Roma-Parco Archeologico del Colosseo, apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo, sul Palatino-
Roma-Il Parco Archeologico del Colosseo apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo alle pendici meridionali del Palatino, portando quindi a compimento il primo dei dieci progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Caput Mundi nell’ambito della Missione 1 Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura e Turismo. Un intervento articolato che ha coinvolto tutti gli aspetti della ricerca interdisciplinare, dalle indagini preliminari tramite prospezioni, ai rilievi fotogrammetrici 3d (ante e post operam), fino agli scavi archeologici, ai restauri conservativi delle superfici, alla valorizzazione illuminotecnica con la sponsorizzazione di iGuzzini e la predisposizione di una nuova rampa e vetrata per la migliore visione del mosaico e delle pitture che hanno dato il nome al contesto.
La Schola Praeconum si trova sulla terrazza più bassa del versante meridionale del Palatino, in una posizione che suggerisce un possibile collegamento in antico con il vicino Paedagogium. Pur appartenendo a epoche diverse (il Paedagogium è d’impianto domizianeo ma rimase a lungo in uso anche successivamente, mentre la Schola risale all’età severiana), entrambi gli edifici avevano funzioni legate ai servizi imperiali: il Paedagogium, come indica il nome, era una sorta di collegio per l’istruzione degli schiavi imperiali ed è oggi visibile lungo il percorso meridionale del Palatino, con i suoi pavimenti musivi originari restaurati. La Schola Praeconum, invece, era la sede della corporazione degli araldi, i praecones, incaricati di annunciare le pompae circensi.
Colosseo apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo sul Palatino
Costruita nel III secolo d.C. su edifici preesistenti, la Schola si inserisce nel progetto di ristrutturazione generale del versante meridionale del Palatino promosso dalla dinastiadei Severi. Il suo orientamento rispetta quello dell’asse del Circo Massimo. Dal punto di vista architettonico, la struttura era caratterizzata da una corte rettangolare circondata da un portico sorretto da pilastri (oggi non più visibili se non per lo spazio calpestabile), con un sistema tripartito di ambienti voltati. L’edificio rimase in uso fino al V secolo d.C., come testimoniato dalla sequenza degli apparati decorativi verticali e orizzontali.
Il primo intervento decorativo, risalente al 200-240 d.C., consisteva in pitture murali raffiguranti figure maschili in piedi, vestite con abiti servili e collocate all’interno di architetture ad edicole. Questi personaggi, che portano bastoni, mappe, serti o cassette, sono stati interpretati come tricliniarii. Successivamente, le pareti furono rivestite di lastre di cipollino, mentre sul pavimento venne posato un grande mosaico bianco e nero che ha dato il nome all’edificio. Questo mosaico, unico nel suo genere, raffigura otto figure maschili in corte tuniche, disposte in due gruppi di quattro, con in mano un caduceo, uno stendardo, un bastone. Si ritiene che il mosaico risalga agli inizi del IV secolo d.C., forse durante gli interventi di ristrutturazione avviati dall’imperatore Massenzio.
L’interpretazione delle figure rappresentate nel mosaico ha sollevato diversi interrogativi. Sono state viste come araldi (praecones), impiegati pubblici a servizio dello Stato (apparitores) o aurighi. Tuttavia, appare certo che l’edificio e coloro che vi ’abitavano’ svolgevano funzioni strettamente connesse con il Circo e le relative manifestazioni. Alcune ipotesi suggeriscono che la struttura potesse avere un secondo piano, utilizzato come tribuna imperiale per assistere agli spettacoli circensi.
Francesco Daveri- Un cristiano per la libertà -di Alessandro Forlani
Francesco Daveri nacque il 1° gennaio 1903 a Piacenza da Cesare e Carolina Maldotti, una famiglia, come egli stesso avrebbe ricordato, «povera e numerosa»:il padre era impiegato presso la curia vescovile e i figli della coppia furono sette (due maschi e cinque femmine). Dopo aver frequentato le scuole elementari, D. fu ammesso al seminario vescovile, dove svolse le cinque classi del ginnasio, per poi superare nel 1919 il concorso per accedere al Collegio Alberoni, la prestigiosa istituzione piacentina per la formazione del clero che aveva anche annoverato personalità destinate al successo nelle diverse discipline scientifiche. Non avvertendo la vocazione religiosa, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, mantenendosi negli studi con il proprio lavoro fino al 1926, quando si laureò a pieni voti. Nel frattempo, iscrittosi anche al Partito popolare italiano nel 1921, divenne socio della Società della gioventù cattolica italiana, entrando nel 1922 nel consiglio della Federazione diocesana, di cui fu segretario per la propaganda nel 1924 e per le missioni nel 1926. Nel periodo universitario fece parte anche della Fuci, di cui fu il reggente del segretariato di Piacenza dal 1927 al 1929. Dopo due anni di praticantato legale, D. aprì uno studio insieme a Giuseppe Arata, con il quale, dopo aver condiviso la militanza nella Gioventù cattolica, avrebbe collaborato anche nella Resistenza su posizioni differenti, in quanto socialista. D. sposò Margherita Castagna, con la quale ebbe cinque figli, entrando, secondo le disposizioni statutarie, nell’Unione uomini di Azione cattolica. Ma a partire dal 1930 il suo impegno si concentrò prevalentemente sull’antifascismo attivo. Partecipò alle attività del Movimento guelfo d’azione, promuovendo la diffusione dei manifestini prodotti dal gruppo. Allacciò contatti con esponenti socialisti. Rimase in rapporto con i dirigenti del disciolto Partito popolare che non si erano piegati al regime. Nella seconda metà degli anni Trenta, quando fu aperta anche a Piacenza la sezione, D. prese parte alle iniziative del Movimento laureati di Azione cattolica e a partire dagli inizi del 1943, dopo la fondazione in diocesi dello Studium Christi, fu coinvolto nelle attività di questo centro che, pur avendo un taglio culturale, fu uno spazio prezioso nel maturare le prospettive per il dopoguerra. Le attività clandestine si intensificarono durante la II Guerra mondiale. Dopo lo sfollamento della famiglia a Bobbio, in provincia di Piacenza, alla fine del 1942, D. decise di rimanere a Piacenza, oltre che per continuare la professione, anche per non allentare l’opposizione al regime che si era fatta sempre più intensa. All’indomani della caduta del fascismo, che maturò il 25 luglio 1943, a Bettola diede fuoco pubblicamente a un ritratto di Mussolini, gettando i frammenti incandescenti dal balcone della pretura verso la folla che stava manifestando con spirito anche divertito per la scena. Intervenne anche per far scarcerare quanti avevano manifestato nel capoluogo per la caduta del duce presso il prefetto Amerigo De Bonis, il quale il 1º settembre 1943 lo nominò membro della giunta provinciale amministrativa. In seguito all’armistizio, fu tra i fondatori del Comitato di liberazione nazionale di Piacenza, che si costituì e poi si riunì a più riprese nel suo studio di via Pavone. Si attivò immediatamente per organizzare il rifornimento di armi per le prime bande partigiane che si andavano formando nell’Appennino piacentino. Lo stretto controllo del territorio seguito all’occupazione nazista accentuò la pressione sulle sue iniziative. Il Tribunale straordinario provinciale il 30 gennaio 1944 spiccò un mandato di cattura per l’oltraggio compiuto all’indomani della destituzione di Mussolini. Avvisato in tempo, D. si nascose in città, preparando la difesa in vista del processo, che si chiuse in contumacia nel marzo del 1944 con la «faziosa sentenza», determinata in cinque anni di reclusione. D. scrisse una dura lettera, diffusa in città, al prefetto Davide Fossa, al quale imputava la responsabilità di un recente eccidio, con la minaccia di rappresaglia da parte delle forze partigiane. Nel nascondiglio, preparò anche messaggi da inviare alla Resistenza. Il 15 marzo 1944, sotto il falso nome di Lorenzo Bianchi, mentre cercava di varcare il confine verso la Svizzera, fu fermato dalle guardie di frontiera, che lo trattennero e, dopo una estenuante trattativa, gli permisero il varco. Espletate le consuete procedure previste per i rifugiati, fu spostato alla casa d’Italia a Lugano, dove trovò alcuni antifascisti cattolici con i quali era in rapporto amicale, e poi fu spostato a Loverciano. Nel Ticino, comunque, D., su incarico del Clnai, fece da raccordo tra la Resistenza del Nord Emilia e gli alleati. Oltre a inserirsi nel dibattito politico che fu animato tra i rifugiati italiani, attraverso la fidata segretaria dello studio professionale, Bruna Tizzoni, che effettuò diversi viaggi in Svizzera, riallacciò i rapporti con la Resistenza della sua terra. Questi servirono anche per farli fruttare all’interno della rete dello Special Operation Executive, il servizio segreto inglese attivato durante la guerra, per conto del quale D. cominciò a operare. Attraverso questo canale, nel luglio del 1944 rientrò clandestinamente in Italia, operando prevalentemente a Milano sotto mentite spoglie, in collegamento con i servizi di informazione della Resistenza. Non smise però di tenere relazioni importanti con il piacentino, cercando anche di orientare a distanza la rappresentanza democristiana all’interno dell’organismo di coordinamento locale. La sua attività più importante fu comunque l’incarico di ispettore militare del Nord Emilia per conto del Clnai, che lo mise in continuo contatto con Ferruccio Parri ed Enrico Mattei. Nell’ottobre del 1944 D. rientrò nel piacentino, dove tenne alcuni incontri rivelatisi cruciali per il consolidamento in senso unitario della Resistenza, che lo consacrarono come punto di riferimento imprescindibile. Il 18 novembre, nel corso di un’operazione che fu favorita anche dall’«incompetenza» di altri delle «regole cospirative», fu arrestato a Milano e condotto al carcere di San Vittore, dove fu registrato con il nome di Lorenzo Bianchi, secondo quanto attestava il documento d’identità falso. Interrogato brutalmente dalle Ss, non rivelò informazioni compromettenti, addossandosi anzi la responsabilità per tentare di scagionare quanti erano stati arrestato con lui. Per un principio di congelamento al piede fu ricoverato nell’infermeria della struttura, anche se i reiterati tentativi per liberarlo, per il tramite del consolato inglese di Lugano non riuscirono. Il 17 gennaio 1945 D. fu deportato al campo di concentramento di Gries, nei pressi di Bolzano, da dove il 4 febbraio seguente, con l’ultimo convoglio di deportati italiani verso i lager nazisti, partì per la Germania, arrivando a Mauthausen il 7 febbraio successivo, venendo identificato con la piastrina n. 126.054. Una decina di giorni dopo fu assegnato al sottocampo di Gusen II, costretto al lavoro forzato nella cava di San Giorgio. Prostrato e ridotto allo stremo, D. fu ricoverato in infermeria, dalla quale il 30 marzo uscì febbricitante. Sentendo ormai prossima la liberazione, cercò di attingere alle residue energie per continuare il duro lavoro, ma, senza riuscire a resistere, fu bastonato. D. si spense dopo il 10 aprile 1945. Il certificato della Croce rossa internazionale, secondo il libro dei morti del campo, attestò come giorno del decesso il 13 aprile 1945 alle ore 6.50. Nel 1986 gli fu conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: «Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà».
Francesco Daveri
Onorificenze
Medaglia d’argento al valore militare
Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà.
Fonti e bibliografia
Luigi Donati, Ricordo di Francesco Daveri, A. Del Maino, Piacenza 1955.
Alessandro Forlani, Francesco Daveri (1903-1945). Un cristiano per la liberta, Emilstampa, Piacenza 1993.
Italo Londei, L’espatrio dell’avv. Francesco Daveri, in «Archivum bobiense», 25 (2003), pp. 499-508.
Claudio Oltremonti, Nelle S.P.I.R.E. del regime. Upi, Questura, Ovra, Mgir, missione alleate, intelligence partigiana a Piacenza (1943-1945), s.n.t., 2018.
