Giovanna Frene – Poesie dal poemetto inedito “DIPLOPIA 9 AGOSTO 378 d.C.”
Rivista Atelier
XVII.
del tutto immobili nella loro sete da ore
i soldati romani vennero investiti
dal fumo dei tanti piccoli incendi appiccati dai nemici
come presagio del loro destino
XVIII.
proprio quando per la vicinanza del buio
tutti erano convinti che la cavalcata del conte Ricomene
avrebbe perlomeno rinviato la battaglia,
furono i cavalieri della guardia del reggimento degli Scutari
a provocare lo schieramento dei Goti
a non resistere al consueto richiamo
del sangue
XIX.
fu mentre i due schieramenti cozzavano come navi rastremate
a squassare l’armonico fluttuare dell’onda oplitica
che a uno sguardo più ravvicinato avrebbe rivelato
i volti terrorizzati dei soldati romani morti sul posto
piombò come un fulmine su montagne altissime
la cavalleria dei Goti con un contingente di Alani
che sfracellò l’ala sinistra dei cavalieri romani,
quella parte sempre invincibiledella storia
XX.
una battaglia iniziata quasi casualmente, infine oscurò la luce
con la polvere delle terribili urla
del blocco compatto di carne in agonia
paralizzato dalla sua stessa unione
assieme alla schiuma dei cavalli
fino a ricoprire l’intera orbitaterrestre
XXI.
i fanti romani sfiniti combattevano su i cadaveri dei loro compagni
scivolando continuamente sul terreno
completamente cosparso di sangue
vendevano cara la pelle
al miglior offerente
___
Nota. Le stanze I-XVI del poemetto sono uscite ne “L’ULISSE”, ‘Metamorfosi dell’antico’, n. 23, novembre 2020, con il titolo provvisorio di Antichità romane. Il poemetto completo è stato scritto nell’estate 2020.
Le vicende del triennio di scontri tra l’imperatore d’Oriente Valente e il capo dei Goti Fritigerno, che ebbero come esito finale la sconfitta romana nella battaglia nei pressi di Adrianopoli (9 agosto 378 d.C.), sono narrate da Ammiano Marcellino (330-400 d.C.) nel XXXI libro delle Res Gestae; il loro racconto viene ripreso e commentato da Alessandro Barbero nel libro 9 agosto 378. Il giorno dei Barbari. La citazione da Frank Bidart si riferisce alla battaglia di Teutoburgo.
Breve Biografia di Giovanna Frene (Asolo, dicembre 1968), poeta e studiosa, è stata scoperta da Andrea Zanzotto. Tra gli ultimi libri di poesia: Sara Laughs, D’If 2007; Il noto, il nuovo, Transeuropa 2011; Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca 2015; Datità, (1a ed. Manni 2001), postfazione di A. Zanzotto, Arcipelago Itaca 2018. È inclusa in varie antologie, tra cui: Grand Tour. Reisen durch die junge Lyrik Europas, Hanser 2019; Nuovi Poeti italiani 6, Einaudi 2012; Poeti degli Anni Zero, Ponte Sisto 2011; New Italian Writing, “Chicago Review”, 56:1, Spring 2011; Parola Plurale, Sossella 2005. Come critica militante, co-dirige la rivista on line “Inverso. Giornale di poesia” e collabora con varie riviste, tra cui “Semicerchio” (cartacea) “Antinomie” (on line) e “Ibridamenti” (on line). È Dottore di ricerca in Storia della lingua, e ha pubblicato saggi e recensioni sul Settecento (Metastasio) e sul Novecento in volumi e riviste accademici. Dal gennaio 2023 insegnerà scrittura poetica nella ‘Bottega di Narrazione’ di Giulio Mozzi. Vive a Pieve del Grappa (TV), o altrove.
Rivista ATELIER
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Il DEGRADO E ABBANDONO DEGLI AFFRESCHI DELL’EX-CHIESA DI SANTA MARIA –
In Italia esistono luoghi, se pur carichi di storia per i Borghi dove sorgono, lasciati nel degrado e nella più completa rovina .L’Abside dell’ex-chiesa di Santa Maria di Castelnuovo non sono “pietre disperse” e senza storia , ma è sicuramente un edificio, porzione di edificio, dal passato antico che per qualche ragione sconosciuta non gode dei “diritti” di recupero e restauro come di altri luoghi simili esistenti nella provincia di Rieti. L’Abside è forse condannata a una fine ignobile, soffocata dai suoi stessi calcinacci?
La Società Dante Alighieri di Mosca e la Società dell’Amicizia Italia-Russia sono liete di presentare all’attenzione dell’edizione italiana RussiaPrivet un articolo di Laman Baghirova sul celebre poeta, politico, personaggio pubblico, personaggio unico italiano Gabriele d’Annunzio (1863-1938) , che è stato recentemente pubblicato nell’edizione russa “Klausura”. Siamo lieti di promuovere la collaborazione tra queste due grandi edizioni. Da parte nostra voremmo dire che abbiamo incontrato per la prima volta il nome Gabriele d’Annunzio durante la nostra traduzione del romanzo di Felice Trojani (1897-1971) “La Coda di Minosse”, in cui l’autore del libro, contemporaneo di d’Annunzio, che prese parte alla famosa spedizione al Polo Nord sul dirigibile “Italia” sotto la guida di Umberto Nobile, descrisse sia la spedizione stessa che presentò anche un quadro realistico del mondo dell’aviazione italiana del primo Novecento. In quest’opera storica il nome Gabriele d’Annunzio è citato molto spesso.
Così Felice Trojani descrive quel momento difficile nello sviluppo dell’aviazione dopo la prima guerra mondiale nel suo romanzo, e in quale contesto cita D’Annunzio: «Fra i piloti e il personale tecnico smobilitato erano grandi la disoccupazione e il disagio material e morale; di aviazione civile non esisteva che qualche misero embrione dovuto alla loro iniziatva.
Luigi Garrone, il pilota ‘del mio bel SIA 9 B sparvierato” aveva fondato la Cooperativa Nazionale Aeronautica fra piloti, osservatori, tecnici, motoristi e montatori d’aviazione, ala quale d’Annunzio aveva aderito dando cinquemila lire e il motto “Col Nostro Ardore”.
Ma Garrone era morto cadendo “in vista di quell’Isonzo che piu’ non trascina al mare corpi d’uccisi ma speranze disfatte” mentre portava in Russia un bombardiere monomotore FIAT.” (pp.120 “La Coda di Minosse”)
Il motto “Col nostro ardore” è stato inventato da Gabriele d’Annunzio – il miglior inventore di marchi commerciali e motti dell’epoca. D’Annunzio ha ideato questo motto per un gruppo di giovani pieni di sentimento, determinati a superare tutti i divieti e gli ostacoli nei mesi più difficili dopo la tregua. E il verso riportato nel romanzo ” in vista di quell’Isonzo che piu’ non trascina al mare corpi d’uccisi ma speranze disfatte” è tratto dalla raccolta di Gabriele d’Annunzio “Noturno” , una raccolta di appunti sulla Prima Guerra Mondiale (https://it.wikisource.org/wiki/Notturno_(D’Annunzio)).
Senza dubbio, l’articolo su Gabriele d’Annunzio interesserà sia i lettori russi che quelli italiani. Era una persona davvero unica e insolita che rimarrà per sempre nella nostra memoria.
La poesia di Gabriele d’Annunzio e’ unica, bella, filosofica attirerà sempre l’attenzione dei traduttori di poesie di diversi paesi, e la sua stessa vita è un esempio della vita di una persona che l’ha amata follemente e ha amato il paese in cui è nato, l’Italia!
Gabriele D’Annunzio “O Pisa, o Pisa, per la fluviale melodia”
O Pisa, o Pisa, per la fluviale
melodìa che fa sì dolce il tuo riposo
ti loderò come colui che vide
immemore del suo male
fluirti in cuore
il sangue dell’aurore
e la fiamma dei vespri
e il pianto delle stelle adamantino
e il filtro della luna oblivioso.
Quale una donna presso il davanzale,
socchiusa i cigli, tiepida nella sua vesta
di biondo lino,
che non è desta ed il suo sogno muore;
tale su le bell’acque pallido sorride
il tuo sopore.
E i santi marmi ascendono leggeri,
quasi lungi da te, come se gli echi
li animassero d’anime canore.
Ma il tuo segreto è forse tra i due neri
cipressi nati dal seno
de la morte, incontro alla foresta trionfale
di giovinezze e d’arbori che in festa
l’artefice creò su i sordi e ciechi
muri come su un ciel sereno.
Forse avverrà che quivi un giorno io rechi
il mio spirito, fuor della tempesta,
a mutar d’ale.
Gabriele D’Annunzio (1863-1938)
Nataliya Nikishkina -Presidente della Società Dante Alighieri a Mosca.
Ekaterina Spirova -Presidente della Società dell’Amicizia Italia-Russia.
Un articolo su CLAUSURE su Gabriel d’Annunzio. La firma dell’autore e la sua nota sono alla fine dell’articolo. Il link alla pubblicazione in “Klauzura” è: klauzura.ru
È un poeta, è un aviatore, è…
21.07.2021 / Edizione
Il calore aleggia sulla città… Domina su tutto. Non si scioglie solo l’asfalto, ma anche il cervello. Sembra che si stia trasformando in una sostanza pigra, che ricorda le proteine mal montate. Questo è veramente – “tu, rovinando tutte le capacità mentali, tormentaci; come i campi soffriamo la siccità”. Pushkin, è Pushkin per tutte le stagioni!
