poetessa, professoressa universitaria per italianistica, nonché traduttrice dei sonetti di Michelangelo, fondatrice della rivista “ Fem” e fondatrice di una cattedra per sociologia femminile all’università di città del Messico.
Nonostante la sua appartenenza alla borghesia, Foppa, una convinta femminista e al contempo una donna elegante dei gusti raffinati, si schiarò per la sinistra. Tre dei suoi figli appartenevano alla Guerillia guatemalteca. Poco tempo dopo che fu ucciso il suo figlio Juan Pablo, Foppa sparì insieme al suo autista.
Si presume che in Guatemala sono spariti durante gli anni delle vari guerre civili più di 45.000 persone.
Señor, estamos solos,
Señor, estamos solos,
Yo, frente a Ti:
Diálogo imposible.
Grave es tu presencia
Para mi solitario amor.
Escucho tu llamada
Y no sé responderte.
Vive sin eco y sin destino
El amor que sembraste:
Sepultada semilla
Que no encuentra el camino
Hacia la luz del día.
En mi pecho encendiste
Una llama sombría
¿Por qué señor,
no me consumes entera,
si no hay para tu amor
otra respuesta
que mi callada espera?
Signore, siamo soli
Signore, siamo soli
di fronte a Te :
Dialogo impossibile.
Grave è la tua presenza
per il mio amore solitario.
Ascolto la tua chiamata
e non so risponderti.
Vive senza eco e senza destino
l’amore che tu hai seminato:
seme sepolto
che non trova la via
verso la luce del giorno.
Nel mio petto hai acceso
una fosca fiamma.
Perché, Signore
non mi consumi tutta
se al tuo amore non c’è
altra risposta
che la mia silenziosa speranza?
Oraciòn
Dame, señor
un silencio profund
y un denso velo
sobre la mirada.
Así seré un mundo
cerrado:
una isla oscura;
cavaré en mí misma dolorosamente
como en tierra dura
Y cuando me haya desangrado
ágil y clara será mi vida
Entonces, como río sonoro y transparente,
fluirá libremente
el canto encarcelado.
Preghiera
Dammi, oh Signore,
un silenzio profondo
e un denso velo
sugli occhi.
E un mondo si chiuderebbe:
un isola oscura;
scaverò dentro me stessa dolorosamente
come nella terra dura.
E quando sarò dissanguata,
agile e chiara sarà la mia vita.
E come un fiume sonoro e trasparente
scorrerà liberamente
il canto imprigionato.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por los pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
-no corteza vacía-
una imagen que brilla en el espejo
-no sombra que se esfuma-
y una voz clara
-no pesado silencio-
alguna vez escuchada.
Talvolta si sente
come una cosa dimenticata
nell’ angolo oscuro della casa
come frutto divorato di dentro
da uccelli rapaci,
come ombra senza faccia né peso.
La sua presenza è appena
una lieve vibrazione
nell’aria immobile.
Si sente trapassare dagli sguardi
e diventare nebbia
tra le goffe braccia
che la cingono.
Può darsi che voglia essere qualcosa,
un’arancia succosa
nella mano di un bambino
– non una buccia vuota –
un’immagine che brilla nello specchio
– non un’ ombra che svanisce –
e una voce chiara
– non il pesante silenzio –
qualche volta ascoltata.
( dallo Spagnolo di Susanne Detering)
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
libertà per Alaide Foppa
La pubblicazione in questa pagina di un articolo di Alaide Foppa “Quello che scrivono le donne” apparso su Fem n. 10 vuole essere un atto di solidarietà contro la violenza di cui la scrittrice guatemalteca è stata vittima.
Molti testimoni hanno assistito il 19 dicembre scorso al suo rapimento in Guatemala; hanno visto la sua macchina circondata, hanno visto Alaide trascinata via. Il governo guatemalteco si è limitato a “deplorare”, senza rispondere agli appelli lanciati dai parenti, dal Presidente del Messico, da “Amnesty International”, dai comitati sorti in Messico, in Francia e altrove per salvare Alaide. In Italia molti giornali democratici e il GR1 hanno denunciato questo rapimento; il Comitato italiano di solidarietà con le famiglie dei prigionieri politici e degli scomparsi in America Latina sta raccogliendo adesioni per un appello alla Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ma ancora, a più di un mese di distanza, si ignora la sorte di Alaide.