Autore scheda: Paolo Trionfini-Fonte Biografie dei Resistenti
Francesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco Daveri
Poesie scelte di Emanuel Carnevali–un poeta all’inferno-
ADELPHI EDIZIONI
Emanuel Carnevali
Risvolto-Descrizione del libro di Emanuel Carnevali-un poeta all’inferno-ADELPHI EDIZIONI-Come Dino Campana, Emanuel Carnevali ha avuto il destino di un ‘poète maudit’: nato a Bologna nel 1897, partì da ragazzo per gli Stati Uniti, che dovevano diventare, per lui, il luogo simbolico della vita e della letteratura. Passò attraverso numerosi e umili mestieri («raccogliere cicche per strada non fu certo la cosa più spregevole a cui mi ridussi») finché lo incontriamo nella cerchia degli scrittori americani di punta in quegli anni. Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon lo accolsero come uno dei loro, con ammirazione e insieme sconcerto dinanzi a questo difficile e imprendibile personaggio, e inclusero subito testi suoi nelle loro celebri antologie e riviste. Carnevali scriveva in inglese, la sua unica lingua era quella dell’esilio, e portava così nella poesia americana un soffio selvatico, di cui fu avvertita la novità. Il suo destino era tragico: nel 1922 fu colpito da encefalite e dovette tornare in Italia. Trascorse in un ospedale vicino a Bologna gli ultimi anni della sua vita, e lì ancora lo raggiungevano le lettere dei suoi amici americani. In questo volume abbiamo voluto raccogliere le parti più significative della sua opera, finora inedita in italiano. Innanzitutto il romanzo Il primo dio, una prosa di febbrile intensità, carica di immagini, di sogni, di angosce, di camere mobiliate, l’autoritratto di un nomade, braccato dalla vita, che ci lascia sbalorditi per la modernità del suo accento. Poi una scelta dalle sue poesie: anche queste ‘eccentriche’, rispetto all’America e tanto più rispetto all’Italia, scritte in una lingua reinventata con felicità e uno strano candore, leggere e disperate. Infine alcune prose critiche, da cui apparirà l’ottica singolare di questo ‘poeta maledetto’, insofferente delle raffinatezze formali e compositive dei suoi amici americani, lui che si sentiva preso in un terribile risucchio verso la morte. Nel loro disordine e nella loro amarezza, i testi di Carnevali hanno un suono ‘giusto’ che percepiamo solo oggi, come quello di chi poteva essere uno dei grandi scrittori italiani di questo secolo e invece giunge filtrato da un’altra lingua, da un’altra storia, e pur sempre come un’emozionante scoperta.
Emanuel Carnevali
3 poesie di Emanuel Carnevali
Menzogne colorate
I
Le case in lunga schiera
hanno rosse facce arse dal vento.
Queste bare d’aria immobile
con sguardo ottuso e stupido
se l’intendono con i venti che soffiano
un bell’insulto sulle loro facce-
vecchie zitelle
ingoiano con dignità l’odio
verso il passo vanitoso
di alte ragazzine dalle gonne ondeggianti.
Hanno rosse facce arse dal vento.
Tentano con dignità
di sorridere
una rossa menzogna
per un momento
in lunga schiera
mentre soffiano i venti.
II
Uomini vestiti di blu, nero e grigio
questi sono i tre colori del cielo.
Odio, amore e bontà pigiati nello spazio
di una giacca mal abbottonata.
Poiché il cielo
guardando giù
tanto dolcemente
chiederà a questi uomini la ragione,
queste piccole, indaffarate cose sotto la giacca
nasconderanno il disagio,
e strisceranno via
in abiti blu, nero e grigio-
tre colori di menzogna
per tradire
lo sguardo gentile del grande cielo innocuo…
Oh l’intrusione
confonderebbe
lo stomaco degli uomini,
striscerebbero via
armati di bugie nere blu e grigie.
(Gennaio 1918)
*
Quando è passato
L’amore lo pensavo come un lungo giro in battello
su un lago tranquillo: intorno
i salici lasciavano cadere le loro fronde
in acqua;
e tra quelle fronde, i raggi
che il sole dimenticava andandosene
erano tutto un indaco-rosa-viola-blu.
Ma ora che è finito so che era una corrente
impetuosa, e ruggendo distruggeva tutto, tutto.
Nell’anima mia, mi resta soltanto un cespuglio
che oscilla e ondeggia nel vento come la chioma di una strega.
Sibila e bestemmia il vento come il braccio tremendo di una strega:
la memoria.
(Marzo 1918)
*
Ai poeti
Essenze di ogni bellezza popolare
violini dalle corde vibranti
lunghe, soffici, delicate armonie-
anche se sfiorati dalle ruvide dita del mondo,
anche se sfiorati dalle fredde dita del dolore-
pensate al giorno in cui, dormendo nelle vostre tombe,
sarete svegliati dal tuono delle vostre voci
e dal vento forte e gelido della vostra musica:
poiché nel suolo fertile degli anni
le vostre voci fioriranno mutando in tuono,
la vostra musica muterà in vento che monda e genera.
(Marzo 1918)
Emanuel Carnevali
BIOGRAFIA di Manuel Federico Carlo Carnevali nacque a Firenze il 4 dicembre 1897 in via Montebello 11, da Tullio Carnevali (Lugo di Romagna, 1869), ragioniere-capo di prefettura, e da Matilde Piano (Torino, 1873). Emanuel, Em o Manolo, come veniva alternativamente chiamato, venne al mondo dopo che i genitori si erano separati; dopo l’infanzia trascorsa tra Pistoia, Biella e Cossato e dopo la morte della madre (1908), venne messo in collegio dal padre che, risposatosi, volle che raggiungesse la nuova famiglia a Bologna. Nel 1911 Emanuel vinse una borsa di studio del Collegio Marco Foscarini di Venezia e vi trascorse quasi due anni, prima di esserne espulso. Nel 1913 fece il suo ingresso nell’Istituto Tecnico “Pier Crescenzi” di Bologna, dove fu allievo del critico letterario e narratore Adolfo Albertazzi. Questo rapporto col maestro, non del tutto pacifico, rappresenterà per Carnevali un’iniziale conferma della sua vocazione letteraria.
Come racconta lui stesso nel suo romanzo Il primo dio, scritto in inglese e tradotto in italiano dalla sorellastra Maria Pia (figlia di suo padre e della nuova moglie) per i continui litigi con il padre che lui considerava autoritario e troppo reazionario, decise di emigrare negli Stati Uniti nel 1914, a soli 16 anni. Emanuel partì da Genova sul Caserta il 17 marzo 1914 e arrivò a New York il 5 aprile.
Visse quindi fino al 1922 tra New York e Chicago, all’inizio senza conoscere una sola parola d’inglese ed esercitando lavori saltuari: lavapiatti, garzone di drogheria, cameriere, pulitore di pavimenti, spalatore di neve ecc., e soffrendo fame, abietta miseria e privazioni di ogni sorta. Col tempo imparò la lingua (leggendo le insegne commerciali di New York), cominciò a scrivere e ad inviare i suoi versi a tutte le riviste che conosceva. Inizialmente rifiutate, le sue poesie cominciarono man mano ad essere pubblicate ed Emanuel a farsi conoscere nell’ambiente letterario, diventando amico di diversi poeti, tra cui Max Eastman (1883-1969), Ezra Pound, Robert McAlmon (1896-1956), e William Carlos Williams (che lo nomina nella sua Autobiography del 1951).
Dimenticato dalla critica e dal pubblico, ha lasciato un piccolo, ma tagliente e forte segno nella letteratura americana del Novecento. Pur vivendo quasi in miseria, passando da un lavoro all’altro, e da un amore all’altro, frequentando prostitute e teppistelli, riuscì a partecipare, da straniero, al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana dell’epoca.
Sherwood Anderson si ispira a lui quando scrive il racconto Italian Poet in America (1941). Le sue poesie vengono pubblicate dalla rivista “Poetry Magazine”, fondata nel 1912 e diretta da Harriet Monroe (1860-1936) e di cui diventa lui stesso, per un breve periodo, vicedirettore.
Fu autore dei racconti Tales of an hurried man (1925), poi lasciò New York ed Emilia Valenza, la ragazza d’origine piemontese che aveva sposato nel 1917 e che viveva con lui nell’allora malfamato “East Side” di Manhattan, per andarsene a Chicago, dove visse ancora in stenti traducendo e collaborando a «Others».
Le sue lettere a Benedetto Croce e a Giovanni Papini verranno poi pubblicate col titolo Voglio disturbare l’America (1980), a cura di Gabriel Cacho Millet, il quale ha anche raccolto i Saggi e recensioni e il Diario bazzanese.
Colpito da una malattia nervosa, l’encefalite letargica, nel 1922 ritornò in Italia, dove visse gli ultimi vent’anni fra l’ospedale e varie pensioni di Bazzano, il Policlinico di Roma e la clinica bolognese Villa Baruzziana, e dove continuò a scrivere, come sempre, in lingua inglese.
Placca in memoria di Emanuel Carnevali nel Chiostro delle Madonne della Certosa di Bologna.
Morì l’11 gennaio 1942 nella Clinica Neurologica di Bologna, soffocato da un boccone di pane. Due giorni dopo venne sepolto a Bologna nel cimitero della Certosa.
Opera
Durante la sua vita è stata pubblicata solo la raccolta di racconti Tales of an Hurried Man nel Contact Editions di Robert McAlmon, Paris 1925, di cui è uscita solo nel 2005 una versione italiana col titolo Racconti di un uomo che ha fretta.
Il romanzo autobiografico Il primo dio è stato pubblicato postumo nel 1978, a cura di Maria Pia Carnevali e ha vinto il Premio Brancati.[1]
Riconoscimenti
A lui è dedicata la canzone Il Primo Dio[2] dei Massimo Volume (contenuta nel loro disco Lungo i bordi), ed una sua poesia (Almost a God) è stata musicata dalla band Movie Star Junkies.
Il Comune di Bazzano, la Fondazione Rocca dei Bentivoglio di Bazzano e l’Archivio storico comunale di Bazzano hanno pubblicato Sono un vagabondo e semino parole da un buco della tasca, a cura di Aurelia Casagrande, Bazzano: Quaderni della Rocca, 2008. Presso il Comune di Bazzano è conservato l’archivio delle carte dello scrittore Carnevali acquisite dalla famiglia da parte del Comune di Bazzano e ora conservate nell’archivio comunale.
Il gruppo musicale Acustimantico ha pubblicato un cd che si chiama “Santa Isabel” con la canzone Em, ovvero Emanuel Carnevali va in America (I Palombari, 2004).
Il cantautore Bobo Rondelli nell’album “Come i carnevali” (Picicca Dischi / The Cage marzo 2014) apre la raccolta con la canzone “Carnevali” che, nella terza di copertina, è spiegato essere “ispirata e dedicata a Emanuel Carnevali (Semino parole da un buco della tasca…)”
Tra le folle di migranti che agli inizi del secolo scorso sbarcarono a Ellis Island, si nascondeva un grande poeta proveniente dall’Emilia.
Emanuel Carnevali lascia Bologna e sbarca a New York il 5 aprile 1914 per sfuggire a un padre autoritario che “nasconde un cuore nero”. Cacciato dal collegio in cui studiava a Venezia e rimproverato dal genitore per le assenze dalla scuola di Bologna, “Manolo” arriva in America a soli 16 anni, come Rimbaud all’epoca delle prime fughe a Parigi. A New York il ragazzo di Bologna non conosce nessuno, se non il fratello che lo raggiunge due settimane dopo e con il quale litiga subito. Comincia un’esistenza di lavori saltuari e camere ammobiliate: fa il cameriere, il lavapiatti, il garzone di drogheria, lo spalatore di neve, e impara l’inglese in strada decifrando le insegne pubblicitarie. Nel 1917 legge avidamente i poeti francesi e scrive il suo primo verso in inglese: Love is a mine hidden in the mountain of our old age. Manda le sue prime poesie alle riviste, regolarmente rifiutate, e cambia lavoro in continuazione vivendo di espedienti. Fa amicizia con un francese, aspirante scrittore, Louis Grudin, che lo introduce alla letteratura americana e con il quale visita alcuni importanti scrittori americani come Max Eastman e Louis Untermeyer. A settembre The Seven Arts gli pubblica un paio di poesie.
Il mese dopo Carnevali conosce una sua vicina di camera, una piccola piemontese emigrata, e la sposa. Per la prima volta ha una casa, anche se nel malfamato East Side. Nel marzo 1918 la prestigiosa rivista Poetry diretta da Harriet Monroe lo premia per una serie di poesie, grazie alle quali entra in contatto con i grandi intellettuali del tempo: William Ca
rlos Williams, che gli dedica l’intero ultimo numero della rivista Others (luglio 1919), Ezra Pound, Edgar Lee Masters, Carl Sandburg, Sherwood Anderson.
Carnevali traduce in inglese Croce, Papini e i nuovi poeti italiani, pubblica un saggio su Rimbaud, collabora a riviste, ma rimane uno sradicato, un nomade braccato dalla vita, un poeta maledetto. Febbrile, selvatico, con una certa affinità di stile ed esistenziale con Dino Campana, tradisce la moglie con avventure occasionali, la abbandona a New York – e non la rivedrà mai più – per trasferirsi a Chicago, chiamato da Harriet Monroe come vicedirettore di Poetry. Fa q
ualche lavoretto per campare, senza mai riuscire a liberarsi della sua congenita instabilità. Si innamora di una ragazza ebrea, e quando questa nel febbraio 1920 lo lascia per trasferirsi a New York, anche lui abbandona il poco che aveva conquistato, come l’incarico alla rivista, e vaga di notte per le strade di Chicago facendosi mantenere dalle prostitute.
