Domenico Trentacoste nasce a Palermo il 20 settembre 1859 da una famiglia baronale decaduta. La madre Giovanna Lo Cascio, casalinga e il padre Salvatore, di mestiere fabbro, si erano trasferiti da Marineo nel capoluogo subito dopo sposati.
Domenico Trentacoste nasce a Palermo il 20 settembre 1859 da una famiglia baronale decaduta. La madre Giovanna Lo Cascio, casalinga e il padre Salvatore, di mestiere fabbro, si erano trasferiti da Marineo nel capoluogo subito dopo sposati. Fin dagli anni infantili dimostra una predilezione spiccata per l’arte plastica. Le prime esperienze sulla tecnica scultorea le acquisisce a Palermo all’età di sette anni, nel laboratorio di Benedetto De Lisi il vecchio. A dodici anni comincia a lavorare nello studio in via Alloro di Domenico Costantino. Dopo un breve soggiorno a Napoli nel 1878, si trasferisce a Firenze per completare gli studi, qui si innamora dei Quattrocentisti, di Michelangelo e in particolare di Donatello. Entra in contatto con il realismo dalla Scapigliatura e dei Macchiaioli. Nel 1880 è ancora a Palermo dove, per l’arco di trionfo apprestato per la visita del re Umberto I, plasma in gesso una grande Minerva seduta; coi soldi guadagnati, parte per Parigi; qui stringe amicizia con lo scultore Antonio Giovanni Lanzirotti; l’anno successivo nel 1881 espone una testa di vecchia in gesso nel Salon annuale. A Parigi esegue anche una serie di sculture a soggetto idillico, mitologico e a destinazione decorativa. E’ però soltanto di lì a qualche anno, cioè nel 1887, con la Pia dei Tolomei, e nel 1889 con la Cecilia, che egli rivela appieno l’originalità vigorosa della sua arte e viene consacrato scultore di forme leggiadre, di attitudine classica, allo stesso tempo capace di rivelare l’espressione psicologica. Nel 1891 è chiamato a Londra dal pittore Edwin Long ed espone Cecilia alla Accademy, dove ottiene un vivo successo di pubblico. Dopo quindici anni laboriosamente trascorsi a Parigi, con frequenti viaggi a Londra, nel 1895 rientra in Italia dove egli, che pure aveva saputo farsi stimare tanto in Francia quanto in Inghilterra, è addirittura un ignoto. Si stabilisce a Firenze. Partecipa alla prima delle Esposizioni di Venezia con Ofelia, che aveva già presentato con successo a Parigi nel 1893 e a Vienna nel 1894, e con una figura in marmo, grande al vero, intitolata Derelitta per la quale riceve il grande premio di scultura. L’anno successivo partecipa all’Esposizione internazionale di Firenze, ancora con Ofelia; e all’Esposizione di Torino con due bellissimi busti di marmo Alla fonte e Pia dei Tolomei . Alla III Esposizione Triennale di Brera del 1897, mostra un gesso per monumento e ripropone Ofelia.. Due anni più tardi alla III Biennale di Venezia espone due marmi La figlia di Niobe e Ritratto; nel 1901 è membro di giuria della Biennale veneziana dove figura con i bronzi Ritratto,Testa di vecchio,Il ciccaiuolo, e i marmi Bustino di bimba e L’anfora nfranta.. Nel 1903 alla stessa rassegna invia i bronzi Caino, Seminatore, Pompeo Molmenti e la targhetta in gesso dedicata all’attrice Emma Gramatica. Per lunghi anni insegna all’Accademia di Belle Arti di Firenze diventandone anche Presidente. Nel 1904 aderisce all’Associazione Arte Toscana. Dal 1908 è membro della Commissione comunale di belle arti di Firenze. Nel 1909 espone alla Società Leonardo da Vinci di Firenze. Nel 1910 partecipa alla Biennale di Venezia con i marmi Sorriso infantile, Madre con bambino e Nudo di donna e il bronzo Testa.. Nel 1911 esegue Per grazia di Dio, e Per volontà della Nazione. Nell’anno successivo con il marmo Cristo morto è nuovamente alla Biennale di Venezia, dove apparirà per l’ultima volta nel 1922 col bronzo Il Vescovo Geremia Bonomelli . A marzo del 1920 tiene una mostra personale alla Galleria Pesaro di Milano; due anni più tardi partecipa alla Fiorentina Primaverile e nel 1925 partecipa alla II Biennale di Monza. Un anno prima della scomparsa è nominato Accademico d’Italia. Domenico Trentacoste muore il 18 marzo 1933 a Firenze.
Storia archivistica
L’archivio di Domenico Trentacoste è stato acquistato con il fondo Ojetti dalla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea il 15 dicembre 1973. La documentazione prodotta dallo scultore è stata ordinata ed organizzata dalla moglie del critico, Fernanda Gobba Ojetti, nominata nel testamento di Trentacoste, che noi conserviamo, erede fiduciaria dello scultore. Il fondo conserva insieme a documentazione varia e personale, a molte fotografie e materiale stampa, una raccolta di lettere di vari artisti. Un intervento successivo (forse della stessa Fernanda o della figlia Paola) ha disperso queste lettere nei fascicoli relativi agli stessi corrispondenti del fondo Ojetti, complicandone così la separazione e rendendo necessario un lavoro di reperimento ed estrazione della documentazione stessa che potrà essere completato solo di pari passo col completamento della schedatura del fondo Ojetti.
Contenuto
Il fondo conserva una raccolta di lettere di vari artisti, opuscoli e ritagli stampa, documentazione personale, molte fotografie sia familiari che di opere. Inoltre raccoglie anche documentazione varia sistemata e prodotta da Fernanda Ojetti, erede fiduciaria dello scultore.
Ordinamento e struttura
La documentazione è stata suddivisa in 5 serie: serie 1: Corrispondenti serie 2: Materiali a stampa serie 3: Immagini serie 4: Documentazione personale serie 5: Documentazione raccolta e prodotta da Fernanda Ojetti, erede fiduciaria di Domenico Trentacoste
Strumenti archivistici
Schedatura informatizzata (sw Gea) a cura di Clementina Conte ancora in corso.
Bibliografia
Mostra individuale di Domenico Trentacoste, Milano, Galleria Pesaro, 1920; Ugo Ojetti, Domenico Trentacoste, Roma, La Nuova Antologia, 1940; www.galleriaroma.it; www.comune.marineo.pa.it; www.giuseppealbano.it
Raffaele Boianelli -Il giovane Pertini un eroe italiano.
Sandro PERTINI
Descrizione-L’otto luglio 1978 Sandro Pertini fu eletto a stragrande maggioranza settimo Presidente della Repubblica italiana. Qualche anno dopo, il suo sorriso festante durante la finale dei mondiali di calcio di Spagna ’82 lo immortalò nell’immaginario collettivo e nazional-popolare. Non tutti sanno, però, che dietro quel sorriso gioioso ed energico si celava una giovinezza completamente sacrificata alla causa dell’antifascismo, un dolore strisciante fatto di umiliazioni, privazioni e torture di durata quasi ventennale. Dal delitto Matteotti, punto di svolta della sua parabola di vita personale e politica, passando per le prime aggressioni squadriste che gli impediranno di svolgere la professione di avvocato, fino ad arrivare agli anni dell’esilio vissuti in Francia tra Parigi e Nizza e ai terribili anni passati in carcere e al confino come prigioniero politico “spavaldo e fegatoso”. Questa è la storia di un giovane uomo capace di combattere per un ideale politico e umano “non solo senza paura ma anche senza speranza”.