Il Guatemala offre un quadro di violenza sistematica contro tutti i movimenti democratici e rivoluzionari, che appare tragicamente simile a quello, più conosciuto e documentato, del Salvador e di altri Paesi latino-americani. Negli ultimi anni il numero degli “scomparsi” è andato sempre crescendo e ormai spariscono dalle 20 alle 30 persone al giorno. Alaide è stata l’ennesima vittima di un regime che dà carta bianca alle più spietate formazioni di estrema destra.
Eppure Alaide non è iscrìtta a nessun partito, aon svolge -attività rivoluzionaria. E’ stata per lunghi anni innanzi tutto una poetessa, come testimoniano le sue traduzioni, le sue raccolte di liriche: “Poesias” del 1945, “Aunque es de noche” che ottenne un premio di poesia nel 1954, “La sin ventura” nel 1955 e infine “Los dedos de mi mano” del 1958, dedicato ai suoi cinque figli. Si tratta di poesie assai belle, in cui si può forse trovare l’eco della poesia italiana moderna (di Ungaretti specialmente) e dei mistici spagnoli; ma è certamente una poesia originale, frutto di un’esperienza unica, assai ricca e varia: la vita l’ha portata da un Paese all’altro. Alaide è nata a Barcellona da padre argentino, giornalista e scrittore di teatro e da madre guatemalteca. Dopo qualche anno in Argentina, Alaide trascorse in Italia l’adolescenza e la giovinezza: a Roma terminò gli studi universitari dedicati soprattutto alle letterature straniere e alla storia dell’arte italiana, che sono rimasti elementi basilari della sua raffinatissima cultura.
Lasciò l’Italia nel 1942 e dopo un periodo trascorso in Spagna, a Cadice, raggiunse il Guatemala, il paese della madre, dove Alaide ritrovava le sue radici più profonde. Era il tempo in cui il Guatemala usciva dalla lunga dittatura di Ubico e sembrava avviarsi, sia pure faticosamente e con gravi contraddizioni, verso un’evoluzione democratica. Il contatto con i problemi reali e scottanti di un Paese povero e sfruttato determinò una svolta negli interessi di Alaide, così umana e ricca di pietà: si dedicò all’alfabetizzazione, ai problemi dell’infanzia e delle donne. Nel 1945 sposò Alfonso Solorzano, fondatore dell’Istituto Gautemalteco della Sicurezza Sociale, e con lui, dopo qualche anno all’Avana e a Parigi, ritornò in Guatemala e vi rimase fino al 1954, anno in cui si trasferì in Messico con i figli per seguire il marito, che aveva dovuto abbandonare il Paese per la caduta del governo di Arbenz Gusmàn, di cui era stato collaboratore.
In Messico Alaide ha continuato la sua attività come insegnante all’Università autonoma del Messico (UNAM), come responsabile di un programma per la donna a Radio Universitaria e come condirettrice della rivista Fem. Nel 1975, in occasione dell’anno internazionale della donna a Città del Messico, è stato pubblicato un suo saggio intitolato “Feminismo y liberación”; recentemente infine ha pubblicato un libro sul pittore José Ruiz Cuevas. Qualche mese fa Alaide ha perduto, in un incidente stradale rimasto senza spiegazioni, il marito; precedentemente aveva perduto il più giovane dei suoi figli, forse assassinato in Guatemala. Priva di notizie di altri due dei suoi figli, il 18 dicembre scorso, si è recata in Guatemala consapevole dei rischi a cui andava incontro, per portar via — a quanto si dice — da quel paese così pericoloso, una nipotina di pochi mesi.
