ROMA. Miti greci per principi dauni al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia-
Roma- 21 nov 2024-Al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, alla presenza del Ministro della Cultura, Alessandro Giuli, è stata inaugurata la mostra “Miti greci per principi dauni”, che celebra la restituzione all’Italia di 25 reperti archeologici, tra cui un importante gruppo di vasi apuli ed attici a figure rosse, recuperati nell’ambito di una riuscita operazione di diplomazia culturale condotta con i Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio Culturale e finora conservati nelle collezioni di antichità classica dell’Altes Museum di Berlino.
Sono intervenuti: la direttrice del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Luana Toniolo; il Direttore generale Musei e curatore della mostra, Massimo Osanna; il Capo Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale e curatore della mostra, Luigi La Rocca; il procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Roma, Giovanni Conzo; il Comandante dei Carabinieri Tpc, Gen. D. Francesco Gargaro; il Capo Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio culturale, Alfonsina Russo; l’Ambasciatore tedesco in Italia, Hans-Dieter Lucas.
Il progetto espositivo, a cura di Luigi La Rocca, Massimo Osanna e Luana Toniolo, nasce nell’ambito dell’Accordo di cooperazione culturale siglato lo scorso 13 giugno a Berlino tra i Ministeri della Cultura italiano e tedesco, la Fondazione per l’Eredità Culturale della Prussia (SPK) e l’Altes Museum di Berlino.
Grazie a questa intesa, raggiunta a valle di un importante lavoro delle Procure della Repubblica di Roma e Foggia e dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, oltre che degli uffici del Ministero della Cultura, rientra definitivamente in Italia un importante gruppo di vasi, provenienti dalla Puglia settentrionale, area abitata dall’antica popolazione dei Dauni.
In virtù della provenienza daunia, i materiali torneranno poi in Puglia e saranno assegnati definitivamente all’istituendo Museo di Foggia presso Palazzo Filiasi, all’esito dei lavori di restauro e adeguamento funzionale attualmente in corso e finalizzati alla realizzazione di un museo dedicato proprio alle attività di contrasto al fenomeno dello scavo clandestino e della illecita esportazione di beni archeologici.
Tra gli oggetti in mostra un gruppo di straordinari vasi a figure rosse di grandi e medie dimensioni – ben attribuibili per caratteristiche stilistiche ad alcuni dei ceramografi più noti e prolifici, attivi nella seconda metà del IV secolo a.C., come il Pittore di Dario e il Pittore dell’Oltretomba -, e due vasi attici, prodotti cioè nella regione di Atene, e uno lucano pure appartenenti al rimpatrio da Berlino.
Oggetti di lusso prodotti essenzialmente per essere deposti nelle tombe e decorati con scene mitologiche. Grazie a un allestimento immersivo e accessibile, le opere raccontano la loro storia e quelle degli dei e degli eroi in essi raffigurati.
Il nucleo di reperti compariva nell’elenco di beni trafugati dal noto trafficante d’arte Giacomo Medici, condannato nel 2009 per traffico illecito di beni culturali. In base alle indagini, fu prima acquisito da una famiglia svizzera (collezione Cramer) e poi venduto all’Altes Museum dal commerciante di antichità Christopher Leon, per 3 milioni di marchi nel 1984.
Le opere saranno esposte al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 16 marzo 2025.
Con l’occasione ed in virtù del dialogo virtuoso tra Italia e Germania, è stato avviato un programma di prestiti di opere a lungo termine con lo stesso museo berlinese, grazie alla collaborazione dei Parchi archeologici di Paestum e Velia e del Museo archeologico nazionale di Napoli.
Fonte:
Ufficio Stampa e Comunicazione MiC 21 nov 2024
“Apokopè”: caduta della vocale finale (ed eventualmente della consonante che la precede) di una parola. Da non confondersi, secondo la consolidata, ma inevitabilmente, e forse suo malgrado, apertura a rischi o arricchimenti di contaminazione, grammatica della lingua italiana, con l’“elisione” che si ha quando la vocale finale cade solo davanti ad altra vocale.
Una questione da Liceo classico, essenzialmente, e che appartiene a quella terminologia tecnica, ignota ai più, che definisce i passaggi e i movimenti di un testo, ma anche della lingua parlata, che in effetti “spiegano”, ma sempre, significativamente, “a posteriori”, come è stato costruito un qualunque “discorso”.
Nessuno scrittore, nessun poeta scrive pensando a queste definizioni, a queste che sono infine mere classificazioni di lingue continuamente in divenire, applicate a opere che nascono (o dovrebbe nascere) sotto tutt’altre motivazioni.
In realtà lingua parlata e poesia hanno più di un elemento in comune. Senza scomodare quelle che sono ormai tesi consolidate, secondo cui tutta la poesia che noi chiamiamo “epica”, era essenzialmente orale e come tale tramandata, insieme ad una non ancora abbastanza esplorata e per ora sedicente cultura popolare, basterebbe ricordare che la musicalità in poesia è un canone mai abbandonato, nemmeno quando la poesia stessa si è espressa in versi sciolti (cioè fuori dei dogmi che hanno regolato i versi in rime, senari, settenari, etc.), perché, al pari della musica, quando si vuole uscire da schemi consolidati, non è possibile farlo se non rispettando (ancora!) certi criteri non del tutto, alla fin fine, così aperti.
Ma, senza divagare: come nessun pittore dipinge sulla tela avendo a fianco del cavalletto il manuale di prospettiva o della composizione dei colori (salvo il più che rispettabile “pittore della domenica”, cui dovrebbe essere rivolta l’ammirazione che si deve a ogni persona in cui l’onestà intellettuale domina su ogni altro atteggiamento, e che è serenamente consapevole dei propri limiti), nessuno scrittore e nessun poeta scrive pensando alle regole grammaticali, a quelle della composizione (che qualcuno pretende di insegnare a tavolino), a uno “stile” che, quando è pedissequamente quello del tempo presente, si riduce nel migliore dei casi a un semplice riecheggiare temi che fanno parte di un sempre evanescente streaming, e nel peggiore, di un adeguarsi alla moda del momento, quale che sia.
