Queste “ombre bianche”, cioè “storie brevi, divertimenti e dialoghi; infine occasioni, satire scritte negli ultimi quindici anni” che Flaiano radunò nel 1972 nella certezza che la realtà avesse ormai superato la satira, raccontano di «un “io” che detesta l’inesattezza ed è stato sopraffatto dalla menzogna». Vi ritroviamo dunque il Flaiano più risentito, impassibile e feroce, capace come pochi di mostrarci le allucinazioni di cui siamo vittime: e mentre legge e sorride è come se uno spiffero gelido investisse d’improvviso il lettore, perché nei mostri messi in scena riconosce, non solo la realtà che lo circonda, ma a tratti, e con raccapriccio, un po’ di se stesso.
Flaiano scrisse all’editor che l’apparente disordine delle parti del libro era voluto, calcolato. Ma così non sembra al lettore.
C’è un fil rouge che è il disincanto, la delusione, l’oppressione della condanna a un’esistenza che, per Flaiano, era diventata una gabbia; quel dolore interno che gli spezzò il cuore insomma.
Ma gli elementi che compongono questo pout-pourri, anche se scritti in un arco di tempo lungo – vent’anni più o meno – hanno in comune il lato lunare del pescarese, la sua famosa malinconia “canina”.
Non mancano guizzo e invenzione linguistica, battute e freddure. Ma prevale lo straniamento: il futuro è impossibile perchè lo sarebbe anche il presente, se non fosse umanizzato dalla parodia. Ed ecco cadere nella pretestuosità la fantasia: si tratti della vita su Marte, della corrispondenza impossibile, della cancellazione degli affetti verso quello che un giorno si immaginava sarebbe stato il mondo futuribile. “Nel duemila (cantava Bruno Martino) noi non mangeremo più le bistecche”, e Flaiano lo scrive e forse lo pensa.
I continui riferimenti erotici appartengono invece al Flaiano cinematografico, mente lucida del Fellini visionario, e gratta gratta anche qui sotto trovi la delusione personale di una vita familiare distrutta.
In sintesi, sembra di leggere il lungo percorso del brillante scrittore che si estingue giorno dopo giorno, non senza lo sberleffo che lo ha reso grande.
Flaiano scriveva col privilegiato disincanto di chi ormai si sente alieno a ogni passione, affrancato da ogni compromesso in una realtà che è riuscita a superare la satira, vittima di una quotidianità dove consumismo, conformismo e utilitarismo ormai non risparmiano nessuno.
Le sue ombre bianche disegnano sul muro i mostri di una commedia tutta italiana, da cui anche il mondo intellettuale ormai non è più esente, prigioniero di ghetti dorati da Basso Impero, lascivo di interminabili feste da Dolce Vita, dove il profumo delle “rose di Eliogabalo” segna il declino di quella grande bellezza, preda di marziani extraterrestri.
Perché è proprio in quel boom, le cui contraddizioni già denunciava Bianciardi nella sua “Vita agra”, che si intravedono i sinistri squarci di un Mondo Nuovo di barbari costruttori, di iene senza scrupoli a caccia di carogne, dove tutto fa notizia, tendenza, basta premere sull’acceleratore per non essere superati.
Non c’è curaro negli elzeviri di Flaiano, giacché anche il veleno è finito, non c’è speranza, si passa in rassegna ogni vizio endemico per enumerazioni, per mistificazioni, per aforismi. Per sconfinata desolazione, in odor di involontaria chiaroveggenza.
Roma-“Luciano Ventrone e la sua scuola” è il titolo della mostra, curata da Giordano Bruno Guerri, che sarà inaugurata giovedì 19 dicembre alle ore 19.00 nei Musei di San Salvatore in Lauro a Roma. Organizzata da “Il Cigno Arte” in collaborazione con la “Fondazione Luciano Ventrone e Miranda Gibilisco” e la “Galleria Stefano Forni”, racchiude i dipinti di Luciano Ventrone, oltre ad alcune opere di suo figlio Massimiliano Ventrone e di due allieve del grande maestro, Ilaria Morganti e Tatsiana Naumcic.
Cesti di frutta, uva e foglie di vite, mele, cachi, limoni, arance, mandarini, e poi ancora zucche, aglio, frutta secca, ma anche singoli melograni o angurie a pezzi, realizzati sulla tela per lo più in olio su tecnica mista: un tripudio di colori nelle venticinque “nature morte” di Ventrone, definito dallo storico dell’arte Federico Zeri il “Caravaggio del XX secolo”, che saranno esposte nei Musei di San Salvatore in Lauro.
“Ventrone viene sempre più riconosciuto come un grandissimo maestro del Novecento, però a mio parere è molto di più – sottolinea Giordano Bruno Guerri – , perché quello che ha fatto lui, non esiste in tutta la storia della pittura mondiale: la veridicità di quello che raffigura, i cesti di frutta, qualunque cosa dipinga, è qualcosa che va ben oltre il realismo e fa percepire l’anima delle cose; lui ci entra dentro e te la mette sotto gli occhi. È un incanto assoluto!“. Luciano Ventrone (Roma, 1942-Collelongo, 2021) affronta tutti i temi dell’arte contemporanea sino ad approdare al “realismo”. Nel 1983 un articolo scritto da Antonello Trombadori su L’Europeo induce Federico Zeri ad interessarsi dell’artista suggerendogli di affrontare il tema delle nature morte; è qui che inizia la lunga ricerca sui vari aspetti della natura, catturando particolari sempre più dettagliati e quasi invisibili ad “occhi bombardati da milioni di immagini” quali sono quelli degli uomini della nostra epoca.
“L’idea della mostra “Luciano Ventrone e la sua scuola” – racconta Lorenzo Zichichi, de “Il Cigno Arte” – parte da lontano. Prende vita da un percorso espositivo iniziato nel 2020 al Mart, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, dove si è svolto un confronto tra le opere dei Caravaggeschi e Ventrone; poi prosegue in altre sedi espositive come ad Erice nel 2021, all’Istituto Wigner – San Francesco e al Polo museale “Antonio Cordici”, mettendo a confronto le opere di de Chirico e quelle di Ventrone; fino poi ad arrivare a Roma nel 2022, nei Musei di San Salvatore in Lauro, col dialogo di Ventrone con le opere di Guttuso, Guccione, de Conciliis. E infine è nata l’idea di realizzare una grande esposizione dedicata a Ventrone al Vittoriale degli Italiani, che è tutt’ora in corso, in parallelo con l’allestimento a Roma, entrambe curate da Giordano Bruno Guerri. Questa mostra vuole evidenziare come l’arte di Ventrone abbia ispirato una generazione di artisti, tra cui molti che hanno seguito la sua strada, sia nel figurativo, come Tatsiana Naumcic e Ilaria Morganti, sia nell’astratto, come Massimiliano Ventrone, suo figlio. La sua straordinaria capacità creativa ha suscitato una forte emulazione, dando vita a percorsi artistici diversificati, tutti però segnati dalla sua influenza. In questo modo, la mostra non solo racconta il percorso di Luciano Ventrone, ma anche di chi lo ha seguito“.
Saranno allestite nei Musei di San Salvatore in Lauro alcune opere realizzate con tecnica mista da Massimiliano Ventrone. “Arcobaleno senza colori”, “Asdrubale”, “Il circo”, “Blade Runner” sono alcuni dei dipinti più interessanti. Nato a Catania nel 1972, Massimiliano Ventrone vive e lavora a Roma; eclettico artista, musicista, compositore, produttore di colonne sonore e musica elettronica d’atmosfera, nel campo visuale ha lavorato con opere di visual art al computer legate al ritmo musicale. E’ in primo luogo un pittore che proviene da una consolidata esperienza di cromatologia e pittura della realtà, che sfocia in opere di espressionismo astratto, simbolista, che narra storie surreali, con intricati ed intensi tratti di colore.
Tra le più belle opere allestite, in olio su tela, di Ilaria Morganti, artista romana, classe 1975, saltano subito all’occhio per la loro plasticità “Con cosa vuoi che ti paghi”, “Break on through…” e “…to the other side”, ma anche “crash”. Il campo di indagine delle opere è incentrato sul linguaggio della pittura, chiamato in causa sul concetto di illusionismo. La riflessione è sulla natura della pittura e di ciò che essa mostra. Lo scopo di questa meticolosa pittura non è quello di spingere ai suoi limiti estremi la rappresentazione, ma di interrogarla nei suoi stessi presupposti. Tutto è incentrato sulla tela, vera protagonista della ricerca visiva e pittorica che ne mostra le peculiarità e le caratteristiche. Non c’è solo il piano bidimensionale del supporto: la pittura tende a sostituire la realtà e cerca di simularne la visione a livello ottico così come percepito dai sensi fisici, non limitandosi semplicemente alla dimensione della tela, ma andando oltre. Singolari sono le opere “To come into the word” e “Sagomato n.1” in olio su tela sagomata e “Sospensione” in olio su tela sagomata, e pellicola specchiante. I “Sagomati” suggeriscono una realtà che supera i confini imposti dal supporto tradizionale per invadere un nuovo campo. L’introduzione di un ulteriore elemento (un materiale specchiante) fa oltrepassare l’occhio dello spettatore e rimanda lo sguardo al di là della superficie bidimensionale del quadro, mentre l’introduzione di elementi reali contribuiscono a mescolare la realtà con la finzione della pittura.
I Musei di San Salvatore in Lauro ospiteranno anche alcune opere di Tatsiana Naumcic (Minsk, 1980), pittrice iper-realista contemporanea, originaria della Bielorussia e romana di adozione, tutte in olio su tecnica mista su tela di lino. “Di sasso in sasso”, “Plexus”, “Evanescenza” e “Sinuosità” tra le opere del 2019 e del 2020 allestite, affianco alle più recenti “Talisman”, “The fourth kind” e “Wisdom” del 2022. “Libertà” e “femminismo” sono al centro delle sue opere, espresse soprattutto con frutti e fiori esotici in composizioni minimaliste. La sua capacità artistica e il suo talento si manifestano sin dalla prima infanzia. Dopo un passato da arredatrice di interni a Mosca, ambisce di dipingere e vivere a Roma. Nel 2015 riesce a realizzare il suo sogno grazie all’incontro con Luciano Ventrone diventandone l’ultima allieva. Nel 2018 espone le sue opere insieme a quelle del Maestro all’interno della mostra “Luciano Ventrone. Meraviglia ed estasi”, nella chiesa monumentale di San Francesco a Gualdo Tadino (Perugia). Da Luciano Ventrone la Naumcic ha appreso soprattutto “la tecnica”, quella qualità dell’immagine che riesce “a competere” con la fotografia, superandola e abbandonandola nella modalità con cui si esprime tecnicamente.