Cominciano le prime crisi di nervi. Ricoverato per sospetta sifilide nel reparto psicopatici del St. Luke’s Hospital, grazie all’aiuto di un gruppo di amici viene trasferito in una clinica privata. Dimesso, gli trovano un posto di giardiniere al Lincoln Park, che deve abbandonare per la sua debolezza. Chiede allora di essere mandato alle dune dell’Indiana: lì – scrive – “la solitudine era tutto ciò che possedevo”. Passata l’estate del 1920, torna a Chicago dove vive chiedendo l’elemosina. A Milwaukee, invitato per una lettura delle sue poesie, si ferma e va a dormire all’ospedale. Ricacciato a Chicago dalle autorità, trova altri effimeri lavori. Scrive a Williams: “Caro Bill, ora sono una miseria ambulante”. Nel giugno 1921 riparte per le dune del lago Michigan, dove si costruisce una capanna e vive quasi da selvaggio. Poi fa di nuovo rotta a Chicago, mendicante tra i mendicanti. Nel gennaio 1922 è ancora in ospedale: trema tutto, non riesce a fissare l’attenzione su niente. La diagnosi sarà terribile: encefalite letargica. L’ultimo suo lavoro è quello di trasportare sacchi di tappi di sughero da una parte all’altra di Chicago. Dopo, si abbandonerà completamente alla malattia.
A New York, Grudin lo aspetta al porto per salutarlo. Emanuel torna in Italia grazie al viaggio pagato dal padre: “piegato su se stesso, calmo, tremante, incapace di accendersi una sigaretta” – racconta l’amico. La sera dell’11 settembre 1922 è a Bologna. Il padre, commissario prefettizio a Bazzano, lo fa ricoverare all’ospedale di questa cittadina a 30 km da Bologna. Nel 1923 Em, come lo chiamavano in America, riceve in dono dai suoi amici d’Oltreoceano una macchina da scrivere, e l’anno seguente lo scrittore ed editore Robert McAlmon gli paga un anno di soggiorno a Villa Baruzziana a Bologna. Nel ’25 McAlmon, raccogliendo gli scritti di Carnevali sparsi per le riviste americane, pubblica A Hurried Man. Tra il ’26 e il ’36 Carnevali è sistemato in due pensioni di Bazzano (nel ’28 scrive A History, un diario bazzanese). Gli amici americani non lo dimenticano: in molti vengono a trovarlo a Bazzano, tra cui Ernest Walsh nel ’24, la Monroe nel ’29 e Pound, che nel ’36 gli porta in dono una radio. Ridotto in condizioni pietose da anni di malattia, Carnevali muore nella Clinica Neurologica di Bologna nel 1942, soffocato da un pezzo di pane. L’editore Adelphi nel 1978 fa uscire Il primo dio, che comprende l’omonimo romanzo autobiografico, una scelta di poesie, alcuni racconti, scritti critici e testimonianze. Quel che colpisce, è la ventata di novità, l’urgenza e la selvatichezza che Carnevali introduce nella poesia americana. Scrive in inglese, la lingua dell’esilio, spinto dall’entusiasmo barbarico di chi arriva dalla periferia. Lui, il “poeta delle camere ammobiliate”, è riconosciuto da Williams come “il poeta nero, l’uomo vuoto, la New York che non esiste”. Con la sua lingua raccolta per strada, costringe gli anziani poeti a liberarsi della tecnica, a uscire allo scoperto nella vita, come un topo che scivoli fuori dalle immondizie di New York. Disceso all’inferno, Em, il “miserabile ragazzo sperduto nel sudiciume” che ha scoperto la poesia nei retrocucina dei ristoranti (“Quante volte nelle strade di Manhattan / ho scagliato il mio odio!”), ne riemerge come lo sciamano che ha visto la morte e riconosciuto dio.
Se la malattia, il tremore incessante in tutto il corpo, non l’avesse messo fuori campo a soli 25 anni, costringendolo a giocare di rimessa con le parole e con le sue intemperanze, la Certosa di Bologna custodirebbe oggi i resti di uno dei più grandi scrittori del Novecento.
Silvia Montemurro- L’orchestra rubata di Hitler- Adriano Salani Editore-
Silvia Montemurro – L’orchestra rubata di Hitler
Descrizione del libro di Silvia Montemurro –L’orchestra rubata di Hitler-Due amiche divise dalla Storia, unite dalla musica.-Berlino, anni Trenta. A Elsa hanno sempre chiesto di obbedire, di fare prima la brava bambina, poi la perfetta moglie tedesca. Intorno a lei, molte donne hanno fatto lo stesso, pronte a servire il Reich accanto ai loro uomini invincibili. Ma l’equilibrio fragile sul quale è costruita la sua vita sta per spezzarsi: suo marito Heinrich, ufficiale delle SS, ha ricevuto un importante incarico segreto, e per la prima volta non è disposto a parlarne con lei. Per scoprire di cosa si tratta, una sera lo segue di nascosto, lo vede entrare in un appartamento, parlare con un superiore, infine trafugare la custodia di un violino. Non un violino qualunque: un Guarneri del Gesù, uno dei pochi esistenti, dal valore inestimabile. Ma Elsa vede anche un’altra cosa: la foto della ragazza che possedeva quello strumento, nei cui occhi riconosce una sofferenza comune. Decide così di cercarla, a qualunque costo, anche se questo significherà mettersi in grave pericolo e gridare la sua voglia di libertà in faccia all’uomo più pericoloso che il Novecento abbia conosciuto. Riportando alla luce uno dei crimini meno noti della storia nazista, Silvia Montemurro compone e dirige con maestria una travolgente opera a due voci, quelle di due donne divise dalla Storia e unite dalla musica.
Silvia Montemurro
Biografia di Silvia Montemurro ,ènata a Chiavenna la notte di San Lorenzo del 1987. Si è laureata nel 2011 con una tesi in Criminologia, riguardante l’assassinio di suor Maria Laura Mainetti. L’inferno avrà i tuoi occhi è il suo esordio, segnalato anche dal comitato di lettura del Premio Calvino 2012
Adriano Salani Editore, da 150 anni più felici con un libro
Fondata nel 1862 a Firenze, è tra le più antiche case editrici italiane tuttora in attività. Fa parte del Gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS), a partire dal 1986, anno del suo ingresso nell’allora Gruppo editoriale Longanesi e della sua rifondazione. Nel 1987 nasce della collana “Gl’istrici”, destinata a segnare l’immaginario di intere generazioni, con una scelta, negli anni, di autori di grandissimo livello internazionale. Qualità, creatività, innovazione, osservatorio privilegiato sul mondo giovanile e attenzione particolare all’originalità dello stile e alla freschezza della lingua diventano i punti di forza del catalogo. Non solo, ma proprio grazie alla ricerca di novità anche in generi sperimentali, la Salani diventa protagonista della rinascita del fantasy e della narrativa fantastica, lanciando in Italia la serie di Harry Potter di J.K. Rowling, fenomeno editoriale senza precedenti, e altri romanzi di altissima qualità di autori quali David Almond, Matteo Bussola, Andrea Camilleri, Gherardo Colombo, Roald Dahl, Roddy Doyle, Michael Ende, Giuseppe Festa, Jostein Gaarder, Silvana Gandolfi, Jean Giono, Elisabetta Gnone, Eva Ibbotson, Tove Jansson, Astrid Lindgren, A.A. Milne, Michela Murgia, Christine Nöstlinger, Uri Orlev, James Patterson, Daniel Pennac, Rosella Postorino, Philip Pullman, Luis Sepúlveda, Isaac B. Singer e Andrea Vitali. Da anni la Salani ha allargato la sua produzione verso i libri per adulti raccogliendo successi sia nella saggistica che nella narrativa internazionale e nella narrativa di genere. Di recente è stata creata la collana “Le Stanze”, uno spazio di ricerca di narrativa di qualità per adulti e di nuove voci.
Carissimo amico, io sono stata una di quelle senza capelli e senza nome, senza più forza per ricordare.
Io sono una di quelle che, attraverso i tuoi libri, ha scoperto anche se’ stessa.
Tu hai trovato le parole che cercavo: indicibile, vergogna, stupore. Tu senza odio hai fatto la cronaca anti retorica di Auschwitz.
Hai descritto quello che anch’io avevo visto, schiacciata dalla paura dalla fame e dalla solitudine.
Anni dopo una tua silenziosa lettrice, libro dopo libro. Baracche, kapò, torturatori, assassini, colori odori lingue sconosciute, fuoco e fumo nel vento di Auschwitz.
Siamo sommersi o siamo salvati? Nel numero tatuato c’è la nostra profonda identità.
Vittime?
Persone nuove, vive per caso e per questo gelose e incapaci (anche tu, anche tu) di dire l’indicibile.
Ti scrissi al tempo dell’uscita del tuo ultimo libro, ti chiesi perché io mi credevo salvata, almeno salva, se non per sempre, forse in parte.
Tu mi rispondesti che non c’era speranza per noi che avevamo visto IL MALE, che eravamo stati inghiottiti da quel male estremo.
Ma allora chi saranno i salvati? Tu avevi capito! A me sembra che resti soltanto la memoria. È vero, è sempre più difficile farsi capire dalle nuove generazioni, ma compito irrinunciabile finché avrà vita l’ultimo testimone.
Grazie amico, caro maestro! Anch’io con te non perdono e non dimentico.
La sua opera più famosa, di genere memorialistico, è Se questo è un uomo, in cui racconta le sue esperienze nel campo di concentramento nazista; il libro è considerato un classico della letteratura mondiale. Laureato in chimica, in molte sue opere appaiono riferimenti diretti e indiretti a questa branca della scienza.[4]
Primo Levi nacque a Torino – in un appartamento di Corso re Umberto 75 dove abiterà per tutta la vita[5] – il 31 luglio 1919, figlio primogenito di Cesare Levi (1878-1942) ed Ester Luzzati (1895-1991),[6] sposatisi nel 1917 e appartenenti a famiglie di origini ebraiche. I suoi antenati erano ebrei piemontesi provenienti dalla Spagna e dalla Provenza;[7] il nonno paterno era un ingegnere civile, il nonno materno un mercante di stoffe. Il padre Cesare, ebreo praticante,[8] laureato in ingegneria elettrotecnica (nel 1901) e dipendente della società Ganz, era spesso lontano dalla famiglia per ragioni di lavoro, principalmente all’estero (in particolare in Ungheria). Nondimeno esercitò sul figlio una profonda influenza, trasmettendogli gli interessi per la scienza e la letteratura (Levi raccontò che il padre gli aveva comprato un microscopio e regalato molti libri) che diverranno tratti salienti della personalità di Primo Levi, nonché elementi della sua futura produzione letteraria. Nel 1921 nacque la sorella Anna Maria, cui Levi restò molto legato per tutta la vita.[9]
Dopo le scuole elementari ricevette lezioni private per un anno; era di salute cagionevole. Nel 1930 s’iscrisse al Ginnasio D’Azeglio di Torino e successivamente, tra il 1934 e il 1935, frequentò il liceo, noto per aver annoverato negli anni precedenti tra i propri insegnanti e studenti diverse figure distintesi per la loro opposizione al regime fascista, tra cui Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Norberto Bobbio, Zino Zini e Massimo Mila. Levi era uno studente con un buon rendimento, timido e diligente, molto interessato a biologia e chimica, meno a storia e italiano; manifestò insofferenza per l’astratto sapere letterario che gli veniva insegnato. Strinse amicizia con alcuni compagni di corso (in particolare con Mario Piacenza) accomunati dall’interesse per la chimica; con altri compagni invece fondò una sorta di gruppo sportivo-fan club intitolato al corridore Luigi Beccali.[10]
Negli anni del Ginnasio fu compagno di Fernanda Pivano; nel Liceo frequentò il Corso B, solo maschile, a differenza di Fernanda Pivano che, nel corso A, ebbe come supplente di lingua italiana in Ia Liceo, Cesare Pavese;[11] Levi fu allievo di Azelia Arici, con cui rimase in contatto nel corso della sua vita e cui dedicò un necrologio pubblicato sul quotidiano La Stampa.[12] Nel corso del liceo nacque il suo amore per la montagna. Nel 1936-1937 fu uno dei redattori del numero unico del D’Azeglio sotto spirito, rivista della scuola, su cui pubblicò la sua prima poesia Voi non sapete studiare, in cui racconta le sue disavventure nel tentativo di raccogliere un erbario su indicazione della professoressa di scienze.[13] In quel periodo maturerà in Levi l’intenzione d’intraprendere una carriera nella chimica, annunciando la propria decisione in tal senso al padre nel giorno del suo sedicesimo compleanno, il 31 luglio 1935.[10]
Nel 1937, dopo essere stato rimandato in italiano a giugno, si diplomò al Liceo classico Massimo d’Azeglio, superando l’esame di maturità a settembre,[14][15] e si iscrisse al corso di laurea in chimica presso l’Università di Torino. Il padre di Primo si era iscritto di malavoglia al partito fascista. Nel novembre del 1938, entrarono in vigore in Italia le leggi razziali dopo quelle in Germania, dove già l’antisemitismo si era manifestato attraverso atti di violenza e sopraffazione. Tali leggi avevano introdotto gravi discriminazioni ai danni dei cittadini italiani che il regime fascista considerava “di razza ebraica”. Le leggi razziali ebbero un determinante influsso indiretto sul suo percorso universitario e intellettuale.
