Frank Cairnes, il famoso scrittore di gialli, è sconvolto dalla morte del piccolo Martie, il figlio che a soli 7 anni è stato barbaramente investito da un’auto. La polizia non è in grado di rintracciare l’automobilista e le ricerche vengono presto sospese ma Frank non riesce a darsi pace, tanto che decide di continuare a cercarlo con i propri mezzi. Dopotutto è uno scrittore di romanzi polizieschi e il suo alter ego letterario, Felix Lane, è esperto di medicina legale, diritto e procedura penale. «Ho deciso di uccidere un uomo. Non so chi sia né dove viva, non ho idea di che aspetto abbia. Ma lo troverò e lo ucciderò.» Questo è l’inizio fulminante del diario in cui Frank narra le vicende di Felix Lane, novello aspirante assassino, che grazie a una serie di azzeccate deduzioni e a un po’ di fortuna riesce a trovare il vigliacco automobilista che gli ha portato via il figlio. E di come, sotto falsa identità, si insinua nella sua vita e comincia a pianificare di ucciderlo. Ma quando l’uomo muore avvelenato prima che lui possa mettere in atto la sua vendetta, ecco che Cairnes/Lane diventa improvvisamente il sospettato numero uno, e il diario la principale prova a suo carico. Toccherà al detective Nigel Strangeways fare chiarezza su questa complicata vicenda. Per la sua costruzione atipica e particolarmente avvincente La belva deve morire è uno dei gialli più acclamati di Nicholas Blake e della fortunata serie di Nigel Strangeways tanto da essere selezionato dall’Observer tra i 1.000 romanzi da leggere nella vita.
L’Autore-Nicholas Blake è lo pseudonimo del poeta laureato Cecil Day-Lewis, nato in Irlanda nel 1904 e padre dell’attore Daniel Day-Lewis. All’inizio della sua carriera affiancò il lavoro di insegnante alla scrittura poetica. Pubblicò il primo romanzo della serie di Nigel Strangeways nel 1935, a cui seguirono altri 19 romanzi, numerose sillogi poetiche e traduzioni. Alla fine della Seconda guerra mondiale, diresse la casa editrice Chatto & Windus. Morì nel 1972 a casa dell’amico Kingsley Amis. Nel 2020 Giunti ha ripubblicato Il caso dell’abominevole pupazzo di neve.
Nicholas Blake-La belva deve morire
Editore: Giunti Collana: M Traduttore: Giuseppina Caricchio
Maria Rosaria De Santis-Poesie da “L’amore immaginario”-
Editore L’Erudita -ROMA
Maria Rosaria De Santis è nata a Castellammare di Stabia (NA) nel 1998.Laureata in Giurisprudenza, sin da bambina impiega la maggior parte del suo tempo nella lettura e nella scrittura. A luglio 2022 ha pubblicato per L’Erudita, marchio di proprietà di Giulio Perrone editore, il suo primo libro.
allora scoppiare
svanire sprofondare nel magma al centro della terra riemergere in cenere dall’altro lato volare libera in cerca di una nuova forma solleticare le narici di giorni nuovi cambiare nome, identità vivere tutte le esperienze degli stati di materia mangiare ghiaccio tagliente per insegnare alle labbra e ai denti a resistere al freddo e a soffrirne in silenzio scivolare su un liquido tiepido denso freddo alla fonte riscaldando da sola ciò che non ha spessore. Meravigliosamente urlare aria leggera coprire le parole inutili, vecchie, risentite imparare una nuova voce aerea e usarla per presentarmi sulla mia nuova parte di emisfero.
Trame di conversazioni immaginate mi affollano la mente quando è sera: è allora che ti comincio a reinventare, è allora che ti fai parola. Anneghi in me confusa che mi perdo in questa opera di ricostruzione per questo poi ti lascio improvvisare e al mattino non ti riconosco.
Ti ho spiegato molte volte che fraintendo le parole io apro le frasi e le spacco a metà prima le rompo dall’interno scavando con costanza poi mi nascondo nella fossa che ho creato e da lì urlo che non capisco niente. Ormai scivolata sotto la crosta della rabbia solo una delicatezza straordinaria può riportarmi in [superficie e lungo il tragitto verso l’aria pulita spiegarmi che le parole che mi squarciano le ho già sentite da bambina e ora dalle bocche di altri vengono a ricordarmi che tutto il bene fatto con innocente autoindulgenza è sempre, a ben vedere, male.
Ti ho invitato nelle mie stanze chiuse e ti ho lasciato solo con i miei segreti, ho aspettato che li facessi a pezzi e tu me li hai restituiti interi.
A rimanere sole saremo sempre in due escluse dal nostro reciproco torpore nell’inseguire appuntamenti senza senso insieme a volti già pieni di noi sempre saremo noiose, arroganti, vuote streghe superficiali e stupide ma nell’astio per noi stesse troviamo un’unica spinta per continuare a odiare noi da sole e gli altri insieme felici di gridare e non essere sentite: è la più dolce forma di amarezza.
DESCRIZIONE-
Emozioni e sentimenti si allineano tra immaginario e consapevolezza, le tracce della speranza sono il ponte per dare voce a ciò che nel buio può diventare luce. La creatività dei versi di Maria Rosaria De Santis crea con delicatezza e autenticità un ritmo empatico e attraverso la condivisione del pensiero le parole diventano un gioco armonico che trasforma la profondità dell’animo in una culla essenziale, affidando al nostro sé l’incarico di nostro portavoce della magica sfera emozionale. I versi tracimano esuberanza, voglia di vivere ma anche angoscia e tristezza, in un caleidoscopio di emozioni che ritraggono l’interno spettro dell’esperienza umana.
Recensione
“La vita è troppo lunga per immaginarla intera: sono vecchia per la stanchezza di essere giovane”
Ci vuole del talento per scrivere, per immaginare una cosa del genere. Io non sono un amante della poesia. Ma sono uno capace di capire il talento altrui, la bravura. E questa raccolta di poesie è dimostrazione di talento, di capacità di scrivere, e scrivere bene. È anche fin troppo “facile” scrivere un racconto breve, un piccolo libro. Ma la poesia è altro. E quando riesci a leggere qualcosa di bello, come questa raccolta di poesie, rimani incantato. Gioire del talento altrui, non essendo invidiosi di ciò, ma anzi ringraziare per gli scritti degli altri. La poesia è forse “la bellezza limpida delle cose inutili”, come recita un altro componimento di questo libro. Ma avercene di più, di bellezza limpida così.
Maria Rosaria De Santis
Breve biografia di Maria Rosaria De Santis è nata a Castellammare di Stabia (NA) nel 1998.
Laureata in Giurisprudenza, sin da bambina impiega la maggior parte del suo tempo nella lettura e nella scrittura. A luglio 2022 ha pubblicato per L’Erudita, marchio di proprietà di Giulio Perrone editore, il suo primo libro.
Poesie di Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica-
Biografia e Poesie di Christina Rossetti Poetessa italo-britannica-Biblioteca DEA SABINA-nacque a Londra il 5 dicembre 1830 ove mori il 29 dicembre 1894-fu educata in casa dalla madre. Intorno al 1840 la famiglia aveva grosse difficoltà economiche dovute al peggioramento della salute fisica e mentale di suo padre. A 14 anni Christina soffrì di una crisi nervosa che fu seguita dalla depressione. In questo periodo lei, la madre e la sorella si interessarono al movimento anglo-cattolico, che era parte della Chiesa anglicana. La devozione religiosa ebbe un ruolo importante nella vita di Christina: appena diciottenne si impegnò sentimentalmente con il pittore James Collinson, ma la relazione finì perché quest’ultimo tornò ad essere cattolico. In seguito si legò al linguista Charles Cayley ma non lo sposò, nuovamente per motivi religiosi. Morì di cancro nel 1894 e venne seppellita nell’Highgate Cemetery. All’inizio del Novecento, con il modernismo, la sua popolarità venne offuscata, come anche quella di molti altri scrittori dell’epoca vittoriana. Christina Rossetti rimase a lungo dimenticata fino a quando negli anni settanta venne riscoperta da studiose femministe.
Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica
Il posto più umile
Dammi il posto più in basso; non lo merito,
lo so, ma Tu scegliesti di morire
perch’io potessi vivere e godere
la gloria dalla stessa parte Tua.
Dammi il posto più in basso, e se per me
troppo alto fosse, un altro più giù ancora,
dove possa sedermi per vedere
il mio Signore, e così amare Te.
Maggio
Io non ti posso dire come è stato:questo soltanto so, che è già passato.In un giorno di pura luce e brezza,un maggio dolce, in piena giovinezza.Non erano i papaveri ancor natitra lievi steli del granturco incerto,l’ultimo uovo ancor non s’era apertoe gli uccelli volavano accoppiati.Io non ti posso dire come è stato:questo soltanto so, tutto è passato.Con quel sole di maggio è andata viaogni dolce ed amata compagniae sola, vecchia e grigia m’ha lasciato.
Nel mezzo di un gelido inverno
Nel mezzo di un gelido invernoIl vento gelato portava lamenti,La terra era dura come il ferro,L’acqua come una pietra;La neve era caduta,Neve su neve,Nel mezzo di un gelido inverno,Molto tempo fa Nostro Dio, il paradiso non può trattenerlo,Né la terra sorreggerlo;Il cielo e la terra fuggirannoQuando verrà il suo Regno;Nel mezzo di un gelido invernoUna stalla fù sufficientePer il Signore Dio incarnato,Gesù Cristo. Bastò per lui, che i cherubinilo adorassero notte e giornoUn seno pieno di latteE una mangiatoia piena di fieno.Bastò per lui, che angelicaduti in passato,Il bue, l’asino e il cammellolo adorassero. Angeli ed arcangelierano tutti lì riuniti,Cherubini e serafiniAffollavano l’ariaMa solo sua madreNella sua fanciulla beatitudine,Adorò l’amatoCon un bacio. Cosa posso dargli,Povera come sono?Se fossi un pastorePorterei un agnello,Se fossi un MagioFarei la mia parte,Ecco cosa posso dargli —Gli dono il mio cuore
Christina Rossetti -Poetessa italo-britannica
Quando io sono morta
Quando io sono morta, mio carissimo,non cantare canzoni tristi per me;non piantare rose alla mia testanè ombroso albero di cipresso:sia la verde erba su di mecon acquazzoni e gocce di rugiada umida;e se tu vuoi, ricordae se tu vuoi, dimentica.Io non vedrò le ombre,non sentirò la pioggia;non udirò l’usignolocantare come se fosse addolorato:e sognando durante il il crepuscoloche nè sorge nè tramonta,per caso possa ricordaree per caso possa dimenticare.
Ricordami
Tu ricordami quando sarò andatalontano, nella terra del silenzio,né più per mano mi potrai tenere,né io potrò il saluto ricambiare. Ricordami anche quando non potraigiorno per giorno dirmi dei tuoi sogni:ricorda e basta, perché a me, lo sai,non giungerà parola né preghiera. Pure se un po’ dovessi tu scordarmie dopo ricordare, non dolerti:perché se tenebra e rovina lasciano tracce dei miei pensieri del passato,meglio per te sorridere e scordareche dal ricordo essere tormentato.
A Birthday
My heart is like a singing bird
Whose nest is in a water’d shoot;
My heart is like an apple-tree
Whose boughs are bent with thickset fruit;
My heart is like a rainbow shell
That paddles in a halcyon sea;
My heart is gladder than all these
Because my love is come to me.
Raise me a dais of silk and down;
Hang it with vair and purple dyes;
Carve it in doves and pomegranates,
And peacocks with a hundred eyes;
Work it in gold and silver grapes,
In leaves and silver fleurs-de-lys;
Because the birthday of my life
Is come, my love is come to me.
(Traduzione)
È un uccello canoro il mio cuore
che ha fatto il nido su una fresca cima –
un melo ricco di rami è il mio cuore
ricco di frutti come mai fu prima
È come una conchiglia iridescente
su un mare luminoso e trasparente.
Più felice di sempre oggi è il mio cuore
perché è giunto l’amore.
Fatemi un trono di piume e seta
di morbide pellicce e drappi rossi
colombe e melagrane sian scolpite
intrecciate a cento occhi di pavone,
grappoli d’oro e grappoli d’argento
in viluppi di bianchi fiordalisi.
È il compleanno della vita mia,
l’amore è giunto e non andrà più via
The lowest place (1863)
Give me the lowest plase: not that I dare
Ask for that lowest place; but Thou hast died
That I might live anch share
Thy glory by Thy side.
U That lowest plase too high, make one more low
Where I may sit and see
My God and love Thee so.
(Traduzione)
Dammi l’ultimo posto: non che osi
chiederlo, ma Tu sei morto
perché io viva e divida con Te
la gloria al tuo fianco-
Dammi l’ultimo posto: o se per me
l’ultimo è troppo, creane un altro più giù
dove possa sedere e vedere
il mio Dio e così amarTi [
Composizioni di Christina Rossetti
Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica
L’Italo-britannica Christina Rossetti iniziò a scrivere molto presto, ma solo all’età di 31 anni vide pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Goblin Market and Other Poems (1862). L’opera ottenne una critica molto favorevole e Christina venne salutata come la naturale erede di Elizabeth Barrett Browning nel ruolo di female laureate. Il titolo che dà il nome alla raccolta è il lavoro più famoso di Christina Rossetti, e nonostante a prima vista sembri semplicemente una filastrocca sulle disavventure di due sorelle in mezzo agli gnomi (goblins), la poesia è complessa e ha diversi livelli di lettura. La critica l’ha interpretata in modi molto diversi: vi ha visto un’allegoria sulla tentazione e la redenzione, un commento sui ruoli sessuali nell’epoca vittoriana, e la tematizzazione del desiderio erotico e la redenzione sociale.
Christina Rossetti continuò a scrivere e pubblicare per il resto della sua vita e si concentrò soprattutto sulla poesia devozionale e per bambini. Tuttavia le cose più interessanti che ha scritto sono poesie d’amore. Non si tratta di fantasie o di petrarchismo cortese: nascono da storie d’amore dolorosamente vissute e da sprazzi di lucidità che trasformano il dolore in un sentimento leggero e giocoso. La famosa When I am dead, my dearest esprime tutta la sua insicurezza: Christina non è sicura del proprio amore quanto non è sicura dell’amore dell’amato, il quale dunque non viene caricato di doveri, che del resto neppure lei potrebbe sopportare.
Mantenne una grande cerchia di amici e per dieci anni lavorò come volontaria in una casa di accoglienza per prostitute. Rimase ambivalente riguardo al suffragio femminile, ma molti hanno riconosciuto tematiche femministe nella sua poesia. In più era contro la guerra, la schiavitù, la crudeltà contro gli animali, lo sfruttamento sessuale delle minorenni e ogni forma di aggressione militare.
Ferruccio Parri-Come farla finita con il fascismo-
Editori Laterza
Ferruccio Parri :«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
Ferruccio Parri
DESCRIZIONE-INTRODUZIONE-RASSEGNA STAMPA
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. Ferruccio Parri, vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Ferruccio Parri
Introduzione.
Cosa resta
di David Bidussa e Carlo Greppi
Abbiamo già detto tante volte che noi non vogliamo fare una storia idealizzata, né credere e far credere quello che non c’è, o presentare gli attori di questi fatti per quello che non sono o non sono stati; essi furono modesti uomini come tutti.
Ferruccio Parri (1961)
Del fascismo Parri è stato uno dei più irriducibili avversari nel corso della sua lunga vita adulta, che percorre integralmente la storia dell’ideologia che ha insanguinato l’Italia, l’Europa e il mondo. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla presa del potere, Parri sente, «come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio» [infra, p. 6], ed è lui il primo a fare della sua «avversione morale», che è «perentoria ed irriducibile», appunto, la cifra con cui affronta la dittatura prima, l’occupazione e la guerra civile poi, e, infine, il costante riemergere del neofascismo in incalcolabili forme, i cui echi arrivano fino all’Italia di oggi, un paese le cui stesse premesse democratiche scricchiolano in maniera preoccupante. Ed è utile, in questo tempo di crisi profonda, ripercorrere i passi di una generazione che ha in gran parte voluto – e in questo Parri è stato maestro – sentirsi «ordinaria».
È quando il fascismo si fa regime, ricorderà Parri, che i giovani d’allora scoprono la democrazia: «Si avverte che al fascismo non è possibile opporre soltanto la polemica antifascista, se la polemica antifascista non riposa sui principi, su una costruzione politica superiore, atti a soddisfare le esigenze primarie di libertà e di giustizia. È dunque allora che si crea, soprattutto fra gli intellettuali – ciò che è essenziale per comprendere la lotta di poi – una prima convergenza di forze, fondamentale a spiegare la storia successiva». Convinto che la vittoria sul fascismo si sia costruita passo dopo passo, in oltre vent’anni di lotte e sacrifici, Parri si oppone in diverse occasioni alla «spiegazione poetica che piaceva al nostro sempre compianto Calamandrei», per la quale di colpo, come per delle «misteriose leggi di natura», era gemmata e può gemmare la Resistenza. Dalla svolta con cui Mussolini instaura di fatto il regime, Parri aveva imparato «che la sconfitta si riparava cercando una soluzione superiore; che contro il fascismo non si combatteva più sulla base del diritto formale della società precedente al fascismo; che le vecchie classi dirigenti erano crollate, erano cadute», e che «occorreva una soluzione diversa, una visione più avanzata».