Ricostruiamo la vita pubblica e privata di una delle figure più amate della politica italiana attraverso immagini d’epoca. Alessandro Pertini, per tutti Sandro, nasce a Stella (Savona) il 25 settembre 1896. Dopo avere partecipato alla Prima Guerra Mondiale con la carica di tenente dei mitraglieri, si iscrive nel 1924 al Partito Socialista e due anni dopo, nel 1926, viene condannato dal Regime fascista a cinque anni di confino. Riesce però a fuggire prima a Milano e poi a parigi, dove ottiene asilo politico. Ritorna in Italia nel 1929, viene nuovamente arrestato e condannato. Questa volta viene mandato otto anni al confino e nel 1943 torna libero. Non finiscono qui però le sue vicende giudiziarie, viene infatti arrestato e condannato a morte stavolta dai tedeschi. Riesce a sfuggire alla condanna, scappando dal carcere di Regina Coeli a Roma insieme a Giuseppe Saragat. Abbraccia la lotta partigiana diventando uno dei dirigenti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Nel Dopoguerra contribuisce alla ricostruzione del Partito Socialista insieme a Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, diventando anche uno dei Padri Costituenti. Tra il 1968 e il 1976 assume la carica di Presidente della Camera e l’8 luglio1978, in seguito alle dimissioni di Giovanni Leone, viene eletto Presidente della Repubblica con una maggioranza senza precedenti. Raccoglie ben 832 voti su 995 a disposizione.
Storie di abitazioni del Medioevo-Case contadine e residenze signorili, castelli e ville rustiche, torri e palazzi del patriziato cittadino, dimore borghesi e abitazioni povere. I modi di abitare dell’uomo medievale, l’evoluzione e le caratteristiche nei vari aspetti della civiltà europea e i rapporti con l’Oriente. Nei primi secoli del Medioevo, l’irrompere delle popolazioni barbariche nel territorio dell’impero romano portò alla convivenza e al confronto diretto di diverse culture. A partire dal Mille, l’Europa dovette poi a sua volta confrontarsi con altri mondi e civiltà. Soldati, viaggiatori, missionari, mercanti si spinsero verso mondi e culture diverse. Il racconto di quanti percorsero le vie terrestri e marittime che portavano in quei lontani paesi permette di gettare lo sguardo su quelli che erano i modi di abitare e gli stili di vita di altre civiltà.Lo studio del paesaggio rurale, dei suoi elementi costitutivi, delle sue caratteristiche materiali e dell’evoluzione storica del popolamento e dell’insediamento ha suscitato, in anni abbastanza recenti, un notevole interesse e un’intensa attività di ricerca. Storici, geografi, archeologi, soprattutto in seguito al favore incontrato dagli studi di storia della cultura materiale, ma anche da storici dell’arte e dell’architettura, hanno dedicato nuova attenzione a queste problematiche, individuando la necessità di fare convergere su di esse gli apporti di diverse discipline, ognuna delle quali rivolta allo studio critico di una o di alcune delle complesse e molteplici testimonianze del passato. Le strutture materiali dell’insediamento, nelle città come nelle campagne, sono state viste come un complesso prodotto della storia dell’economia e dell’agricoltura, dei rapporti di produzione, dei sistemi insediativi, delle armature sociali, delle condizioni culturali e dell’evoluzione delle cognizioni tecniche, oltre che come un sicuro indice della qualità della vita della popolazione. Ci si è mossi in questa direzione per indagare le vicende e le forme dell’insediamento nella penisola dei primi secoli del Medioevo, quelli più lontani dalla nostra personale esperienza. Lo si è fatto basando l’indagine sulle diverse tipologie di fonti scritte, soffermando l’attenzione soprattutto su quelle documentarie e in particolar modo su quelle private, ricchissime di notazioni particolari e sul piano contenutistico, ma con un occhio il più possibile attento ai risultati delle altre discipline interessate alla storia del territorio e della cultura materiale, in primo luogo l’archeologia medievale. Si sono individuate aree ‘culturali’, geo-grafiche, storiche, comparando la realtà della nostra penisola con quella europea più in generale e soprattutto si è cercato di definire pienamente, per quanto possibile senza cadere in schematizzazioni troppo rigide, il rapporto tra centri urbani e territori rurali. Città e campagna nei primi secoli del Medioevo si condizionano reciprocamente, pur all’interno di un quadro di riferimento che vede una prevalenza o per lo meno una notevole rilevanza delle realtà rurali.
Relazione di Daines Barrington alla Royal Society, 28 novembre 1769
Ricevuta il 28 novembre 1769
VIII. Relazione circa un notevolissimo giovane musicista. In una lettera dell’onorevole Daines Barrington F.R.S. a Mathew Maty, M.D. Segr. R.S.
Letta il 15 febbraio 1770
Signore,
Se vi inviassi una ben circostanziata relazione circa un ragazzo alto sette piedi all’età di neppure otto anni, essa potrebbe essere considerata non immeritevole dell’attenzione della Royal Society. Il caso, che ora desidero voi riferiate a codesta dotta istituzione, di una precoce manifestazione dei più straordinari talenti musicali, sembra forse richiamare allo stesso modo la sua attenzione.
Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart nacque a Salisburgo, in Baviera, il 17 gennaio 1756. Un musicista e compositore assai competente mi ha informato di averlo visto spesso a Vienna, quando aveva poco più di quattro anni.
A quell’epoca non soltanto era in grado di eseguire brani sul suo strumento preferito, il clavicembalo, ma ne componeva pure alcuni, semplici per stile e gusto, ma particolarmente apprezzati.
[…]
Gli portai un duetto manoscritto, composto da un gentiluomo inglese su alcune celebri parole tratte dall’opera Demofoonte di Metastasio.
L’intera partitura era in cinque parti, ossia l’accompagnamento di un primo e un secondo violino, le due parti vocali e un basso.
Devo inoltre menzionare che le parti della prima e della seconda voce erano scritte in quella che gli Italiani chiamano chiave di contralto; la ragione per prendere nota di questo particolare apparirà tra breve.
Portando con me questa composizione manoscritta, avevo intenzione di ottenere una prova inoppugnabile della sua abilità come esecutore a prima vista, essendo assolutamente impossibile che potesse aver mai visto quella musica in precedenza.
Non appena la partitura fu collocata sul suo leggio, cominciò a suonare la sinfonia nella maniera più magistrale, tanto nel tempo quanto nello stile, nel pieno rispetto delle intenzioni del compositore.
Faccio menzione di questa circostanza, perché i più grandi maestri spesso trascurano questi particolari alla prima prova.
La sinfonia terminò ed egli prese la parte superiore, lasciando a suo padre quella inferiore.
La sua voce, nel tono, era esile e infantile, ma nulla potrebbe superare la maniera magistrale in cui egli cantò.
Suo padre, che nel duetto eseguì la parte inferiore, sbagliò una o due volte, sebbene i passaggi non fossero più difficili di quelli nella parte superiore; in tali occasioni il figlio si voltò a guardarlo con una certa irritazione, mostrandogli gli errori e correggendolo.