«Nella mia famiglia si accettava, con qualche insofferenza, il fascismo. Mio padre […] si era iscritto al partito di malavoglia, ma si era pur messo la camicia nera. Ed io fui balilla e poi avanguardista. Potrei dire che le leggi razziali restituirono a me, come ad altri, il libero arbitrio.[16]»
Le leggi razziali precludevano l’accesso allo studio universitario agli ebrei, ma concedevano di terminare gli studi a coloro che li avessero già intrapresi. Negli anni dell’università frequentò circoli di studenti antifascisti; leggeva Darwin, Mann, Tolstoj. Pur in regola con gli esami, a causa delle leggi razziali ebbe difficoltà a trovare un relatore per la sua tesi, finché nel 1941 si laureò con lode, con una tesi compilativa in chimica (L’inversione di Walden, relatore il professore Giacomo Ponzio[17])[18]: in realtà discusse una tesi e due sottotesi, una delle quali, in fisica sperimentale, avrebbe dovuto essere la tesi principale se agli ebrei non fosse stato impedito di svolgere ricerca in laboratorio. Il diploma di laurea riporta la precisazione «di razza ebraica».
In quel periodo suo padre si ammalò di tumore. Le conseguenti difficoltà economiche resero affannosa la ricerca di un impiego. Levi fu assunto in maniera semi-illegale da un’impresa (non appariva ufficialmente nei libri paga, pur lavorando in un laboratorio), con il compito di trovare un metodo economicamente conveniente per estrarre le tracce di nichel contenute nel materiale di scarto di una cava d’amianto presso Lanzo (l’Amiantifera di Balangero, anche se Levi, nel suo racconto Nichel, non la nomina mai). A questo periodo si fanno con probabilità risalire i primi esperimenti letterari come la poesia “Crescenzago” o il progetto di un racconto di montagna. Nel 1942, si trasferì a Milano, avendo trovato un impiego migliore presso la sede milanese, situata in via Meucci a Crescenzago, della Wander AG, una società svizzera produttrice di alimenti speciali e prodotti farmaceutici, dov’era incaricato di studiare alcuni farmaci contro il diabete. Qui Levi, assieme ad alcuni amici, venne in contatto con ambienti antifascisti militanti ed entrò nel Partito d’Azione clandestino.
La Resistenza e il campo di concentramento di Auschwitz
«Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di quello che eravamo, rimanga.»
Dopo l’8 settembre 1943 si rifugiò in montagna, unendosi a un nucleo partigiano operante in Valle d’Aosta. Il periodo di militanza fra i partigiani del Col de Joux è stato quello che Levi stesso ha giudicato un’esperienza di giovani ben intenzionati, ma sprovveduti, privi di armi e di solidi contatti, come Levi afferma in una lettera a Paolo Momigliano Levi.[19] La sua esperienza partigiana è stata oggetto di due saggi usciti a pochi mesi di distanza nel 2013 e di una dura polemica giornalistica.[n 2] Poco dopo, all’alba del 13 dicembre 1943, venne arrestato insieme a due compagni dalla milizia fascista nel villaggio di Amay, sul versante verso Saint-Vincent del Col de Joux (tra Saint-Vincent e Brusson). Interrogato, preferì dichiararsi ebreo piuttosto che partigiano e per questo fu trasferito nel campo di Fossoli,[20] presso Carpi, in provincia di Modena.
Il 22 febbraio 1944 Levi e altri 650 ebrei, donne e uomini, furono stipati su un treno merci. Nel suo vagone, racconterà, c’erano 45 persone, tra cui una madre con un neonato; viaggiarono per 5 giorni e arrivarono nella notte al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato (con il numero 174517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945.
Levi attribuì la propria sopravvivenza a una serie di incontri e coincidenze fortunate. Innanzitutto, leggendo pubblicazioni scientifiche durante i suoi studi, aveva appreso un tedesco elementare, e riusciva quindi a comprendere gli ordini impartitigli; di grande importanza fu parimenti l’incontro con Lorenzo Perrone, un civile occupato come muratore, il quale, esponendosi a un grande rischio personale, gli fece avere regolarmente del cibo. In un secondo momento, verso la fine del 1944, fu esaminato da una commissione di selezione, incaricata di reclutare chimici per la Buna, una fabbrica per la produzione di gomma sintetica di proprietà del colosso chimico tedesco IG Farben.
Insieme ad altri due prigionieri (entrambi poi deceduti durante la marcia di evacuazione) ottenne, superato l’esame, un posto presso il laboratorio della Buna, dove svolse mansioni meno faticose ed ebbe la possibilità di contrabbandare materiale con il quale effettuare transazioni per ottenere cibo. Nel far ciò, si avvalse della collaborazione di un altro prigioniero al quale fu molto legato, Alberto Dalla Volta, anch’egli italiano. Infine, nel gennaio del 1945, immediatamente prima della liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, si ammalò di scarlattina e venne ricoverato nel Ka-be (dal tedesco Krankenbau, in italiano “infermeria del campo”); i tedeschi evacuarono il campo e abbandonarono i malati, così Levi scampò fortunosamente alla marcia di evacuazione da Auschwitz, nella quale sarebbe morto Alberto. Fu uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo.
Il viaggio di ritorno in Italia, narrato nel libro di memorie La tregua, sarà lungo e travagliato. Levi fece l’infermiere per qualche mese a Katowice, in un campo sovietico di transito; a giugno iniziò il viaggio di rimpatrio, che si protrasse fino a ottobre: percorse un itinerario che dalla Russia Bianca lo condusse in patria attraverso Ucraina, Romania, Ungheria, Austria e Germania.[21]
Il ritorno e la carriera da scrittore
Giunto a Torino, si riprese dal punto di vista fisico e riallacciò i contatti con i familiari e gli amici superstiti della Shoah; trovò lavoro nella fabbrica di vernici Duco-Montecatini ad Avigliana, vicino a Torino, da cui si dimise nel 1947.
L’esperienza nel campo di concentramento lo aveva segnato profondamente: l’incubo vissuto nel lager lo spinse subito a scrivere un testo che fosse testimonianza della sua esperienza ad Auschwitz e che verrà intitolato Se questo è un uomo. Cinque capitoli dell’opera erano già stati pubblicati tra il 29 marzo e il 31 maggio 1947 ne L’amico del popolo, organo della Federazione comunista vercellese e in seguito rivisti. La pubblicazione dell’opera su questo periodico si deve all’interessamento di Silvio Ortona, amico dell’autore. Nel 1945 fu poi aggiunta la poesia Buna Lager, sempre pubblicata sul giornale. In seguito conobbe Lucia Morpurgo (1920-2009) che diventò sua moglie a settembre 1947: questo incontro, insieme al lavoro di chimico, gli permise di superare il momento più doloroso del ritorno e di dedicarsi alla stesura di Se questo è un uomo. Ne Il Sistema periodico Primo Levi definisce il suo scrivere “un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché”.[22] Nel 1947 terminò il manoscritto, ma molti editori, tra cui Einaudi, lo rifiutarono; la scelta editoriale di non accettare il testo per la pubblicazione presso Einaudi venne presa da Natalia Ginzburg, all’epoca consulente della casa editrice torinese.[23] Fu pubblicato da un piccolo editore, De Silva, a cura di Franco Antonicelli. Nonostante la buona accoglienza della critica, inclusa una recensione favorevole di Italo Calvino su l’Unità, incontrò uno scarso successo di vendita. Delle 2500 copie stampate ne furono vendute solo 1500, soprattutto a Torino.
L’opera di Levi fu uno dei primissimi memoriali di deportati ebrei nei campi di sterminio nazisti. Sette furono i deportati ebrei autori di racconti autobiografici pubblicati in Italia nei primi anni del dopoguerra: Lazzaro Levi alla fine del 1945, Giuliana Fiorentino Tedeschi, Alba Valech Capozzi, Frida Misul e Luciana Nissim Momigliano nel 1946, e infine nel 1947 Primo Levi e Liana Millu. A essi vanno aggiunti Luigi Ferri, la cui deposizione (in tedesco) è resa nell’aprile 1945 di fronte a uno dei primi tribunali chiamati a giudicare sui crimini nazisti; Sofia Schafranov, la cui testimonianza è raccolta nel 1945 in un libro-intervista di Alberto Cavaliere, e Bruno Piazza, il cui memoriale, scritto negli stessi anni, sarà però pubblicato solo nel 1956.[24] Prima di Se questo è un uomo, Levi aveva scritto con il dottor Leonardo De Benedetti,[25][26] su richiesta delle autorità russe, Rapporto su Auschwitz, il primo saggio che descriveva le condizioni sanitarie nei campi di concentramento. Levi abbandonò quindi il mondo della letteratura e si dedicò alla professione di chimico. Dopo una breve esperienza come lavoratore autonomo con un amico, trovò impiego presso la Siva, una ditta di produzione di vernici di Settimo Torinese, di cui, in seguito, assunse la direzione fino al pensionamento. Nel 1948 nacque sua figlia Lisa Lorenza, nel 1957 il figlio Renzo.
Nel 1955, una mostra sulla deportazione a Torino incontrò uno straordinario riscontro di pubblico: Levi si rese conto del grande interesse per la Shoah, soprattutto tra i giovani. Partecipò a numerosi incontri pubblici (soprattutto nelle scuole). Aveva intanto riproposto nel 1955 Se questo è un uomo a Einaudi, che decise di pubblicarlo nel giugno 1958: questa nuova edizione, con modifiche e aggiunte, in particolare la parte introduttiva dove Levi racconta il suo arresto, incontrò un successo immediato. Dal 1959 collaborò alle traduzioni delle sue opere in inglese e in tedesco: quest’ultima traduzione era particolarmente significativa per Levi (uno degli obiettivi che si era proposto scrivendo il suo romanzo era far comprendere al popolo tedesco che cosa era stato fatto in suo nome e di fargliene accettare una responsabilità almeno parziale). Incoraggiato dal successo internazionale, nel 1962, quattordici anni dopo la stesura di Se questo è un uomo, incominciò a lavorare a una nuova opera sul viaggio di ritorno da Auschwitz: quest’opera fu intitolata La tregua, scritta metodicamente (a differenza di Se questo è un uomo) e vinse la prima edizione del Premio Campiello (1963);[27] incontrò un buon successo tra la critica. Nella sua produzione letteraria successiva, prendendo spunto dalle proprie esperienze come chimico, l’osservazione della natura e l’impatto della scienza e della tecnica sulla quotidianità diventarono lo spunto per originali situazioni narrate in racconti pubblicati su Il Giorno.
In questo periodo, la sua vita è nettamente divisa in tre impegni: la fabbrica, la famiglia, la scrittura. Compì numerosi viaggi di lavoro in Germania e Inghilterra. Nel 1965 tornò ad Auschwitz per una cerimonia commemorativa.
Anni settanta e ottanta
Fece molti viaggi di lavoro in Unione Sovietica; nel 1975 decise di andare in pensione (abbandonando la direzione della fabbrica, ma restandone consulente per due anni) e di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e agli incontri nelle scuole. Nello stesso anno uscì la raccolta di racconti Il sistema periodico, in cui episodi autobiografici e racconti di fantasia vengono associati ciascuno a un elemento chimico. L’opera gli valse il Premio Prato per la Resistenza. Il 19 ottobre 2006 la Royal Institution del Regno Unito scelse quest’opera come il miglior libro di scienza mai scritto.[28]
Nel 1978 pubblicò La chiave a stella. Questa raccolta di racconti il cui protagonista è il medesimo personaggio, Libertino Faussone, rappresenta un omaggio al lavoro creativo e in particolare a quel gran numero di tecnici italiani che hanno lavorato in giro per il mondo a seguito dei grandi progetti di ingegneria civile portati avanti dall’industria italiana dell’epoca (anni sessanta e anni settanta). Nel luglio del 1979La chiave a stella vinse il premio Strega.[29] Claude Lévi-Strauss elogiò il romanzo.
