Fiamignano sorge nel territorio in cui è stata ipotizzata l’esistenza della Città romana di Vesbula di cui parla Dionigi. La rocca di Poggio Poponesco, di cui oggi sono visibili i ruderi, ebbe origine nel IX secolo raccogliendo intorno a se gli abitanti del nucleo originario. Dopo la distruzione del castello la popolazione si trasferì più in basso dando così origine ad un secondo insediamento con il nuovo nome di Fiamignano. Nella chiesa parrocchiale intitolata ai Santi Fabiano e Sabastiano ,si conservano, inoltre, una Croce processionale opera dell’Arte abruzzese del XIII secolo e un ciborio ligneo del XVIII secolo opera di Fra Simone di Petrella Salto,. Si può ammirare una pregevole tela di Scuola Romana che raffigura la Immacolata Concezione. Non lontano dal centro abitato sono ancora visibili i resti del convento dei frati Cappuccini che fu costruito nel 1568 con materiale di una antica costruzione di epoca romana. Si possono raggiungere i ruderi del Castello e della struttura fortificata del IX secolo è ancora visibile il Mastio e parte delle a cinta muraria medievale. Una Cappella sita all’interno del Castello Poponesco, databile sec. XI-XII, si conserva in una nicchia un affresco votivo del 1580 raffigurante una Madonna con Bambino e i Santi in preghiera.
FIAMIGNANO (Rieti)
Il Comune di Fiamignano comprende anche le frazioni: Arapetriani di Fiamignano, Brusciano di Fiamignano, Collegiudeo di Fiamignano, Collemazzolino di Fiamignano, Fagge di Fiamignano, Gamagna di Fiamignano, Marmosedio di Fiamignano, Perdesco di Fiamignano, , Mercato, Peschietta, San Pietro di Fiamignano, San Salvatore di Fiamignano, Sant’Agapito di Fiamignano, Santa Lucia di Fiamignano, Santa Maria del Sambuco, Sant’Ippolito di Fiamignano, Santo Stefano di Fiamignano.
Cicolano terra di Santa Chelidonia da Fiamignano.
FIAMIGNANO (Rieti)-Santa Chelidonia da Fiamignano
Verso l’anno 1077 in Poggio Poponesco, piccolo castello del Cicolano, oggi completamente diruto e le cui vestigia si osservano non molto lungi da Fiamignano,nacque la Vergine S. Chelidonia dai coniugi Dauferio ed Abbasia. Fin dai suoi più teneri anni diede Ella le prime luminose prove della sua santità, perché con le sue pratiche virtuose, richiamava a se l’attenzione non solo dei genitori, ma di quanti avevano la fortuna di avvicinarla. Appena giovinetta consacrò a Dio la sua verginità e si pose in esercizi continui di preghiere e altre virtù cristiane. Giunta all’età di prendere marito, i genitori, che avevano questa unica figlia, la sollecitavano ad unirsi in matrimonio con un giovane di pari condizione che avevala richiesta; ma quando tutto sembrava conchiuso, Ella di nascosto abbandonò la casa paterna ed andò a fermarsi sugli alpestri monti Simbruini che circondano Subiaco; iviri coverossi in un angusto speco e si diede ad attendere con sommo fervore alle cose divine. Di là passo, poco dopo, a Roma per visitarvi i luoghi santificati dal sangue dei Martiri cristiani. Ritornò poi nella sua grotta e da Cunone cardinale di Palestrina prese il sacro velo della verginità nella festa e nella chiesa di S. Scolastica, di cui si diede a seguir la Regola e le virtù.L’anno della sua monacazione può ritenersi quasi con certezza che fosse il 1109, perché nella Cronaca Sublacense si riferisce che Cunone vescovo di Palestrina in quell’anno appunto consacrasse la Cappella della Rocca di Subiaco, ed in seguito non vi si fa più menzione di esservi tornato altre volte. Stretta costei da questo nuovo vincolo, si diede con maggior impegno alle pratiche di religione e si pose a travagliare il corpo con un nuovo genere di vita più aspro: camminava a piedi nudi; indossava una sola e lacera veste, che stringeva ai lombi con una fune; sedeva e dormiva sulla nuda terra; macerava il corpo con veglie,discipline e digiuni; povero e scarso era il suo cibo ed alle volte si asteneva dal prenderlo fino a sette ed anche dieci giorni. Trascorsa la sua vita in tali e tanti esercizi di cristiane virtù per circa cinquantanove anni, piena di meriti, compì il suo corso mortale ai 13 Ottobre del 1152.Il suo corpo, per espresso volere di Lei, fu sepolto nella grotta dove era dimorata vivente; fu poi, per ordine del pontefice Gregorio XIII, trasferito nella Basilica di S. Scolastica in Subiaco ai 3 di Luglio del 1578, ed ivi tuttora è religiosamente venerato.
Fiamignano (Rieti)Lago di Rascino sull’omonimo altopiano .
FIAMIGNANO (Rieti)Lago di Rascino sull’omonimo altopiano
La magia della neve sui Monti del Cicolano. Davanti a noi uno splendido scorcio del lago di Rascino, un bacino carsico montano nel comune di Fiamignano.
RIETI -Litografia-Il Vescovato-Opera dell’Artista Nicoletta Alvisini di Fagge Comune di Fiamignano
FIAMIGNANO (Rieti)-Artista Nicoletta Alvisini di Fagge
Breve Biografia di Nicoletta Alvisini, nasce a Fagge, un piccolissimo paese nel Comune di Fiamignano in provincia di Rieti il 24 Luglio 1946. La carta ed i colori realizzavano i suoi sogni di bambina. Nel 1968 ha iniziato timidamente a fare le sue prime personali, riportando un gran successo di critica e di pubblico.
In quegli anni ormai lontani, i temi ricorrenti nelle opere dell’artista erano paesaggi danteschi nonché figure, fiori e nature morte. Questo suo voler affondare il pennello in qualche passo della “Divina Commedia” non era certamente un vuoto esercizio formale della mente ma un bisogno interiore di trasportare sulla tela le visioni del poeta che, grazie ad una felicissima operazione pittorica, si trasmutavano in apparizioni fantastiche tagliate in uno spazio quasi magico.
Nicoletta riesce a contenere in tutte le sue opere una pressante concitazione di idee, di sentimenti ed emozioni che trovano sfogo in una fremente e luminosa atmosfera. Il colore da ai dipinti un clima surreale, ne esalta la luce e tira fuori dai vari soggetti delle sue opere ciò che essi ci vogliono trasmettere. Negli anni troviamo in tutti i suoi lavori la stessa volontà di coerenza e di fedeltà al suo cromatismo ed alla sua tecnica ma l’artista non disdegna rapportarsi con altre esperienze, tanto che nel 1995 decide di frequentare un corso di iconografia a Firenze.
FIAMIGNANO- Località Brusciano :” l’Albero degli impiccati”.
FIAMIGNANO (Rieti)
Lago del Salto visto da Poggio Poponesco (Fiamignano)
FIAMIGNANO (Rieti
IL MANIERO DI POGGIO POPONESCO
FIAMIGNANO (Rieti)-CASTELLO DI POGGIO POPONESCO Loc.FAGGE – FRAZIONE di FIAMMIGNANO (RIETI) SANTUARIO DELLA MADONNA DEL CARMINE DEL XVI SECOLOFIAMIGNANO (Rieti)
Fiamignano è un paese dall’interessante centro storico con le vecchie case in pietra e una magnifica vista sulla valle del Salto che appare tra un vicolo e l’altro, ideale per chi vuole trascorrere periodi di riposo ristoratore nella quiete più assoluta a contatto con una natura suggestiva e incontaminata .
In una delle due piazze del paese si trova la Chiesa dei Santi Damiano e Sebastiano, i Patroni, mentre percorrendo un piccolo sentiero si possono raggiungere i resti del Castello di Poggio Poponesco e il Convento cinquecentesco dei Cappuccini.
Lungo il percorso si trova anche la Chiesa di Santa Maria del Poggio situata sotto le rovine del Castello che conserva un affresco votivo del 1580 raffigurante la Madonna in Trono con il bambino e i Santi.Fiamignano è un paese dall’interessante centro storico con le vecchie case in pietra e una magnifica vista sulla valle del Salto che appare tra un vicolo e l’altro, ideale per chi vuole trascorrere periodi di riposo ristoratore nella quiete più assoluta a contatto con una natura suggestiva e incontaminata .
In una delle due piazze del paese si trova la Chiesa dei Santi Damiano e Sebastiano, i Patroni, mentre percorrendo un piccolo sentiero si possono raggiungere i resti del Castello di Poggio Poponesco e il Convento cinquecentesco dei Cappuccini.
Lungo il percorso si trova anche la Chiesa di Santa Maria del Poggio situata sotto le rovine del Castello che conserva un affresco votivo del 1580 raffigurante la Madonna in Trono con il bambino e i Santi.
Proprio 150 metri più avanti della Chiesetta è raggiungibile la Big Bench n. 382, la Panchina Gigante di Fiamignano inaugurata a settembre 2024. Posizionata a 1060 m.s.l.m. su uno sperone di roccia alle pendici del monte Serra, con splendida visuale sulla Valle del Salto e l’omonimo lago, la Panchina Gigante offre ai visitatori uno straordinario panorama completamente immerso nella natura. La Big Bench di Fiamignano fa parte della rete delle Panchine Giganti del Lazio. Dal piccolo paese sale infine una stradina segnalata di circa 12 km che conduce al bellissimo Altopianodi Rascino dove viene coltivata la rinomata lenticchia locale. Il luogo è selvaggio, tra i più belli e interessanti di tutto il Cicolano, dominato unicamente da sole, acqua e vento.
Al centro un piccolo lago che si estende e si ritrae a seconda del periodo dell’anno offrendo, in primavera e in estate, lo spettacolo straordinario della fioritura delle lenticchie, insieme al dilagare delle greggi di pecore e delle mandrie di cavalli.
Altro prodotto tipico della zona è la pregiata Castagna Rossa del Cicolano, mentre per quanto riguarda la cucina tradizionale, questa è costituita da piatti poveri e legati ai prodotti della terra come i funghi e il tartufo.
Nelle trattorie locali si trovano sempre la pasta fatta in casa condita con squisiti sughi, carne alla brace e dolci casarecci.
Da non perdere la Mostra ovina ai Piani di Rascino e la Sagra della Lenticchia di Rascino in programma entrambe ogni anno ad agosto.
Salvo Palazzolo- L’amore in questa città- Rizzoli – Mondadori Libri-
Descrizione del libro di Salvo Pazzolo.L’Amore in questa città-Palermo, 1935:il corpo di una studentessa, Cetti Zerilli, viene ritrovato nel palazzo dell’Università crivellato da tre colpi di pistola. Accanto a lei il cadavere di un milite fascista, in camicia nera e stivaloni. Un caso di omicidio-suicidio sentenzia la polizia del regime, che lo archivia con un’urgenza sospetta, imponendo alla stampa il silenzio. Ma è una verità viziata dalla censura, non ci sono dubbi per Felice, il padre della ragazza, che si rifiuta di accettare per quella figlia piena di vita e così amata la versione ufficiale della tragedia. E in una Palermo buia e anestetizzata dalla violenza fascista trova un complice della sua privata ricerca di giustizia in Nino Marino, coraggioso cronista del “Giornale di Sicilia” tormentato da un amore che non è mai riuscito a dimenticare. La storia di Cetti tocca Nino nel profondo, ma non potendo raccontarla sulla pagina il giornalista dovrà indagare in segreto sulla vicenda, con l’appoggio delle sue fonti – oppositori del regime come lui – e delle tracce lasciate dietro di sé da Cetti: una ragazza appassionata, innamorata dei libri e della sua libertà, e animata da una testardaggine controcorrente. A novant’anni dai fatti, Salvo Palazzolo ricostrui- sce in questo vibrante romanzo inchiesta un cold case che mette a nudo le storture di un regime liberticida, disposto a tutto pur di mantenere il potere. La storia vera di un femminicidio di Stato in queste pagine si fa memoria collettiva, e restituisce finalmente la voce a chi è stata troppo a lungo negata..