E allora perché questo titolo dell’appena pubblicato libro di Fosco Giannini?
Ma prima ancora una premessa, non del tutto scontata. Chi conosce le opere dell’Autore proposte nel corso ormai di tutta una vita, sa bene che Giannini, essenzialmente, e per scelta, scrive in quello che possiamo definire in prima battuta, e molto provvisoriamente, il dialetto anconetano, dove il poeta – a parte la nascita in piccolo paese una volta nell’alto pesarese ma oggi passato armi e bagagli alla vicina Romagna – vive, ha lavorato e che lo ha visto impegnato in politica fin dalla prima giovinezza. Come vedremo, questa annotazione non è ininfluente.
Ma, tornando al titolo di questa che è, se non mi sbaglio, la sesta raccolta di poesie, (ma lo dico con assoluto beneficio di inventario). Proviamo a formulare un paio di ipotesi, del tutto gratuite e provvisorie.
La più suggestiva, e perciò, come quasi sempre accade, la più infondata, consisterebbe nell’idea che questa “perdita” dell’ultima consonante sia una sorta di metafora di un’altra, più grave e più fondata perdita: quella cioè di un “finale” possibilmente positivo, e che si configura al contrario, come presa di coscienza di una sconfitta che, passando per le “disavventure” esistenziali dei protagonisti di queste poesie, si allarga poi ad una sorta di sconfitta non tanto generazionale, come forse ci si poteva attendere, ma espressamente di “classe”.
In queste poesie difficilmente si intravede uno spiraglio di luce. Difficilmente in questi versi vengono espressi sentimenti quali felicità, soddisfazione, o quantomeno serenità.
Qui siamo davvero lontani da quel tono un po’ mellifluo che è la cifra di un indugiare a sentimenti un po’ scontati e perfino banali che talvolta ha caratterizzato la produzione poetica di scrittori di sicuro spessore lirico, anche, e starei per dire, soprattutto in ambito dialettale, per quanto “evoluto” esso si sia voluto rappresentare. Ma qui apriremmo un capitolo molto ampio che necessiterebbe di adeguati spazi. (E la speranza, e l’auspicio, è che una cultura esplicitamente di “classe”, prenda prima o poi il coraggio di affrontare una questione che non potrà essere a lungo procrastinabile, pena la totale sparizione di una forma d’arte che ha dimostrato di avere tutte le carte per dare un contributo ad una visione di una società diversa).
Certo, siamo del resto anche lontanissimi da quella tristezza ostentata dei tanti poeti della domenica, questi sì esecrabili, con tutti i loro piagnistei e quelle angosce di facciata.
La sostanza che compone queste opere rimarca in maniera netta la differenza tra un vero poeta come è Fosco Giannini, la cui ultima raccolta è pubblicata da una coraggiosa casa editrice di Senigallia, la “Ventura”, da quella pletora di dilettanti che tali non si sentono, perché il “mercato”, la diffusione di libri di poesie, detta le sue regole in maniera iperegualitaria. Vendite nei canali ufficiali praticamente pari a zero. Diffusione, dunque, al buon cuore di amici e parenti. Uno scenario desolante, e tutto italiano.
Fosco Giannini da sempre (e non si tratta di una esagerazione,) sceglie consapevolmente di essere testimone di atteggiamenti, di modi di affrontare la realtà che appartengono, sostanzialmente, alle classi più deboli, ai diseredati, a quelli che non possono contare che sulla sopravvivenza quotidiana, in qualunque modo essa si presenti.
Siamo di fronte ad un pessimismo che definirei, in prima battuta, “ragionato”. Esso è dunque “oggettivo” e, insieme, più profondo perché più in profondità ne ricerca le cause e le dinamiche. Una scelta che non si può che definire “coraggiosa”, non fosse altro perché si pone nettamente al di fuori di un “senso comune” diventato ormai senza infingimenti, la proposizione delle tesi e dell’ideologia (questa sì ancora ben viva e vegeta) delle minoritarie ma potentissime classi dominanti.
Un’altra ipotesi, solo in apparenza poco rispettosa del dettato del poeta e che comunque rientra nei termini della cosiddetta ‘licenza poetica’, vorrebbe che il termine, il titolo, i suoni (e in poesia, bisogna ribadirlo, il suono conta molto) sia in qualche modo evocatore di culture “altre”, mediterranee in particolari. “Apokopè” evoca un termine greco. E sostanzialmente dal greco deriva, come una quantità di altri termini di cui si è persa la radice e, in qualche modo, il significato profondo.
Non diversamente “Amaladè”, un’altra raccolta di poesie di Fosco Giannini, suona come un termine evocativo di culture orientali, mentre non è altro, ma questo lo rende in qualche modo più significativo, che una semplice e diretta frase di un dialetto (quello anconetano : ‘amala adesso’) di cui è ancora difficile stabilire in che modo sia stato contaminato dalle culture, dai traffici, dalle lingue dei paesi che da secoli stanno dall’altra parte di un Adriatico che non è mai stato tanto grande da dividere, in maniera definitiva, le due sponde.
In questa raccolta di poesie il “dialetto” di Ancona, (torniamo a metterlo tra virgolette perché, come vedremo presto, si presta quantomeno a due versioni, che non sono interpretazioni di una “lingua” ben definita) elimina radicalmente tutti quegli aspetti “tipici” delle culture popolari che fanno sempre la gioia e argomento di quelli che di cultura popolare non sanno e non vogliono conoscere niente. (E, naturalmente, non vi appartengono in alcun modo),
La scelta di Fosco Giannini è chiara e non apre spazi a diverse interpretazioni.
Le espressioni popolari, quelle usate quasi sempre per ridurre e banalizzare problemi più complessi, o strumentalizzate, (rifacendosi ad una presunta e mai definita saggezza popolare), non fanno parte del bagaglio poetico dell’Autore. Queste stesse espressioni, sappiamo come spesso vengono usate per ridurre a “macchietta”, una specie di triste parodia, un pensiero che si immagina “alternativo”, ma che in realtà riproduce pedissequamente le ripetizioni e gli slogan, logori ma in qualche modo efficaci, di una cultura sostanzialmente subordinata.