Ma il pensiero è una cosa strana. Nella sostanza pigra, in cui il cervello umano si trasforma in estate, sorgono connessioni associative a volte incomprensibili. Posso garantire che pochi lo ricorderanno ora, e molti, forse, non sanno che esattamente 35 anni fa, nel 1986, uscì su un grande schermo l’ultimo film di Alexander Zarkhi “Chicherin”. Tuttavia, ora poche persone ricordano chi fosse. E per qualche ragione mi sono ricordato di questo film proprio ora. E niente affatto perché ho un interesse speciale per la biografia del primo Commissario del popolo per gli affari esteri dell’URSS. E nemmeno perché il suo ruolo nel film è stato interpretato dal meraviglioso Leonid Filatov. Ricordo questo film con una sola osservazione. Nella seconda puntata Filatov cita dei versi in italiano: “Non amarmi e io non amo te, ma c’è ancora una particella di tenerezza tra noi”.
Un verso di una poesia del poeta finora sconosciuto Gabriele d’Annunzio. Mi ha colpito con la sua assillante sincerità. La tenerezza, come una tranquilla luce del tramonto, rimane quando l’amore se ne va. O anche quando non c’era proprio amore. Bastava questa piccola riga per ricordare sia il film che il nome del poeta stesso. E saperne di più su di lui.
Allora, Gabriele d’Annunzio. 1863-1938. Poeta, e non solo… Parigi non vedeva una cosa del genere dai tempi della Comune! Persone di diversa età e condizione sociale si sono riversate per le strade! La gioia genuina brillava nei loro occhi! Sventolavano bandiere, cantavano, ballavano, si abbracciavano. L’11 novembre 1918 iniziò a operare una tregua che fermò la prima guerra mondiale. La capitale della Francia, che fino a poco tempo fa era bombardata dall’artiglieria tedesca, celebrava l’avvento della pace. Rappresentanti di diversi paesi sono venuti a Parigi per concordare finalmente un nuovo ordine mondiale. Negli uffici di Versailles, le mappe raffiguravano i nuovi confini di vecchi e nuovi stati. Il mondo è stato rimodellato (per l’ennesima volta!). L’Italia faceva parte dei cosiddetti Big Four, insieme a Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Era la più debole di tutte, ma aveva un’ambizione tremenda. Bene, bene… Come si dice, un soldato che non sogna di diventare un generale è cattivo.
Le controversie sulla redistribuzione del Vecchio Continente si diffusero in Italia. Alcuni paesi volevano ampliare i propri possedimenti a scapito di terre che un tempo appartenevano alla Repubblica di Venezia. Le migliori sono la costa adriatica orientale. Ma sono sorte polemiche. Inoltre, i membri della delegazione italiana hanno litigato tra loro. Hanno lasciato le trattative, poi sono tornati di nuovo. Nella stessa Italia questa situazione ha suscitato un’ondata di indignazione. La società raccolse facilmente il termine “vittoria mutilata”. Il suo autore fu il poeta, soldato e romantico Gabriele d’Annunzio.
È stata una delle figure più importanti in Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ha fatto parte di quei venti di cambiamento che hanno creato l’arte della decadenza. Inoltre uno stile di vita incredibilmente brillante, persino scioccante. E per favore, una persona che ha avuto un enorme impatto sull’Italia in quel momento.
La sua vocazione era l’arte. Soprattutto per come l’ha visto lui. La vita ruotava attorno alla ricerca del piacere, che cercò di trovare anche durante la guerra. Gabriele d’Annunzio nacque il 12 marzo 1863 nella città italiana di Pescara. Il padre portava il doppio cognome Rapanetta d’Annunzio, ma, fortunatamente per il figlio, abbandonò la prima parte. “Rapanetta” nella traduzione dall’italiano significa “rapa”. “Annunzio” – “messaggio”. La seconda parte del cognome era più adatta al poeta e al politico.
Gabriele d’Annunzio ha ereditato dalla madre la reattività e i tratti delicati del viso in gioventù, dal padre – un carattere irascibile e un amore indomito per le donne. Ha iniziato a scrivere a scuola. Il processo con la penna non ha avuto molto successo. Il collegio dei gesuiti disapprovava i sospiri del giovane poeta sugli “eteri persiani” e il “calore barbarico dei baci”.
All’età di 16 anni Gabriele pubblica la sua prima raccolta di poesie “La Primavera” con i soldi del padre. Un anno dopo, il libro è stato ristampato. Per attirare l’interesse su di lei, il giovane inviò un telegramma al giornale informandolo che l’autore era morto dopo essere caduto da cavallo. Ha trovato la sua strada. La collezione vendette molto bene e anche i critici letterari se ne accorsero. Ben presto, anche a Roma, iniziarono a parlare del giovane poeta. Si trasferì lì in cerca di lavoro, entrò nella facoltà di filologia dell’università e trovò lavoro come corrispondente per un giornale.
Aveva una fantastica capacità di lavoro e ha scritto centinaia di articoli sotto vari pseudonimi. La nuova raccolta di poesie “Intermezzo di rime” ha scioccato il pubblico con rivelazioni erotiche. L’erotismo è presente nella maggior parte delle opere di D’Annunzio, a cominciare da quelle scritte a 16 anni delle prime poesie. E i libri nella sua biblioteca di casa erano contrassegnati da un ex libris erotico. Ho provato la mia mano con la prosa – è andata altrettanto bene. Pubblicato nel 1889, il romanzo “Piacere” rese celebre d’Annunzio. Hanno iniziato a parlare del personaggio principale del romanzo come di un eroe del loro tempo. Il prototipo del protagonista era l’autore, e il nome era una delle parole principali della visione del mondo di D’Annunzio. La vita per lui era un placare la sete di lusso e piacere, in primo luogo l’amore. La passione e la tenerezza nel romanzo di d’Annunzio hanno conquistato la routine, ed è proprio questo che sognavano segretamente abitanti abbastanza perbene. (A proposito, se parliamo dei romanzi dello scrittore, sarà utile notare che anche il film sensazionale di Luchino Visconti “Innocenzo” è stato girato sulla base delle opere di D’Annunzio).
Il talento letterario del giovane d’Annunzio è molto brillante. Spende quasi tutti i suoi soldi in scarpe alla moda e cravatte lussuose e cerca di essere come quelli di cui scrive: salvavita. Il lavoro crea condizioni eccellenti per la divulgazione di un altro talento di Gabriele: la capacità di compiacere le donne. Il suo primo matrimonio fu con la duchessa Maria Harduin di Gallese. Si potrebbe definire un matrimonio di convenienza: la duchessa era già incinta. La loro vicinanza a Gabriele si immortalerà nelle poesie “IL PECCATO DI MAGGIO”. Grazie a questo matrimonio, Gabriele riceverà un altro scandalo che gli darà fama.
Alla ricerca della fama e delle donne, Gabriele lascerà la moglie. Cominciarono a circolare leggende sulle innumerevoli amanti del poeta. Tra i suoi prescelti c’era la grande attrice italiana di fama mondiale Eleanor Duse. Era l’incarnazione delle donne, simile alle eroine delle opere di d’Annunzio – una natura nevrotica emancipata. Ha cercato di esporre le bugie di una vita coniugale misurata, lottando per la libera scelta e il diritto alla passione.
Eleonora lo trascinò a Firenze e lo aiutò a pagare grossi prestiti. E scrisse per lei le sue migliori commedie. Ma il romanzo è andato in pezzi dopo che l’attrice ha scoperto che il poeta lo tradiva. Gabriele ha flirtato con ogni donna lungo la strada. Ha sedotto i più ricchi. Così è stato con la moglie del conte Mancini, la figlia dell’ex presidente del Consiglio italiano Alessandro de Rudini, la scioccante socialiste marchesa Luisa Casatti, così come con una delle prime interpreti di danze erotiche sul grande palcoscenico – Ida Rubinstein. La descrizione di d’Annunzio sta in due parole: genio e sconvolgente.
Le storie d’amore vivide si intrecciavano con i duelli. Il poeta ribelle si lasciava facilmente coinvolgere nei conflitti. Una delle scaramucce si è conclusa con un fallimento. Il poeta fu ferito e le droghe che avrebbero dovuto mettere in piedi il duellante provocarono la calvizie. Ma questo non ha intaccato l’arte della seduzione di Gabriele. Un uomo calvo, basso e poco appariscente, è rimasto il sex symbol dell’Italia. Dava alle donne ciò che più desideravano: in sua compagnia, si sentivano al centro dell’universo. Sapeva convincere chiunque di qualunque cosa, tanto era grande il suo fascino.
