Poesie di Joy Harjo,Poetessa della nazione Mvskoke/Creek-Poesie tradotte da Pina Piccolo
Joy Harjo
Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Joy HarjoPoesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)
Breve Biografia-Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le sue raccolte di poesia comprendono Conflict Resolution for Holy Beings (W. W. Norton, 2015); How We Became Human: New and Selected Poems (W. W. Norton, 2002); A Map to the Next World: Poems (W. W. Norton, 2000); The Woman Who Fell From the Sky (W. W. Norton, 1994) In Mad Love and War (Wesleyan University Press, 1990); Secrets from the Center of the World(University of Arizona Press, 1989); She Had Some Horses (Thunder’s Mouth Press, 1983); and What Moon Drove Me to This? (Reed Books, 1979). Ha anche scritto un libro di memorie, Crazy Brave (W. W. Norton, 2012), che descrive il suo percorso nel divenire poeta e che nel 2013 ha vinto il premio letterario PEN Center USA per la narrativa creativa nonfiction. E’ anche performer, è apparsa nel canale HBO nella serie Def Poetry Jam e in spazi statunitensi e internazionali. Suona il sassofono con la sua band Poetic Justice e ha lanciato 4 CD di musica originale. nel 2009 ha vinto il Native American Music Award (NAMMY) come migliore artista femminile.
Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Pina Piccolo -traduttrice e scrittrice –
Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com
Poesie inedite di Zairo Ferrante è nato nel 1983 ad Aquara (Salerno) e vive a Ferrara dove lavora come Medico Radiologo. Ha pubblicato le raccolte di prosa e poesia: D’amore, di sogni e di altre follie (Este Edition, 2009), I bisbigli di un’anima muta (CSA Editrice, 2011), Come polvere di cassetti (David and Matthaus, 2015), Itaca, Penelope e i maiali (Edizioni Il Foglio Letterario, 2019). Nel 2009 ha fondato il “DinAnimismo”, un movimento poetico/artistico di neoavanguardia. Suoi scritti figurano su diverse riviste e periodici culturali, sia on-line che cartacei. È inserito in numerose antologie collettive ed alcune sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo e francese.
Come un radiologo
In silenzio m’affaccio a questa vita
mentre il sole stende le sue braccia all’orizzonte.
Tra il grigio e le sue mille sfumature,
come un Radiologo, cerco una risposta.
Un singolo bagliore, all’ombra della sera,
che possa illuminare la mia mente
e – solo – tra le pieghe della memoria
continuo imperterrito a frugare.
Come un Radiologo, forte io mi aggrappo
al segno rivelatore che mi spieghi l’esistenza.
E quando stanco – pur sembrando strano
per un Medico Radiologo – io prego.
E tra i fulmini che accendono il tramonto,
attendo quell’Arcangelo che m’indichi la via.
E poco importa se la gente – spesso ignara –
mi deride e vede in me un automa.
Una sorta di congegno senza l’anima
che vive al buio per paura dell’amore.
Tanto io , come un Radiologo e senza sosta,
continuo ad esplorare nell’intimo del mondo
portando spesso addosso, non solo per bontà,
le mie e le altrui miserie, a volte anche serie.
E proprio come un Medico Radiologo,
m’immergo in mille volti e mille vite.
Mi perdo in giovani sorrisi, spesso stanchi, e soffro
quando inerme e interrogato giro i miei tarocchi
– che son pixel iridescenti – e non vi leggo la speranza
che il Prossimo vien da me ad elemosinare.
Ma in fondo – e questo l’avrai capito –
sono proprio come un Medico Radiologo,
Uomo fatto di carne e d’ossa, a volte quasi rotte,
che nel cuore della notte ancor si scioglie quando
– desiderando solo la mattina e pure un letto –
incrocia il sorriso di un Bambino spaventato
che, come vento inviato dalle Stelle sulla terra,
di colpo lo riasciuga da tutta la fatica e dal dolore.
da ITACA, PENELOPE E I MAIALI
Itaca: La Bellezza
Anche adesso – che gli dèi del progresso hanno brindato
con milioni di piccole bolle color di zecca effervescenti e
i nostri cervelli, tutti d’un sorso, si son bevuti –
quando alzo il naso dal mio smartphone vedo ancora
che la luna, sola, resta appesa al filo
– candido –
fatto di pensiero di bambino senza macchia.
E dondola nella via del latte, punzonata da miliardi di libellule
che son stelle quando a sera, l’Architetto, accende le sue luci.
E nonostante questo schermo, ancora vita e morte si rincorrono
in quel gioco vecchio quanto il tempo, fatto d’anni e di stagioni
e primavere che inarrestabili si susseguono e nuovamente
– continuano a sbocciare –
con prati che profumano di fresca malachite appena colta.
E volteggiano, nella cornice d’una finestra, grandi farfalle
e puntiformi uccelli a dipingere improbabili geometrie.
E passa l’estate e tornano a far rumore anche le foglie
che cadendo ci vengono a donare
il fragore rosso calcedonio
d’un silenzio ormai spesso inascoltato.
E di nuovo perfino anche la pioggia, rigida di freddo, ancora indossa
il maglione suo più bello, bianco color dell’innocenza e si dimena
imperterrita nel vento, tutto a ricoprire, il brutto e il bello e
i semafori e le canne, il tratto e pur la linea, il vero e l’apparente ombra.
E mentre il Mondo ancora insegue il Sole,
che zitto e quatto corre e
si smarrisce in quell’anfratto
d’Universo che prende il nome di Galassia,
io, che piccolo pur respiro, nient’altro posso fare
se non pigiare forte quel bottone
e riprendermi la Bellezza.
– Itaca –
unico traguardo materiale a cui approdare
spegnendo, come Ulisse, le sirene
leucotomizzanti e impure menzognere,
in quest’odissea ad arte costruita e poi…
spacciata, in pasticche narco-selfie, come vita.
Penelope: La Promessa
Distanze incolmabili s’aprono
su sterminati e feroci silenzi,
come acqua salata divide
coste, calette e spicchi di terra.
Nell’ora più buia dell’uomo
dove parola non viene né detta,
né scritta; la gioia è cliccata.
Un “like”, l’apoteosi del cuore,
espressione perfetta del tempo spietato
che ingurgita i minuti e perfino le ore.
E barbari, dai colletti stirati e
fasulle promesse di gloria e successo,
svendono la vita nel vuoto della rete.
Ma tu, dolce Amore, non perire.
Aspettami nell’antro di quel sogno.
Cercami nella luce dei tuoi occhi.
Penelope tesseva la sua tela e
con speranza di notte la sfilava,
nel ricordo dell’unica promessa:
Saremo sempre Noi e sempre veri,
a costruire su macerie,
portandoci per mano.
Argo: Il Ricongiungimento
A Serraino Fioravante
Ancora mi domando come?
E piego parole in questo lembo
bianco lenzuolo di carta e di stracci.
Accartoccio le idee, ruvide, a tratti
sbiadite, pendenti e scoscese.
Ripide scale che portano in alto
al ricordo di sere di maggio
e sullo sfondo quell’Itaca nostra.
Perplessa ascoltava sussurri e progetti,
giammai un rimpianto o inutili chissà.
E ciliege profumate inebriavano l’aria e
ubriacavano la mente di quei Mariani tramonti.
E forse mai niente ci siamo promessi
ma un Cane sempre ricorda il non detto.
Aspettami sul ciglio di questa nuova casa
nel cielo di maggio torneremo a cantare
come rondini nere a parti invertite
tu Argo io Ulisse, nel certo ritorno.
da COME POLVERE DI CASSETTI
Oggi ho visto Dio
Oggi ho visto Dio
dentro l’ingranaggio
della ruota della vita
poco oleata a denti
stretti e ben serrati.
Dio rideva nel sorriso
fermo, rosso e vero
al semaforo dell’incrocio
tra via morte e malattia.
Eppur oggi ho visto Dio,
quando ho appreso ch’Egli
non diverso era da me.
Quel me ch’ogni mattina,
di sottecchi, guardo in faccia
nello specchio, colle mani
appoggiate al lavandino.
E quando oggi ho visto Dio
mi sono accorto che mai
l’avevo fissato dritto
e scrutato negli occhi.
E così l’avevo rinnegato
per tutto il tempo e
nel tanto, infinito, tempo
in cui dall’uomo mi ero
allontanato, come mosca
con la carta appiccicosa.
Ma oggi, finalmente,
l’ho trovato questo Dio
che dell’uomo s’è vestito.
Con cravatte di pietà
e calzini d’umiltà…
Lui, proprio Dio, Uno,
Trino e Infinito che,
imperterrito, séguita
a radersi la faccia
ogni singola mattina
in infiniti specchi che,
sparsi per il mondo,
volti umani, per magia,
continuano a riflettere.
E davvero… oggi,
te lo dico, ho visto Dio.
Ecocolordoppler
Se potesse, la mia mente,
fare “un’ecocolordoppler” e
consciamente scandagliare
il flusso rimbalzante di
pensieri accartocciati.
Quanto potrei godere
nel vederli glauchi quelli
– già pensati – che leggeri
si allontanano come un filo,
un rigagnolo di fonte chiara
depurata dall’immortale
setaccio del ragionamento.
E fantastico potrebbe essere
riconoscerli perché scarlatti
quelli ch’ancor non ho pensato
e predirli, pensarli, aprirli e…
mangiarli, l’uno chiama l’altro,
come chicchi di melagrana,
senza la vorace e deformante
ansia, angoscia d’improvviso.
Ma io vivo e non esisto!!!
E così, come sublime
e innata dote umana,
vivendo e non sapendo,
mi godo questo scherzo
della mente che s’affaccenda,
a volte aperta e a volte casta,
ad inzeppare vuoti e ingorghi
nei crepacci di memoria.
Senza ch’io possa sapere
come e quando cesserà;
ché sì facendo, a sua insaputa,
certamente ancor disseta
la mia fame di speranza.
da I BISBIGLI DI UN’ANIMA MUTA
Il lampione
Come segno di gratitudine a Fioravante Serraino
per avermi invogliato a cercare i miei miti
Piazza: irta foresta di gente sgomenta.
Che incredula osserva
danzar dolce musica
dai tondi e vuoti
neri buchi d’ottone
e dai legni a fatica
dall’uomo soffiati.
Piovono applausi! Mentre
una grigia voce annuncia
una calda dolce nanna…
… e di nuovo la gente,
muta e sgomenta,
col pensiero si finge
nel lento sbuffare
dei freschi orchestrali…
… e Lui lì, in disparte,
che fissa la folla
mentre illumina l’orchestra.
Solo,
si chiede se qualch’occhio
per errore l’ha veduto.
Sospettoso
si domanda
sulle bocche bisbiglianti.
E quasi infastidito
dalla voce del soprano
resta lì,
fermo e vecchio a lavorare
in rima attesa col mattino
nel suo buio da sopportare.
TRADUZIONI
A trilogy of love, dreams and new-found folly
I
Love, a word sprouted by chance,
growing in the garden of the passions,
sprung up by itself, even if it cost an effort.