Queste, come quelle che ritroverete in queste pagine, sono parole di un’attualità a dir poco sconcertante, che ripercorrono la presa di coscienza di un uomo «come tutti» che, poco più che trentenne, si rese conto che quella che riteneva essere la sua ordinarietà diventava di colpo speciale, rara, necessaria, da coltivare in un’Italia che sprofondava nel baratro della dittatura. Un uomo che si rese conto, fin dagli anni Venti, che bisognava disobbedire – e rivendicarlo pubblicamente – e poi combattere: «al nemico non si doveva conceder tregua», ricorderà, «sapevamo che la guerra era necessaria e che una volta iniziata non si poteva più tornare indietro» [infra, p. 22].
Accomunati da questa sua tormentata e costante attenzione per una vision – si direbbe oggi – antifascista, fondamentale e fondante in tempo di crisi, sono tre gli aspetti che ritornano più volte nelle parole di Ferruccio Parri e che a vario titolo lo accompagnano nei momenti salienti della propria vita, tanto da definire il suo vocabolario politico.
Il primo aspetto riguarda una dimensione laica della politica. Il secondo nasce dalla convinzione di dover trovare significati e immagini che parlino a generazioni anche lontane dalla sua, consapevole della consunzione non solo delle parole, ma anche dei sentimenti e delle esperienze se non corroborate da una volontà di rimetterle costantemente tra le cose della propria quotidianità, e dunque non proporle come sacre. Il terzo aspetto, infine, consiste nell’essere consci del fatto che scommettere sul futuro ogni volta significa riprendere in mano il passato.
Veniamo dalla polvere e dobbiamo tornare, tutti, nella polvere. Lo spirito che ci rende uomini, soffia quando vuole e dove vuole. La sua brezza ha animato Ferruccio Parri durante tutta la sua lunga vita. Egli era laico, intellettualmente e politicamente […] ma pochi più di Parri possedevano, fra i suoi ed i nostri contemporanei, le doti cristiane della devozione al dovere, dell’obbedienza ai 10 comandamenti, dell’amore della famiglia e dell’umanità, dello spirito di sacrificio, dell’umiltà.
Sono le parole con cui Leo Valiani, il 9 dicembre 1981, apre la sua orazione funebre per Ferruccio Parri. Un addio tra due amici di vecchia data che si erano da tempo divisi sulle scelte politiche, dopo la prima stagione del Partito radicale, quando Ferruccio Parri dava vita al primo nucleo della «sinistra indipendente».
In quelle parole tuttavia non sta solo il rispetto o l’affetto verso «Maurizio» – il mitico nome di battaglia di Parri nella lotta partigiana – o verso la Resistenza, anche se certamente c’è anche quello, memore di quanto Valiani scriveva nel 1947 quando ricordava, nell’inizio incerto della guerra di liberazione, «Tutti vanno pazzi per lui». Quelle parole non sono solo un sincero riconoscimento della capacità che Parri aveva avuto di tenere insieme le molte anime e i molti protagonisti del movimento resistenziale, che avevano accettato come «linguaggio comune» le «semplici parole di libertà e giustizia» [infra, p. 44], che avevano scelto di stare uniti. La commossa orazione funebre di Valiani svela un lessico laico che in Italia non è mai stato linguaggio condiviso, o comunque mai di maggioranza. Laddove con «laico» si intende il riconoscimento del nesso doveri/diritti nonché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano, ovvero il proseguimento del progetto illuminista enunciato da Kant all’inizio del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? «L’illuminismo – scriveva il filosofo tedesco – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque l’essere laico, nelle parole di Valiani e nella biografia di Parri, indica una tendenza continua a uscire dallo stato di minorità in cui ci si trova e a «camminare con le proprie gambe», non confondendo, come sottolinea Michel Foucault, quella condizione di minorità «con uno stato di impotenza naturale». Dunque pare che compito dell’intellettuale e del politico sia essere ottimisti, laddove, con Johan Huizinga, ottimista non è colui che sottovaluta i pericoli gravi sostenendo che tutto finirà per il meglio, bensì colui il quale, pur valutando in tutta la sua portata la minaccia dell’imminente tracollo, tiene alta la speranza, anche qualora non si scorga all’orizzonte una via d’uscita. Ottimista è chi si sforza costantemente di ricomporre un quadro, ma anche di dare il valore alle cose per poterlo sostenere. In altre parole, riprendendo le azioni che nel pensiero di Parri appaiono necessarie per «farla finita con il fascismo», essere laico significa non cedere il passo, saper progettare e saper trainare. Al primo posto, sostiene Parri all’apertura dei lavori della Consulta [infra, pp. 55 sgg.], ci deve essere «la difesa dell’ordine morale» dell’Italia – e della «Giovane Europa» – di domani, in continuità con lo «spirito di concordia» della lotta di liberazione. Senza impantanarsi, invischiarsi, soffocarsi, rischiando così di favorire il ritorno «a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia» [infra, p. 80].
È un profilo che «Maurizio» ha costantemente presente nella sua riflessione e che nella lezione che tiene nel 1960 – Il CLN e la guerra partigiana –, che abbiamo volutamente sintetizzato con la parola chiave «trasmettere», assume una dimensione paradigmatica. «Trasmettere», infatti, non è solo raccontare perché altri ereditino, ma è soprattutto non celare, non costruire una versione mitizzata del passato per timore della sua dissoluzione, che invece sarà conseguente e logica proprio se quel passato dovesse essere raccontato in versione «eroica». In quell’occasione, in apertura del suo intervento, Parri dice:
Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han da temere della sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo [infra, p. 96].
Del resto, anni prima, lo stesso Parri non aveva taciuto sulla dimensione geograficamente contenuta della Resistenza: «Solo una parte del paese, territorialmente parlando, è stata toccata profondamente dalla Resistenza, e solo una parte della società italiana vi partecipa o l’accetta», aveva detto in un’intervista nel 1957, precisando che Resistenza non era stata la ripetizione del moto solo urbano ed elitista del Risorgimento, al quale non manca mai di riferirsi, ma qualcosa di più profondo e partecipato.
In quella stessa intervista, tuttavia, indica una questione molto importante che spiega l’insistenza di parlare della Resistenza, in particolare rivolta alle generazioni anche lontane da quell’esperienza diretta:
il crollo del fascismo – precisa – ha aperto situazioni e vuoti di portata assai più ampia. È crollata l’impalcatura del regime fascista; non sono stati arrestati gli effetti della sterilizzazione dei cervelli. E così un fondo materasso di conformismo e qualunquismo, che è lo stato psicologico di riposo di un paese senza educazione e di scarsa coscienza democratica, fa da supporto alle vendette, alle paure postume, alle restaurazioni conservatrici, alle pressioni retoriche e clericali.
La sua convinzione è che «non si ama quello che non si conosce», e la prima cosa che si ignora, ripete più volte, è la rilevanza del fatto resistenziale, come scelta – un aspetto su cui avrebbe scritto Claudio Pavone nel 1991 proprio su sollecitazione di Parri –, come condizione straordinaria nella storia italiana. Un fatto eccezionale a opera di uomini per lo più, appunto, «ordinari». È un’osservazione che ripete spesso a partire dal 1949, ogni qualvolta riflette sul significato della esperienza resistenziale nella storia degli italiani: vi ritorna nel 1960 nelle lezioni sull’antifascismo [infra, pp. 93 sgg.], poi nel 1963 in un’intervista che dà all’«Avanti!», poi di nuovo nel 1972 ripercorrendo la scena della caduta del governo da lui presieduto [infra, pp. 37 sgg.]. D’altronde lo diceva già nel 1945, descrivendo il «momento psicologico politico» dell’immediato dopoguerra, tratteggiando quella «marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti», della quale «non ci si deve meravigliare», anche perché tra le miserie, i dolori, le inquietudini e «un così diffuso stato di insicurezza», vanno aggiunti «i delusi, gli spostati, gli avventurieri» e «lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti», dei fascisti [infra, p. 79]. La Resistenza aveva visto una partecipazione popolare senza precedenti, è vero, ma restava un’esperienza di una vasta minoranza, che sarebbe tornata a fronteggiare «l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia» [infra, p. 53].
Accanto a quella preoccupazione sta una convinzione: da una dittatura non si esce solo per crollo del sistema e ripristino delle regole democratiche. I conti con le dittature impegnano anche le generazioni successive se non si affrontano le mentalità che hanno fatto sì che quelle dittature durassero nel tempo.
In breve, anche se Parri non usa questa espressione – lui parla di «sagomatura mentale» –, l’Italia del secondo dopoguerra ha appunto un problema di «mentalità fascista» non affrontata e, dunque, rimasta nel codice culturale, nel senso comune. Per questo è necessario coinvolgere e motivare le giovani generazioni: non per un vago rispetto alla memoria del passato, ma alla rovescia, perché quel tempo possa archiviarsi come passato. In Italia, invece, sostiene Parri, quel processo di liberazione culturale, mentale, linguistico, non ha avuto luogo. Per questo, sostiene, ci troviamo a misurarci con la «continuità dello Stato», espressione che significativamente Parri introduce nel gennaio 1972 [infra, p. 46] e che Claudio Pavone assumerà come parola chiave di lavoro, nel 1973, per profilare il tema del passaggio claudicante tra dittatura e repubblica democratica, in un contesto in cui aveva «ripreso fiato» quell’Italia «maggioritaria, piallata, abbeverata da venti anni di regime» [infra, p. 86].
Tuttavia, dichiarare o riconoscere che quel passaggio sia avvenuto in maniera incerta, che spesso sia stato più formale che reale, non implica scegliere la strada del ripiegamento o della delusione, comunque del mesto «ritorno a casa» o, peggio, a una scelta tutta rivolta al «culto del privato».
C’è una dimensione pubblica su cui Parri insiste, soprattutto guardando al passato da dare in consegna alle nuove generazioni. La sconfitta è prima di tutto rivendicazione dei principi della propria azione, è non venire a patti col nemico, anche quando il nemico domina. È il senso della lettera al giudice nel 1927 [infra, pp. 3 sgg.], un testo che verrebbe da definire profetico e che per molti aspetti ha scolpito l’immagine pubblica di Parri, spesso trasformandolo in un’icona.
Ma Parri non ha nessuna intenzione di rimanere avvolto nella leggenda. Per questo il punto che egli sottolinea ogni volta è ricominciare, con pazienza, si potrebbe dire con tenacia. E dunque la logica non è mettere le lapidi o porre il problema della liturgia dell’eroe. Parri, a differenza di Calamandrei, ragiona sul fare la propria parte, evita cioè l’elemento eroico e retorico del martire e ragiona sulla possibilità di azione che ci è data, e anche sul ricominciare daccapo.
È un criterio che appare con nitidezza nel 1933, quando Parri scrive un saggio su Carlo Pisacane. Come è stato sottolineato dallo storico Guido Quazza, Parri in Pisacane legge e trova una parte di sé: sono soprattutto i temi ad attirarlo, quelli cioè legati al dopo 1848, al tempo della sconfitta e dell’esilio di un protagonista assoluto del Risorgimento, agli incontri che l’esule Pisacane fa, alle conversazioni che si hanno tra sconfitti, come scrive Gramsci. Avvicinandosi a un uomo del passato, Parri riflette sull’esperienza dell’esilio come opportunità «per crescere» anziché condizione «per piangere». Invito su cui, significativamente, in anni a noi vicini ha proposto pagine di grande spessore Edward Said.
Ne discende che porgere il testimone della storia non è consegnare il fardello del passato, ma è un modo di fare catena generazionale, e dunque di dare senso alla storia. In questo c’è un superamento della dimensione del militante rivoluzionario e del combattente che Jean-Paul Sartre inquadra nel personaggio di Goetz nel dramma Il diavolo e il buon Dio; e c’è, in parallelo, la dimensione della caparbietà con cui Albert Camus descrive Sisifo, non già nella disperazione dell’attimo successivo alla caduta, ma nella determinazione di Sisifo a scendere di nuovo negli inferi per tentare di nuovo la lotta all’oppressione. «In ciascun istante – scrive Camus – durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
Così era stata, in fondo, la Resistenza armata, che stabilì «vincoli di solidarietà morale, che sopravvivono ai litigi e non si cancellano mai», scrive Parri [infra, p. 125]. Così erano stati gli «uomini di allora» che «non hanno meriti speciali, ed hanno commesso gli errori che commettono gli uomini, anche se in buona fede; ma qualche merito deve essere rivendicato, soprattutto in difesa e a onore dei caduti. Il principale di questi meriti è forse la chiarezza della visione di quel momento». Sono parole che «Maurizio» pronuncia quasi vent’anni dopo la Liberazione, evocando una determinazione e una chiarezza di vedute che forse in molti casi sono poi mancate, al momento della sconfitta, quando il vento della restaurazione e della reazione è tornato a soffiare con arroganza. Ed è questo, crediamo, uno dei pericoli che nel nostro tempo rendono così urgenti le parole e gli scritti di Ferruccio Parri: lo spaesamento che rende una chimera la laicità – nella sua accezione più nobile – della politica, il non trovare più significati che possano percorrere quelle catene generazionali che lui aveva immaginato con forza, il non essere più in grado di impugnare il nostro passato per dotarci di nuove parole chiave, necessarie a farla finita, una volta per tutte, con il fascismo. All’inizio degli anni Sessanta, ricordando di aver presentato una legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano, Parri sosteneva di non essere stato mosso dalla preoccupazione per il fenomeno politico del neofascismo in sé, ma per «i problemi morali dei giovani»: «Sono questi movimenti giovanili che si ripetono, è questa facilità di propaganda che ci impensierisce: questo periodico ritorno a sistemi, a ideologie di violenza, che non vogliamo e che non dobbiamo volere».
Ideologie di violenza che dobbiamo, a tutti i costi, sgominare.
Riferimenti bibliografici
Il brano in esergo è tratto dalla relazione «Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione» tenuta da Parri il 26 giugno 1961 e pubblicata in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, p. 615, così come le due citazioni seguenti nel secondo capoverso (ivi, pp. 613-614) che evocano quelle qui in Il CLN e la guerra partigiana [infra, pp. 93 sgg.]; mentre la prima riflessione sulla sconfitta citata è in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200.
Il testo dell’orazione funebre di Valiani si trova in Parri la religione laica del dovere. Testimonianze di Riccardo Bauer, Arturo Colombo, Giovanni Spadolini, Leo Valiani, in «Nuova Antologia», n. 2141, gennaio-marzo 1982, pp. 19-25 (il passo citato è a pp. 19-20). L’espressione «Tutti vanno pazzi per lui» è in Leo Valiani, Tutte le strade conduconoaRoma, introduzione di Claudio Pavone, il Mulino, Bologna 1995 (I ed. 1947), p. 104.
Il testo di Kant è ripreso da Immanuel Kant, Antologia degli scritti politici, selezione italiana di scritti a cura di Gennaro Sasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 47-55 (la citazione è a p. 47, i corsivi sono nel testo); le parole di Foucault sono in Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2017, p. 36 (ed. or. Le Gouvernement de soi et des autres, Seuil/Gallimard, Paris 2008); per Huizinga si veda Johan Huizinga, Nelle ombre del domani,a cura di Rodolfo Lancia, Aragno, Torino 2019, p. 3 (ed. or. In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, H.T. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem 1935).
L’intervista di Ferruccio Parri ad Antonio Spinosa Solo una parte…, del dicembre 1957, è in «Resistenza», poi in Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 232-236 (i passi citati sono a p. 233 e a p. 234).
Il libro di Claudio Pavone cui si fa riferimento è Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. I testi di Parri del 1949 e del 1963 sono ricompresi in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 512-528 e pp. 530-534. Per una scelta dei testi di Claudio Pavone dedicati al tema della «continuità dello Stato» si veda il suo Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg., nonché la bibliografia ivi citata.
Il saggio su Pisacane, lunga recensione alla monografia di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932, poi Einaudi 1980) è ora in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 74-98 (si veda anche Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi [1931], ora in Id., Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1973, pp. 511-525); il giudizio di Quazza su Parri è in Guido Quazza, Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Rochat, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Ferruccio Parri. Sessant’anni di storia italiana, introduzione di Luigi Anderlini, De Donato, Bari 1983, p. 43. Il riferimento a Gramsci è in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1816. Il riferimento a Edward Said è al suo Riflessioni sull’esilio, ora in Id., Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-231. Per Jean-Paul Sartre si veda Il diavolo e il buon Dio, Mondadori, Milano 1976 (ed. or. Le Diable et le Bon Dieu, Gallimard, Paris 1951); per Albert Camus, Il mito di Sisifo (ed. or. Le Mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942), in Id. Opere, Bompiani, Milano 2000, pp. 316-317.