Dalle liriche erotiche, d’Annunzio è passato ai poemi patriottici, la rinascita dell’antica gloria dell’antica Roma nell’Italia moderna. Alla vigilia della prima guerra mondiale, glorifica le imprese degli italiani nella guerra contro gli ottomani per la Libia, chiede l’uso della guerra come un’opportunità per espandere i confini. Quando il Regno d’Italia entrò in guerra nel 1915, il poeta si offrì volontario senza esitazione. Ha anche usato la guerra per le sue pubbliche relazioni. Si arruolò nell’élite – solo le forze aeree create. Durante la prima guerra mondiale, era difficile trovare qualcosa di più onorevole dell’essere un cavaliere celeste. Dopo un breve corso, il poeta nel 52 ° anno divenne il pilota più adulto dell’aviazione italiana. E poi è nato il suo aforisma: “Mai dire:” È troppo tardi per me per iniziare … “”
Tutta l’Italia lo seguì. Nella parte anteriore, è stato molto sentito. Ha ispirato i soldati solo con il suo coraggio, glorificando la grandezza di Roma e l’eroismo di Giuseppe Garibaldi. Durante una delle battaglie, il suo aereo è stato messo fuori combattimento. L’atterraggio è stato duro. Gabriele si è battuto violentemente al viso e si è ferito all’occhio. Tutta l’Italia applaudì quando, pochi mesi dopo, tornò in servizio. L’applauso è stato assordante quando il poeta-soldato ha organizzato il primo bombardamento ibrido. Lo squadrone di D’Annunzio percorse mille chilometri e lanciò 4.000 proclami su Vienna. Hanno predetto la sconfitta dell’Austria-Ungheria nello scontro con gli italiani e si sono conclusi pateticamente, dicono, potremmo sganciarvi bombe sulla testa, ma finora solo volantini!
D’Annunzio pose fine alla guerra con grande autorità alle spalle. E… si è buttato a capofitto nella vita pubblica! L’obiettivo principale del suo scherno erano i politici responsabili del fallimento dei negoziati sui nuovi confini del paese. La città portuale di Rijeka sul territorio dell’attuale Croazia (tra l’altro, Rijeka è chiamata così perché sorge sul fiume) era un pomo della contesa tra il regno d’Italia e il nuovo stato di serbi e croati. La città era abitata principalmente da italiani, che la chiamarono Fiume. Ma nelle terre circostanti vivevano per lo più croati, e non intendevano dare nulla agli italiani.
I negoziati a Parigi per Rijeka dovevano recidere. Tutti erano scioccati dal fatto che l’Italia non potesse fare nulla con la sua gente, che ha issato le bandiere italiane a Fiume. Fiume sembrava cercare qualcuno che avesse il coraggio di prendersi le proprie responsabilità e fosse il primo a proclamare la città italiana. Uno dei ricorsi è stato accolto da d’Annunzio. Ha accettato felicemente di guidare i temerari che hanno rifiutato l’accordo internazionale. Vedeva il ritorno di Fiume come una rinascita dell’antica potenza italiana.
A Fiume iniziò una sorta di rivoluzione, che avrebbe dovuto cambiare nella sostanza il potere in Italia. È emerso un movimento di camicie nere, combattenti per la giustizia per l’Italia. Il loro slogan era l’antico grido di battaglia greco: “Ay-ya, ah-ya, a-la-la-la!” Né la polizia né i militari potevano fermarli. Impossibile fermare D’Annunzio, che guidava il movimento delle camicie nere. Fu un eroe di guerra e un famoso poeta.
Fiume era controllata dal mare dalla flotta austro-ungarica. Era una posizione strategica. Fino a quando il destino di Fiume non fu deciso a Parigi, gli austro-ungarici cercarono di mantenere lo status quo. Nel febbraio 1918 d’Annunzio iniziò la sua campagna. Tre velieri italiani sfondarono le difese austro-ungariche nei pressi di Capo Bokar, ritenuto inespugnabile. Quando si avvicinarono alle navi nemiche, il sito del siluro inviò agli austro-ungarici delle bottiglie, nelle quali c’erano messaggi con scherno. D’Annunzio amava infastidire i nemici e scioccare il pubblico. Sapeva che la propaganda a volte sembra una bomba.
Per evitare inutili spargimenti di sangue, le truppe dell’Intesa lasciarono Fiume. La popolazione italiana salutò d’Annunzio con gioia, e il poeta si dilettava al potere. Uscito sul balcone tra una standing ovation, baciò teatralmente la bandiera italiana, la gettò a terra e proclamò solennemente Fiume una città italiana. La folla in basso ruggì di gioia! La Conferenza di pace di Parigi è in stallo. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra sono rimasti scioccati. Hanno invitato l’Italia a fermare la cattura di Fiume.
D’Annunzio era molto arrabbiato con la risposta di Roma. Già non gli piacevano né il re né i suoi rappresentanti alla conferenza, e dopo l’ordine di lasciare Fiume perse le staffe e definì tale decisione antipopolare. Roma rifiutò di accettare Fiume. D’Annunzio ha perso tutto. Nel 1920, scioccò gli italiani locali, che stavano semplicemente cercando di unirsi alla maggior parte del paese, e proclamò una Repubblica popolare di Fiume separata. I piani dei suoi governanti erano di aspettare il nuovo potere a Roma, che non avrebbe avuto paura di prendere Fiume in loro possesso.
Fiume fu riconosciuta solo dalla Catalogna e dalla Russia sovietica. E Fiume fu la prima a riconoscere la Russia sovietica. Gabriele d’Annunzio si proclama dittatore. Ha redatto in versi la costituzione dello stato autoproclamato! C’erano molte cose interessanti in esso. Ad esempio – educazione musicale obbligatoria per tutti i cittadini di Fiume. C’erano molte persone strane nel suo governo. Ad esempio, il ministro delle finanze è un uomo con più condanne per frode! Ha nominato il suo caro amico, direttore d’orchestra Arturo Toscanini, ministro della cultura.
La gioia generale è stata rafforzata da innumerevoli sfilate, celebrazioni festive, lunghi discorsi patetici dal palazzo. C’era nell’aria uno strano miscuglio di decadenza, anarchia e dittatura. C’erano droghe in libera circolazione. Il divieto è stato revocato da molti argomenti precedentemente tabù. Ciò riguardava la libertà delle relazioni intime, la legalizzazione della prostituzione, i problemi dell’emancipazione delle donne: tutto ciò risvegliava febbrilmente l’immaginazione.
La cocaina era ufficialmente legale a Fiume. Divenne un’abitudine per d’Annunzio. Gli era stato troppo affezionato sin dalla guerra. Questo spiega in parte la sua incessante storia d’amore e l’ossessione per il lato sensuale della vita. (Interessante! Sherlock Holmes di Conan Doyle era anche un cocainomane, ma non aveva romanzi e non era interessato al lato sensuale della vita. Fatta eccezione per la fugace passione di Irene Adler. Anche se… forse suonare il violino era una sublimazione di sensualità per lui?! – LB) Nel dicembre 1920, l’Intesa e gli Stati Uniti ordinarono all’Italia di porre fine all’autoproclamata Fiume. In cambio, all’Italia è stato promesso sostegno e generosi investimenti. Cominciarono a bloccare la città da terra e mare. In risposta alle azioni di Roma, d’Annunzio dichiarò guerra all’Italia e inviò diverse navi semplicemente pirata. (di V. Zhabotinsky)
Laman Bagirova. Durante la stesura del saggio, sono stati utilizzati materiali dall’articolo di Ilya Kormiltsev “Le tre vite di Gabriel D. Annunzio e estratti dal libro di E. Schwartz” Il ciclope alato “, nonché da altre fonti. Ulteriori informazioni su questo testo di origine. Per avere ulteriori informazioni sulla traduzione è necessario il testo di origine dato la città e la residenza del poeta-soldato. D’Annunzio era a pezzi. Si sentiva tradito. Un altro suo aforisma, triste in sostanza, appartiene a questo periodo: “Controlla attentamente tutti quelli che ti lodano e ti chiamano maestro. Tra loro potrebbe esserci non solo il tuo Giuda, ma anche il tuo Mussolini».
La città-stato di Fiume cessò di esistere dopo 15 mesi. I legionari in camicia nera hanno lasciato la città sotto tutela. Insieme a loro, D’Annunzio ha portato nella sua patria i sogni dell’Italia. Ma non è mai tornato alla politica seria. Il leader del nuovo partito, Benito Mussolini, lo mise in una gabbia d’oro. Era desideroso di potere e non aveva bisogno di un vecchio leader carismatico. Il governo ha assegnato un terreno a d’Annunzio, un’antica fattoria. Lo ha trasformato in un complesso artistico. Ben presto Villa Vittoriale divenne un monumento d’arte.
Ulteriori informazioni su questo testo di origine Per avere ulteriori informazioni sulla traduzione è necessario il testo di origine il campeggio divenne una nave da guerra nel parco vicino all’edificio. Uscendo sul ponte, il poeta amava scrivere le sue memorie.
In questa villa terminarono le giornate terrene del poeta. Morì nella primavera del 1938. L’eredità della vita colorata di un poeta, amante, aviatore, soldato e politico ha avuto un enorme impatto sull’Italia. Il simbolo principale, sua idea, la città-stato di Fiume, emigrò al partito di Mussolini. Inoltre i soldati di d’Annunzio insegnarono ai nazisti a salutare. Mussolini, e poi Hitler, raccolsero di buon grado il gesto dei legionari romani, che sollevò dall’oblio proprio Gabriele d’Annunzio – poeta, critico d’arte, soldato, politico… Un uomo di oltraggio. Teatrale in tutto e per tutto e allo stesso tempo estremamente sincero. Credeva davvero in quello che stava facendo. È bene anche se la sincerità è diretta al bene.