Salvo Palazzolo.(Palermo, 1970), giornalista del quotidiano “la Repubblica”, vive e lavora a Palermo, dove da anni si occupa di mafia. È autore di diversi libri su Cosa nostra.
Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato l’attività giornalistica nel 1992, al quotidiano L’Ora di Palermo. Ha poi collaborato con l’emittente TeleScirocco, i quotidiani il manifesto, La Sicilia e Il Mediterraneo, occupandosi di cronaca giudiziaria. In collaborazione con Video On Line ha realizzato il primo sito internet italiano su un processo penale, quello che ha visto imputato l’ex 007 del Sisde Bruno Contrada1999 lavora al quotidiano la Repubblica. Nel 2019 è stato nominato inviato speciale. Negli ultimi trent’anni, ha raccontato le trasformazioni del fenomeno mafioso in Sicilia dopo le stragi Falcone e Borsellino. Per le sue inchieste sulla riorganizzazione di Cosa nostra è stato oggetto di minacce. I mafiosi del clan Inzerillo, tornati dagli Stati Uniti a Palermo, sono stati intercettati dalla squadra mobile nel dicembre 2018 mentre discutevano di dargli “due colpi di mazzuolo”Palermo, minacce all’inviato Salvo Palazzolo. Insulti dopo il post del fratello del boss. Decine di messaggi di solidarietà, su la Repubblica, 8 aprile 2020. URL consultato il 12 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[4][5]: non aveva gradito l’articolo che svelava la sua distribuzione di generi alimentari agli abitanti della periferia palermitana durante il lockdownSalvo Pazzolo.L’Amore in questa città-Palermo,
Un capitolo importante delle inchieste giornalistiche di Palazzolo riguarda il rapporto fra Chiesa e mafia. Nel 2004 ha intervistato il boss Pietro AglieriGiovanni Falcone e Paolo Borsellino avrebbe dovuto portare alla dissociazione di alcuni mafiosi da Cosa nostraIl capo della confraternita che accoglieva il cardinale è un boss di Cosa nostra, su la Repubblica, 1º maggio 2014. URL consultato il 12 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[16][17]. Due mesi dopo, ha documentato “l’inchino” durante una delle più importanti processioni della città davanti all’agenzia di pompe funebri del boss Alessandro D’AmbrogioSalvatore Riina, a Corleone: per questo episodio, il componente di una confraternita religiosa è stato condannato a 6 mesi per il reato di “turbamento delle funzioni religiose”Vito Ievolella. Dopo aver filmato di nascosto alcuni passaggi dell’omelia, ha chiesto al padre carmelitano: “Come ha potuto celebrare messa per un mafioso, dunque per uno scomunicato dalla Chiesa?”. Il sacerdote gli ha risposto con tono minaccioso: “Stia attento a come parla, perché altrimenti lei la paga. Perché il Signore fa pagare queste cose”Corrado Lorefice, che ha richiamato don Frittitta (“C’è inconciliabilità fra l’appartenenza alle organizzazioni mafiose e il Vangelo”)SE MUOIO SOPRAVVIVIMI di Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo. –, su vittimemafia.it, 29 settembre 2012. URL consultato il 13 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[22], scritto con Alessio Cordaro, ha fatto riaprire le indagini sull’omicidio di Lia Pipitone, la giovane uccisa nel 1983, a Palermo: il nuovo processo ha portato alla condanna a 30 anni per i boss Nino Madonia e Vincenzo GalatoloPaolo Borsellino, nel libro “Ti racconterò tutte le storie che potrò”Tre donne contro i boss dei pascoli, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 13 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[26][27]. Su questa vicenda, Massimo Giletti ha condotto una lunga campagna nella sua trasmissione “Non è l’arena”, in cui Palazzolo è stato ospiteSalvo Palazzolo racconta ‘I fratelli Graviano’. URL consultato il 13 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[30], dedicato ai fratelli Graviano, i mafiosi delle stragi, parte dall’esperienza con don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dalla mafia nel 1993: all’epoca, il sacerdote era anche assistente spirituale del gruppo Fuci, la federazione degli universitari cattolici, di cui Palazzolo era responsabile. Nel 1998, ha testimoniato al processo contro i fratelli Graviano raccontando l’impegno del sacerdote, nominato dalla Chiesa beato per il suo impegno contro le cosche.
Salvo Pazzolo.L’Amore in questa città-Palermo,
Televisione
Come coautore di programmi televisivi di inchiesta su Cosa nostra, ha collaborato con la società di produzione Magnolia e con la Rai. È fra gli sceneggiatori delle docu-fiction del regista Claudio Canepari, andate in onda su Rai 3: Scacco al re, la cattura di Provenzano; Doppio gioco, le talpe dell’antimafia; Le mani su Palermo. Quest’ultimo programma nel 2009 ha ricevuto il premio della critica alla XV edizione del premio giornalistico televisivo “Ilaria Alpi”Teatro
Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Falcone Borsellino. Mistero di Stato, 2002, Edizioni della Battaglia
Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Voglia di mafia. La metamorfosi di Cosa Nostra da Capaci ad oggi, 2005, Carocci editore
Ernesto Oliva e Salvo Palazzolo, 2006, Bernando Provenzano. Il ragioniere di Cosa Nostra, Rubbettino editore
Salvo Palazzolo e Michele Prestipino, Il codice Provenzano, 2007, Editori Laterza
Claudio Canepari, Piergiorgio Di Cara, Salvo Palazzolo, Scacco al re. La cattura di Provenzano, 2008, Einaudi editore
Salvo Palazzolo, I pezzi mancanti. Viaggio nei misteri della mafia, 2010, Editori Laterza
Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo, Se muoio, sopravvivimi. La storia di mia madre che non voleva essere più la figlia di un mafioso, 2012, Melampo Editore
Agnese Borsellino con Salvo Palazzolo, Ti racconterò tutte le storie che potrò, 2013, Feltrinelli Editore
Nino Di Matteo e Salvo Palazzolo, Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, 2015, Bur Rizzoli
Salvo Palazzolo, I fratelli Graviano. Stragi di mafia, segreti, complicità, 2022, Editori Laterza
Maurizio de Lucia e Salvo Palazzolo, La cattura – I misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia, 2023, Feltrinelli Editore
Gregory Corso, il poeta ribelle della Beat Generation –
Gregory Corso (1930-2001) was a founding member of the Beat Generation, and for over fifty years one of America’s most popular and beloved poets. He was the author of over a dozen books of poetry and one novel, in addition to posthumously published collections of plays, interviews and correspondence. His book, The Golden Dot: Last Poems, 1997-2000, edited by Raymond Foye and George Scrivani, will be published in Spring 2022 by Lithic Press.
Gregory Corso
Born in New York City’s Greenwich Village. He was placed in numerous foster homes, and as a teenager served time in detention centers and prisons in New York and Vermont. His lifelong friendship with Allen Ginsberg began in 1951 with their meeting in a Greenwich Village bar, shortly after Corso’s release from Clinton Correctional Facility. In 1954-55, Corso was based in Cambridge, Massachusetts, staying with friends from Harvard and Radcliffe colleges, and befriending Frank O’Hara and Bunny Lang at the Poet’s Theater. His first book The Vestal Lady on Brattle and Other Poems was published there in 1955. As an original member of the Beat Generation along with Ginsberg, Herbert Huncke, William S. Burroughs and Jack Kerouac, Corso was a public figure and a poet of great popularity who published and read widely. In 1965 he was invited to teach at SUNY Buffalo but was dismissed upon arrival when he refused to sign a loyalty oath to the US Government. He lived a peripatetic life, dividing his time between New York, San Francisco, Paris, Rome, and Athens. A faculty member in poetics at the Naropa Institute in Boulder in the 1980s and 1990s, Corso died of prostate cancer in January 2001.
La poesia di Gregory Corso ‘Bomb’ pubblicata nel 1958 è stata, secondo Catharine Seigel, una delle prime poesie ad affrontare l’esistenza della bomba nucleare. Fu pubblicata come un foglio volante (broadside) con il testo disposto a formare la forma di un fungo atomico. I primi 30 versi creavano la forma della cima del fungo, mentre i versi 30-190 formavano il pilastro di detriti e distruzione che si innalzavano dal suolo. Corso si rifaceva alla tradizione della poesia visiva ma fece la scelta irriverente di creare la forma della nuvola che risulta dalla detonazione di una bomba nucleare. Usi precedenti di questa tecnica davano alla poesia la forma di ali d’angelo e altari, per cui la scelta di Corso risulta secondo Siegel “ironicamente appropriata”. La poesia apparve nel volume “The Happy Birthday of Death” che conteneva una fotografia in bianco e nero dell’esplosione nucleare sopra Hiroshima.