E’ atroce pensare quali saranno state le sue sofferenze, è difficile credere nella sua salvezza; solo si può sperare che questa donna straordinaria, che tante vicende ha superato con coraggio e con fede, riesca ad uscirne e sia restituita a tutti quelli che l’apprezzano e le vogliono bene.
Nel corso degli ultimi quindici anni, le donne hanno scritto più che in tutta la storia dell’umanità. Hanno pubblicato molti libri, ma hanno anche fondato un gran numero di riviste scritte da donne (alcune di breve durata, ma molte ancora viventi da 4, 5, 6 anni), e sono state più presenti che mai nel giornalismo quotidiano; il personaggio della reporter è diventato frequente e la carriera di Scienze di Comunicazioni è tra quelle maggiormente scelte dalle donne. Non è un fatto casuale, dato che si verifica parallelamente il crescente accesso delle donne agli studi — in particolare agli studi superiori — e la sua maggiore influenza in tutti i campi della vita sociale; però, poiché la parola è il mezzo per eccellenza per “esprimersi”, vale la pena di vedere ciò che le donne esprimono in questo campo. Siamo ancora lontane dalla famosa uguaglianza (non abbiamo bisogno di dire in che cosa e con ohi), ma se in qualcosa si nota il cambiamento è del fatto che la donna che -scrive è vista ogni giorno meno come un’eccezione. Da ciò non è più abitudine dire in suo elogio che una buona giornalista “scrive come un uomo”.
D’altra parte, per la scarsa partecipazione della donna agli affari del mondo, è proprio attraverso la scrittura che alcune cominciarono ad esprimersi da epoche lontane. Quella famosa “stanza tutta per sé” della quale parla Virginia Woolf -— condizione indispensabile per scrivere, negata all’immaginaria sorella di Shakespeare — la ebbero alcune privilegiate da prima del Rinascimento {e penso che anche Saffo l’aveva quando piangeva la sua solitudine); e il privilegio, vincolato ad una educazione eccezionale, offrì la maniera di riempire ozii aristocratici senza uscire dal nucleo domestico.
Le prime cose che scrissero le donne furono poemi d’amore e soprattutto poemi di solitudine e di nostalgia. Quella stanza tutta per sé, senza avere con chi dividerla, neanche la sentirono come un privilegio le poetesse dolenti: Marie de France, Beatrice de Die, piangono assenze, come le piangerà, due secoli più tardi, Cristina Pisano, e un po’ dopo la sfortunata Maria Stuarda, che scrisse in francese secondo i modelli di Ronsard e Du Bellay. Anche le italiane del Rinascimento scrissero poesie amorose e dolenti: Gaspara Stampa sogna con quella “notte più chiara del più chiaro giorno” vissuta con l’amato, e la severa Vittoria Colonna non smette di agognare il marchese che la lasciò vedova, sorda al platonico amore di Michelangelo. E’ un’eccezione tra le poetesse aristocratiche. Margherita, regina di Navarra e sorella di Francesco I di Francia, che non si limitò alla poesia amorosa, ma scrisse anche un libro di racconti ispirati dal modello di Boccaccio, il Decamerone {pubblicato recentemente anche in spagnolo), una commedia e varie opere di carattere religioso che, in quella prima metà del secolo XVI quando c’era la drammatica contrapposizione tra cattolicesimo e riforma, parlano di Uberi sentimenti religiosi. Non farò, ovviamente, “una galleria di scrittrici celebri attraverso i secoli”; solo desidero, nel ricordare qualche nome, segnalare perché scrivono quelle donne, perché quelle e non altre, e che cosa scrivono. La più immediata ed ovvia spiegazione alla prima sarebbe: scrivevano perché sapevano scrivere. Chi era in condizioni di scrivere alla fine del Medio Evo e durante il Rinascimento non era che il venti per cento delle donne (l’analfabetismo c’era anche tra gli uomini ma in misura molto minore). La formazione scientifica, filosofica, umanista, era, naturalmente, ancora più limitata; di modo che le poche che scrivevano e volevano dire qualcosa, erano le sue pene e i suoi abbandoni che potevano esprimere.