Sono come un pescatore stanco di pescare. Si sdraiò all’ombra sotto un melo. La giornata è vissuta: non disturberà i cervi sensibili e non tirerà più la corda dell’arco. – I frutti invitano attraverso il fogliame luminoso – è pigro per loro di cadere, non aiuterà: solleverà solo quello (e potrebbe essere), che il ramo cadrà liberamente sull’erba. – Ma anche per immergersi profondamente nella dolcezza non lo darà ai denti: quello che c’è in fondo è veleno. Bevendo il profumo, beve le gocce di rugiada del succo senza fretta, non triste e non felice, alimentato dal mondo della luce morente. – La sua canzone era breve e cantata.
Laman Bagirova
Durante la stesura del saggio, sono stati utilizzati materiali dall’articolo di Ilya Kormiltsev “Le tre vite di Gabriel D. Annunzio e estratti dal libro di E. Schwartz” Il ciclope alato “, nonché da altre fonti.
A Sergej Aleksandrovič Esenin – Poesia di Vladimir Majakovskij
Nella notte tra il 27 e il 28 dicembre Sergej Aleksandrovič Esenin morì impiccato nella sua stanza d’albergo, all’età di 30 anni.
[ Chi devo chiamare? Con chi posso dividere la triste gioia di essere vivo?]
Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Mio caro, sei nel mio cuore.
Questa partenza predestinata
Promette che ci incontreremo ancora.
Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola
Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli.
In questa vita, morire non è una novità,
ma, di certo, non lo è nemmeno vivere.
Per tutta la sua breve vita si era tenuto in bilico tra euforia, malinconia, stati depressivi. Il suo suicidio, un secondo e riuscito tentativo succeduto a poche ore dal primo, è avvolto nel mistero e così anche la genesi e il ritrovamento di quella che si ritiene essere la sua ultima poesia. Si narra infatti che la notte del 27 dicembre del 1925 Esenin scrisse col proprio sangue una poesia d’addio: Arrivederci, amico mio, arrivederci (До свиданья, друг мой, до свиданья). La poesia, non chiara, sarebbe stata da Esenin consegnata ad un amico, con la promessa di leggerla solo il giorno dopo; nel frattempo, Esenin si sarebbe impiccato. Probabilmente è una poesia d’amore e d’addio per il poeta Anatoli Marienhof (o Anatolij Mariengof) che era stato suo amante (e per un certo tempo anche convivente) negli ultimi quattro anni della sua vita.
Che il tempo
esploda dietro a noi
come una selva di proiettili.
Ai vecchi giorni
il vento
riporti
solo
un garbuglio di capelli.
Per allegria
il pianeta nostro
è poco attrezzato.
Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni futuri.
In questa vita
non è difficile
morire.
Vivere
è di gran lunga più difficile.
A Sergej Esenin – di Vladimir Majakovskij
-Biografia di Sergej Aleksandrovic Esenin
Biografia di Sergej Aleksandrovic Esenin nacque il 3 ottobre ( 21 settembre secondo il vecchio ordinamento) del 1895 presso il villaggio Konstantinovo nella provincia di Ryazan, in una famiglia di contadini.
Sin dall’età di 12 anni, suo padre prestò servizio in un negozio di Mosca, visitando il villaggio, anche dopo il matrimonio, solo per brevi visite. Gli anni dell’infanzia (1899 – 1904), Sergej Esenin li passò con il nonno e la nonna da parte di madre – Fedor e Natalia Titovj.
Nel 1904 Esenin entrà nella scuola ( 4 anni) di Konstantinovo, dalla quale uscirà nel 1909 con il massimo dei voti.
Nel 1912 si diploma alla scuola per insegnanti “Spas-Klepikovskaya” con il titolo di insegnante di scuola di lettere.
Nell’estate del 1912 Esenin si trasferisce a Mosca, dove lavorò per qualche tempo in una macelleria, la stessa in cui lavorava suo padre. Dopo aver litigato con il padre si licenziò e lavorò prima per un editore e poi per la tipografia di Ivan Sitin negli anni 1912 – 1914. Durante questo periodo il poeta si unì ai lavoratori dal pensiero rivoluzionario ed era tenuto sotto controllo dalla polizia.
Durante il periodo del 1913 – 1915 Esenin fu volontario presso il dipartimenti storico-filosofico dell’università popolare di Mosca Shanyavskogo. A Mosca si avvicino agli scrittori del circolo Letterario – musicale Suryvskogo, composto da scrittori autodidatti provenienti dal popolo.
Esenin scrisse poesie sin dall’infanzia, principalmente sotto l’influenza di Alexey Koltsov, Ivan Nikitin e Spiridon Drozhzin. Nel 1912 aveva già scritto il poema “La leggenda di Evpatya Kolovrat, Batu Khan, l’idolo nero e il nostro salvatore gesù cristo”, oltre ad aver scritto una collezione di versi chiamata “Pensieri Malati”. Nel 1913 il poeta lavorò al poema “Tosca” e al poema drammatico “Profeta”, testi molto conosciuti.
Nel gennaio 1914 sul giornale “Mirok” ci fu la prima pubblicazione del poeta sotto lo pseudonimo “Ariston”, la poesia “Betulla”. A febbraio lo stesso giornale pubblicò “Passeri” e “Porosha”. Successivamente – “villaggio” e “vangelo pasquale”.
Nell’inverno del 1915 Esenin arrivò a Pietrogrado ( San Pietroburgo), dove si conobbe con il poeta Aleksandr Blok, Sergey Gorodetsky e Aleksey Remisov e si avvicinò a Nikolay Klyuyev, che lo influenzò molto. Le loro esibizioni congiunte, nelle quali proponevano versi scritti nello stile contadino e popolare ottennero molto successo.
Nel 1916 uscì la prima raccolta di versi di Esenin, “radunitsa”, Che la critica accolse con entusiasmo vedendo in esso un flusso giovane e fresco.
Da Marzo 1916 a marzo 1917 Esenin si arruolò nell’esercito, inizialmente nel battaglione di riserva, locato a San Pietroburgo, poi da aprile servì sul treno sanitario militare Tsarskoye Selo numero 143. Dopo la rivoluzione di febbraio si congedò spontaneamente dall’esercito.
All’inizio del 1918 Esenin si trasferì a Mosca. Sposando con entusiasmo la rivoluzione, scrisse alcuni poemi – “Colomba di Giordania”, “Inonia” e “Tamburista del cielo” – Intrisi di un gioioso presagio di trasformazione della vita.
Nel periodo 1919 – 1921 entrò a far parte del gruppo degli immaginisti, i quali sostenevano che l’obiettivò della creatività è quello di creare un’immagine.
All’inizio degli anni venti nelle composizioni di Esenin apparirono le tematiche tipiche di una vita tormentata da venti di bufera, le prodezze dettate dall’ubriachezza diventarono angoscia, e si rifletterono nelle sue raccolte “Confessioni di un teppista” (1921) e “Mosca delle bettole”(1924).
Un’importante avvenimento nella vita di Esenin fu l’incontro, nell’autunno del 1921, con l’attrice americana Isidora Dunkan, che dopo 6 mesi diventò sua moglie.
Dal 1922 al 1923 i due viaggiarono per l’Europa ( Germania, Belgio, Francia e Italia) e in America, ma subito dopo il ritorno in patria i due si separarono.
Durante gli anni venti vennero scritte le composizioni che più di ogni altra diedero fama a Esenin:
“ Ha smesso di parlare il boschetto d’orato”, “Lettera alla madre”, “Noi adesso ce ne andiamo poco a poco”, il ciclo “Motivi persiani”, il poema “Anna Snegina” e altri. Il tema della patria che occupò sempre uno dei punti cardine delle sue creazioni, in questo periodo acquisì dei toni drammatici. Quello che una volta era il mondo unito e armonico della Rus’ di Esenin si divise: “ Rus’ Sovietica” – “Rus uscente”. Nelle raccolte “Rus’ Sovietica” e “Nazione Sovietica” (entrambe del 1925). Esenin si sentì come un cantore della “capanna d’oro”, poesia la quale qui non serve a nessuno. I paesaggi autunnali e gli addii diventarono il motivo dominante dei testi.
Gli ultimi due anni di vita del poeta furono segnati dagli spostamenti, tre volte si recò nel Caucaso, in svariate occasioni andò a Leningrado ( San Pietroburgo) e 7 volte a Konstantinovo.
Alla fine del novembre 1925 il poeta finì in una clinica neuropsicologica. Una delle ultime produzioni di esenin fu il poema “L’uomo nero”, in cui la vita passata fa parte di un incubo notturno. Interrompendo il trattamento, il 23 dicembre Esenin partì per Leningrado.
Il 24 dicembre 1925 si fermò presso l’albergo Angleterre, dove il 27 dicembre scrisse la sua ultima poesia “ Arrivederci amico mio, arrivederci…”
La notte del 28 dicembre 1925, secondo la versione ufficiale Sergej Esenin si tolse la vita, suicidandosi. Il poeta fu trovato la mattina del 28 dicembre. Il suo corpo pendeva da una tubatura dell’acqua sotto il soffitto, ad un’altezza di quasi tre metri. Le autorità cittadini non condussero nessuna indagine seria, e si limitarono al rapporto di un poliziotto locale.
Una commissione formata specialmente per l’occasione nel 1913 non confermò altre varianti sulla morte del poeta, se non quella ufficiale.
Sergej Esenin giace oggi presso il cimitero di Vagankovo, a Mosca.