Gregory Corso
Budger of history Brake of time You Bomb
Toy of universe Grandest of all snatched sky I cannot hate you
Do I hate the mischievous thunderbolt the jawbone of an ass
The bumpy club of One Million B.C. the mace the flail the axe
Catapult Da Vinci tomahawk Cochise flintlock Kidd dagger Rathbone
Ah and the sad desparate gun of Verlaine Pushkin Dillinger Bogart
And hath not St. Michael a burning sword St. George a lance David a sling
Bomb you are as cruel as man makes you and you’re no crueller than cancer
All Man hates you they’d rather die by car-crash lightning drowning
Falling off a roof electric-chair heart-attack old age old age O Bomb
They’d rather die by anything but you Death’s finger is free-lance
Not up to man whether you boom or not Death has long since distributed its
categorical blue I sing thee Bomb Death’s extravagance Death’s jubilee
Gem of Death’s supremest blue The flyer will crash his death will differ
with the climbor who’ll fall to die by cobra is not to die by bad pork
Some die by swamp some by sea and some by the bushy-haired man in the night
O there are deaths like witches of Arc Scarey deaths like Boris Karloff
No-feeling deaths like birth-death sadless deaths like old pain Bowery
Abandoned deaths like Capital Punishment stately deaths like senators
And unthinkable deaths like Harpo Marx girls on Vogue covers my own
I do not know just how horrible Bombdeath is I can only imagine
Yet no other death I know has so laughable a preview I scope
a city New York City streaming starkeyed subway shelter
Scores and scores A fumble of humanity High heels bend
Hats whelming away Youth forgetting their combs
Ladies not knowing what to do with their shopping bags
Unperturbed gum machines Yet dangerous 3rd rail
Ritz Brothers from the Bronx caught in the A train
The smiling Schenley poster will always smile
Impish death Satyr Bomb Bombdeath
Turtles exploding over Istanbul
The jaguar’s flying foot
soon to sink in arctic snow
Penguins plunged against the Sphinx
The top of the Empire state
arrowed in a broccoli field in Sicily
Eiffel shaped like a C in Magnolia Gardens
St. Sophia peeling over Sudan
O athletic Death Sportive Bomb
the temples of ancient times
their grand ruin ceased
Electrons Protons Neutrons
gathering Hersperean hair
walking the dolorous gulf of Arcady
joining marble helmsmen
entering the final ampitheater
with a hymnody feeling of all Troys
heralding cypressean torches
racing plumes and banners
and yet knowing Homer with a step of grace
Lo the visiting team of Present
the home team of Past
Lyre and tube together joined
Hark the hotdog soda olive grape
gala galaxy robed and uniformed
commissary O the happy stands
Ethereal root and cheer and boo
The billioned all-time attendance
The Zeusian pandemonium
Hermes racing Owens
The Spitball of Buddha
Christ striking out
Luther stealing third
Planeterium Death Hosannah Bomb
Gush the final rose O Spring Bomb
Come with thy gown of dynamite green
unmenace Nature’s inviolate eye
Before you the wimpled Past
behind you the hallooing Future O Bomb
Bound in the grassy clarion air
like the fox of the tally-ho
thy field the universe thy hedge the geo
Leap Bomb bound Bomb frolic zig and zag
The stars a swarm of bees in thy binging bag
Stick angels on your jubilee feet
wheels of rainlight on your bunky seat
You are due and behold you are due
and the heavens are with you
hosanna incalescent glorious liaison
BOMB O havoc antiphony molten cleft BOOM
Bomb mark infinity a sudden furnace
spread thy multitudinous encompassed Sweep
set forth awful agenda
Carrion stars charnel planets carcass elements
Corpse the universe tee-hee finger-in-the-mouth hop
over its long long dead Nor
From thy nimbled matted spastic eye
exhaust deluges of celestial ghouls
From thy appellational womb
spew birth-gusts of of great worms
Rip open your belly Bomb
from your belly outflock vulturic salutations
Battle forth your spangled hyena finger stumps
along the brink of Paradise
O Bomb O final Pied Piper
both sun and firefly behind your shock waltz
God abandoned mock-nude
beneath His thin false-talc’s apocalypse
He cannot hear thy flute’s
happy-the-day profanations
He is spilled deaf into the Silencer’s warty ear
His Kingdom an eternity of crude wax
Clogged clarions untrumpet Him
Sealed angels unsing Him
A thunderless God A dead God
O Bomb thy BOOM His tomb
That I lean forward on a desk of science
an astrologer dabbling in dragon prose
half-smart about wars bombs especially bombs
That I am unable to hate what is necessary to love
That I can’t exist in a world that consents
a child in a park a man dying in an electric-chair
That I am able to laugh at all things
all that I know and do not know thus to conceal my pain
That I say I am a poet and therefore love all man
knowing my words to be the acquainted prophecy of all men
and my unwords no less an acquaintanceship
That I am manifold
a man pursuing the big lies of gold
or a poet roaming in bright ashes
or that which I imagine myself to be
a shark-toothed sleep a man-eater of dreams
I need not then be all-smart about bombs
Happily so for if I felt bombs were caterpillars
I’d doubt not they’d become butterflies
There is a hell for bombs
They’re there I see them there
They sit in bits and sing songs
mostly German songs
And two very long American songs
and they wish there were more songs
especially Russian and Chinese songs
and some more very long American songs
Poor little Bomb that’ll never be
an Eskimo song I love thee
I want to put a lollipop
in thy furcal mouth
A wig of Goldilocks on thy baldy bean
and have you skip with me Hansel and Gretel
along the Hollywoodian screen
O Bomb in which all lovely things
moral and physical anxiously participate
O fairylike plucked from the
grandest universe tree
O piece of heaven which gives
both mountain and anthill a sun
I am standing before your fantastic lily door
I bring you Midgardian roses Arcadian musk
Reputed cosmetics from the girls of heaven
Welcome me fear not thy opened door
nor thy cold ghost’s grey memory
nor the pimps of indefinite weather
their cruel terrestial thaw
Oppenheimer is seated
in the dark pocket of Light
Fermi is dry in Death’s Mozambique
Einstein his mythmouth
a barnacled wreath on the moon-squid’s head
Let me in Bomb rise from that pregnant-rat corner
nor fear the raised-broom nations of the world
O Bomb I love you
I want to kiss your clank eat your boom
You are a paean an acme of scream
a lyric hat of Mister Thunder
O resound thy tanky knees
BOOM BOOM BOOM BOOM BOOM
BOOM ye skies and BOOM ye suns
BOOM BOOM ye moons ye stars BOOM
nights ye BOOM ye days ye BOOM
BOOM BOOM ye winds ye clouds ye rains
go BANG ye lakes ye oceans BING
Barracuda BOOM and cougar BOOM
Ubangi BOOM orangutang
BING BANG BONG BOOM bee bear baboon
ye BANG ye BONG ye BING
the tail the fin the wing
Yes Yes into our midst a bomb will fall
Flowers will leap in joy their roots aching
Fields will kneel proud beneath the halleluyahs of the wind
Pinkbombs will blossom Elkbombs will perk their ears
Ah many a bomb that day will awe the bird a gentle look
Yet not enough to say a bomb will fall
or even contend celestial fire goes out
Know that the earth will madonna the Bomb
that in the hearts of men to come more bombs will be born
magisterial bombs wrapped in ermine all beautiful
and they’ll sit plunk on earth’s grumpy empires
fierce with moustaches of gold
Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe. nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
Gregory Corso
Gregory’s Last Lines
( previously published in Eliot’s book Love, War, Fire Wind)
He was a poet of silk and the shredding of silk.
No earthling nor deity remained immune from his probing questions.
When the academy turned its head for a pulitzer second
he slipped an enlightened humor worm into the gut of poetry
that hasn’t yet wriggled its way out.
With fountain pen tears he mourned the nationalism of the nation
even as he hosanna’d the home run.
He fooled death, coaxing it into the soup of life
every time but for one.
Writing in “Many Have Fallen” about American soldiers
marched by Army into radioactive bomb blasts
Gregory wrote: “All survived / …until two decades later
when the dead finally died”–
a last line of stunning poetry enough to make the top
of Emily D’s head pop off.
In 1983, Andy Clausen brought him to carouse
our New Brunswick bars.
We stopped at my kitchen table electric typewriter,
where Gregory pulled his pocket notebook
and tapped out a piece for Long Shot magazine.
The poem was called “Delacroix Mural at St. Suplice.”
Deep into typing, Gregory stopped & asked
what thought I of his last three pencil’d lines.
I eyed his notebook, said I liked ’em but not as much
as the rest of the poem.
I thought he might write three new lines on the spot–
but instead he stood up, waved his left hand suavely
& declared the poem done at what’d been
the fourth-to-last line:
“I know the ways of god / by god!”
He knew how to end / at the ending.
I had the chance to read him “Ode to the West Wind”
on his cancer bed:
“If Winter comes, can Spring be far behind?”
After approaching mortality’s last breath in summer,
he arose to see another new year.
Now, I hear his ashes will be buried in Rome’s cemetery,
a neighbor of Shelley & the one whose name is writ in water.
In “Getting to the Poem,” Gregory ended:
“I will live / and never know my death.”
Who can say whether he was aware of that golden moment
when the breath says “no”?–
but he damn sure got to the poems.
Death, Gregory knew your secret name,
he knew your habits, your weapons, your games–
now give his verse the life it deserves
& do what you will with his gilgamesh hair
–Eliot Katz, 2001
about Love, War, Fire, Wind: Looking Out from North America’s Skull from Amazon.com:
Selected by Poetry.About.com as one of its Best Books of 2009. Mixing humor and imagination, visions of a healthy future and the windstorm realities of today, this collection of poems by Eliot Katz and artwork by William T. Ayton deals with themes of love, war, politics, ecology, and daily life. “I love these poems, which are full of passion and thought. Eliot Katz is among a handful of contemporary American poets whose work speaks to me.”–Howard Zinn “Eliot is right up there carrying the torch for Whitman and Ginsberg, keeping their vision alive and well….A must-read for anyone who believes poetry can still celebrate life.”–Alicia Ostriker “William Ayton has mastered the art of drawing with ink and brush. Like the words of Eliot Katz, his brush marks the page with deliberate force. A broken eggshell, weapons and dreams, a stroke that cannot be taken back.” –Tim Slowinski
Gregory Corso
Gregory Corso
Per Omero
C’è ruggine sulle vecchie verità
– Banalità corazzate erodono
menzogne nuove non hanno il buon profumo
delle scarpe nuove
Ho anni di poesie da battere a macchina
40 anni di fumo da smettere
non percepisco uno stipendio
Non ho una casa
E poiché le mie mani sono autoctonie
non riesco mai a lavarle abbastanza
Mi sento scemo
Mi sento come un vecchio toro spelacchiato
che si getta contro lo straccio rosso
di un giorno alcolizzato
eppure tutto è così bello
non è vero?
Che perfezione il sistema delle cose
Il corpo umano
tutto in proporzione alla sua forma
Nulla di superfluo
Proprio come se un dio l’avesse programmato così
E il sole per il giorno la luna per la notte
E l’erba la mucca il latte
Il fatto che tutti alla fine moriamo
Si penserebbe che dovrebbe esserci il caos
data la futilità di tutto
Ma i bambini continuano a nascere
spesso immagini sputate di noi
E le disuguaglianze
milioni dati a uno
zero all’altro
entrambi nella stessa barca che fa acqua
Io non ho nessuna religione
e per me venererei Ermes
E non c’è domani
c’è solo qui e ora
tu e chiunque sia con te
vivo come sempre
ed eternamente ignorante di quella morte che non conoscerai mai
E tutto è bene quel che si fa
Una felicità ellenica pervade la pace
e il dono continua a venire…
un lavoro iniziato splendidamente terminato
Vedere persone sensibili e buone
tranquille e contente nello stupore
come i sogni dei ciechi
I cieli parlano attraverso le nostre labbra
Tutto ciò che non si poteva trovare è afferrato
Tutto ciò che era rimasto indietro è portato
There’s rust on the old truths
-Ironclad clichés erode
New lies don’t smell as nice
as new shoes
I’ve years of poems to type up
40 years of smoking to stop
I’ve no steady income
No home
And because my hands are autochthonic
I can never wash them enough
I feel dumb
I feel like an old mangy bull
crashing through the red rag
of an alcoholic day
Yet it’s all so beautiful
isn’t it?
How perfect the entire system of things
The human body
all in proportion to its form
Nothing useless
Truly as though a god had indeed warranted it so
And the sun for day the moon for night
And the grass the cow the milk
That we all in time die
You’d think there would be chaos
the futility of it all
But children are born
oft times the spitting images of us
And the inequities
millions doled one
nilch for another
both in the same leaky lifeboat
I’ve no religion
and I’d as soon worship Hermes
And there is no tomorrow
there’s only right here and now
you and whoemever you’re with
alive as always
and ever ignorant of that death you’ll never know
And all’s well that is done
A Hellene happiness pervades the peace
and the gift keeps on coming…
a work begun splendidly done
To see people aware & kind
at ease and contain’d of wonder
like the dreams of the blind
The heavens speak through our lips
All’s caught what could not be found
All’s brought what was left behin
In a life of wide and restless travels, Gregory Corso produced six collections of poetry, together with a handful of plays and a novel, but left trailing in the wake of his urgent journeys an unknown number of lost poems. In interviews, Corso has recounted the sad loss of a suitcase full of his early poems in a Greyhound Bus terminal in Florida during the mid 1950s.1 He has also lamented the theft of two suitcases of poems – four years work – left in the care of the poet Isabella Gardner at the Hotel Chelsea in the mid 1970s.2 And he has regretted the sale to university libraries of his personal notebooks filled with unpublished poems: “When I needed money for dope, you see, I would never recopy the poems. I’d just sell the book. So a lot of my poems, you know, are in the universities and have never been published.”3 Other of Corso’s poems would seem simply to have been scattered behind him, mislaid and left unremembered in the rush of further poetic inspiration and precipitous departures to somewhere else. I believe that this latter explanation is likely the case as regards the three poems that I have excavated, so to speak, from a recording of a public reading of his poems given by Gregory Corso at the Poetry Center at San Francisco State College in October of 1956.4
Corso begins the 36-minute reading with nine poems selected from his collection, The Vestal Lady on Brattle (1955), then reads eight poems from a manuscript notebook titled “Poems Written in San Francisco, 1956.” Of these poems, four would later be gathered in Gasoline (1958), and one would be printed in The Happy Birthday of Death (1960.) The three fugitive poems embedded in the audio tape are “In the Madness of my Cellar,” “Creepy Flower Peddler,” and “Buddha.”5
Presented here below are my transcribed versions of these three hitherto unpublished poems. I cannot, of course, vouch either for punctuation, lineation or stanzaic patterns in the poems as I have rendered them here. Moreover, in the poem “Buddha,” despite repeated listening to Corso’s recitation on the audio tape, I am not fully confident as to my correct understanding of certain individual words. These include “peril,” “assayed,” “infant,” and “barium.” (Alternative suggestions concerning these words would be very welcome.) And let me take the opportunity here to express my gratitude to Raymond Foye for his gracious and invaluable help in correcting my transcriptions of the poems.