Qui, in queste poesie, non c’ è traccia di questa “deriva”. Al contrario, il dialetto diventa un modo di riappropriarsi delle radici più popolari, quelle più genuine che non sanno solo “far ridere”, (come nei patetici festival dei vari vernacoli), ma che anzi, e più spesso, usano questo linguaggio che può sfuggire al dominio linguistico dominante per raccontare una realtà “altra”.
È una scelta. Una scelta del resto difficile e, forse, alla lunga, perdente.
Il problema della “lingua da usare” diventa allora il vero tema dirimente, quello su cui la discussione sembra sempre aperta e impossibile da chiudere.
Nelle poesie di Fosco Giannini la scelta è netta.
Ma è netta, e difficilmente contestabile, perché in questo caso l’Autore non si rifà ad una tradizione che usa il dialetto come momento di unificazione, di spirito di appartenenza ad una cultura locale, ma al contrario tenta (e a mio modesto parere ci riesce per la gran parte) di rendere questa “lingua”, non universale ( il che sarebbe un altro modo di appiattire ogni tematica), ma funzionale all’espressione, alla esposizione, verrebbe da dire, di una società altra che sotto traccia, scava ancora e subisce la grande distanza da quelle classi che in qualche modo si sono allineate al pensiero corrente.
Certo, poi le poesie di Fosco parlano anche di amore, di sentimenti complessi, di situazioni amorose complesse, e questo non è altro che logico dal momento che queste situazioni sono condivise e vissute da tutta l’umanità.
La lingua della poesia di Fosco Giannini, è una lingua “a parte”, nel senso che le parole, ultimo grado del discorso, non appartengono, a ben vedere, ad una lingua codificata. Ne inventa una. La libertà che l’autore si prende nell’uso di parole che possono appartenere, talvolta, ma non così raramente, anche ad altri “dialetti”, contaminandoli, è la libertà di chi si muove nel campo, per molti versi inesplorato, della tradizione popolare italiana.
In questo contributo alla lettura del libro di Fosco Giannini, come si può vedere, non ci sono citazioni, non sono presentati brani di poesie che del resto, staccati dal pur piccolo contesto della singola poesia, risulterebbero poco significativi o, che è peggio, darebbero un’immagine alla fine fuorviante. Ogni poesia è evidentemente leggibile da sola, come una frequentazione di un solo momento.
Ma credo che anche questo libro di Fosco Giannini, dal momento che ha un titolo che e raccoglie un numero importante di poesie, sia da considerare come un’opera compiuta e definita. Allo stesso modo importanti musicisti hanno voluto riunire in un’opera ben definita quelle che potevano tranquillamente presentarsi come opere in sé compiute. Penso ai Concerti Branderbughesi di Bach. Anche in questo caso, ogni capitolo può essere letto come un pezzo a sé stante. Ma per comprendere il disegno complessivo ci vuole forse un po’ di pazienza che comunque è completamente ripagata.
Il motivo per cui non ho mai citato neanche un verso delle poesie di “Apokopè” è in quest’ottica. Questo libro va letto come un’opera in cui ogni parte, ogni poesia, sostiene e si completa con l’altra, in un intreccio che crea, appunto, una trama in cui leggere, e neanche tanto in trasparenza, quello che è, nettamente, il punto di vista di Fosco Giannini.
E poi, come segnalare una poesia piuttosto che un’altra se non affidandosi ad un criterio totalmente soggettivo, privo di una logica condivisibile?
Ma siccome Fosco inserisce in questa raccolta una poesia edita in altri tempi, considerandola, in un’ottica insieme politica e musicale, come una sorta di filo rosso, allora vale la pena di citarla, e soprattutto di leggerla:
Come i poeti
Sott’al lavello
è pieno de formighe,
pare che cianne
el fogo al culo
come cercasse un dio badulo;
se move in righe,
ordine de questura,
a caccia de mollighe,
un pezzo de culatello
sortiti dà la spazzatura.
Nero, dietro al detersivo,
‘ppartato che non pare vivo,
c’è el scarafaggio,
da solo per disperazio’,
o per coraggio.
Vie’ dà la starda
del sciacquo’,
el passo de j anacoreti,
dannato senza ragio’,
come i poeti.
(Dalla raccolta “Apokopè”)
Sergio Leoni fa parte della redazione nazionale di “Cumpanis” e del gruppo di lavoro “Arte, Cultura, Comunicazione” del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.
Mattino anconetano
S’enne sveijati i mostri
de le tredici cannelle,
colpi de tosce e spadacci’ de ferri.
Naschene come rospi le prime bancarelle
S’alza el scirocco e il mare
è sale ’nte i polmoni:
aspro è l’odore d’ostrighe
e limoni.