Il poeta fu sposato più di una volta. Nel 1917 si unì a Zinaida Reich ( 1897 – 1939), segretaria- dattilografa del giornale “Delo Naroda”. Da questo matrimonio nacquero la figlia Tatiana (19178 – 1992) e il figlio Konstantin (1920 – 1986). Nel 1922 Esenin si sposò con la ballerina americana Isidora Dunkan. Nel 1925 diventò sua compagna Sofia Tolstaja ( 1900 – 1957), nipote dello scrittore Lev Tolstoj. Il poeta ebbe un figlio Yuri ( 1914 – 1937) dal matrimonio civile con Anna Izryadnova. Nel 1924 a Esenin nasce il figlio Akeksandr dalla poetessa e traduttrice Nadezhda Volpin – matematica e attivista del momento dei dissidenti, che nel 1972 si trasferì negli USA.
Nel giorno del 2 ottobre 1965, in onore del settantesimo compleanno del poeta, nel villaggio di Konstantinovo, nella casa dei suoi genitori aprì il museo S.A. Esenin – Uno dei più grandi complessi museali della Russia.
il 3 ottobre del 1995 a Mosca presso il numero 24 del Bolshoi Strochnevsky Pereulok, dove negli anni tra il 1911 e il 1918 risiedeva Esenin, venne istituito il Museo Nazionale Moscovita S. A. Esenin.
Esiste anche un ulteriore museo dedicato a Sergej Esenin dal 1981 a Tashkent ( Uzbekistan).
Materiale preparato tramite informazioni di RIA novosti e fonti aperte.
Fonte: ria.ru, 28/12/2015 – di Ria Novosti, tradotto da Axel Grieco
Axel Grieco –Nato nel 1995, appassionato di lingua e cultura russa. Ho vissuto in Russia, cercando di entrare nello strato sociale della realtà di tutti i giorni nella maniera più assoluta possibile. Adoro tutto ciò che riguarda la cultura meno conosciuta di questo paese.
Alcune Poesie di Sergej Aleksandrovic Esenin
Sul piatto azzurro del cielo
Sul piatto azzurro del cielo
C’è un fumo melato di nuvole gialle,
La notte sogna. Dormono gli uomini,
L’angoscia solo me tormenta.
Intersecato di nubi,
Il bosco respira un dolce fumo.
Dentro l’anello dei crepacci celesti
Il declivio tende le dita.
Dalla palude giunge il grido dell’airone,
Il chiaro gorgoglio dell’acqua,
E dalle nuvole occhieggia,
Come una goccia, una stella solitaria.
Potere con essa, in quel torbido fumo,
Appiccare un incendio nel bosco,
E insieme perirvi come un lampo nel cielo.
Non invano hanno soffiato i venti
Non invano hanno soffiato i venti,
non invano c’è stata la tempesta.
Un misterioso qualcuno ha colmato
i miei occhi di placida luce.
Qualcuno con primaverile dolcezza
ha placato nella nebbia azzurrina
la mia nostalgia per una bellissima,
ma straniera, arcana terra.
Non mi opprime il latteo silenzio,
non mi angoscia la paura delle stelle.
Mi sono affezionato al mondo e all’eterno
come al focolare natio.
Tutto in esso è buono e santo,
e ciò che turba è luminoso.
Schiocca sul vetro del lago
il papavero rosso del tramonto.
E senza volerlo nel mare di grano
un’immagine si strappa dalla lingua:
il cielo che ha figliato
lecca il suo rosso vitello.
Nella frescura d’autunno è bello
Nella frescura d’autunno è bello
scuotere al vento l’anima – che pare una mela –
e guardare l’aratro del sole
che solca sopra al fiume l’acqua azzurra.
È bello strapparsi dal corpo
il chiodo ardente d’una canzone
e nel bianco abito di festa
aspettare che l’ospite bussi.
Io mi studio, mi studio col cuore di serbare
negli occhi il fiore del ciliegio selvatico.
Solo nel ritegno i sentimenti si scaldano
quando una falla rompe il petto.
In silenzio rimbomba il campanile di stelle,
ogni foglia è una candela per l’alba.
Nessuno farò entrare nella stanza,
non aprirò a nessuno la porta.
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
verso il paese dov’è gioia e quiete.
Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere
le mie spoglie mortali per il viaggio.
Care foreste di betulle!
Tu, terra! E voi, sabbie delle pianure!
Dinanzi a questa folla di partenti
non ho forza di nascondere la mia malinconia.
Ho amato troppo in questo mondo
tutto ciò che veste l’anima di carne.
Pace alle betulle che, allargando i rami,
si sono specchiate nell’acqua rosea.
Molti pensieri in silenzio ho meditato,
molte canzoni entro di me ho composto.
Felice io sono sulla cupa terra
di ciò che ho respirato e che ho vissuto.
Felice di aver baciato le donne,
pestato i fiori, ruzzolato nell’erba,
di non aver mai battuto sul capo
gli animali, nostri fratelli minori.
So che là non fioriscono boscaglie,
non stormisce la segala dal collo di cigno.
Perciò dinanzi a una folla di partenti
provo sempre un brivido.
So che in quel paese non saranno
queste campagne biondeggianti nella nebbia.
Anche perciò mi sono cari gli uomini
che vivono con me su questa terra.
Arrivederci, amico mio, arrivederci
Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Tu sei nel mio cuore.
Una predestinata separazione
Un futuro incontro promette.
Arrivederci, amico mio,
senza strette di mano, senza parole,
Non rattristarti e niente
Malinconia sulle ciglia:
Morire in questa vita non è nuovo,
Ma più nuovo non è nemmeno vivere.
A quest’ultima poesia di Esenin, come è noto scritta con il sangue e dedicata al poeta Anatoli Marienhof, rispose, poco tempo più tardi, Vladimir Majakovskij:
Ing.Andrea Natile-La fuga di uno dei ragazzi di via Panisperna-
Ottima famiglia, bell’aspetto, grande giocatore di tennis, avrebbe potuto diventare un professionista, appassionato di pesca subacquea e di sci nautico. Amava le automobili veloci, e in quela fuga dovette abbandonare l’ultima, che lasciò nell’officina del suo meccanico di fiducia per non lasciare tracce dietro di se; uno dei suoi rimpianti. Il rimpianto più grande fu sicuramente lasciare Roma, quella città che aveva condiviso con quei ragazzi.
Non aveva ancora quarant’anni, quando scelse di andare a vivere in quel posto freddo, molto diverso da quelli dove era nato, la Versilia, e poi Roma, dove aveva deciso di andare per studiare Fisica.
Perchè? Lo raccontò in un’intervista a Miriam Mafai, quando ormai aveva ottant’anni. Alla domanda della sua amica giornalista: “Bruno, ti sei pentito di quella scelta fatta quarant’anni fa?” Bruno rispose: “Ci ho pensato molto, non puoi immaginare quanto. Ma non riesco a dare una risposta”.
Bruno Pontecorvo era nato a Marina di Pisa, nell’agosto del 1913, in una famiglia bene di origini ebraiche. I suoi primi studi sono di ingegneria all’università a Pisa, ma poi, superato il biennio, aveva pensato che non faceva per lui: voleva fare il ricercatore. Nel 1931, si trasferisce a Roma, dove insegnava il grande Enrico Fermi.
Fermi e Rasetti, gli fanno il colloquio di ammissione al terzo anno della Facoltà di Fisica. Fu così che entrò a far parte di quel gruppo “i ragazzi di via Panisperna”; aveva solo diciotto anni e per questo lo soprannominarono “cucciolo”. Nel 1934 c’era, quando scoprirono gli “elettroni lenti”: quel cucciolo era entrato nella storia della Fisica che conta.
Nel 1936, era a Parigi con una borsa di studio per studiare con Frédéric Joliot e Irène Curie, che l’anno dopo vinsero il Nobel per la scoperta della radioattività artificiale.
A Parigi Bruno incontrò Marianne, una giovane svedese che divenne poco tempo sua moglie e che gli diede il suo primo figlio Gil.
Era scoppiata la guerra in Spagna e cominciò a interessarsi di politica. Gran parte dei suoi colleghi erano di sinistra, anche Irène e Frédéric Joliot; lui attivo comunista, era membro del governo di Léon Blum.
Nella capitale francese era presente anche suo cugino Emilio Sereni, dirigente del PCI, esule, in Francia, perchè perseguitato dai fascisti. Grazie a lui Bruno stabilì rapporti d’amicizia con gli intellettuali emigrati a Parigi per la politica: si iscrisse al partito.
Dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali del 1938 lui, ebreo e comunista, era dovuto restare in Francia. Poi le cose cominciarono a precipitare: nel settembre del ‘39 scoppiò la guerra e nel giugno del ‘40 ci fu l’invasione di Parigi da parte dei tedeschi.
Per gente come lui non c’era più posto nel Vecchio Continente. Con Marianne, decise di lasciare la Francia; scapparono, prima in bicicletta per la Spagna, poi in nave per gli Stati Uniti.
Nell’agosto del 1940, dopo una visita al suo maestro Fermi che era alla Columbia di New York, trovò lavoro in una compagnia petrolifera. Aveva messo a punto una tecnica di introspezione di nuovi pozzi petroliferi, con il tracciamento dei neutroni lenti.
Poco dopo, anche gli Stati uniti entrarono in guerra; era partito il Progetto Manhattan per la costruzione dell’atomica, ma lui non fu coinvolto, probabilmente a causa delle sue idee comuniste.