Le ultime due citazioni sugli uomini della Resistenza e quelle sull’MSI sono in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Arbizzani, Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano cit., p. 205 e p. 214.
Gli otto scritti di Parri riprodotti nel volume sono ripresi da: Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 63-65, 132-142, 110-113, 566-576, 179-193, 576-582, 547-566, 582-588.
Salvo indicazione contraria, le note a piè di pagina sono presenti nell’edizione originale.
Ferruccio Parri -foto segnaletica-
Disobbedire.
Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
Nel dicembre 1926 con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti, Ferruccio Parri prepara e realizza l’espatrio di Filippo Turati, con un motoscafo, da Savona a Calvi in Corsica. Mentre Turati, Pertini e Oxilia proseguono per Nizza, Parri e Rosselli, ritornati con il motoscafo a Marina di Carrara, vengono arrestati, nonostante tentino di sostenere di essere reduci da una gita di piacere.
La lettera al giudice di Ferruccio Parri, all’epoca trentasettenne, è datata 18 febbraio 1927 ed è la dichiarazione di assunzione di responsabilità per un atto, ma soprattutto per una decisione che voleva dire disobbedire, venire meno agli ordini del regime in cui ormai era permessa un’unica voce, quella del fascismo. Ma il documento non ha valore solo per questo. Parri insiste, nella sua lettera, sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi. È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.
Illustrissimo signor Giudice istruttore
La mia volontaria e meditata partecipazione all’espatrio clandestino dell’onorevole Turati è stata determinata – come già le dichiarai, signor Giudice – da moventi strettamente politici. I quali tuttavia dalla deposizione che ho già reso in sue mani – su questo punto necessariamente sommaria – non risultano con quella assoluta chiarezza che deve essere attributo e privilegio di un atto di così piena consapevolezza. Mi consenta pertanto, signor Giudice, di completare per questa parte le mie dichiarazioni.
Non mi hanno guidato ragioni di personale rancore verso il regime; non ambizioni o delusioni o vendette da soddisfare: insisto nel definire motivi strettamente secondari lo stesso sdegno del momento e la sollecitudine per l’uomo nobilissimo minacciato.
Mi onoro di aver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione – cui non son mancati riconoscimenti ed elogi –; non ho mai seguito – come le dissi – movimenti di estrema; alieno in genere dalla vita politica, e per questo rimasto sempre estraneo ai partiti, nessuna responsabilità ho certo da rimproverarmi rispetto agli anni torbidi del dopoguerra.
Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista.
Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettissimo conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali calpestati, della nazione lacerata.
Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, alla loro coscienza è affidata per le speranze dell’avvenire la tradizione del passato.
Questa tradizione è nell’aspirazione, perenne nella nostra storia migliore, alla libertà ed alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia nella storia del mondo.
Chi, come il fascismo ha fatto, oblia e – cieco – rinnega questa eredità ideale, perduti insieme freno e timore, fatalmente degrada il suo dominio politico a sopraffazione: menzogna ed ipocrisia si fanno strumenti di governo e ragioni di corruzione e corrosione, cade ogni norma e limite di moralità pubblica, è consentita ogni offesa alla dignità personale, si disfrena, serva e padrona dei potenti, la bestialità umana.
Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che l’esperimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia maturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, restituendogli ansiosa sete dei beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di difesa. Secondo Risorgimento di popolo – non più di avanguardie – che solo potrà riallacciare il passato all’avvenire.
È in noi la certezza che libertà e giustizia,idee inintelligibili e mute solo a tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di classi e di popolo.
Nella fede in queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo.Contro le nostre persone esso ha bastone e manette, contro la nostra fede è inane. Non ha invero che i sofismi dei suoi retori e servi.
Esso ci bestemmia, ebbro, antinazione. Ma io, signor Giudice, che credevo al valore civile della storia nazionale che insegnavo in scuola, io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi.Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio.
Quando il novembre ha portato la totale sommersione di ogni traccia e modo, nonché di resistenza, di vita pubblica, nello sconforto e nell’accasciamento generale ho sentito degno e doveroso dar opera ad una protesta non sterile e non effimera, che rompendo il silenzio plumbeo fosse viva riaffermazione di fronte all’avvenire di un’Italia migliore. Protesta e riaffermazione che ormai potevano vivere solo oltre confine, mentre la paura del regime con la minaccia delle sue leggi pretendeva vietare ciò che la sua stessa violenza rendeva necessario. Leggi nate dalla paura e dalla violenza, senza radici perché nella coscienza civile, senza diritto quindi al rispetto, persuadenti anzi alla ribellione.
È da questa posizione di spirito, signor Giudice, che deriva il mio atto, è questa diretta e consapevole coerenza con il mio passato che gli conferisce – io credo – una significazione particolare.
Ho invero con l’onorevole Turati un legame che vince ogni diversità di origine ed ogni possibile discordanza del passato: un legame per oggi e per domani essenziale, quale è quello della devozione a quelle idee, dell’avversione a questo clima. L’onorevole Turati per l’altezza del suo animo e per l’onoranda dignità della sua vita poteva a buon diritto rappresentare, sopra ogni divisione e tendenza, di fronte alla civiltà europea, la condanna dell’ottenebramento italiano,la riaffermazione di quei principi ideali nei quali la storia moderna si riconosce, riaffermazione anche di un’Italia che sia patria libera ed equa a tutti gli italiani.
Nessuna jattanza e nessuna libidine di facile martirio da parte nostra.
Ma poiché ora la legge fascista ci chiama a rispondere del nostro atto, con orgoglio ne rivendichiamo la prima e più diretta responsabilità,con tanto più orgogliosa coscienza oggi che nulla più si oppone ai trionfatori; oggi che è pregio delle coscienze più diritte percuotere l’accidia e la ipocrisia della vita pubblica con l’esempio del sacrificio, se anche modesto; oggi che più bisogna sferzare la generale flaccidità e schiaffeggiare la viltà delle classi dirigenti con un esempio di fedeltà alle idee, oggi che è più veemente in noi di fronte all’orizzonte più chiuso la certezza dell’avvenire. Signor Giudice, la legge della fazione colpendoci ci onorerà.
Ferruccio Parri
Combattere.
Venti mesi di guerra partigiana (1945)
Testo del discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945, nel corso di una manifestazione organizzata dal Partito d’Azione per presentare Parri e Leo Valiani, segretario del partito per l’Alta Italia, venuti a Roma in rappresentanza del Comitato Nazionale di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI). Oltre a Valiani ci sono anche il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), e Luigi Longo, vicecomandante come «Maurizio» ed ex ispettore generale delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna.
Il discorso è forse il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano, e costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri» (come si scrive già all’epoca), del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea, al contrario del Risorgimento, è che gli italiani c’erano e che dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva che possa guardare al futuro democratico all’orizzonte.
I morti ci comandano
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico Valiani. Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate, per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola; per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato… a tradimento a raccontarvi qualche cosa del movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento, un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
Voi vivete da qualche tempo in un regime (come dire?) di inflazione declamatoria; e permettete allora che vi faccia un rapporto in uno stile da ragioniere, togliendo da esso tutto quanto possa sollecitare i vostri applausi.
Nascita del movimento partigiano
Immagino che voi possiate facilmente comprendere come sia nato il nostro movimento partigiano: nacque per germinazione spontanea nei giorni del collasso, dello sfacelo. Molti furono i soldati che allora si diedero alla macchia e ad essi si aggiunsero pochi ufficiali che avevano lo stesso spirito di indipendenza. A questi primi nuclei si sono aggiunti poi professionisti, studenti, operai spinti tutti dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare con le armi per lavare una vergogna, una vergogna nazionale. Si sono formate in questo modo le prime bande nelle valli alpine e si formarono i primi Comitati di liberazione nazionale che ebbero il loro punto di unione nel CLN di Milano: questo decise di darsi un ordinamento militare e un comando militare del quale feci parte anch’io.
La stessa cosa, in maniera forse meno programmatica, avvenne nelle altre regioni, soprattutto in Piemonte dove il movimento della resistenza prese subito un grande impulso e fu diretto con molto vigore.
Cominciarono subito i primi scontri. E i primi scontri sono stati atroci. Nella provincia di Cuneo si ebbero rappresaglie feroci. Nei tedeschi vi fu immediatamente il freddo, crudele proposito di estirpare sul nascere e dalle radici questo movimento partigiano. Nel Novarese, nel Bresciano, vi sono stati combattimenti accaniti, nei quali i nostri si sono portati generalmente bene e in alcuni punti molto bene. Avemmo perdite crudeli, ma acquistammo la convinzione che c’era in tutti una capacità combattiva ragguardevole e che il movimento insurrezionale, che si prevedeva immancabile, ci avrebbe trovato con le armi impugnate. Questa sensazione ci fece superare le prime incertezze e le grandi difficoltà incontrate e, passata questa prima fase di incertezze e di disorientamento, abbiamo cominciato il lavoro di organizzazione. Questo lavoro ha marciato piuttosto lentamente nell’inverno, per le difficoltà del soggiorno e della lotta sulle montagne. Non ci scoraggiammo e ci parve di aver raggiunto un risultato veramente notevole quando, nel febbraio ’44, potemmo annoverare circa novemila uomini raccolti in formazioni, per modo di dire, regolari. Da noi questi uomini erano male armati, meglio armati erano in Piemonte, dove i partigiani avevano potuto con maggiore facilità impadronirsi di armi. Ci pareva di avere già un esercito di una certa importanza, ma, passato l’inverno e divenuta più facile la vita dei partigiani nelle vallate, e avuti i primi lanci di armi e di equipaggiamenti dagli alleati, potemmo organizzarci meglio e le nostre file si accrebbero con rapidità.
Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col richiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l’afflusso di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità. Disponemmo allora che si formassero nelle vallate dei campi di istruzione, ma questo nostro desiderio fu fortemente inceppato dal nemico che intensificò la lotta contro i partigiani. Fascisti e tedeschi, passato il primo momento di incertezza in cui non riuscivano ad afferrare il bandolo del movimento partigiano, si gettarono poi risolutamente alla offensiva con rastrellamenti su vasta scala e battute nelle montagne con reparti molto forti, provvisti di autoblinde e anche di cannoni. I risultati di queste offensive furono per noi disastrosi, ma il movimento partigiano era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa, tanto che nell’estate del ’44 potevamo contare su di un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino ad un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine.
Organizzazione militare del movimento partigiano
Eravamo intanto riusciti a dare una forma quasi regolare all’organizzazione militare. Il Comitato militare che si era costituito in un primo tempo fu da noi trasformato in Comando militare provvisto di regolari servizi: un ottimo servizio di informazioni degno di un esercito regolare, organizzato con grande ……….
Ferruccio Parri
…
BIOGRAFIA
Fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo in Italia. Rifiutata la tessera del PNF fu costretto a lasciare l’insegnamento e si dedicò subito all’attività di antifascista, per la quale fu più volte arrestato. Insieme ai Rosselli organizzò l’espatrio di Filippo Turati e Sandro Pertini. Negli anni Trenta mantenne i contatti con i gruppi antifascisti italiani che si erano formati in Francia, in particolare con Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio del 1943, con l’invasione dell’Italia da parte dei nazisti, fu uno dei capi e organizzatori della resistenza all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Diventò il leader del Partito d’Azione e nel 1945 fu Presidente del Consiglio. Il suo governo di unità nazionale però, lacerato dai contrasti tra partiti eterogenei, durò poco. Nel 1946 uscì dal Partito d’Azione e con La Malfa fondò il Partito della democrazia Repubblicana, che poi in seguito confluì nel Partito Repubblicano, e venne eletto come deputato nell’Assemblea Costituente. Fu senatore di diritto nella prima legislatura appoggiando il primo governo De Gasperi. Nel 1953 abbandonò il PRI, in contrasto con la decisione di votare la nuova legge elettorale definita poi “legge truffa”, e diede vita con Calamandrei al Movimento di Unità Popolare che, pur ottenendo un risultato elettorale deludente fu determinante per far mancare il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Nel 1963 venne nominato senatore a vita.
Oliviero Toscani, il nostro Ansel Adams?Articolo del fotografo Marco Scataglini
La recente scomparsa di Oliviero Toscani mi ha fatto molto riflettere. E’ stato davvero il nostro Ansel Adams, ovviamente non dal punto di vista fotografico – mai due fotografi sono stati tanto diversi – quanto da quello della fama.
Oliviero Toscani
Come ho scritto in un recente post, a differenza di musicisti o anche esponenti di altre arti, i fotografi sono abituati al fatto che poche persone conoscano davvero i “propri eroi”e così i nomi di Luigi Ghirri o di Mimmo Jodice, di Walker Evans o Stieglitz, non dicono granché alle persone che non appartengono al nostro mondo. E non è qualcosa che riguarda solo l’Italia, ovviamente, anzi è generalizzata. Nel mondo anglosassone, e non solo, c’è un unico esempio di fotografo noto quasi a tutti: Ansel Adams, appunto.
E non tanto per le sue fotografie (anche) quanto per il suo impegno ecologista, le sue battaglie per la salvaguardia della natura e la creazione di Parchi Nazionali, e per essere stato anche il fotografo che nel 1979 ha realizzato il ritratto ufficiale del presidente Jimmy Carter (a colori!), recentemente scomparso.
Presidente Jimmy Carter-Foto di Oliviero Toscani
In Italia la stessa sorte è toccata a Oliviero Toscani. Della sua morte ne parlano giornali, radio e televisioni – da giorni – con ricordi, testimonianze, coccodrilli scritti in precedenza, visto che Toscani era da tempo malato. Di tutte queste testimonianze di autentica stima e affetto mi ha colpito il fatto che l’elemento strettamente fotografico rimanesse quasi sullo sfondo.
A parte, s’intende, chi scrive di fotografia e riconosce in Toscani uno dei maestri, gli altri ne sottolineano il carattere estroso, polemico, sempre sopra le righe, i diversi processi subiti per diffamazione e così via. La sua vita è stata un susseguirsi di dichiarazioni urticanti ma mai banali, una continua ricerca dell’autentico, senza nascondersi dietro il “politicamente corretto”. Era indubbiamente un uomo libero. Tuttavia leggendo o ascoltando le lamentazioni per la sua morte, ho avuto sempre l’impressione che non si parlasse tanto di un fotografo, quanto di un personaggio pubblico qualunque, di un “intellettuale” sui generis, un po’ come quando si parla di Sgarbi non si pensa al fatto che sia un critico d’arte, ma un acceso polemista.
E invece Toscani non sarebbe stato quel che è stato se non fosse stato soprattutto un fotografo. Quel che aveva da dire – per davvero – lo ha detto con le sue foto. O meglio, per essere più precisi, con le idee dietro le sue foto. Perché di fatto, sebbene immediate e dirette, le sue immagini erano molto concettuali, ma non il “Concettuale” con la “C” maiuscola dei soliti “Artisti” (con la A maiuscola anch’essi) ma un concettuale fatto per essere compreso, chiaro, con pochi fraintendimenti.
Foto di Oliviero Toscani
Questo perché Toscani non amava i giri di parole ma in particolare detestava i “giri d’immagine”, insomma le sue foto dovevano dire quel che avevano da dire sbattendotelo in faccia. Per questo scandalizzavano e però sono rimaste nella nostra memoria anche dopo molti anni, basti pensare a tutte le pubblicità della Benetton. Foto come quella dei tre cuori umani, di tre origini diverse (un africano, un europeo e un asiatico) rendevano perfettamente l’idea del fatto che dentro siamo fatti tutti allo stesso modo. Colpiva, infastidiva pure, ma era immediatamente comprensibile. E lo stesso vale per le sue foto di condannati a morte, per il bacio tra un prete e una monaca e così via.
La verità però è che Toscani ha legato la sua fama a immagini come queste, ma era anche molto altro. Ho vecchie riviste degli anni ’70 con la pubblicità della Olympus OM 2 dove un giovane Toscani ne illustrava le meraviglie nell’uso per il reportage, genere a cui allora si dedicava. Era in grado di raccontare luoghi e persone, di immergersi in realtà complesse come – per citare un progetto relativamente recente, del 1996 – il paese di Corleone e di trarne così un catalogo Benetton che era contemporaneamente una storia basata sui volti delle persone, sui loro gesti, sui loro atteggiamenti e appunto la promozione di un marchio iconico.