Nel 1982 tornò al tema della seconda guerra mondiale, raccontando in Se non ora, quando?, le avventure picaresche di un gruppo di partigiani ebrei di origini polacche e russe che tendono imboscate ai tedeschi sul fronte orientale e giungono ad attraversare i territori del Reich sconfitto, sino a Milano, da dove alcuni prenderanno la via della Palestina per partecipare alla costruzione dello Stato di Israele. Il libro vinse nel 1982 il Premio Campiello e il Premio Viareggio.[30]
Tornò per la seconda volta ad Auschwitz, provando grande emozione. Prese posizione, con un articolo su La Repubblica, contro Israele,[31] che aveva invaso il Libano. Intraprese la traduzione de Il processo, su invito di Giulio Einaudi, e poi di due opere di Lévi-Strauss.
Nella raccolta di saggi I sommersi e i salvati (1986), prendendo spunto dai molti dialoghi con i giovani, in incontri pubblici e scambi epistolari, tornò per l’ultima volta sul tema dell’Olocausto, cercando di analizzare con distacco la sua esperienza, chiedendosi perché le persone si siano comportate in quel modo ad Auschwitz e perché alcuni siano sopravvissuti e altri no. In particolare estese la sua analisi alla “zona grigia”, come egli la definì, rappresentata da tutti coloro che a vario titolo e con varie mansioni avevano partecipato al progetto concentrazionario nazista.
«È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana […].[32]»
La morte
Primo Levi venne trovato morto l’11 aprile 1987 nell’atrio del palazzo di corso Re Umberto 75 a Torino, dove viveva. Il corpo fu rinvenuto alla base della tromba delle scale dello stabile, a seguito di una caduta. Benché l’ipotesi di gran lunga più accreditata sia quella del suicidio,[33][34][35][36] alcuni sostennero che la caduta potesse essere stata provocata dalle forti vertigini di cui Levi soffriva.[34][37]
Levi ebbe una molteplicità di interessi, perlopiù riconducibili alle aree della scienza e della letteratura, come si può constatare da L’altrui mestiere. La sua cultura scientifica si estendeva anche alla biologia: era attirato in particolare dall’etologia, e dedicò molti racconti[39] e articoli a vari animali; seguiva con passione la fisica e commentò molti degli avvenimenti scientifici del suo tempo, come l’allunaggio e il disastro di Chernobyl, si espresse sulla minaccia nucleare, e dialogò pressoché da pari a pari con il noto fisico Regge; alla chimica dedicò un’attenzione divulgativa particolare, con numerosi riferimenti alla sua esperienza lavorativa e alla vita comune. Si confrontò anche con i primi computer, imparando a usarli come editor di testo. Mostrò nei suoi scritti una cultura scientifica particolarmente profonda, che aveva contaminato anche il suo lessico e stile letterario, in cui si individuano frequenti riferimenti ad aspetti scientifici e uso comune di terminologia scientifica (come limite superiore); si focalizzò sul tentativo (ad esempio ne La chiave a stella) di rinobilitare la materia, il lavoro manuale e l’uso dei sensi, contrapposti all’erudizione astratta. Tale concretezza, aderenza alla realtà e sobrietà si riflettono nella sua attività di scrittura, che considera procedere su una linea di continuità rispetto al lavoro di chimico.
«Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più l’itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro.»
La sua opera è pertanto considerata un anello di giunzione tra cultura scientifica e cultura umanistica, la separazione tra le quali risultava assurda a Levi.[40] Egli coltivò infatti una passione amatoriale per la linguistica, mentre si cimentò professionalmente nella traduzione dal tedesco e dal francese per Einaudi. Leggeva libri classici, di scienza e di fantascienza (Darwin, Huxley, Mann, Sterne, Tolstoj, Werfel).
Levi non era religioso: «La mia è la vita di un uomo che è vissuto, e vive, senza Dio, nell’indifferenza di Dio»,[8] affermò, intervistato da Giuseppe Grieco, contrapponendosi al credente Elie Wiesel; «io, il non credente, e ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz»,[41] anche se dichiarò di provare invidia per i credenti. Dopo la terribile esperienza del lager radicalizzò il suo ateismo: «C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo»:[42] parlò di vicinanza alla posizione materialistica di Leopardi, anche in conseguenza della propria adesione alla scienza. Pur non essendo religioso, fu interessato alla cultura e alla tradizione ebraica: accettava la propria identità ebraica, ma non la fede.
Stile letterario
Lo stile letterario di Primo Levi, in Se questo è un uomo, si sviluppa in una narrazione asciutta e priva di retorica, sintetica ed esauriente quanto basta per comprendere i sentimenti e lo sfondo sociale dell’ambientazione dell’opera: stile che ben si adatta al vasto pubblico a cui Levi intende rivolgersi, in special modo nella trattazione di un argomento di estrema importanza, come quello della prigionia in un lager. Tuttavia l’opera è nutrita di una profonda conoscenza dei classici, appresa sia in Liceo sia grazie a moltissime letture personali.
Esistono differenze significative tra le varie opere, soprattutto rispetto a Se questo è un uomo. L’opera prima fu infatti composta sotto lo stimolo di testimoniare quanto vissuto, il cui ricordo era ancora molto recente all’epoca dei fatti; per le opere successive, a partire da La tregua, Levi compone i propri libri in modo molto più sistematico, dandosi precise scadenze e scrivendo regolarmente in orari prestabiliti.
Opera omnia
Opere. Volume I: Se questo è un uomo. La tregua. Il sistema periodico. I sommersi e i salvati, Collana Biblioteca dell’Orsa n. 4, Torino, Einaudi, 1987, pp. LXVII-827, ISBN978-88-06-59920-1.
Opere. Volume II: Romanzi e poesie, Collana Biblioteca dell’Orsa n. 6, Torino, Einaudi, 1988, ISBN978-88-06-59973-7.
Opere. Volume III: Racconti e saggi, Collana Biblioteca dell’Orsa n. 8, Torino, Einaudi, 1990, ISBN978-88-06-11752-8.
Opere, a cura di Marco Belpoliti, Edizione speciale per la Biblioteca di Repubblica-L’Espresso, Roma, 2009.
Opere. Volume 1: Se questo è un uomo, La tregua, Storie naturali
Opere. Volume 2: Vizio di forma, Il sistema periodico, La chiave a stella, Pagine sparse 1946- 1980
Opere. Volume 3: Lilìt e altri racconti, Se non ora, quando?, Ad ora incerta, Altre poesie, L’altrui mestiere
Opere. Volume 4: Racconti e saggi, I sommersi e i salvati, Pagine sparse (1981-1987), La ricerca delle radici
Opere complete I-II, a cura di Marco Belpoliti, Introduzione di Daniele Del Giudice, redazione di Ernesto Franco, Torino, Einaudi, 2016, ISBN978-88-06-20772-4.
Opere complete III: Conversazioni, interviste, dichiarazioni, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2018, ISBN978-88-062-3597-0.
Vincent Peters’- Selected Works: -The Collector’s Edition
Editore Te Neues Pub Group
Descrizione del libro di Vincent Peters’ photographs have left the fast-moving trends of fashion photography behind and become timeless works of art. Born in Bremen in 1969, Peters has been one of the most sought-after fashion and portrait photographers for over 25 years. With his signature black-and-white photography and exquisite lighting, his portraits look like snapshots from classic movies. Supermodels, stars, and legends have all stood before his camera ― from Penélope Cruz and Rosamund Pike to Mickey Rourke and Matt Dillon. This new Collector’s Edition with luxurious linen finish expands on Peters’ bestselling book with 30 new images, all personally selected by Peters.A collection of astonishing portraits, in which the intimate urgency of the moment creates a timeless image.
La biografia di Vincent Peters
Vincent Peters nasce nel 1969 a Brema, in Germania, da una famiglia che fin da piccolo lo porta a sviluppare una grande creatività. Entrambi i genitori sono insegnanti d’arte e la madre, collaborando con la sorella, è impegnata anche nella pittura. Sprovvisto di grande talento nel disegno, il ragazzo preferirà ritrarre la realtà attraverso la luce e un obiettivo. Il primo incontro con la macchina fotografica avverrà infatti durante gli anni Ottanta.
Il percorso che lo porta dall’adolescenza alla vita adulta non è tuttavia facile. Cacciato da diverse scuole per un’indole ribelle e poco propensa al rispetto passivo delle regole, Peters fa il suo esordio nel mondo dei grandi lavorando nelle principali catene di fast food. A seguito di un viaggio in Thailandia con una Mamiya RZ Medium Format sempre al collo, però, alcuni dei suoi scatti vengono pubblicati sulla rivista GEO Magazine, lasciando intravedere una piccola parte del suo futuro. Raggiunta la maggiore età, Vincent viene convinto dalla madre ad abbandonare il Paese per dirigersi a New York. Gli Stati Uniti si rivelano tuttavia una Nazione poco incline ad accoglierlo e, complici le ristrettezze economiche, pochi mesi più tardi il fotografo decide di trasferirsi a Parigi, dove espone i suoi lavori in alcune gallerie senza mai riscuotere particolare successo. Grazie al consiglio di un amico, però, riuscirà ben presto a incanalare la sua personalità artistica nel giusto settore. I lavori più importanti del fotografo
Nella Ville Lumière Vincent Peters si approccia alle agenzie di moda che permettono ai suoi scatti di circolare su numerose riviste di settore. Durante un nuovo viaggio a New York, inoltre, il ragazzo incontra Giovanni Testino, fratello di Mario, che grazie alle sue conoscenze riuscirà a procurargli i primi ingaggi importanti. Peters inizia così a essere richiesto da tutte le principali maison del mondo, da Armani a Bottega Veneta passando per Miu Miu, Prada, Lancôme, Hermès e Louis Vuitton. Il suo campo di specializzazione diventerà però il ritratto delle celebrità che, davanti al suo obiettivo, riusciranno a mettersi a nudo di fronte al pubblico, mostrando fragilità spesso nascoste dalle pagine patinate dei magazine. Tra il 2001 e il 2021 Vincent Peters riesce a immortalare praticamente chiunque. Le sue fotografie mostrano infatti attori come Christian Bale, Emma Watson, Penelope Cruz e Laetitia Casta, i cui tratti vengono esaltati da una luce impeccabile e dall’inconfondibile bianco e nero.
Vincent Peters’
Jared Paul Stern, Maxim: “This elegant approach to his chosen medium is evident in an alluring new book from German luxury publisher teNeues, Vincent Peters: Selected Works”
Vincent Peters’
Square Mile: “With his signature black-and-white photography and exquisite lighting, his portraits look like snapshots from classic movies.”
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Vincent Peters: biografia
Nato in Germania nel 1969, Vincent Peters è un fotografo e filmmaker. Proviene da una famiglia per la quale la creatività riveste una certa importanza, i genitori sono insegnanti d’arte, la madre disegna, la figlia pure, Vincent no, perché non ne è capace. Si accontenta di pigiare il tasto sulla macchina fotografica.
L’infanzia è stata turbolenta ed è stato cacciato da diverse scuole. Il mondo del lavoro lo vede inizialmente impiegato presso Sturbucks a servire caffè e da McDonald. La passione fotografica inizia negli anni ’80, durante un viaggio in Thailandia, con appesa al collo l’analogica Mamiya RZ medium format, macchina che usa tuttora. Gli scatti tailandesi verranno in seguito pubblicati su GEO Magazine.
A 18 anni non aveva la più pallida idea di come sarebbe stato il suo futuro. La madre gli consiglia di lasciare il paese, suggerimento che Vincent accoglie nel 1989. Parte per New York e cerca impiego come assistente. Non è facile. I guadagni sono pochi, avere soldi per un caffè è un evento raro. Torna quindi in Europa, a Parigi, nel tentativo di intraprendere un fruttuoso percorso artistico. Espone in diverse gallerie, ma i soldi necessari per vivere tardano ad arrivare. Seguendo il consiglio di un compagno, porta alcune foto in un’agenzia di moda, perché, gli dice l’amico, sono quattrini facili. Iniziano così a giungere apprezzamenti.
Il punto di svolta avviene più tardi, di nuovo a New York, per un fortuito caso di eventi che il fotografo ama raccontare nelle interviste. Per pura causalità è stato notato da Giovanni Testino, fratello del celebre fotografo Mario Testino, e presto Vincent si trova catapultato nel mondo della fashion photography, firmando campagne pubblicitarie per Miu Miu e Prada.
Sono molte le star del cinema e della musica che da allora a oggi si sono fatte ritrarre e molte le riviste con le quali ha collaborato, per citarne alcune: Vogue francese, italiano, inglese, tedesco, giapponese e spagnolo, Numero, Arena, GQ, Dazed & Confused, Ten and The Face.