In the only uncertain ruby-colored program,
a fantastic painting painted by three hands
and the fourth, left alone, to give
caresses, certainties, words and love.
Alleviating with unexpected and surprising rhymes
the slight as well as heavy sadness.
Of love.
Today I do not speak it but still live IT.
II
Dreams, stolen, torn, sliced to pieces.
Some even sown and flown away
like dangling ribbons, painted
on a sky changed by the perennial
solemn procession of weather that slithers
and runs like a flock
of butterflies, some white, others black,
some full and some empty.
Like ribbons, as I was saying, some
of the rapid dreams have disappeared
by themselves and gathered to make a nest together.
And today I will still scatter my dreams
all over the world, over the earth, the streets and the seas
of my life that sometimes is agitated and
at times stops and withdraws, returns and takes refuge
into the only game that is still permitted.
A foam of salt and sweetness that caresses the beaches
of this world and this universe,
leaving seashells
that are also still my dreams, fortunately
they are open and have been gathered by the hands of God.
III
And I still smile about other kinds of folly,
those that I have partly lost,
but perhaps if I look thoroughly in some
of my gestures, thoughts or words…
… Oh well! I swear to you now I can still find them.
They suddenly appear to scare me,
like a drop that falls in a silent hour
when my heart wants to lighten up and relax.
And I am are awakened by a simple drop, small and single,
to which the clap of a thunder is attached.
It is pure folly and will certainly return.
When it is alone, the saddest thought surrounds you
and punches you in the face and the chest,
and then you get up, you walk around and curse,
in order to return to your place, sometimes defeated and
sometimes victorious, in silence.
You gave in one more time, by chance and by force,
to those kinds of folly the world calls dumb and crazy,
but for you–that we are sure of–they are the things of the flesh
that when they start pushing can move mountains.
For me who is dif-ferent
For me who is dif-ferent
I pour me some verses,
I make grimaces
and sing-out-of normal tune.
For me who is gay
when, alone, I seek and find
the caress of a friend.
For me who is blind
when, boldly, I close my eyes
in the love of a Lady,
savoring this kiss of hers.
For me who is down
when, lost, in my mother’s embrace
I gently squeeze my eyes closed,
getting lost in a smile.
For me who has a beard
when, in the cold, on a bench
I eat bread and drink beer.
And I pour some poetry
for Whovever sows words
all over a world of Equals.
For Whoever in silence,
out of love for the dif-ferent,
is ashamed of the normal.
(English translation by Ute Margaret Saine)
Le Temps
Le temps s’écoule
entre les coudes anguleux
inutilement arrondis
par des souvenirs soustraits.
Presque il rebondit
des tapis de la mémoire
comme une histoire immortalisée
sur la page inutile
d’un essai de vie.
Et pourtant il se meut.
-Le temps-
Comme un chien matraqué
qui glapit au milieu des épines.
Uniques roses d’un jardin
abandonné.
Et il demande la note.
-Le temps-
Lorsque, au comptoir,
tu consommes et tu perds
la face
en voulant masquer ton passé.
Et en prenant ta dernière
monnaie, le barman
-en effronté-
te rappelle celui que tu étais.
Et il sourit lorsque
tu l’attends dans ton restoroute.
Dernier arrêt boiteux
comme une oasis qui t’éloigne
de la mort.
-C’est une illusion stupide-
De toute façon c’est le temps : qui te sert,
vole et te dépasse.
Sur cette autoroute
que freine ton chemin
et qui est la vie.
Voyage dans le silence
Uniquement poussé par le vent
j’entends son chant
et par enchantement je me perds dans le soleil.
C’est le matin!
(Traduction française par Laura Mucelli)
Zairo Ferrante
Breve biografia di Zairo Ferrante è nato nel 1983 ad Aquara (Salerno) e vive a Ferrara dove lavora come Medico Radiologo. Ha pubblicato le raccolte di prosa e poesia: D’amore, di sogni e di altre follie (Este Edition, 2009), I bisbigli di un’anima muta (CSA Editrice, 2011), Come polvere di cassetti (David and Matthaus, 2015), Itaca, Penelope e i maiali (Edizioni Il Foglio Letterario, 2019). Nel 2009 ha fondato il “DinAnimismo”, un movimento poetico/artistico di neoavanguardia. Suoi scritti figurano su diverse riviste e periodici culturali, sia on-line che cartacei. È inserito in numerose antologie collettive ed alcune sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo e francese.
Titos Patrikios-Le parole nude-Antologia con testo greco a fronte-
Editore Interlinea-Novara-Testi di Giovanni Conte-Traduttore Katerina Papatheu-Descrizione del libro di Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti europei attuali, nato ad Atene nel 1928, ha partecipato alla resistenza, durante l’occupazione nazifascista, rischiando l’esecuzione, e alla guerra civile. Mandato al confino durante i regimi di destra che si sono avvicendati fino al 1974, è sopravvissuto alla brutalità delle due guerre e della polizia e alle torture, grazie a una scrittura assidua, febbrile, incessante. È un poeta che s’interroga, e il suo verso è un sentiero ritmico che protrae quasi all’infinito il suo sentire, è un percorso della memoria che può riempire i vuoti della vita. “Nessun verso oggi può rovesciare i regimi /[…]/ se non per sollevare un angolo di verità”. A questo servono appunto i poeti, perché “a un certo momento scelgono, denunciano, sperano, / chiedono /[…]/ passando in rassegna le cose già accadute / la poesia cerca risposte / a domande non ancora fatte”. Edizione, con inediti, a cura di Katerina Papatheu, con una nota di Giuseppe Conte.
Titos Patrikios
Biografia di Titos Patrikios
Titos Patrikios, figlio di due noti attori del teatro greco, è nato ad Atene nel 1928. Durante l’occupazione nazifascista ha partecipato alla Resistenza e nel 1944 ha rischiato l’esecuzione. Dal 1951 al 1954 è stato confinato nelle isole di Makrònissos e di àghiostratis, e dal 1954 al 1959 ha vissuto ad Atene come «confinato in congedo». Laureato in Giurisprudenza all’Università di Atene, è diventato avvocato, lavorando anche come giornalista. Molto attivo nel campo culturale, è stato, nel 1954, fra i fondatori dell’importante rivista letteraria “Epitheòrisi Technis”. Dal 1959 al 1964 è stato a Parigi dove ha studiato Sociologia e Filosofia a l’école des Hautes études e ha lavorato come ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique. Nel 1967, all’avvento della dittatura dei colonnelli, sfuggendo all’arresto, lascia la Grecia e vive a Parigi, dove lavora come consulente all’Unesco, e a Roma, dove lavora alla FAO. Dal 1976 vive ad Atene.
Dopo l’esordio come poeta nel 1943 sulla rivista studentesca “Xekìnima tis Niòtis”, la sua prima raccolta di versi, Strada sterrata, risale al 1954. Seguirono le raccolte Apprendistato (1963), Fermata a richiesta (1975), Poesie, I (1976), Mare promesso (1977), Controversie (1981), Specchi a fronte (1988), Deformazioni (1989), Apprendistato, ancora (1991), Il piacere delle dilazioni (1992), Poesie I, II, III (1988), La resistenza dei fatti (2000), La Porta dei Leoni (2002), Il nuovo tracciato (2007), Poesie, IV (2007), Brama d’amore che scioglie le membra (2008), La casa (2009), Convivenza col presente (2011), La poesia ti trova (2012). Ha pubblicato anche quattro volumi di racconti e numerosi saggi letterari, sociologici e giuridici. Due suoi libri di sociologia, scritti in francese e tradotti in inglese, spagnolo e russo, sono pubblicati dall’Unesco (1972, 1976) e due altri scritti in inglese e francese sono pubblicati dalla FAO (1970, 1974). Ha tradotto in greco, tra gli altri, testi di Spinoza, Lukàcs, Hannah Arendt, Walt Whitman, Majakowskij, Neruda, Saint-John Perse, éluard, Aragon, Brecht, Balzac, Stendhal, Valéry. Sue poesie sono state pubblicate in tutti i paesi europei e in Messico, Cile, Brasile, Egitto, Marocco, Cina. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia (Altérations, Parigi 1991; Apprentissage, Parigi 1996); due in Germania (Spiegelbilder, Colonia 1993; Das Hans, Berlino 2010). Un’antologia di suoi versi è pubblicata negli Stati Uniti (The Lions’ Gate, 2006). Un’ampia antologia delle sue poesie tradotte in italiano da Nicola Crocetti, La resistenza dei fatti, è uscita nel 2007 in Italia da Crocetti Editore. Interlinea ha pubblicato le due antologie con testo greco a fronte La casa e altre poesie (tradotto dallo stesso Crocetti, nel 2009) e Le parole nude nel 2013.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios in Italia si ricorda il Premio Brancati, Zafferana Etnea 2007, Premio Letterario Internazionale l’Aquila-Carispac 2009, Premio internazionale di Poesia Civile di Vercelli 2009, Premio Feronia Città di Fiano 2011. Nel 2004 il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
Titos Patrikios
Interlinea Edizioni ha sede a Novara
via Mattei 21 28100 Novara, NO, Italia
L’interlinea lo spazio bianco tra due righe scritte o stampate, apparentemente inutile ma in verità necessario alla lettura. Infatti le parole si confonderebbero sulla pagina senza questa distanza, il cui bianco fa risaltare il nero del testo illuminando così il significato di un romanzo, di uno studio, di una poesia.
All’inizio degli anni Novanta due giovani novaresi hanno creduto giusto cercare un senso e uno spazio nell’interlinea lasciata bianca dai titoli di tanti e grandi cataloghi librari, riscoprendo autori italiani dell’800 e ‘900, anche con inediti (da Rebora a Montale, fino a Soldati e Vassalli), aprendo la prima collana letteraria italiana legata al Natale “Nativitas“ (nonsolo con Dickens ritradotto ma con Soldati, Consolo, Rigoni Stern, Testori, Wojtyla… e un premio letterario), offrendo uno spazio diverso alla critica letteraria (partendo però dai maestri: Dionisotti, Maria Corti, Mengaldo),e pubblicando la rivista “Autografo” del Fondo Manoscritti di Pavia, credendo nella poesia, con la collana “Lyra” e la serie “Lyra giovani” diretta da Franco Buffoni, e facendo dialogare letteratura e spiritualità con autori da Hesse a Turoldo, da Anna Maria Cànopi a Testori, senza facili buonismi ma scegliendo la crisi dell’uomo come tema della collana “Passio“, offrendo anche servizi editoriali di qualità (dagli atti di convegni ai repertori bibliografici fino ai cataloghi d’arte). Negli ultimi anni si sono avviate le edizioni nazionali delle opere di due classici come Matteo Maria Boiardo e Giovanni Verga.
Se la letteratura è una riscoperta di parole vecchie e nuove nel 1992 da Novara è salpato il piccolo vascello di carta che non chiede altro se non di avere lettori che sappiano leggere la verità di quelle parole vecchie e nuove nell’interlinea dell’editoria e della cultura italiana.