Fotocamere Olympus-Foto di Oliviero Toscani
Se dovessimo dire che fotografo era, probabilmente dovremmo considerarlo un ritrattista: sapeva cogliere l’essenza di chi aveva davanti, ma ci metteva molto del proprio, e sapeva fondere le due cose con efficacia, specialmente perché – come ricorda Andrea Scanzi in un suo articolo – non gli riusciva proprio di mentire. Motivo per cui ebbe molte critiche, ad esempio, per un servizio sulla ex-ministro Maria Elena Boschi uscito su “Maxim” e in cui non avrebbe reso adeguatamente il suo soggetto. Insomma, lo si accusava di non aver ripreso la Boschi per quello che il pubblico si aspettava: elegante e sexy. Non è questo il ruolo di un fotografo, sembrerebbe di poter dedurre da tali critiche, trasformare tutto in “Glamour”?
Poteva piacere o meno (ad esempio non è mai stato uno dei miei fotografi di riferimento) ma difficilmente se ne poteva disconoscere il ruolo avuto per scuotere la sonnolenta fotografia italiana, e per questo basti pensare alla sua straordinaria rivista “Colors”, realizzata per i Benetton a partire dal 1991, ampiamente anticipatrice di tante riviste che oggi si atteggiano a “cosa nuova”.
Mi rendo conto che anch’io sto scrivendo una sorta di elegia su Toscani, non era il mio intento. Quello che mi premeva sottolineare è l’importanza del suo ruolo, soprattutto per far conoscere la fotografia fuori dai soliti recinti più o meno intellettuali. Veniva sempre chiamato “fotografo” anche quando nelle interviste lo si sollecitava a parlare di altro. Era comunque la voce di un fotografo quella che rispondeva, una voce che non poteva essere disgiunta da quello sguardo sensibile, attento, ironico, istrionico. E in quanto fotografo ha anche cercato costantemente di far crescere i giovani che si affacciavano a questo mondo, come Adams è stato un vero ambasciatore della nostra arte presso il grande pubblico. Questo gli ha inimicato tanti fotografi che vedevano in lui una sorta di antitesi a quello che dovrebbe essere il ruolo del serio intellettuale che si esprime con le immagini.
Foto di Oliviero Toscani
Ma la verità è anche che Toscani era inimitabile. Non lo dico nel senso che realizzava fotografie tecnicamente inarrivabili, anzi. Il fatto è che erano foto davvero “sue”, in cui il ruolo del fotografo, la sua prorompente personalità, erano parte integrante del soggetto.
I fotografi amatoriali amano Ghirri – e quelli della sua “scuola” – perché pensano di potersi ispirare a lui, perché il suo approccio può essere “copiato”, anche se il più delle volte con risultati francamente non proprio apprezzabili. Fatto sta che la Rete è piena di fotografie “alla Ghirri”, di foto di architettura “alla Basilico”, di foto di paesaggi “alla Guidi” e così via. Ed è singolare pensare che questi tre fotografi che ho citato come esempio in realtà siano poco noti al pubblico generalista, che invece conosce Toscani. Viceversa nessun fotografo si sogna di imitare Toscani perché è sostanzialmente impossibile se non si diventa almeno un po’ come lui era. La corrispondenza tra le sue immagini e il suo modo di essere era quasi perfetta.
Sia chiaro, ogni fotografo è unico e inimitabile, ma – permettetemi la forzatura semantica – Toscani era il più unico di tutti, specialmente quando non premeva il pulsante di scatto della fotocamera. Per questo ho spesso incontrato fotografi che non lo apprezzavano, sostenendo che era soprattutto un “personaggio”, più che un artista o “un creativo”, parola che tra l’altro Toscani detestava. Uno buono per stare in televisione o alla radio, per scrivere libri ironici (come “Non sono obiettivo“, uscito per Feltrinelli nel 2001, il cui titolo dice tutto) ma scontato e banale dal punto di vista meramente tecnico. E si sa che i fotoamatori guardano soprattutto l’aspetto tecnico, invece di quello intellettuale.
Ho sempre risposto che il personaggio e il fotografo, le parole e le fotografie in Toscani erano un tutt’uno, lo rendevano una miscela perfetta e per certi versi esplosiva di leggerezza e profondità, di caustica polemica e insondabile ironia. Un fotografo di altri tempi eppure contemporaneo, direi necessario.
Foto di Oliviero Toscani
Qualche mese fa, al Festival di Reggio Emilia, c’era una sua mostra risalente alla fine degli anni ’90: una serie di fotografie di cacche (Toscani ha sapientemente intitolato il progetto “Cacas“), insomma escrementi sia umani che animali. Le foto sono su fondo bianco, semplici, ben realizzate, ma con una potenza eccezionale. Dopo i primi facili sorrisini, ed ecco la parte divertente e divertita dell’operazione, lo spettatore entra in un tumulto di riflessioni e considerazioni, ed è questa la parte profonda – irriverente ma mai autocompiaciuta – di ogni progetto del fotografo milanese. Scommetto che avrà considerato questa serie di immagini una galleria di ritratti dei suoi detrattori, ma in verità ha poi scritto che “la cacca è l’unica cosa che l’essere umano fa senza copiare gli altri, non c’è niente di più personale e ogni volta è un’opera d’arte“. Capito cosa significa essere Oliviero Toscani? Intellettuale senza fare l’intellettuale, profondo apparendo superficiale. Saper giocare con le contraddizioni come un prestigiatore o un circense. Appunto: unico.
E certo: ci vuole anche il coraggio. Vorrei veder voi mettervi lì a collezionare cacche fresche (e scommetto odorose) e a fotografarle con tutto l’armamentario di “bank” e stativi, per poi farsi ridere dietro.
Per questo, per la sua indiscutibile capacità di farci riflettere e arrabbiare è stato davvero un maestro della fotografia, la cui verve indubbiamente ci mancherà.
Faro di Posizione.Teresa Wilms Montt: la poetessa libera e reclusa-Non dormo ancora, è tardi ma inquietamente cerco versi quasi per placare la mia sete insaziabile di bellezza. Inciampo sul web sui suoi versi, ne resto rapita. Sì, è la dinamica dell’amore. Leggo voracemente la poesia in cui Teresa si presenta. Nome, cognome e biografia condensate in versi struggenti. Fanno male, sembrano arrivare allo stomaco come un pugno. Una poetessa cilena che muore suicida a soli 28 anni a Parigi con una dose eccessiva di droga. Guardo il suo volto. E’ di una bellezza commovente.
I suoi lineamenti sono così delicati. Occhi profondi e intensi, labbra carnose, corpo sinuoso. Bella e opulente nel suo amare senza misura. Ribelle e insofferente ai conformismi, alle castrazioni, alle oppressioni di chi la vuole donna obbediente, forse solo moglie, forse solo madre. Teresa lo è. Madre di due bellissime bambine che in una foto di archivio stringe tra le braccia, come il migliore frutto delle sue opere. Ha scritto molto nella sua breve vita. La scrittura l’ha divorata e salvata.
Come l’amore. Storia infelice e tragica quella della nostra poetessa di cui forse troppo poco si parla o si conosce. Eppure in una notte di ottobre i suoi versi sembrano arrivare dritti come un proiettile sparato dal passato verso il futuro. Narra da visionaria una storia che si ripete sempre uguale. Una donna che ha vissuto perfino la reclusione in un monastero, forzatamente, come punizione. Privata delle sue due figlie. Poetessa martoriata perché l’eccesso di gelosia del marito l’ha segnata a fuoco con la violenza atroce della separazione dalle figlie.
Per cinque anni Teresa non le vedrà più. Lì si insinua il primo tentativo di suicidio. Non muore, la vita la pretende ancora. Fugge dal monastero e da quella reclusione forzata, grazie ad un amico poeta. Diventerà il suo migliore amico. Che poi una parte della critica lo voglia amante di Teresa, poco importa. L’ha aiutata a salvarsi. La nostra poetessa viaggia in lungo e largo per il mondo. Salotti letterari, salotti di politici anarchici dove incontra e conosce tanti uomini del suo tempo, intellettuali, poeti, scrittori, filosofi.
Legge e scrive. Escono le prime raccolte e sono poesie segnate dal dolore, dall’amore profondo e carnale, dal disagio esistenziale, dalla mancanza struggente delle figlie, da un senso di inadeguatezza verso il mondo, di estenuante stanchezza e solitudine come Teresa avesse cento anni. Ne ha meno di trenta. La reclusione e quel terribile tradimento da parte del marito che l’ha voluta castrare e punire, quel marito che ha sposato a soli diciassette anni, contro il volere dei genitori, l’hanno marchiata in maniera incontrovertibile.
E’ rotta già segnata. Cova in segreto un male di vivere che la porterà a non reggere più un ulteriore atroce distacco dalle figlie che riabbraccerà a Parigi dopo cinque anni. Trova pace ma per poco. Quando le figlie con il nonno paterno vanno via da Parigi, Teresa sprofonda in uno stato depressivo senza via d’uscita. Tra droghe sempre più pesanti, alcol e sofferenza, si spegne nella notte di natale del 1821, sola per overdose. Vola leggera la sua anima resa pesante dalla condanna, dal giudizio, dalla colpa. Una donna e poetessa che avrebbe dovuto scegliere tra l’amore che incontrerà oltre il matrimonio, per un uomo che lei chiamerà Anuarì, suicida anche lui, poiché crederà di non essere corrisposto e la vita di una donna “per bene”. Sposata, devota e fedele, esclusivamente madre, senza alcuna velleità letteraria e poetica.
Senza amici, senza salotti, senza viaggi, senza lettere d’amore scritte per chi ama senza resa, senza versi che in maniera prolifica fa gemmare dal suo corpo che fragile non è, nonostante le violenze. Teresa resiste infatti a tutto. Alla non comprensione dei suoi genitori aristocratici, al non amore del marito, all’amore profondo segnato dalla morte per Anuarì, alla reclusione forzata. Teresa resiste a tutto ma non a quella amputazione di utero.
Non a quel rapimento brutale delle figlie. Non al tradimento più bieco, subdolo e sadicamente fonte di compiacimento per chi giurava di amarla. Resiste e sopporta tutto, fuorché essere defraudata delle sue figlie. L’hanno colpita non solo nella sua femminilità sacra e inviolabile, nella sua capacità di procreare e generare vita; l’hanno violentata nel peggiore dei modi. Le hanno impedito di essere madre perché una donna di pensiero, una donna intellettuale, una donna che amava e viveva di poesia.
D’impeto mi viene in mente la mia poetessa, Alda Merini. Anche a lei proprio il marito Ettore Carniti ha inflitto il manicomio e l’ha brutalmente sottratta all’amore delle sue quattro figlie. Dieci anni di orrore. Teresa cinque. Ma il dolore dell’anima non segue il corso cronologico. Dieci anni non fanno più male di cinque. E’ il gesto vile di sopraffazione e violenza che strazia prima le viscere, poi l’anima, poi il corpo. Sopravvivere è impresa per poche. Alda ce la fa. Teresa no.
Eppure entrambe si aggrappano all’amore e alla poesia. Entrambe cantano il dolore per sublimarlo, per renderlo materia magmatica ma sopportabile. Vi sono decenni importanti di distanza tra le due poetesse. Poco importa. Hanno vissuto traumi feroci simili. E hanno lasciato versi che non si scordano. Mi affiorano quelli di Alda Merini: “E va bene anche così, aggrappata al muro con te che prendi la mira con una pistola caricata a tradimenti. Forse mi vuoi sparita o forse non mi vuoi più, ma io sono quell’amore che ha reso immortale i tuoi occhi e solitudine infelice questi piccoli giorni della mia vita.”Adesso tornano ad eco i versi autobiografici di Teresa: “Sono Teresa Wilms Montt e anche se sono nata cento anni prima di te, la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna. E’ difficile essere donne in questo mondo. Tu lo sai meglio di tutti. Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita. Ho distillato una donna. Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me. Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia. Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia. Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita. Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà. Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato. Quando mi hanno picchiato, ho risposto. Sono stata crocefissa, morta e sepolta, dalla mia famiglia e la società. Sono nata cento anni prima di te comunque ti vedo uguale a me. Sono Teresa Wilms Montt e non sono adatta alle signorine.” Niente altro da aggiungere. Aveva ragione Teresa, alla luce di una violenza che dura e si perpetra immutabile sulle donne da secoli, senza alcun reale cambiamento. “Le leggi dello Stato, non sono quelle del cuore”, mi sovviene Antigone.
L’uomo non impara. Ripete lo stesso copione. Il percorso verso la parità di genere è tutto roba da scrivere per addetti ai lavori: psicologi, psicoterapeuti, criminologi, forze dell’ordine, magistrati, giudici, avvocati e sì, anche intellettuali, giornalisti, scrittori, poeti e docenti. Ma siamo nel 2023 e di donne uccise, violentate, calpestate, usate, ridotte a cose inerti, annullate, defraudate della loro dignità, femminilità, maternità, ce ne sono tante, troppe. Ogni giorno è la conta della vergogna disumana.
Resta un numero antiviolenza: 1522. Resta la voce straziante di un coro di poetesse e scrittrici che come Teresa hanno avuto il coraggio di dire no e di scriverlo senza reticenze. In quel “non sono adatta alle signorine” non crediate che faccia allusione alle donne ancora in giovane età. Io da donna e scrittrice vedo ahimè, una sferzata feroce contro quegli uomini che si illudono di essere padroni della vita delle donne in quanto “signorine”.
Fragili, vulnerabili, non idonee a scrivere la storia, non all’altezza di esprimere il proprio libero pensiero. Ma le signorine, signori uomini, siete voi, paradossalmente, quando vivendo in questa patologica illusione di dominare e possedere le donne, non fate altro che perpetrare la vostra fragilità emotiva, la vostra abissale insicurezza, la vostra ferocia narcisistica. Teresa muore nel 1821. Ne moriranno ancora chissà quante ma “l’armonia vince di millesecoli il silenzio”.
La Poesia resta e resiste. Un grazie al mio amato Foscolo va elargito. Anche se non hanno potuto cambiare il destino delle donne, mi auguro che qualche sussulto interiore lo provochino ancora oggi, Teresa Montt, Alda Merini, Maria Fuxa, Camille Claudel e tutte le altre. Spero che chi legga qualche domanda se la ponga. Qualche fremito lo provi, in nome di tutte le donne che pur subendo la lettera scarlatta della colpa mai commessa e l’onta ingiusta della punizione, il coraggio di sferzare il sistema e di dire no ce lo hanno avuto e continuano ad averlo.
Bia Cusumano
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes. Poetessa, Femminista ed anarchica(Viña del Mar, Cile, 8 settembre 1893 – Parigi, Francia, 24 dicembre 1921) è stata una scrittrice, poeta e anarchica cilena. È considerata un’antesignana del femminismo-anarchico.PARIGI 24 dicembre 1921-La notte di Natale del 1921, a Parigi, muore suicida, per overdose di Véronal, Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes.-Poetessa, femminista e anarchica cilena-Biblioteca DEA SABINA- Le figlie, che non vedeva da 5 anni, avevano appena lasciato la città. Aveva 28 anni, era una nobildonna, intellettuale cilena, che aveva lottato per il riconoscimento dei propri diritti, dopo che il marito (sposato per amore quando aveva 17 anni) l’aveva portata di fronte ad un tribunale con l’accusa di adulterio. I giudici l’avevano fatta rinchiudere in un convento, dal quale lei riuscì a fuggire, con l’aiuto del suo amante. Dovette adottare pseudonimi maschili per pubblicare.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Poetessa, femminista, anarchica, così è definita oggi. Lei, invece, scrisse questa “Autodefinizione”:
Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.
E’ difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.
Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.
Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.
Sono stata crocefissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.
Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta alle signorine.
“Inquietudini sentimentali”
Con il capo reclino fra le braccia, in affannosa insonnia,
ripeto, come un bimbo, una prece: il tuo nome.
Sì, Anuarì, ho tanta voglia di dormire; provo lo stesso languido
sopore che turbò la tua anima prima che eternamente
si estinguesse il tuo sguardo adorato.
Come in un’orazione, le mie labbra van ripetendo, sillaba
per sillaba, il rosario sgranato del tuo nome, e le mie
mani giacciono protese al nido tiepido dei tuoi capelli
per cercare un rifugio ove morire. Anuarì! Anuarì!
Simili al brulicare di una fonte sgorgano dal mio seno
implorazioni e grida di dolore. Il caos le inghiotte tutte,
prima che possano arrivare a te. (…)
Senza di te la vita è qualcosa di tetro, un ignobile straccio che mi segue.
Da “Poesia”, n.229, luglio/agosto 2008, traduzione di Cristina Sparagana.
Tu, così forte e bello, col tuo viso sereno e la tua fronte
sempre fissa al cielo.
Anuarí, il dolore non uccide, il dolore non reca la pazzia;
ma sprofonda nell’anima come un corpo di piombo in
un sisma infinito. Turbata, ascolto nelle lunghe notti
l’eco della mia voce che ti cerca attendendo nel buio
una risposta. Poi, la nera realtà mi percuote furente.