La mostra sarà aperta al pubblico nei Musei di San Salvatore in Lauro dal 20 dicembre 2024 fino al 19 gennaio 2025 (dal martedì al sabato, dalle 10 alle 13.00, e dalle 16.00 alle 19.00). L’ingresso è gratuito.
Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO
Bertolt Brecht:”La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria”.
L’ANALFABETA POLITICO (BRECHT) “Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, nè s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.” (Bertolt Brecht)
-Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO – La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria. Oltre la porta di casa tutto ciò che c’è è affare che non riguarda se stessi. Eppure questa ignoranza produce effetti drammaticamente deleteri perché fa regredire l’uomo da cittadino a suddito il quale non fa altro che apprendere apaticamente e subire le decisioni dall’alto. Brecht ci riporta anche degli atteggiamenti esteriori del nostro analfabeta. “Si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica”. La frase è tipica e, ahimè, troppo diffusa nella nostra società. La politica è affare di tutti e non si manifesta solo in senso stretto prendendo parte a questo o quel partito politico. Essere politicizzati significa comprendere di far parte di una società complessa, di una realtà che non può e non deve rimanerci indifferente. “Zoon politikon” diceva Aristotele, l’uomo è un “animale politico” e questa caratteristica è insita nella natura dell’essere umano. Rimanere indifferenti dinanzi alla società in cui si vive, riempendosi la bocca di espressioni come: “la politica è sporca”, “lo stato è corrotto”, “è già tutto deciso”, ci preclude di essere parte attiva, di avere un ruolo. Chi non pone rimedio alla propria ignoranza politica non sa scindere il bene dal male di una comunità. Brecht in maniera probabilmente anche molto forte fa una carrellata di esempi lampanti delle conseguenze del considerare la politica altro da sè, fuori dalla propria sfera di interessi. “Il bambino abbandonato, la prostituta, l’assaltante, il mafioso corrotto” sono solo alcuni esiti. Certamente la politica oggi non ci invita ad un suntuoso banchetto, ma nello stesso tempo non possiamo non partecipare alla mensa perchè i piatti non sono di nostro gradimento.
Bertolt Brecht -Scrittore e uomo di teatro tedesco (Augusta 1898 – Berlino 1956). Nato da genitori di agiata borghesia, frequentò gli ambienti dell’avanguardia artistica monacense e berlinese abbandonando, senza concluderli, gli studi di medicina e volgendosi all’attività letteraria. Sullo scorcio degli anni Venti venne maturando il decisivo incontro, sia teorico sia politico, con il marxismo. Andato in esilio nel 1933, fu successivamente in Svizzera, Danimarca, Svezia, Finlandia e Stati Uniti, da dove nel 1948 rientrò in Europa, stabilendosi a Berlino Est. Qui, insieme alla moglie Helene Weigel, fondò nel 1949 il Berliner Ensemble, cui dedicò quasi per intero gli ultimi anni. Formatosi nel clima dell’espressionismo patetico e umanitario nonché dei giochi paradossali e provocanti del dadaismo, seppe trovarvi uno spazio poetico autonomo sin dai primi esperimenti originali (i drammi Baal, 1918; Trommeln in der Nacht, 1918-20; Leben Eduards des Zweiten von England, 1924; alcune liriche riunite più tardi nella Hauspostille, 1927), in cui circola una considerazione del mondo e delle cose che è disincantata e nello stesso tempo piena di umana curiosità, una ironia corrosiva che si diverte a demolire i valori più tradizionali della borghesia guglielmina, una ricerca delle ragioni materiali che sollecitano azioni e comportamenti degli individui. Sbocco naturale di tale posizione critica è una prospettiva sociologica, che se da un lato mette a fuoco il tema della massificazione nella società moderna (Im Dickicht der Städte, 1921-24; Mann ist Mann, 1924-26), dall’altro illustra la tesi proudhoniana della proprietà come furto e il processo capitalistico di feticizzazione del denaro (Die Dreigroschenoper, 1928, e Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, 1927-29, nate dal felice incontro con l’estro musicale di Kurt Weill). Della prima egli darà una replica in prosa con il Dreigroschenroman, 1934). Prende anche corpo, in questo periodo, la teoria del teatro epico che Brecht contrappone allo psicologismo tradizionale: con spezzature di vario genere del crescendo drammatico, ne imbriglia gli effetti emotivi e crea un solido margine alla presenza attiva e cosciente delle facoltà razionali dello spettatore. Lo studio del marxismo, e la congiunta espansione dei suoi interessi ideologici, sono documentati dai cosiddetti “drammi didattici” (Das Badener Lehrstück vom Einverständnis, 1929; Der Jasager e Der Neinsager, 1929-30; Die Massnahme, 1930; Die Ausnahme und die Regel, 1930; Die Horatier und die Kuriatier, 1933-34, con la significativa appendice del Verhör des Lukullus, 1939). Ma attraverso l’asciuttezza della Heilige Johanna der Schlachthöfe (1929-31) e della Mutter (1930-32), e mentre le vicende politiche europee dall’avvento del nazismo allo scoppio della guerra gli ispirano opere di appassionata denuncia (Die Rundköpfe und die Spitzköpfe, 1932-34; Die Gewehre der Frau Carrar, 1937; Furcht und Elend des Dritten Reiches, 1935-38; Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui, 1941; Die Gesichte der Simone Machard 1941-43; Schweyk im zweiten Weltkrieg, 1942-43), egli matura quella sintesi di ragioni ideologiche e pienezza espressiva che si riflette non solo nelle conclusive formulazioni teoriche del Kleines Organon fu̇r das Theater (1948), ma anche nella drammatica limpidezza della tarda lirica, nella precisa dialettica dei Flüchtlingsgespräche (1940), e soprattutto nella produzione teatrale degli anni 1937-44 (Leben des Galilei, 1a stesura 1937-39; Mutter Courage und ihre Kinder, 1939; Der gute Mensch von Sezuan, 1938-41; Herr Puntila und sein Knecht Matti, 1940; Der kaukasische Kreidekreis, 1943-44): testi non slegati mai dalle vive occasioni storiche e dalle suggestioni del presente, ma pur capaci di proiettarle (meglio di quanto accada nell’incolore Die Tage der Commune, 1948-49) in una più lunga durata poetica e umana.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
-Interno Poesia Editore-A cura e traduzione di Andrea Sirotti-
Travolgente, disorientante, genuinamente «civile», la poesia di Tishani Doshi arriva per la prima volta in Italia con un libro in cui intimo, pubblico e sacro si intrecciano e danno vita ad una voce unica e originale. Una lingua composita e meticcia, assertiva, non di rado bizzarra, colta e popolare al tempo stesso, ricca di espressioni e parole che raramente trovano cittadinanza in poesia. Una formidabile eloquenza e vitalità in cui i versi liberi, cadenzati, pensati per essere letti ad alta voce, sono disposti con estro e consapevolezza sulla pagina.
Tishani Doshi libro Un dio alla porta–Interno Poesia Editore-traduzione di Andrea Sirotti
Cella
Se anche potessi percorrere i corridoi del tuo corpo, non sapresti in quali stanze entrare, quali siano piene di pietra. Dentro di te c’è tantissima acqua – una catena montuosa a nord per tener lontani gli invasori, un deserto nelle colonie batteriche del sud. Qui ci sono edifici cittadini, ingialliti, senza finestre, occupati nella fabbricazione di vaccini e borse. Qui una doppia elica infilata lungo tutta la tua spina come una sequela di stendardi tibetani. Tra questi avamposti sfrecciano i messaggeri, trasportando tubi di pelle animale, piccioni sulla schiena. C’è chi cavalca arieti, c’è chi viaggia con ombre consorti sui carri attraverso i cieli senza fermarsi una volta a guardare le stelle. Una volta arrivati è quasi sempre lo stesso. Devono togliersi i sandali e aspettare all’ingresso della grotta – la sua piega di pelle, una tenda per intrappolare il vento. Vogliono dirti che i grandi fuochi bruciano ancora, le api non rinunceranno alle loro unioni, il raccolto è sia luna che autunno. Tu non sei sola.
Mandala
Chiunque creda che una foglia sia solo una foglia non coglie il punto. C’è una fotografia in soffitta, un gingko che ingiallisce sempre più, mentre il corpo del gingko rimane sempreverde. Si apre la strada attraverso fumerie d’oppio e bordelli. Ti vorrei dire di non preoccuparti. La realtà sa come sistemare se stessa, ma il panico è contagioso. Lo spavento arriva quando fai i jumping jack o organizzi le posate, in un momento di basso dramma cosmologico. Interrotto dalla scoperta di un nodulo. O dal TG delle 9. Di colpo, ogni maniglia di porta è una sentenza di morte. Quanto si devono essere sentiti soli i primi astronomi, congelati in terrazza, cercando di afferrare la luce di lune lontane. Qualche volta è difficile capire se state rallentando o accelerando. Il trampolino del tempo ci confonde. Cuciamo i nostri giorni e le notti, gli uni alle altre, ed è come ricamare una galassia, ma pure le galassie arretrano l’una dall’altra. Una volta, una donna mi ha suonato il corpo come se fosse un’arpa. Ho dormito su una tavola di legno e lei strimpellava le corde sotto finché non son diventata uno squalo balena, che batte gli oceani. Ne sono riaffiorata come da un tunnel gravitazionale, integra, più o meno. Per giorni ho sentito le pinne al posto delle guance. Parliamo di corpi come se non potessimo comprendere l’universo che hanno dentro, anche se stiamo tutti a bocca aperta davanti al ceppo di un albero e abbiamo capito che il tempo si sposta verso l’esterno in un cerchio. E mentre tutto appare infinito, c’è sempre un anello di una cosa permeabile che ci trattiene dentro. A volte usciamo di casa senza maschera ed è un sollievo fare una pausa da ciò che siamo. Stella nana, campana di preghiera, cervo solitario che si nutre nella ginestra – qualcosa ci terrà uno specchio davanti alla faccia, quando ci serve solo che qualcuno ci porti al piano di sopra.