(Dalla raccolta di Fosco Giannini “Borea”. “Mattino anconetano” è dedicata all’opera di copertina di Rodolfo Bersaglia per la raccolta “Apokopè”)
“Apokopè” e il suo dialetto
Poesia dialettale: definizione quanto mai generatrice di equivoci. Ebbi la fortuna di frequentare Franco Scataglini nella metà degli anni ’70, quando ero ragazzo. Sulla scorta di un mio rilevamento (la constatazione e l’analisi di uno strano florilegio della poesia dialettale in ogni provincia d’Italia, in quegli anni) sottoposi a Scataglini una tesi: quella “poesia dialettale”, che in sé avrebbe dovuto essere linguaggio del popolo, in verità era vergata, in grandissima parte, da una “classe” in vasta proliferazione: la piccola borghesia semicolta; una “poesia” distorta e assassinata dagli esponenti più decadenti, annoiati e “bovaristi” delle “professioni”, che utilizzavano il dialetto come una sorta di divertissement e, tutti convinti che quello fosse il linguaggio del popolo (disprezzando, nell’essenza, il popolo), producevano una “poesia” volutamente priva di afflato, spiritualità, universalità, senza ambizione poetica, dunque senza metafora, metonimia, sineddoche. Con un linguaggio povero, rozzo e “volgare” (nella modalità spregiativa che la borghesia ha sempre utilizzato per il volgo), che era quello che la piccola borghesia “poetica” attribuiva al popolo. Scataglini, naturalmente – poiché da tempo e ben prima di me era giunto allo stesso punto analitico – “approvò” la mia tesi. Essendo innamorato dell’infinita musicalità del dialetto e della sua potenza evocativa e avendo, tuttavia, appurato a quale degenerazione un suo utilizzo sbagliato, equivoco e ambiguo potesse portare, seppi sin da subito – coadiuvato da Scataglini e dalle letture innamorate di Pier Paolo Pasolini nella sua ferrigna e risplendente poesia friulana, di Biagio Marin, Franco Loi, Mario Brasu, poeta-pastore sardo, nelle sue liriche contro la guerra e contro l’occupazione della sua Isola da parte della Basi militari Nato, Ignazio Butitta nella sua poesia siciliana di arance, antifascismo e lotte contadine – che cosa fare: utilizzare il dialetto come una lingua alta, come un diverso strumento linguistico dalla lingua italiana, un diverso congegno da essa ma dalle stesse potenzialità estetiche ed evocative. La stessa scelta di uno strumento – dialetto o lingua italiana – che un musicista opera tra il violino e il pianoforte, tra la chitarra e l’oboe. Il dialetto come un utensile per il più alto livello poetico possibile, non come un recinto ideologico-estetico ove far pascere una brutalità di rime bovine. Il dialetto per il firmamento della poesia, non per una caricatura efferata del popolo. Col tempo, per farmi largo nell’incomprensione, tentai di rafforzare, raffinare sempre più la mia argomentazione, giungendo ad affermare che la poesia tout court, essendo una rottura col linguaggio quotidiano, è già di per sé, nel suo determinarsi, un “linguaggio dialettale”. Una forzatura, certamente; ma come cantava Fabrizio De André, un assunto, se non del tutto vero, quasi per niente sbagliato.
(Fosco Giannini)
FONTE-ASSOCIAZIONE La Città Futura C. F. 96440760583 | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Fame, dono e sfida antifascista in una festa del luglio 1943
Presentazione di Mirco Zanoni / Premessa di Alberto Grandi
Viella Libreria Editrice-Roma
Sinossi del libro di Marco Cerri-All’indomani del 25 luglio 1943, la destituzione di Mussolini venne salutata con forme di distruzione simbolica del regime fascista (abbattimento di busti e statue del duce, cancellazione delle scritte murali, saccheggi delle sedi fasciste, falò purificatori, ecc.). I sette fratelli Cervi, insieme agli antifascisti del loro paese, portarono invece in piazza due bidoni del latte, ricolmi di pastasciutta; proposero, cioè, un banchetto collettivo all’interno del quale, senza distinzioni e gerarchie, una comunità avrebbe ritrovato un nuovo senso della propria identità. Alla fine degli anni Ottanta, si ebbe la felice intuizione di riproporre l’antico gesto dei sette fratelli; nel corso degli anni, la festa della pastasciutta antifascista si è diffusa in tutta Italia, fino a diventare una delle manifestazioni più importanti e conosciute dell’antifascismo italiano.
INDICE
Presentazione di Mirco Zanoni
Premessa di Alberto Grandi
Introduzione
La storia dei Cervi e la pastasciutta
Premessa
Il martirologio dei Cervi
Una nuova narrazione
La pastasciutta dei Cervi
27 luglio 1943: la pastasciutta in piazza
Controversie su una data
Decisione, organizzazione e produzione della pasta
Dalla latteria di Caprara alla piazza di Campegine
Sul numero dei partecipanti alla festa
Sull’investimento economico per la pastasciutta
Qualità e tipologia della pastasciutta di Campegine
Come un carnevale
Premessa
Scamiciati, ubriachi e pazzi
Socialità e derisione
Teatralizzazioni carnevalesche
Bevute a garganella
Il carnevale dei Cervi
Antifascismo e saccheggi popolari
Spreco carnevalesco e forme redistributive
La distribuzione della pastasciutta
La fame inesauribile
Ideologia e cultura fascista dell’alimentazione
La cucina del poco e del senza
La fame e il suo sentimento
Astenia e dimagrimento progressivo
Pane e conflitto
Le sfide dei Cervi
La politica degli ammassi e la borsanera
Repressione e impotenza del regime
Borsanera e potlach dei Cervi
La piazza in festa
Tra catarsi e stasi aggregativa
La prefigurazione utopica di un nuovo mondo
Gli abbracci del 25 luglio
Guerra e deperimento della cultura del pasto comune
La condivisione della parola
Il dono dei Cervi
Verticalità del dono
Forme orizzontali di prodigalità e motivazioni del dono
L’idealizzazione fascista della mezzadria
La (relativa) agiatezza dei Cervi
Originalità e riscatto sociale dei Cervi
Sull’inaffidabilità anarchica dei Cervi
Gli arrestati del 25 luglio
La pastasciutta tra immaginario e consuetudini culinarie
Elementi storici
La pastasciutta dei napoletani
I futuristi contro la pastasciutta
Mitologie della cucina emiliana
La dieta contadina padana
Gastronomia festiva nel Reggiano
Del burro e del formaggio
La dieta dei Cervi
La sfoglia e la zuppa
Successo e declino della pastasciutta
Il fuoco di una tradizione
La pastasciutta e la crisi dell’antifascismo
L’idea della festa della pastasciutta e l’inizio della sua storia
Il consolidamento della festa e la rete delle pastasciutte antifasciste
Promotori, luoghi e date della festa
Lo spettacolo della festa
Tra fedeltà filologica e innovazione
Il successo simbolico della pastasciutta antifascista
La ridefinizione dei contenuti della festa
Un antifascismo da mangiare
Conclusioni
Interviste e sitografia
Indice dei nomi
L’Autore
Marco Cerri, di formazione sociologica, da tempo si occupa di storia della Resistenza italiana. Si è già interessato alla vicenda della famiglia e dei fratelli Cervi in una ricerca sulla costruzione del loro mito nell’Italia repubblicana (Papà Cervi e i suoi sette figli. Parole della storia e figure del mito, Rubbettino, 2013).