Forse l’anima tua pure è svanita? No! Ma com’è possibile
che tanta forza, tanto ardore astrale, possa perire
nell’eterno gelo?
(Teresa Wilms Montt, in POESIA 278, gennaio 213, Vite di poeti)
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Stefano Beccastrini:CHI E’ STATA TERESA WILMS MONTT
Nata nel 1893 a Vina del Mar (Cile), Teresa Wilms Montt è stata una delle più grandi scrittrici del Novecento latinoamericano. Fin dall’adolescenza fu innamorata della vita, dell’amore, della poesia e della musica (soprattutto del melodramma italiano: la sua eroina preferita fu la pucciniana Tosca). Ribelle, femminista, impegnata nel movimento anarchico e socialista, viaggiò il mondo (Buenos Aires, New York, Madrid, Londra, Parigi) dopo esser fuggita dal Cile, ove la famiglia di suo marito l’aveva fatta rinchiudere in un convento. Ovunque si recò, attirò su di sé passione e ammirazione, segnando con la sua elegante e fascinosa presenza gli ambienti culturali – sia sudamericani che europei – che andavano aprendosi all’avanguardia letteraria e politica. Le pesò molto la lontananza forzata dalle due amatissime figlie. Le reincontrò fugacemente, dopo molti anni di distacco, a Parigi nel 1920. Fu l’ultima volta: da allora la gran voglia di vivere, di amare, di scrivere di Teresa si spense. Ella si recluse volontariamente in una stanza dell’Hotel Montaigne, ove alfine decise di uccidersi, con una forte dose di Veronal. Morì dopo esser stata inutilmente ricoverata all’Ospedale Laennec: era la vigilia di Natale del 1921.
E’ sepolta nel cimitero parigino di Pére Lachaise. Se capitate a Parigi, andate a trovarla…
La tua canzone si leva con monotona cadenza, o vita,
ed essa esalta il mio desiderio di morte.
Il silenzio estende il suo cristallo opaco dentro l’anima,
ove giace una passione ormai spenta…
Teresa Wilms Montt
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Siete poetas suicidas
Hay una primavera en cada vida – Antología de poetas-suicidas fue propuesta en la asignatura de «Tipologías de la Edición» del máster en Estudios Editoriales (Universidad de Aveiro, Portugal).
Esta no será más una antología de elección de poemas que condensen toda la obra poética de las siete poetas-suicidas presentadas, enseñando trazos psicológicos referentes a perturbaciones y recalcaduras que originarían su trágico final de vida. Por el contrario. La selección poética intentará señalar los temas alusivos a la esperanza, pasión, amor, alegría, felicidad, transformación, sensualidad, fuerza y arrojo. Como el verso de Florbela Espanca elegido para el título supone, se enfocará el lado luminoso, fuerte y fértil de las siete autoras. A pesar de que la expresión poetas-suicidas pueda no coadunarse con la intención basilar de esta antología, su utilización transmite el peso simbólico emanado de la relación umbilical entre la poesía, la muerte y la vida.
Por orden cronológico de nacimiento, las poetas escogidas son: Alfonsina Storni (Argentina), Teresa Wilms Montt (Chile), Florbela Espanca (Portugal), Anne Sexton y Sylvia Plath (Estados Unidos), Alejandra Pizarnik (Argentina) y Ana Cristina Cesar (Brasil).
Sandra Santos
AUTODEFINICIÓN
Soy Teresa Wilms Montt
y aunque nací cien años antes que tú,
mi vida no fue tan distinta a la tuya.
Yo también tuve el privilegio de ser mujer.
Es difícil ser mujer en este mundo.
Tú lo sabes mejor que nadie.
Viví intensamente cada respiro y cada instante de mi vida.
Destilé mujer.
Trataron de reprimirme, pero no pudieron conmigo.
Cuando me dieron la espalda, yo di la cara.
Cuando me dejaron sola, di compañía.
Cuando quisieron matarme, di vida.
Cuando quisieron encerrarme, busqué libertad.
Cuando me amaban sin amor, yo di más amor.
Cuando trataron de callarme, grité.
Cuando me golpearon, contesté.
Fui crucificada, muerta y sepultada,
por mi familia y la sociedad.
Nací cien años antes que tú
sin embargo te veo igual a mí.
Soy Teresa Wilms Montt,
y no soy apta para señoritas.
AUTO-DEFINIÇÃO
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Sou Teresa Wilms Montt
e ainda que tenha nascido cem anos antes de ti,
a minha vida não foi assim tão diferente da tua.
Eu também tive o privilégio de ser mulher.
É difícil ser mulher neste mundo.
Tu sabe-lo melhor que ninguém.
Vivi intensamente cada intervalo e cada instante da minha vida.
Transpirei mulher.
Quiseram reprimir-me, mas não o conseguiram.
Quando me viraram as costas, eu dei a cara.
Quando me deixaram sozinha, fiz companhia.
Quando quiseram matar-me, dei vida.
Quando quiseram fechar-me, procurei liberdade.
Quando me amavam sem amor, eu dei mais amor.
Quando quiseram calar-me, gritei.
Quando me golpearam, contestei.
Fui crucificada, morta e sepultada,
pela minha família e pela sociedade.
Nasci cem anos antes de ti
no entanto sou igual a ti.
Sou Teresa Wilms Montt,
e não sou apta para madames.
ALTA MAR
De tanta angustia que me roe, guardo un silencio que se unifica a la entraña del océano.
En la noche cuando los hombres duermen, mis ojos haciendo tríptico con el farol del palo mayor, velan con el fervor de un lampadario ante la inmensidad del universo.
El austro sopla trayendo a los muertos cuyas sombras húmedas de sal acarician mi cabellera desordenada.
Agonizando vivo y el mar está a mis pies y el firmamento coronando mis sienes.
ALTO MAR
De tanta angustia que me rói, guardo um silêncio que se unifica às entranhas do oceano.
De noite quando os homens dormem, os meus olhos fazendo tríptico com a luz do cajado, velam com o fervor de um candelabro ante a imensidão do universo.
O austro sopra trazendo os mortos cujas sombras húmidas de sal acariciam os meus cabelos desordenados.
Agonizando vivo e o mar está a meus pés e o firmamento coroando as minhas têmporas.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
BELZEBUTH
Mi alma, celeste columna de humo, se eleva hacia
la bóveda azul.
Levantados en imploración mis brazos, forman la puerta
de alabastro de un templo.
Mis ojos extáticos, fijos en el misterio, son dos lámparas
de zafiro en cuyo fondo arde el amor divino.
Una sombra pasa eclipsando mi oración, es una sombra
de oro empenachado de llamas alocadas.
Sombra hermosa que sonríe oblicua, acariciando los sedosos
bucles de larga cabellera luminosa.
Es una sombra que mira con un mirar de abismo,
en cuyo borde se abren flores rojas de pecado.
Se llama Belzebuth, me lo ha susurrado en la cavidad
de la oreja, produciéndome calor y frío.
Se han helado mis labios.
Mi corazón se ha vuelto rojo de rubí y un ardor de fragua
me quema el pecho.
Belzebuth. Ha pasado Belzebuth, desviando mi oración
azul hacia la negrura aterciopelada de su alma rebelde.
Los pilares de mis brazos se han vuelto humanos, pierden
su forma vertical, extendiéndose con temblores de pasión.
Las lámparas de mis ojos destellan fulgores verdes encendidos
de amor, culpables y queriendo ofrecerse a Dios; siguen
ansiosos la sombra de oro envuelta en el torbellino refulgente
de fuego eterno.
Belzebuth, arcángel del mal, por qué turbar el alma
que se torna a Dios, el alma que había olvidado las fantásticas
bellezas del pecado original.
Belzebuth, mi novio, mi perdición…
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
BELZEBUTH
A minha alma, celeste coluna de fumo, eleva-se até
à abóbada azul.
Levantados, implorando, os meus braços, formam a porta
de alabastro de um templo.
Os meus olhos extáticos, fixos no mistério, são duas lâmpadas
de safira em cujo fundo arde o amor divino.
Uma sombra passa eclipsando a minha oração, é uma sombra
de ouro ornado de chamas impetuosas.
Sombra formosa que sorri oblíqua, acariciando os sedosos
caracóis dos enormes cabelos luminosos.
É uma sombra que observa com um olhar de abismo,
em cuja margem se abrem as flores rubras de pecado.
Chama-se Belzebuth, sussurrou-mo na cavidade
da orelha, produzindo-me calor e frio.
Gelaram-me os lábios.
O meu coração converteu-se rubro de rubi e um ardor de frágua
me queima o peito.
Belzebuth. Passou Belzebuth, desviando a minha oração
azul até à negrura delicada da sua alma rebelde.
Os pilares de meus braços converteram-se humanos, perdem
a sua forma vertical, estendendo-se com tremores de paixão.
As lâmpadas de meus olhos reluzem fulgores verdes acesos
de amor, culpados e devotos a Deus; seguem
ansiosos a sombra de ouro envolta no torvelinho refulgente
de fogo eterno.
Belzebuth, arcanjo do mal, porquê turvar a alma
que se volta para Deus, a alma que havia esquecido as fantásticas
belezas do pecado original.
Belzebuth, o meu noivo, a minha perdição…
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
María Teresa de las Mercedes Wilms Montt, seconda di otto sorelle, era nata nel 1893 a Viña del Mar (Cile) in una famiglia benestante.
María Teresa iniziò preso a ribellarsi ai genitori e a mostrare una certa insofferenza verso la vita borghese.
Fece molto scalpore la scelta di sposarsi, contro la volontà dei suoi genitori, con un funzionario di stato con il quale ebbe due figlie, Elisa e Sylvia Luz. La famiglia visse nella capitale cilena prima e ad Iquique poi, nel nord del paese.
In questa città María Teresa si immerse nella scrittura ed entrò in contatto con influenti artisti dell’epoca che la introdussero agli ideali femministi e anarchici a cui restò fedele per tutta la sua vita. Sempre in questo periodo iniziò a pubblicare alcuni scritti sotto pseudonimo. A causa delle sue amicizie e della relazione con il cugino del marito, venne richiamata a Santiago e fu reclusa in un convento. Disperata per la separazione dalle figlie, cadde in una profonda depressione e tentò il suicidio nel marzo del 1916.
Fu un suo celebre amico, lo scrittore Vincente Huidobro, ad aiutarla a fuggire dal monastero. I due andarono a Buenos Aires, dove iniziò a frequentare i circoli intellettuali femministi e pubblicò degli scritti in cui trattava di temi a lei cari, dalla spiritualità all’erotismo. Dopo qualche mese prese la decisione di trasferirsi a New York per lavorare come infermiera della Croce Rossa, ma la fortuna l’abbandono ancora una volta: venne scambiata per una spia tedesca e le fu impedito di mettere piede sul suolo statunitense.
Sconsolata, venne deportata in Spagna. Anche a Madrid, María Teresa entrò rapidamente in contatto con scrittori e artisti dell’epoca e continuò a scrivere con lo pseudonimo di Teresa de la Cruz. Nel circolo di intellettuali che frequentava c’era Julio Romero de Torres, un pittore di Córdoba che ne fece la sua musa ispiratrice, usandola più volte come soggetto dei suoi lavori.
Dopo un breve incontro con le figlie nel 1920, Teresa continuò la sua ricerca intellettuale e viaggiò spesso a Londra e Parigi, ma non riuscì mai a superare il dolore della separazione. Morì la vigilia di Natale del 1921 in un hotel di Parigi per una overdose di barbiturici.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes (Viña del Mar, Cile, 8 settembre 1893 – Parigi, Francia, 24 dicembre 1921) è stata una scrittrice, poeta e anarchica cilena. È considerata un’antesignana del femminismo-anarchico.
Femminista ed anarchica
Tra il 1912 e il 1915 risiede ad Iquique, una città allora in piena espansione. La gelosia del marito e il maschilismo imperante negli ambienti intellettuali la spingono verso una vita errabonda, ma comunque ricca e stimolante. Mantiene una stretta amicizia con artisti e intellettuali influenti, come il poeta Victor Domingo Silva. Pubblica i suoi primi testi con lo pseudonimo di Iquique Tebal o Tebal.
In questa fase incontra donne e sindacalisti del nascente movimento operaio e aderisce agli ideali femministi e anarchici, grazie all’influenza esercitata dalla spagnola femminista Zarraga Betlemme e del lavoro dell’attivista cileno Luis Emilio Recabarren. In questa fase è anche vicina agli ambienti della massoneria.
Tornata a Santiago, il marito scopre la sua relazione extraconiugale con Vicente Zañartu Balmaceda e spinge la sua famiglia per rinchiuderla in convento. Depressa per la situazione, Maria Teresa mette in atto il suo primo tentativo di suicidio il 29 marzo 1916.
Nel mese di giugno del 1916, Vicente Huidobro l’aiuta a fuggire dal convento e con lei ripara a Buenos Aires. Il suo soggiorno in questa città gli permette di incontrare un cosmopolita circolo intellettuale che avrà su di lei una grande influenza.
Nel 1917 pubblica Inquietudes Sentimentales e Los Tres Cantos. Emigrata a New York, vorrebbe lavorare per la Croce Rossa, ma le autorità statunitensi la bloccano ad Ellis Island perché sospettano possa essere una spia tedesca (la sua famiglia è di origine tedesca).
Attività intellettuali a Madrid e Parigi
Si trasferisce in seguito in Spagna, a Madrid, dove vive da bohèmien e incontra numerosi scrittori. Celandosi dietro lo pseudonimo di Teresa Cruz pubblica diverse sue opere: En la Quietud del Mármol e Mi destino es errar.
Nel 1920 si stabilisce a Parigi, dove in seguito viene raggiunta dalle sue figlie che non vedeva da cinque anni. Dopo la loro partenza per il Cile, Maria Teresa cade preda di una forte crisi depressiva.
La notte di Natale del 1921, muore suicida per overdose di Véronal. Aveva soli 28 anni.
Claudia Piermarini-” I SOLDATI DEL POPOLO”-Editore Red Star Press-
Descrizione del libro di Claudia Piermarini -Prefazione di Pasquale Iuso–Quando, alla fine della prima guerra mondiale, i contadini scesero in piazza per protestare contro la mancata distribuzione delle terre e, in città, gli operai occuparono in armi le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro, l’intero ordinamento politico italiano venne sconvolto dalla domanda di un nuovo ordine sociale, presto raccolta dall’organizzazione paramilitare degli Arditi del Popolo: l’unico, e spesso insuperabile baluardo contro l’avanzata reazionaria del fascismo.
Claudia Piermarini I SOLDATI DEL POPOLO
E, se i tumulti dei protagonisti del «biennio rosso» vennero soffocati nel sangue, non meno duri furono i provvedimenti emanati contro tutti quei partigiani che, una volta sconfitto il nemico nazista, avrebbero voluto continuare a combattere fino a conseguire l’obiettivo di una nuova patria socialista, finalmente slegata dalla dittatura della proprietà privata e non più assoggettata agli interessi del grande capitale.
Ancora alle soglie degli anni Cinquanta, mentre gruppi come quello milanese della Volante Rossa si impegnavano in atti eclatanti di «giustizia proletaria», l’intero Paese insorse alla notizia dell’attentato organizzato ai danni di Palmiro Togliatti: una scintilla in grado di infiammare la prateria del malcontento popolare costringendo lo stesso Partito comunista a una difficile opera di mediazione per evitare la «fuga in avanti» a cui una moltitudine di italiani era assolutamente disposta.
Avvincente ed esaustivo, I soldati del popolo di Claudia Piermarini racconta la storia eretica degli Arditi, dei partigiani e dei ribelli italiani: uomini e donne ingiustamente dimenticati sebbene, al di fuori da ogni schema e da qualunque direttiva di partito, lottarono e morirono nel nome della giustizia e della libertà.
Volante_Rossa-
La storia della Red Star Press
Quella della cooperativa editoriale Red Star Press è la storia di un piccolo gruppo di lavoratrici e lavoratori che, dopo aver prestato a lungo il proprio braccio e la propria mente all’industria editoriale, prendono la decisione di fare una cosa diversa: creare loro stessi, e senza padroni, una casa editrice in grado di dare il giusto spazio ai temi relativi alla storia e alla memoria del movimento operaio. Correva l’anno 2012 e, nel mese di aprile, vedeva la luce il primo titolo con la stella in copertina.