Macroeconomia
Un uomo siede su un altro se ce la fa. Il cuore di un uomo batte più forte. Un uomo va in miniera perché un altro uomo risplenda. Un uomo muore così la famiglia che vive in cima alla collina può mangiare panini sul prato. Il salvadanaio di un uomo ottiene un bailout. Un uomo rovescia il carretto della verdura di un estraneo. Un uomo resta a casa e gioca a tombola finché tutto questo non si placa. Un uomo si avvia come un pellegrino allo Shambala47, con un bimbo sulle spalle. Un uomo chiede chi andrà fuori a comprare il latte e le uova? La casa di un uomo è oltre l’orizzonte. Un uomo decide di andarci a piedi anche se ci vorranno giorni e notti sull’asfalto con poco cibo e acqua. Un uomo viene fermato per vagabondaggio e costretto a fare piegamenti per penitenza. Un uomo riferisce che i pesci saltano fuori dal mare e succhiano avidamente l’aria. Un uomo mangia la tessera del pane. Uno osserva come gli storni hanno preso il volo come un mal di denti, una bassa fame continua, librandosi attraverso i campi. Un uomo carica la pistola. Un uomo ha in carico l’altalena. Uno vuole ridistribuire le prugne. Uno sa che non esistono pranzi gratuiti. Uno alla fine vede il crepaccio. Uno dà la sua coperta all’uomo seduto nel crepaccio. Uno dice che dovrebbe esserci una tassa per aver fatto una cosa del genere e la riprende. La fossa si allarga.
Forse quello che ti manca sono le cose semplici, che non è l’infanzia, ma quell’uccello rapace che afferra l’aria con gli artigli. Se tu sapessi che non costerebbe nulla tenere le ali aperte come un albatro, che potresti andare per diecimila miglia senza un solo battito d’ali, che deve essere così, questo glissando tra impennata e caduta, potresti impacchettare le tue indignazioni e andare verso la cabina telefonica nel cielo. Un dio alla porta seduto su un bufalo gigante ti offre un sorso di vino per far passare l’amarezza. La tua ultima telefonata è verso il futuro, Stiamo bene, dici. Staremo tutti bene.
Un dio alla porta (Interno Poesia Editore, 2022), cura e traduzione di Andrea Sirotti
DESCRIZIONE
Travolgente, disorientante, genuinamente «civile», la poesia di Tishani Doshi arriva per la prima volta in Italia con un libro in cui intimo, pubblico e sacro si intrecciano e danno vita ad una voce unica e originale. Una lingua composita e meticcia, assertiva, non di rado bizzarra, colta e popolare al tempo stesso, ricca di espressioni e parole che raramente trovano cittadinanza in poesia. Una formidabile eloquenza e vitalità in cui i versi liberi, cadenzati, pensati per essere letti ad alta voce, sono disposti con estro e consapevolezza sulla pagina. Quella di Doshi è una militanza a 360° gradi. Nessuna questione di scottante attualità è esclusa, in India come altrove nel mondo. Le poesie sgorgano dalla cronaca e dalla storia, dalle ultime notizie come dai vecchi rancori e contrapposizioni, lo spunto può essere un articolo di giornale, un video su YouTube, una foto, un dipinto, un libro. Poesie sempre pronte a denunciare le disuguaglianze, il mancato rispetto dei diritti civili. Tra i temi ricorrenti: la condizione della donna, le diseguaglianze economiche e sociali, le trasformazioni esistenziali in tempo di Covid, le relazioni sentimentali, la malattia, le difficoltà quotidiane del singolo individuo; il tutto mediato dalla contrapposizione di due visioni del mondo, tra laica indifferenza e fanatismo religioso, tra spiritualità e materialismo.
Autore: Tishani Doshi
Curatela e traduzione: Andrea Sirotti
Collana: Interno Books
ISBN: 978-88-85583-71-9 Data di pubblicazione: 1 giugno 2022
Pagine: 236
Formato: 15×21 cm
Cell
Even if you could walk through the corridors
of your body, you would not know which rooms
to enter, which were full of stone. Inside you
there is so much water —a mountain range
in the north to stave off invaders, a desert
in the bacterial colonies of the south. Here
are city buildings, yellowed, without windows,
busy with the making of vaccines and handbags.
Here a double helix strung up the length
of your spine like a flurry of Tibetan prayer flags.
Between these outposts the messengers dart,
carrying tubes of animal hide, pigeons on their backs.
Some ride rams, some travel with consort shadows
in chariots across the skies without once stopping
to look at stars. When they arrive it is almost always
the same. They must remove their sandals and wait
by the mouth of the cave —its fold of skin,
a curtain to trap the wind. They want to tell
you the great fires are still burning, the bees
won’t give up their unions, the harvest is both
moon and autumn. You are not alone.
Mandala
Anyone who believes a leaf is just a leaf is missing
the point. In the attic, there’s a picture of gingko
growing steadily yellow, while the body
of gingko remains evergreen. He works his way
through opium dens and bordellos. I’d like to tell you
not to worry. Reality has a way of sorting itself out,
but panic is infectious. The scare arrives when you’re doing
jumping jacks or organising the cutlery, some moment of low
cosmological drama. Interrupted by the discovery of a lump.
Or the 9 o’clock news. Suddenly, every door handle is a death
sentence. How lonely it must have been for the first astronomers,
freezing on their terraces, trying to catch the light of faraway moons.
Sometimes it’s hard to know whether you’re slowing down
or speeding up. Time’s wobbly trampoline confuses us.
We stitch our days and nights, one to the other,
and it’s like embroidering a galaxy, but even galaxies
recede from one another. Once, a woman played my body
as though it were a harp. I slept on a wooden plank
and she strummed the strings below until I became
a whale shark, pounding through the oceans. I emerged
as if out of a wormhole, more or less intact. For days I felt fins
where my cheeks should have been. We talk of bodies
as though we could not understand the universe within them,
even though we’ve all gaped at the stump of a tree
and understood that time moves outwards in a circle.
And while everything seems endless, there’s always a ring
of something permeable holding us in. Sometimes we leave
the house without our masks and it’s a relief to take a break
from who we are. Dwarf star, prayer bell, lone stag
feeding in the gorse—something will hold a mirror
to our faces, when all we need is to be led upstairs.
Macroeconomics
One man sits on another if he can.
One man’s heart beats stronger. One man goes
into the mines for another man to sparkle.
One man dies so the family living at the top of the hill
can eat sandwiches on the lawn. One man’s piggy bank
gets a bailout. One man tips over a stranger’s vegetable cart.
One man stays home and plays tombola till all this blows over.
One man hits the road like a pilgrim to Shambala, child
on shoulders. One man asks who’s going to go out and buy
the milk and eggs? One man’s home is across the horizon.
One man decides to walk there even though it will take days
and nights on tarmac with little food and water.
One man is stopped for loitering and made to do squats
for penance. One man reports fish are leaping
out of the sea and sucking greedily from the air.
One man eats his ration card. One man notices how starlings
have taken to the skies like a toothache,
a low continuous hunger, searing across the fields.
One man loads his gun. One man’s in charge of the seesaw.
One man wants to redistribute the plums. One man knows
there’s no such thing as a free lunch. One man finally sees
the crevasse. One man gives his blanket to the man
sitting in the crevasse. One man says there should be a tax
for doing such a thing and takes it back. The ditch widens.
Maybe what you miss is what’s simple,
which isn’t childhood, but that bird
of prey holding the air with its claws.
If you knew it would cost nothing
to keep your wings open like an albatross,
that you could go ten thousand miles without
a single flap, that it has to be this way,
this glissando between soaring and falling,
you could pack up your indignations
and move towards the phone booth
in the sky. A god at the door sitting
on a giant buffalo offers you a sip
of wine to make the bitterness go away.
Your final phone call is to the future,
We’re fine, you say. We’re all going to be just fine.
Autore: Tishani Doshi
Curatela e traduzione: Andrea Sirotti
Collana: Interno Books
ISBN: 978-88-85583-71-9 Data di pubblicazione: 1 giugno 2022
Pagine: 236
Formato: 15×21 cm
CHIETI – Il 2025 vedrà il lancio del prestigioso progetto “Casanova 300”, ideato per celebrare il tricentenario della nascita di Giacomo Casanova, una delle figure più affascinanti e poliedriche del XVIII secolo.
Il Direttore Scientifico del progetto culturale é il Prof. Pierfranco Bruni, curatrice delle pubblicazioni Franca De Santis, presidente di “Terra dei Padri”. Invece, il logo ufficiale è stato ideato da Anna Montella.
Il progetto “Casanova 300” mira a esplorare e valorizzare l’eredità culturale di Giacomo Casanova attraverso una serie di iniziative che spaziano dalla ricerca accademica alla divulgazione culturale, passando per eventi artistici e mostre. Saranno organizzati convegni, tavole rotonde, esposizioni e pubblicazioni dedicate alla vita e alle opere di Casanova, con l’obiettivo di offrire una visione innovativa e approfondita del celebre avventuriero, scrittore e diplomatico.
Un punto di forza del progetto sarà l’assegnazione del prestigioso Premio Terra dei Padri, edizione 2025, che si inserisce all’interno delle celebrazioni di “Casanova 300”. Il premio sarà conferito a personalità, istituzioni e studenti che si sono distinte nel campo della cultura, della letteratura e delle arti, in linea con lo spirito e l’eredità di Casanova.
Il progetto “Casanova 300” si distingue per il coinvolgimento di esperti di altissimo livello. Sotto la direzione scientifica del Prof. Pierfranco Bruni, rinomato studioso di letteratura e storia, la curatela di Franca De Santis, e il design innovativo di Anna Montella, l’iniziativa promette di offrire un’esperienza culturale e intellettuale di un certo spessore.
Il progetto è supportato dalla Casa Editrice Solfanelli e dal Gruppo Tabula Fati, che garantiranno la pubblicazione e la diffusione delle opere legate al progetto
Per ulteriori informazioni e aggiornamenti sul progetto “Casanova 300” e sul Premio Terra dei Padri edizione 2025, si prega di contattare l’indirizzo e-mail casanova300@blu.it.
Diane di Prima (Brooklyn, 6 agosto 1934- 25 ottobre 2020), poetessa statunitense della Beat Generation. Nata a Brooklyn, ha studiato allo Swarthmore College; di origini italiane (suo nonno materno, Domenico Mallozzi, è stato un attivo anarchico) cominciò a scrivere da bambina e a diciannove anni conobbe Ezra Pound e Kenneth Patchen.
Abbandonate…
Abbandonate a se stesse, le persone si fanno crescere i capelli.
Abbandonate a se stessesi tolgono le scarpe.
Abbandonate a se stesse fanno l’amore
dormono facilmente
dividono coperte, droga e bambini
non sono pigre o impaurite
piantano semi, sorridono, parlano fra loro. La parola
comincia dentro se stessa: tocco di amore
nel cervello, nell’orecchio.
Ritorniamo con il mare, con le maree
ritorniamo spesso come le foglie, numerosi
come l’erba, gentile e insistente, ricordiamo
il modo in cui i nostri piccoli muovono i primi passi a
piedi nudi attraverso le città
dell’universo.