[…]
La sua capacità di improvvisazione, della quale sono stato testimone, dimostra che il suo genio e la sua inventiva devono essere stati strabilianti. Però temo di diventare eccessivo nel tessere le sue lodi, per cui permettetemi di firmarmi, signore,
il vostro più fedele
umile servitore,
Daines Barrington-
Questo è l’estratto di una lunga, curiosa, e interessantissima relazione del 28 novembre 1769. Se volete leggerla integralmente (ne vale la pena!) ecco il link del cofanetto nel formato cartaceo:
Eugenio Montale e Sergio Solmi – Carteggio 1918-1980
Eugenio Montale Sergio Solmi Carteggio 1918-1980
Descrizione del libro Eugenio Montale e Sergio Solmi-Carteggio1918-1980-Biblioteca DEA SABINA-Con questa edizione viene reso pubblico per la prima volta uno dei carteggi più significativi ed estesi del Novecento: si tratta di 338 lettere, inedite nella quasi totalità, che Eugenio Montale e Sergio Solmi si sono scambiati tra il febbraio del 1918 e il luglio del 1980. Questo scambio epistolare consente di assistere al formarsi dello stile poetico montaliano e di vederlo modellarsi lungo la dima delle indicazioni del suo interlocutore; di scoprire risvolti nuovi circa la genesi della prima e della seconda edizione degli Ossi di seppia (1925, 1928); di seguire da vicino lo sviluppo del pensiero critico solmiano e di constatare l’enorme fascino che esercitava su Montale e sull’ambiente culturale italiano; di ricostruire la rete di relazioni fitte e articolate formatasi via via attorno ai due corrispondenti, e di ripercorrere le vicende cruciali di alcune fra le principali riviste letterarie del secolo trascorso; di rileggere la portata internazionale del lancio dell’opera di Svevo (a Montale vanno riconosciuti i meriti dello scopritore) attraverso il racconto dei protagonisti e l’esplorazione dei legami da loro intrattenuti con alcune figure chiave della cultura europea, come James Joyce, Valery Larbaud, Bobi Bazlen e (non ultimi) T. S. Eliot e Mario Praz. Nello scambio, ricco delle confidenze e degli slanci affettivi permessi da un rapporto di stima incondizionata e di fervida amicizia, si riconosce la testimonianza viva di quasi un secolo di storia, visto con lo sguardo disincantato – ma sempre partecipe – di due personalità d’eccezione. Nelle considerazioni sussurrate a mezza voce tra le righe delle lettere affiorano riferimenti all’assassinio di Matteotti, alla morte di Gobetti, alla revoca della libertà di stampa, all’incontro con Gramsci. Il carteggio è accompagnato da un saggio introduttivo che ricostruisce passo dopo passo la storia del rapporto tra i due interlocutori, da note di commento alle singole lettere, da un ricco sistema di indici. In appendice al volume si presenta un rilevante numero di articoli, recensioni e notiziari pubblicati anonimi o con pseudonimo da Montale e Solmi tra il luglio del 1925 e il dicembre del 1935, mai finora ricondotti ai due autori e individuati grazie alle indicazioni contenute nelle lettere.
Indice
Introduzione, di Francesca D’Alessandro
Nota al testo
Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai. Carteggio 1918-1980
Appendice. Prose inedite e ritrovate, a cura di Letizia Rossi
Nota introduttiva
Prose di Eugenio Montale
Prose di Sergio Solmi
Indici
Indice delle opere citate
Indice dei periodici e quotidiani citati
Indice dei nomi
Eugenio MONTALE
Eugenio Montale(Genova 1896 – Milano 1981) è uno dei maggiori poeti europei del Novecento. In piena guerra, nel 1917, presso la Scuola Allievi Ufficiali di Parma, stringe amicizia con Sergio Solmi, che costituirà nell’arco della sua intera esistenza un punto di riferimento umano e letterario imprescindibile. Dopo gli esordi in rivista (particolarmente su «Primo Tempo») pubblica la sua prima raccolta di versi, Ossi di seppia, uscita presso Gobetti nel 1925 e poi (accresciuta) nel 1928, per le edizioni di Mario Gromo. Le sue liriche successive confluiranno in Le occasioni (1939), Finisterre (1943), La bufera e altro (1956), Satura (1971). Nel 1975 gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura, e nel 1980 esce nella collana dei «Millenni» Einaudi la prima edizione critica dell’opera in versi di un poeta vivente, curata da Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini.
Sergio Solmi
– Critico e poeta italiano (Rieti 1899 – Milano 1981); fondatore, con G. Debenedetti e altri, della rivista torinese Primo tempo (1922–23); socio corrispondente dei Lincei (1968). La sua notevole produzione saggistica ha spaziato dalla letteratura francese (Il pensiero di Alain, 1930; La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, 1942; Saggio su Rimbaud, 1974) alla paraletteratura (Della favola, del viaggio e di altre cose. Saggio sul fantastico, 1971), da Leopardi (Studi e nuovi studi leopardiani, 1975) alla letteratura contemporanea, che ha penetrato con fine intelligenza (Scrittori negli anni, 1963). È stato poeta tanto originale quanto radicato nella tradizione italiana (Fine di stagione, 1933; Poesie, 1950; Levania e altre poesie, 1956; Dal balcone, 1968; Poesie complete, 1974), nonché felice traduttore (Versioni poetiche da contemporanei, 1963; Quaderno di traduzioni, 1969; Quaderno di traduzioni II, 1977); da ricordare anche la raccolta di prose poetiche Meditazioni sullo scorpione (1972). L’edizione completa delle Opere di S. S. è stata avviata nel 1983 (il 5°vol. è uscito nel 2000).
L’olio d’oliva e la sua storia-Biblioteca DEA SABINA-L’olivo coltivato o domestico deriva dall’olivo selvatico o oleastro che cresce nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato.
I Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel vocabolario botanico moderno.
La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani.
L’OLIO D’OLIVA
Non solo, anche nei libri dell’Antico Testamento l’olivo e l’olio di oliva sono spesso nominati : basti pensare che la colomba dell’arca porta a Noè un ramo d’olivo colto sul montagna dell’Armenia.
La trasformazione dell’oleaster in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria. Molto presto l’uso di coltivare l’olivo passò dall’Asia minore alle isole dell’arcipelago, e quindi in Grecia: lo Sichelieman riferisce di aver raccolto noccioli d’oliva sia negli scavi del palazzo di Tirino sia in quelli delle case e delle tombe di Micene e, nell’Odissea, troviamo scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme tronco di olivo.
L’OLIO D’OLIVA
In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti; particolarmente ricca ne era l’Attica e soprattutto la pianura vicina ad Atene. D’altra parte l’olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era stata lei che, in gara con Poseidone per il possesso dell’Attica, aveva vinto facendo nascere l’ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato: si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse “a maniglia”, dette per questo loro particolare uso, panatenaiche.
L’olio attico era considerato tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli olii di Sicione, dell’Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni della Focile. Le olive costituivano inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo.
L’OLIO D’OLIVA
Le zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell’olivo erano quelle di Sibari e di Taranto; nell’Italia centrale, si segnalavano in primo luogo il territorio di Venafro, quindi la Sabina e il Piceno, mentre nell’Italia del nord erano famose le coste della Liguria.
L’olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l’impiego di grandi quantità di olio.
Le olive venivano raccolte, a seconda dell’uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.
L’OLIO D’OLIVA
In Grecia l’olio era generalmente prodotto dai proprietari stessi degli oliveti che spesso procedevano anche alla sua vendita; il mercante di olio si chiamava elaiopòles o elaiokàpelos.
La vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle botteghe; era ugualmente attiva nell’agorà, dove si vendevano le merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili tende o, più comunemente, all’aperto, ma questa situazione migliorò ben presto quando furono edificati i primi portici.
Per quanto riguarda l’Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico. Tali attestazioni non significano necessariamente che già in epoca preistorica l’olivo venisse coltivato, anche perché all’esame dei noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure di olivi domestici. Sono comunque evidenze significative, soprattutto se inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all’olivo coltivato. Certamente il passaggio da una fase di semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che sostengono che l’olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo (elaìa), sia il termine etrusco amurca che, nella sua forma greca amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia delle pelli e nell’essiccazione del legno.