Beppe Fenoglio- I ventitré giorni della città di Alba-Einaudi editore Torino
Centro Studi Beppe Fenoglio-DESCRIZIONE“Difesero Cascina Miroglio e, dietro di essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia. Ogni quarto d’ora l’aiutante si staccava dal telefono e si sporgeva a gridare: – Tenete duro che vi arrivano i rinforzi! – Ma fino alla fine arrivarono solo per telefono. […] Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.”
In foto il Capitano Fede, Comandante della difesa di Alba nei 23 giorni, insieme a Pinot Gallizio, Teodoro Bubbio, membri del CLN delle Langhe, e i comandanti dei partigiani il primo anniversario della battaglia per Alba libera.«”I ventitre giorni della città di Alba”- sono il primo capitolo di un unico grande libro fenogliano». (Davide Longo). Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e di speranze impossibili: con quel suo linguaggio crudo, privo di ostentazione, con quel suo stile asciutto ed esatto, Fenoglio restituisce le prime cronache veramente sincere delle contraddizioni vitali della Resistenza e penetra il «mistero» della spietatezza dei rapporti umani. Con una ‘Presentazione’ di Dante Isella e la cronologia della vita e delle opere.Beppe Fenoglio nacque ad Alba il 1° marzo 1922 e vi trascorse quasi tutta la vita, esclusi i mesi del servizio militare a Roma. L’8 settembre ritorna sulle Langhe, dove combatterà tutta la guerra partigiana, sino alla Liberazione. Si era fatto una profonda cultura letteraria sui poeti e sugli scrittori inglesi, e sulla civiltà anglosassone nel suo complesso, che ammirava come antidoto e rivalsa sulla meschina realtà provinciale del fascismo. Dopo la guerra si impiegò in una ditta vinicola di Alba, per cui tenne la corrispondenza estera. Nell’estate 1962 fu colto dal male inguaribile che lo spense a Torino il 18 febbraio 1963, e che sopportò con stoica fermezza.
Esordí nel 1952 con I ventitre giorni della città di Alba (Einaudi) cui seguí nel 1954 La malora (Einaudi). Nel 1959 apparve il romanzo Primavera di bellezza, diretto riflesso della sua esperienza nell’esercito italiano. Il partigiano Johnny, la grande «cronaca» della guerriglia apparsa postuma da Einaudi nel 1968 ne costituisce il seguito cronologico. Postumi sono apparsi anche il volume di racconti Un giorno di fuoco (che comprende anche il romanzo Una questione privata, Garzanti, 1963) e il romanzo giovanile La paga del sabato (Einaudi, 1969).
Di Beppe Fenoglio Einaudi ha pubblicato: I ventitre giorni della città di Alba, La malora, Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, L’affare dell’anima e altri racconti, Primavera di bellezza, Una questione privata, Un giorno di fuoco, L’imboscata, Appunti partigiani ’44-’45, Diciotto racconti, Quaderno di traduzioni, Lettere 1940-1962, Una crociera agli antipodi, Epigrammi, Tutti i racconti, Teatro, La favola delle due galline e Il libro di Johnny. Nel 2012, negli ET Biblioteca, è uscita la raccolta Tutti i romanzi.
Beppe Fenoglio-
Nota di Noemi Cuffia-Beppe Fenoglio è uno degli scrittori italiani più grandi, liberi, monumentali e innovatori del Novecento. Uno degli autori di più ampio e solido respiro di tutta la nostra letteratura. Fenoglio è lo scrittore schivo, appartato, stroncato in giovane età, a soli quarant’anni, che però ha rivoluzionato il linguaggio, lo spirito, l’epica e il sentire di più generazioni di lettori. Scriveva e pensava in inglese e poi traduceva. Aveva imparato l’italiano sui libri, perché la lingua madre era il piemontese di Alba, dialetto capace di raccontare la guerra, la Resistenza, la giovinezza, il territorio, l’amicizia e l’amore come nessuno. Con dignità, poesia, genio, smarrimento e civiltà.
Fenoglio Nasce ad Alba, in provincia di Cuneo, il 1° marzo 1922. Cresce in una famiglia di lavoratori (il padre è macellaio) e frequenta le scuole. Si iscrive poi alla Facoltà di Lettere di Torino ma nel gennaio 1943 è chiamato alle armi. Nel 1944 si unisce alle prime formazioni partigiane. Pubblicherà solo alcuni suoi lavori di scrittore, poi soccombe alla malattia. Muore il 18 febbraio 1963.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
9) Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale –
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 9) Carlo Forlanini- Medico ha inventato lo pneumotorace artificiale che ha guarito tanti tubercolotici–Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; oppure vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da
Carlo Forlanini, l’uomo che curò la tubercolosi
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
A Roma il Forlanini è un grande complesso ospedaliero che tutti conoscono ed usano come punto di riferimento, come il Colosseo, o il McDonald’s di Piazza di Spagna: se cerchi una via tra Piazzale della Radio e la Portuense, ti diranno di costeggiare il Forlanini tre romani su tre. Ma chi era Forlanini, Carlo Forlanini? La cosa è meno nota. Carlo Forlanini, medico milanese vissuto a cavallo tra otto e novecento, è colui che grazie ad una invenzione, lo pneumotorace artificiale, ha contribuito alla cura della tubercolosi. Una invenzione. Si immagina che gli inventori siano gente stravagante, chiusa in laboratori improvvisati, almeno così l’iconografia del fumetto e del cinema ci ha abituato a ritrarli, ma è una immagine che va rivista, almeno in questo caso. Tutta la famiglia Forlanini era dotata di talento inventivo, non solo Carlo. Il fratello Enrico, che fu pioniere dell’aviazione, per esempio fu anche il primo a concepire l’aliscafo. E non solo, ebbe idee necessarie per l’ideazione dell’elicottero, dotando un velivolo con elica sul tetto di un motore a vapore, e poi sperimentò i primi dirigibili. Carlo non era da meno. Da ragazzo, al liceo, si guadagnò un premio per uno studio sui palloni aerostatici. Poi si iscrisse alla facoltà di medicina di Pavia e trovò in seguito impiego all’ospedale Maggiore di Milano. I talenti inventivi, almeno nel 1876, facevano agilmente carriera e Carlo Forlanini divenne primario del Comparto delle malattie cutanee. Ebbe così l’occasione di concentrarsi sull’ambito che più lo attraeva: lo studio della tubercolosi polmonare. Ma bisogna aspettare la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica all’università di Torino nel 1884 per vedere i primi risultati della sua ricerca. La pneumoterapia (una pratica terapica fatta con apparecchi pneumatici per il bagno d’aria compressa) era usata già con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Forlanini fece di più: inventò nuovi apparecchi pneumatici che potevano essere trasportati e dunque anche meglio applicati. A fine ottocento tornò a Pavia. E’ stato un grande insegnante, prova ne fu la passione con la quale i suoi studenti seguivano le lezioni, e prova ne fu anche l’ostinazione che ebbe nel continuare ad insegnare anche in precarie condizioni di salute. Il suo nome rimarrà sempre legato allo pneumotorace artificiale, la cui applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace (Londra,1913). Tuttavia la scienza va avanti, e sia la sicurezza che l’efficacia della terapia sono state fortemente discusse e poi superate. Ma per sempre, se passate in zona portuense a Roma, la pietra miliare da seguire sarà Carlo Forlanini: costeggiatelo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Biografia di Carlo Forlanini a cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini nacque a Milano nel 1847 da famiglia agiata, imparentata con Paolo Mantegazza. La madre di questi, patriota e organizzatrice nel settore della beneficenza, era infatti nonna di Carlo Forlanini. Il suo nome (Laura Solera) è rimasto nella storia milanese. Fratello di Forlanini fu il famoso Enrico, ingegnere aeronautico di grandi vedute. Un altro fratello, Luigi, fu medico, Presidente, a Milano, della Croce Rossa. Il giovane Carlo studiò a Pavia, ove frequentò il Laboratorio di Patologia Sperimentale, diretto prima da Bizzozero, e poi, dopo la chiamata di questi a Torino, da Camillo Golgi. Si formò scientificamente in questo ambiente, ma preferì poi passare alla Clinica. Interessato soprattutto alle malattie polmonari, fu il primo a intuire che l’unico modo per chiudere le caverne tubercolari del polmone era quello di farne collabire le pareti. Ci riuscì costruendo un apparecchio che serviva a introdurre aria nel cavo pleurico, in modo da creare uno pneumotorace. Il parenchima polmonare si ritraeva all’ilo, e le pareti delle caverne collabivano e potevano chiudersi. La scoperta del pneumotorace come mezzo di cura (1882) gli attirò grande rinomanza.
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Si presentò nel 1883 al concorso per un posto di professore straordinario di Clinica Medica Propedeutica, posto vacante per il passaggio di Camillo Bozzolo alla Clinica Medica. Fecero parte della Commissione Domenico Tibone, Giulio Bizzozero, Camillo Bozzolo, Lorenzo Bruno e Angelo Mosso, e Carlo Forlanini fu vincitore. La sua grande passione per le tecnologie nuove distinse la sua attività torinese. Fu sotto la sua direzione che il suo Aiuto, Scipione Riva Rocci, costruì lo sfigmomanometro per la misurazione della pressione arteriosa, usato ancora oggi. La presenza a Torino di Forlanini accrebbe certamente la rinomanza della Facoltà Medica torinese, che diveniva antesignana anche nella terapia della tubercolosi. Disgraziatamente, dopo un primo periodo di collaborazione, si creò un forte contrasto in Facoltà fra lui e Bozzolo. Forlanini, infatti, aveva chiesto di diventare titolare di una seconda Clinica Medica, ma Bozzolo non aveva gradito. Il problema era acuito dal fatto che il Ministro aveva abolito la cattedra di Clinica Medica Propedeutica.
Difeso dalla Facoltà, Forlanini rimase peraltro al suo posto per vari anni. Il problema fu risolto con l’apertura di un concorso per professore ordinario di Patologia Speciale Medica a Torino, contestualmente all’apertura di un altro concorso, identico, a Pavia. Il vincitore di Torino fu Forlanini, quello di Pavia fu Bernardino Silva, un allievo di Bozzolo.
Il Ministero accettò che Silva fosse comandato a Torino, e Forlanini a Pavia. Col 1899, si ebbero infine i decreti di trasferimento. Silva restò a Torino, praticamente subalterno a Bozzolo, fino al 1905, quando morì in un incidente di montagna. Forlanini ebbe via libera a Pavia, dove insegnò e operò scientificamente sino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1918.
A cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini, apparatus Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org Forlanini’s apparatus for artificial pneumothorax. ‘Die Indikationem und die Technik des kunstlichen Pneumothorax bei der Behandlung der Lungenschwindsucht’ Die Therapie der Gegenwart Carlo Forlanini Published: 1908 Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Biografia di Carlo Forlanini
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ultimato il liceo, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pavia (nell’Almo Collegio Borromeo è presente una lapide commemorativa in suo onore) e, dopo la campagna garibaldina, si laureò nel 1870 con la tesi “Teoria della piogenesi-fachite”. La Ca’ Granda lo attirava e il 23 agosto 1870 presentò domanda all’Ospedale Maggiore di Milano che fu accolta e lì iniziò la sua pratica ospedaliera occupandosi di chirurgia nella sala di San Paolo sotto la guida del Dott. Monti, continuando le ricerche nel campo dell’oculistica. Rimase per due anni all’ambulanza oculistica di Santa Corona. Nel gennaio 1876 fu nominato primario del Comparto delle malattie cutanee dove rimase sei anni, continuando gli studi che più lo attiravano: quelli sulla tubercolosi polmonare, malattia che nell’infanzia gli aveva portato via la madre.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Nel 1884 la Facoltà Medica dell’Università di Torino lo propose per la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica che Forlanini accettò con entusiasmo. A Torino numerosi erano gli studenti che frequentavano le sue lezioni di semeiotica e di clinica: le più ascoltate furono quelle che riguardavano i metodi clinici per la diagnosi delle pleuriti e della tisi polmonare. La pneumoterapia (terapia con apparecchi pneumatici per praticare il bagno d’aria compressa) era usata con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Inventò nuovi apparecchi pneumatici trasportabili per renderli più facilmente applicabili e, per rendere più precisa la semeiotica della patologia polmonare, modificò il plessimetro di Seitz: il miglior plessimetro era in avorio, di cinque centimetri di diametro e due millimetri di spessore, da percuotere con le dita per ottenere un suono che rifletteva la natura della zona sottostante.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ritornò nel 1899 all’Università di Pavia, titolare della cattedra di Patologia Speciale Medica e dal 3 febbraio 1900 di quella di Clinica Medica Generale, al posto del Prof. Orsi, in un Ateneo che vantava una tradizione gloriosa, dove Bizzozero aveva compiuto geniali scoperte sulla fisiologia del sangue, dove Golgi aveva svelato il segreto della fine struttura del sistema nervoso, dove Mantegazza aveva segnalato l’importanza delle ghiandole a secrezione interna, dove Bassini aveva creato il metodo di cura dell’ernia inguinale.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
La sua opera di insegnante, che era tanto ammirata, fu negli ultimi anni limitata dalle condizioni di salute. Per l’incrollabile fede nell’efficacia di una cura che, esclusivamente per merito del suo studio, entrò nella pratica quotidiana, gli è dovuto l’appellativo di “inventore dello pneumotorace”, che gli è riconosciuto dagli studiosi di tutto il mondo[senza fonte].
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Senatore dal 1913, fu anche membro del consiglio superiore dell’istruzione, dedicandosi anche a ricerche sull’uremia, sull’ipertensione arteriosa essenziale e su diverse patologie polmonari. Al suo nome è intitolato l’Ospedale Carlo Forlanini, sanatorio di Roma, sede della Clinica universitaria della tubercolosi e delle affezioni respiratorie.
I risultati di questi lavori portarono Forlanini a ricevere più volte la candidatura al Premio Nobel per la Medicina, almeno una ventina, tra il 1912 e il 1919[4].
Nel 1877 fondò l’Istituto medico pneumatico, dove iniziò gli studi sulla cura della TBC polmonare, arrivando nel 1882 ad ideare lo pneumotorace artificiale.[6][7][8] Applicò la tecnica con pieno successo nel 1888, ma essa solo nel 1912 ebbe piena accettazione dalla comunità medica.[9]
Appassionato di apparecchi pneumatici e stimolato dal fratello Enrico, collaborò con lui discutendo su problemi di idraulica, aerodinamica e fisica, cercando di trarre il massimo beneficio dall’associazione tra scienza medica e meccanica. Il problema di poter applicare l’aria compressa nella cura della tisi lo entusiasmava e i disegni degli apparecchi di aeroterapia, di spirometria e per la cura della tisi erano tutti di mano sua e fatti con tale cura da poter servire al costruttore. Fa brevettare due modelli di aeroterapia per la cura della pleurite con inspirazioni di aria compressa per far dilatare il polmone e per la cura dell’enfisema con espirazioni in aria rarefatta. Disegna apparecchi per le inalazioni medicamentose di cui intuisce l’avvenire. I suoi lavori sull’enfisema polmonare e quelli sulla cura dei versamenti pleurici sono pietre miliari nella storia della medicina. La toracentesi con introduzione di aria filtrata (estrazione di quanto più liquido è possibile e introduzione di aria al posto del liquido estratto) è uno dei lavori fondamentali della medicina pratica. Si deve alla sua scuola l’invenzione dello sfigmomanometro di Scipione Riva Rocci, ancora oggi usato in tutto il mondo, che permise la misurazione della pressione arteriosa con un metodo incruento.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma-Muro di cinta
Forlanini ebbe il merito di accorgersi che lo pneumotorace spontaneo che fortuitamente si aveva in ammalati di tubercolosi cavitaria (la tisi polmonare), imprimeva alla malattia un andamento più favorevole. Secondo le sue idee la malattia era dovuta alla particolare funzione del polmone, cioè al respiro che in ogni istante fa variare la tensione del parenchima polmonare attraverso la variazione della quantità e pressione del suo contenuto (aria polmonare). Il polmone diventa tisico perché si muove e la tensione statica e dinamica impedisce la riparazione delle lesioni polmonari: l’immobilizzazione assoluta arresta il processo distruttivo favorendo la cicatrizzazione delle lesioni cavitarie.
Per guarire un polmone dalla tisi è necessario pertanto sopprimere la sua funzione, cioè collassarlo per eliminare il costante trauma respiratorio. Il metodo si basa sulla tecnica della collassoterapia, elaborata dallo stesso Forlanini, e consiste nell’introdurre gas inerte nella cavità pleurica corrispondente al polmone leso, in modo che esso venga posto in stato di riposo funzionale, così da favorirne la cicatrizzazione.
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Tecnica del pneumotorace artificiale
Il metodo di cura del Forlanini è detto pneumotorace artificiale che in medicina significa presenza d’aria nel sacco pleurico. L’apparecchio di Forlanini era costituito da un manometro ad acqua in comunicazione con un rubinetto a tre vie: da una parte c’è un tubo di gomma portante l’ago d’introduzione, dall’altra un cilindro graduato di vetro contenente il gas sotto pressione in comunicazione con un altro contenitore di vetro. Il gas usato era l’aria atmosferica filtrata dal pulviscolo. L’ossigeno si evitava perché veniva assorbito troppo velocemente e l’azoto perché poteva provocare embolie.
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L’immobilizzazione del polmone veniva ottenuta introducendo nelle pareti toraciche a ridosso del polmone stesso, e cioè nel sacco pleurico una tal quantità d’aria la cui pressione doveva vincere quella espansiva dell’aria inspirata dal polmone: questo verrà in tal modo a trovarsi come sotto una campana d’aria in pressione, che gli impedirà di espandersi durante l’inspirazione e quindi di muoversi. L’introduzione dell’aria era effettuata con un ago che veniva inserito sulla linea ascellare media del torace, all’altezza del IV-VII spazio intercostale, fino a raggiungere la cavità pleurica, dove si registrava una pressione negativa. A quel punto si iniettava il gas fino a raggiungere una pressione intorno allo zero: il polmone collabiva e rimaneva così, con successivi rifornimenti di gas, per un periodo prolungato di almeno due, tre anni. Si procedeva quindi alla sua riespansione quando si era completamente cicatrizzato.
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Al Congresso Internazionale di Roma del 1894 venne data dimostrazione pratica dell’utilità dello pneumotorace e al VI Congresso Nazionale della Medicina a Roma nel 1895 Forlanini espose i primi risultati ottenuti con il nuovo metodo di cura che fu accolto però con incomprensione dai contemporanei che consideravano probabilmente un’eresia l’aver studiato il problema della cura della tisi senza tentare qualcosa contro l’agente eziologico della malattia: il bacillo di Koch.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di RomaFranco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Nonostante lo scetticismo sul suo metodo Forlanini continuò i suoi esperimenti. Se fino al 1894 erano svolti su malati nei quali l’estensione, la gravità e la bilateralità delle lesioni toglievano ogni ragionevole speranza di salvezza, dopo il 1895 la sua attività si rivolse ai malati con monolateralità delle lesioni e buone condizioni generali e così aumentò il numero dei successi. Nel 1907 si decise a rompere il silenzio che durava ormai da 13 anni e nel giugno si svolsero due conferenze all’Associazione Sanitaria Milanese, una teorica e la seconda nella quale furono presentati i casi di guarigione e il numeroso uditorio lo seguì con interesse e i giornali milanesi si fecero portavoce del successo ottenuto. Il pneumotorace artificiale fu riconosciuto ufficialmente dai tisiologi di tutto il mondo al Congresso Internazionale della tubercolosi tenutosi a Roma nel 1912. La applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace, avvenuta a Londra nel 1913.[10][11] Studi più recenti tuttavia hanno sollevato forti dubbi sia sulla sicurezza, sia sulla efficacia della terapia[senza fonte], comunque oggi abbandonata.
Principali lavori pubblicati
1875 Brevissimi cenni di aeroterapia e sullo Stabilimento Medico-pneumatica di Milano. Gazzetta Medica Italiana Lombardia. Serie VII: 6
1882 A contribuzione della terapia chirurgica nella tisi del polmone. Ablazione del polmone? Pneumotorace artificiale? Gazzetta degli Ospedali e delle Cliniche di Milano
1894 Primi tentativi di pneumotorace artificiale della tisi pulmonare. Gazzetta Medica di Torino. 45:381-4, 401-3
1894 Su un caso di stenosi dell’arteria polmonare con persistenza del dotto di Botallo e di tisi polmonare
1895 Primo caso di tisi pulmonare monolaterale avanzata curato felicemente col pneumotorace artificiale. Gazzetta Medica di Torino 46:857
1897 Contributo allo studio del polso venoso presistolico
1897 Contributo alla terapia dell’empiema
1906 Zur Behandlung der Lungenschwindsucht durch künstlich erzeugten Pneumothorax. Deutsche Medizinishe Wochenschrift 32:1401-5
1908 Apparati e tecnica operativa dello pneumotorace artificiale
1909 Cenni storici e critici sul pneumotorace artificiale nella tisi pulmonare. In: Cappelli, ed. Scritti di Forlanini. Bologna, 1928:1013
1912 Il pneumotorace artificiale nella cura della tisi pulmonare. Atti de VII Congresso Internazionale Contra la Tubercolosi. Vol 3 Rome, 182.
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Logo dell’Associazione Graffiti Zero, Associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano-Foto Franco Leggeri
La guerra di Spagna è già stata oggetto di una grande quantità di pubblicazioni, tra studi di storici e la memorialistica di coloro che ne furono protagonisti. Tuttavia, negli ultimi venti anni, la documentazione archivistica a disposizione degli storici è notevolmente aumentata, grazie a nuove fonti resesi disponibili in Spagna, alla digitalizzazione parziale e alla messa in rete degli archivi dell’Internazionale Comunista e del Comintern, quest’ultima realizzata sotto gli auspici del Consiglio Internazionale degli archivi e del Consiglio d’Europa.