In copertina: Bidone per la raccolta e il trasporto del latte (anni Trenta). Gattatico (RE), Museo di Casa Cervi.
Fotografia di John Freeman.
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Nota biografica-Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.
MAHLERIANA
Non siamo responsabili di non essere lui.
(Montale)
Siamo sospesi in una stanza chiusa
ma vicini nella luce che ci scioglie nel suo rosso d’uovo.
Siamo qui arruolati come ad un bivacco
in questo lento fuoco estivo
alimentato dal dolore
dove lui è legato al suo respiratore
ed io impotente ad uno dei miei libri
sonnecchiamo nello sfiato leggero
della pompa artificiale
che ha preso il posto ormai delle cicale.
Lo osservo sbirciarmi commosso
nelle finte da flamengo
in cui mima un sonno dolce e affaticato
col suo occhio spalancato e muto
arreso al suo destino di mortale
e sopraffatto da quello che verrà.
E sfioro incapace di conforto
il polso rinsecchito e il viso scosso
le dita ormai di sale. Per distrarlo
prendo un libro uno dei tanti
che fanno peso ormai fra le coperte
nelle ore in cui lo assisto.
E leggo – ed è la prima volta in cui mi scopro
col pudore di un figlio che ha studiato
al padre di tutt’altro innamorato –
una poesia sui pomodori.
È tale la sorpresa che lo investe al mio vociare
che l’osservo irrigidirsi e poi provare a sollevarsi
nello sforzo di capire le parole.
Vuole coglierle dal cesto e con le dita svelte
agganciarle al fil di ferro in ciuffi
preparati per l’inverno. In quell’arancio aspro
nella mia voce stanca
l’ho visto uscire un’ultima volta dalla stanza…
2.
Chissà se quel che dorme in queste ore mio padre
è ciò che chiamano «il sonno dei giusti», la sua prova generale
o più semplicemente un’impietosa legge naturale
dove il più debole si annulla per fare posto ad altri.
Giusto, allora, è chi dà spazio liberando il posto.
Ma giusto è anche il male, se mi aiuta a distaccarmi
dal dormiente. Lo guardo riposare. Le guance ruvide
scavate, i denti spinti in fuori a rosicchiare innaturali
il labbro tumido, piegato dagli spasmi muscolari,
la gola esclusa al cibo ma pronta sempre a esprimere
i guaiti da bestiola in trappola, gli ansimi serrati
della stretta. Macchie sul pigiama ovunque, le vene
che si spezzano. Soltanto attraverso il suo dolore
mi lascio perdonare alla Natura il suo prossimo finire
il suo morire, il suo svuotarmi nel trasloco ingiusto
da cui non tornerà né in altra forma, né in questa.
3.
Ecco mi commuovo
di fronte allo stupore di mio padre
che si osserva morire
fissandosi per ore gli arti ossuti
estraneo ormai al suo nome.
Li rigira nello sguardo muto
la bocca amareggiata
li studia nel loro assottigliarsi
li vede perdersi di grasso e peso
e poi scavarsi le fosse nella pelle
le bocche senza un grido da cui
riemergeranno le voci
di ogni morto che lo scava.
Poi di volta in volta verso me
si volta pieno di veleno se al confronto
ancora troppo gli assomiglio
troppo a lui compagno, troppo figlio
persino qui in magrezza e malattia
noi due scarnificati
e uniti ai suoi occhi inquisitivi
nei polsi alle caviglie
che non ci lasciano sperare
altro di buono
che una punta secca di coltello
per bucarci il collo.
Di entrambi noi saranno
le giunture a parlare
cigolanti e secche, le
clavicole che spingono sul vuoto.
4.
All’alba mi addormento al posto di mio padre.
Lui è steso in un lettino a fianco.
Ieri ha fatto testamento.
Lui non dorme. Io sono stanco.
Nota biografica-Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Cinquant’anni di Letizia Battaglia in mostra a cielo aperto sullo Stretto
A Reggio Calabria la fotografia documentaria e di denuncia di Letizia Battaglia “cattura” chi passeggia sul lungomare. Reggio Calabria –Dal 16 novembre 2024 al 2 febbraio 2025
Ancora una mostra a cielo aperto, ancora una cornice travolgente: dopo il suggestivo scenario delle Terme di Caracalla di Roma, le iconiche fotografie diLetizia Battaglia corrono giù per mezza Italia e si affacciano sul mare, guardando la Sicilia direttamente dalla punta dello Stivale.
La mostra Letizia Battaglia Senza Fine, allestita presso l’Arena dello Stretto a Reggio Calabria, è il primo grande omaggio calabrese alla fotografa siciliana.
Fino al 2 febbraio 2025, il Lungomare Falcomatà ospiterà cinquantadue fotografie di grande formato che ripercorrono cinquant’anni (1971-2020) del lavoro fotografico di Letizia Battaglia, in un evento di arte pubblica che consentirà a cittadini e turisti di apprezzare da vicino il percorso di vita e l’impegno professionale di una donna che ha saputo documentare e denunciare con coraggio momenti tragici della storia italiana e in particolare del Sud del Paese.
Scrivevamo il 7 giugno 2023, in occasione della tappa romana della mostra: “Le immagini più note di Letizia Battaglia consegnano alla storia una delle pagine più sanguinose, poetiche, struggenti e drammatiche della Sicilia. Ma questa mostra intende aprirsi a un universo di fotografie realizzate fuori dalla terra della fotografa, tappe di viaggi fondamentali per comprendere in modo più profondo l’insieme della sua opera e del suo pensiero. Fotografia, cronaca e vita privata confluiscono in unico percorso non cronologico, che mette in luce la straordinaria sensibilità e umanità della fotografa palermitana. Alla sua città è dedicata una selezione di lavori realizzati all’ospedale psichiatrico, dove Battaglia coinvolgeva e rendeva protagonisti i pazienti. Un appuntamento che ha rinnovato più volte negli anni”.