L’OLIO D’OLIVA
Il vero problema, dunque, non è stabilire a quando risalga la presenza dei primi olivi in Italia, dato che certamente si trattava di piante che esistevano da molto tempo, almeno in forme selvatiche, quanto piuttosto definire il periodo in cui è cominciata la loro coltivazione in età storica, momento importante che segna l’inizio dello sfruttamento razionale delle campagne, tipico della civiltà urbana.
Le evidenze linguistiche, letterarie ed archeologiche permettono di affermare che, già fra l’VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione dell’olivo era praticata, ma esistevano colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.
Per quanto riguarda l’età storica esistono anche evidenze paleobotaniche: sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa, con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta “Tomba delle Olive” di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente, oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una sorta di caldaia piena di noccioli di olive.
L’OLIO D’OLIVA
Non è facile ricostruire il paesaggio agrario dell’Etruria antica: le trasformazioni subite nel corso del tempo, e soprattutto l’impoverimento e l’abbandono delle campagne, iniziato in età romana, impediscono di cogliere, in tutti i suoi dettagli, una situazione che doveva essere comunque piuttosto fiorente. Anche il panorama offerto dalle fonti antiche va letto con prudenza, tenendo conto del contesto storiografico di appartenenza in cui dominavano la memoria di un passato felice e i riscontri di un realtà contemporanea, quella della prima età imperiale, in cui i caratteri del paesaggio etrusco e i metodi di conduzione agricola erano senz’altro strutturati in modo diverso.
Per quanto riguarda i riscontri forniti dall’archeologia, le ricerche condotte in questi ultimi anni sui vasi-contenitori hanno permesso di analizzare, negli aspetti complementari di produzione, consumo e smercio, tipi di agricoltura intensiva quali le coltivazioni dell’olivo e della vite.
Dopo una prima fase in cui i contenitori di olio deposti nelle tombe principesche del Lazio e dell’Etruria risultano essere in massima parte di importazione, nel corso del terzo quarto del VII sec. a.C. inizia una produzione in loco di questi vasi, destinata nel tempo ad intensificarsi: si tratta non solo di contenitori di essenze odorose a base di olio, ma anche di recipienti destinati a contenere olio alimentare. E’ il momento in cui l’olio e il vino da beni preziosi di marca esotica, inclusi nel commercio di beni di lusso, diventano in Etruria prodotti di largo uso come attestano appunto i loro contenitori che diventano frequentissimi nei corredi tombali in età alto e medio-arcaica: particolarmente diffusi sono i piccoli balsamari in bucchero e in ceramica figulina, che imitano gli aryballoy e gli alabastra corinzi di importazione.
Per quanto riguarda l’ambito alimentare l’olio è sempre stato uno dei prodotti principali dell’antichità classica. Nel mondo romano non si usava altro condimento per cucinare, e per condire le insalate si utilizzava l’olio migliore: particolarmente rinomati erano l’olio verde di Venafro, come attestano , e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.
Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo.
L’OLIO D’OLIVA
Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.
In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico.Con le olive verdi si facevano le colymbadas (letteralmente “le affiorate”), così dette perché galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due parti di aceto. La preparazione consisteva nel praticare alle olive, dopo la salagione, due o tre incisioni con un pezzo di canna, e quindi tenerle immerse per tre giorni in aceto; poi le olive venivano scolate e sistemate con prezzemolo e ruta, in vasi da conserve che erano poi riempiti con salamoia e aceto facendo in modo che restassero ben coperte. Dopo venti giorni erano pronte per essere portate in tavola.
L’OLIO D’OLIVA
Un altro tipo di conserva era l’epityrum che si faceva sempre con le olive migliori, di solito le orcite e le pausiane: era una salsa molto saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena ad ingiallire, scartando quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto asciugare le olive sulle stuoie per un giorno, si mettevano in un fiscolo nuovo, cioè in una di quelle ceste di fibra vegetale fatte a forma di tasca, con un foro superiore e uno inferiore, in cui si racchiudevano le olive frantumate per poi spremere l’olio; quindi si lasciavano una notte intera sotto la pressa. Dopo di che venivano sminuzzate e condite con sale e aromi e, dopo aver messo l’impasto così ottenuto in un vaso lo ricopriva d’olio.
Vi erano poi le conserve di olive nere, che si potevano fare sia con le pausiane mature che con le orcite ed in alcuni casi anche con le olive della qualità Nevia: la preparazione consisteva nel tenerle per 30-40 giorni sotto sale, poi, una volta scosso via tutto il sale, metterle sotto sapa defrutum.
Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.
Catone, Plinio e Columella e tutti gli scrittore latini di agricoltura più famosi hanno lasciato insegnamenti sulla coltivazione dell’olivo e sulla produzione dell’olio.
E noto, ad esempio, che l’olio che si otteneva dalla torchiatura era piuttosto denso e che, per farlo diventare più fluido, occorreva riscaldare l’ambiente in cui veniva preparato per evitare che si rapprendesse: è per questo che l’olio aveva spesso odore di fumo. In qualche occasione, e naturalmente a seconda della temperatura esterna, era sufficiente che il locale dei torchi (torcular) fosse rivolto a sud ed esposto ai raggi del sole, anzi, gli esperti ritenevano che questa fosse la soluzione migliore per garantire la buona qualità del prodotto. E infatti, nella villa della Pisanella a Poggioreale, dove è venuto alla luce un interessante esemplare di torchio da olio, la cella olearia era intiepidita naturalmente, in virtù della sua esposizione al sole.
Gli autori antichi descrivono minuziosamente le macchine impiegate dai Greci e dai Romani per la torchiatura delle olive; le scoperte archeologiche hanno poi permesso di controllare e di completare le loro testimonianze.
La prima fase della preparazione dell’olio d’oliva consisteva nello schiacciamento dei frutti. La mola olearia assomigliava a quella granaria, essendo anch’essa costituita da due pietre cilindriche, una fissa, il bacino o sottomola, l’altra mobile, la mola verticale: l’operazione di schiacciamento era seguita in modo assai semplice, facendo rotolare una pietra cilindrica avanti e indietro sopra le olive poste in un contenitore.
Il “frantoio” romano, puntualmente descritto da Columella (I sec. d.C.) era di un tipo assai simile a quelli usati anche in età moderna.
Sulla base dei dati disponibili è possibile proporne una ricostruzione più che plausibile. In dettaglio, gli elementi componenti la macchina dovevano essere i seguenti:
Base in muratura, superiormente concava, per meglio alloggiare la sottomola
Sottomola
Sostegno verticale in legno dove è infilata la stanga. L’inserzione di questa nel sostegno doveva prevedere la possibilità di regolare l’altezza della mola per non schiacciare i noccioli delle olive
Disco della mola, costituito da una pietra cilindrica che l’uso deforma leggermente in senso troncoconico. Il disco è inserito nella stanga in modo da poter girare sia intorno al sostegno centrale, sia attorno al proprio asse. Il disco della mola era mantenuto nella posizione corretta per mezzo di cunei in legno (clavi)
Stanga, la cui estremità è collegata ai finimenti che imbrigliano l’asino sottoposto alla mola.
L’OLIO D’OLIVA
Quando il perno centrale veniva fatto ruotare, i rulli giravano rapidamente a una distanza regolabile sopra il recipiente che conteneva le olive era così possibile separare la polpa senza schiacciare i noccioli
Dopo la frangitura, le olive venivano pressate. Per questo secondo passaggio in antico venivano usate presse a trave, simili a quelle usate per il vino. Sembra che la pressa a trave abbia avuto origine e si sia sviluppata nella civiltà egea, dove la coltivazione delle olive era già diffusa agli inizi dell’età del bronzo, ma non si sa con certezza a quale epoca risalga.