In ambienti aristocratici e chiusi incominciarono a scrivere anche le francesi del colto secolo XVII. E non è già poesia; e per lo meno, non solo poesia: molte lettere, pulite, eleganti, ingegnose, piene di succosi pettegolezzi e di tenere effusioni, come-quelle di Madame de Sévigné. (Daltronde, il genere epistolare sembra convenire specialmente alle donne, che salgono essere più immediate ed agili, meno convenzionali degli uomini nel dialogo scritto). E le donne scrivono anche lunghe novelle sentimentali e avventurose: quelle di Mademoiselle de Scudéry, per esempio (Clelia, scritta tra il 1656 e il 1660, comprende dieci tomi) in quel contesto mondano intellettuale che vive intorno alle “preziose”, le pedanti, le sapute, tanto acutamente criticate da Molière, non senza ingiustizia. Ciò che sembrava ridicolo al grande commediografo — e in qualche modo lo era — non era che il risveglio di un gruppo di donne che preferivano le lettere ai lavori domestici e avevano il coraggio di considerare il matrimonio come qualcosa di molto noioso e prosaico a paragone con le avventure letterarie. -La vita di salotto, incentrata sulla conversazione brillante, ingegnosa, intelligente e alimentata dalla presenza di donne che hanno queste qualità, nasce all’Hotel de Rambouillet e il suo eco giunge sino all’opera di Proust. Sottolineo che le donne scrivono, leggono, conversano spiritualmente, con maggior o minor ingegno, solo nei ceti privilegiati, e pertanto nelle società maggiormente sviluppate. Che qualcuna scriva singolarmente bene non cessa d’ essere un mistero, se si tratti di donne o di uomini.
Suor Juana, nel Messico coloniale e barocco, conferma la regola di una stanza tutta per sé, che nel suo caso fu più isolata di altre, ma meno suo: la cella. E nello stesso periodo non c’è in Spagna donna che possa compararsi a lei. Anche se basta alla Spagna avere avuto un secolo prima Teresa d’Avila. Il confronto fra le due suore mette in evidenza più differenze che somiglianze (Suor Jana così colta e… e Santa Teresa così immediata e ispirata); le unisce, invece, un elemento comune: tutt’e due dovettero lottare contro la burocrazia ecclesiastica. D’altronde, esse, come suore, si integrano anche al coro delle solitarie che cantano per amore.
Cosa succede nella nostra America spagnola dopo Suor Juana? Abbiamo, certamente, poetesse romantiche: alcune conosciute e riconosciute; molte anonime. La poesia, nel secolo XIX, è per le donne — come la pittura e l’acquarello e i fiori ricamati e “petit point”
— un amabile intrattenimento e uno sfogo permesso. Anche sono poetesse le prime donne che si mettono in evidenza nel nostro secolo: Delmira Agustini, Alfonsina Storni, Juana de Ibarbourou, Gabriela Mistral… (E’, tra loro, la prima donna che riceve un premio Nobel). Donne, segnate, in maggiore o minore misura per la solitudine; e in un caso
— Alfonsina Storni — per il suicidio; in altre — Delmira Agustini — per essere vittima di un omicidio passionale (il marito si suicidò dopo averla uccisa). Romanticismo tardivo portato sino alle ultime conseguenze.
Sto facendo riferimento alla storia — e storie — solamente di ieri: Juana de Ibarbouru, è appena morta, e le altre, potevano vivere ancora gli ultimi anni di una lunga vita, se la propria non fosse stata così intensamente breve e mutilata. Quello che risulta evidente e che tra questo ieri così prossimo e l’oggi che è incominciato appena quindici anni fa, il cambiamento è radicale. Troppo presto ancora per fare il bilancio di quello che hanno scritto le donne, ovunque, in questo breve periodo; la critica o la semplice rassegna di novelle, poesie, saggi sociologici e antropologici, critiche letterarie, reportages che hanno scritto le donne riempirebbero parecchi libri. Ma, indipendentemente dalla quantità, forse è più importante segnalare qualcosa di nuovo: per la prima volta, le donne parlano di se stesse non soltanto per piangere solitudini e abbandoni, non soltanto per lamentare le ingiustizie sofferte (nel passato e nel presente), non soltanto per analizzare le leggi, i costumi, i pregiudizi vigenti nel mondo degli uomini, se non per affermarsi, per valorizzarsi in quanto donne. Mai più: “siamo uguali, vogliamo essere uguali” se non: “siamo diverse e ci piace essere diverse”. E non soltanto si rifiuta il supposto elogio di “scrivere come un uomo”, ma si pretende “scrivere come donna”.