Allo stesso modo, a Reggio Calabria si scoprono i molteplici sguardi della fotografa sul mondo, passando per gli scatti che raccontano le tante contraddizioni della sua Palermo, i ritratti di bambine e bambini ripesi nel loro ambiente familiare e di gioco e i momenti di festa e di incontro, manifestazioni dell’anima più popolare del nostro Paese.
Sette donne per Letizia Battaglia
Accompagna il progetto espositivo un volume, edito da Electa, che nasce come prosecuzione e ampliamento della mostra, restituendo la polifonia dei lavori di Letizia Battaglia. I curatori del libro, Paolo Falcone e Sabrina Pisu, hanno coinvolto sette donne, scrittrici e autrici che, partendo dalle lettere che compongono l’espressione “senza fine” hanno dato vita a chiavi di lettura della forte personalità, dei progetti e dell’impegno civile della fotografa, all’interno dei diversi scenari sociali di cui è stata testimone.
La mostra Letizia Battaglia Senza Fine, a cura di Paolo Falcone, è promossa dal Segretariato Regionale per la Calabria–Ministero della Cultura con il supporto e contributo dell’Autorità di Gestione del PON Cultura e Sviluppo (FESR) 2014-2020 Segretariato generale Servizio V ed è organizzata da Electa in collaborazione con l’Archivio Letizia Battaglia e la Fondazione Falcone per le Arti.
Fa piacere segnalarvi il nuovo romanzo dell’apprezzato scrittore veneziano Andrea Molesini. Ambientato tra Venezia e Rodi nel settembre del 1938, un’epoca di crisi che assomiglia un po’ alla nostra, Non si uccide di martedì è una commedia nera e satirica dal gusto anglosassone. Attorno al testamento di una vedova molto ricca si dispiegano torbide relazioni familiari e intrecci criminali, mentre Venezia si affaccia prepotente con la Giudecca e le chiese, il Caffè Florian e l’eterna magia dell’acqua. Autore, tra gli altri libri, di Non tutti i bastardi di Vienna, Molesini è anche fondatore di una casa editrice di poesia raffinata che vi abbiamo presentato QUI.
Indubbiamente Andrea Molesini è bravo, sa bene come si racconta una storia, e sa raccontare storie complesse, interessanti, intriganti, muovere un insieme di personaggi come nel celebrato Non tutti i bastardi sono di Vienna, Premio Campiello 2011, e nel più recente Il rogo della Repubblica. Romanzi che si possono dire storici, dove la creatività sopperisce e allarga la frequentazione di archivi, l’uso di documenti. Il risvolto di copertina di questo Non si uccide di martedì ci avverte che anche qui siamo in presenza di un romanzo storico, forse di minor impegno, visto che il numero di pagine si aggira intorno alle duecento e il sempre medesimo risvolto ci dice che ci troviamo nel 1938, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, proprio mentre a Monaco si discutono i destini futuri dell’Europa, con tragici esiti.
Ma forse questo, prima di essere un romanzo storico è qualcos’altro. Forse è un racconto giallo, termine abbastanza bruttino che si usa in Italia per dire che ci troviamo in presenza di una storia in cui c’è un crimine, una vittima quindi un colpevole e, solitamente, un investigatore che conduce le sue indagini per smascherarlo, che, però, qui non c’è, se non molto marginalmente.
Questa è una storia in cui il delitto e il suo svelamento avvengono tutti, letteralmente fatti in casa, è un home-made crime, come le torte di mele della mamma, fatte appunto in casa. Piccolo inciso: chi non ha scritto, o pensato di scrivere un thriller o un crime o un horror alzi la mano… se ne scrivono tanti, tantissimi, probabilmente troppi nell’illusione, da parte delle case editrici, innanzitutto, di vendere copie, tantissime copie; praticamente ogni angolo d’Italia possiede un investigatore, a differenza dall’America, più raramente privato, in Italia si usa meno, che ha il compito di alzare il velo sul più efferato dei delitti, investigatore a cui solitamente piace mangiare, senza una famiglia regolare, con una buona dose di geniale intuito.
Ecco tutti questi elementi, tipici del noir italiano attuale, li troveremo meno in Non si uccide di martedì, che cerca anche altrove i suoi modelli e i suoi riferimenti. […] Molesini per scrivere questo suo racconto ha sicuramente guardato agli illustri inventori del genere, Agatha Christie su tutti, la sua ambientazione è quella stessa, un gruppo di benestanti, o presunti tali nell’Italia o, meglio, nelle sue colonie alla fine degli anni Trenta. Ma nella miscela originale inserisce una buona dose d’ironia e qualche sottesa preoccupazione moralistica.
In un’intervista sul Piccolo di Trieste, Molesini dichiarava di aver voluto creare una storia satirica ma divertente pensando allo spirito del film di Hitchcock La congiura degli innocenti, o AMurder considered as one of the Fine Arts (L’omicidio come opera d’arte) composto, poco prima della metà del diciannovesimo secolo, da Thomas de Quincey, uno scrittore inglese della prima età vittoriana che fa ricorso ad una dose massiccia di humor nelle sue opere. Un filone umoristico ma anche moralistico che esiste, nella letteratura inglese, anche da prima dell’Ottocento basti a pensare Jonathan Swift e alla sua Modest proposal, caustica e surreale proposta per risolvere la miseria dell’Irlanda. Andrea Molesini compone dunque un racconto zeppo di riferimenti, ma abbastanza raro nella tradizione italiana che, comunque, non si sottrae alla sfida di lanciare qualche interrogativo di peso, del tipo: “Fino a dove siamo disposti a spingerci per il nostro personale guadagno?” o “Quale limite è disposta a fissare la nostra coscienza?”. Ad ognuno spetta l’ardua risposta e il libro ce lo chiede direttamente, senza mezzi termini.
Non solo per questo rapporto fra il piccolo, i fatti dei protagonisti e il grande, i grandi interrogativi morali, la grande storia europea, in Non si uccide, abbiamo l’impressione di trovarci continuamente nelle sabbie mobili, tutto si muove e ogni personaggio, il maritino tonto e la sposina ingenua piuttosto che l’avvocato spiantato, diventano qualcos’altro, piccoli mascalzoni più o meno in gamba, in un gioco metamorfico quasi ovidiano dove ognuno dà il meglio del suo peggio. Alla fine la verità, se verità la possiamo chiamare, che emerge è quella per cui non ci possiamo mica fidare di nessuno, nessuno è quello che sembra, tutti hanno un alias dentro di sé, pronto a prendere il sopravvento, ma questo lo avevano capito piuttosto bene anche il dottor Freud e Robert Louis Stevenson già qualche tempo fa.