IN THE MADNESS OF MY CELLAR
I lost my God in the madness of my cellar.
I watched the janitor scorch a sacramental rat,
beat it against the pipe, rub hot pepper in its eyes.
No loves, no loves, in the madness of my cellar.
My baby brother leans against the hot furnace.
My father hangs red peppers to dry.
And my mad, mad mother giggles to the tarantella.
CREEPY FLOWER PEDDLER
He sells flowers and is a creep.
He sells flowers and wonders why he cannot sleep.
Unlike most peddlers, he grows his own,
and cuts them before they’re fully grown.
And here’s his nowhere song:
Little flowers without a stem.
Little flowers without a stem.
Three for a nickel, who wants them?
BUDDHA
A Harmonic Motion For Jack Kerouac, Buddha-Fish
Buddha is dead.
Dead in the empty lot, in the fish box.
Dead without peril or theory.
Dead rehabilitated to dumb heroism.
A dead Buddha cannot view the pint wine bottle.
What does Buddha know of pushcarts?
With Buddha died his children, speechless, enamored by kind demons.
Sweet Buddha, where is he now?
Whose cowhorn is he sucking?
Buddha immortal mute suffering with mortal memories
has gone to the mountains below the mountains.
Strong solemn law inhabits Peril.
Peril is the demon.
He steals the angels of Buddha, puts salt on their wings,
handcuffs their brains to masculine limbs.
Who will talk to the demon?
Who will admire his new secondhand hearse?
Who will kiss his gnaw of eucharistic feet?
Lay their abundant blonde verse upon his gridiron?
Pluck wolfbane from his gargoyle-eyed, regnant skull?
Shoot a silver bullet into his dropping mouth?
Drive a maple stake into his reasonable heart?
Steal the soil of his native Transylvanian acreage?
Who will do this?
You will, children of Buddha.
You mad children of sodacaps.
You’ll stick nails in the tires of his hearse.
Sip gasoline from the tank of his hearse.
Put rocks in the watertank of his hearse.
O Buddha, marled and gnawed, aimless in America,
in secondhand hearse parked on Pine Street,
watching children of love play, and on their knees pray
God the Father of ice cream.
O Buddha, ghouled and gargoyled,
bugged and assayed in the pale arms of Mother Death Columbia.
Get thee beneath that pushcart and see it all.
See the broken glass and the bits of rope
that burst in on the radio wire.
Feel it, see it all Buddha!
Buddha is dead.
In death Buddha’s skin is wet yet shaky
like penguin does ice water, the beads of life,
owing everything to flash light, nothing to sunlight.
I know you, Buddha.
When you were born, really born,
you was Brooklyn 33, New York,
a Jewish section where everything was secret,
like shopping bags.
Your home was a street with ground windows and wide gray stoops,
with desiccant flowerpots and dry yellow curtains
– all this would obscure your infant mother’s twisted fate.
Bosatsu, now in motion.
Brother Bosatsu who teaches Buddha,
yet is engaged entirely in his own salvation.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who testifies the wisdom of Buddha and himself.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who strives to introduce and establish the ideal land.
Bosatsu who dares set down into the realm of agony.
Spit on Bosatsu!
Now, Buddha, now that you’re dead, what have you got to say?
The back legs of a goat.
The empty matchbox.
The sweet spray smell of insecticide
or the old barium in a cow’s hoof.
That’s what I’ve got to say.
”In the Madness of my Cellar” depicts the traumatic encounter of the poet-speaker with the cruelty and horror of the world, an experience that serves to undermine his religious faith and causes him to lament life in a realm without love. Appropriately, the events of the poem take place in a cellar, a hot, Hadean underworld, a realm of evil and pain. In addition to the poet-speaker who narrates the grim incidents recounted in the poem, the hellish cellar is inhabited by a sadistic janitor, an apparently indifferent father, an innocent, neglected, suffering “baby brother,” and a mother driven to madness (presumably by the cruel and loveless world to which, like the narrator, she is also a horrified, helpless witness.) “Cellar” and “tarantella” make an unusual and inventive rhymed pair lending a subtle lyrical unity to this vivid, potent poem. “In the Madness of my Cellar” resonates with motifs expressed in several poems in The Vestal Lady on Brattle in which terror and violence perpetrated upon innocent victims are prominent.
A similar theme informs “The Creepy Flower Peddler,” where the peddler in question cuts short the lives of young flowers, doing so for selfish commercial reasons. Already in the title of this poem, Corso affects a reversal of reader expectations. Traditionally, the trope of the flower seller is associated with innocence, as Eliza in G.B. Shaw’s Pygmalion and the figure of the blind flower girl in Charlie Chaplin’s classic film, City Lights.6 In Corso’s poem, however, the flower peddler is seen as a man callously restricting the full development of natural life, and the poet views him as malevolent and despicable, another embodiment of the brutish and unfeeling life-thwarting forces of the world, another destroyer of innocence. On the audio tape of the Poetry Center reading, after having read “The Creepy Flower Peddler,” Corso remarks “I believe flowers should be left to grow, let them grow and let them die where they are, we have no right to take these things away from the earth.” In this poem, the parallel constructions, repetitions, insistent metre, and emphatic rhymes seem to suggest the narrow limits of the flower peddler’s outlook.
In contrast to the taut structure of “The Creepy Flower Seller,” the poem titled “Buddha” capitalizes on the deep resources offered by free verse in combination with epiphanic leaps of imagination. In this elegy – both brash and reverent – the poet contrasts the demonic, destructive forces of the world with those agencies that resist such forces and whose aims are, instead, redemptive and liberating. Poverty, squalor, sterility and death clash in the poem with the teachings of “sweet Buddha,” and are defied by the sly, joyous sabotage undertaken by the “children of Buddha,” the “children of love.” Buddha’s insights are betrayed in this fallen world by hypocritical figures such as Brother Bosatsu (clearly undeserving of his misleading name) who seeks not the benefit and awakening of all sentient beings –as taught by Gautama Buddha – but only his own salvation. Yet, though “marled and gnawed … ghouled and gargoyled,” the spirit of Buddha somehow endures, reborn into the desiccated, spiritually claustrophobic contemporary world, and even in death remaining poetically eloquent, communicating through koan-like utterances. In Corso’s use of parallelism and refrain in the Brother Bosatsu stanza a faint echo may be detected of sections I and II of Allen Ginsberg’s poem, “Howl.”
Readers of Gregory Corso’s Gasoline will recall that in the “Introduction” to that volume Allen Ginsberg quotes with approval a line from an unpublished poem by Corso: “mad children of soda caps.”7 At last, we know the source of that line: the phrase occurs in “Buddha.” Similarly, readers of Jack Kerouac’s Desolation Angels may remember that in that novel the poet Raphael Urso (the author’s pseudonym for Gregory Corso) recites to the narrator via telephone his latest poem which includes the line: “Spit on Bosatsu! Spit on Bosatsu!”8 Again, the source is to be found in the same unpublished poem, “Buddha.”
I think it probable that the three lost poems printed above – together with others written during the same period – were not discarded by Corso but were intended to appear in a collection to be titled Early Poems which was to be published in 1960 by the Totem Press. In a letter written from Paris in November of 1958 to Allen Ginsberg, Corso mentions that LeRoi Jones (of Totem Press) wants to publish a book of his early poems and specifically names “Creepy Flower Peddler” as being among the poems to be gathered in that volume. A collection titled Early Poems is listed as forthcoming from Totem Press in the bibliography for Gregory Corso included in The New American Poetry 1945-1960 and is also mentioned in the bibliography for “Five Poets in their Skins,” an article by Paul Carroll in Big Table. For unknown reasons (most likely economic in nature) the book never appeared. We can only speculate as to what may have become of the manuscript of this intriguing collection.
The recovery of the three lost poems from 1956 transcribed above serves to extend and deepen our understanding of Gregory Corso’s work during the period between the publication of The Vestal Lady on Brattle in 1955 and Gasoline in 1958, and to remind us that further examples of Corso’s rich, visionary, quirky early poems may yet be retrieved from manuscript notebooks and other sources.
1 ”They were lost in a suit case at Hollywood, Florida … in the Greyhound Bus Terminal. And, Hope, my girlfriend – she went to all the Greyhound presidents to get the things back.” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, “I’m Poor Simple Human Bones,” in The Whole Shot: Collected Interviews with Gregory Corso, ed. by Rick Shober (2015) p. 108. See also letter from Gregory Corso “To Mr. and Mrs. Randall Jarrell” November 14, 1956, in An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso (2002), p. 16.
2 “So there was a big gap – 1970-1974 – four years work gone.” Gregory Corso interviewed by Gavin Saleri in The Riverside Interviews: Gregory Corso, (1982) p. 32. See also “The Enigmatic Relationship of Poets Isabella Gardner and Gregory Corso” by Marian Janssen, The Journal of Beat Studies, Vol. 3, January 1, 2014, pp. 93-118.
3 “When I needed money for dope …” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, op.cit p. 102.
5 From The Vestal Lady on Brattle: “Dementia in an African Apartment House,” “Greenwich Village Suicide,” “Coney Island,” “In the Morgue,” “Sea Chanty,” “Vision Epizooic,” “In the Early Morning,” and “Requiem for Bird Parker, Musician.” From Gasoline: “Mad Yak,” “On my 26th Year” (aka “I am 25”), “Italian Extravaganza,” “The Table was Hard Possible Music like Steel” (aka “This Was my Meal.) And from The Happy Birthday of Death: an early version of “Power.”
6City Lights, film written and directed by and starring Charlie Chaplin, 1931. Pygmalion, play by George Bernard Shaw, 1913.
7 “Introduction” by Allen Ginsberg in Gasoline by Gregory Corso (San Francisco: City Lights, 1958) p. 7.
8Desolation Angels by Jack Kerouac (New York: Coward-McCann, 1965) p. 128.
9An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso edited by Bill Morgan (New York: New Directions, 2003) p. 184.
10The New American Poetry 1945-1960 edited by Donald M. Allen (New York: Grove Press, 1960) p. 447. “Five Poets in their Skins” by Paul Carroll, Big Table Vol. 1, No. 4, Spring 1960, p. 140.
The life of Gregory Corso reads like a cheap and trashy tragic made-for-TV movie. It was one of heartbreak and irony…
Corso was born Nunzio Corso on March 26th 1930, to a sixteen-year-old mother. Michelina Corso had just married Sam Corso before giving birth to Nunzio, and a year later she abandoned him into the care of Catholic charities, his father quickly remarrying and feeding him stories about his mother.
Corso selected the name ‘Gregory’ as his confirmation name, and while known to his Italian American community as Nunzio, he dealt with everyone else as ‘Gregory.’
He spent eleven years in five different fosters homes, coming to appreciate the Catholic church’s efforts in helping orphaned and abandoned children through the depression, despite his own depressing isolation.
To avoid being drafted for WWII, Corso’s largely absent and uncaring father brought his son home in 1941. Nevertheless, Sam Corso was drafted and Gregory Corso became homeless, now without any family, foster or otherwise.
He tried fruitlessly to find his mother over the years, despite the stories his father told him: that she was a disgraced prostitute, cared little for Corso, and had returned to Italy in shame.