*
Lettera Rivoluzionaria #1
Ho appena capito che il premio sono io
non ho altro
denaro per riscatto, nient’altro da spezzare o scambiare che la vita
il mio spirito dosato, frammentario, sparso
sul tavolo della roulette, ripago quanto posso
nient’altro da ficcare sotto il naso del maitre de jeu
nulla da spingere fuori dalla finestra, niente bandiare bianche
questa carne è tutto ciò che ho da offrire, fare il gioco con
questa testa qui e ora, e quello che vien dietro, la mia mossa
mentre strisciamo sopra questo bordo, proseguendo sempre
(si spera) fra le righe.
*
Requiem
Penso
che troverai
una tomba
non così bella
baby oh
Ti legano stretta
nel bel
vestito
Ascolto
È freddo
e i vermi e le cose
sono là per ragioni egoistiche
Penso
che tu vorrai
girarti
dalla tua parte
ai tuoi capelli
non piacerà
rimanere a posto
per sempre
ed alle tue mani
non piacerà
essere poste in croce
così
Io penso
che alle tue labbra
non piacerà
per loro stesse
La prima neve,Kerhonkson
per Alan
Questo, quindi, è il dono che il mondo mi ha fatto
(che mi hai fatto)
dolcemente la neve
ammonticchiata in cavità
distesa sulla superficie dello stagno
accoppiata alle mie lunghe, bianche candele
che stanno alla finestra
che brucerà al crepuscolo mentre la neve
riempie la nostra valle
in questa conca
nessun amico vagabonderà
nessuno arriva depresso dal Messico
dai campi di sole della California, portando marijuana
sono dispersi adesso, morti o silenziosi
o inariditi sino alla follia
dalla terribile lucentezza della visione che un tempo ci accomunava
e questo tuo dono –
bianco silenzio che riempie i contorni della mia vita.
Un esercizio d’amore
per Jackson Allen
Il mio amico indossa la mia sciarpa alla cintola
Gli dò le pietre lunari
Lui mi dà una conchiglia & alghe marine
Proviene da una città lontana & gli vado incontro
Pianteremo insieme melanzane & sedano
Lui tesse per me un panno
Molti hanno portato dei doni
Io per il suo piacere uso
seta, & verdi colline
& airone il colore dell’alba
Il mio amico cammina leggero come una tessitura al vento
Lui retroillumina i miei sogni
Ha costruito altari accanto al mio letto
Mi sveglio con l’odore dei suoi capelli e non riesco a ricordare
il suo nome, o il mio.
Canzone buddhista di Capodanno
Ti ho visto in velluto verde, maniche larghe e piene
seduto di fronte a un camino, la nostra casa
resa in qualche modo più elegante, e hai detto
“Nei tuoi capelli ci sono le stelle” – era la verità che
ho rovesciato in me
verso questo luogo tetro e scolorito che dobbiamo indorare
rendere prezioso e mitico in qualche modo, è la nostra natura,
ed è la verità, che siamo approdati qui, te l’ho detto,
da altri pianeti
dove eravamo signori, siamo stati inviati qui,
per qualche scopo
la maschera d’oro che avevo visto prima, che è combaciata
così splendidamente col tuo viso, non è ritornata
né lo ha fatto quel volto di un toro che avevi acquistato
tra le genti del nord, i nomadi, nel deserto del Gobi
Non ho visto di nuovo quelle tende, né i carri
infinitamente lenti sulle pianure infinitamente ventose,
così fredde, ogni stella nel cielo era di un colore diverso
il cielo stesso un arazzo ingarbugliato, incandescente
ma potevo quasi vedere il pianeta da cui eravamo venuti
Non riuscivo a ricordare (allora) quale fosse il nostro scopo
ma rammentavo il nome Mahakala, all’alba
all’alba di fronte a Shiva, la luce gelida
ha rivelato i mondi “partoriti dalla mente”, come questo semplicemente,
Li ho visti propagarsi, defluire,
o, più semplicemente, uno specchio che ne riflette un altro.
poi si sono rotti gli specchi, non eri più in vista
né c’era scopo alcuno, fissavi lo sguardo su questa nuova tenebra
i mondi partoriti dalla mente svanirono, e la mente si diramò:
una follia, o un inizio?
“City Lights” 1961 *
Arrivando lì per la prima volta
era molto più piccolo allora
quel pianterreno affollato pieno di poesia
traboccava di logore rivistine addossate al muro
quei bianchi tavoli traballanti dove la gente si sedeva a leggere/scrivere
Il Vesuvio Cafe era come un ufficio aggiunto
Arrivando di nuovo un anno dopo, con due bambini al seguito
Lawrence mi diede una pila enorme delle sue pubblicazioni
“Ho dei libri” disse “come altre persone hanno i topi”
E North Beach non ha mai smesso di essere misteriosa
quando mi sono trasferita qui nel 1968
quell’ufficio editoriale di Filbert & Grant era una mecca
un posto per incontrarsi con i miei figli se ci fossimo separati
durante una di quelle innumerevoli manifestazioni
(sebbene Lawrence preoccupato, mi dicesse che avrei dovuto tenerli
fuori pericolo, a casa) io pensavo che dovessero imparare
qualsiasi cosa di ciò che stavamo imparando,
Un ufficio proprio dietro l’angolo del negozio di perline
dove mi sono trovata ogni giorno, facendo provviste
Quante notti sul tardi abbiamo visitato il Negozio
acquistando una grande quantità di nuove poesie da tutti gli angoli della terra
poi diretti verso la rivendita della Tower Records tutta la notte piena di travestiti
e rivoluzionari, per acquistare qualche disco
E fare ricerche, City Lights è ancora qui, come un vecchio faro
anche se tutto il resto è andato,
la poesia si è spostata al piano di sopra, pure l’ufficio editoriale
è proprio lì ora & folle di persone
un terzo della mia età o meno ancora consultano le pile di testi
alla ricerca di voci da tutte le parti
del mondo
* “City Lights” è la celebre libreria e casa editrice di Lawrence Ferlinghetti a San Francisco
Lilith delle Stelle
perché c’è un’altra Lilith, non fatta per la terra
di chi si è detto / che quando lei viene vista dagli uomini
è come una visione di fumo / una piaga / una cacofonia
di sole campane / sforzate e straniere, loro inseguono
il suo immateriale scorrere attraverso questo mondo
e il prossimo. Lei è, infatti, l’archetipica
cattiva ragazza delle stelle
sarà il fuoco fatuo dello spazio vuoto
la stagnante luce cosmica dalle sfere celesti
che ci alletta, la nostra casa
per vagare, per sempre, tra i quasar
in opposizione al Suono dei Cristalli Armoniosi
fiore del tempio dell’abisso
Verricello
su cui si è ferita
quella speranza
smisurata.
Nave-Che-Gira-Ad-Un-Angolo
Bianca Ragazza che Salta sopra le Lapidi
Lilith delle Stelle
perché c’è un’altra Lilith, non fatta per la terra
di chi si è detto / che quando lei viene vista dagli uomini
è come una visione di fumo / una piaga / una cacofonia
di sole campane / sforzate e straniere, loro inseguono
il suo immateriale scorrere attraverso questo mondo
e il prossimo. Lei è, infatti, l’archetipica
cattiva ragazza delle stelle
sarà il fuoco fatuo dello spazio vuoto
la stagnante luce cosmica dalle sfere celesti
che ci alletta, la nostra casa
per vagare, per sempre, tra i quasar
in opposizione al Suono dei Cristalli Armoniosi
fiore del tempio dell’abisso
Verricello
su cui si è ferita
quella speranza
smisurata.
Nave-Che-Gira-Ad-Un-Angolo
Bianca Ragazza che Salta sopra le Lapidi
(dal web)
Breve biografia di Diane di Prima (Brooklyn, 6 agosto 1934- 25 ottobre 2020), poetessa statunitense della Beat Generation. Nata a Brooklyn, ha studiato allo Swarthmore College; di origini italiane (suo nonno materno, Domenico Mallozzi, è stato un attivo anarchico) cominciò a scrivere da bambina e a diciannove anni conobbe Ezra Pound e Kenneth Patchen. Fino al 1960 ha vissuto a Manhattan, dove ha preso parte al movimento beat; la sua prima raccolta poetica, This Kind of Bird Flies Backwards, fu pubblicata nel 1958 dalla Totem Press, di Hettie e LeRoi Jones. Nel 1962 conobbe il maestro Zen Suzuki Roshi, grazie al quale si avvicinò al buddhismo. Fondatrice della Poets Press, con Amiri Baraka (LeRoi Jones) ha pubblicato The Floating Bear e fondato il New York Poets Theatre. Nel 1966 si è trasferita a Millbrook, entrando nella comunità psichedelica di Timothy Leary e nel 1969 ha pubblicato il racconto della sua esperienza beat in Memoirs of a Beatnik; trasferitasi nel 1970 in California, dove vive tuttora, qui è entrata a far parte del movimento Diggers ed ha pubblicato il suo lavoro maggiore, il poema Loba, nel 1978. Una selezione di sue poesie è stata raccolta in Pieces of a Song, nel 1990, mentre del 2001 sono le sue memorie, Recollections of My Life as a Woman. (Wikipedia)
Theodor W. Adorno e le “piaghe” dei movimenti fascisti-
Theodor W. Adorno e le “piaghe” dei movimenti fascisti-Articolo di Sergio Paolo Ronchi-Un inedito sulla dimensione “spettrale” della nuova destra–La contemporaneità trascende il tempo: è l’“attualità” della storia. Ne è limpido esempio un testo di Theodor W. Adorno datato 1967: Aspetti del nuovo radicalismo di destra; sette pagine di appunti e parole-chiave “tradotte” in una conferenza semisconosciuta (conservata solo in forma orale) presso l’Università di Vienna, ora in edizione italiana per i tipi della Marsilio, basata su una registrazione, con una postfazione dello storico tedesco Volker Weiss*.
Esponente di punta insieme a Max Horkheimer della cosiddetta «Scuola di Francoforte», l’Istituto per la ricerca sociale, Adorno intendeva «chiarire a un uditorio austriaco l’emergere nella Repubblica Federale Tedesca dell’NPD [Partito nazionaldemocratico di Germania], fondato nel 1964, il quale registrava significativamente un certo successo come gruppo dell’area di destra». Non poteva certo prevederne la sconfitta alle elezioni federali di due anni dopo. Egli intendeva richiamare l’attenzione sul nazionalsocialismo in un contesto che registrava lo svilupparsi di una formazione politica di destra radicale. «A Vienna – sottolinea Weiss – Adorno non parlava solo in qualità di analista critico della situazione ma anche come testimone del tempo». «La lettura del discorso – prosegue – richiede dunque di distinguere tra ciò che è condizionato dal contesto e ciò che è essenziale. È necessario mettere in relazione l’attualità che produce un effetto profetico con il nucleo storico della sua verità».