Su tutta la gamma di uguaglianze e differenze, molto si è detto e forse manca ancora molto da dire. Precisamente il tema della scrittura femminile come tale è uno dei più discussi attualmente (di questo si parla in questo numero, rispetto a scrittrici francesi e italiane). E anche si è parlato di un’arte femminile, di una pittura femminista, etc. Rivendicazione del femminile che, come quasi tutte le rivendicazioni può portare ad eccessi, ma che ha le sue ragioni. Credo che il pensiero e la creatività artistica siano attitudini essenzialmente umane, che non ammettono la differenziazione del sesso. Ma questo non esclude che la donna, come qualcuno che viene da un altro continente — quello della oscurità e della dimenticanza — possa avere qualcosa da dire.
Molti pensano anche che le donne già stanno dicendo troppo, o scrivendo, o parlando troppo. E’ un vecchio rimprovero, tra l’altro, che si applicava agli innocui “chiacchiere di donne”, ma che in questi ultimi anni potrebbe anche essere giustificato… Deve intendersi, invece, che è spiegabile il desiderio di parlare, e anche l’eccesso delle parole, in chi ha mantenuto — salvo brevi intermittenze — un silenzio millenario.
(Da FEM – Publicación feminista tri-mestral – Voi. Ili – N. 10)
Alaide Foppa traduzione dì Maria Stella Conte
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Alaíde Foppa, la malograda escritora
El 21 de diciembre de 1980, se conocía del secuestro de la escritora Alaíde Foppa, junto a su chofer en un céntrico sector de la ciudad hoy conocido como Plaza Barrios de la zona 1.
El 8 de julio de 1954 la Junta de Gobierno ordenó al Ministerio de Hacienda intervenir los bienes de ex funcionarios de los regímenes de los ex presidentes Juan José Arévalo y Jacobo Árbenz Guzmán, entre quienes figuraba la escritora Alaíde Foppa de Solórzano.
Foppa dijo entonces que ocasionalmente había servido en forma gratuita en temas culturales al gobierno de Árbenz, por lo cual creía que su inclusión en la lista de congelamientos era injusta, pues algunos bienes los había heredado de su abuelo, Salvador Foppa.
El 23 de julio de 1954, Foppa de Solórzano solicitó la revisión de la lista de bienes congelados por la Junta de Gobierno. Explicó que los bienes congelados eran un centenar de libros, unos cuantos cuadros y un automóvil que le fue obsequiado por su madre valorado en Q600, y que los objetos hogareños los había adquirido en los primeros años de su matrimonio con el Alfonso Solórzano.
El secuestro
Foppa arribó a Guatemala procedente de México, donde residía desde hacía muchos años, luego de haber buscado asilo político junto a su esposo, el escritor Alfonso Solórzano. Alaíde llegó al país para celebrar la Navidad con su madre.
Los familiares indicaron que la escritora había salido de compras la mañana del 21 de diciembre de 1980 acompañada de su chofer, Leocadio Astún Chiroy, pero luego ya no se supo más de ellos.
Ambos fueron interceptados por desconocidos que se los llevaron con rumbo no establecido. Esa vez se asumió que había sido el gobierno de Fernando Romeo Lucas García había ordenado su desaparición, ya que la escritora era de ideología izquierdista.
Testigos informaron que Foppa de Solórzano caminaba por una céntrica calle de la ciudad, cuando repentinamente hombres armados le interceptaron el paso y fue obligada a subir al automóvil en el cual la esperaba su chofer y posteriormente ambos fueron llevados con rumbo ignorado.