Altra documentazione si è resa disponibile grazie al lavoro dell’Istituto Gramsci, mentre varia documentazione, scritta e iconografica è disponibile ma non ancora completamente utilizzata presso l’AIVACS (Associazione Italiana Combattenti Antifascisti in Spagna).
Proprio con il contributo dell’AIVACS e utilizzando, almeno in parte, le nuove fonti citate, lo storico Marco propone un nuovo libro sulla guerra di Spagna, che esce presso le Edizioni Kappa Vu di Udine (Garibaldini in Spagna, Storia della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna, Kappa Vu, pag. 240, €16).
Come si comprende già dal titolo, il lavoro di Puppini si concentra sulla formazione e sugli avvenimenti che videro protagonista la XII Brigata Internazionale, inquadrata nella quarantacinquesima divisione dell’esercito repubblicano. Tale Brigata fu composta e comandata prevalentemente da italiani e prese per questo il nome di Garibaldi, deciso unitariamente dai tre partiti che ne furono promotori (comunista, socialista e repubblicano).
Tra i pregi di questo libro è però il suo punto di vista ampio, che permette di inquadrare la partecipazione italiana alle Brigate Internazionali nel vasto contesto dei fatti politici, militari e umani generali vissuti dal fronte repubblicano in Spagna e anche da quello antifascista italiano. Si può dire che questo libro permette di leggere molti fatti e problemi della guerra di Spagna attraverso la lente della storia della Brigata Garibaldi.
Il libro prende avvio da quella che Puppini definisce “la crisi dell’antifascismo italiano” alla metà degli anni trenta, in anni particolarmente difficili tra persecuzioni, prigioni ed esilio. In questo modo si può capire quale fosse la composizione politica e sociale dei circa 3500 volontari italiani che combatterono in Spagna, alcuni dei quali presenti in altre formazioni (come la Centuria Gastone Sozzi), oltre alla Garibaldi, già prima della costituzione delle Brigate Internazionali. Di questi combattenti, la maggior parte non proveniva direttamente dall’Italia ma da altri paesi europei dove si era dovuta rifugiare per ragioni politiche e di lavoro.
La maggior parte dei volontari proveniva dalla Francia, dove tra il 1920 e il 1940 si trasferì un milione di italiani e una percentuale assai minore invece arrivava dal Belgio, dove era presente una forte comunità italiana, altri dalla Svizzera e dall’Unione Sovietica. Non mancarono però arrivi dagli Stati Uniti e dal Sud America, attraverso difficili viaggi pagati dalle organizzazioni antifasciste. Infine, una parte dei combattenti si trovava già in Spagna, poiché vi aveva cercato riparo dopo la proclamazione della Repubblica spagnola, nel 1931.
Dal punto di vista sociale, essi erano soprattutto lavoratori più o meno qualificati, muratori, minatori, operai di fabbrica, contadini. Gli intellettuali erano pochi, la maggior parte dei quali costituita in realtà da “rivoluzionari di professione” come Togliatti, Longo e Vidali. Erano presenti anche una sessantina di donne italiane, impegnate soprattutto come infermiere, la più nota delle quali era la fotografa Tina Modotti. Il viaggio verso la Spagna era in ogni caso difficile e faticoso per tutti, poiché si dovevano costruire corridoi e passaggi clandestini per arrivarci, soprattutto dai paesi caduti sotto la dominazione nazifascista.
La decisione di costituire le Brigate Internazionali fu parte della risoluzione del Presidio dell’Internazionale, presa il 18 settembre 1936, che avviò una complessa e imponente operazione di invio in Spagna, dai porti dell’URSS o di altri paesi, ma a carico dell’URSS, del materiale bellico e logistico necessario alla difesa della repubblica spagnola.
La Brigata Garibaldi, a composizione italo-spagnola, fu costituita a partire dagli organici del precedente Battaglione Garibaldi, già operativo in Spagna, integrato da italiani presenti in altri reparti e da nuove reclute. A comandarla fu designato il repubblicano ed ex ufficiale dell’esercito Randolfo Pacciardi, mentre Ilio Barontini, comunista, ne fu nominato commissario politico.
Quello del “commissario politico” era un ruolo delicato, già esistente nelle brigate bolsceviche e nell’Armata Rossa. La sua presenza voleva dare corpo all’idea di un esercito nuovo, popolare e, nel caso della Spagna, internazionalista, e a un concetto di disciplina diverso da quello delle forze armate degli stati capitalisti. Infatti, il combattente doveva essere considerato nel suo aspetto interamente umano; gli era ovviamente richiesta disciplina, ma aveva anche diritto di udienza per i suoi problemi, a condizioni di vita le migliori possibili nella situazione bellica e alle cure necessarie.
Il commissario politico doveva quindi occuparsi dell’alloggio, dell’alimentazione e del benessere dei combattenti e costruire una disciplina basata sulla consapevolezza e lo spirito di sacrificio e non sull’autoritarismo, facendosi anche carico dei diversi problemi umani dei militari.
Quella del commissario politico fu una figura istituita in seguito anche nelle brigate partigiane, molti combattenti e comandanti delle quali si forgiarono nella guerra di Spagna. Purtroppo, le buone intenzioni di costituire un esercito popolare e umano si scontrarono non solo con una realtà di guerra molto difficile, ma soprattutto con le concezioni autoritarie e militaresche di molti comandanti e del comando generale, composto in gran parte da ufficiali formatisi negli eserciti tradizionali.
Infatti, non era facile conciliare, nella situazione di guerra, gli atteggiamenti di alcuni comandanti con un esercito di volontari che erano anche militanti politici e che quindi erano disposti al sacrificio ma pretendevano chiarezza nelle relazioni e nelle decisioni. Lo stesso comandante della Garibaldi, Randolfo Pacciardi, fu criticato per i suoi atteggiamenti da militare di vecchio stampo, per avere istituito alloggi e mense distinte per ufficiali e soldati e per la scarsa adattabilità a una organizzazione diversa da quella vissuta nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale.
Inoltre, i combattenti delle Brigate Internazionali non erano residenti in Spagna e avevano bisogno, di tanto in tanto, di permessi e licenze per vari problemi o semplicemente per poter rivedere la famiglia e riprendere le forze dopo battaglie estenuanti combattute in condizioni difficili, d’inferiorità di armamenti e mezzi rispetto ai franchisti.
Lo stato maggiore spagnolo era però sordo a queste richieste di licenza, nonostante le insistenze di Longo, commissario generale delle Brigate Internazionali. Questo fatto contribuì a creare malcontento e disagio che si unirono alla fatica dei combattimenti nel creare, nel 1937, una crisi nella Brigata.
Naturalmente, le difficoltà vissute dalla Brigata Garibaldi, come dalle altre brigate, non furono dovute solo ai problemi citati, ma furono causate soprattutto dalle diverse linee politiche dei partiti che avevano contribuito alla sua costituzione, prima di tutto tra la componente socialista e comunista e quella repubblicana, ma in alcuni casi anche tra socialisti e comunisti. Queste divergenze, a volte anche forti, furono una delle ragioni dei frequenti cambiamenti al vertice della Brigata, con i continui e controproducenti avvicendamenti nella direzione.
Se il primo comandante fu Randolfo Pacciardi, questi giunse, in seguito a delle valutazioni politiche discutibili e a insofferenze personali, a proporre a un certo punto persino lo scioglimento della Brigata; vari altri comandanti si avvicendarono, in seguito, al dirigente repubblicano e lo stesso avvenne per i commissari politici. I frequenti cambiamenti nel comando della Brigata Garibaldi, come in altre, furono dovuti peraltro, oltre ai contrasti politici, alla morte e ai ferimenti di cui i comandanti e i commissari politici furono vittime; non si deve dimenticare che le Brigate Internazionali nel loro complesso ebbero una percentuale di caduti altissima, che sfiorò il 25% degli organici.
Una percentuale di caduti che fu dovuta anche all’imperizia dei comandi generali dell’esercito spagnolo e all’impiego delle Brigate Internazionali come truppe d’assalto in condizioni a volte di scarsa considerazione per la vita dei volontari. In tale contesto, una terza ragione dei continui cambi al vertice delle Brigate fu anche la fatica psicofisica vissuta dai comandanti, esposti, in una situazione già difficile sul campo, a critiche politiche e di conduzione militare.
Il libro di Marco Puppini segue tutte le vicende politiche e militari vissute dalla Brigata Garibaldi attraverso le numerose battaglie a cui partecipò, a volte concluse con importanti vittorie, come quella di Guadalajara, contro l’esercito fascista italiano e purtroppo più spesso con dolorose sconfitte, come nel caso di Huesca, sino a quella decisiva e finale sul fronte dell’Ebro.
Battaglie che furono tutte segnate da grande spirito di sacrificio e spesso da eroismi dei volontari; mi sembra importante che Puppini abbia svolto un lavoro di ricerca per poter dare un nome e qualche informazione sul maggior numero di caduti possibile, operazione di memoria e di omaggio a quanti sacrificarono la loro vita in per la difesa della democrazia, non solo in Spagna ma in tutta Europa. Infatti, la guerra di Spagna non fu solo una tragedia nazionale, ma un episodio del più vasto quadro della lotta tra fascismo e nazismo e forze democratiche e popolari.
In una precedente occasione1 ho avuto modo di ricordare come molti combattenti della battaglia dell’Ebro (luglio-novembre 1938), che segnò la svolta finale della guerra a favore dei franchisti, ricordano con rimpianto che la sconfitta fu dovuta, in gran parte, al grande squilibrio di armamenti tra i due eserciti e aggiungono che se le armi bloccate alla frontiera franco-spagnola fossero giunte a destinazione, forse gli eventi avrebbero preso un’altra strada.
Infatti, se l’URSS si era impegnata per far giungere rifornimenti all’esercito repubblicano, tali invii seguivano ovviamente percorsi tortuosi e difficili e si scontravano in particolare con la linea di “non intervento” delle potenze occidentali, segnatamente Gran Bretagna e Francia, i cui governi bloccavano regolarmente le spedizioni.
Tale linea politica di “non intervento” fu una delle cause della vittoria dei franchisti che invece disponevano del sostegno dei rifornimenti e dell’aviazione della Germania e dell’Italia fascista. L’intervento italiano si concretò oltre che con la collaborazione dell’aviazione e della marina, anche con l’invio di circa 75.000 soldati. Mussolini sognava un Mediterraneo fascistizzato che andasse dalla Grecia alla Spagna e si prolungasse sino al Portogallo di Salazar.
La ragioni dell’offensiva lanciata dai repubblicani sull’Ebro, ci chiarisce Puppini, non furono solo militari, ma in gran parte politiche. La situazione internazionale era difficile poiché l’URSS era impegnata sul fronte orientale a fronteggiare l’invasione giapponese dalla Mongolia e probabilmente avrebbe avuto in futuro meno risorse da destinare alla Spagna; diventava quindi importante dimostrare la vitalità della Repubblica nella speranza che Francia e Gran Bretagna, di fronte anche alla conclamata aggressività dei nazisti che stavano aggredendo la Cecoslovacchia, avessero una reazione.2 Che non venne.