Alone, Corso took to the streets, sleeping in the subway and on the roofs, running errands for food from street vendors. He became a street child of Little Italy, continuing his education while denying his homelessness to the authorities.
When only thirteen years old, Corso stole a toaster, sold it, and used the money to buy a tie and see a movie. The movie was The Song of Bernadette, about the appearance of the Virgin Mary. Corso claimed he thought seeing the movie would bring about a miracle wherein he would be reunited with his mother. But upon leaving the theatre, he was arrested for theft and sent to New York’s infamous prison, the Tombs. With no one to pay his $50 bail, Corso was incarcerated with criminally insane murderers for several months.
In 1944, during a blizzard, Corso broke into his tutor’s office and spent the night in the relative warmth. When he woke he was immediately arrested and sent back to the Tombs. He became so traumatised by the brutality of the other inmates that he was sent to Bellevue Hospital’s psychiatric ward. (He was not the only Beat writer locked up in a mental hospital.)
At seventeen, Corso was sent to Clinton prison, a maximum security facility near the Canadian border, for stealing a suit, and without being given legal representation to defend himself. This was the prison where most electric chair death sentences were carried out.
Clinton was kinder to Corso than the Tombs had been. Here, the youngest inmate in the facility was protected by the Mafia and sent to the cell occupied by Charles ‘Lucky’ Luciano, who had donated his library to the prison and had his own reading light by his bed. Corso spent his nights reading the classics, and upon leaving Clinton, his Mafia friends got him a job in the city.
After three years, ending 1950, Corso was back in New York City, writing and reading poetry, and becoming friends with Allen Ginsberg. They met in a lesbian bar, The Pony Stable, and Ginsberg became attracted to Corso and his poetry. Corso showed Ginsberg a poem he’d written about a woman he’d watched lie naked on her windowsill, and it turned out she was a friend of Ginsberg. Ginsberg set the two up, but Corso got scared and literally ran away.
Through Ginsberg Corso met Burroughs, Kerouac, and many of New York’s writers and artists. Corso and Kerouac met in 1950, but didn’t become close friends until 1953. In The Subterraneans, Kerouac recalls an incident in which Corso stole a pushcart and caused a fallout between Kerouac and Ginsberg. Corso came to resent his depiction in the book as he believed Kerouac had no right to speak so harshly of him in the early days of their relationship, which had not yet come to be considered even friendship.
When Ginsberg, Orlovsky and Burroughs were in Tangiers, Corso came and visited them, and then persuaded them to come live in Paris, and introduced them to a place later to be known as the Beat Hotel. Here, Corso and Ginsberg helped Burroughs edit together The Naked Lunch, and the two poets produced some of the finest work.
In 1957, Corso returned to New York. He was the youngest member of the ‘inner circle’ of Beats – that small social group that is the only one that can be accurately and honestly considered the Beat Generation. Yet, despite being the youngster of the group, Corso was the first published Beat, having his collection of poetry, The Vestal Lady on Brattle, published in 1952.
It was for the publication of Gasoline that he returned, and this coincided with the publication of On the Road and the explosion of the Beat Generation as a cultural phenomenon. Kerouac, Ginsberg and Corso stuck around, posed for photos, answered questions for reporters, and took a constant and ignorant barrage of abuse. Corso played the bad boy of the group, talking up his prison time and unkempt appearance.
He began to tour the poetry circuit with Ginsberg, and despite the Beat movement for the most part being considered a fad for dumb kids, playing on the rebellious streak of a few over-popular criminals, Corso began to draw a lot of positive attention for his poetry. Namely, the attention came for Marriage, his long musing on the peculiarities of the institution.
Marriage evokes the music and rhythm within Corso, instead of adhering to the structures and conventions of traditional poetry. His idol was Shelley, English Romanticist, yet in Paris Corso hit upon the notion of simply letting sound come from the mean – what he naturally felt inclined to say. The result was a long and witty poem poking fun at conformity, digging the Beat spirit of rejecting tradition that gripped the group and would become satirised itself in years to come.
Later in his life, Corso, like so many associated with the Beat Generation, came to resent his label and public perception as a Beatnik, and shunned the limelight they’d all at one stage or another occupied.
However, he allowed Gustave Reininger to film Corso – The Last Beat, which showed Corso in Italy lamenting never having known his mother. Reininger secretly launched a search for Michellina Corso, and amazingly found her living in Trenton, New Jersey, and not in Italy, as Corso had always been told by his father.
Corso and his mother were reunited on camera, and the truth came out that she had been beaten almost to death by Sam Corso, and had no choice but to leave him and hand her child over to the church. When she’d later been in a position to support a child, she was unable to find Corso.
Despite feeling ‘healed’ by finding his mother, Corso was soon diagnosed with prostate cancer and died in January, 2001. He was buried next to Percy Bysshe Shelley in the Protestant Cemetery, Rome.
Quello che non si è soliti sapere su il Popolo dei Sabini , passato alla storia come gli ingenui che si son fatti fregare le donne dai romani, un fatto che macchia per sempre la narrazione nella storia di questo popolo, è che le ruggini con i futuri romani iniziarono già molto prima ovvero quando Enea sbarcò sui lidi laziali; infatti, il giovane principe Sabino Clauso (capostipite della futura e nobile gens Claudia) aiutò Turno, Re dei Rutuli, nella lotta contro gli esuli troiani.
Nonostante lo sgarro ricevuto e il misterioso omicidio del Re Tito Tazio, che inizialmente divideva il trono di Roma con Romolo e lasciò al solo Romolo il trono del nuovo regno, i Sabini si fusero con i Romani e da loro usciranno Re e famiglie potenti nella stessa storia romana… insomma una sorta di grande rivincita, perciò forse tanto ingenui non erano.
In realtà i Romani non solo si presero le donne ma copiarono e adottarono persino i loro tipi di scudi e di armature e per effetto di tale fusione l’esercito romano raddoppiò e divenne il più potente esercito dell’area, incoraggiando, come abbiamo visto, il rissoso Romolo ad ingrandire i propri confini.
Pertanto I Sabini divennero assai potenti all’interno delle mura romane, anche grazie all’appoggio delle numerose mogli dei giovani romani che erano, al tempo stesso, le loro figlie e le mogli, diciamo così … usurpate, rubate o furbescamente prestate? del resto si sà che in casa, come sempre capita, a comandare sono le donne e a Roma, per la maggior parte erano di origine Sabina.
Pertanto potremmo affermare che il popolo Sabino fu il più astuto popolo antico che raggiunse un enorme potere senza essere notato, anzi addirittura sottovalutato e grazie alle proprie donne … altro che ingenui!
“Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David–Particolare Bambini“Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David-Particolare Romolo
Gertrud Kathe Sara Chodziesner nasce a Berlino nel 1894, in una famiglia ebrea.Lavora come insegnante in una scuola femminile e coi bambini disabili e, nel mentre, scrive varie poesie con lo pseudonimo di Gertrud Kolmar.La poetessa esprime, nelle opere, il suo modo di essere e la struggente richiesta di essere ascoltata dagli altri, lontana da qualsiasi ambizione mondana.Le sue poesie giungono al grande pubblico nel 1938, ma vengono subito cancellate dalle leggi razziali. Gertrud le consegna a familiari emigrati, poi è costretta a prendere la dimora, con il padre, nella “Casa degli Ebrei”.Il padre nel 1941 viene inviato al campo di Theresienstadt, Gertrud il 2 marzo 1943 viene caricata sul treno senza ritorno con Auschwitz come destinazione finale.
L’animale
Vieni qui. E vedi la mia morte e vedi questo
eterno patire,
L’ultima onda che tremando si perde sul mio
pelo,
E sappi che il mio piede con gli artigli fu
debole e sfuggente,
E non chiedere se sono lepre, scoiattolo, o
topo.
Perché non importa. Sempre ti voglio male
o bene;
Sei il tiranno che inventa la legge,
E la misura secondo le sue membra, come fosse il suo mantello,
il suo cappello.
E tra le mura della sua città lo straniero
stringe e offende.
Muto ti adagi sulle tombe degli uomini
Fatti a pezzi da te;
Soffrendo, diventarono santi, cinti d’oro.
Porti la pelle della madre morta e la metti addosso
a tuo figlio,
Regali giochi sbocciati dalla fronte insanguinata
dei martiri.
Perché in vita siamo bestiame e selvaggina; cadiamo:
preda, carne e pasto –
Non rugiada di mare, né raccolto di terra che voi senza riserva
concedete.
Con l’inferno ed il cielo vi addormentate; quando
crepiamo siamo carogne,
Ma il vostro cruccio è che non ci potete più
ammazzare.
A chi un tempo pregasti, io diedi le mie
immagini,
Finché riconoscesti il dio dell’uomo, non più
il dio degli animali,
Ed estirpasti la mia prole e chiudesti tra pietre
la mia fonte
E ciò che scrisse la tua brama chiamasti
una frase dell’Altissimo.
E tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là, e ancora hai
del soffrire la ricompensa
Che si rifugia inviolabile nella tua anima;
Ma in una veste di piume e squame, io sopporto
mille volte,
E se tu piangi, sono il tappeto, sopra cui s’inginocchia
la tua pena.
Gertrud Kolmar – Das Tier
(Traduzione di Adelmina Albini e Stefanie Golish)
Das Tier
Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses
ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen
Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig
war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine
Maus.
Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse
oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel,
seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt
und kränkt.
Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern
liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem
Kinde um,
Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter
entsproß.
Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen:
Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr
gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir
verrecken , sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr
morden könnt.
Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet
hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr
Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell
in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde
schrieb.
Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast
noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im
Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein
Jammer kniet.
“La città è per me un vino colorato in un levigato
calice di pietra
che sta e brilla
davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio
più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi,
ci colpiscono tutte le cose
a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me
la rigida parete
delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro
della piccola bottega
si chiude riservato:
«Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta
e cerca a tentoni
il mio passo
pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno
si unisce con la colla,
là si parla una lingua
che non è mia.
La luna palpita rossastra
come un assassinio
sopra il corpo lontano,
sopra la parola smarrita, quando, la notte,
contro il mio petto
s’infrange il respiro
d’un mondo straniero.”
L’ABBANDONATA
A K. J.
Ti sbagli. Credi di esser lontano,
e che ti cerchi ansiosamente e non riesca più a trovarti?
Ti tocco con i miei occhi,
con questi occhi, che sono buio e una stella.
Ti trascinai sotto questa palpebra,
la chiusi e sei per sempre prigioniero.
Come credi di poter fuggire ai miei sensi,
alla rete del cacciatore, a cui mai sfuggì una preda?
Non mi lasci più cadere dalle tue mani
come un mazzo di appassiti fiori,
per strada gettati, e sulle soglie
calpestati e da tutti infangati.
Ti ho voluto bene. Tanto bene.
Ho pianto tanto…con preghiere ardenti…
E ti amo ancora di più, perché per te soffrii,
quando la tua penna non scrisse più lettere, non più lettere per me.
Ti chiamavo amico e signore e guardiano del faro
sul sottile tratto d’isola,
tu, il giardiniere del mio frutteto,
e ce n’erano mille buoni, e nessuno era quello giusto.
Non mi accorsi che mi si infranse il vaso
che conteneva la mia giovinezza – e piccoli soli,
gocce ch’essa stillava, si dispersero nella sabbia.
Ero in piedi e ti fissavo.
Il tuo passaggio rimase nei miei giorni,
come profumo sta attaccato ad un abito,
che inconsapevolmente lo accoglie solo
per portarlo sempre addosso.
*
DIE VERLASSENE
Du irrst dich. Glaubst du, dass du fern bist
Und dass ich dürste und dich nicht mehr finden kann?
Ich fasse dich mit meinen Augen an,
Mit diesen Augen, deren jedes finster und ein Stern ist.