Le parole del filosofo tedesco, articolate in una puntuale argomentazione analitica, sono tese a mettere in luce e a collegare quei varî elementi sovracronologici carichi di attualità su cui riflettere con estreme sensibilità e attenzione. Una conferma di quanto esposto in una conferenza del 1959, Che cosa significa elaborazione del passato. In essa, scrive, «ho illustrato la tesi secondo cui il radicalismo di destra, o il potenziale di un radicalismo di questo genere, può essere spiegato con il fatto che, oggi come allora, continuano a sussistere le premesse sociali del fascismo. Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico».
Tra le premesse, in prima fila è la «tendenza del capitale alla concentrazione», cifra dello «spettro della disoccupazione tecnologica» che induce alla paura di perdere il proprio status sociale. Poi, il problema del nazionalismo dal «carattere agonistico» comune anche al radicalismo di destra. Il quale si esprime in movimenti «dal basso livello spirituale» o del tutto privi di presupposti teorici: «Sono in linea di principio solo tecniche di potere e non derivano affatto da teorie ben articolate». Al contrario, loro peculiarità è «una straordinaria perfezione dei mezzi, innanzitutto quelli propagandistici in senso lato, combinati con una certa cecità, addirittura un’astrusità degli scopi che vengono perseguiti. In questi movimenti la propaganda costituisce la sostanza della politica»: la verità viene messa al servizio della non-verità decontestualizzando «osservazioni in sé vere e corrette».
Sotto attacco vengono così a trovarsi la cultura in senso lato e gli intellettuali di sinistra – espressioni del «rifiuto dell’argomentazione razionale e del pensiero basato sul discorso». Poi, la ricerca di un capro espiatorio. E qui ci si trova sul terreno dell’antisemitismo, «uno degli “assi della piattaforma”. Se così si può dire, è sopravvissuto agli ebrei, e su questo si basa la sua forma spettrale. Si rifiuterà soprattutto il senso di colpa attraverso una razionalizzazione. Si dirà: “Devono pur aver fatto qualcosa, altrimenti non li avrebbero uccisi». Adorno invoca l’espressione tedesca “metodo del salame”: una questione complessa viene “affettata” fino a banalizzarla. In forza di tale «pedanteria pseudoscientifica» si arriverà persino a mettere in dubbio i numeri della Shoah.
Per fronteggiare detto problema «altamente reale e politico» rappresentato dalla destra radicale, «si deve lavorare contro di esso con la forza d’urto della ragione, con una verità realmente a-ideologica».
Fonte- RIFORMA.IT
* Theodor W. Adorno, Aspetti del nuovo radicalismo di destra. Venezia, Marsilio, 2020, pp. 100, euro 12.00.
Editore Marsilio
Vienna-Il 6 aprile 1967Theodor Adorno tenne una conferenza all’Università di Vienna il cui valore va ben oltre l’aspetto puramente storico e che può aiutarci a comprendere il tempo che stiamo vivendo. Risalendo alle origini del consenso ottenuto dai movimenti radicali di destra, il filosofo intendeva chiarire le ragioni dell’ascesa dell’NPD, formazione di destra che all’epoca stava registrando un certo successo nella Repubblica Federale Tedesca. Adorno mette in luce e collega tra loro in modo inedito vari elementi: il congegno sofisticato della propaganda e l’antisemitismo, il connubio tra perfezione tecnologica e un «sistema folle», l’individuazione di un capro espiatorio e l’odio ostentato verso gli intellettuali di sinistra e la cultura in generale, la tendenza del capitale alla concentrazione e la paura diffusa di perdere il proprio status sociale. Oggi lo «spettro» a cui la conferenza è dedicata non solo non si è dissolto, ma assume nuove e inquietanti sembianze. Diventa dunque ancora più importante prendere coscienza dei meccanismi dell’agitazione fascista e dei fondamenti psicologici e sociali su cui poggia. Nella consapevolezza che «se si vogliono affrontare sul serio queste cose, bisogna richiamare in modo perentorio gli interessi di coloro ai quali la propaganda si rivolge. Ciò vale soprattutto per i giovani che devono essere messi in guardia». La postfazione dello storico Volker Veiss contestualizza il testo e lo inquadra in una prospettiva attuale.
Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana.
Editore Einaudi
Descrizione del libro Gli uomini di Mussolini-Al termine della Seconda guerra mondiale molti tra i più alti vertici dell’esercito o degli apparati di forza del fascismo furono accusati di omicidi e torture, ma nessuno venne mai processato o epurato. Nessuno fu mai estradato all’estero o giudicato da un tribunale internazionale. Diversi di loro furono invece coscientemente reintegrati nei loro posti di responsabilità, dando corpo a quella «continuità dello Stato» che rappresentò una pesante ipoteca sull’Italia repubblicana. Attraverso l’analisi di una gran mole di documenti, Conti ricostruisce le vicende personali e i profili militari di alcuni dei principali funzionari del regime di Mussolini e illumina uno dei passaggi più appassionanti e controversi della nostra storia.
Mussolini-Uomo politico (Dovia di Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra, Dongo, 1945). Socialista, si andò staccando dal partito, fino a fondare i Fasci da combattimento (1919). Figura emergente nell’ambito del neoformato Partito nazionale fascista, subito dopo la “marcia su Roma” (1922) venne incaricato dal re della formazione del governo, instaurando nel giro di pochi anni un regime dittatoriale. In politica internazionale M. affrontò l’esperienza coloniale in Etiopia, si fece coinvolgere dai buoni rapporti con la Germania di Hitler nella persecuzione degli Ebrei, fino poi alla partecipazione al conflitto mondiale. I pessimi risultati bellici portarono il Gran Consiglio a votare la mozione Grandi presentata contro di lui (1943). Arrestato, fu liberato dai Tedeschi e assunse le cariche di capo dello Stato e del governo nella neonata Repubblica sociale. Alla fine della guerra fu catturato e fucilato dai partigiani per ordine del Comitato di liberazione nazionale. Dominò la storia italiana per oltre un ventennio, divenendo negli anni del suo potere una delle figure centrali della politica mondiale e incarnando uno dei modelli dittatoriali fra le due guerre.
LA DISFIDA DI BARLETTA E’ STATA COMBATTUTA A TRANI
L’ANTEFATTO. LE MIRE EPANSIONISTICHE FRANCESI SULL’ITALIA
Nel 1494 il nuovo Re di Francia, Carlo VIII di Valois, che ha solo 24 anni, vuole estendere il suo Regno. Pertanto, il 3 settembre “cala” in Italia con un potente esercito di 30.000 uomini (8.000 dei quali sono mercenari svizzeri), dotato anche di artiglieria moderna, guidato da Louis de la Trémoille, vantando diritti di successione, da parte della nonna paterna Maria D’Angiò, sul Regno di Napoli, governato da un ramo collaterale degli Aragona, sovrani di Spagna e di Sicilia.
La conquista del regno napoletano gli serve come base di partenza per una Crociata per riconquistare Gerusalemme, di cui probabilmente ambisce a diventare Re.
In Piemonte si ferma ad Asti dove riceve l’omaggio dei suoi “sostenitori” italiani, compreso Ludovico Sforza, detto Il Moro, reggente del Ducato di Milano, di cui qualche mese dopo, in seguito alla morte di Gian Galeazzo Sforza (probabilmente per avvelenamento), diventa Duca, con il sostegno del Re francese.
Carlo VIII marcia quindi verso Firenze, che era tradizionalmente filo francese, ma Piero de’ Medici (figlio di Lorenzo, detto Il Magnifico) si era schierato in difesa degli Aragonesi, sovrani di Napoli. Pertanto il Re francese attacca e saccheggia alcune cittadine toscane costringendo Piero de’ Medici a cedere altre città, tra le quali Pisa e Livorno. Questo cedimento induce la popolazione fiorentina, dopo la partenza dei Francesi, a cacciare Piero ed a proclamare la Repubblica.
Carlo VIII marcia poi verso Roma, dove entra pacificamente il 31 dicembre, dopo aver fatto un accordo con il Papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, di origine spagnola). Ciononostante, la città è saccheggiata dalle truppe francesi. Il Papa concede a Carlo VIII il passaggio nello Stato pontificio verso il Regno di Napoli, affiancandogli come Legato (rappresentante) pontificio il figlio Cesare Borgia (che è diventato Cardinale in giovane età).
Il Re francese, nella sua marcia verso il Regno napoletano, conquista altre città, che sono saccheggiate e la popolazione è in gran parte trucidata.
Il 22 febbraio 1495 entra a Napoli senza combattere dato che il Re aragonese Ferdinando II, detto Ferrandino, è fuggito con la Corte. Dopo pochi giorni Carlo VIII si fa incoronare Re. Però a maggio il popolo napoletano insorge contro i Francesi, che sono costretti a lasciare la città ed a ritornare in patria.
La facilità e la rapidità con la quale il Re francese era arrivato a Napoli e l’aveva conquistata, compiendo lungo il suo cammino efferate violenze sulla popolazione delle città conquistate, portano il 31 marzo 1495 alla costituzione di una Lega Santa antifrancese da parte del Sacro Romano Impero, della Spagna, del Papato, della Repubblica di Venezia e del Ducato di Milano. Quindi, il 6 luglio 1495 l’esercito della Lega sconfigge a Fornovo il Re francese, mentre sta tornando in patria.
Finisce così la prima di una serie di guerre condotte in Italia dalle grandi Potenze continentali (soprattutto Francia e Spagna) per la spartizione del territorio italiano, comunemente dette “guerre d’Italia” e definite “orrende” da Niccolò Macchiavelli, che cessano nel 1559 con la Pace di Cateau-Cambrésis, che cambia profondamente la geografia politica della penisola italiana.
Nel 1498 Carlo VIII muore senza eredi, a soli 27 anni, e gli succede il cugino Luigi XII di Valois-Orléans, detto Il Padre del Popolo, il quale, con un accordo con il Papa Alessandro VI, ottiene l’annullamento del matrimonio con Giovanna di Valois e sposa la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, acquisendo così i diritti di successione sul Ducato di Bretagna.
Luigi XII persegue la politica espansionistica del suo precedessore e ben presto rivendica il possesso del Ducato di Milano in quanto Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo, era sua nonna.
Però, per evitare i “problemi politici” che Carlo VIII aveva avuto in Italia, prima di venire nel nostro Paese Luigi XII stipula una serie di accordi diplomatici, che gli assicurano il sostegno alla sua pretesa di ottenere il Ducato di Milano.