Fu così che il capo del governo spagnolo Juan Negrin giocò la carta, rivelatasi controproducente, del ritiro delle Brigate Internazionali, che comunicò il 21 settembre 1938 alla Società delle Nazioni. La situazione era tale che la presenza delle Brigate Internazionali non avrebbe, probabilmente, potuto ribaltare le sorti della guerra e Negrin chiese in cambio della loro partenza, il ritiro del sostegno tedesco, italiano e portoghese ai franchisti.
Ma la mossa di Negrin fu inutile, poiché proprio in quei giorni, alla conferenza di Monaco, i governi francese e inglese scelsero l’accordo con Hitler concedendogli la vittoria nella questione dei Sudeti. Dichiarando che con quell’accordo “avevano evitato la guerra” (sappiamo come finì la storia), l’inglese Chamberlain e il francese Daladier posero anche la pietra tombale sulla Repubblica Spagnola.
Il governo francese non fu meno ostile verso la Repubblica nel comportamento che tenne in seguito, quando gran parte dei volontari si ritirarono in Francia, paese dove, tra l’altro, erano massicciamente residenti prima della guerra. Furono internati in diversi campi di concentramento, dove furono praticamente prigionieri, in condizioni di vita pessime e umilianti, che solo l’inziativa degli antifascisti rese più accettabili dal punto di vista umano.
Questo prima di essere, in molti casi, consegnati alla polizia del paese natale, che, nel caso degli italiani, significava confino o prigione. Questi antifascisti il riscatto lo avranno, nella loro maggioranza, durante la Resistenza, quando si avvarranno dell’esperienza politica e militare maturata nella guerra di Spagna.
2 E’ il caso di ricordare che l’URSS invece aveva promesso il suo sostegno alla Cecoslovacchia e in caso di guerra avrebbe dovuto sostenere un ulteriore impegno militare.
Poesie di Fadwa Toqan -Poetessa araba della Resistenza-Copia Anastatica
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Lo fa scandendo una serie di versi, di quesiti, di punti di riflessione in un susseguirsi talmente veloce, talmente duro, dirompente e tagliente che arriva a toccare e a bruciare l’anima.
La simbologia è fortissima, le parole prendono quasi vita, si possono immaginare, concretizzare; pregne di tristezza, sature di dolore. Fadwa sembra quasi discostarsi dalla sua stessa realtà, appare una visitatrice ignara, catapultata a sua insaputa di fronte a un pezzo importante della tragedia e travolta da un senso profondo di solitudine.
In pochi ma efficaci fiumi di parole, racconta il dramma -ancora attuale- di donne, uomini e bambini. Il dramma logorante dell’abbandono delle proprie case, ancore dell’appartenenza alla loro patria. E’ proprio l’abbandono il concetto che fa da sfondo e cornice; sensazione alienante che accompagna la poetessa quasi fosse un osso granitico che si riforma in essa, dal quale non si può separare mai più – declinato e espresso tramite più metafore. Le “piante spinose”, cresciute nelle case, sono il simbolo della tangibile solitudine rimasta del seme dell’ingiustizia maturato fino a prendere il posto di chi, fra quelle mura, aveva vissuto e costruito i propri sogni. Cosa vi è rimasto dopo la diaspora? Dei gufi, branchi di gufi cupi, sinistri. Tipico simbolo della letteratura classica, viene proiettato dalla poetessa nel suo presente: diviene la metafora dell’occupante.
La casa, quello che fra gli spazi materiali è il più intimamente caro all’uomo, qui viene persino personificata per evidenziare la concreta realtà, l’unica rimasta dopo l’occupazione. Un panorama, però, desolato di rovine, specchio della condizione dell’anima di chi le ha lasciate; costruzioni vacue, non più case, ora abitate soltanto dal silenzio dell’assenza -forse il più assordante fra tutti- che ne colma il ventre, eco della privazione di un’identità. Dov’è ora il sogno? Dov’è l’avvenire? Dove sono loro?
Fadwa Tuqan, “la poetessa della Palestina”. Le sue poesie di impegno, di lotta, di incoraggiamento verso il popolo palestinese, sono ciò per cui ricordiamo e conosciamo la poetessa.
Per me, però, è stato illuminante scoprire che i suoi componimenti su questi temi, non costituiscono la totalità della sua produzione.
Fadwa Tuqan è stata prima di tutto una donna. Una donna che ha lottato per la propria libertà personale e per i propri diritti. Solo dopo ha unito la sua voce alla protesta nei confronti di Israele, in seguito a una ricerca di sé, una presa di coscienza maturata nel corso di buona parte della sua vita.
Inutile dire come questo mi abbia letteralmente conquistato.
Ciò che più mi ha affascinato è stato, sopratutto che la vita della poetessa e le vicende palestinese sembrano non viaggiare sullo stesso binario, ma anzi percorrere direzioni opposte. O almeno fino al 1967.
Mi spiego meglio: Fadwa Tuqan nasce a Nablus nel 1917 (anche se non ci sono dati certi sull’anno esatto) ed essendo nata in una famiglia appartenente all’alta borghesia e per di più conservatrice, la sua libertà era decisamente limitata e ben presto le venne proibito persino di frequentare la scuola.
Negli stessi anni si abbatterono sulla Palestina gli accordi Sykes-Picot e la dichiarazione di Balfour, che diedero il via all’immigrazione ebrea sotto il protettorato inglese, ma che non influirono in maniera diretta sulla vita quotidiana di Nablus, almeno non subito.
Allo stesso tempo la minaccia sionista diede propulsione a movimenti nazionalisti e di emancipazione femminile che permisero alla poetessa di riprendere gli studi.
Arrivò poi la Nakba, la catastrofe del 1948. Nablus rimase sotto il controllo arabo e migliaia di profughi vi si rifugiarono in cerca di protezione. Nello stesso anno morì il padre della Tuqan.
Questa duplice disgrazia, se da un lato gettò la poetessa nello sconforto, le fece acquistare una libertà mai sperimentata prima, grazie all’assenza del padre-padrone e all’impegno sociale e politico che la situazione richiedeva. Le donne palestinesi poterono finalmente unirsi ai combattenti e rivendicare, insieme alla libertà del proprio paese, anche quella personale.
Perciò uno dei momenti più drammatici della storia palestinese, rappresenta per Fadwa Tuqan l’inizio della libertà tanto agognata.
Tutto cambia, come vi dicevo, dopo il 1967, quando ha luogo il terzo conflitto arabo-israeliano, che vede la sconfitta definitiva delle rivendicazioni palestinesi.
È solo da questo momento in poi che la poetessa iniziò a celebrare la Palestina nelle sue poesie. In seguito a quest’ultimo dramma la Tuqan e il suo Paese si riconciliano e iniziano a camminare nella stessa direzione.
Questo percorso si rispecchia perfettamente nella sua produzione poetica.
La poetessa viene iniziata alla poesia dal fratello Ibrahim, anche lui poeta politicamente impegnato nella difesa della Palestina. I primi componimenti di Fadwa Tuqan sono quasi esclusivamente incentrati sul dolore: per l’isolamento in casa, per i lutti familiari (primo fra tutti quello per il fratello Ibrahim, morto giovanissimo). Anche se viene spesso invitata a scrivere per la causa Palestinese sembra che la poetessa non riesca a farsi carico di questo compito.
Quando nel 1948 la libertà fa capolino nella vita della Tuqan, lei ne approfitta a piene mani, ma, quasi come un’adolescente, è inesperta e immatura, sia dal punto di vista personale che politico. Inevitabilmente si rivolge al sentimento che più di tutti le era stato proibito: l’amore. Mai uguale a se stesso, l’amato cambia volto, carattere, ma rimane sempre anonimo.
Nello stesso periodo iniziano i viaggi della poetessa per presenziare a conferenze e incontri sulla poesia. In una di queste occasioni incontrò Salvatore Quasimodo, il quale rimase colpito dalla Tuqan e, probabilmente, le rivolse degli apprezzamenti. La poetessa gli rispose con una poesia intitolata “Lan abi’ hubbahu” (Non venderò il suo amore), in cui declina con ironia le avance del poeta:
Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Ma, ciò nonostante, i sentimenti ed i desideri di donna
mi fanno battere il cuore gioiosamente
al vedere le ombre d’amore negli occhi tuoi
e al sentire il loro desideroso invito.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella!»
Essenziale nella formazione personale e artistica della poetessa fu anche il suo soggiorno in Inghilterra, dove decise anche di iscriversi ad un corso di Lingua e letteratura inglese presso l’Università di Oxford.
La scoperta di un paese diverso dal proprio dove poteva essere molto più libera fu un’esperienza elettrizzante per l’ormai quarantacinquenne Fadwa Tuqan. Dopo qualche anno, però, iniziò a vedere con disillusione anche l’Inghilterra, che dopo l’entusiasmo iniziale, si rivelò un Paese estraneo. Significativa è questa poesia senza titolo:
Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
– Scusami, della Giordania, dici?
Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
– Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore!Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!
Tornata finalmente in Palestina, fu allora che iniziò ad impegnarsi attivamente per il suo Paese e diventò realmente una degli esponenti più significativi della letteratura palestinese.
Vi voglio lasciare con una delle poesie a me più care di questo periodo. Si intitola Madinati al-hazina (La mia triste città):
Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento
l’alta marea si ritirò,
e finestre del cielo si chiusero
e la mia città perse il fiato.
Il giorno in cui si ritirarono le onde
e le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole,
s’infiammarono gli occhi della speranza
e la mia triste città
si soffocò di tormento.
Sparirono bimbi e canzoni,
non più ombre né più echi,
e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia città
Poesie di Irma Verolín, poetessa argentina-Traduzione di Marcela Filippi Plaza
Irma Verolín poetessa argentina-Traduzione di Marcela Filippi Plaza-Irma Verolín Nació el 8 de diciembre de 1953 en Buenos Aires, Argentina. Ha recibido numerosos premios y galardones, entre ellos: el primer premio municipal “Eduardo Mallea”, el primer premio internacional “Horacio Silvestre Quiroga”, el primer premio internacional de la Fundación Luis Palés Matos de Puerto Rico; primer premio de la Fundación Victoria Ocampo; Premio Emece; Primer premio municipal de la ciudad de Buenos Aires; primer premio internacional de novela del Mercosur. Ha publicado tres libros de poesía, cuatro de cuentos y dos novelas. Es autora de libros de literatura infantil y juvenil, de los cuales se han publicado cinco. Algunos de sus textos han sido traducidos al inglés, alemán, italiano, ruso y portugués.
Prima
Mia madre ha ripetuto il suo nome in me
non per mancanza d’immaginazione ma per amore agli specchi
dove lei trova il suo corpo
in un equilibrio che pensava d’aver dimenticato.