Ich zieh dich unter dieses Lid
Und schliess es zu und du bist ganz darinnen.
Wie willst du gehen aus meinen Sinnen,
Dem Jägergarn, dem nie ein Wild entflieht?
Du lässt mich nicht aus deiner Hand mehr fallen
Wie einen welken Strauss,
Der auf die Strasse niederweht, vorm Haus
Zertreten und bestäubt von allen.
Ich hab dich liebgehabt. So lieb.
Ich habe so geweint…mit heissen Bitten…
Und liebe dich noch mehr, weil ich um dich gelitten,
Als deine Feder keinen Brief, mir keinen Brief mehr schrieb.
Ich nannte Freund und Herr und Leuchtwächter
Auf schmalen Inselstrich,
Den Gärtner meines Früchtegartens dich,
Und waren tausend weiser, keiner war gerechter.
Ich spürte kaum, dass mir der Hafem brach,
Der meine Jugend hielt – und kleine Sonnen,
Dass sie vertropft, in Sand verronnen.
Ich stand und sah dir nach.
Dein Durchgang blieb in meinen Tagen,
Wie Wohlgeruch in einem Kleide hängt,
Den es nicht kennt, nicht rechnet, nur empfängt,
Um immer ihn zu tragen.
NOI EBREI
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio,
voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa,
la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato,
e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità,
la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei,
e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono,
gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante,
sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare,
e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma,
e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli,
l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele;
Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero.
Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre,
tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
15.9.1933
Traduzione Germana Carlino
Tratta dall’opuscolo GERTRUD KOLMAR. LA STRANIERA 1894 – 1943 che trovate qui
Wir Juden
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, ich liebe dich, mein Volk,
Und will dich ganz mit Armen umschlingen heiß und fest,
So wie ein Weib den Gatten, der am Pranger steht, am Kolk
Die Mutter den geschmähten Sohn nicht einsam sinken lässt.
Und wenn ein Knebel dir im Mund den blutenden Schrei verhält,
Wenn deine zitternden Arme nun grausam eingeschnürt,
So lass mich Ruf, der in den Schacht der Ewigkeiten fällt,
Die Hand mich sein, die aufgereckt an Gottes hohen Himmel rührt.
Denn der Grieche schlug aus Berggestein seine weißen Götter hervor,
Und Rom warf über die Erde einen ehernen Schild,
Mongolische Horden wirbelten aus Asiens Tiefen empor,
Und die Kaiser in Aachen schauten ein südwärts gaukelndes Bild.
Und Deutschland trägt und Frankreich trägt ein Buch und ein blitzendes Schwert,
Und England wandelt auf Meeresschiffen bläulich silbernen Pfad,
Und Russland ward riesiger Schatten mit der Flamme auf seinem Herd.
Und wir, wir sind geworden durch den Galgen und das Rad!
Dies Herzzerspringen, der Todesschweiß, ein tränenloser Blick
Und der ewige Seufzer am Marterpfahl, den heulenden Wind verschlang.
Und die dürre Kralle, die elende Faust, die aus Scheiterhaufen und Strick,
Ihre Adern grün wie Vipernbrut dem Würger entgegenrang.
Der greise Bart, in Höllen versengt, von Teufelsgriff zerfetzt,
Verstümmelt Ohr, zerrissene Brau und dunkelnder Augen Fliehn:
Ihr! Wenn die bittere Stunde reift, so will ich aufstehn hier und jetzt,
So will ich wie ihr Triumphtor sein, durch das die Qualen ziehn!
Ich will den Arm nicht küssen, den ein strotzendes Zepter schwellt,
Nicht das erzene Knie, den tönernen Fuß des Abgotts harter Zeit;
O könnt ich wie lodernde Fackel in die finstere Wüste der Welt
Meine Stimme heben: Gerechtigkeit! Gerechtigkeit! Gerechtigkeit!
Knöchel. Ihr schleppt doch Ketten, und gefangen klirrt mein Gehn.
Lippen. Ihr seid versiegelt, in glühendes Wachs gesperrt.
Seele. In Käfiggittern einer Schwalbe flatterndes Flehn.
Und ich fühle die Faust, die das weinende Haupt auf den Aschenhügeln mir zerrt.
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, mein Volk im Plunderkleid:
Wie der heidnischen Erde, Gäas Sohn entkräftet zur Mutter glitt,
So wirf dich zu dem Niederen hin, sei schwach, umarme das Leid,
Bis einst dein müder Wanderschuh auf den Nacken des Starken tritt!
(Das Lyrische Werk S.101)
Gertrud Kolmar (pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner, Berlino 1894 – Auschwitz 1943?), nata in una famiglia ebrea, studiò da maestra e lavorò come insegnante e istitutrice tra Germania e Francia. Nel 1915 l’amore infelice per un militare la condusse a un aborto e a un tentativo di suicidio, esperienza che segnò profondamente la sua vita e la sua scrittura. Costretta a trasferirsi nel 1939 in una “casa per ebrei” e nel 1941 al lavoro forzato in una fabbrica di armi, nel marzo 1943 fu deportata ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. La sua opera, già apprezzata dal cugino Walter Benjamin, fu conosciuta soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento. Il 27 febbraio del 1943 a Berlino anche Gertrud Kathe Sara Chodziesner subisce l’Azione nelle fabriche: migliaia di ebrei come lei vengono prelevati dai posti di lavoro e ‘smistati’ in campi di raccolta. da qui, il 2 marzo parte il ‘ 32° trasporto all’est’: è il convoglio della deportazione finale a Auschwitz dell’autrice, nota con lo pseudonimo di ‘Gertrud Kolmar’, dove ‘Kolmar’ è la germanizzazione del polacco ‘Chodziesen’, città d’origine della famiglia paterna.
Gertrud Kolmar
Poesia. Gertrud Kolmar: il silenzio in versi salva inizio e fine
Morì ad Auschwitz nel 1943. Rimase sconosciuta ai più fino al 1947, quando uscì la raccolta “Mondi” ora tradotta in italiano: un insieme di “sinfonie” dove le pause giocano un ruolo decisivo-
Della poetessa ebrea tedesca Gertrud Kolmar, pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner (1894-1943), si sono conservate solo poche tracce: alcune fotografie dell’infanzia, una fotografia ritratto del 1928, una foto con un’amica, una con la famiglia scattata nel 1937, e poco altro, oltre alle sue opere, la maggior parte delle quali edite solo dopo la sua morte. Walter Benjamin, cugino da parte di madre, ebbe molta considerazione dei suoi componimenti e tentò in più occasioni di favorirne la pubblicazione, perché le sue erano tonalità, scrisse, che «non sono più state percepite nella poesia femminile tedesca dopo Annette von Droste». Dopo che il padre nel 1917 si era speso per l’uscita di una prima raccolta, Benjamin riuscì a far pubblicare su rivista solo alcune sue poesie, perché Kolmar era aliena da qualsiasi avanguardia e nulla nei suoi componimenti era concessione ai parametri dettati da mode e sensibilità artistiche contemporanee.
Del resto l’indifferenza verso la sua opera rimase praticamente intatta anche quando nel 1947 venne pubblicata da Suhrkamp la raccolta Mondi. Un’indifferenza motivata certo dalla sua adesione alla tradizione letteraria, ma anche dalla sua decisione di rimanere accanto al padre malato, un ebreo convintamente assimilato, finché quello, nel 1942, non venne rinchiuso nel lager di Theresienstadt, dove sarebbe morto un anno dopo. Nell’estate 1941 Kolmar accettò il lavoro forzato nelle fabbriche berlinesi di Lichtenberg e Charlottenburg, perché perfettamente consapevole del suo destino. «Voglio andare incontro al mio destino, che sia alto come una torre, o che sia scuro e gravoso come una nuvola», scrisse allora alla sorella Hilde, esule in Svizzera.
Arrestata in fabbrica il 27 febbraio 1943, alcuni giorni dopo venne trasportata ad Auschwitz, dove morì. Scritto nel 1937, il ciclo poetico Mondi (Mondadori, pagine 112, euro 16,00) è una grande sinfonia di componimenti consistente ciascuno per lo più di quattro parti, nelle quali un ruolo significativo è giocato dal silenzio, proposto in forma di pausa. Kolmar apprezzava molto il silenzio, il suo come quello degli altri, anche nella vita, tanto che nelle lettere a Hilde ripete spesso che il silenzio è quanto vi è di più vicino al suo cuore.
La conclusione di ogni sinfonia è silenzio che si fa vuoto. I suoi mondi respirano una vacuità che significa inizio e fine: il mondo inizia nel vuoto e finisce in esso. Come un suono dalle profondità, da quel vuoto sorge una natura incomprensibile: le isole Mergui. Il loro potere nascosto fa nascere il desiderio di altri mondi. Meglio, di due mondi, quello dell’uomo e quello della natura, popolato da animali e piante. Le parole della poesia (ed ogni parola è per lei una scoperta) sono per Kolmar lo strumento per ricercare il primordiale dell’umanità, cioè del proprio io. Attraverso la memoria e l’evocazione dell’infanzia cerca tracce, ma è un evento vissuto da giovane donna a rappresentare la traccia evidente e dominante del suo poetare.
In Mondi, come anche in altri componimenti, ricorre ed è evocata con frequenza la figura di un bambino, evidentemente quel bambino desiderato e amato, ma mai partorito, abortito all’età di 21 anni per volontà dei genitori. La sua intera opera poetica palpita del desiderio di riempire quel vuoto rimasto nel suo grembo: «Con le mie piccole opere, mi sento come una madre con il suo bambino appena nato; una madre che certo è felice dell’entusiasmo del padre e dei nonni, delle congratulazioni dei parenti, ma la gioia più grande è averlo partorito ». Così scrisse alla sorella, a motivo della raccomandazione di prendersi cura dei suoi componimenti.
Articolo di Vito PUNZI –Fonte Avvenire del 14 aprile 2023-
ROMA- Musei Capitolini -Agrippa Iulius Caesar, l’erede ripudiato. Un nuovo ritratto di Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto.
Nella Sala degli Arazzi dei Musei Capitolini di Roma viene presentato al pubblico per la prima volta il ritratto di Agrippa Postumo della Fondazione Sorgente Group che dialoga idealmente con altri due ritratti di Agrippa: uno proveniente dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze ed un altro dalle Collezioni Capitoline. Aperta al pubblico fino al 27 aprile 2025, la mostra riunisce per la prima volta insieme questi tre capolavori marmorei che raccontano la storia dello sfortunato erede di Augusto, Agrippa Postumo, ultimo figlio di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia, unica figlia di Augusto.
Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto
L’esposizione, a cura di Laura Buccino, Eugenio La Rocca e Valentina Nicolucci, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Fondazione Sorgente Group e il sostegno del Gruppo Sorgente e Condotte 1880. Servizi museali Zètema Progetto Cultura. Le tre sculture esposte, tra cui la testa di recente acquisizione della Fondazione Sorgente Group, rappresentano le repliche migliori conservate di un tipo di ritratto che la critica attribuisce ad Agrippa Postumo. I ritratti sono databili tra l’adozione del 4 e la condanna del 7 d.C., nel periodo in cui Agrippa Postumo ricevette onorificenze e dediche statuarie a Roma ed in tutti i territori soggetti all’impero. I ritratti di Agrippa Postumo ci riportano alle vicende della storia dell’Impero romano, quando, dopo il 4 d.C. e numerosi lutti per la morte precoce dei successori designati alla successione di Augusto, prima Marcello (figlio della sorella di Augusto Ottavia) e poi Lucio e Gaio Cesari (anch’essi figli di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia), l’imperatore fu costretto a rivedere la sua linea di successione adottando Tiberio Claudio Nerone, figlio di primo letto della moglie Livia, e Agrippa Postumo, l’ultimo dei cinque figli di Marco Vipsanio Agrippa, il più grande collaboratore di Augusto e di Giulia, sua figlia. Il nome “Agrippa” fu scelto dallo stesso Augusto, in quanto era nato poco tempo dopo la morte del padre, da cui il cognomen Postumus. Al momento dell’adozione, il giovane cambiò il suo nome in Agrippa Iulius Caesar, poiché era entrato a far parte della famiglia di Augusto, la Iulia, ed era così divenuto uno degli eredi designati (Caesar) alla successione. Nonostante Agrippa Postumo fosse l’unico nipote rimastogli, Augusto lo ripudiò ben presto, pare per ragioni caratteriali, allontanandolo da Roma e facendolo esiliare prima a Sorrento e poi a Pianosa, come riferiscono le fonti antiche, ma forse anche per le lotte di potere che animavano la corte negli ultimi anni di vita dell’anziano princeps. I tratti fisionomici delle tre sculture in mostra sono inconfondibili – la fronte accigliata, gli occhi stretti e allungati profondamente infossati, gli orbitali enfiati, la piccola bocca serrata, segnata da rigonfiamenti ai lati, le due fossette incavate, tra il naso e il labbro superiore e tra il labbro inferiore e il mento sporgente – e contribuiscono a conferire al volto giovanile un’espressione seria e concentrata, resa ancora più incisiva dalla torsione della testa. La principale caratteristica del ritratto è lo sguardo “torvo”, particolarmente evidente nella replica ai Capitolini, ma presente anche nelle altre. Il tipo ufficiale del ritratto di Agrippa Postumo della Fondazione Sorgente Group fu realizzato verosimilmente in occasione della sua adozione da parte di Augusto nel 4 d.C., quando Agrippa Postumo aveva 16 anni, e utilizzato per le onorificenze dedicategli in quanto erede designato, con il nome di Agrippa Iulius Caesar, almeno fino al suo allontanamento dalla famiglia e all’esilio nel 7 d.C. “Ci riempie di orgoglio l’aver promosso la Mostra monografica dedicata alla presentazione, per la prima volta al pubblico, del volto del giovane principe giulio-claudio, identificato dal prof. Eugenio La Rocca con Agrippa Postumo” – ha dichiarato Valter Mainetti, Presidente della Fondazione Sorgente Group –. “L’esposizione dei tre ritratti, riuniti per la prima volta, è un’importante occasione di conoscenza e di studio, e soprattutto un’opportunità che vede coinvolta la nostra Fondazione, quale istituzione privata, e la prestigiosa sede dei Musei Capitolini, guidati dal Sovrintendente Capitolino, Claudio Parisi Presicce, il cui rapporto di stima e di collaborazione ha consentito la realizzazione di molti progetti culturali”. “Una parte importante della collezione archeologica della nostra Fondazione – ha dichiarato Paola Mainetti, Vicepresidente della Fondazione Sorgente Group – riguarda proprio la ritrattistica dei protagonisti della gens giulio-claudia, in modo particolare degli eredi designati da Augusto alla sua successione imperiale. La Fondazione Sorgente Group ha proseguito in questi anni la sua attività con l’obiettivo di implementare la collezione dei ritratti imperiali, promuovendoli e valorizzandoli attraverso esposizioni e studi scientifici, così come è avvenuto anche per i volti di Lucio Cesare e Gaio Cesare, fratelli dello stesso Agrippa Postumo in mostra; poi Germanico, figlio di Druso e Antonia Minore, il cui ritratto è presente in collezione”.
Info:
Musei Capitolini – Sala degli Arazzi, fino al 27 aprile 2025
Ufficio Stampa Fondazione Sorgente Group
Ilaria Fasano (+39) 339 6409259 i.fasano@sorgentegroup.com
Beatrice Forti (+39) 345 2485682 – b.forti@sorgentegroup.com
Gustavo Zagrebelsky-Il diritto mite – Legge diritti giustizia- Piccola Biblioteca Einaudi
Breve descrizione del libro di Gustavo Zagrebelsky-La prima edizione di questo libro risale a trent’anni fa. Oggi si propone una nuova edizione corredata da un’Introduzione dove si cerca di rispondere alle critiche suscitate dalla novità controcorrente della tesi sostenuta.
Gustavo Zagrebelsky-il-diritto-mite
Questa è la tesi: chi maneggia il diritto sa che ciò che è davvero fondamentale sta non nella Babele dei codici, delle leggi, dei regolamenti, ma nelle concezioni della giustizia, in cui il diritto è immerso. I giuristi consapevoli della funzione sociale del diritto non possono ignorare queste radici complicate della loro professione. Il «diritto mite» è una proposta di apertura culturale indirizzata a loro. Ripercorrendo la storia europea fino allo Stato costituzionale di oggi, il libro mostra come le norme di diritto non possano più essere espressione di interessi di parte né formule imposte e subite. L’autorità della legge, infatti, come mostrano tanti esempi in materie che toccano la vita di tutti, entra in contatto con i casi della vita, illuminati dai principî di libertà e di giustizia. L’applicazione della legge da parte dei giudici è oggi ben altro compito che quello di semplici «bocche della legge».
Gustavo Zagrebelsky.Presidente Onorario Libertà e Giustizia
Gustavo Zagrebelsky
Presidente Onorario Libertà e Giustizia
Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.
Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.
Dal 1995 al 2004, giudice della Corte costituzionale, per nomina del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro e, nell’anno 2004, Presidente della Corte medesima, per elezione dal parte dei suoi componenti Alla scadenza del mandato, è stato nominato giudice e presidente emerito della Corte costituzionale.
Attualmente, è rientrato alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dove insegna Giustizia costituzionale.
Collaboratore, prima della nomina a giudice costituzionale, del quotidiano La Stampa e, dopo la scadenza, del quotidiano La Repubblica. Socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei; socio corrispondente della Accademia delle scienze del Cile. Dottore honoris causa all’Università di Toulon et Vars.
Componente e collaboratore di numerose riviste scientifiche italiane e straniere, tra cui Giurisprudenza costituzionale, Quaderni costituzionali e Revista Iberoamericana de Derecho Procesal Constitucional.
Socio fondatore del Gerjc (Gruppo di ricerca internazionale sulla giustizia costituzionale) con sede a Aix en Provence.
Federigo Tozzi Ecco i calici d’oro delle rime
si accendono e si spengono, a vicenda,
nel tepore dell’anima sublime,
che parmi, adesso, come una leggenda.
Federigo Tozzi è noto principalmente come narratore, in particolare con i romanzi Con gli occhi chiusi, Tre croci e Il podere. Esordì tuttavia come poeta e tra le sue raccolte compare Specchi d’acqua, di cui recentemente Gianfranco Lauretano ha curato per noi la pubblicazione, affiancata da uno studio sull’autore (G. Lauretano, Federigo Tozzi. Una rivelazione improvvisa, Raffaelli, 2020).Riportiamo alcuni esempi di queste liriche di Tozzi, composte probabilmente tra il 1909 e il 1911, che si addensano intorno a temi presenti anche nella sua prosa: la donna, la natura e il costante dialogo con l’anima. Buona lettura.
Di quando in quando, vedo la tua faccia
come un riflesso bello e inafferrabile,
che si dilegui senza alcuna traccia.
E l’anima diviene quasi labile.
[17].
V’erano sogni troppo sparsi e cose
sempre da dirti, che tu non sapevi.
Ma chi cogliere può tutte le rose?
Amica, i giorni nostri sono brevi;
e mentre che t’illude la bellezza
e l’anima tua trepida rilevi,
né men posso finire la carezza
che nella bocca aspetta e nelle mani.
Noi conosciamo poco l’allegrezza.
T’illudi più se credi che domani
avremo quel che non abbiamo ancora.
I nostri sogni sono più lontani.
L’autunno, lentamente, si scolora
e ci lascia avveduti del destino.
Noi sogneremo, forse, per un’ora.
Tu senti che, se vengo a te vicino,
come una volta più non mi puoi credere.
E diviene il tuo cor quasi indovino.
E tu di mano in mano devi cedere
a qualche cosa che è di noi più forte.
Labili son gli abbracci di queste edere.
È forse il velo eterno della morte,
che s’avvicina senza scampo a noi;
sì che anche le memorie sono corte.
Amica, non ritorna quel che vuoi.
[20]. PIOGGIA AUTUNNALE NEL BOSCO
Poi ch’io aspettavo ogni parola vostra,
ogni goccia su l’anima batteva;
e il bosco intorno, a modo di una chiostra,
il suo silenzio a intervalli schiudeva.
Io vi coglievo tutti i ciclamini,
per toccare così le vostre dita;
ma la pioggia tremava sopra i pini,
come ascosa tremava la mia vita.
Ed il silenzio mi parea una soglia
per l’indugio dell’anima dispersa;
e vidi distaccarsi qualche foglia
come una cosa mia che avessi persa.
[48].
Fra le selci il mio cuore ho ritrovato
sì che appena conoscere lo posso.
Ma quando nella mano mi ha aggravato
ben ho sentito il suo sorriso rosso
come una corsa dentro le mie vene.
Ma come lo perdei non mi sovviene.
Era forse una strana primavera,
ond’egli si sentiva più commosso
plasmandosi sì come fosse cera
sotto il sole che gli scendeva addosso.
Ma non m’avvidi quando si disfece
né di quando il Signore me lo fece.
È il mio cuore da vero, oppure sbaglio?
Io non lo so. Mi pare un cuore nuovo;
e per farmi rispondere, lo taglio
e lo trapasso tutto con un rovo.
Se fosse il cuore mio, con una rosa
io mi farei risponder d’ogni cosa.
Ed ecco che risponde: io sono il cuore,
che come un fiume limpido mi muovo;
io mando, quando voglio, un grande odore;
io sono il cuore che dolcezza piovo.
Ti sembro il cuore tuo che non t’è noto,
il cuore tuo sì inutile e sì vuoto?
Rifatti selce tacita, gli grido.
A me bastano gli alberi ondeggianti
nel vento allegro sì che io pure rido.
Mi bastano le stelle fiammeggianti
nel cielo che mi sembra tutto mio.
Tu non guastar questo sublime oblio.
Sbattiti con le selci quanto vuoi;
a me basta sognare fra i giganti;
e invece, cuore umano, tu mi annoi
e d’essere il mio cuore invan ti vanti.
L’anima è qualche cosa che si perde
e si rinnova come un ramo verde.
Federigo Tozzi
Federigo Tozzi-Scrittore italiano (Siena 1883 – Roma 1920). Dotato di una formazione letteraria da autodidatta, riportò nelle sue opere, spesso ambientate in un mondo provinciale e caratterizzate da accenti autobiografici, i sintomi di quella stessa crisi descritta dai contemporanei I. Svevo e L. Pirandello. Dopo le prose liriche Bestie (1917), pubblicò il romanzo Con gli occhi chiusi (1919) e le novelle poi riunite in Giovani e L’amore (entrambi del 1920), mentre molta parte della sua produzione venne pubblicata postuma.