Una curiosità su Peters? Il suo bianco e nero è inconfondibile!
Ilse Koch -Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch -la “cagna di Buchenwald”-la “donnaccia di Buchenwald” Articolo di Fabio Casalini
Il 15/01/1951 veniva condannata all’ergastolo Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald”, la “donnaccia di Buchenwald”. Uno dei peggiori esseri umani che mai abbia calpestato il suolo terrestre.
La Koch era già stata processata e condannata all’ergastolo nel 1947, pena poi commutata in 4 anni “perché non erano state fornite prove evidenti”.
Fu rilasciata però nel 1949 dal Generale Lucius Clay, comandante statunitense della zona tedesca, ma venne subito arrestata e processata dalla corte tedesca, viste le proteste che si erano scatenate per la sua liberazione.
Chi era questo essere immondo?
La sua crudeltà iniziò nel 1936, quando diventò sorvegliante presso il campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui conobbe e sposò il comandante Karl Otto Koch. Nel 1937 arrivò al campo di concentramento di Buchenwald, come moglie del comandante: influenzata dal potere e dalla posizione del marito, iniziò a torturare gli internati.
Nel processo a suo carico venne riferito che la Koch fosse solita annotarsi i numeri dei prigionieri che avevano tatuaggi particolarmente originali, che li facesse uccidere e utilizzasse la loro pelle per realizzare paralumi, copertine di libri, album di foto e guanti.
l’ex internato Herbert Froeboeß testimoniò che: “Nell’estate del 1940 stavamo lavorando nello stadio delle SS. Era una giornata calda, e abbiamo lavorato con la parte superiore del corpo esposta. Avevamo un giovane francese o belga che lavorava per noi, di nome Jean Collinette. Era conosciuto in tutto il campo per i suoi tatuaggi. Particolarmente vistosi erano un serpente cobra colorato arrotolato intorno al suo braccio sinistro fino in cima, e un veliero a quattro alberi particolarmente ben tatuato sul petto. Ilse Koch passò a cavallo, tenne il suo cavallo davanti a Jean, guardò i tatuaggi e scrisse il suo numero. Quella sera Jean fu chiamato al cancello e non lo vedemmo più. Sei mesi dopo,nel dipartimento di patologia del campo, ho riconosciuto un pezzo di pelle con il veliero di Jean. Più tardi ho visto la stessa nave in un album di foto dei Koch“.
Karl Otto Koch nello stesso anno, 1937, fu nominato comandante del campo di concentramento di Majdanek.
Il tenore di vita dei coniugi Koch mutò radicalmente dal loro arrivo a Buchenwald. L’espropriazione di quelli che erano stati i beni dei prigionieri del campo e il loro sfruttamento come schiavi fecero sì che la coppia si arricchisse in modo spropositato.
Tale comportamento non passò inosservato, sia a livello locale che nazionale.
L’operato di Koch a Buchenwald in qualità di comandante del campo destò l’attenzione dell’Obergruppenführer Josias di Waldeck e Pyrmont, nel 1941. Scorrendo la lista dei morti di Buchenwald, Josias aveva fatto una croce accanto al nome del dottor Walter Krämer, del quale si ricordava poiché era stato suo paziente in passato. Josias investigò il caso e scoprì come Koch avesse ordinato l’uccisione di Krämer e Karl Peixof, altro aiutante all’ospedale del campo, come “prigionieri politici”, perché lo avevano curato dalla sifilide ed egli temeva che potessero diffondere la voce
Nel 1943 furono arrestati entrambi dalla Gestapo per malversazione e altri crimini.
Nel 1945 suo marito fu condannato a morte dalla corte SS a Monaco di Baviera e giustiziato in aprile.
Ilse fu rilasciata e andò a stabilirsi con la propria famiglia a Ludwigsburg. Fu nuovamente arrestata dalle autorità statunitensi il 30 giugno 1945.
Si impiccherà nella sua cella in Baviera nel 1967.
Troppo tardi.
Articolo di Fabio Casalini
Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Appendice e nota di redazione
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Lo scenario della II Guerra Mondiale è sicuramente uno dei più sanguinosi e violenti che l’umanità ancora oggi ricordi. Tutti conoscono Hitler e l’olocausto e purtroppo tutti conosciamo gli orrori che si consumarono in quegli anni. Stasera, nella FASCIA DARK, parliamo però nello specifico di un caso in cui il nazismo incontrò il sadismo. Stasera parliamo di Ilse Koch, la “strega di Buchenwald”, “cagna di Buchenwald”, “donnaccia di Buchenwald” o “iena di Buchenwald”. Graziosa e gentile, viene scelta come moglie per Karl Otto Koch, con il fine di formare la coppia modello del regime nazista, quella a cui tutti i tedeschi dovrebbero aspirare. Niente fa presupporre la sua natura sadica e violenta. Tutto ha inizio nel 1937 quando suo marito viene nominato comandante del campo di concentramento di Buchenwald. Ilse viene influenzata dal potere e dalla posizione del marito conducendo una vita agiata, circondata da lusso e privilegi e godendo della sofferenza altrui finché non inzia a torturare lei stessa gli internati.
Agli inizi si concede dei piccoli vezzi, come farsi chiamare dai prigionieri con titoli nobiliari, ma poi, accortasi del piacere che le procura ammirare i flagelli e le piaghe degli “elementi antisociali” si spinge ben oltre, frustando i detenuti che incrociano il suo cammino o aizzando il suo cane contro le donne incinte.
Il marito non è da meno, è solito torturare i prigionieri con un frustino modificato con lame di rasoio, approva l’uso degli schiaccia pollici e dei ferri per marchiare, ma più di tutto ama l’uso degli animali. Tra le numerose perversioni di Ilse, pare ci sia una vera e propria ossessione per il corpo umano che la porta ad organizzare orge saffiche con le mogli degli ufficiali per poi passare agli altri componenti delle SS. Si dice che scateni la sua fame sessuale anche all’interno del campo, costringendo gli internati ad eseguire qualsiasi sua richiesta a sfondo sessuale e girando in topless all’arrivo di ogni nuovo convoglio di prigionieri, massacrando chiunque si giri a guardarla. Queste potrebbero essere solo dicerie è vero, ma è nella dimora dei coniugi Koch che si nascondono le prove dei loro orrori: casa Koch è infatti decorata con paralumi di pelle umana, quadri con lembi di pelle tatuata e tsantsa (teste rimpicciolite), tutto ovviamente preso dagli internati del campo. È troppo anche per la Gestapo che nel 1943 arresta i coniugi Koch per malversazione, eccessiva brutalità, infamia e corruzione. Ilse viene imprigionata nel 1944 l’anno dopo il marito viene condannato a morte e giustiziato. Un tribunale delle SS che arresta due aguzzini può sembrare un paradosso che però aiuta a comprendere il livello di follia omicida che avevano raggiunto Ilse e Otto Koch.
Ilse viene assolta per mancanza di prove, finché nel 1947 viene nuovamente arrestata. Durante la sua permanenza in carcere rimane incinta di un detenuto e approfitta della situazione per rimandare il processo finchè, finalmente, dopo svariati errori giudiziari,viene processata e condannata. La pubblica accusa dichiarò “Se mai un grido è stato udito nel mondo, è quello degli innocenti torturati e morti per mano sua”.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Descrizione del film “Una volta nella vita”, per celebrare il GIORNO DELLA MEMORIA -Ispirato a una storia vera. Liceo Léon Blum di Créteil, città nella banlieue sud-est di Parigi: una scuola che è un incrocio esplosivo di etnie, confessioni religiose e conflitti sociali. Una professoressa, Anne Gueguen (Ariane Ascaride), propone alla sua classe più problematica un progetto comune: partecipare a un concorso nazionale di storia dedicato alla Resistenza e alla Deportazione. Un incontro, quello con la memoria della Shoah, che cambierà per sempre la vita degli studenti.
Bellissimo film da far vedere nelle scuole- Il film lo dovrebbero vedere anche tutti gli insegnanti.
“Bisogna ripartire dalla scuola”: Ariane Ascaride ci racconta Una volta nella vita.
Il suo volto particolare, al di fuori delle convenzioni cinematografiche, ha reso Ariane Ascaride una musa insolita per il suo compagno, il regista Robert Guédiguian. La metà della sua filmografia è segnata da questo rapporto sinergico, artistico oltre che sentimentale. Ma nel giorno della memoria esce in Italia un film in cui il marito non è coinvolto. Una volta nella vita è la storia vera – cosceneggiata da Ahmed Dramé, uno dei ragazzi che l’ha vissuta solo alcuni anni fa – di una classe apparentemente irrecuperabile di un liceo disagiato della banlieue parigina. Una professoressa, la stessa Aristide, non si arrende a darli per spacciati. Li convince pian piano a partecipare a un concorso sulla resistenza e la deportazione, indetto ogni anno dal governo francese. Occasione per guardare alla scuola in maniera positiva. Concorda l’attrice, che abbiamo incontrato qualche giorno fa a Parigi, in occasione dei Rendez-Vous di Unifrance.
“Soprattutto è una storia vera, non si può obiettare in alcun modo, è qualcosa che è accaduto. Una cosa così eccezionale che Ahmed ha voluto raccontarla. Non è stato solo un film, per me, ma un momento della mia vita.”
Le riprese immagino siano state effettuate in un clima particolare, con tutti quei ragazzi.
C’erano pochi attori, molti erano ragazzi che frequentano ancora la scuola. Si sono davvero sentiti coinvolti in questa storia. Dovevo trovare il modo giusto per relazionarmi con loro, in modo che avessero fiducia in me. Mi ha dato modo di capire quanto sia difficile fare l’insegnante, per cui ho grande ammirazione. Naturalmente giravamo solo un film, ma dovevo avvicinarli a me, stabilire un contatto in modo da rendere tutto credibile.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Una classe piena di colori, religioni, esperienze diverse, come spesso accade nelle periferie.
Sono stati straordinari. Oltretutto abbiamo girato durante il ramadan, per cui in molti passavano la giornata senza mangiare né bere. La prima settimana mi guardavano come fossi veramente una professoressa, non sapevano bene quando si girava o no. Dopo una decina di giorni, fra un ciak e l’altro, non ero un’amica, ma neanche più la professoressa; piuttosto qualcuno con cui parlare e scoprire cose che non conoscevano.
Cosa comporta per un’attrice con tanti anni di esperienza lavorare con ragazzi non professionisti?
È formidabile, ti obbliga a un grande coinvolgimento, ponendoti molti interrogativi sul tuo lavoro. Sono così veri, sono alta tensione, e non puoi che essere reale anche tu. La mattina arrivavo e li guardavo, li seguivo, poi mi comportavo come una ballerina di tango: ad azione segue reazione. Due passi avanti, uno indietro. È andata così. Abbiamo girato durante l’estate nella vera scuola, il Liceo Léon Blum a Créteil, nella banlieue parigina. I ragazzi hanno presto preso le abitudini che avevano durante l’anno scolastico, mettendosi a fare confusione e a chiacchierare durante le pause. La sola cosa che dicevo era: “se sento ancora qualcuno urlare gli metto le mani alla gola”. Ecco, questo le professoresse non possono dirlo, ma io sì.
Ha incontrato la professoressa che interpreta?
Non prima delle riprese, soltanto dopo, e siamo diventate molto amiche.
Come mai non l’ha incontrata prima?
Perché non volevo riprodurla, volevo costruire il personaggio intorno a quello che avevo letto e alla sceneggiatura. Se avessi cercato solamente di riprodurla non sarei mai riuscita a farlo, non è questo il mio lavoro; devo creare il personaggio, non riprodurlo.
Spesso sulle prime pagine si parla della scuola solo come fonte di problemi. Lei è ottimista?
Non era un vostro grande intellettuale, Gramsci, che parlava di pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà? La penso così. Se guardiamo bene il mondo viene da chiedersi come se la caveranno questi ragazzi, ma allo stesso tempo non voglio cedere a pensieri del genere. Sono pieni d’energia e di risorse, il mondo di domani è loro. Faranno delle proposte che noi neanche immaginiamo; ho una fiducia assoluta in loro, bisogna solo ascoltarli.
Lei è madre, questo l’ha portata a una maggiore identificazione con questi mesi bui, specie per i giovani?
Penso di sì. Mia figlia è stata particolarmente sconvolta dopo il 13 novembre: ha perso dei cari amici. Non voleva più uscire di casa, per lei il mondo in cui è cresciuta è finito quella notte, non vuole più avere figli. Penso che mai come oggi il ruolo di madre sia di importanza cruciale.
Non pensa che nelle grandi manifestazioni, dopo Charlie Hebdo e gli attentati di novembre, siano mancate le banlieue?