Il libro si apre con una tradizionale immagine veneziana: un avvocato, non certo di grido, sfoglia il Corriere della Sera al Caffè Florian di piazza San Marco e si conclude con un perfetto cerchio nuovamente a Venezia, ma la sua azione centrale si svolge nell’isola di Rodi, che dal 1912 al 1945 fu italiana e che per un periodo fu governata dall’ex ministro dell’istruzione De Vecchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, che applicò con efferato rigore le leggi razziali nella isole del Dodecaneso; la tragedia degli ebrei di Rodi è oggi ricordata da un museo, il libro serve anche a richiamare alla nostra memoria questa pagina vergognosa, e di conseguenza altre ancora potrebbero tornarci alla mente per tanti altri aspetti del colonialismo italiano su cui la riflessione andrebbe approfondita. Il dominio italiano nelle isole greche non fu tutto il miele che tanta pubblicistica vuotamente nazionalistica vorrebbe farci credere. Ciò non toglie che, come sopra detto, le caratterizzazioni storiche rimangono sullo sfondo, sono un fondale in cui prendono vita le azioni dei protagonisti della storia.
Una storia breve che si svolge in un tempo ristretto, un mese nemmeno, in cui ognuno dei personaggi ha il tempo per divenire qualcos’altro, come già sottolineato, anche per passare dalla vita alla morte, anche viceversa dalla morte alla vita. Non vorrei sembrare nemmeno troppo criptico, ma la difficoltà nel parlare di un noir, chiamiamolo così per comodità, è anche quella di non rivelare troppo della sua trama, se non che gusto c’è a leggerlo, poi. Così è anche per il racconto di Molesini che riserva diverse sorprese man mano che si procede nella lettura.
Una annotazione merita la scrittura dell’autore veneziano, capace di tenere saldamente in mano lo svolgimento della vicenda, variando registro linguistico all’occorrenza, i bicchieri divengono tumbler se siamo fra persone o in un luogo in cui è necessario, si fa per dire, chiamarli così. Ma le domestiche parlano con le loro padrone in dialetto, deliziosamente. Così si caratterizzano una serie di personaggi, alcuni dei quali, come le domestiche venete, ricorrenti nella narrativa di Molesini che, sinceramente, mi sembrano molto riuscite: sagge, scaltre e più che collaboratrici delle complici delle loro padrone. Ecco come in tutti racconti updated, anche in Non si uccide di martedì, le fila del gioco sono rette dalle donne, padrone e domestiche ereditiere e ricche nobildonne, mentre gli uomini fanno la figura di tonti e maldestri, sempre disposti al facile guadagno e alla scappatella sentimentale, facili da abbindolare facendo leva sulle loro vanità.
Andrea Molesini ha detto di aver scritto Nonsi uccide di martedì, anche per aver avuto bisogno di divertimento e humor dopo la stesura di una storia cupa come Il rogo della Repubblica, sarà pure vero, ma non per questo quest’ultima sua fatica manca di intelligente gioco intellettuale e anzi, dietro a qualche bocca sorridente ci pone delle questioni intriganti, ci fa pensare insomma, facoltà a cui, visti i tempi in cui la fiducia nel futuro viene a mancare, non sarebbe male ricorrere più spesso.
Roberto Dedenaro
Questa recensione è già apparsa sulla rivista culturale Il Ponte rosso di Trieste, n°96 – ottobre 2023. Come ogni mese, potete scaricare questo nuovo numero e leggere gratuitamente i suoi interessanti contenuti cliccando QUI
Breve biografia di Mia Lecomte (Milano, 1966) è una poetessa e scrittrice di nazionalità francese e di lingua italiana che risiede in Svizzera. Tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: la silloge poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022) e il libro per bambini Gli spaesati/Les dépaysés (VerbaVolant, 2019). Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, pubblicate all’estero nelle raccolte For the Maintenance of Landscape (Guernica, 2012), Là où tu as ton corps (Apic, 2020. Prix Vénus Khoury Ghata 2021), e in numerose riviste e antologie. Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della letteratura transnazionale italofona, a cui ha dedicato alcune antologie e il saggio Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona. 1960-2016 (Franco Cesati, 2018). È redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio, del periodico letterario indiano online The Antonym, e della rivista del festival anglo-francese di poesia La Traductière. Collabora all’edizione italiana de Le Monde Diplomatique. Nel 2017, con altri studiosi e scrittori attivi tra Francia e Italia, ha fondato l’agenzia letteraria transnazionale Linguafranca. È ideatrice e membro della Compagnia delle poete. Le fotografie di Mia Lecomte sono tratte da mialecomte-ph.