Vita e opere
Perduta la madre, fece studi irregolari ed ebbe un’adolescenza e una giovinezza inquiete, soprattutto per i violenti contrasti col padre, gestore di una nota trattoria senese (cfr. la raccolta post. delle lettere alla fidanzata, Novale, 1925). Nel 1908 fu impiegato delle ferrovie a Pontedera e poi a Firenze, ma alla morte del padre tornò a Siena per vivere sulle poche terre ereditate. Aveva frattanto cominciato a scrivere poesie (pubbl. in due raccolte: La zampogna verde, 1911, e La città della Vergine, 1913) e racconti (uno dei quali, Ricordi di un impiegato, più tardi rielaborato, sarebbe apparso post. nel 1927) e a collaborare a riviste di provincia. Nel 1913 fondò a Siena, con l’amico D. Giuliotti, una rivistina, La Torre, durata pochi numeri (rist. anast. a cura di L. Giorgi, 1977), ispirata a posizioni spiritualiste e di cattolicesimo reazionario, cui T. era approdato dopo una giovanile adesione al socialismo. Nel 1914, costretto a vendere l’ultimo podere, si trasferì a Roma, dove visse anni assai duri (solo nel 1918 entrò nella redazione del Messaggero della Domenica, conoscendovi O. Vergani e L. Pirandello) ma di intensa creatività: la pubblicazione di Bestie, del romanzo Con gli occhi chiusi (1919, scritto nel 1912-13) e di alcune novelle gli procurò finalmente consensi e autorevoli appoggi, fra cui quello di G. A. Borgese. Un altro romanzo, Tre croci (1920), uscì subito dopo la sua morte, dovuta a un’improvvisa polmonite. Postumi apparvero anche i romanzi Il podere (1921) e Gli egoisti (1923) e il dramma L’incalco (1923). Pur essendosi formato fuori dalle correnti letterarie più vive (culminanti in quegli anni nel movimento della Voce) e su disordinate letture, che dagli antichi scrittori senesi giungevano fino a Verga, Dostoevskij e soprattutto D’Annunzio (i cui echi sono frequenti nelle sue poesie), T. fu tra i primi della sua generazione ad avvertire la necessità di uscire dal dilettantismo delle sensazioni per scavare nella propria coscienza e interrogarsi sul senso delle cose; così come, pur essendo portato a un impressionismo lirico a fondo paesistico (felicemente testimoniato dalle prose di Bestie), per molti aspetti vicino al frammentismo dei vociani, meglio e prima di questi egli sentì che occorreva trasporlo in forme oggettive, in narrazione e personaggi (donde la rivendicazione che del significato della sua opera farà la successiva generazione di narratori). Ma se è vero che un residuo di rancoroso autobiografismo contrasta talvolta con tale ricerca di oggettività, è altresì vero che, nel chiuso mondo provinciale da lui descritto, dove gli antichi valori contadini ancora confliggono con quelli della piccola borghesia cittadina e si soffre per meschini interessi e inconfessabili passioni, nel disagio e nel fallimento esistenziale dei suoi personaggi è possibile cogliere i sintomi di quella stessa crisi, inettitudine e smarrimento che, da altri angoli visuali, venivano scoprendo i contemporanei Svevo e Pirandello. Significativi dei suoi gusti e interessi letterari sono altri lavori di T. (Antologia d’antichi scrittori senesi, 1913; Mascherate e strambotti della Congrega dei Rozzi di Siena, 1915; Le cose più belle di Santa Caterina da Siena, 1918; gli scritti critici raccolti in Realtà di ieri e di oggi, post., 1928), mentre alla sua attività creativa vanno ancora ascritti i Nuovi racconti (1960) e Adele. Frammenti di un romanzo (1979), entrambi a cura del figlio Glauco, nonché i testi teatrali, le prose Cose e persone e altri inediti, riuniti, a cura dello stesso, nell’edizione completa e definitiva delle Opere (5 voll., 1961-81). Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Prof.Carlo Franza-L’Appia consolare (Roma-Brindisi) madre di tutte le vie-
La via Appia-E’ in Campania che staziona la bellissima mostra fotografica, non solo documentaria ma anche multimediale dal titolo “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi”; essa riscopre e racconta il percorso della prima grande via europea, da Roma a Brindisi, percorsa a piedi nell’estate 2015 da Paolo Rumiz, Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani e Irene Zambon. Inaugurata a Roma nell’Auditorium, la mostra è ospitata nel Museo Archeologico dell’antica Capua fino al 25 marzo 2017, rievocando la prima tappa del percorso della Regina viarum. La via consolare fu il tramite per diffondere i principi della civiltà romana, lo strumento che fisicamente collegò il “centro del Potere” con i luoghi strategici della penisola. Appio Claudio nei cinque anni della sua censura tracciò la via da Roma a Capua per 132 miglia. L’Appia fu il tracciato lungo il quale marciò il temuto esercito romano, ma anche la via della condivisione, degli scambi culturali, dei traffici; ma è stata anche la triste strada lungo la quale giungevano a Capua gli schiavi e i gladiatori, dove i 6.000 compagni di Spartaco vennero crocifissi atrocemente e simbolicamente esposti a mo’ di monito. Ed è sempre lo stesso selciato calcato da Paolo di Tarso e dai primi apostoli che, con la loro testimonianza, segneranno la fine dei culti pagani e delle religioni misteriche. Un ulteriore invito a visitare la mostra è offerto da una selezione di iscrizioni, rilievi e sculture provenienti dalla città. Tra questi spicca la statua del Trittolemo, l’eroe ateniese che dispensava il dono dell’agricoltura all’umanità, unico esemplare a tutto tondo finora noto, a simboleggiare la straordinaria fertilità dell’Ager Campanus.
L’Appia consolare
Paolo Rumiz e compagni hanno intrapreso il loro viaggio – conclusosi il 13 giugno 2015 dopo 611 chilometri, 29 giorni di cammino e circa un milione di passi – con l’idea di tracciare finalmente il percorso integrale della madre di tutte le vie, dimenticata in secoli di dilapidazione, incuria e ignoranza. Ecco l’Appia. Ora sono essi stessi a raccontare un’avventura che definiscono “magnifica e terribile, terrena e visionaria, vissuta attraverso meraviglie ma anche devastazioni, sbattendo talvolta il naso contro l’indifferenza di un Paese cinico e prono ai poteri forti, ma capace di grandi slanci ospitali e di straordinari atti di resistenza “partigiana” contro lo sfacelo”. “È compito di ciascuno di noi, come cittadini, – spiegano – restituire alla Res Publica questo bene scandalosamente abbandonato, ma ancora capace – dopo ventitré secoli – di riconnettere il Sud al resto del Paese e di indicare all’Italia il suo ruolo mediterraneo. Appia è anche un marchio, un “brand” di formidabile richiamo internazionale. Un portale di meraviglie nascoste decisamente più vario e di gran lunga più antico del Cammino di Santiago de Compostela. La mostra ci accompagna sui Colli Albani, sotto i Monti Lepini con le fortezze preromane sugli strapiombi, lungo i boscosi Ausoni che hanno dato all’Italia il nome antico e ai piedi dei cavernosi Aurunci dalle spettacolari fioriture a picco sul mare. Ci guida nella Campania Felix, sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, nell’Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi fino all’Apulia della grande sete. In questo itinerario, Paolo Rumiz e compagni non sono stati soli, ma hanno avuto altri compagni d’avventura, da citare in ordine di chilometri percorsi: Marco Ciriello, Sandra Lo Pilato, Michaela Molinari, Mari Moratti, Barsanofio Chiedi, Settimo Cecconi, Giulio e Giuseppe Cederna, Giovanni Iudicone, Franco Perrozzi, Cataldo Popolla, Andrea Goltara e Giuseppe Dodaro, con la partecipazione straordinaria di Vinicio Capossela. La mostra consente di rivivere questa affascinante riscoperta attraverso le fotografie di Riccardo Carnovalini integrate da un reportage di Antonio Politano realizzato per il National Geographic Italia e da istantanee estratte dai filmati “on the road” di Alessandro Scillitani. Nel percorso espositivo, curato da Irene Zambon, con testi e didascalie di Paolo Rumiz, anche alcune immagini dei viaggi di Luigi Ottani sui confini dei migranti e dei sopralluoghi di Sante Cutecchia sulla Regina Viarum, oltre ai filmati di Alessandro Scillitani e le musiche e le installazioni audio di Alfredo Lacosegliaz. Completano il percorso un apparato cartografico curato da Riccardo Carnovalini e Cesare Tarabocchia e il materiale documentario conservato negli Archivi della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma – Capo di Bove e della Società Geografica Italiana, come fotografie, cartoline d’epoca, mappe antiche e moderne. La mostra è a cura della Regione Campania, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Polo museale della Campania, Scabec Spa, Società Geografica Italiana onlus e Festival della Letteratura di Viaggio. La mostra e le attività connesse, che interesseranno anche ulteriori siti lungo il percorso campano dell’antica Appia, sono realizzate nell’ambito del progetto “Itinerari culturali e religiosi” programmato e finanziato dalla Regione Campania con fondi POC.
Carlo Franza
Carlo Franza
Carlo Franza è Nato nel 1949, due lauree conseguite all’Università Statale La Sapienza di Roma. Allievo di Giulio Carlo Argan. Storico dell’Arte Moderna e Contemporanea, professore prima a Roma, poi a Torino, oggi a Milano.
Stefano Garzaro – “Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza “
Per un nuovo 25 aprile- Articolo di Gian Mario Gillo-Il libro Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza di Stefano Garzaro (edito da Piemme) è stato recentemente presentato nei locali della libreria Claudiana di Torino. L’ultima fatica editoriale dell’autore, professionista nel campo dell’editoria scolastica e saggista, è un antidoto alla riscrittura della storia. Ripercorre la tragedia delle ultime due guerre mondiali e si sofferma in particolar modo sulla Seconda, preceduta dal Ventennio fascista che aveva attuato in Italia persecuzioni contro gli oppositori con la promulgazione di leggi “fascistissime”, antiebraiche e razziali, razziste; racconta poi la lotta per giungere alla Liberazione.
Stefano Garzaro – “Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza “
Le circa duecento pagine sono anche un omaggio ai tanti martiri della giustizia e della libertà; soprattutto partigiani e partigiane, come ben ricorda nella prefazione la segretaria nazionale dell’Anpi, Michela Cella.
Il libro risponde a domande dirimenti: perché si festeggia il 25 aprile? Che cosa è stata la Resistenza? Chi furono e come operarono i partigiani? Perché l’Italia fascista decise di entrare in guerra? Soprattutto, consegna al lettore tante storie, alcune delle quali inedite. I nomi citati sono un mosaico narrativo dal quale emergono figure importanti legate all’antifascismo.
Dall’opposizione del torinese Gobetti (morto in Francia per le botte prese in Italia) si passa a quella di Giacomo Matteotti (di cui lo scorso anno ricorreva il centenario della morte), un uomo capace di essere la sintesi di qualità diverse in una persona sola: politico, intellettuale, pubblicista antiregime: per questo ucciso dai fascisti nel giugno 1924.
Cita Willy Jervis, il “traghettatore” di perseguitati su irti sentieri di montagna, che, ricercato nella zona di Ivrea, trovò rifugio in val Pellice, dove proseguì l’attività della Resistenza. Il volume ricorda anche aneddoti come quello di Sandro Pertini che, quand’era presidente della Camera dei deputati, non volle ricevere il fascista che lo teneva recluso in confino a Ventotene, all’epoca questore di Milano.
Garzaro racconta anche le tragedie belliche, sociali e antropologiche più dolorose: le stragi naziste contro i civili, come quella di Sant’Anna di Stazzema, e altre, dimenticate dalla storia; entra nell’abisso umano della Shoah, ricorda le deportazioni di politici e di dissidenti, e di coloro che erano considerati diversi.
Il libro è un omaggio al grande valore civile e umano di tante persone. Garzaro ricorda ad esempio Nunziatina, la staffetta partigiana «che visse due volte» perché sopravvissuta alla fucilazione (seppur fucilata), e ancora i due bambini napoletani, che persero la vita per liberare – impugnando le armi – la loro città.
Uno scrigno prezioso di pagine che dona nuova vita a coloro che la persero, proprio per difendere quella che oggi è la nostra libertà. Elenca nomi, fatti, storie che rischierebbero di perdersi. Partigiano della memoria, l’autore, ci regala questo piccolo manuale da leggere tutto d’un fiato come esercizio democratico in vista del prossimo 25 Aprile.
* S. Garzaro, Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza. Milano, Piemme, 2022, pp. 192, euro 14,50.
Fonte- Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi in Italia.
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