È proprio questo il problema. Nelle periferie ci sono moltissimi giovani che lavorano, superano gli esami, che vogliono integrarsi, e si integrano, all’interno della società francese. Allo stesso tempo c’è una frangia di persone in sofferenza, senza armi se non la violenza, verbale o del tipo peggiore. Sono fascisti, assassini, folli. Uccidono dei giovani con cui magari sono andati a farsi un bicchiere sei mesi prima. Giovani esattamente come loro. L’errore dello stato francese è non aver compreso come mai siano diventati così, dell’abbandono di queste persone. Non sono che il risultato delle azioni dei nostri governi, i quali, quando non c’è stato più lavoro, li ha assistiti, con il sussidio di disoccupazione, cancellando la loro identità, rendendoli una massa informe.
In fondo nel film quello che fa il suo personaggio è proprio far emergere la specificità di ogni ragazzo, riconoscerlo, senza considerare tutti come un’unica classe problematica.
È esattamente riconoscere il termine giusto, quello che non facciamo. Lo sa che i ragazzi delle banlieue hanno paura di andare sugli Champs-Élysées, non per paura degli attentati, ma anche da prima?
Pensano non sia il loro mondo. Parlo di giovani nati qui, in Francia. È falso, ma gli abbiamo così tanto fatto sentire che non è il loro mondo, che i più fragili o perduti hanno ascoltato sirene mostruose finendo per uccidere altri giovani. Per questo la scuola è fondamentale: se la scuola va male, anche la società andrà male. Se sapesse da quanto tempo dico questa cosa; fino a che non si farà uno sforzo particolare nelle scuole, aiutando i professori, non cambierà niente. Fino a che ci saranno i licei ghetto e le scuole private, senza che i ragazzi si mescolino realmente, non accadrà niente di diverso. È complicato, soprattutto considerato che noi siamo andati a cercare il loro petrolio, tracciando dei confini senza sentire il loro parere. Abbiamo fatto di tutto e preso di tutto, e ora puntiamo il dito dicendo che sono cattivi.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
La storia e l’integrazione sono aspetti importanti della sua carriera.
Da figlia di immigrati italiani posso solo dire che è molto difficile essere un’immigrata. Una frase di mio padre la conservo sempre nella mia testa: è incredibilmente duro, perché sei insultato anche vivendo in una città mista come Marsiglia. Sei meno che niente, un ladro, di qualsiasi immigrazione tu faccia parte. È terribile. Tutto questo avendo la stessa religione, immaginate i musulmani. Provo una grande ammirazione per i giovani che riescono ad uscire da tutto questo, ci vuole un coraggio inimmaginabile. Io ho imparato l’italiano, ma non da mio padre, che non ha mai voluto parlarci in quella lingua. Voleva che fossimo francese. Gli scappavano delle parole in italiano solo quando si arrabbiava.
Un’artista e una donna appassionata, Ariane Ascaride. Colpita come tutti i francesi dagli attentati di novembre, ha scritto per “Le Monde” delle parole che suonano ancora più attuali oggi, giorno della memoria, mentre le prime targhe di marmo sui fatti di Charlie Hebdo sono entrate a far parte del tessuto urbano di Parigi, e il ricordo si confonde con l’attualità. Di seguito alcune delle sue parole.
“Obblighiamo i politici a riconsiderare il loro lavoro, le loro responsabilità storiche. I nostri figli non ci hanno chiesto di venire al mondo, tutti dobbiamo loro un rispetto totale e un mondo luminoso. Facciamo ascoltare la nostra voce in modo che conoscano ancora la spensieratezza della giovinezza. Obblighiamo quelli che nelle sfere privilegiate del potere tavolta se ne dimenticano, a considerare le vere ragioni che portano un giovane a uccidere una ragazza o un ragazzo, che magari ascoltano la sua stessa musica.
Parliamo alto e forte, parliamo a quelli che pensano al mondo nella stessa maniera. Cambiamo, impariamo uno dall’altro, salviamo i nostri figli”.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Valeria Arnaldi -“TINA MODOTTI HERMANA” -Edizioni Red Star Press-
Valeria Arnaldi -“TINA MODOTTI HERMANA” Edizioni Red Star Press
Tina Modotti: icona, attrice, fotografa, amante e rivoluzionaria-Passione, scandalo, rivoluzione.Tina Modotti,Nata a Udine nel 1896, operaia in fabbrica, emigrata negli Stati Uniti con il primo marito, il pittore francese Roubaix “Robo” de l’Abrie Richey.
Un promettente esordio a Hollywood nel film The Tiger’s Coat (1920) dove la critica ne esalta il fascino esotico.
Nel 1921 l’incontro fatale con il grande fotografo Edward Weston, di cui diviene la modella prediletta, poi l’amante e infine l’assistente.
Dopo la Los Angeles del cinema c’è il Messico della Rivoluzione.
Assieme a Weston frequenta i circoli dei muralisti, entra in contatto con Diego Rivera prima, e con Frida Kahlo poi, con la quale consuma una relazione scandalosa e appassionata.
Nel 1929 inaugura una sua personale a Città del Messico che viene definita «la prima mostra fotografica rivoluzionaria».
Poi è tempo di altri amori, di altre passioni: finisce a Mosca, viene arruolata dai servizi segreti russi.
Corre a combattere in Spagna a sostegno della Repubblica, con il suo nuovo amante, Vittorio Vidali.
Conclusa l’esperienza spagnola torna in Messico, si fa il suo nome in relazione all’assassinio di Lev Trockij.
Gli avvenimenti storici iniziano a farsi confusi, la vita accelera nella corsa al traguardo.
Il corpo senza vita viene ritrovato il 5 gennaio 1942. Aveva 46 anni.
Sulla sua lapide una poesia composta per l’occasione da Pablo Neruda inizia così: Tina Modotti hermana…
Pagine 272-Formato 13×20 cm, oltre 100 immagini-Collana Bizzarro Books- ISBN 9788867181315
Arnaldi Valeria
L’Autore-Valeria Arnaldi- Giornalista professionista, critica d’arte e scrittrice, collabora con testate italiane e straniere e organizza mostre d’arte contemporanea.
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
00147 Roma, Italia
Poemas de Maria do Rosário Pedreira- Poetessa e scrittrice portoghese-
Maria do Rosário Pedreira è un’editrice, scrittrice, poetessa e paroliera portoghese. Laureata in Lingue e letterature moderne, con specializzazione in studi francesi e inglesi, ha insegnato per cinque anni negli anni ’80.Nel 1987 diventa editrice grazie all’impegno del prof. Antonio Manuel Baptista, iniziando questa attività nel campo dei libri di divulgazione scientifica.
Non c’è piùnessun nome
Non c’è più nessun nome. Dopo di te mi destinarono solo nomi che non amai, volti sui quali non volli posare gli occhi per paura di fissarli, mani che erano sempre l’ombra delle tue mani sotto le lenzuola. Mai neanche le vidi né toccai quelle dita che, nel buio, celebravano nella mia la tua carne – se un altro motivo le portò, per quanto vago, anche non volli udirlo, mai lo seppi. Dopo di te, dopo gli altri uomini, è ancora il tuo nome che dico. E nessun altro.
Lascia il tempo cadere sul tuo nome
Lasciai cadere il tempo sul tuo nome, come si adagia il marmo sulla terra e l’acqua si sparge sulle braci. Mi vestii di lutto come le donne che disfano le culle vuote da tanto le guardano; e vidi il sangue scendere finalmente sulla ferita, come la cera che si rapprende sul palmo della mano prima di perdersi nelle dita in polvere. Se ti dimenticai, fu perché volli qualcuno che mi chiamasse, un corpo che fosse un altro sul mio corpo, una voce offerta per la mattina. Ma niente, ma nessuno. Se il tempo non si fosse abbattuto sul tuo nome, avrei potuto almeno ora ricordarti – poiché non c’è lapide senza corpo né cenere che non abbia arso. E la casa è oggi più fredda che mai: lasciai passare il tempo sul tuo nome, e non c’è focolare, non c’è nido, non ci sono figli che si possano perdere da me, né candele per riempire di memoria questo silenzio.
So chi sei, ma mi manca il tuo nome
So chi sei, ma mi manca il tuo nome – né sempre le parole arrivano agli occhi. Ma non dare importanza: ci sono altre cose che non dimenticherò mai – le mie braccia ancorate al tuo corpo, una cecità, e il mondo improvvisamente tanto piccolo – e queste, tu non lo sai, mi mancano anche. Il tuo volto, dammelo per un secondo, La tua bocca, chiaro. Sono tanti gli anni senza te nelle pieghe della mia gonna, tanta vita custodita per un giorno così. Adesso ritorna, dunque. Lascia cadere quel sorriso delle tue labbra, – nelle mie deve distendersi come il sole, all’imbrunire, quando di nuovo sopra di loro respirerai con il profumo salato delle maree. Ma non dire niente del mio corpo stanco – è una camicia d’estate dimenticata sulla spiaggia, e l’abito è sempre il meno, tanto fa. Non vedi chi sono? Il tempo non può aver castigato solo il mio sguardo. Vieni più vicino e spia adagio: sono tanti gli anni senza le tue braccia nelle maniche del mio vestito, tanto sangue custodito nelle vene per una notte così. E tu già te ne vai?
Fra noi c’è una ferita
Fra noi c’è una ferita che ormai non sanguina, ma non si rimargina – un amore che dura ancora ed è perso. Se rimaniamo insieme, non vediamo mai passare la lamina del tempo, ma diventiamo sempre più vecchi di quando partimmo. Dicono che ci sono bende e bavagli tra di noi, ma sono tanti i lacci, tante le fasciature, che mi domando perché si allontanano gli occhi nel toccarsi, perché solo dice il silenzio ciò che non dura. Non ci sono parole possibili – fra di noi – il vento è sempre più vento nella camicia e il dolore più dolore nelle mani quando le sciogliamo. Ma niente di questo conta, perché gli occhi che ridono tanto nelle pieghe del vestito sono i più tristi del mondo se li guardiamo. So che mento quando paragono ciò che la vita ci rubò a ciò che ci ha dato; ma, se mi tocco e ormai non sono un corpo, mi limito a indovinare un nome per ciò che non sento e mi rifiuto di credere che sia il tuo.
Maria do Rosário Pedreira
Ho messo un abito scollato
Ho messo un abito scollato e non so se ritorni, ma le parole sono pronte sulle labbra come segreti imperfetti o germogli di acqua custoditi per l’estate. E, se di notte le ripeto in sordina, nel silenzio della stanza, prima di addormentarmi, è come se all’improvviso gli uccelli fossero già arrivati a sud e tu ritornassi in cerca di questi antichi messaggi lavati dal tempo: Andiamo a casa? Il sole dorme sui tetti la domenica e c’è un intenso odore di lino sparso sui tetti. Possiamo rivoltare i sogni al rovescio, dormire dentro il pomeriggio e lasciare che il tempo si occupi dei gesti più piccoli. Andiamo a casa. Ho lasciato un libro aperto a metà sul pavimento della stanza, sono sole nella scatola le vecchie foto del nonno, c’erano le tue mani strette con forza, quella musica che eravamo soliti ascoltare d’inverno. E io voglio rivedere le nuvole ritagliate nelle finestre rosse del crepuscolo; e voglio andare di nuovo a casa. Come le altre volte. E così mi preparo per il sonno, notte dopo notte, dipanando la lenta matassa dei giorni per scontare l’attesa. E, quando la nidiata allontanerà alla fine le ali della chiglia al suo primo volo, di certo mi troverò ancora qui, ma potrò dire che, per lo meno qualche volta, già inviai i messaggi, già dalla mia bocca udii queste parole, che tu ritorni o non ritorni.
Non ho saputo il tuo nome
Non ho mai saputo il tuo nome. Entrasti un pomeriggio, per sbaglio, a domandare se io ero un’altra persona – un sole che improvvisamente aggiungeva calce ai muri, un incendio capace di divorare il cuore del mondo. Non ti mentii; mi alzai e ti condussi alla porta giusta come un veliero trascina i sogni in mare; ma, prima di lasciarti, ti dissi ancora che in quel pomeriggio mi sarebbe piaciuto molto chiamarmi un’altra cosa – o essere un gatto, per poter avere più di una vita.