Quando mi chiama
la sua voce trasforma la mia persona in un’eco
in una ripetizione cantilenante
una serie infinita di specchi
riproduce la mia sagoma fino all’indicibile
svuotandomi
polverizzandomi.
Quando mia madre mi chiama
sta chiamando se stessa
e alla fine nessuno sa chi è chi in questa casa.
Antes
Mi madre ha repetido su nombre en mí
no por falta de imaginación sino por amor a los espejos
donde ella encuentra su cuerpo
en un equilibrio que creyó olvidar.
Al llamarme
su voz convierte a mi persona en un eco
en una repetición en sonsonete
una serie infinita de espejos
reproduce mi silueta hasta lo indecible
vaciándome
pulverizándome.
Cuando mi madre me llama
se está llamando a ella
y al final nadie sabe quién es quién en esta casa.
Dalla raccolta De madrugada (2014)
I suoi occhi
Non c’era nulla dietro i suoi occhi
solo un mare senza movimento,
un mare
di acque scure
con pesci nuotando al rallentatore
e sirene sminuzzate
in un fondo senza fondo
tra montagne schiacciate
che una volta furono
remotamente
animali che il tempo estinse.
I suoi occhi
nonostante tutto
cercano
in me
un altro mare
simile e distante
per accarezzarlo con il suo sguardo.
Sus ojos
No había nada detrás de sus ojos
sólo un mar sin movimiento,
un mar
de aguas oscuras
con peces nadando en cámara lenta
y sirenas desmenuzadas
en un fondo sin fondo
entre montañas hundidas
que alguna vez fueron
remotamente
animales que el tiempo extinguió.
Sus ojos
a pesar de todo
buscan en mí
otro mar
parecido y distante
para acariciarlo con su mirada.
Cane che abbaia
C’è un cane nell’edificio di fronte
rinchiuso
dietro la ringhiera di un balcone
che non fa altro che abbaiare
dalla mattina alla sera.
Nel frattempo
il mondo passa nella sua vertiginosa disarmonia
abbaia al cane
e il cane sempre risponde.
Il dialogo non ha fine
è diventato inverosimile,
non si capiscono
non si capiranno mai.
La mattina si espande
dai suoi propri limiti
scivolosi
naufraga e riprende i suoi impulsi
e naufraga di nuovo.
A questo punto
nessuno in questo quartiere
vuole sentire ancora
il beato cane che abbaia
e abbaia.
Che il mondo si faccia capire
una buona volta
che quell’animale ritorni in sé
una volta per tutte
e capisca che nulla gli appartiene.
È un cane squallido
brutto
dagli occhi sporgenti
l’ho visto sbadigliare, mangiare e
grattarsi le pulci,
molti vorremmo avvelenarlo
ma non potremmo:
il balcone è alto
e il mondo non smette di passare
continuamente
con la sua cantilena che alimenta
latrati e chissà quante altre cose
in questa strada
dove si trova la mia casa.
Irma Verolín
Perro que ladra
Hay un perro en el edificio de enfrente
encerrado
detrás de la baranda de un balcón
que no hace otra cosa que ladrar
de la mañana a la noche.
Mientras tanto
el mundo pasa en su vertiginosa desarmonía
le ladra al perro
y el perro siempre contesta.
El diálogo no tiene fin
se ha vuelto inverosímil,
no se entienden
nunca se entenderán.
La mañana se explaya
desde sus propios límites
resbaladizos
naufraga y retoma sus ímpetus
y naufraga otra vez.
A esta altura
ya nadie en este vecindario
quiere oír más
al dichoso perro que ladra
y ladra.
Que el mundo se haga entender
de una buena vez
que ese animal entre en razones
de una vez por todas
y entienda que nada le pertenece.
Es un perro escuálido
feo
de ojos saltones
lo he visto bostezar y comer y
rascarse las pulgas,
muchos quisiéramos envenenarlo
pero no podríamos:
el balcón es alto
y el mundo no deja de pasar
continuamente
con su cantilena que alimenta
ladridos y quién sabe cuántas cosas más
por esta calle
en la que está mi casa.
Gatto davanti alla finestra
Il mio gatto crede che nella finestra ci sia molto da guardare.
La finestra con quel mondo ristretto che porta dentro
rimane in silenzio.
Il vetro
tuttavia
riflette il corpo del mio gatto
che guarda e guarda,
so che pensa che se il mondo fosse così grande
come la gente suol credere
non ci entrerebbe in quel miserabile rettangolo.
La luce è buona
per il gatto e per il mondo,
li riflette entrambi.
Senza il vetro nulla di tutto questo sarebbe possibile.
Gato frente a la ventana
Mi gato cree que en la ventana hay mucho para mirar.
La ventana con ese mundo apretado que lleva dentro
permanece en silencio.
El vidrio
sin embargo
refleja el cuerpo de mi gato
que mira y mira,
sé que piensa que si el mundo fuera tan grande
como la gente suele creer
no entraría en ese miserable rectángulo.
La luz es buena
para el gato y para el mundo,
los refleja a los dos.
Sin el vidrio nada de esto sería posible.
Come questa povera gente
Come questa povera gente che
ripetutamente
ritorna
alla loro casa allagata,
ritorno a guardarmi allo specchio:
i miei occhi,
che non vogliono vedere, vedono
l’ampiezza del mio viso
il coraggioso gesto della vita
che cade lungo il bordo delle mie sopracciglia;
causa ed effetti si inanellano
con totale impunità:
la vita è un tulle che lascia vedere
le tracce di un transito in vertigini infinite.
Como esta pobre gente
Como esta pobre gente que
una y otra vez
regresa
a su casa inundada,
vuelvo a mirarme en el espejo:
mis ojos,
que no quieren ver, ven
la amplitud de mi cara
el esforzado gesto de la vida
cayendo por el borde de mis cejas;
causas y efectos se enhebran
con total impunidad:
la vida es un tul que deja ver
las huellas de un tránsito en infinito vértigo
Venti d’autunno
Cominciano ad arrivare
i venti dell’autunno,
giungono prima dell’autunno
come deve essere, quei venti
scuotono le pareti
di questa mia casa
che li attende
ancor prima che si facciano sentire
tremare borbottare tremolare,
pareti e tetti rimangono avvolti nei loro scuotimenti.
Il futuro ha spiegato le sue ali al presente
mentre il passato si è reclinato nell’appoggiò
di ciò che mai si ripeterà.
Il vento mi racconta che l’autunno verrà a sdraiarsi
sul tetto di casa mia
come un gatto.
Tutto va bene ora
che il futuro ha spinto i suoi venti fin qui.
Irma Verolín
Vientos de otoño
Comienzan a llegar
los vientos del otoño,
se adelantan al otoño
como debe ser, esos vientos
estremecen las paredes
de esta casa mía
que los espera
aún antes de que se hagan oír
temblar refunfuñar tremolar,
paredes y techos quedan envueltos en sus sacudimientos.
El futuro ha desplegado sus alas hacia el presente
mientras el pasado se reclinó en el respaldo
de lo que nunca se repetirá.
El viento me cuenta que el otoño vendrá a recostarse
sobre el techo de mi casa
como un gato.
Todo está bien ahora
que el futuro empujó el viento hasta aquí.
Dalla raccolta Los días (2014)
Congedo
Mettesti la mia mano sul tuo petto
e chiudesti gli occhi:
La mia mano rimase dentro il tuo petto.
Dall’altro lato dei tuoi occhi
la mia mano accarezzò la tua memoria
parsimoniosamente
la mia mano affogò nella tua liscia memoria
poi qualcuno fischiò nel corridoio
la sera levigò i suoi margini,
dire addio è facile
quando il silenzio avvolge la vita
senza limiti
il silenzio è un piccolo dio
che rende il nostro congedo un luogo di arrivo
ora posso guardare
la mia propria morte nei tuoi occhi
la vedo inerpicarsi sul bordo del mio nome
e ci protegge entrambi.
Despedida
Pusiste mi mano sobre tu pecho
y cerraste los ojos:
mi mano quedó dentro de tu pecho.
Del otro lado de tus ojos
mi mano acarició tu memoria
parsimoniosamente
mi mano se ahogó en tu lisa memoria
después alguien silbó en el pasillo
la tarde pulió sus aristas,
despedirse es fácil
cuando el silencio envuelve a la vida
sin límites
el silencio es un pequeño dios
que convierte nuestra despedida en sitio de llegada
puedo mirar ahora
mi propia muerte en tus ojos
la veo trepándose sobre el borde de mi nombre
y nos cobija a los dos.
Dalla raccolta Invierno (inediti)
Irma Verolín
Biografia di Irma Verolín è nata l’8 dicembre 1953 a Buenos Aires, in Argentina. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali: il primo premio comunale «Eduardo Mallea», il primo premio internazionale «Horacio Silvestre Quiroga», il primo premio internazionale della Fondazione Luis Palés Matos di Porto Rico; primo premio della Fondazione Victoria Ocampo; Premio Emecé; Primo premio comunale della città di Buenos Aires; primo premio internazionale del romanzo di Mercosur. Ha pubblicato tre libri di poesia, quattro di racconti e due romanzi. E’ autrice di libri di letteratura per bambini e ragazzi, e di questi ne sono stati pubblicati cinque. Alcuni dei suoi testi sono stati tradotti in inglese, tedesco, italiano, russo e portoghese.
Irma Verolín Nació el 8 de diciembre de 1953 en Buenos Aires, Argentina. Ha recibido numerosos premios y galardones, entre ellos: el primer premio municipal “Eduardo Mallea”, el primer premio internacional “Horacio Silvestre Quiroga”, el primer premio internacional de la Fundación Luis Palés Matos de Puerto Rico; primer premio de la Fundación Victoria Ocampo; Premio Emece; Primer premio municipal de la ciudad de Buenos Aires; primer premio internacional de novela del Mercosur. Ha publicado tres libros de poesía, cuatro de cuentos y dos novelas. Es autora de libros de literatura infantil y juvenil, de los cuales se han publicado cinco. Algunos de sus textos han sido traducidos al inglés, alemán, italiano, ruso y portugués.
Elisa Veronesi-Molesini Editore Venezia:il presente della Poesia-
Se la Venezia del Ventunesimo secolo ha poco o nulla a che vedere con la città ricca e cosmopolita che nel Quattrocento dominava il Mediterraneo, c’è tuttavia un fil rouge che pare saldare questo nostro presente catastrofico con la grandezza di una città il cui fascino continua ad irradiare, nonostante tutto, a pelo d’acqua. E questo legame è iscritto, o meglio sarebbe dire scritto, nei libri. Nei libri in quanto oggetti prodotti dall’arte sapiente della rilegatura e nei libri in quanto veicoli di conoscenza, di scienza e di poesia.