Dopo tutto il tuo tempo
Le date
Ho trovato la tomba
prima di trovare la casa
il mio cimitero
prima della mia città
Può iniziare l’inverno
in alto il cuneo delle anatre
gli stambecchi sulle lapidi di sale
Ho trovato e mi lascerò
per una scommessa d’esilio:
salutarmi da sola
ogni volta che se ne vanno gli altri
Crepa cuore
L’ippopotamo è un animale enorme
considera una distanza da qui a lì
l’aspetto placido trae in inganno
i canini possono misurare mezzo metro
se lo ostacoli sulla via dell’acqua
verrai dilaniato in maniera atroce
Il leone è possente
ma interviene soltanto all’ultimo
quando ne vale la pena
solo dopo che le sue leonesse
hanno fatto il resto
ti finirà in maniera atroce
L’orso non sa sbranare
non controlla la mascella
un’insolita formazione dentale
unita a un difetto dell’articolazione
puoi correre quanto vuoi
ti strazierà in maniera atroce
L’elefante ti sorprende
perché in realtà è leggerissimo
non lo senti arrivare
se ti fermi per qualche motivo
in un soffio alle tue spalle
ti calpesterà in maniera atroce
Domani ti porterò allo zoo
l’ippopotamo il leone l’orso l’elefante
chiusi nei recinti nelle gabbie
così ti sentirai al sicuro
amore mio atroce
potrai godere della cattività
della senilità
subito ti dimenticherai di me
Ultimo post it
Ora sono io a partire
altrimenti ne morirei
ne moriresti
ne moriremmo
Io declino
perché risulti meno grave
Dopo tutto il tuo tempo
ti lascio la mia fine
in monoporzioni
nel congelatore Penel.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Sinossi del libro di Giovanni Ferroni-Il confronto con l’inevitabile modello delle tragedie di Corneille e Racine, le raffinate strategie di seduzione del pubblico, i presupposti filosofici di drammi a lieto fine ma ricchi d’ambasce e poveri di letizia, il rapporto con l’opera coeva di Giambattista Tiepolo e l’influenza postuma esercitata sui libretti di Da Ponte sono l’oggetto dei sei densi capitoli di questo saggio dedicato al teatro di Pietro Metastasio (1698-1782). Davanti al lettore sfilano così personaggi e situazioni drammatiche che danno voce e figura alle aspirazioni profonde e ai temuti fantasmi del Rococò, stagione di una civiltà sospesa fra l’eredità tardo barocca e l’annuncio del travaglio di fine Settecento. Espressi in uno stile personalissimo e capace di assorbire con apparente naturalezza tradizioni letterarie diverse, il desiderio e l’impossibilità della trasparenza del cuore, l’utopia di felicità private e dimentiche dei doveri, l’antinomia fra piacere e verità, fra passioni e ordine razionale, sapranno ancora parlare alla sensibilità dei primi romantici prima d’entrare nel lungo cono d’ombra che ancora offusca la ricezione di questo protagonista della cultura europea del Settecento. Con rigore metodologico e apertura interdisciplinare, grazie a una scrittura tersa, severa adesione ai testi e al costante dialogo con la letteratura critica, questo studio, cui una costruzione progressiva e circolare e la frequenza di richiami interni garantiscono unità nella varietà prospettica, restituisce ora una piena intensità di senso all’opera di Metastasio.
AUTORE-GIOVANNI FERRONI (Firenze 1982) è docente e ricercatore di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Padova. Si è occupato prevalentemente di testi e autori del Rinascimento.
Editoriale Le Lettere Redazione e uffici operativi
via A. Meucci 19
50012 Bagno a Ripoli (FI)
tel. 055 645103
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POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
Pubblichiamo questa Poesia per onorare una giovane guerrigliera curda ,di 20anni, morta in combattimento. Questa è la poesia che Asia Ramazan Antar ha inviato, come testamento e lettera di addio alla madre . La poesia si conclude con queste parole :” Se non torno, la mia anima sarà parola …per tutti i poeti.” Noi, Poeti della Sabina, vogliamo testimoniare la memoria della giovane guerrigliera e onorare il messaggio che ha inviato a tutti i Poeti del mondo. La Poesia e gli Eroi non hanno confini.Giovane Asia Ramazan Antar riposa serena nel paradiso degli Eroi e canta le tue poesie alle stelle e alla luna quando si accendono la sera .
POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
A Neuchâtel in Svizzera- Prix Farel per il film a tema religioso, i vincitori –
Il Prix Farel, il Festival Internazionale del film di tema religioso, si è concluso con la cerimonia di premiazione al Cinéma Rex di Neuchâtel, in Svizzera.
La giuria, presieduta dalla produttrice Florence Adam, era composta da Jean-Philippe Ceppi (giornalista RTS), Damien Fabre (conduttore del canale YouTube Religare), Manéli Farahmand (direttore del Centro intercantonale delle religioni), Amira Souilem (giornalista e giornalista, RFI) ha scelto tra i trenta film documentari selezionati.
Al termine di tre giorni di proiezioni e diverse ore di discussioni, assegna i seguenti premi:
Premio Bonhôte «“Hitler non voleva sterminare gli ebrei”»: Netanyahu dice la verità? di Yann Bouvier alias YannToutCourt.
Premio documentario corto: «Donovan – El Limpiador» di Louise Monlaü, Ladybirds Films.
Premio documentario lungo: «Hawar, i nostri figli esiliati» di Pascale Bourgaux, Louise Productions Losanna.
Caratterizzata da una nuova direzione, un team più ampio, una nuova sede – il cinema Rex a Neuchâtel – questa edizione ha voluto mettere in risalto e promuovere formati di informazione online specifici per i social network. Chi li produce? Chi li consuma? Come distinguere quelli affidabili? I partecipanti al festival hanno mostrato un vivo interesse per queste domande. I film e i video esplicativi selezionati per il Premio, seguiti dal feedback degli spettatori dopo le proiezioni, così come le tavole rotonde di sabato 16 novembre, hanno arricchito le discussioni su temi scottanti di attualità e temi storici. Nei tre giorni del festival più di 2.000 persone in totale hanno seguito le trenta proiezioni e le due tavole rotonde. Un successo che incoraggia gli organizzatori del Premio a portare avanti questo evento, la cui prossima edizione è prevista per l’autunno 2026.
Creato nel 1964, il Premio Farel riunisce ogni due anni a Neuchâtel gli specialisti francofoni delle trasmissioni religiose. A partire dagli anni 2000, la sua programmazione si è aperta sempre più al grande pubblico e a tutte le forme di spiritualità. Nel 2022, i vincoli finanziari dei suoi partner costringono il Premio Farel a ripensarsi. Il suo comitato nomina, alla fine del 2023, la giornalista Camille Andres come direttrice con l’obiettivo di ringiovanire il suo pubblico. In dodici mesi di lavoro, l’equipe propone una 29esima edizione fedele alla propria identità aperta e in sintonia con le problematiche contemporanee. A 60 anni dalla sua fondazione, lo spirito “Farel” si modernizza mantenendo però il suo pedigree: etica, spiritualità, religione, temi trattati con umanesimo e sensibilità.
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