Los que vieron lo ocurrido dijeron que escucharon cómo la escritora pedía auxilio, así como el momento en que los hechores la golpearon con sus armas y luego la introdujeron a la fuerza al carro.
Foppa gozaba de prestigio internacional, por lo cual el gobierno de México y otras organizaciones internacionales exigieron a Lucas García que investigara.
Estaba casada con el intelectual Alfonso Solórzano, un estrecho colaborador de Arévalo y Árbenz Guzmán.
Era madre del periodista Mario Solórzano Foppa, fundador del desaparecido telenoticiero Estudio Abierto, quien se vio obligado a salir del país debido a su ideología de izquierda.
La escritora realizaba periódicamente visitas a Guatemala invitada para dar conferencias en el Instituto Italiano de Cultura.
Hasta el 24 de diciembre de 1980, día de Nochebuena, el Juzgado Décimo de Paz a cargo del caso mantenían fuerte hermetismo del plagio.
30 de diciembre de 1980 el gobierno informó que se hacían todos los esfuerzo para dar con el paradero de los secuestrados y que los responsables eran elementos subversivos quienes trataban de agenciarse de dinero para financiar sus actividades pro comunistas.
El 2 de enero de 1981, luego de 12 días del secuestro, el paradero de Foppa aún continuaba en el misterio. A ese secuestro se sumaban el del gerente de Ginsa, Clifford Bevens, el de Héctor Aragón Malher, hijo del dirigente político del partido Movimiento de Liberación nacional Héctor Aragón Quiñonez; el de Estela Molina viuda de Luna y el del médico norteamericano Long Cumminings. El caso de Foppa nunca fue cerrado.
El 17 de junio de 2009, Julio Solórzano Foppa, de la Fundación de Antropología Forense de Guatemala e hijo de Alaíde, fue sometido a una prueba de ADN para identificar los restos de su hermano Juan Pablo, quien murió en un enfrentamiento en Nebaj, Quiché, y que habían sido enterrados como XX en el Cementerio La Verbena, zona 7.
El de 21 de julio 2012 Julio dijo que denunciaría ante la Comisión Interamericana de Derechos Humanos el secuestro de Alaíde. “Nosotros necesitamos saber qué paso con nuestra madre”, dijo, y que podría culpar a Donaldo Alvarez Ruiz, ministro de Gobernación de Lucas García.
Luego de la desaparición se corrió el rumor de que cuerpos paramilitares que operaban dentro del gobierno de Lucas García habían sido los responsables del hecho.
Hasta el momento se desconoce en dónde están sus restos, ya que las investigaciones nunca avanzaron.
Alaíde Foppa ,Poetessa guatemalteca.
Biografía
Alaíde Foppa nació el 3 de diciembre de 1914 en Barcelona España; era hija de Tito Livio Foppa, un periodista Argentino, y de la señora Julia Falla, una guatemalteca de familia acaudalada.
Vino a Guatemala a finales de la dictadura de Jorge Ubico. Cuando apenas tenía 19 años toma la ciudadanía guatemalteca y participa activamente en la la Revolución de 1944 como voluntaria en un hospital y en campañas de alfabetización.
Al ser derrocado Jacobo Árbenz se exilia en México junto con su esposo, Alfonso Solórzano. En el exilio nace Julio, uno de sus cinco hijos.
Durante el conflicto armado interno, Juan Pablo, otro de sus hijos, milita en el Ejército Guerrillero de los Pobres (EGP), pero muere en Nebaj, Quiché, durante un enfrentamiento armado.
Al enterarse de la noticia, su padre, Alfonso Solórzano, quien se encontraba en Ciudad de México, sale a la calle y muere arrollado en la Avenida Insurgentes.
La obra de Alaíde
. La palabra y el tiempo
. La sin ventura
. Elogios de mi cuerpo
. Guiralda de primavera
. Ave Fénix, entre otras obras conocidas a nivel internacional
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