Nel ‘43 si trasferisce in Canada; lavora a ricerche teoriche nel campo dei raggi cosmici, delle particelle elementari ad alta energia, e aspetta la fine della guerra.
Nel ’47, riprendendo studi condotti anni prima dall’amico Ettore, portò avanti importanti ricerche sulla fisica di quella particella strana, il neutrino di Majorana. Diventò uno dei più grandi esperti del settore.
Nel 1948, su invito di John Cockcroft (Nobel per la Fisica nel ‘51) si trasferì nei pressi di Oxford in Inghilterra e lì prese anche la cittadinanza. Lavorava nell’Atomic Energy Research Establishment, il principale centro di ricerche nucleari voluto dal governo inglese.
Partecipò solo marginalmente al progetto per la costruzione dell’atomica inglese, i suoi studi principali, erano sempre sui raggi cosmici.
In occasione delle sue trasferte scientifiche, aveva conosciuto Klaus Fuchs, il fisico che poco dopo fu condannato per spionaggio in favore dell’Unione Sovietica. Si era nel periodo di “caccia alle streghe” ed è lì che forse maturò la sua scelta di campo.
Nell’estate del 1950 lasciò la sua casa vicino Oxford, senza avvertire nessuno; con la sua famiglia raggiunse l’Italia. Dopo un breve periodo Roma, abbandonò la amata macchina. L’intera famiglia prese un aereo con destinazione Stoccolma e da lì si imbarcò per Helsinki; destinazione Leningrado.
Nascosti nel bagagliaio di due auto i Pontecorvo attraversarono la cortina di ferro. Entrati in Unione Sovietica e giunti a Mosca, furono sistemati in un comodo appartamento in via Gorkij. I sovietici erano gentili, ma inflessibili sulla segretezza: per alcuni mesi furono costretti al più completo isolamento.
Trasferiti a Dubna, a un centinaio di chilometri dalla capitale, dove c’era l’aristocrazia della Fisica sovietica, gli diedero la direzione di una divisione sperimentale di Fisica Nucleare, libero di condurre le sue ricerche.
Nel 1959, per primo dimostrò per via teorica l’esistenza di diversi tipi di neutrini come già aveva ipotizzato nel ‘47. Stava nascendo la fisica dell’alta energia, anche in Russia, ma, con l’acceleratore di particelle di Dubna, troppo poco potente, non riuscì a provare le sue ipotesi per via sperimentale.
Soltanto agli inizi degli anni Sessanta, gli americani Leon Ledermann, Melvin Schwartz e Jack Steinberger confermarono la scoperta del fisico italiano. Questa scoperta valse ai tre fisici il premio Nobel nel 1988. L’esclusione dal premio di colui che per primo aveva l’aveva prevista suscitò lo scalpore di buona parte della comunità scientifica internazionale.
Inammissibile darlo ad un cittadino italiano, scappato dall’Inghilterra, per di più diventato cittadino sovietico dal 1952, che aveva ricevuto il Premio Stalin e faceva parte dell’Accademia sovietica delle scienze.
Per molti anni non poté lasciare l’URSS e riuscì a ritornare la prima volta in Italia solo nel 1978 in occasione del settantesimo compleanno di Edoardo Amaldi. In quello stesso anno comparvero i primi sintomi del morbo di Parkinson che progressivamente, senza mai togliergli lucidità, limiterà i suoi movimenti.
Poi nel ‘93 a Dubna, a causa di quel maledetto male, cadde bruscamente dalla bicicletta e come conseguenza di una brutta fattura morì 24 settembre 1993
Brani scelti: LEONARDO SCIASCIA, Il Globo, 24 luglio 1982.
Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.
In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.
In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia.
19 novembre 1942 Cara Kitty, come avevamo immaginato Dussel è d’accordo di dividere la stanza con me. (…) Dussel ci ha raccontato molte cose del mondo di fuori, da cui ormai manchiamo da tempo. Sa cose molto tristi. Innumerevoli amici e conoscenti sono andati verso un destino terribile. Le automobili militari verdi o grige vanno avanti e indietro di continuo. Suonano a tutte le porte e chiedono se ci sono ebrei. Se sì, si portano via tutta la famiglia, se no vanno via. Nessuno può sottrarsi a quel destino se non si nasconde. Di sera al buio di frequente vedo camminare quelle file di buona gente innocente, con bambini che piangono, sempre a piedi, comandati da un paio di quei ceffi, picchiati e torturati fino a crollare a terra. Non si salva nessuno, vecchi, bambini, neonati, donne incinte, malati, tutti, tutti camminano verso la morte. Come stiamo bene noi, qui belli tranquilli. Non dobbiamo neanche curarci di tutta questa miseria se non fossimo tanto preoccupati per tutti quelli che ci sono cari e che non possiamo più aiutare. Mi sento male a pensare che mentre io dormo in un letto caldo le mie più care amiche sono state buttate per terra o sono crollate da qualche parte. Io stessa ho paura se penso a tutti quelli cui mi sentivo così intimamente legata e che adesso sono in mano ai più crudeli carnefici mai esistiti. E tutto questo perché sono ebrei. Tua Anne Foto: Anne Frank House
LA DISFIDA DI BARLETTA E’ STATA COMBATTUTA A TRANI
L’ANTEFATTO. LE MIRE EPANSIONISTICHE FRANCESI SULL’ITALIA
Nel 1494 il nuovo Re di Francia, Carlo VIII di Valois, che ha solo 24 anni, vuole estendere il suo Regno. Pertanto, il 3 settembre “cala” in Italia con un potente esercito di 30.000 uomini (8.000 dei quali sono mercenari svizzeri), dotato anche di artiglieria moderna, guidato da Louis de la Trémoille, vantando diritti di successione, da parte della nonna paterna Maria D’Angiò, sul Regno di Napoli, governato da un ramo collaterale degli Aragona, sovrani di Spagna e di Sicilia.
La conquista del regno napoletano gli serve come base di partenza per una Crociata per riconquistare Gerusalemme, di cui probabilmente ambisce a diventare Re.
In Piemonte si ferma ad Asti dove riceve l’omaggio dei suoi “sostenitori” italiani, compreso Ludovico Sforza, detto Il Moro, reggente del Ducato di Milano, di cui qualche mese dopo, in seguito alla morte di Gian Galeazzo Sforza (probabilmente per avvelenamento), diventa Duca, con il sostegno del Re francese.
Carlo VIII marcia quindi verso Firenze, che era tradizionalmente filo francese, ma Piero de’ Medici (figlio di Lorenzo, detto Il Magnifico) si era schierato in difesa degli Aragonesi, sovrani di Napoli. Pertanto il Re francese attacca e saccheggia alcune cittadine toscane costringendo Piero de’ Medici a cedere altre città, tra le quali Pisa e Livorno. Questo cedimento induce la popolazione fiorentina, dopo la partenza dei Francesi, a cacciare Piero ed a proclamare la Repubblica.
Carlo VIII marcia poi verso Roma, dove entra pacificamente il 31 dicembre, dopo aver fatto un accordo con il Papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, di origine spagnola). Ciononostante, la città è saccheggiata dalle truppe francesi. Il Papa concede a Carlo VIII il passaggio nello Stato pontificio verso il Regno di Napoli, affiancandogli come Legato (rappresentante) pontificio il figlio Cesare Borgia (che è diventato Cardinale in giovane età).
Il Re francese, nella sua marcia verso il Regno napoletano, conquista altre città, che sono saccheggiate e la popolazione è in gran parte trucidata.
Il 22 febbraio 1495 entra a Napoli senza combattere dato che il Re aragonese Ferdinando II, detto Ferrandino, è fuggito con la Corte. Dopo pochi giorni Carlo VIII si fa incoronare Re. Però a maggio il popolo napoletano insorge contro i Francesi, che sono costretti a lasciare la città ed a ritornare in patria.
La facilità e la rapidità con la quale il Re francese era arrivato a Napoli e l’aveva conquistata, compiendo lungo il suo cammino efferate violenze sulla popolazione delle città conquistate, portano il 31 marzo 1495 alla costituzione di una Lega Santa antifrancese da parte del Sacro Romano Impero, della Spagna, del Papato, della Repubblica di Venezia e del Ducato di Milano. Quindi, il 6 luglio 1495 l’esercito della Lega sconfigge a Fornovo il Re francese, mentre sta tornando in patria.
Finisce così la prima di una serie di guerre condotte in Italia dalle grandi Potenze continentali (soprattutto Francia e Spagna) per la spartizione del territorio italiano, comunemente dette “guerre d’Italia” e definite “orrende” da Niccolò Macchiavelli, che cessano nel 1559 con la Pace di Cateau-Cambrésis, che cambia profondamente la geografia politica della penisola italiana.
Nel 1498 Carlo VIII muore senza eredi, a soli 27 anni, e gli succede il cugino Luigi XII di Valois-Orléans, detto Il Padre del Popolo, il quale, con un accordo con il Papa Alessandro VI, ottiene l’annullamento del matrimonio con Giovanna di Valois e sposa la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, acquisendo così i diritti di successione sul Ducato di Bretagna.
Luigi XII persegue la politica espansionistica del suo precedessore e ben presto rivendica il possesso del Ducato di Milano in quanto Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo, era sua nonna.
Però, per evitare i “problemi politici” che Carlo VIII aveva avuto in Italia, prima di venire nel nostro Paese Luigi XII stipula una serie di accordi diplomatici, che gli assicurano il sostegno alla sua pretesa di ottenere il Ducato di Milano.