I resti più antichi conosciuti di una pressa e di un bacino per schiacciare le olive sono quelli rinvenuti a Creta che appartengono al periodo minoico (1880-1500 a.C. ca.): sono però insufficienti per una ricostruzione dettagliata dello strumento. Un’altra pressa a trave per olive, risalente al tardo periodo elladico (1600-1250 a.C. ca.) fu trovata in una delle isole Cicladi. Dopo il 1000 a.C. circa, le presse di questo tipo divennero più frequenti e ne esistono alcune rappresentazioni, in particolare su vasi attici a figure nere del VI sec. a.C.
L’OLIO D’OLIVA
La pressa a trave applica il principio della leva: un’estremità della trave era appoggiata in un incavo del muro, o fra due pilastri di pietra, l’altra veniva tirata giù o spesso caricata con pesi (uomini e pietre). Le olive, sistemate in sacchi o tra tavole di legno, venivano schiacciate sotto la parte centrale della trave e il succo era raccolto in un recipiente sistemato sotto il piano della pressa.
Plinio descrive con molta chiarezza quattro tipi di presse. La prima è la vecchia pressa trave di cui parla anche Catone (234-149 a.C.) il cui funzionamento è stato però nel frattempo alquanto meccanizzato. Un’estremità della trave, spesso lunga fino a 15 metri, era fissata sotto una sbarra trasversale posta tra due pali di legno. Le olive schiacciate erano ammucchiate sotto questa pesante trave e la pressione veniva esercitata facendo abbassare l’altra estremità della trave che era tirata in basso da una fune arrotolata intorno ad un tamburo del diametro di 40-50 centimetri. Un secondo miglioramento che permetteva una pressione regolare e prolungata, era attuato nella pressa descritta da Erone (I sec. d.C.), ma gia nota da molto tempo e probabilmente inventata in Grecia. Tale pressa era costituita da un peso di pietra, una trave e un tamburo girevole, Partendo dalla base, una corda passava sotto una puleggia collocata sul peso e sopra un’altra puleggia situata sulla trave, raggiungendo il tamburo. Quando la corda era avvolta al tamburo la trave riceveva l’intero peso della pietra.
La massa da pressare era racchiusa in vari modi: dentro fiscoli di corda, giunchi intrecciati, o cesti. Oppure: “le olive venivano schiacciate dentro cesti di vimini o mettendo la pasta tra due asticelle” (Plinio).
Le presse a trave erano particolarmente adatte per operazioni su larga scala, quando invece si trattava di quantità limitate, come anche nel caso di semi oleosi, si preferivano altri metodi come la pressa a vite. Di quest’ultima Plinio dice che sembra sia stata introdotta a Roma verso la fine del I secolo a.C., ma che era stata probabilmente inventata in Grecia nel II o I secolo a.C.
L’OLIO D’OLIVA
In una versione perfezionata di questo tipo di pressa, descritta sia da Erone sia da Plinio, la vite solleva un peso di pietra. Questo tipo, chiamato anche “pressa greca”, era senz’altro in uso a Roma ai tempi di Vetruvio (I sec. a.C.).
Quindi l’olio veniva messo a decantare in vasche che precedevano il lacus destinato alla raccolta finale del prodotto.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
7) Robert Koch medico, batteriologo e microbiologo tedesco
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 7) Il nome di Robert Koch è legato allo studio della tubercolosi, per la quale cercò di preparare una sostanza in grado di combatterla. Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Robert Koch: una vita per la scienza
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Robert Koch: una vita per la scienza
Robert Koch e la tubercolosi
Il nome di Robert Koch è legato allo studio della tubercolosi, per la quale cercò di preparare una sostanza in grado di combatterla.
Robert Koch nasce a Clausthal, in Germania nel 1843, figlio di un ingegnere minerario. Bambino precoce e molto intelligente, a 19 anni entra all’Università di Göttingen per studiare medicina con il ProfessoreHenle; questi sostiene che le malattie infettive sono provocate da organismi vivi.
È a partire da questa affermazione, insieme all’esperienza che egli stesso si farà nel campo della microbiologia, che Koch enuncerà quelli che oggi sono conosciuti come ‘Postulati di Koch’ e che trattano delle condizioni necessarie per poter affermare che un particolare Batterio è causa di una determinata malattia.
Links: Käfige mit Versuchstieren, rechts: ein Brutschrank, Person: Robert Koch [11.12.1843 – 27.05.1910], Deutscher Arzt und Bakteriologe, Datierung: um 1890, Material/Technik: Holzstich, koloriert, , Copyright: bpk
Laureatosi, Koch trascorre un periodo limitato a Berlino per studiare chimica e poi fa una sorta di tirocinio all’ospedale Generale di Amburgo prima di esercitare privatamente.
I primi studi di ricerca Koch li compie sul bacillo del carbonchio. Egli si trova, in questo periodo, nel Wollenstein, dove il carbonchio provoca numerose epidemie tra i bovini. Non ha contatti con altri ricercatori, né accesso a biblioteche, quindi deve contare sulle sue sole forze. Koch riesce a provare che è proprio il bacillo del carbonchio a provocare la malattia: egli inocula in alcuni topi il Sangue prelevato dalla milza di animali malati ed in altri il sangue prelevato dalla milza di animali sani dimostrando che i topi ai quali è stato inoculato sangue infetto si sono ammalati, quelli ai quali è stato inoculato sangue sano no.
Ma va anche oltre. Riesce a produrre una coltura di bacilli del carbonchio facendoli crescere e moltiplicare nell’umore acqueo dell’occhio di un bovino, riuscendo così a dimostrare che i bacilli si riproducono e causano la malattia anche senza il contatto con alcun animale, perché hanno la capacità di resistere quando le condizioni sono avverse producendo delle spore che poi, in condizioni favorevoli, produrranno di nuovo i bacilli.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
La ricerca contro la tubercolosi
Tra il 1883 ed il 1884 Koch si dedica allo studio del vibrione del colera e alla sua diffusione, e formula delle linee guida che sono ancora oggi ritenute valide. Si dedica poi allo studio di una malattia per quell’epoca molto comune e molto grave, alla quale resterà legato il suo nome, la tubercolosi.
Robert Koch: una vita per la scienza ,studiò la tubercolosi,Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Egli cerca di preparare una sostanza che potesse essere utilizzata con scopi terapeutici contro questa malattia. Questa sostanza, che egli chiamerà tubercolina, viene ricavata dal bacillo stesso della Tubercolosi e, sebbene non abbia il risvolto terapeutico valido sperato, è ancora oggi utilizzata (chiaramente prodotta con tecniche più all’avanguardia) a scopo diagnostico.
Lo studio della tubercolosi e del batterio che la provoca lo porterà anche a sostenere, a ragione anche se nessuno gli crederà, al Congresso Medico sulla Tubercolosi svoltosi a Londra nel 1901, che il batterio che causa la tubercolosi umana e quello che causa la tubercolosi bovina sono differenti.
La ricerca di Robert Koch, alla fine del XIX secolo, si sposta poi in Africa meridionale. Qui egli si reca per studiare e fermare la peste bovina. Purtroppo l’impresa non riesce perché la malattia è provocata da un virus (troppo piccolo per essere visto da un microscopio non elettronico) e non da un batterio, ma Koch riesce comunque a limitare il contagio grazie ad una specie di vaccinazione che egli ottiene inoculando la bile prelevata dalla milza degli animali infettati.
Sempre in Africa, egli si dedica anche allo studio di altre malattie, quali la malaria, la spirochetosi, la tripanosomiasi.
Nella sua vita, Koch viene insignito di molteplici onorificenze, ottiene una laureahonoris causae all’Università di Bologna e conquista l’ambito Premio Nobel per la Medicina per lo studio della tubercolosi nel 1905. Muore a Bade-Baden il 27 maggio del 1910.