Per primo ottiene l’appoggio del Papa Alessandro VI, donando nel 1498 a Cesare Borgia, figlio del pontefice, la Contea di Valentinois, che viene eretta in Ducato (pertanto Cesare assume il soprannome di Valentino) e gli concede anche di sposare la nobile Charlotte d’Albret, sorella del Re di Navarra Giovanni II. Inoltre promette di appoggiare il progetto di Cesare di riconquistare la Romagna, dove i feudatari locali si sono ribellati al potere papale.
Inoltre il 2 febbraio 1499 Luigi XII stipula a Blois un trattato con la Repubblica di Venezia concedendo alla Serenissima le città di Cremona e di Chiara d’Adda.
Infine, il 16 marzo 1499 stipula un Trattato con i Cantoni svizzeri, concedendo ad essi la Contea di Bellinzona (il Canton Ticino).
Dopo questi accordi Luigi XII viene in Italia con un forte esercito e conquista Genova. Inizia così la Seconda guerra italiana (detta anche “Guerra italiana di Luigi XII” o “Guerra per il Regno di Napoli”), che si conclude il 31 gennaio 1504 con l’Armistizio di Lione tra Luigi XII ed il sovrano spagnolo Ferdinando II d’Aragona.
Il 2 settembre 1499 i Francesi, guidati da Gian Giacomo Trivulzio, espugnano Milano e Ludovico Sforza, detto Il Moro, ripara in Tirolo, protetto dall’Imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo, che è il marito di sua nipote Bianca Maria Sforza.
Nel marzo 1500 Ludovico Il Moro riesce a riprendere il possesso di Milano con l’aiuto delle truppe imperiali, ma il 10 aprile 1500 è costretto dai Francesi a riparare a Novara, dove è tradito dai mercenari svizzeri che lo consegnano ai Francesi, che lo portano in Francia, dove muore nel 1508.
Dopo la conquista di Milano, l’esercito francese, con Cesare Borgia che è diventato luogotenente di Luigi XII, scende in Romagna.
Intanto, il Papa Alessandro VI invia ai feudatari di Camerino, Faenza, Forlì, Imola, Pesaro e Urbino una lettera dichiarandoli decaduti dai loro feudi, che li invita a restituire allo Stato Pontificio. Naturalmente nessun feudatario obbedisce all’ingiunzione del Papa e quindi inizia la guerra, che è molto cruenta. La prima città conquistata da Cesare Borgia è Imola, l’11 dicembre 1499. Poi cade Forlì, che è saccheggiata dalle truppe mercenarie, che compiono violenze sulla popolazione.
Dopo aver riconquistato tutti i feudi, Il Valentino riceve dal padre, il Papa Alessandro VI, il titolo di Duca di Romagna.
In seguito, Il Valentino scampa ad una congiura. Per vendicarsi invita, singolarmente, per la pacificazione, tra il 31 dicembre 1500 ed il 18 gennaio 1501, i congiurati nel suo castello di Senigallia e li fa uccidere. La “strage di Senigallia” è raccontata da Niccolò Macchiavelli nella sua opera principale Il Principe.
Però, nel 1503, morto il Padre Alessandro VI, che lo proteggeva, il nuovo Papa Giulio II fa arrestare Cesare Borgia e riprende il possesso della Romagna. Cesare Borgia riesce ad evadere e si rifugia in Spagna, dal cognato Giovanni d’Albert, Re di Navarra, dove muore nel 1507 durante una guerra locale.
IL TRATTATO DI GRANADA TRA LA FRANCIA E LA SPAGNA
PER LA SPARTIZIONE DEL REGNO DI NAPOLI
Il 10 ottobre 1500, nel castello di Chambord il Re francese Luigi XII firma il Trattato (segreto) di Pace e di Alleanza con i sovrani spagnoli Ferdinando II d’Aragona, detto Il Cattolico (che è anche Re di Sicilia), e sua moglie (nonché sua cugina) Isabella di Castiglia, per la spartizione del Regno di Napoli (che è il Regnum Siciliae citra Pfharum, cioè la parte del Regno di Sicilia al di qua del Faro, cioè dello Stretto di Messina). L’accordo è giustificato dalla necessità di combattere uniti contro i Turchi, che scorrazzano nel Mediterraneo.
Il Trattato, ratificato dai sovrani spagnoli l’11 novembre 1500 nel palazzo dell’Alhambra di Granada, strappato agli Arabi nel 1492, prevede l’assegnazione alla Francia delle regioni continentali settentrionali del Regno di Napoli, cioè la Campania e gli Abruzzi, ed alla Spagna di quelle meridionali, cioè la Calabria e le Puglie.
Il Trattato prevede inoltre la spartizione al 50% degli introiti della Dogana delle pecore di Puglia (Duana pecorum Apuliae) ubicata a Foggia, al termine del “tratturo” più importante per la “transumanza” degli ovini dall’Abruzzo alle Puglia, che parte da Celano.
Ferdinando II, Re di Aragona, mira in questo modo ad eliminare la dinastia collaterale aragonese che governa il Regno di Napoli con Federico I d’Aragona, zio del Re Ferdinando II (Ferrandino), morto nel 1496, ed ad unirlo al Regno di Sicilia.
Il 25 giugno 1501 il Pontefice Alessandro VI emana una Bolla papale con la quale dà il proprio assenso al Trattato e scomunica il Re napoletano Federico I, accusandolo di aver fatto un accordo con i Turchi, il quale, quindi, è dichiarato decaduto dal Regno. Molto probabilmente, nella decisione del Papa influisce la decisione della Principessa di Taranto Carlotta d’Aragona, figlia di Federico I, di aver rifiutato di sposare Cesare Borgia, annullando l’ambizioso progetto del Pontefice di mettere il figlio sul trono napoletano.
Quando i Francesi invadono da Nord il Regno di Napoli, il Re Federico I, essendo all’oscuro del Trattato di Granada, chiede aiuto al cugino Ferdinando II, il quale, invece, invade con le sue truppe il Regno di Napoli da Sud. A questo punto, Federico I capisce il tradimento ordito dal cugino Ferdinando II.
Il 19 luglio 1501 Cesare Borgia, con l’esercito francese, assedia Capua, che e conquistata dopo 7 giorni grazie al tradimento di un cittadino, corrotto da IlValentino, che apre le porte della città all’orario stabilito, consentendo alle truppe francesi e papali di entrare, massacrando la guarnigione militare e la popolazione.
Il Re napoletano Federico I cerca di trattare la resa, invano. Poi abdica in favore del Re francese. Così, il 19 agosto i Francesi entrano a Napoli e Luigi XII diventa Re di Napoli (Rex Neapolis). Poi ritorna in Francia, nominando come Viceré il nobile Louis d’Armagnac, Duca di Nemours. Inizia così il lungo periodo dei Viceré di Napoli: dal 1501 al 1504 sotto la Corona francese; da 1504 al 1707 sotto la Corona spagnola; dal 1707 al 1734 sotto gli Asburgo d’Austria.
Il 6 settembre 1501 Federico I d’Aragona parte per la Francia, scortato da alcuni suoi fidati cavalieri (mercenari), tra i quali Ettore Fieramosca. Nel maggio 1502, come compenso per la sua rinunzia al Regno di Napoli, ottiene dal Re francese Luigi XII il titolo di Duca d’Angiò. Muore il 9 novembre 1504. La dinastia degli Aragonesi di Napoli si estingue nel 1550.
Il 13 ottobre 1501, con il Trattato di Trento, stipulato dal Re francese Luigi XII e dall’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, quest’ultimo riconosce il possesso francese nell’Italia settentrionale (Ducato di Milano e Genova, occupati nel 1499).
LA GUERRA TRA I FRANCESI E GLI SPAGNOLI PER IL REGNO DI NAPOLI
Ben presto scoppiano dissidi tra la Francia e la Spagna sulla spartizione del Regno di Napoli, in base al Trattato di Granada, in particolare sulla definizione dei confini tra alcune delle 12 Provincie del Regno. Sicuramente, un altro motivo di contrasto è la spartizione delle immense entrate della Dogana delle pecore di Foggia, che ammontano a 160.000-200.000 ducati l’anno.
Pertanto inizia, nell’estate 1502, la guerra. Le truppe francesi sono comandate da Louis d’Armagnac, mentre quelle spagnole sono sotto il comando di Gonzalo (Consalvo) Fernandez de Cordoba (Cordova).
Al conflitto partecipano numerosi cavalieri italiani, che combattono come “mercenari”, nelle Compagnie di Ventura, “al soldo” degli Spagnoli. Alcuni di questi erano stati “ingaggiati” dal precedente Re di Napoli Federico I d’Aragona. In particolare c’è la Compagnia del Capitano di ventura Prospero Colonna e del cugino Fabrizio, Conte di Tagliacozzo (poi Duca dal 1504), della quale fanno parte Ettore Fieramosca (originario di Capua), Giovanni Capoccio (originario di Tagliacozzo) e Fanfulla da Lodi, i quali partecipano con altri 10 cavalieri italiani alla “disfida di Barletta” del 13 febbraio 1503, combattuta contro altrettanti 13 cavalieri francesi, che li hanno accusati di “codardia”.
LA DISFIDA DI BARLETTA
All’inizio di gennaio 1503, in uno scontro a Canosa di Puglia, gli Spagnoli, guidati da Diego de Mendoza, catturano alcuni cavalieri francesi.
Il 15 gennaio 1503 il Gran Capitano (Comandante supremo) spagnolo Consalvo Fernandez de Cordova organizza a Barletta (dove ha sede il quartier generale spagnolo) una cena in onore dei Francesi, secondo il “codice cavalleresco” dell’epoca.
Durante la cena il francese Charles de Torgues (detto Guy de La Motte) accusa di codardia i cavalieri italiani, che sono difesi dal comandante spagnolo Inigo (Ignazio) Lopez de Ayala, il quale sostiene che gli italiani al suo comando hanno sempre combattuto valorosamente e quindi si sono comportati in modo onorevole.
Il Capitano dei cavalieri italiani Prospero Colonna invia Giovanni Capoccio e Giovanni Brancaleone a parlare con La Motte per indurlo a ritrattare la grave offesa fatta ai cavalieri italiani, senza alcun risultato. Anzi La Motte getta il “guanto di sfida” addosso ai cavalieri italiani.
Si decide quindi di effettuare un duello tra 13 cavalieri francesi ed altrettanti cavalieri italiani (in origine gli sfidanti dovevano essere 10, ma poi il numero è stato aumentato).
Uno scontro analogo era avvenuto l’anno precedente, nel marzo 1502, in una pianura tra Barletta e Bisceglie tra 11 soldati francesi ed altrettanti spagnoli, di cui però non si conosce l’esito.