Per primo ottiene l’appoggio del Papa Alessandro VI, donando nel 1498 a Cesare Borgia, figlio del pontefice, la Contea di Valentinois, che viene eretta in Ducato (pertanto Cesare assume il soprannome di Valentino) e gli concede anche di sposare la nobile Charlotte d’Albret, sorella del Re di Navarra Giovanni II. Inoltre promette di appoggiare il progetto di Cesare di riconquistare la Romagna, dove i feudatari locali si sono ribellati al potere papale.
Inoltre il 2 febbraio 1499 Luigi XII stipula a Blois un trattato con la Repubblica di Venezia concedendo alla Serenissima le città di Cremona e di Chiara d’Adda.
Infine, il 16 marzo 1499 stipula un Trattato con i Cantoni svizzeri, concedendo ad essi la Contea di Bellinzona (il Canton Ticino).
Dopo questi accordi Luigi XII viene in Italia con un forte esercito e conquista Genova. Inizia così la Seconda guerra italiana (detta anche “Guerra italiana di Luigi XII” o “Guerra per il Regno di Napoli”), che si conclude il 31 gennaio 1504 con l’Armistizio di Lione tra Luigi XII ed il sovrano spagnolo Ferdinando II d’Aragona.
Il 2 settembre 1499 i Francesi, guidati da Gian Giacomo Trivulzio, espugnano Milano e Ludovico Sforza, detto Il Moro, ripara in Tirolo, protetto dall’Imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo, che è il marito di sua nipote Bianca Maria Sforza.
Nel marzo 1500 Ludovico Il Moro riesce a riprendere il possesso di Milano con l’aiuto delle truppe imperiali, ma il 10 aprile 1500 è costretto dai Francesi a riparare a Novara, dove è tradito dai mercenari svizzeri che lo consegnano ai Francesi, che lo portano in Francia, dove muore nel 1508.
Dopo la conquista di Milano, l’esercito francese, con Cesare Borgia che è diventato luogotenente di Luigi XII, scende in Romagna.
Intanto, il Papa Alessandro VI invia ai feudatari di Camerino, Faenza, Forlì, Imola, Pesaro e Urbino una lettera dichiarandoli decaduti dai loro feudi, che li invita a restituire allo Stato Pontificio. Naturalmente nessun feudatario obbedisce all’ingiunzione del Papa e quindi inizia la guerra, che è molto cruenta. La prima città conquistata da Cesare Borgia è Imola, l’11 dicembre 1499. Poi cade Forlì, che è saccheggiata dalle truppe mercenarie, che compiono violenze sulla popolazione.
Dopo aver riconquistato tutti i feudi, Il Valentino riceve dal padre, il Papa Alessandro VI, il titolo di Duca di Romagna.
In seguito, Il Valentino scampa ad una congiura. Per vendicarsi invita, singolarmente, per la pacificazione, tra il 31 dicembre 1500 ed il 18 gennaio 1501, i congiurati nel suo castello di Senigallia e li fa uccidere. La “strage di Senigallia” è raccontata da Niccolò Macchiavelli nella sua opera principale Il Principe.
Però, nel 1503, morto il Padre Alessandro VI, che lo proteggeva, il nuovo Papa Giulio II fa arrestare Cesare Borgia e riprende il possesso della Romagna. Cesare Borgia riesce ad evadere e si rifugia in Spagna, dal cognato Giovanni d’Albert, Re di Navarra, dove muore nel 1507 durante una guerra locale.
IL TRATTATO DI GRANADA TRA LA FRANCIA E LA SPAGNA
PER LA SPARTIZIONE DEL REGNO DI NAPOLI
Il 10 ottobre 1500, nel castello di Chambord il Re francese Luigi XII firma il Trattato (segreto) di Pace e di Alleanza con i sovrani spagnoli Ferdinando II d’Aragona, detto Il Cattolico (che è anche Re di Sicilia), e sua moglie (nonché sua cugina) Isabella di Castiglia, per la spartizione del Regno di Napoli (che è il Regnum Siciliae citra Pfharum, cioè la parte del Regno di Sicilia al di qua del Faro, cioè dello Stretto di Messina). L’accordo è giustificato dalla necessità di combattere uniti contro i Turchi, che scorrazzano nel Mediterraneo.
Il Trattato, ratificato dai sovrani spagnoli l’11 novembre 1500 nel palazzo dell’Alhambra di Granada, strappato agli Arabi nel 1492, prevede l’assegnazione alla Francia delle regioni continentali settentrionali del Regno di Napoli, cioè la Campania e gli Abruzzi, ed alla Spagna di quelle meridionali, cioè la Calabria e le Puglie.
Il Trattato prevede inoltre la spartizione al 50% degli introiti della Dogana delle pecore di Puglia (Duana pecorum Apuliae) ubicata a Foggia, al termine del “tratturo” più importante per la “transumanza” degli ovini dall’Abruzzo alle Puglia, che parte da Celano.
Ferdinando II, Re di Aragona, mira in questo modo ad eliminare la dinastia collaterale aragonese che governa il Regno di Napoli con Federico I d’Aragona, zio del Re Ferdinando II (Ferrandino), morto nel 1496, ed ad unirlo al Regno di Sicilia.
Il 25 giugno 1501 il Pontefice Alessandro VI emana una Bolla papale con la quale dà il proprio assenso al Trattato e scomunica il Re napoletano Federico I, accusandolo di aver fatto un accordo con i Turchi, il quale, quindi, è dichiarato decaduto dal Regno. Molto probabilmente, nella decisione del Papa influisce la decisione della Principessa di Taranto Carlotta d’Aragona, figlia di Federico I, di aver rifiutato di sposare Cesare Borgia, annullando l’ambizioso progetto del Pontefice di mettere il figlio sul trono napoletano.
Quando i Francesi invadono da Nord il Regno di Napoli, il Re Federico I, essendo all’oscuro del Trattato di Granada, chiede aiuto al cugino Ferdinando II, il quale, invece, invade con le sue truppe il Regno di Napoli da Sud. A questo punto, Federico I capisce il tradimento ordito dal cugino Ferdinando II.
Il 19 luglio 1501 Cesare Borgia, con l’esercito francese, assedia Capua, che e conquistata dopo 7 giorni grazie al tradimento di un cittadino, corrotto da IlValentino, che apre le porte della città all’orario stabilito, consentendo alle truppe francesi e papali di entrare, massacrando la guarnigione militare e la popolazione.
Il Re napoletano Federico I cerca di trattare la resa, invano. Poi abdica in favore del Re francese. Così, il 19 agosto i Francesi entrano a Napoli e Luigi XII diventa Re di Napoli (Rex Neapolis). Poi ritorna in Francia, nominando come Viceré il nobile Louis d’Armagnac, Duca di Nemours. Inizia così il lungo periodo dei Viceré di Napoli: dal 1501 al 1504 sotto la Corona francese; da 1504 al 1707 sotto la Corona spagnola; dal 1707 al 1734 sotto gli Asburgo d’Austria.
Il 6 settembre 1501 Federico I d’Aragona parte per la Francia, scortato da alcuni suoi fidati cavalieri (mercenari), tra i quali Ettore Fieramosca. Nel maggio 1502, come compenso per la sua rinunzia al Regno di Napoli, ottiene dal Re francese Luigi XII il titolo di Duca d’Angiò. Muore il 9 novembre 1504. La dinastia degli Aragonesi di Napoli si estingue nel 1550.
Il 13 ottobre 1501, con il Trattato di Trento, stipulato dal Re francese Luigi XII e dall’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, quest’ultimo riconosce il possesso francese nell’Italia settentrionale (Ducato di Milano e Genova, occupati nel 1499).
LA GUERRA TRA I FRANCESI E GLI SPAGNOLI PER IL REGNO DI NAPOLI
Ben presto scoppiano dissidi tra la Francia e la Spagna sulla spartizione del Regno di Napoli, in base al Trattato di Granada, in particolare sulla definizione dei confini tra alcune delle 12 Provincie del Regno. Sicuramente, un altro motivo di contrasto è la spartizione delle immense entrate della Dogana delle pecore di Foggia, che ammontano a 160.000-200.000 ducati l’anno.
Pertanto inizia, nell’estate 1502, la guerra. Le truppe francesi sono comandate da Louis d’Armagnac, mentre quelle spagnole sono sotto il comando di Gonzalo (Consalvo) Fernandez de Cordoba (Cordova).
Al conflitto partecipano numerosi cavalieri italiani, che combattono come “mercenari”, nelle Compagnie di Ventura, “al soldo” degli Spagnoli. Alcuni di questi erano stati “ingaggiati” dal precedente Re di Napoli Federico I d’Aragona. In particolare c’è la Compagnia del Capitano di ventura Prospero Colonna e del cugino Fabrizio, Conte di Tagliacozzo (poi Duca dal 1504), della quale fanno parte Ettore Fieramosca (originario di Capua), Giovanni Capoccio (originario di Tagliacozzo) e Fanfulla da Lodi, i quali partecipano con altri 10 cavalieri italiani alla “disfida di Barletta” del 13 febbraio 1503, combattuta contro altrettanti 13 cavalieri francesi, che li hanno accusati di “codardia”.
LA DISFIDA DI BARLETTA
All’inizio di gennaio 1503, in uno scontro a Canosa di Puglia, gli Spagnoli, guidati da Diego de Mendoza, catturano alcuni cavalieri francesi.