Robert Koch: una vita per la scienza
Robert Koch: una vita per la scienza ,studiò la tubercolosi,Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Geheimrat Robert Koch nacque nel 1843 a Clausthal, nelle odierna Germania centro-settentrionale. Figlio di un ingegnere minerario, rivelò fin da bambino la sua intelligenza e perseveranza imparando a leggere da solo all’età di 5 anni.
A 19 anni intraprese gli studi di Medicina all’Università di Göttingen, ove ebbe come maestro il prof. Henle. Questi, che da tempo andava sostenendo, contrariamente all’opinione comune, che le malattie contagiosa erano provocate da “organismi vivi parassiti”, senza dubbio influenzò la nascente personalità scientifica del giovane allievo.
Dopo un breve periodo a Berlino per lo studio della Chimica e un soggiorno di studio all’Ospedale Generale di Hamburg, Koch incominciò a esercitare privatamente la professione di medico. Questa attività non gli impedì di interessarsi a numerosi altri argomenti, quali ad esempio l’archeologia e l’antropologia.
I primi lavori fondamentali, eseguiti con penuria di mezzi e in condizioni disagiate, riguardarono il carbonchio ematico degli animali. Tali lavori furono coronati dalla dimostrazione, attraverso l’infezione sperimentale del topo, che il bacillo del carbonchio presente nella milza degli animali morti era l’agente causale della malattia. Successivamente, Koch riuscì a isolare e a coltivare in coltura pura il bacillo, usando come terreno di coltura l’umore acqueo dell’occhio di bovino. Egli dimostrò anche la formazione delle spore e ne documentò la straordinaria resistenza nell’ambiente.
Nel 1880 Koch, già famoso, divenne membro del “Reichs-Gesundheitsamt” (Imperial Ufficio per la Salute) a Berlino; quivi ottenne finalmente mezzi adeguati alle sue capacità, e si dedicò allo studio dei terreni di coltura e della colorazione dei batteri. Risale a questo periodo (1881-82) la messa a punto di nuove metodiche per la coltivazione e l’ottenimento in coltura pura dei batteri ed, in particolare, del bacillo della tubercolosi dell’uomo.
L’esperienza acquisita e le grandi capacità analitiche permisero a Koch di rivedere i principi fondamentali – già proposti in precedenza da Henle – riguardanti le condizioni necessarie per poter dichiarare che “un determinato batterio è causa di una determinata malattia”. Tali principi sono passati alla storia come «Postulati di Koch».
A questi studi seguì un breve ma intenso e proficuo intervallo (1883-84) dedicato allo studio del colera e delle modalità di diffusione del vibrione nell’ambiente. Anche in questo campo Koch si distinse per la sua attività di «pioniere» della microbiologia, formulando alcune linee-guida per il controllo della malattia che vennero ben presto approvate e adottate in numerosi Stati e che, nella sostanza, ancor oggi vengono seguite.
Ospedale Spallanzani di Roma-foto di Franco Leggeri
Successivamente Koch riprese gli studi sulla tubercolosi che, a quel tempo, rappresentava una delle malattie più gravi e frequenti. Gli studi vennero rivolti alla preparazione di una sostanza derivata dal bacillo della tubercolosi, denominata «tubercolina», che Koch riteneva provvista di attività terapeutica. Ben presto tale attività si rivelò inesistente, ma la tubercolina si rivelò, in seguito, straordinariamente utile a scopo diagnostico (e lo è ancor oggi, seppure purificata e prodotta con tecniche più sofisticate di quelle di Koch).
Nel 1896 Koch ebbe l’occasione di soggiornare nell’Africa meridionale allo scopo di studiare l’origine di una terribile malattia dei ruminanti: la peste bovina. Koch non riuscì nel difficile intento (la peste bovina è sostenuta non da un batterio bensì da un virus); tuttavia, riuscì a limitare l’estensione dei focolai e a rallentare la diffusione della malattia attraverso una sorta di vaccinazione che consisteva nell’inoculare agli animali sani bile prelevata da animali ammalati.
In questi anni Koch giunse alla conclusione che la tubercolosi dell’uomo e del bovino erano sostenute da batteri differenti, e difese strenuamente la sua opinione (che oggi sappiamo essere esatta) contro lo scetticismo o l’avversione dei più al Congresso Medico sulla Tubercolosi tenutosi a Londra nel 1901.
Rappresentano punti fermi nella storia della Medicina altri studi compiuti da Koch, prevalentemente nel continente africano, su numerose malattie: malaria, surra, spirochetosi, tripanosomiasi, babesiosi.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma -Muro di cinta-
Koch raccolse, durante la sua non lunghissima vita, innumerevoli premi e onorificenze, compresa una laurea ad honorem presso l’Università di Bologna. Nel 1905 venne insignito del premio Nobel per la Medicina per gli studi eseguiti sulla tubercolosi.
Robert Koch si spense a Baden-Baden il 27 maggio 1910, all’età di 67 anni.
Nota introduttiva di Pina Piccolo-Per orientarci all’interno della raccolta di poesia di Rahma Nur Il sussurro e il grido occorre individuare e seguire le briciole che l’autrice dissemina sin dal titolo, le contrapposizioni, i contrasti, i paradossi, il sussurrato e il gridato. Nella sua sapiente prefazione (di cui consiglio vivamente la lettura) pur non trascurando gli elementi ‘sussurrati’ della poesia, Mackda Ghebremariam Tesfaù ci offre molti spunti che riguardano il ‘gridato’ della raccolta, cioè gli elementi palesemente politici, relativi a potere, identità, razzismo, nerezza, critica dell’abilismo, individuazione degli elementi di intersezionalità nell’opera dell’autrice, ma in queste brevi note vorrei soffermarmi maggiormente sugli elementi di poetica più filosofici ed intimi.
Parto dalle considerazioni della prefattrice che individua il nucleo centrale della funzione della poesia per Rahma Nur:
[…] In questo testo emerge potente una voce che rifiuta ogni incasellamento e silenziamento. Una voce che dipinge un mondo complesso, dove sia la gioia che il dolore trovano spazio di riconoscimento, e dove entrambi possono essere sussurrati e gridati.
[…] Ma la poesia è anche lo spazio in cui Rahma può aspettare sua figlia, pregare per il suo arrivo e immaginarne l’incontro. Si tratta dunque di un universo fertile, generativo, di gestazione, che le permette di divenire madre ancora prima di conoscere la figlia. La poesia è il luogo in cui può salutare le primavera, in cui può nascondere la sua felicità, che è “meglio” stia al sicuro, nascosta da chi la potrebbe sciupare. Soprattutto: la poesia è grande a sufficienza per farci stare perfino l’Africa, per farci stare, in equilibrio, fuga e desiderio, gioia e disperazione.
La complessità a cui allude Ghebremariam Tesfau’ si manifesta non solo come complicazione e ricchezza di fili (bellissima a proposito la poesia “Fili linguistici” contenuta nella raccolta), ma anche come ‘inciampamento’, una conoscenza intima di un procedere difficoltoso, vacillante, che ti obbliga a pause di riflessione, che suscita negli aspiranti all’armonia reazioni che si alternano tra stupore e disprezzo. Sin dalla poesia “Centri concentrici” Rahma Nur registra l’incedere forzato e misterioso della nascita, illustrato con dovizia di particolari in “Vuoto amniotico” (Nuoto. / Mi agito… / mi sento risucchiare / questa spinta che mi porta fuori /). Dalla descrizione fisica della nascita si passa a un’associazione metaforica a quello stesso movimento nella vita in senso lato (la vita / la precedeva veloce / impaziente, sardonica / impertinente. / Lei le arrancava dietro/ seguiva titubante /le impronte /sul terreno fangoso / Riusciva ancora, con fatica, a starle dietro. / Ci riusciva ancora.)