La “disfida” è programmata per la mattina del 13 febbraio 1503 nella località denominata “Mattina di S. Elia”, nel territorio di Trani, allora possesso della Serenissima Repubblica di Venezia e quindi “territorio neutrale”. Però il combattimento è passato alla storia come “disfida di Barletta”, dato che la controversia era nata in questa cittadina pugliese.
Le modalità dello scontro sono stabilite nei minimi dettagli. In particolare si decide che i cavalli e le armi dei cavalieri sconfitti sarebbero stati presi dai vincitori e ogni cavaliere catturato avrebbe pagato un riscatto di 100 ducati. Inoltre, sono nominati due giurati per parte ed è assegnato un ostaggio a ciascuna parte per garantire il rispetto dell’accordo.
Il campo nel quale si svolge il duello viene delimitato con l’aratro.
Prospero e Fabrizio Colonna formano la squadra italiana con i seguenti cavalieri, considerati i migliori: Ettore Fieramosca (di Capua, che é nominato Capitano e quindi é incaricato di tenere i rapporti con il francese La Motte); Mariano Marcio Abignente; Ludovico Abimale da Terni; Guglielmo Albimonte; Giovanni Brancaleone; Giovanni Capoccio; Marco Corollario; Ettore de’ Pazzis (detto anche Miale da Troja); Ettore Giovenale; Romanello da Forlì; Fanfulla da Lodi; Riccio da Parma; Francesco Salamone.
I 13 cavalieri francesi sono: Charles de Torgues (detto Guy de La Motte), che é il Capitano; Claude Grajan d’Aste (Graziano d’Asti); Eliot de Baraut; Jacques de la Fontaine; Naute de la Fraise; Marc de Frigne; Girout de Forses; Jacques de Guignes; Martellin de Lambris; Jean de Landes; Pierre de Liaye; Francois de Pise (Francesco di Pisa); Sacet de Sacet.
I cavalieri italiani la mattina del 13, prima dello scontro, ascoltano la messa nella Cattedrale di Barletta, giurando davanti alla statua della Madonna, poi denominata Madonna della Sfida, di vincere o di morire.
I cavalieri francesi pernottano a Ruvo di Puglia, dove è acquartierato il loro esercito e dove, la mattina del 13 febbraio, ascoltano la messa nella Chiesa di San Rocco.
Il Capitano Prospero Colonna decide quali armi impiegare. I cavalieri italiani sono armati con due lance, più lunghe di quelle usate dai Francesi, e di 2 stocchi: uno è bloccato all’arcione, alla parte sinistra della cavalcatura; l’altro è posto sul fianco destro della cavalcatura, dove viene messa anche una scure, al posto della mazza ferrata. Inoltre i cavalli sono coperti da frontali di ferro, anche sul collo. Infine, a terra sono posti due spiedi a disposizione di ogni cavaliere, per essere utilizzati in caso di necessità.
I cavalieri italiani arrivano per primi sul posto stabilito per la “disfida”, ma quelli francesi entrano per primi nell’area delimitata dai quattro giudici.
Le due formazioni si dispongono su due file ordinate, contrapposte l’una all’altra, in modo da “caricarsi” vicendevolmente con le lance.
Secondo il cronista francese Jean d’Auton i cavalieri italiani adottano uno stratagemma: invece di “caricare” arretrano fino al limite dell’area delimitata per lo scontro ed aprono dei varchi nelle proprie file in modo da far uscire dall’area i cavalieri francesi, che pertanto sarebbero stati eliminati. In effetti alcuni di questi, nella foga della corsa, non riescono a fermarsi in tempo ed escono dall’area stabilita per lo scontro, venendo così eliminati. Invece, secondo il vescovo Paolo Giovio, che ha assistito allo scontro, i cavalieri italiani rimangono fermi nelle loro posizioni, attendendo la “carica” dei Francesi con le lance abbassate.
Nel primo scontro due cavalieri italiani sono disarcionati, ma si rialzano e riescono ad uccidere i cavalli degli loro antagonisti francesi, i quali sono costretti a combattere appiedati, con le spade e le scuri.
Il combattimento dura più di un’ora ed alla fine tutti i cavalieri francesi sono sconfitti e catturati dagli italiani, che pertanto riportano una netta vittoria.
Secondo la tradizione il cavaliere italiano che combatte meglio e si distingue di più, dopo il Capitano Ettore Fieramosca, è Giovanni Capoccio, che riceve l’appellativo di ”più forte campione italico dopo il Fieramosca”.
Secondo Jean d’Auton, l’ultimo cavaliere francese ad arrendersi è Pierre de Chales, originario della Savoia.
Il Vescovo Giovio riferisce che il francese Claude (probabilmente Graziano d’Asti) muore per una grave ferita alla testa riportata nello scontro con Giovanni Brancaleone, che probabilmente infierisce su di lui perché è considerato dai cavalieri italiani un “traditore” dato che combatte dalla parte dei Francesi (in verità, in quell’epoca la città di Asti appartiene alla Francia). Allo scontro partecipa, combattendo con i Francesi, anche un altro cavaliere italiano: Francois de Pise (Francesco di Pisa).
I cavalieri francesi sconfitti sono condotti come “prigionieri” a Barletta perché, sicuri di vincere, non hanno portato i 1.300 ducati previsti per l’eventuale loro riscatto in caso di sconfitta. Pertanto sono liberati dopo quattro giorni, quando è pagata la somma stabilita di 1.300 ducati.
La vittoria dei cavalieri italiani è salutata dalla popolazione di Barletta con un grande gioia e festeggiamenti. Nella cattedrale di Barletta è celebrata una solenne messa di ringraziamento.
Come ricompensa per la vittoria tutti i 13 cavalieri italiani sono insigniti dal Comandante supremo spagnolo Consalvo Fernandez dell’ordine di Cavaliere di San Giacomo della Spada.
Nei mesi seguenti i Francesi sono ripetutamente sconfitti dagli Spagnoli: a Ruvo di Puglia il 22-23 febbraio 1503; a Seminara (Calabria) il 21 aprile 1503; a Cerignola (Puglia) il 28 aprile 1503; presso il fiume Garigliano (Campania) il 29 dicembre 1503; a aeta (Campania) il 1 gennaio 1504.
Il 31 gennaio 104 è sottoscritto l’Armistizio di Lione e con il successivo Trattato di Blois del 12 ottobre 1505 la Francia rinuncia definitivamente al Regno di Napoli a favore della Spagna ed il Re spagnolo Ferdinando II d’Aragona, detto Il Cattolico, si impegna a sposare Germana di Foix, nipote del Re francese.
In seguito, numerosi cavalieri italiani continuano a militare nella Compagnia di ventura di Prospero Colonna, in varie guerre.
LA MEMORIA DELLA DISFIDA
Nel 1583 (per il 70mo anniversario della “disfida”), sul luogo della battaglia, in Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, è fatta costruire una “edicola” da Ferrante Caracciolo, Duca di Airola, Prefetto delle Province di Bari e Otranto.
Il monumento è distrutto nel 1805 dai Francesi, che pensano in questo modo di eliminare la “memoria” della loro sconfitta nella “disfida” del 13 febbraio 1503, ma è riedificato nel 1846 a cura del Capitolo Metropolitano di Trani.
Nel 1903 viene aggiunta una lapide con il seguente epitaffio, scritto da Giovanni Bovio, famoso filosofo e politico di fede laica e repubblicana “In equo certame / contro tredici francesi / qui tredici di ogni terra italiana / nell’unità / nell’amore antico / e tra due invasori / provarono che dove l’animo sovrasti la fortuna / gli individui e le nazioni risorgono” .
La “disfida” ha ispirato alcune famose opere letterarie. E’ sempre stata chiamata “disfida di Barletta”, anche se combattuta nella Contrada “Mattina di Sant’Elia” nel territorio di Trani, probabilmente perché la controversia era nata a Barletta, dove aveva sede il quartiere generale spagnolo.
La prima fonte che ne parla è la lettera in latino De pugna tredecim equitum, scritta poco tempo dopo l’evento, nello stesso anno 1503, dal medico ed umanista salentino Antonio De Ferraris, detto “Galateo”, che sta a Bari, dove è il medico di Isabella d’Aragona (vedova di Gian Galeazzo Sforza, Duca di Milano) ed il precettore della figlia Bona Sforza (futura Regina di Polonia).
All’inizio del Risorgimento, nel 1833, Massimo D’Azeglio scrive il romanzo storico Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, in chiave patriottica, facendo leva sul sentimento nazionale per favorire la “riscossa contro lo straniero”, rappresentato dall’Austria, che domina buona parte del territorio settentrionale.
Nel 1896 il compositore Vincenzo Ferroni compone il dramma lirico Ettore Fieramosca.
All’inizio del Novecento sono girati due film, ispirati al romanzo di D’Azeglio: Ettore Fieramosca, di Ernesto Maria Pasquali, nel 1909; Ettore Fieramosca, di Domenico Gaido e Umberto Paradisi, nel 1915.
Il regime fascista rivaluta di nuovo, come già era accaduto nel Risorgimento, la “disfida di Barletta”, ignorando però che il sentimento nazionale era assolutamente sconosciuto nel nostro Paese nel XVI° secolo, tanto che i 13 cavalieri italiani combattevano come “mercenari”, al soldo degli Spagnoli contro i Francesi, in guerra tra di loro per il possesso del Regno di Napoli.
Nel 1938 esce il film Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti, con un chiaro scopo di propaganda nazionalistica.
Nel 1939 il pittore Pino Cesarini dipinge il quadro La disfida di Barletta.
LA CONTROVERSIA RECENTE SUL LUOGO DELLA DISFIDA
Durante il regime fascista nasce una accesa disputa in merito al luogo in cui erigere il nuovo monumento in ricordo della “disfida”, al posto di quello costruito nel 1583 e distrutto dai Francesi nel 1805.
Nell’ottobre 1931 l’avvocato di Trani Assunto Gioia pubblica un opuscolo nel quale sostiene che la “disfida” era stata combattuta nella Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, per cui deve chiamarsi “disfida di Trani”.
Pochi giorni dopo, il 28 ottobre, il sottosegretario Sergio Panunzio scrive un articolo a sostegno di questa tesi, pubblicato sul quotidiano Gazzetta del Mezzogiorno.
Il 2 novembre 1931 la tesi sul luogo della “disfida” a Barletta è sostenuta da Salvatore Santeramo in un articolo pubblicato sul quotidiano Il Popolo di Roma.
Il giorno seguente lo stesso giornale pubblica, a sostegno di questa tesi, la lettera di Arturo Boccassini, segretario della sezione del Partito Nazionale Fascista-PNF di Barletta, che era stata rifiutata dalla Gazzetta del Mezzogiorno.