Il cammino fino a te
È sempre stato così incerto il cammino fino a te: tanti mesi di pietre e di spine, di cattivi presagi, di rami che graffiavano la carne come tridenti, di voci che mi dicevano che non valeva la pena continuare, che il tuo sguardo era già una menzogna; e il mio cuore sempre così sordo a tutto questo, sempre a gridare qualcos’altro più alto affinché le gambe non potessero ricordare le loro ferite, perché i piedi ignorassero le pene del viaggio e avanzassero tutti i giorni di un poco, quel poco che era tutto per raggiungerti. Fu per questo che, al contrario di te, non volli dormire quella notte: i tuoi baci si trovavano ancora tutti sulla mia bocca e il disegno delle tue mani sulla mia pelle. Io sapevo che addormentarsi era smettere di sentire, e non volevo perdere i tuoi gesti sul mio corpo un secondo che fosse. Allora mi sedetti sul letto a guardarti dormire, e sorrisi come mai avevo sorriso prima di quella notte, sorrisi tanto. Ma tu parlasti improvvisamente nel sonno, allungasti il braccio verso me e chiamasti sottovoce. Chiamasti due volte. O tre. E sempre così sottovoce. Ma nessuna fu per dire il mio nome.
Maria do Rosário Pedreira
A cosa mi è servito correre
A cosa mi è servito correre per tutto il mondo, trascinare, di città in città, un amore che pesava più di mille valigie; mostrare a mille uomini il tuo nome scritto in mille alfabeti e un’immagine del tuo volto che io giudicavo felice? A cosa mi è servito respingere questi mille uomini, e gli altri mille che fecero di tutto perché mi fermassi, mille volte pettinando le pieghe del mio vestito stanco di viaggi, o dicendo il tuo nome così bello in mille lingue che io mai avrei compreso? Perché era solo dietro te che correvo il mondo, era con la tua voce nelle mie orecchie che io trascinavo il fardello dell’amore di città in città, il tuo nome sulle mie labbra di città in città, il tuo volto nei miei occhi durante tutto il viaggio.
Si ricordava di lui
Si ricordava di lui e, per amore, anche se pensava a un serpente, avrebbe detto solo un arabesco; e avrebbe nascosto nella gonna il morso caldo, la ferita, l’impronta di tutti gli inganni, avrebbe fatto quasi tutto per amore: avrebbe dato il sonno e il sangue, la casa e la felicità, e avrebbe custodito silenziosi i fantasmi della paura, che sono i padroni delle piú grandi verità. Già un’altra volta aveva mentito e per amore si sarebbe seduta alla tavola di lui e avrebbe negato che lo amava, perché amarlo era un inganno ancora piú grande che mentirgli. E, per amore, si mise a disegnare il tempo come una linea stordita, sempre al cadere di una pagina, a prolungare il mancato incontro. E faceva stelle, anche se pensava alle croci; arabeschi, anche se ricordava solo serpenti.
Non dire per cosa vieni.
Non dire per cosa vieni. Lasciami indovinare dalla polvere dei tuoi capelli che vento ti ha mandato. È lontana la … tua casa? Ti do la mia: leggo nei tuoi occhi la stanchezza del giorno che ti ha vinto; e, sul tuo volto, le ombre mi raccontano il resto del viaggio. Dai, vieni a dar riposo ai tormenti del cammino nelle curve del mio corpo – è una meta senza dolore e senza memoria. Hai sete? Avanza dal pomeriggio solo una fetta d’arancia – mordila nella mia bocca senza chiedere. No, non dirmi chi sei né per che cosa vieni. Decido io.
Paura dell’amore
Non aver paura dell’amore. Posa la tua mano lentamente sul petto della terra e senti respirare i nomi delle cose che lì stanno crescendo: il lino e la genziana, la verzura odorosa e le campanule blu; la menta profumata per le bevande dell’estate e l’ordito delle radici di una pianticella d’alloro che si organizza come un reticolo di vene nella confusione di un corpo. Mai la vita è stata solo inverno.
Maria do Rosário Pedreira
Questa mattina
Questa mattina il sole è passato improvvisamente dall’altra parte della via – sono così in ombra le case quando di loro si perde il nome di qualcuno, così scuri i cuori di quelli che restano là dentro per abitare il dolore.
Maria do Rosário Pedreira
Maria do Rosário Pedreira (Lisbona , 21 settembre 1959) è un’editrice, scrittrice, poetessa e paroliera portoghese.Laureata in Lingue e letterature moderne, con specializzazione in studi francesi e inglesi, ha insegnato per cinque anni negli anni ’80.
Nel 1987 diventa editrice grazie all’impegno del prof. Antonio Manuel Baptista, iniziando questa attività nel campo dei libri di divulgazione scientifica.
Dal 1989 al 1998 è stata autrice della raccolta giovanile “Clube das Chaves”, con Maria Teresa Maia Gonzalez, pubblicandone 21 titoli. In seguito, nel 2000, ha pubblicato la raccolta giovanile “Detective Maravilhas”, con 17 volumi.
Cura attualmente autori come Nuno Camarneiro, Ana Cristina Silva, Vasco Luís Curado, Gabriela Ruivo Trindade, Norberto Morais, Nuno Amado, Cristina Drios, Carlos Campaniço, João Rebocho Pais e Paulo Moreiras.
Come scrittrice ha pubblicato diverse opere di narrativa, poesia, cronaca e letteratura giovanile, ricercando in quest’ultimo genere la trasmissione di valori umani e culturali. Per l’autrice, già premiata con alcuni premi letterari, la casa può essere considerata come un mondo dove tutto ciò che dura è contenuto, anche se sotto forma di memoria, con nostalgia.
È autrice di diversi testi musicali di fado, cantati da Carlos do Carmo, António Zambujo, Aldina Duarte, Ana Moura e, più recentemente, da Salvador Sobral.
Maria do Rosário Pedreira-Nació en Lisboa, Portugal, en 1959. Esta reconocida poeta, escritora y editora estudió Lenguas y Literaturas Modernas en la Universidad Clásica de Lisboa.En 1996 publicó su primer libro de poesía, A Casa e o Cheiro dos Livros, y desde entonces ha sido autora tanto de poesía como de novelas, literatura juvenil, ensayos, crónicas y letras para fado. Como editora, estuvo detrás del surgimiento de varios de los autores contemporáneos más destacados de Portugal, como José Luís Peixoto y Valter Hugo Mãe, y también publicó las colecciones de literatura juvenil O Clube das Chaves y Detective Maravilhas, las cuales han tenido una excelente acogida en Portugal. Entre sus libros publicados está su antología Poesía reunida, que en 2012 ganó el premio de literatura de la Fundación Inês de Castro.
Poemas de Maria do Rosário Pedreira
Maria do Rosário Pedreira
Arte poética
Num romance, uma chávena é apenas uma chávena — que pode derramar café sobre um poema, se o poeta, bem entendido, for a personagem.
Num poema, mesmo manchado de café, a chávena é certamente a concha de uma mão — por onde eu bebo o mundo em maravilha, se tu, bem entendido, fores o poeta.
No nosso romance, não sou sempre eu quem leva as chávenas para a mesa a que nos sentamos à noite, de mãos dadas, a dizer que a lata do café chegou ao fim, mas a pensar que a vida é que já vai bastante adiantada para os livros todos que ainda pensamos ler.
No meu poema, não precisamos de café para nos mantermos acordados: a minha boca está sempre na concha da tua mão, todos os dias há páginas nos teus olhos, escreve-se a vida sem nunca envelhecermos.
Arte poética
En una historia, una taza es tan sólo una taza, que puede derramar café sobre un poema, si el poeta, entiéndase bien, es el personaje.
En un poema, así esté manchado de café, la taza es con seguridad el cuenco de una mano; por donde yo bebo el mundo en éxtasis si tú, entiéndase bien, eres el poeta.
En nuestra historia, yo no soy siempre quien lleva las tazas a la mesa donde nos sentamos cada noche, enlazando las manos, para comentar que la lata del café se terminó, pero pensando que es la vida la que ya ha avanzado mucho para los libros que todavía quisiéramos leer.
En mi poema no necesitamos café para mantenernos despiertos: mi boca está siempre en el cuenco de tu mano, todos los días hay páginas en tus ojos, la vida se escribe y nunca envejecemos.
***
O meu mundo tem estado à tua espera; mas não há flores nas jarras, nem velas sobre a mesa, nem retratos escondidos no fundo das gavetas. Sei
que um poema se escreveria entre nós dois; mas não comprei o vinho, não mudei os lençóis, não perfumei o decote do vestido.
Se ouço falar de ti, comove-me o teu nome (mas nem pensar em suspirá-lo ao teu ouvido); se me dizem que vens, o corpo é uma fogueira — estalam-me brasas no peito, desvairadas, e respiro com a violência de um incêndio; mas parto antes de saber como seria. Não me perguntes
porque se mata o sol na lâmina dos dias e o meu mundo continua à tua espera: houve sempre coisas de esguelha nas paisagens e amores imperfeitos — Deus tem as mãos grandes.
Maria do Rosário Pedreira
***
Mi mundo ha estado esperándote; pero no hay flores en los jarrones, ni velas sobre la mesa, ni retratos escondidos al fondo de los cajones. Sé
que un poema se escribiría entre nosotros dos; pero no compré el vino, no cambié las sábanas, no perfumé el escote del vestido.
Si oigo hablar de ti, me conmueve tu nombre (pero ni pensar en suspirarlo a tu oído); si me dicen que vienes, el cuerpo es una hoguera: me crepitan brasas en el pecho, trastornadas, y respiro con la violencia de un incendio; pero parto antes de saber cómo sería. No me preguntes
por qué el sol se mata en el filo de los días y mi mundo continúa esperándote: siempre hubo cosas de soslayo en los paisajes y amores imperfectos; Dios tiene las manos grandes.
Fado
Dizem os ventos que as marés não dormem esta noite. Estou assustada à espera que regresses: as ondas já engoliram a praia mais pequena e entornaram algas nos vasos da varanda. E, na cidade, conta-se que as praças acoitaram à tarde dezenas de gaivotas que perseguiram os pombos e os morderam.
A lareira crepita lentamente. O pão ainda está morno à tua mesa. Mas a água já ferveu três vezes para o caldo. E em casa a luz fraqueja, não tarda que se apague. E tu não tardes, que eu fiz um bolo de ervas com canela; e há compota de ameixas e suspiros e um cobertor de lã na cama e eu
estou assustada. A lua está apenas por metade, a terra treme. E eu tremo, com medo que não voltes.
Fado
Dicen los vientos que las mareas no duermen esta noche. Estoy asustada esperando que regreses: las olas ya se tragaron la playa más pequeña y derramaron algas en las macetas del balcón. Y, en la ciudad, se cuenta que la plazas acogieron por la tarde a decenas de gaviotas que persiguieron a las palomas y las mordieron.
La chimenea crepita lentamente. El pan todavía está tibio en tu mesa. Pero el agua ha hervido ya tres veces para el caldo. Y en casa la luz se debilita, no tardará en apagarse. Y tú no tardes, que hice una tarta de hierbas con canela; y hay mermelada de ciruelas y merengues y una manta de lana en la cama y yo
estoy asustada. Sólo está la mitad de la luna, la tierra tiembla. Y yo tiemblo, temiendo que no vuelvas.
Maria do Rosário Pedreira
***
Mãe, oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão: com o menino ao colo, fez-se a estrada maior do que o meu desespero, amarrotou-se de velho meu coração tão claro. Eu tinha catorze anos antes
do estrondo, catorze anos e meio antes do teu grito, quinze anos cumpridos quando afastei o véu dos teus cabelos: se me dizias sempre que não fosse para longe, porque pediam o contrário os teus olhos parados? Ainda por cima, mãe, chegar
ao campo foi como bater a uma porta cansada – mil tendas que eram velas remendadas, barcos para ficar de novo pelo caminho. Trouxeram-nos mantas cheias de perguntas; tentaram-me com doces para me pôr no lugar; mudaram ao meu irmão a fralda com as mãos frias. Mãe, eu disse-lhes que
o menino era meu; e agora, quando ele procura os teus seios no meu corpo sem formas, cubro com o teu véu os meus cabelos e canto-lhe baixinho canções de açúcar. Não sei que idade tenho, mãe, mas oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão.
***
Madre, ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano: con el niño en brazos, se hizo el camino más largo que mi desesperación, se arrugó de viejo mí corazón tan claro. Yo tenía catorce años antes
del estruendo, catorce años y medio antes de tu grito, quince años cumplidos cuando alejé el velo de tus cabellos: si me decías siempre que no me alejara, ¿por qué pedían lo contrario tus ojos parados? Además, madre, llegar
al campo fue como llamar a una puerta cansada; mil tiendas que eran velas remendadas, barcos para quedarse de nuevo por el camino. Nos trajeron cobijas llenas de preguntas; me tentaron con dulces para ponerme en mi lugar; con las manos frías le cambiaron el pañal a mi hermano. Madre, yo les dije que
el niño era mío; y ahora, cuando él busca tus senos en mi cuerpo sin formas, cubro con tu velo mis cabellos y le canto bajito canciones de azúcar. No sé qué edad tengo, madre, pero ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano.
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