Si trattava de “Il libretto rosso della Resistenza”, destinato a inaugurare la collana “I libretti rossi”, pensata per offrire in chiave divulgativa i testi dei giganti del pensiero politico rivoluzionario e in modo sintetico quelli che sono stati i grandi momenti di riscossa popolare. Insieme ai “Libretti rossi”, nel giro di pochi mesi arrivano in libreria e negli infoshop di movimento i volumi della collana “Unaltrastoria” e “Tutte le strade”: libri concepiti per durare nel tempo, concentrandosi, rispettivamente, sulla storia delle grandi lotte di liberazione e, in modo meno convenzionale, su generi come il reportage, la biografia, il memoir, il fumetto, la narrativa e la poesia, per tradurre con la carta e con l’inchiostro quelle che sono le aspirazioni di cambiamento provenienti da ogni tempo e da ogni paese. Con gli anni, a questa programmazione, si sono affiancati i contenuti ospitati nelle collane “Le Fionde” (saggistica politica), “Barrio Chino” (urbanistica, geografia sociale e antropologia urbana) e, dedicata ai bambini e alle bambine, la nuova collana “Red Star Kidz”: materiale che, fedeli alla nostra vocazione “stradaiola”, abbiamo avuto l’occasione di diffondere nel corso dei principali appuntamenti dedicati ai libri in giro per l’Italia. costruendo un punto di riferimento orgogliosamente antifascista, antisessista e antirazzista agli ingranaggi collettivi della memoria.
Ci sono altri temi particolarmente cari alla Red Star Press. La musica, la controcultura e lo sport popolare – un campo rispetto al quale, dalla Red Star, nasce l’etichetta Hellnation Libri – e poi l’arte contemporanea e ipercontemporanea, di cui, in modo sistematico, si occupa l’altra etichetta della cooperativa: Bizzarro Books.
Nella sede di viale di Tor Marancia 76, a Roma, in ogni caso, la Red Star Press non si occupa solo di libri. Dalla serigrafia, infatti, escono le t-shirt ispirate alle pubblicazioni e fedeli alla stessa linea editoriale: pensiamo ciò che siamo e stampiamo ciò che pensiamo; e ciò che siamo lo indossiamo! O, convinti che muri puliti possano solo significare popoli muti, lo appendiamo: come accade con le grafiche dedicate ai grandi personaggi della storia popolare.
Questa, in sintesi, è la storia della Red Star Press. E identici sono i motivi che ispirano il suo lavoro. Affinché l’editoria torni a dare spazio ai sogni. In attesa di assaltare il cielo.
Contatti
Red Star Press Viale di Tor Marancia 76 Roma, Italia CAP 00147
Pierluigi Panza- La Scala- Architettura e città- Marsilio Arte-
Il libro La Scala di Pierluigi Panza ci restituisce il fascino e la complessità di un teatro che è uno dei centri culturali più importanti del mondo.
«La maggior parte degli amanti dell’opera rimane sorpresa quando vede il Teatro alla Scala per la prima volta. A prima vista si rimane colpiti dalla sua bellezza formale, dall’equilibrio tra una pretesa di opulenza (i drappeggi, le colonne, la cornice del palcoscenico, il palco centrale, il lampadario) e una certa sobrietà (gli stucchi, l’illuminazione, le parti dorate che non sembrano mai eccessive). Dopo pochi secondi, è impossibile non pensare agli artisti, ai compositori, ai coreografi, ai direttori d’orchestra, ai cantanti e ai ballerini che, sera dopo sera, hanno forgiato la leggenda del Teatro alla Scala». Dominique Meyer, Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro alla Scala.
Nel volume La Scala. Architettura e città, Pierluigi Panza racconta la storia architettonica del Teatro alla Scala, dalla nascita con Giuseppe Piermarini agli scenari attuali con Mario Botta a quelli futuri. Il teatro è sempre stato specchio delle trasformazioni della città, della società, del gusto e le ha, a sua volta, determinate. La pubblicazione, edita da Marsilio Arte, ripercorre la storia dell’edificio dai tempi di Maria Teresa d’Austria a quelli di Napoleone, poi del Regno d’Italia e della Repubblica. Rispetto per la storia e spirito di innovazione sono stati gli elementi dello sviluppo del teatro attraverso trasformazioni strutturali, tecniche ed estetiche che lo hanno mantenuto fedele alla propria identità, pur modernizzandosi e modellandosi ai riti e ai costumi dei tempi.
Nella prefazione, Dominique Meyer sottolinea il perfetto equilibrio tra sobrietà e opulenza, nonché l’efficienza tecnica di un luogo che ha contribuito a rendere Milano un raffinato e prestigioso polo artistico-culturale nel panorama europeo. Meyer instaura un parallelismo tra la società milanese, «più preoccupata del fare che dell’apparire», e la struttura architettonica dell’edificio.
Il volume, introdotto da Mario Botta, si articola in 11 capitoli, che ripercorrono più di tre secoli di storia: costruito nel 1776, il Teatro nasce a seguito di due distruzioni e due rifiuti. La prima distruzione fu accidentale – l’incendio del teatro che sorgeva all’interno di Palazzo Ducale (poi chiamato Palazzo Reale), la seconda fu voluta – la decisione di abbattere la chiesa di Santa Maria alla Scala. I rifiuti furono quelli di Luigi Vanvitelli e Christoph Willibald Gluck, i quali permisero l’arrivo alla corte di Milano, rispettivamente, di Giuseppe Piermarini (1734-1808) e Antonio Salieri (1750-1825).
Il racconto di Panza prende in esame le tappe fondamentali e le vicissitudini del Teatro, passando per l’epoca risorgimentale e romantica, il Novecento sino alla contemporaneità. Particolare attenzione è dedicata all’ultimo ventennio, caratterizzato da continue opere di ammodernamento, restauri e ampliamenti. Durante l’intervento di realizzazione del 2002 e 2004 Mario Botta ha realizzato i due nuovi volumi dell’ellisse e della torre scenica, mentre l’interno è stato oggetto di un restauro conservativo e del rifacimento del palcoscenico. Ora si sta concludendo la seconda fase dei lavori, con gli ammodernamenti che richiede la società globale e con l’apertura della nuova torre su via Verdi, all’interno della quale la Sala prove dell’orchestra è uno scrigno alto quattordici metri, posto a meno diciotto dal livello stradale.
Il volume è arricchito da un cospicuo corredo fotografico e didascalico, indispensabile per comprendere l’evoluzione di un edificio: schizzi, disegni, bozze di progetti, fotografie degli esterni e degli interni, rendering sono alcuni degli strumenti adoperati per rendere la pubblicazione un vero e proprio omaggio a quello che Stendhal definiva «il più bel teatro del mondo».
Pierluigi Panza, autore del volume pubblicato da Marsilio Arte e intitolato “La Scala. Architettura e città”, ripercorre insieme a noi la vicenda della celeberrima istituzione milanese-
Pur avendo alle spalle una storia secolare e alterne fortune, il Teatro alla Scala resta un emblema di Milano. A narrare il suo legame con la città e la sua veste architettonica è Pierluigi Panza, autore del libro targato Marsilio Arte. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Il Teatro alla Scala è da sempre un simbolo e una destinazione della vita culturale di Milano. Come descriverebbe, in poche righe, la storia delle sue trasformazioni?
Le trasformazioni del Teatro alla Scala seguono quelle politico-sociali e, a loro volta, si plasmano e determinano lo sviluppo urbano della città. Milano si riflette nella Scala e la Scala in Milano. L’episodio più evidente di questa relazione è la nascita, a metà Ottocento, di piazza della Scala per dare un adeguato spazio antistante al teatro e per far sì che i due poli del centro laico della città ‒ costituiti dal palazzo del Comune e dal teatro ‒ si affacciassero uno di fronte all’altro. Anche la scelta di ricostruire la Scala come primo edificio pubblico distrutto dai bombardamenti nel 1943 testimonia questo legame.
Il volume pubblicato da Marsilio Arte offre una “rivisitazione storico-morfologica della Scala”, come l’ha definita Mario Botta nell’introduzione. Che cosa l’ha ispirata a compiere questa impresa editoriale e come ha costruito la narrazione che la caratterizza?
Riassumo nella mia figura almeno due caratteristiche necessarie per realizzare questo volume: dal punto di vista accademico sono uno storico dell’architettura e per il Corriere della Sera seguo da trent’anni anche le attività del Teatro alla Scala. Dunque, quando si è avanzata l’opportunità di scrivere una storia della Scala a conclusione dei lavori condotti da Mario Botta, del quale sono anche amico, ero persona indicata e ho svolto il compito. Ho cercato, secondo le mie convinzioni, di scrivere una storia dell’architettura come correlazione e conseguenza della storia culturale e sociale, come credo che l’architettura sia sempre interpretabile e debba essere affrontata. In questo caso ho tenuto particolarmente conto che il testo fosse narrativo e non tecnico: l’architettura va raccontata come fatto culturale non in maniera autoreferenziale.
Quale ruolo gioca il Teatro alla Scala, dal punto di vista architettonico e non solo, nel panorama milanese odierno?
Dopo gli interventi che si sono susseguiti dal 2002, la Scala costituisce una risposta alle necessità di trasformazione richieste dalla società e dallo sviluppo tecnologico orientata al rispetto per la storia della città europea. Il teatro nasce su un’area religiosa sviluppata in età medioevale, conferisce il nuovo volto neoclassico della Milano teresiana, reca le tracce dei cambiamenti politici ottocenteschi che portano alla nascita dello Stato unitario quindi i travagli del “Secolo breve” fino alla postmodernità. Al contrario di altre aree del mondo nelle quali il globalismo finanziario opera, più facilmente, per demolizioni e sostituzioni, qui si tiene tutto. La città europea è un territorio della memoria e anche il teatro ha cercato di essere – non sempre riuscendoci nella sua storia – un palinsesto di stratificazioni successive. Noi parliamo spesso del teatro del Piermarini, ma dopo Giuseppe Piermarini sono stati molti gli architetti che hanno dato forma al teatro e voglio ricordarne, almeno, altri tre: Alessandro Sanquirico, Luigi Lorenzo Secchi e, appunto, Mario Botta.
Come immagina il futuro del Teatro alla Scala?
Il futuro è già partito. La sovrintendenza di Dominique Meyer ha colto le sollecitazioni che, di nuovo, venivano dalla società globale come quella della ecosostenibilità, della inclusività, della trasformazione digitale e della trasmissione in streaming. Nel Terzo millennio l’architettura non si confronta più solo con lo spazio fisico, ma anche con le componenti immateriali. Sarà questa la prospettiva che dovranno seguire anche i nuovi laboratori della Scala che si dovranno costruire nell’ex zona industriale di Rubattino. Questo sarà l’intervento del prossimo futuro che riguarderà il teatro.
Intervista a cura di Arianna Testino
Nota Biografica Pierluigi Panza, scrittore, giornalista e critico d’arte e d’architettura, scrive per il Corriere della Sera e insegna al Politecnico di Milano. Ha all’attivo molte pubblicazioni di storia dell’arte, è membro delle principali accademie italiane e vincitore di numerosi riconoscimenti.
Elisa Ruotolo scrittrice e poetessa, è nata a Santa Maria a Vico (Ce). Con l’editore nottetempo ha pubblicato nel 2010 il suo libro d’esordio, la raccolta di racconti Ho rubato la pioggia. Il primo romanzo arriva qualche anno dopo: Ovunque, proteggici (nottetempo 2014; Feltrinelli 2021). È del 2018 Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu), cui fanno seguito – nel 2019 – la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia), e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo Quel luogo a me proibito (Feltrinelli 2021) è tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Ultime pubblicazioni Il lungo inverno di Ugo Singer (Bompiani 2023), e Luce (Tetra 2023).
Anteprima editoriale-Poesia italiana dalla Rivista Atelier -settembre 2023
da L’APICOLTORE
Il buio è madre
tutto accade in un ventre.
La luce poi lo insidia
diventa così tanta
da chiudere gli occhi.
Sotto le palpebre restano scintille
ronzanti come sciami.
Tu puoi lottare per tenerla fuori
ma è luce che t’insegue
ovunque
più invadente dell’erba
a primavera, più sfrontata dell’ozio
che divora il gesto,
più assidua del malanno
nel tentare la ferita.
E quando penetra nell’alveare
imbratta il nero
lo trafigge.
Carezza un brulichio di affanni
una fatica che brucia
come sale.
Lo sentite?
Sentite anche voi là dentro
il rumore delle vite?
Ognuna che lavora, vuole, rinuncia,
edifica e distrugge
uccide
e poi alleva.
In questa meccanica non hanno bisogno
di me ed è la mia pena.
Pur non sorvegliando
so che quel lavoro continuerebbe
– come il desiderio a spingere
la rinuncia a incrudelire
la distruzione a fare danni fino a patteggiare
con la pietra che cresce.
È la morte ad accudirle
nella culla, e poi la vita le distenderà
nell’asciutto nido d’una cassa.
Mi avvicino senza essere visto
con la cautela di chi ha paura.
Di me hanno un’idea incerta
sono per loro una specie di infinito
che minaccia
– un estraneo
l’orma di un ordine primario
la possibilità di non discendere dal niente
e non doverci tornare
alla fine.
Amarli? Di loro ho bisogno
o non sarei
– come non esiste fondo senza mare
né figlio senza madre
o grano senza un seme
divorato dalla terra.
Il pastore può forse amare
la moltitudine che si dà ciecamente
al suo governo?
Non è forse dominato dal ritmo
del branco, dal belato che comanda
di restare sulla pietra a sorvegliare,
a contare il patrimonio in zecche e lana,
a vegliare quell’odore di stalla.
Il pastore non ama
ma calcola, pretende,
teme la disgrazia della perdita
e nel suo buio invidia
chi ha giorni fatti di stanze
e di casa.
Come lui lo è del gregge
io sono la creatura dell’alveare
che ogni giorno fa di me l’apicoltore,
il dio d’un nettare che sgorga
non in obbedienza d’un volere
ma in soddisfazione d’una necessità.
Sono imperfetto e fragile
e come gli dei di sempre
annodo alla terra il mio bisogno.
Resto lontano, al riparo
dall’assalto – che non venga a toccarmi
il veleno dello sciame
turbato dalla peste della mia fame.
Dentro è caldo di folla e buio
la mia onnipotenza invece sta nel chiaro
risponde al nome che meno desidero
sa d’una eternità destinata a finire
mentre loro – i vivi dell’alveare
si rinnovano.
Ammassati in un inferno ridotto in scala
pulsano d’un calore che mi esclude,
che osservo senza comprendere
restando incompreso.
Il rischio di provarci, di ferirsi
disgusta ogni voglia
– il mio sapore non sazia
non ho miele da dare, io.
*
Elisa Ruotolo
da VOCI DALL’ALVEARE
SEDICESIMO GIORNO
La Regina
È un roveto che scotta d’ira – questa casa
ha i muri tramati di collera
e un vociare insistente che ostacola
il riposo. Ho dormito finché ero niente
poi la pace se n’è andata.
Restare fermi non dà quiete
fermi sono i prigionieri
i bambini confinati negli spigoli – in punizione
i corpi traditi dalla malattia
o le ferite che non passano.
Ferme sono le mani dopo aver colpito
perché – in allerta – s’aspettano il ricambio.
Ho tutto in me: la colpa del recluso
la paura dei piccoli
lo smarrimento degli infermi
e un taglio di quelli che non danno sentore
d’arrivare al mattino.
Il destino è giunto mascherato da offerta
e io l’ho preso – quel dono – e stretto col terrore
di esserne degna.
L’ho preso e già non lo desideravo.
Perché io?
Lo sguardo livido e affamato delle sorelle
mi accompagna da allora.
Uguali nelle culle, potevo essere
un chicco di quella moltitudine
ma qualcuno mi ha vista e separata
– trebbiata come grano dalla pula
e anche se mi nascondevo, mi ha indicata
per prendermi tutto: i fiori, il sole, la vita delle altre.
Non sapranno mai quello che mi tocca
pesa troppo la fatica a cui le condanno
generandole
almeno quanto l’incapacità di cibo grava
su di me – che sgorgo vita senza posa.
Strano potere il mio, se per esistere
ho bisogno d’aiuto
se reggo una dimora intera
e fallisco a far salire un castello di carta.
Madre di tutti, non governo me stessa
inganno l’istinto comune
ed è triste dipendere
triste che vada contro natura proprio io
che più di tutti
l’assecondo.
Resto figlia di cure sfrenate
che mi negano il digiuno, la fatica, il caldo.
So che dovrò vivere a lungo
ma potrei morire in un istante
per un minimo sforzo o uccisa
da un tocco di luce.
Mi nutrono, ma odiando questo corpo
eterno, materno, che spinge avanti un’ombra
nuova e antica.
Nessuna clemenza può venire da chi attraversa
giorni contati, l’occhio referta la sua razione scarsa
senza goderne e la freccia più sicura
è quella che sa pungere
– è la mano che ti cura tenendo
a fior di pelle
il suo veleno.
Il futuro degli altri – più del presente
non è mio
e a questa sorte mai scelta
non trovo rimedio. Vago di cella in cella
inquieta come una madre qualsiasi
il cuore livido di chi è troppo in alto
e in fortuna per essere amato.
Generare vita e temerla
impietra il cuore, ti mette in dosso un tempo
legnoso al tatto – già pronto a farsi cenere.