Il 3 novembre a Bari si costituisce un Comitato per far costruire il nuovo monumento nella città, di cui fanno parte alti esponenti del PNF, come Attilio Teruzzi, Comandante della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale-MVSN, Araldo di Crollalanza, Ministro dei Lavori Pubblici, e Achille Starace, Vice segretario nazionale del PNF. Appresa la notizia della costituzione del Comitato barese, a Barletta un gruppo di cittadini entra nel Comune, preleva il bozzetto del nuovo monumento e lo deposita nella Piazza del paese, su un piedistallo improvvisato.
Il 7 novembre 1931 Boccassini è destituito. Questo fatto provoca nuove manifestazioni, che degenerano in scontri con le forze dell’ordine.
Il 10 novembre, dopo l’arrivo del nuovo segretario della sezione del PNF di Barletta, si verifica una nuova manifestazione, nella quale sono lanciati sassi contro i Carabinieri, che reagiscono, sparando sui manifestanti ed uccidendo due persone.
In seguito a questi incidenti il nuovo monumento non viene più fatto. É rimasto quindi nella Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, il monumento ricostruito nel 1846, dopo la distruzione da parte dei Francesi nel 1805 di quello realizzato nel 1583.
Nel 1975, dopo decenni di abbandono, il monumento è stata restaurato dal Comune di Trani, con il sostegno finanziario del locale Rotary Club.
Ancora oggi, pur essendo stata combattuta la “disfida” nel territorio di Trani, si continua a chiamarla “disfida di Barletta”.
‘LEE MILLER’: in arrivo il film sulla grande fotografa americana-
Articolo di Elisabetta Colla. Rivista NOI DONNE-
Nelle sale da inizio 2025, distribuita da Vertice 360, la pellicola sulla straordinaria figura di Lee Miller è interpretata e prodotta da Kate Winslet
– Quella della fotografa, fotoreporter e modella statunitense Elizabeth, detta ‘Lee’, Miller è stata certamente una vita fuori dell’ordinario.
Lee era la figlia prediletta del padre Theodore, che si dilettava con la fotografia e che insegnò ai propri figli numerose tecniche fotografiche quando erano ancora molto piccoli: in particolare Lee, oltre ad essere sua allieva, fin dall’infanzia era stata anche la sua modella preferita e veniva spesso ritratta nelle sue fotografie stereoscopiche.
Un’infanzia anticonvenzionale e in parte drammatica (subì una violenza sessuale a soli sette anni, forse da un parente o da un marinaio), poi gli studi all’ École nationale supérieure des beaux-arts e, nel 1926, a 19 anni, la frequenza all’Art Students League di New York per studiare scenografia.
Poi la carriera da modella a seguito dell’incontro casuale con Condé Nast, editore di Vanity Fair e di Vogue, tra new York e Parigi, città dove diventò una fotografa affermata di arte e moda e di arte. La sua relazione con Man Ray e successivamente il matrimonio con Roland Penrose le diedero accesso ai circoli artistici e letterari più interessanti del ventesimo secolo.
Proprio per raccontare la storia di questa donna e artista unica, sfuggente a ogni definizione, uscirà a gennaio, distribuito da Vertice 360, diretto dalla direttrice della fotografia e regista statunitense Ellen Kuras (collaboratrice abituale di Spike Lee e Michel Gondry) il film “Lee Miller”, ispirato all’opera ‘Le molte vite di Lee Miller’ di Antony Penrose, figlio di Miller e del surrealista Roland Penrose.
Accanto a Kate Winslet, nei panni della protagonista (che aveva già lavorato in “Se mi lasci ti cancello” con la Kuras, quest’ultima in veste di direttrice della fotografia) e in veste anche di produttrice, sono presenti nel cast Alexander Skarsgård, Marion Cotillard, Andrea Riseborough, Josh O’Connor, Noémie Merlant, Andy Samberg.
Alla fine degli anni ’30, Elizabeth “Lee” Miller lascia la sua cerchia di amici e la sua vita artistica in Francia e va a Londra dopo essersi innamorata del mercante d’arte Roland Penrose. I due iniziano una relazione appassionata, proprio mentre in Europa scoppia la guerra.
Già fotografa riconosciuta, Lee ottiene un lavoro per British Vogue, ma rimane scioccata dalle restrizioni imposte alle fotografe donne.
Mentre il regime di Hitler conquista l’Europa, Lee è sempre più frustrata dal fatto che il suo lavoro sia limitato da regole patriarcali. Determinata a essere dove c’è l’azione, è in prima linea nella Seconda Guerra Mondiale.
Costretta a documentare la verità, volge il suo obiettivo verso la sofferenza e inizia lentamente a rivelare la spaventosa perdita di vite umane dovuta ai diabolici crimini di Hitler contro le vittime innocenti del suo regime. Lee Miller svolse questo pericoloso lavoro per il bene delle lettrici della rivista Vogue, alle quali la realtà della guerra era in gran parte tenuta nascosta, e nel processo produsse una serie indelebile di immagini che ancora oggi continuano a plasmare il nostro modo di vedere e documentando eventi quali il bombardamento strategico della battaglia d’Inghilterra, la Battaglia di Normandia, la liberazione di Parigi, i campi di concentramento di Buchenwald e di Dachau.
Celeberrimo, fra gli altri scatti, il suo autoritratto nella vasca da bagno di Hitler. Donna indipendente, determinata e libera, amica di Picasso e Man Ray, fu l’unica fotografa donna a documentare la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald denunciandone con forza e lucidità la tragedia e gli orrori.
Nel corso di una carriera di oltre tre decenni entrò in contatto con personalità di ogni tipo, molte delle quali divennero soggetti dei suoi ritratti fotografici, come gli studi su Pablo Picasso, Max Ernst, Fred Astaire, Colette, Maurice Chevalier e Marlene Dietrich.
Nel panorama editoriale italiano ed europeo ‘NOIDONNE’ rappresenta un raro esempio di continuità editoriale che dal 1944 racconta – con espressioni professionali di alto livello e con attenzione al contesto culturale e politico nazionale ed internazionale – le attività, le conquiste, i pensieri e i movimenti delle donne. Lo sguardo di genere sulla realtà, attraverso le sue molteplici sfaccettature, è la scelta di campo che ha sempre scandito un percorso giornalistico scritto da donne.
LE ORIGINI E LE EDIZIONI CLANDESTINE.
Le prime edizioni di ‘Noi Donne’ risalgono al 1937 a Parigi – sotto la direzione di Marina Sereni – e sono espressione dell’associazione (facente capo all’Unione popolare) che raccoglieva le donne antifasciste emigrate in Francia. Nel 1944, nel pieno della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo, le pubblicazioni riprendono in Italia con edizioni regionali prodotte e diffuse clandestinamente, in condizioni difficili e di altissimo rischio personale. Nella Sezione Archivio storico queste edizioni sono oggi consultabili.
1944: INIZIA IL CAMMINO.
A partire dal luglio 1944 ‘Noi Donne’ esce dalla clandestinità ed è stampato a Napoli sotto la direzione di Laura Bracco, con l’infaticabile apporto di Nadia Spano e la collaborazione di Rosetta Longo. Già al terzo numero redazione e amministrazione sono trasferite a Roma e a Laura Bracco si affianca Vittoria Giunti, insegnante che usciva dalla lotta antifascista clandestina. “Gli intendimenti con cui il giornale usciva – scrive Marisa Rodano in un reprint del 1977 – erano chiari: essere un giornale per tutte le donne, costituire un legame per tutte le energie femminili vogliose di battersi per sconfiggere il fascismo e partecipare direttamente alla costruzione di un’Italia diversa, far conoscere la lotta delle donne nell’Italia occupata, sollecitare nell’Italia liberata lo sviluppo di un movimento di donne”. La formula scelta è quella di un foglio politico che però non rinuncia a parlare di temi che “tradizionalmente le donne sono abituate a trovare nei periodici ad esse diretti: narrativa, moda, cucina…”. L’attenzione è dedicata alle lotte alle contadine per abolire la consuetudine feudale delle regalie dovute ai padroni, alle azioni di rivendicazione per il cibo, all’impegno fattivo delle donne per riaprire le scuole in una Roma distrutta dai bombardamenti, ma insieme alla ripresa della vita democratica e associativa delle donne. Inizialmente mensile, negli anni successivi la periodicità diventerà quindicinale e poi settimanale sotto la lunga direzione di Giuliana Dal Pozzo e di Miriam Mafai. Tornerà ad essere mensile nel 1981, mantenendo tale cadenza fino al dicembre 2016 quando, sospese le edizioni in versione cartacea, si potenziano le varie declinazioni diffuse attraverso la rete virtuale: dal sito al settimanale on line fino ai social. Fino agli ani Novanta ‘Noi Donne’ è stata la rivista dell’Udi (Unione Donne in Italia), un rapporto dinamico che dal 1944 nel tempo si è modificato arrivando alla completa autonomia.
TUTTE LE DIRETTORE.
Elenchiamo, in progressione cronologica, le giornaliste che hanno diretto ‘NOIDONNE’ dal 1944: Rina Piccolato, Nadia Spano, Luara Bracco, Vittoria Giunti, Dina Rinaldi, Maria Antonietta Macciocchi, Milla Pastorino, Benedetta Galasi-Beria, Miriam Mafai, Giuliana Dal Pozzo, Vania Chiurlotto, Anna Maria Guadagni, Mariella Gramaglia, Franca Fossati, Bia Sarasini, Tiziana Bartolini.
‘NOIDONNE’ NEL TERZO MILLENNIO.
Il giornale arriva alle soglie del 2000 nel pieno di una pesante crisi finanziaria che è superata – dopo una profonda riorganizzazione – grazie ad un riassestamento interno e ad un riposizionamento nel mercato editoriale. Tale fase è stata espressione della generosità e professionalità che tante amiche hanno messo a disposizione di una rinnovata rete di contatti e contaminazioni avviata sotto la direzione di Tiziana Bartolini.<
NOIDONNE ONLINE
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L’Archivio storico di ‘NOIDONNE’ è un patrimonio nazionale culturale e giornalistico. La possibilità di consultarlo è preziosa occasione – soprattutto per le giovani generazioni – di conoscere la storia contemporanea e alcuni particolari aspetti quali le lotte delle donne, che sono parte importante dell’evoluzione della nostra democrazia. Rendere fruibile on line tale Archivio è un grande obiettivo per il quale siamo impegnate, anche allo scopo di tutelare le edizioni cartacee originali che cominciano a deteriorarsi.
Sono già consultabili on line le annate più recenti (2006 / 2016). Nel 2017 è stata avviata la digitalizzazione dell’Archivio storico, a cominciare dalle edizioni clandestine del 1944/45.
Con nuovi progetti e campagne mirate continueremo a raccogliere fondi per completare la digitalizzazione dell’Archivio.
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