Le poesie sapientemente concatenate nelle varie sezioni si ‘dimenano’ alternandosi tra il filosofico, il quotidiano, il sociologico e il lirico (particolarmente nelle poesie dedicate ai suoi vari morti e ai ricordi del passato) per concludersi con una considerazione della poeta sullo spazio fisico che occupa attualmente, l’angolo di casa in cui ‘vacilla’ tra sogno e silenzio, lettura e rinuncia, finendo con la domanda “io, cosa ci faccio qui!”.
A smentire quella che potrebbe sembrare una conclusione statica, l’appendice è dedicata al moto della sua poesia “Fili linguistici” nel mondo, e mette a confronto le traduzioni in inglese di Barbara Ofosu- Somuah, Alta L. Price, e Candice Whitney, restituendo una dimensione dinamica e di varietà alla sua opera e re-immettendola nel ciclo continuo dell’interazione umana intellettuale internazionale.
Dalla sezione Sussurrare
1° luglio
Nel mondo indifferente
donne vestite con i colori più sgargianti,
spalle coperte da garbasar multicolori
teste abbellite da shash variopinti
giovani bellezze dagli sguardi ridenti
donne decorate da rughe definite dagli anni
cantano ed ululano le loro grida allegre
al cielo di Roma,
i loro canti viaggiano dalle gole vibranti
verso la Somalia
le loro braccia sventolano bandiere color del cielo
orgogliose e stanche
dopo anni di fatica e di sogni.
Presenti mai assenti
Ci pensi mai
A quando non sarai più
Ci pensi mai
A quelli che non sono più
Eppure, sono così vividi
E presenti i loro visi
Così forti e chiare
Le loro voci
Così tangibili e intensi
I loro abbracci.
Non si può credere che ora siano solo ossa
Non voglio crederlo, non voglio vederlo.
Fino a che sono nei miei pensieri
Nei miei ricordi
Fino a che li vedo come ora ed allora
Fino a che io sono qui
Fino a che i miei piedi poggiano sul terreno,
Le mie mani si muovono,
Fino a che sono dentro ogni parola,
In ogni istantanea, nella mia mente
Fino ad allora e sempre
Saranno con me.
Presenti mai assenti.
Dalla sezione Gridare
La conchiglia
Non c’era nessuna valigia
Da preparare
Non c’era nessun documento
Da portare
Solo un corpo e
Un’anima smarrita
Mi hai presa per mano
E nella tua ho stretta la mia
Piccola, fragile, magra
Non avevo idea di dove andavamo
Non avevo idea da dove venivamo
Era solo casa
Era solo famiglia
Alla spiaggia
Mi hai stretto ancora più forte la mano
Ti sei chinata
Ho visto i tuoi occhi bagnati
Lacrime lapidarie
Rigare il tuo viso
Hai preso una grande conchiglia
Me l’hai poggiata sull’orecchio
“Ascolta, la musica del mare
Il richiamo del ventre terreno
Non dimenticare mai
Da dove vieni
Non dimenticare mai chi sei
Non dimenticarmi mai!”
Hai posato la conchiglia nella mia mano
E con essa hai lasciato la vita nelle mie mani.
La conchiglia è ancora con me
La vita è ancora con me
Ma tu, dove sei?
Mi vedi?
Vedi
non sono queste quattro ruote
in una sfavillante carrozzina blu cromato
non sono nemmeno quella che ogni tanto
si alza barcollando nelle sue gambette
non sono quella dalla pelle liscia e senza rughe
(che non vedi ma ci sono)
dalla pelle colorata, “oh come vorrei averla anche io!”
Quello che vedi è un corpo:
nero,
zoppo,
storto,
visibile quando lo decidi
invisibile quando lo vuoi
Mi vedi?
Son qui: anima, emozione, desiderio, sogno, debolezza,
forza, coraggio, timore, rabbia, odio, amore e tenerezza.
Mi vedi?
Son qui: donna, nera, abile quanto basta, dis-abile quando
vuoi tu,
(lo decidi tu, lo pensi tu, lo verifichi tu, importa a te)
madre, moglie, amante (eh sì!) lavoratrice, pigra, appassionata,
bramosa, incompleta, completa, dipende dai momenti,
compresa, incompresa (troppo spesso) illusa, disillusa,
speranzosa, senza speranze…
Son qui: nella mia intera persona o a pezzi dentro o
scomposta fuori.
Son qui: mi vedi?
Dalla sezione Curare
Ho lasciato la mia casa
Ho lasciato la mia terra
quel suolo che calpestavo con le ginocchia
Ho lasciato visi annebbiati dall’oblio
Ho lasciato lì le mie scarse parole.
Cinque anni e da due non vedevo mia madre
Ho lasciato la mia terra per un nuovo inizio
Verso un viso che non ricordavo
Una parola dimenticata: mamma, Hooyo.
Ho lasciato la mia terra e un futuro incerto.
Ho lasciato la mia terra perché i miei piedi non sapevano calpestarla.
la mia pancia era gonfia di vuoto, il mio cuore silenzioso.
Ho lasciato la mia terra per guarire le gambe
Mi hanno alzata in piedi, insegnato a camminare, insegnato un’altra lingua
Ma ho perso le parole del passato
Non gattono più
Non mi impolvero le gambe di sabbia
e tutto ciò che vorrei è affondare nelle parole perse
nuotare nelle favole perdute, arrampicarmi su acacie rachitiche,
Perdermi negli sguardi che mi riconoscono come una di loro:
Ridere delle storie che non conosco
Ballare e cantare i ritmi che hanno percorso le mie vene
Ripetere gli sheeko sheeko a mia figlia
Tuttavia, le mie parole zoppicano come le mie gambe,
I miei canti stonano e il mio cuore piange un pianto disperato e muto.
Tulipani
Rossi
con striature arancioni
si lanciano verso il sole
come innamorati
in cerca di un abbraccio
protesi verso la luce
attendono con pazienza
che i raggi li accarezzino
L’altro
bianco e candido
si è quasi chiuso in sé
come ad abbracciare
la sua stessa solitudine!
Qui
In questo angolo di casa,
in questo angolo di cielo e di sole,
in questo angolo di alberi sempreverdi,
di erba già bruciata dal sole brillante ed implacabile,
di piogge rare e pigre,
In questo mio angolo
aperto e nascosto,
privato e non isolato,
io, in questo angolo mio,
dove lascio i pensieri immobili,
dove allungo le gambe al sole cocente e mi rivitalizzo:
io, in questo angolo cosa cerco?
Cosa trovo?
Sogno o taccio,
leggo e lascio,
io, cosa ci faccio qui?
Pina Piccolo
Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturaleche per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com
Descrizione del libro di Erich Maria Remarque– Secondo romanzo dedicato alla Prima Guerra Mondiale, venne pubblicato a puntate sul quotidiano tedesco Vossische Zeitung tra il dicembre del 1930 e il gennaio del 1931. Successivamente venne pubblicato nell’aprile del 1931. Soggetto alla censura nazista, racconta del ritorno a casa di alcuni soldati dopo la tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale. Da giovani perbene e pieni di ideali quali erano quando erano partiti per il fronte tornano uomini che hanno visto e provato sulla loro pelle l’inimmaginabile. Credono, illusoriamente, di trovare un accoglienza festosa e di reinserirsi nel contesto sociale. Ma tutto è cambiato anche lontano dal fronte. Le madri, i padri, i vicini di casa non sono più gli stessi o induriti dalle privazioni o testardi nel negare che nulla sia cambiato.Se Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale mi aveva scombussolato la mente e il cuore, La Via del Ritorno mi ha trovato in lacrime nel finale.