Le mie figlie sono l’urgenza e la lebbra
il dovere ma anche l’attesa d’una peste
che s’intana nei miei lombi.
Vivo per il loro moltiplicarsi
ma so che da loro arriverà la fine
il giorno a cui non si può chiederne
un altro.
So che un mattino sentirò il mio veleno
spingere e la paura armare in difesa
la mia lama.
Ne abbiamo tutti una nella carne
la crediamo in riposo
invece lei ci annera il pensiero
ci intorbida il gesto
fa della madre una rivale
e della figlia non più il prolungamento
e l’attesa
e il futuro
ma il taglio netto, l’urto contro il tempo
– la promessa che nulla resiste
allo schianto.
La famiglia ora mi cresce intorno
e spinge fin dentro le mie stanze
dove nulla è fuori calcolo
e l’inverno non arriva.
Ci sarà un mattino, però
giungerà a un’ora incerta e incrinerà
le pareti, creperà l’intonaco
porterà lo scontento del vuoto
le fenditure alle travi maestre
lo scalpiccio delle suole in fuga
l’acciottolio dello sfratto
il bagliore indecifrabile degli incendi
in fondo – la faticosa scelta tra ciò che prendi
e quel che lasci indietro
e in alcune vesti l’odore greve del tradimento.
Accadrà e la mia lama non saprà far durare
questa casa in cui vivo da schiava
sottomessa all’urgenza di ripopolarla
suddita dei figli che partorisco
perché siano munti fino all’ultima goccia.
Chi potrà guardare questa febbre mia
senza desiderarne il delirio
senza disprezzare quel sudore da manovale
che nulla spartisce col mio piacere
col mio salire alto, dove più forte è
la luce e dove le altre non saranno mai?
Chi è indegno del chiaro non saprà
preferire la notte
odierà ogni spiraglio che saprà tenere il conto
di quel che perde.
Nei miei fianchi giace dormiente
il futuro di queste stanze
e lui mi divora
mangia ogni pensiero, ogni paura
scalda la mia sostanza più nascosta
– la nutre.
Il mio potere mi condanna a infittire
una genia di servi da cui dipendo
mentre vivo, divento nelle loro mani
la bambina che mai sono stata
e che morirebbe – se non fosse nutrita.
Sono la madre-infanta
un pensiero costante in una casa
che non lascio riposare
la grande pena è di regnare
protetta, abbandonando
i miei nati a un’operosa povertà
quella dei figli del popolo
che fin dal colostro accettano il privato
mistero di non avere tempo per ridere
o per giocare.
*
da VOCI DALL’ALVEARE
VENTUNESIMO GIORNO: LE API OPERAIE
La Guardiola
Cane di un povero gregge
generale di milizie stremate
sorvegliante di case da martirio
– o di cura
sono tutta lì
tutta nello sguardo.
Ispeziono vite, sorveglio anditi
e clausure
distinguo dal nostro
ciò che è straniero.
Per la conta del legittimo stringo
ogni porta, ne faccio fessura
labbro chiuso agli appetiti del fuori.
Resto insonne, in veglia fin dall’inizio
ed è la mia morte rovesciata
– palpebre attente a sbattere via
riposo e indolenza.
La chiamo amore, questa ossessione.
Per semplificare chiamo dovere
questo martirio di giornata.
I nomi ora faticano a dare pelle
e restano vuoti
imprecisi oltre le cose che tremano.
Separare il chiuso dall’aperto
non è innocente
distinguere è addensare ombre
è scuoiare l’agnello
e indossarne lo scalpo.
In questa Casa non vi è comunione
qui non si impasta vita con vita
qui non esiste mensa
tutto abbacina e brucia di terzana.
Indossiamo la trama del buio
e ci aggiriamo muti
carichi di lanterne cieche.
Il silenzio è la tentazione più forte
da che ha preso stanza il rumore
ed è difficile – stare al mondo in questa notte
disfarsi nel guardare.
Il lupo non è fuori, nell’erba alta
ma dentro, tra le quotidiane ceneri.
Parlatemi del giardino – ve ne prego
suggeritemi poche parole per immaginarlo
oltre la soglia che custodisco.
La Casa respira e mi abita
ha i canini del botolo e gli artigli del rapace
è levigata da un cattivo amore
eppure rilascia l’indistinto calore
delle viscere.
In lei perdo i miei anni e la quiete
dei polsi.
La Casa vale più di me.
* * *
Descrizione di Elisa Ruotolo Il Mondo non è che questo: un enorme Alveare in cui ciascuna vita ha un suo ruolo e un destino ingiustificabile. Visti dall’alto siamo come api: febbrili, follemente laboriosi, spesso crudeli e sottomessi a irragionevoli geometrie. Mansueti, ma anche capaci di fissare il buio con disobbedienza, siamo un brulicare di vite mosse da un’idea che ci impegna a edificare ciò che domani sarà disperso. In questa tragedia greca ripetuta all’infinito, a ciascuno è data la sua goccia di veleno. Le voci della Casa del Miele si alternano seguendo il ritmo del loro venire alla luce (dalla Pupa, inconsapevole della sorte che l’attende, al Fuco creatura troppo distante dal sole per poter sottostare alla laboriosità che nutre e sfinisce l’alveare). Raccontano la furiosa virtù del generare e la perversione della castità; il saccheggio imposto e subìto; le schiavitù consumate in una dimora affollata di ombre e poi la fame del mucchio che divora il singolo, esponendolo a qualsiasi peste voglia aggredirlo. Sono voci piene o solo accennate, eppure ciascuna rivela il suo bisogno di essere, di vivere, di alimentare una ciclicità che rappresenta – per noi, come per le api – l’unica eternità possibile. (Elisa Ruotolo)
Elisa Ruotolo
Breve biografia di Elisa Ruotolo scrittrice e poetessa, è nata a Santa Maria a Vico (Ce).Con l’editore nottetempo ha pubblicato nel 2010 il suo libro d’esordio, la raccolta di racconti Ho rubato la pioggia. Il primo romanzo arriva qualche anno dopo: Ovunque, proteggici (nottetempo 2014; Feltrinelli 2021). È del 2018 Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu), cui fanno seguito – nel 2019 – la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia), e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo Quel luogo a me proibito (Feltrinelli 2021) è tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Ultime pubblicazioni Il lungo inverno di Ugo Singer (Bompiani 2023), e Luce (Tetra 2023).
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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La Leggenda della Fondazione-La Scuola Medica Salernitana è considerata la più antica ed importante Istituzione medica medioevale dell’Occidente per l’insegnamento e l’esercizio della Medicina, che ha innovato profondamente nei principi, staccandoli dagli influssi religiosi. Ha unito i principi della scienza medica dell’Occidente e dell’Oriente; ha accolto le donne, sia come studenti che come docenti; ha teorizzato che le malattie si possono prevenire, mantenendo in salute il corpo, attraverso l’adozione di precise regole igieniche, di una corretta dieta alimentare ed un sano regime di vita. Molto probabilmente è nata nel IX secolo ed ha avuto il massimo splendore nei secoli XI-XIII, diventando famosa in tutta l’Europa.
SCUOL A MEDICA SALERNITANA-
Da molti studiosi è considerata la prima vera Università, che ha formato molte generazioni di medici, famosi in tutta l’Europa fino al XIV secolo,quando,lentamente, inizia la sua decadenza.
Esiste la seguente Leggenda sulla fondazione della Scuola Medica Salernitana:
Un pellegrino greco, di nome Pontus (o Areteo), proveniente da Alessandria d’Egitto,dove ha perso tutti i suoi familiari, arriva a Salerno e si rifugia per la notte sotto gli archi dell’antico acquedotto dell’Arce. Essendo scoppiato un temporale, si ripara nello stesso luogo un altro viandante:è il latino Salernus (o Antonio), che è ferito ad un braccio. Il greco Pontus gli si avvicina per osservare come sta medicando la sua ferita. Intanto arrivano altri due viandanti, l’ebreo Helinus (o Isacco), che viene da Betania, e l’arabo Abdela (o Abdul) originario di Aleppo (Siria), che sono amici. Anche costoro si interessano alle medicazioni della ferita che sta praticando Salernus, al quale tutti cercano di dare dei consigli. Così,,i quattro scoprono che tutti praticano l’arte della Medicina. Diventano amici e decidono di creare un sodalizio, costituendo una Scuola (Schola) Medica per mettere in comune e divulgare le loro specifiche conoscenze sanitarie, allo scopo di curare e guarire i malati.
Altre Leggende
Oltre alla Leggenda della Fondazione, ci sono altre leggende che attestano la bravura dei Medici della Scuola. Vediamone alcune.
Leggenda del Povero Enrico
Una delle leggende più celebri è la cosiddetta Leggenda del Povero Enrico, tramandata dai menestrelli tedeschi medievali e riscoperta nell’Ottocento.
Secondo la leggenda,il Principe Enrico di Germania, un giovane splendido e forte, fidanzato con la giovane Principessa Elsie, è colpito dalla lebbra e comincia a deperire rapidamente, tanto che i sudditi, vedendolo ormai destinato a morte certa, lo ribattezzano “il Povero Enrico”. Il Principe, una notte sogno il diavolo che gli suggerisce di andare a farsi curare dai medici salernitani,ma gli dice anche che sarebbe guarito solo se avesse fatto un bagno nel sangue di una giovane vergine,che fosse morta volontariamente per lui. La Principessa Elsie si offre immediatamente per il sacrificio, ma Enrico lo rifiuta, preferendo ascoltare il parere dei medici salernitani. Pertanto,Enrico, con la sua Corte,va a Salerno. Però, prima di andare alla Scuola Medica, si reca nella Cattedrale per pregare sulla tomba di S. Matteo, dove ha una visione mistica e miracolosamente guarisce. Sposa quindi Elsie sull’altare di S. Matteo.
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Leggenda di Roberto e Sibilla
Molto nota è anche la Leggenda di Roberto di Normandia e di Sibilla da Conversano.
Il Re Roberto di Normandia, durante la Crociata, è colpito da una freccia avvelenata e le sue condizioni appaiono subito gravi. Pertanto, decide di ritornare in Inghilterra. Durante il viaggio,si ferma a Salerno per consultare i Medici della Scuola, i quali gli dicono che l’unico modo per salvare la vita è quello di succhiargli via il veleno dalla ferita, ma colui che l’avrebbe fatto sarebbe morto. Roberto rifiuta l’intervento di tutti, preferendo morire, ma durante la notte sua moglie Sibilla da Conversano gli succhia il veleno e poi muore.
Questa leggenda è raffigurata in una miniatura sul frontespizio del Canone di Avicenna, in cui si vede Roberto con la sua Corte che, alle porte della città di Salerno, saluta e ringrazia i medici, mentre sullo sfondo le navi stanno partendo;sulla sinistra, altri quattro medici si occupano della Regina Sibilla,riconoscibile dalla Corona sulla testa, che è avvizzita dal veleno.
LA STORIA
Nella storia della Scuola Medica si distinguono tre periodi:
IX-X secolo: le origini, di cui si hanno scarse notizie;
XI-XIII secolo: il massimo splendore;
XIV-XVI secolo: la decadenza
Primo Periodo: IX-X secolo (le origini)
Le origini della ScuolaMedica sembra che risalgano al IX secolo, ma di questo periodo esiste una scarsa documentazione. In particolare, si sa poco della natura, laica o monastica, dei medici che ne fanno parte e non è certo che la Scuola avesse già un’organizzazione.
Nel X° secolo, Salerno è una città molto famosa,non solo per il suo clima salubre, ma anche per la bravura dei suoi medici. Di essi si racconta che «erano privi di cultura letteraria, ma erano forniti di grande esperienza e di un talento innato». Infatti in questo periodo la natura degli insegnamenti medici è essenzialmente pratica e le nozioni sono tramandate oralmente.
Secondo periodo: XI-XIII secolo (il massimo splendore)
Nel XI secolo,la fama della Scuola Medica si diffonde in tutta l’Europa.
La posizione geografica di Salerno ha avuto sicuramente un ruolo molto importante nella diffusione della fama della Scuola Medica. Infatti, la città, con il suo porto ubicato al centro del Mediterraneo, subisce e rielabora gli influssi della cultura greco-bizantina ed araba.
Attraverso il commercio marittimo, arrivano i libri di scienza sanitaria di Avicenna ed Averroè.
A Salerno arriva anche il medico cartaginese Costantino l’Africano che vi si ferma per diversi anni e traduce in latino dal greco e dall’arabo molti testi di Medicina: gli Aphorisma e i Prognostica di Ippocrate; i Tegni ed i Megategni di Galeno; il Kitāb-al-malikī (ossia Liber Regius, o Pantegni) di Ali ibn Abbas (Haliy Abbas); il Viaticum di Al- Jazzar; il Liber divisionum e il Liber experimentorum di Rhazes (Razī); il Liber dietorum, il Liber urinarium e il Liber febrium di Isacco da Toledo.
Si riscoprono così le opere classiche di Medicina, conservate nei monasteri, ma dimenticate.
In questo periodo, la ScuolaMedica di Salerno si sviluppa fino a raggiungere il massimo splendore tra il XII ed il XIII secolo:la città ottiene il titolo di Hippocratica Civitas (Città di Ippocrate), di cui ancora oggi si fregia.
Giungono alla Schola Salerni persone provenienti da tutta Europa, sia malati che sperano di essere guariti, sia studenti che vogliono apprendere l’arte della Medicina. Il prestigio dei medici di Salerno è ampiamente testimoniato dalle cronache dell’epoca e dai numerosi manoscritti conservati nelle maggiori biblioteche europee.
Nel 1231 l’Imperatore Federico II sancisce ufficialmente il prestigio della Scuola Medica Salernitana, attraverso la Costituzione di Melfi, nella quale si stabilisce che la professione di medico può essere esercita solo da persone che hanno conseguito il diploma rilasciato dalla Schola Salerni.
Terzo periodo: XIV-XIX secolo (la decadenza)
Con la costituzione e lo sviluppo dell’Università di Napoli, la ScuolaMedica Salernitana incomincia a perdere la sua importanza. Con il passare del tempo, infatti, il suo prestigio è lentamente oscurato da quello delle nuove Università, in particolare Montpellier in Francia,Padova e Bologna in Italia. Comunque, la Schola Salerni rimane attiva ancora per alcuni secoli fino alla soppressione, il 29 novembre 1811, da parte del Re Gioacchino Murat, in occasione della riorganizzazione dell’Istruzione pubblica nel Regno di Napoli. Però, le “Cattedre di Medicina e Diritto” della Scuola Medica Salernitana continuano ad essere operative ,nel “Convitto nazionale Tasso” di Salerno, ancora per un cinquantennio, fino alla loro soppressione definitiva nel 1861,da parte Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia,Francesco De Sanctis.
I PRINCIPI INNOVATIVI
IL SINCRETISMO
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Uno dei Principi fondamentali della Scuola Medica Salernitana è il sincretismo, ricordato nella Leggenda della fondazione da parte dei quattro medici. Infatti, le basi teoriche della Scuola si fondano sul “sistema degli umori” elaborato da Ippocrate e da Galeno, ma la tradizione medica greco-latina è completata dalle nozioni provenienti dalle culture ebraica ed araba. La Scuola Ha quindi unito i principi della scienza medica dell’Occidente e dell’Oriente.
La posizione geografica di Salerno ha avuto sicuramente un ruolo molto importante nella diffusione della fama della Scuola. Infatti, la città, con il suo porto ubicato al centro del Mediterraneo, subisce e rielabora gli influssi della cultura greco-bizantina ed araba. Attraverso il commercio marittimo, arrivano a Salerno i libri di Medicina di Avicenna ed Averroè.
IL LAICISMO
Un altro principio importante praticato nella Scuola è il laicismo. Infatti, fino ad allora,la pratica e l’insegnamento della Medicina è appannaggio dei Monaci e degli Ecclesiastici, che ne tramandano oralmente l’insegnamento. Inoltre, gli influssi religiosi sono molto forti, tanto da ritenere che sia inutile “curare il corpo”,dato che la salvezza riguarda solo l’anima. Pertanto, si accetta passivamente la morte, come manifestazione del destino dell’uomo e della volontà divina.
La Scuola Medica Salernitana, invece, innova profondamente i principi dell’insegnamento della Medicina,staccandoli dagli influssi religiosi. In particolare, elabora la teoria che le malattie possono e devono essere curate e che,addirittura, si possono prevenire, cercando di mantenere la salute del corpo, attraverso l’adozione di precise regole igieniche,di una corretta dieta alimentare ed un sano regime di vita.
La Scuola, in questo modo, dà origine alla cultura della Prevenzione delle malattie, che pertanto non devono essere più accettate passivamente.