La storia della stampa si intreccia con la città di Venezia ancor prima dell’invenzione dei caratteri mobili, infatti, già nel Trecento, nella Laguna si sperimentavano nuove forme di stampa attraverso l’uso della riproduzione xilografica, soprattutto per riprodurre tabule (utilizzate dagli scolari per imparare l’alfabeto) e salteri (raccolta di preghiere utilizzato per imparare a leggere), molto richiesti dai numerosi studenti cittadini. Venezia era una città nella quale lo studio e il commercio erano vivissimi e i libri erano un’effettiva necessità. Quando dunque l’invenzione dei caratteri mobili arrivò nella laguna trovò terreno fertile e divenne in poco tempo un mercato fiorente, con all’attivo oltre 200 macchine da stampa alla fine del XV secolo e nomi illustri che rimarranno impressi nella storia del libro, come quello di Aldo Manunzio.
Anche nell’odierna Venezia si continuano a stampare libri e, nell’ottobre del 2022, è nato un nuovo editore: Molesini Editore Venezia. Andrea Molesini, veneziano, scrittore e traduttore, autore, tra gli altri libri, di Non tutti i bastardi di Vienna, vincitore del Premio Campiello nel 2010, ha deciso di fondare una casa editrice di poesia al motto vitruviano di firmitas, utilitas, venustas: solidità, praticità, bellezza. Creare una casa editrice oggi è già una scommessa non da poco, fondarne una di sola poesia poi, parrebbe ancor più un azzardo. Ma è proprio nell’intento «di rivitalizzare il ruolo della poesia, e della riflessione sulla poesia, nella vita letteraria italiana», come si legge nel sito web dell’editore, che nasce questo interessante progetto. Poesia dunque, e grande cura e attenzione nei dettagli dell’oggetto-libro. I libri pubblicati da Molesini, infatti, sono libri in formato tascabile, realizzati con carta di qualità, rilegata e cucita a mano e caratterizzati da una grafica essenziale con colori vivaci e senza immagini, firmata dal grafico Giacomo Callo. Il carattere tipografico utilizzato è il Baskerville Original, inventato da John Baskerville durante l’Illuminismo, un carattere non molto comune nell’editoria contemporanea, la quale preferisce il Garamond. Una scelta, quest’ultima, che vuole omaggiare la libertà di pensiero e la laicità. I libri di autori stranieri sono poi presentati con testo originale a fronte, una pratica essenziale per un testo poetico il cui ritmo e il cui respiro vivono realmente solo nella lingua d’origine.
Molesini Editore Venezia
Molesini Editore pubblicherà 10 libri all’anno, i primi 7 titoli sono usciti alla fine del 2022 e il primo libro della collana è Messaggio di Fernando Pessoa, tradotto da Francesco Zambon, il quale ha curato anche la prefazione e il commento al testo. Un titolo significativo che inaugura la collana e che pare davvero lanciare un messaggio, quello di un’utopia necessaria in un mondo alla deriva. La poesia visionaria di Pessoa, che in questo libro narra in versi la vicende di un re del ‘500, re Don Sebastiano, il quale deve ritornare in patria per fondare il Quinto Impero della storia universale, è una poesia che vuole salvare il mondo e che per farlo trasla verso un piano spirituale e recupera il mito come fondazione.
«Sogno è vedere le forme invisibili Della vaga distanza e, con sensibili Moti della speranza e del volere, Cercare sulla fredda linea dell’orizzonte Albero, spiaggia, fiore, uccello, fonte – I baci meritati della verità».
Pessoa, II. Orizzonte
Il secondo volume pubblicato, tradotto da Emilio Coco e arricchito di un saggio di Marco Frizzini è Il pesce rosso che ci nuota nel petto, della poetessa e scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, ex militante del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Si tratta di una raccolta che analizza, con una lingua poetica tesa fino alla prosa, i legami amorosi, le lotte femministe e gli elementi della natura. La scrittura chiara e precisa di Belli apre, spalanca voragini di senso e crea immagini che restano attaccate senza tregua alla retina. Un’ironia tagliente raggira con abilità gli stereotipi che spesso accompagnano il parlare d’amore o il parlare della femminilità e trasforma il dire in una lucida disamina del mondo e degli esseri umani.
«Abitante millenaria Della precarietà dei sogni Desidero l’angolo della tua spalla Piangere sulla tua schiena Attraccare la mia barca sul dorso del tuo braccio Penisola della mia speranza». Gioconda Belli, Dichiarazione di vulnerabilità
Oltre a Pessoa e Belli sono già uscite le raccolte poetiche di Emmanuel Moses con Oscuro come il tempo nella traduzione di Andrea Molesini, Bianca Tarozzi con Devozioni domestiche, Il tempo degli spaventapasseri di Jozefina Dautbegović, tradotto da Neval Berber, Gilberto Sacerdoti con Peltro e argento e Francesco Zambon, quest’ultimo con L’iride nel fango, un suggestivo commento a L’anguilla di Eugenio Montale, un viaggio negli abissi fangosi tra il mondo umano e non umano.
Un panorama poetico, insomma, quello di Molesi Editore, che pare intercettare tematiche cruciali del presente e che lo fa con la parola più profetica della quale disponiamo, quella poetica. Aspettiamo dunque le nuove pubblicazioni di questo nuovo anno, sicuri che questa nuova avventura editoriale e poetica arricchirà il panorama editoriale italiano e ci ricorderà, ancora una volta, che la poesia è sempre stata là e non può «fare naufragio».
«Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora la poesia che è la nostra fame, la nostra sete, la nostra necessità e il nostro desiderio […] Il mare in tempesta che ci lacera il docile mare che ci rispecchia il mare traslucido dove vediamo tesori insospettabili il mare nero come un incubo senza fine la poesia continua là il suo viaggio galleggia hai mai visto una poesia fare naufragio?» Emmanuel Moses, Il mare interiore
Elisa Veronesi è nata a Castelnovo ne’ Monti, nell’Appennino Reggiano.Ha vissuto a Bologna, dove si è laureata in Italianistica e poi a Reggio Emilia, dove ha faticato per qualche anno nei magazzini di un’azienda di moda. Dal 2019 vive in Francia e lavora come insegante e formatrice di italiano in un liceo privato e in diversi centri di formazione. Dal 2022 è lettrice di italiano all’Université Côte d’Azur. Scrive, un po’ da sempre, disordinatamente. Legge molto, un po’ da sempre, altrettanto disordinatamente Un suo racconto è apparso sulla rivista on line “YAWP Giornale di Letterature e Filosofie”, altri racconti sono archiviati nel suo sito, poco aggiornato, messmerprimo.com e altri ancora sono in giro in rete. Collabora con il blog “La Grande Estinzione – per un romanzo diffuso dell’Antropocene”. Ha collaborato con la rivista on-line “Simposio Italiano” con recensioni e diversi articoli legati al territorio appenninico e alla frontiera franco-italiana.
Vittorio Maria De Bonis-Una lama di tenebra – Giustizia per Caravaggio
Una tela di Caravaggio sempre ricercata e mai attribuita con certezza, un raffinato e cinico collezionista pronto a tutto pur di possederla, un’arma memorabile forse appartenuta davvero al geniale artista milanese, una catena sconcertante di delitti nel segno di Caravaggio che insanguina la Roma contemporanea dell’antico patriziato e della cultura, fra botteghe antiquarie, salotti alla moda, ribalte mediatiche e nuovi protagonisti del web, gettando nel panico la mondanità capitolina. Anche stavolta il brillante critico d’arte Lorenzo Alderani, diviso fra perizie, comparsate televisive e conferenze, appassionato di Caravaggio e coadiuvato da un inseparabile assistente, irriverente e snob come il suo mentore, si mette alla ricerca della verità fra gallerie di pittura e palazzi aristocratici, prestigiose collezioni patrizie e chiese barocche, turbato da mille tentazioni femminili ma pur sempre devoto all’eterna fidanzata Elena, ironica e sapiente giornalista di moda con la vocazione dell’arte e dell’indagine, in una frenetica caccia al tesoro fra Roma, Malta e Port’Ercole sulle tracce del Maestro della Luce e dell’oscuro Giustiziere che ha deciso di vendicarlo. Un inseguimento fra le tenebre del Peccato e gli splendori della Fede che rivela i luoghi segreti e le tappe inedite della breve stagione di Caravaggio a Roma, in un suggestivo itinerario fra pale d’altare e celeberrime raccolte d’arte, cappelle dipinte e capolavori inaccessibili, fino alla necessaria – e fatalmente imprevedibile – resa dei conti, tra grande arte e ossessione omicida. Nel nome e per conto di Caravaggio.
Dati: 2021, pp. 192, brossura Prezzo: 16 euro
EdiLet – Edilazio Letteraria
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Michelangelo Merisi da Caravaggio nasce a Milano, e non a Caravaggio, luogo della famiglia d’origine, nel settembre del 1571; solo recentemente (2007) questa data, molto importante per la ricostruzione dell’intera opera dell’artista, è stata resa nota con certezza e ora sappiamo, sulla base di un documento dell’archivio diocesano, che Michelangelo viene battezzato il 30 settembre 1571 a Milano nella parrocchia di Santo Stefano in Brolo, chiesa ancora oggi esistente in piazza Santo Stefano. È probabile dunque che sia nato, come alcuni studiosi hanno supposto, il giorno prima, 29 settembre, giorno dedicato a San Michele Arcangelo, il cui nome fu apposto al neonato. Conosciamo il nome dei suoi genitori, originari di Caravaggio (piccolo borgo allora parte del territorio di Milano, oggi città della provincia di Bergamo): Fermo Merisi, maestro di casa di Francesco Sforza, marchese di Caravaggio, e Lucia Aratori. Sappiamo poi che, a poco più di dodici anni, nell’aprile 1584, il giovane Michelangelo entra nella bottega di Simone Peterzano, pittore assai noto della Milano tardocinquecentesca; vi sarebbe rimasto per imparare il mestiere, come da contratto, quattro anni. Questa la formazione del Merisi, avvenuta presso un pittore borromaico, fortemente segnato dalla pittura veneto-tizianesca e che di Tiziano si dichiara allievo. Se Peterzano è stato il suo vero e proprio maestro, è certo che il giovane Merisi si forma, con un occhio attento al reale, anche sulla pittura lombarda del Cinquecento: da Savoldo a Moretto, da Moroni ai Campi. Non sappiamo se rimane proprio quattro anni nella bottega milanese di Peterzano e neppure quando si trasferisce da Milano a Roma, dove lo troviamo con qualche certezza solo nella primavera del 1596. È documentato in Lombardia fino al luglio 1592, quando vende i suoi possedimenti, ma dei quattro anni che intercorrono tra il 1592 e il 1596 non sappiamo assolutamente nulla e, viceversa, la conoscenza della data di arrivo nella città eterna sarebbe fondamentale per capire meglio l’ambiente romano frequentato dall’artista e stabilire una cronologia più precisa delle sue opere. Le fonti contemporanee infatti ci parlano della presenza del Merisi a Roma ma non indicano una data precisa per il suo arrivo. Il solo Giulio Mancini, che scrive però a un decennio di distanza dalla morte dell’artista, riferisce che “se ne passò a Roma d’età incirca 20 anni”, ma nessun documento conferma questa notizia che pure alcuni studiosi, con motivazioni diverse, hanno avallato.
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