Eric Maria Remarque
Erich Maria Remarquenacque a Osnabrück nel 1898. Nel 1916, in piena Grande Guerra, fu spinto ad arruolarsi volontariamente e nel 1917 fu spedito sul fronte occidentale, dove rimase gravemente ferito. Il suo primo romanzo pacifista, Niente di nuovo sul fronte occidentale, fu pubblicato nel 1929. Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le sue opere. Riparato in Svizzera, vi risiedette fino al 1939, anno in cui si trasferì negli Stati Uniti. Nel 1948 tornò in Svizzera, dove visse e continuò a scrivere fino alla morte, nel 1970. Neri Pozza ne sta ripubblicando l’opera omnia.
Arturo TOSCANINI -Concerto del 14 gennaio 1920 al Teatro AUGUSTEO di ROMA-
Arturo Toscanini Direttore d’orchestra (Parma 1867 – New York 1957). Iniziò la sua carriera come violoncellista, ma si affermò presto come direttore sino a raggiungere un’enorme celebrità. L’interpretazione direttoriale di T., sia in campo teatrale sia in campo concertistico, era caratterizzata da una lucida lettura del testo musicale, associata alla concezione dell’orchestra intesa come uno strumento che deve sempre vibrare in tutte le sue parti. Il suo repertorio era assai vasto, rivelando peraltro una particolare predilezione per i musicisti del sec. 19º, da Beethoven a Brahms, da Verdi a Wagner.
Vita e opere
Studiò nei conservatori di Parma e di Milano, e iniziò la sua carriera come violoncellista nell’orchestra Teatro Regio di Parma e di altre, in Italia e nell’America Meridionale. Diresse per la prima volta a Rio de Janeiro nel 1886, e si affermò successivamente nei maggiori teatri d’Europa e d’America, sino a raggiungere una celebrità e una considerazione superiori a quelle di qualsiasi altro direttore. Chiamato alla Scala di Milano (1898), vi diresse fino al 1928, anno in cui fu nominato “principal conductor” dell’Orchestra Filarmonica di New York. Direttore al Metropolitan di New York (1908-15), rientrò in Italia nel 1915; nel 1931, essendosi rifiutato di eseguire gli inni ufficiali prima di un concerto a Bologna, fu schiaffeggiato da un gruppo di fascisti. Emigrò allora negli USA, dove fu a capo (1937-54) dell’Orchestra della National Broadcasting Company, costituita appositamente per lui. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, tornò saltuariamente in Italia, e inaugurò la Scala ricostruita dopo i bombardamenti che l’avevano gravemente danneggiata (1946). T. diresse, inoltre, la prima esecuzione assoluta di numerose opere, tra le quali: La Bohème, La fanciulla del West, Turandot di G. Puccini; Nerone di A. Boito
Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920
Arturo Toscanini nasce a Parma il 25 marzo 1867, da Claudio e Paola Montani Toscanini. Il padre, sarto, ha combattuto per l’Unità d’Italia. Per il suo patriottismo ha scontato anche tre anni di carcere, ha perso tutti i denti e fatica a condurre una vita stabile.
Arturo, che da piccolo è molto gracile forse a causa della celiachia, si diploma in Musica al Regio Conservatorio di Parma nel 1885, con i massimi voti in Composizione e Violoncello.
Dopo il diploma, si unisce a una compagnia operistica itinerante come violoncellista. Mentre si trova in tournée in Brasile, viene chiamato a sostituire il direttore d’orchestra durante una rappresentazione dell’Aida di Giuseppe Verdi. Toscanini, che ha imparato a memoria lo spartito, regala al pubblico una brillante esecuzione. Dato il suo trionfo, è assunto per il resto della stagione, affermandosi dunque per i propri talenti ed abilità d’esecuzione a soli 19 anni.
Debutta in Italia nel novembre 1886, a Torino. Nel proprio Paese d’origine firma molte direzioni d’orchestra, tra cui ad esempio le prime mondiali dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (1892) e della Bohème di Giacomo Puccini (1896), come pure la prima italiana del Crepuscolo degli dei di Richard Wagner (1895).
Nel 1896, Toscanini conduce per la prima volta a La Scala di Milano un concerto comprendente tra l’altro una sinfonia di Franz Joseph Haydn e lo Schiaccianoci di Pyotr Ilyich Tchaikovsky. Il suo successo cresce quando viene scelto come direttore d’orchestra principale de La Scala nel 1898.
Nel 1897 sposa Carla De Martini. La coppia ha due figli maschi, Walter e Giorgio (che morirà di difterite nel 1906), e due figlie, Wally e Wanda. Wanda sposerà il pianista Vladimir Horowitz, collaboratore del padre.
Nel 1908, Toscanini lascia La Scala per andare a dirigere la New York Metropolitan Opera. Qui conduce un’altra prima mondiale di Puccini, La fanciulla del West, nel 1910. Tornerà in Italia durante la prima guerra mondiale, e suonerà gratuitamente per beneficienza per i soldati al fronte fino alla fine della guerra. Dopo il conflitto, Toscanini porta l’orchestra de La Scala in tournée in Europa, in Canada e negli Stati Uniti. A partire dal 1921 si allontanerà volontariamente dalla direzione de La Scala, che gli costa troppa energia, e soprattutto dall’Italia, dove il fascismo guadagna sempre maggiori consensi. Continua a dirigere in America, apparendo come direttore d’orchestra della New York Philharmonic Orchestra nel 1926. Lavorerà con questa orchestra fino al 1936.
Toscanini si oppone fieramente all’avanzata del fascismo in Europa. In Italia, nel 1931, viene schiaffeggiato per avere rifiutato di eseguire l’inno fascista Giovinezza. È il primo non tedesco a dirigere un’orchestra al festival dedicato a Wagner a Bayreuth, in Germania, ma nel 1933 sceglie di non recarsi a questo evento per protesta contro il regime nazista. Questa vicenda è una delle tante manifestazioni del successo del Maestro Toscanini. Infatti il capillare controllo che il nazismo esercitava su tutte le opinioni, e il fatto che il regime avesse ritenuto Toscanini “incapace di resistere alla propaganda antigermanica”, non avevano impedito che alcuni giornali esprimessero rammarico per la sua mancata partecipazione al festival, e il divieto di trasmettere la sua musica alla radio tedesca fu per qualche tempo sospeso, per convincerlo a cambiare idea.
Nel 1936, Toscanini va in Palestina per dirigere un gruppo di musicisti ebrei che, in collaborazione con il musicista polacco Bronislaw Huberman, ha aiutato a fuggire dall’Europa.
David Sarnoff, il direttore della NBC, fonda la NBC Symphony Orchestra specificamente per Toscanini nel 1937. Toscanini sarà direttore di questa orchestra per 17 anni, ma troverà il tempo di suonare con altre orchestre, da una riva all’altra dell’Atlantico.
Nel 1947 partecipa con entusiasmo alla rinascita de La Scala dopo le distruzioni belliche. È tuttavia già molto anziano.
Sua moglie Carla muore nel 1951. Toscanini dirigerà il suo ultimo concerto dal vivo alla Carnegie Hall il 4 aprile 1954, con l’orchestra sinfonica della NBC. Negli ultimi anni riesaminerà le proprie registrazioni ancora inedite. Il 16 gennaio 1957, all’età di 89 anni, anche Arturo si spegne a casa sua nel quartiere Riverdale di New York.
Giardini che onorano Arturo Toscanini
Benevento – Liceo scientifico Rummo
Cittadella
Fiumicino – IC Colombo
Frattamaggiore – Liceo Miranda
Roma – Auditorium Parco della Musica
Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920
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