La Scuola, inoltre, elabora concetti vicini alla moderna psicosomatica, consigliando,oltre al buon mangiare, anche il riposo e l’allegria. La “cura del corpo”è quindi fondamentale per il benessere fisico. Con il tempo, questi nuovi insegnamenti, considerati rivoluzionari ed in parte eretici, si affermano sempre di più, tanto che il Concilio di Reims proibisce ai religiosi l’esercizio della Medicina.
L’ACCOGLIENZA DELLE DONNE COME STUDENTI E COME DOCENTI
Altra importante innovazione della ScuolaMedica Salernitana,è l’accettazione delle donne ,sia come studenti che come docenti. Pertanto, è di particolare importanza, dal punto di vista culturale,il ruolo svolto dalle donne sia nell’esercizio che nell’insegnamento della Medicina, in cui hanno introdotto molte innovazioni, soprattutto nella Ostetricia.
Le donne che operano ed insegnano nella Scuola sono conosciute con l’appellativo di Mulieres Salernitanae, le più famose delle quali sono Trotula de Ruggiero, vissuta nell’XI secolo,Abella Salernitana, Rebecca Guarna, Costanza Calenda e Maria Incarnata, vissute nel XIV secolo.
In particolare, Trotula de Ruggero diventa una famosa ostetrica e scrive il De mulierum passionibus in, ante e post partum, in cui elabora importanti principi di Ostetricia e dà istruzioni per le partorienti. Scrive anche un famoso Trattato di cosmesi De ornatu mulierum. Trotula fa parte di una famiglia di medici famosi. Infatti sono importanti esponenti della Scuola sia suo marito, Giovanni Plateario,che i due figli Giovanni Plateario il Giovane e Matteo Plateario. In particolare, quest’ultimo,nel suo Trattato di fitoterapia De medicinis simplicibus, descrive oltre 500 piante, classificate in base alle loro proprietà medicamentose,ed informa sulla sofisticazione dei prodotti medicinali.
L’IMPORTANZA DELLA PRATICA
La Scuola Medica Salernitana, rappresenta inoltre un momento fondamentale nella storia della Medicina anche per le innovazioni che introduce nella metodica medica, che si basa fondamentalmente sulla Pratica e sull’esperienza maturata nella quotidiana attività di assistenza ai malati.
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LO SVILUPPO DELLA FARMACOLOGIA
La Scuola, inoltre, con la traduzione dei testi arabi di Medicina,elabora una vasta cultura fitoterapica, sulle proprietà curative delle erbe, che porta allo sviluppo della Farmacologia,cioè l’arte di preparare i rimedi (medicamenti)per la cura delle malattie.
LO SVILUPPO DELLA CHIRURGIA
Nella ScuolaMedica Salernitana si sviluppa fin dal XII secolo una nuova pratica sanitaria: la Chirurgia, che per la prima volta, si eleva alla dignità di una vera e propria Scienza Medica.
Ruggero Frugardo scrive nel XIII secolo il primo Trattato di Chirurgia, che si diffonde rapidamente in tutta l’Europa.I suoi insegnamenti sono raccolti dal suo discepolo Guido d’Arezzo nel Trattato Chirurgia Magistri Rogerii, che è il testo ufficiale di Chirurgia fino alla fine del XIV secolo.
Nel settore della Chirurgia , ricordiamo anche Giovanni da Casamicciola, che inventa una particolare tecnica per la legatura dei vasi sanguigni,con un filo di seta.
Per apprendere le tecniche chirurgiche, arrivano a Salerno molti studenti stranieri, specialmente tedeschi.
LO SVILUPPO DELL’OCULISTICA
La Schola Salerni sviluppa anche l’Oculistica. Al riguardo, ricordiamo Benvenuto Grafeo che scrive il Trattato De arte probatissima oculorum, che ha una notevole diffusione in Europa.
IL CORSO DI STUDI
Il Corso di Studi (Curriculum studiorum) della Scuola Medica Salernitana è ben strutturato, per far apprendere allo studente sia i principi dell’Arte Sanitaria che la necessaria esperienza pratica per poter curare efficacemente le diverse malattie. Infatti, il Corso di Studi è costituito da:
3 anni di Logica;
5 anni di Medicina (studio dei Trattati, dell’Anatomia, con dissezione di cadaveri per studiare gli organi, esercitazioni pratiche );
Esame finale con il Maestro del Corso e con un Collegio di medici (l’Almo Collegio) che rilascia un attestato (Privilegio Dottorale), che deve essere convalidato dal Re.
Un anno di pratica presso un medico anziano, necessario per esercitare la professione.
Nella Scuola, oltre all’insegnamento della Medicina si tengono anche corsi di Filosofia,Teologia e Giurisprudenza . Per questo motivo, la Scuola è considerata da molti storici come la Prima Vera Università, anche se non è stata mai chiamata
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“Università”.
LE MATERIE DI INSEGNAMENTO
Le materie di insegnamento nella Scuola Medica Salernitana ci sono note attraverso lo Statuto.
L’insegnamento della Medicina allora si distingue in Teoria e Pratica. La prima serve per far conoscere l’anatomia del corpo, con i vari organi e le loro funzioni. La seconda, invece, serve per apprendere le tecniche per curare le malattie e per conservare la salute.
Anche nella ScuolaMedica Salernitana si seguono, nell’insegnamento, i principi di Ippocrate e di Galeno. Le lezioni consistono essenzialmente nell’interpretazione dei loro testi.
Riguardo alla Filosofia, si insegnano i principi di Aristotele.
L’ALMO COLLEGIO MEDICO SALERNITANO
Il Collegio Medico è un Corpo accademico indipendente della Scuola, che deve sottoporre gli studenti, che hanno compiuto i prescritti anni di studio, a un rigoroso esame,necessario non solo per ottenere il “Dottorato” (la Laurea) per poter esercitare la professione medica, ma anche per poter insegnare.
Il primo provvedimento legislativo che convalida le prerogative del Collegio Medico,diretto da un Priore (Prior), dando il riconoscimento giuridico ai titoli accademici da esso rilasciati, è emanato dall’Imperatore Federico II nella Costituzione, emanata a Melfi nel 1231.
La cerimonia per il conferimento della Laurea (Privilegio Dottorale) si svolge in origine nella Chiesa di S. Pietro a Corte ed in seguito in quella di S. Matteo e nella Cappella di S. Caterina.
Il giuramento che deve prestare il neo laureato è rappresentativo dell’alta concezione morale della funzione del medico: infatti, da un lato giura di aiutare il malato povero, senza chiedere nulla, e contemporaneamente giura davanti a Dio e agli uomini di vivere onestamente e di conservare una severità di costumi. Invece, per poter esercitare la Farmacia, cioè l’arte di preparare i rimedi (medicamenti),si richiedono qualità morali molto elevate, onestà e illibatezza di costumi. Alla Scuola spetta quindi il grande merito di aver stabilito per la prima volta le norme che il Medico deve seguire nella cura del malato,da cui si evince la grande importanza che essi attribuivano alla “missione” del medico o del farmacista.
L’autenticità del Diploma di Laurea (Privilegio Dottorale),rilasciato dall’Almo Collegio Medico di Salerno, è attestata dal Notaio ed ha valore dovunque il laureato si presenta per esercitare la professione. Nei Privilegi Dottorali non solo è segnata la data in cui si è sostenuto l’esame, ma anche l’anno del Pontificato del Papa dato che il calendario civile varia secondo i diversi Stati.
I Diplomi inoltre hanno il sigillo in ceralacca dell’Almo Collegio Medico, di forma circolare, con al centro lo stemma della città di Salerno,rappresentato dal Patrono S. Matteo nell’atto di scrivere il Vangelo.
L’ORGANIZZAZIONE DELLA SCUOLA
Fino al Medioevo, l’insegnamento della Medicina è esercitato da singoli Medici, molti dei quali sono avviati all’Ars medica per tradizione di famiglia.
La Scuola Medica Salernitana, invece, all’inizio dell’XI secolo, è un Istituto con una propria organizzazione,costituita da Docenti con particolari meriti,di cui è responsabile il Praeses ( Preside), che è una figura diversa dal Prior (Priore), che è invece la suprema dignità dell’Almo Collegio, sorto più tardi, e che è eletto per merito oltre che per anzianità.
Nella Scuola Medica Salernitana si distinguono il medicus e il medicus et clericus , che segnano due periodi distinti della Schola Salerni.
Il medicus è il titolo attribuito alle origini della Scuola, in cui l’arte medica è basata essenzialmente sull’empirismo ed il medico ricorre a espedienti pratici per curare il malato.
Il medicus et clericus, invece, conosce profondamente la Medicina perchè ha studiato sui Trattati,scritti da eminenti scienziati, e perciò è un “dotto”.
LE SEDI DELLA SCUOLA
La ScholaSalerni ha avuto varie sedi, anche se al riguardo le notizie non sono suffragate da riscontri documentari. Le sedi d’insegnamento, in ordine cronologico e spesso in contemporaneità tra di loro, sono state: la Reggia di Arechi II o le sue adiacenze; la Cappella superiore e inferiore di S. Caterina; l’atrio e la scalinata marmorea del Duomo.
A causa dell’inagibilità della Cappella di S. Caterina, la sede della Scuola è diventata il Palazzo della Pretura, in via Trotula de Ruggiero. L’ultima sede della Scuola è stato invece l’ex Seminario Arcivescovile,nel Palazzo Copeta.
I DOCENTI DELLA SCUOLA
La Scuola Medica Salernitana ha avuto numerosi importanti docenti. Nell’XI secolo,nel suo periodo aureo, c’è Garioponto, di origine longobarda (forse era monaco), la cui opera più famosa è il Passionarius, un Trattato in 5 volumi ( con un appendice di altri 3 libri sulla febbre),in cui descrive le varie malattie, indicandone la cura. Garioponto è anche famoso per il fatto che, nel tradurre in latino i concetti medici formulati nella lingua greca, ha coniato dei termini che ancora oggi sono usati in Medicina come cauterizzare, cicatrizzare,polverizzare, gargarizzare.
Contemporanea di Garioponto,alla metà dell’XI secolo, c’è la la famosa donna medico Trotula de Ruggiero,che diventa Docente della Scuola e scrive il De mulierum passionibus in,ante e post partum, in cui elabora importanti principi di Ostetricia. Scrive anche un famoso Trattato di cosmesi De ornatu mulierum.
Nell’XI secolo c’è Alfano, I’Arcivescovo benedettino, di nobili origini longobarde, che scrive due importanti Trattati: De quattuor umoribus e De pulsibus.
Ricordiamo anche Romualdo di Guarna, un prelato, che è chiamato due volte al capezzale del Re di Sicilia Guglielmo I.
Nello stesso periodo, c’è il famoso medico cartaginese Costantino l’Africano, che traduce in latino molti Trattati di medicina in lingua greca ed araba.
Nella seconda metà del XII secolo, si distinguono: Maestro Salerno e Matteo Plateario junior . Maestro Salerno, nelle sue Tabulae Salernitanae e ne Il Compendium ( che forma con le Tabulae un Trattato di Terapia generale e di preparazione dei farmaci) classifica i rimedi (detti “semplici”) secondo le loro proprietà curative.
Matteo Plateario junior (uno dei figli di Trotula de Ruggiero e di Giovanni Plateario- anch’egli famoso medico-), nel suo Trattato di fitoterapia De medicinis simplicibus descrive oltre 500 piante, classificate in base alle loro proprietà medicamentose,ed informa sulla sofisticazione dei prodotti medicinali.
Nel XII secolo, ricordiamo anche Niccolò Salernitano, a cui si deve lo sviluppo della Farmacopea, con il suo Trattato Antidotarium, che l’Imperatore Federico II diffonde in tutta l’Europa.
Nel XIII secolo, ricordiamo Ruggero Frugardo, che è considerato il fondatore della moderna Chirurgia. I suoi insegnamenti sono raccolti dal suo discepolo Guido d’Arezzo nel Trattato Chirurgia Magistri Rogerii, che è il testo ufficiale di Chirurgia fino alla fine del XIV secolo.
Alcuni famosi medici salernitani partecipano ad operazioni belliche. Al riguardo, ricordiamo Bartolomeo da Vallona e Filippo Fundacario, che nel 1299 prestano servizio in Sicilia,nell’Esercito di Roberto d’Angiò, Duca di Calabria.
Alla fine del XIV secolo, opera il famoso medico Antonio Solimena, molto stimato dalla Regina di Napoli Giovanna II,e che è nominato Maestro Razionale della Magna Curia.
Purtroppo, molte opere scientifiche dei Maestri Salernitani sono andate perdute.
LA REGOLA SANITARIA SALERNITANA
I precetti della Scuola Medica Salernitana sono elencati nel Flos Medicinae Salerni, meglio noto come Regola Sanitaria Salernitana (Regimen Sanitatis Salernitanum), chiamato anche Lilium Medicinae.
La Regola è stata scritta in versi latini, probabilmente nei secoli XI-XII e quasi certamente è il risultato di un “lavoro collettivo”. E’ dedicato ad un “Re Britanno”( di Inghilterra) non meglio individuato.
Della Regola esistono numerose redazioni, anche molto diverse nel contenuto. In origine, i versi latini erano 363, ma in seguito ne sono stati aggiunti altri.
Il primo Capitolo della Regola è dedicato ai “rimedi generali” (De remediis generalibus), tra i quali ricordiamo l’opportunità, per la salute del corpo,di scacciare l’ira, di fare una cena frugale, di alzarsi dopo il pasto per fare del movimento e di non trattenere l’orina.
Nei successivi Capitoli, si danno suggerimenti per mantenere viva la mente, sul sonno ( da evitare, possibilmente, nel pomeriggio), sulla cena (che deve essere possibilmente “parca” e si deve fare solo se si è digerito il cibo mangiato in precedenza).
Altri Capitoli sono dedicati ai cibi, sia quelli “nutrienti” (buoni) per il corpo, sia quelli che devono essere evitati.Tra gli alimenti, il pane deve essere “ben cotto” e con “poco sale”.Riguardo alle carni, sono da preferire quelle di vitello, che “assai nutrisce”, di gallina e di volatili (tortora, storno,quaglia, merlo, pernice…) mentre quella di maiale deve essere bevuta con il vino affinché sia più facilmente digeribile. Anche il formaggio deve essere mangiato insieme con il vino. Ottimi alimenti sono il cervello di gallina e la lingua di mucca e l’uovo deve essere “fresco”.
Riguardo alle bevande, il vino non si deve bere bere in eccesso, con preferenza per quello rosso, la birra deve essere “fermentata bene”, “ben chiara” e si deve bere con sobrietà e l’acqua deve essere bevuta frequentemente mentre si mangia. E’ da evitare l’aceto.
Riguardo ai pesci, sono da preferire quelli “molli” e le anguille vanno mangiate insieme con abbondante vino.
Alcuni Capitoli sono dedicati ai vari tipi di latte ( di mucca, di capra, di giumenta, di cammella, ognuno con proprie proprietà medicamentose), al burro, al formaggio ( che è un’ottima vivanda , insieme con il pane, ma per coloro che hanno buona salute).
Altri Capitoli riguardano le proprietà dei vari tipi di frutta: la pera ( quella cotta fa bene allo stomaco), la ciliegia (che fa “ottimo sangue”), la prugna,la pesche,l’uva, i fichi,le nespole.
La Regola stabilisce anche le proprietà curative di molti tipi di verdure. Ad esempio,le rape fanno bene allo stomaco ed ai reni, l’anice e la menta fanno bene allo stomaco,il cavolo e la malva sono depurativi, la ruta fa bene agli occhi,la salvia e le cipolle hanno vari effetti salutari.
La Regola attribuisce molta importanza alla dieta (distribuendo i vari pasti durante la giornata e mangiando “cose buone”), tanto da essere considerata la “metà del medicar”. Ha quindi una chiara funzione nella prevenzione delle malattie.
Un Capitolo è dedicato ai rimedi contro i veleni (Contra venenum).
La Regola detta anche prescrizioni igieniche, come il lavarsi le mani, sia prima che dopo i pasti. Stabilisce anche dei rimedi per il miglioramento della vista e della voce roca, contro il mal di denti, i reumatismi, il mal di testa e per guarire le fistole.
Altri Capitoli sono dedicati all’esame delle ossa ( sono 200), dei denti ( sono 32) e delle vene ( sono 65) ed ai quattro “umori del corpo”(sangue, collera, flemma e atrabile) ed anche all’analisi dei caratteri umani (sanguigni,biliosi, flemmatici,ipocondriaci.
Alcuni capitoli riguardano le terapie, come il salasso ( che non deve essere fatto prima di 17 anni di età), di cui si stabiliscono le modalità ed i periodi migliori in cui effettuarlo (in primavera ed in estate si deve fare nella vena destra, mentre in autunno ed inverno nella vena sinistra) nonché gli effetti benefici sulla salute, con particolare riguardo al cuore (meglio se fatto in primavera), al fegato (meglio in estate),alle gambe (meglio in autunno) ed alla testa (meglio in inverno).
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