Il 15 gennaio 1503 il Gran Capitano (Comandante supremo) spagnolo Consalvo Fernandez de Cordova organizza a Barletta (dove ha sede il quartier generale spagnolo) una cena in onore dei Francesi, secondo il “codice cavalleresco” dell’epoca.
Durante la cena il francese Charles de Torgues (detto Guy de La Motte) accusa di codardia i cavalieri italiani, che sono difesi dal comandante spagnolo Inigo (Ignazio) Lopez de Ayala, il quale sostiene che gli italiani al suo comando hanno sempre combattuto valorosamente e quindi si sono comportati in modo onorevole.
Il Capitano dei cavalieri italiani Prospero Colonna invia Giovanni Capoccio e Giovanni Brancaleone a parlare con La Motte per indurlo a ritrattare la grave offesa fatta ai cavalieri italiani, senza alcun risultato. Anzi La Motte getta il “guanto di sfida” addosso ai cavalieri italiani.
Si decide quindi di effettuare un duello tra 13 cavalieri francesi ed altrettanti cavalieri italiani (in origine gli sfidanti dovevano essere 10, ma poi il numero è stato aumentato).
Uno scontro analogo era avvenuto l’anno precedente, nel marzo 1502, in una pianura tra Barletta e Bisceglie tra 11 soldati francesi ed altrettanti spagnoli, di cui però non si conosce l’esito.
La “disfida” è programmata per la mattina del 13 febbraio 1503 nella località denominata “Mattina di S. Elia”, nel territorio di Trani, allora possesso della Serenissima Repubblica di Venezia e quindi “territorio neutrale”. Però il combattimento è passato alla storia come “disfida di Barletta”, dato che la controversia era nata in questa cittadina pugliese.
Le modalità dello scontro sono stabilite nei minimi dettagli. In particolare si decide che i cavalli e le armi dei cavalieri sconfitti sarebbero stati presi dai vincitori e ogni cavaliere catturato avrebbe pagato un riscatto di 100 ducati. Inoltre, sono nominati due giurati per parte ed è assegnato un ostaggio a ciascuna parte per garantire il rispetto dell’accordo.
Il campo nel quale si svolge il duello viene delimitato con l’aratro.
Prospero e Fabrizio Colonna formano la squadra italiana con i seguenti cavalieri, considerati i migliori: Ettore Fieramosca (di Capua, che é nominato Capitano e quindi é incaricato di tenere i rapporti con il francese La Motte); Mariano Marcio Abignente; Ludovico Abimale da Terni; Guglielmo Albimonte; Giovanni Brancaleone; Giovanni Capoccio; Marco Corollario; Ettore de’ Pazzis (detto anche Miale da Troja); Ettore Giovenale; Romanello da Forlì; Fanfulla da Lodi; Riccio da Parma; Francesco Salamone.
I 13 cavalieri francesi sono: Charles de Torgues (detto Guy de La Motte), che é il Capitano; Claude Grajan d’Aste (Graziano d’Asti); Eliot de Baraut; Jacques de la Fontaine; Naute de la Fraise; Marc de Frigne; Girout de Forses; Jacques de Guignes; Martellin de Lambris; Jean de Landes; Pierre de Liaye; Francois de Pise (Francesco di Pisa); Sacet de Sacet.
I cavalieri italiani la mattina del 13, prima dello scontro, ascoltano la messa nella Cattedrale di Barletta, giurando davanti alla statua della Madonna, poi denominata Madonna della Sfida, di vincere o di morire.
I cavalieri francesi pernottano a Ruvo di Puglia, dove è acquartierato il loro esercito e dove, la mattina del 13 febbraio, ascoltano la messa nella Chiesa di San Rocco.
Il Capitano Prospero Colonna decide quali armi impiegare. I cavalieri italiani sono armati con due lance, più lunghe di quelle usate dai Francesi, e di 2 stocchi: uno è bloccato all’arcione, alla parte sinistra della cavalcatura; l’altro è posto sul fianco destro della cavalcatura, dove viene messa anche una scure, al posto della mazza ferrata. Inoltre i cavalli sono coperti da frontali di ferro, anche sul collo. Infine, a terra sono posti due spiedi a disposizione di ogni cavaliere, per essere utilizzati in caso di necessità.
I cavalieri italiani arrivano per primi sul posto stabilito per la “disfida”, ma quelli francesi entrano per primi nell’area delimitata dai quattro giudici.
Le due formazioni si dispongono su due file ordinate, contrapposte l’una all’altra, in modo da “caricarsi” vicendevolmente con le lance.
Secondo il cronista francese Jean d’Auton i cavalieri italiani adottano uno stratagemma: invece di “caricare” arretrano fino al limite dell’area delimitata per lo scontro ed aprono dei varchi nelle proprie file in modo da far uscire dall’area i cavalieri francesi, che pertanto sarebbero stati eliminati. In effetti alcuni di questi, nella foga della corsa, non riescono a fermarsi in tempo ed escono dall’area stabilita per lo scontro, venendo così eliminati. Invece, secondo il vescovo Paolo Giovio, che ha assistito allo scontro, i cavalieri italiani rimangono fermi nelle loro posizioni, attendendo la “carica” dei Francesi con le lance abbassate.
Nel primo scontro due cavalieri italiani sono disarcionati, ma si rialzano e riescono ad uccidere i cavalli degli loro antagonisti francesi, i quali sono costretti a combattere appiedati, con le spade e le scuri.
Il combattimento dura più di un’ora ed alla fine tutti i cavalieri francesi sono sconfitti e catturati dagli italiani, che pertanto riportano una netta vittoria.
Secondo la tradizione il cavaliere italiano che combatte meglio e si distingue di più, dopo il Capitano Ettore Fieramosca, è Giovanni Capoccio, che riceve l’appellativo di ”più forte campione italico dopo il Fieramosca”.
Secondo Jean d’Auton, l’ultimo cavaliere francese ad arrendersi è Pierre de Chales, originario della Savoia.
Il Vescovo Giovio riferisce che il francese Claude (probabilmente Graziano d’Asti) muore per una grave ferita alla testa riportata nello scontro con Giovanni Brancaleone, che probabilmente infierisce su di lui perché è considerato dai cavalieri italiani un “traditore” dato che combatte dalla parte dei Francesi (in verità, in quell’epoca la città di Asti appartiene alla Francia). Allo scontro partecipa, combattendo con i Francesi, anche un altro cavaliere italiano: Francois de Pise (Francesco di Pisa).
I cavalieri francesi sconfitti sono condotti come “prigionieri” a Barletta perché, sicuri di vincere, non hanno portato i 1.300 ducati previsti per l’eventuale loro riscatto in caso di sconfitta. Pertanto sono liberati dopo quattro giorni, quando è pagata la somma stabilita di 1.300 ducati.
La vittoria dei cavalieri italiani è salutata dalla popolazione di Barletta con un grande gioia e festeggiamenti. Nella cattedrale di Barletta è celebrata una solenne messa di ringraziamento.
Come ricompensa per la vittoria tutti i 13 cavalieri italiani sono insigniti dal Comandante supremo spagnolo Consalvo Fernandez dell’ordine di Cavaliere di San Giacomo della Spada.
Nei mesi seguenti i Francesi sono ripetutamente sconfitti dagli Spagnoli: a Ruvo di Puglia il 22-23 febbraio 1503; a Seminara (Calabria) il 21 aprile 1503; a Cerignola (Puglia) il 28 aprile 1503; presso il fiume Garigliano (Campania) il 29 dicembre 1503; a aeta (Campania) il 1 gennaio 1504.
Il 31 gennaio 104 è sottoscritto l’Armistizio di Lione e con il successivo Trattato di Blois del 12 ottobre 1505 la Francia rinuncia definitivamente al Regno di Napoli a favore della Spagna ed il Re spagnolo Ferdinando II d’Aragona, detto Il Cattolico, si impegna a sposare Germana di Foix, nipote del Re francese.
In seguito, numerosi cavalieri italiani continuano a militare nella Compagnia di ventura di Prospero Colonna, in varie guerre.
LA MEMORIA DELLA DISFIDA
Nel 1583 (per il 70mo anniversario della “disfida”), sul luogo della battaglia, in Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, è fatta costruire una “edicola” da Ferrante Caracciolo, Duca di Airola, Prefetto delle Province di Bari e Otranto.
Il monumento è distrutto nel 1805 dai Francesi, che pensano in questo modo di eliminare la “memoria” della loro sconfitta nella “disfida” del 13 febbraio 1503, ma è riedificato nel 1846 a cura del Capitolo Metropolitano di Trani.
Nel 1903 viene aggiunta una lapide con il seguente epitaffio, scritto da Giovanni Bovio, famoso filosofo e politico di fede laica e repubblicana “In equo certame / contro tredici francesi / qui tredici di ogni terra italiana / nell’unità / nell’amore antico / e tra due invasori / provarono che dove l’animo sovrasti la fortuna / gli individui e le nazioni risorgono” .
La “disfida” ha ispirato alcune famose opere letterarie. E’ sempre stata chiamata “disfida di Barletta”, anche se combattuta nella Contrada “Mattina di Sant’Elia” nel territorio di Trani, probabilmente perché la controversia era nata a Barletta, dove aveva sede il quartiere generale spagnolo.
La prima fonte che ne parla è la lettera in latino De pugna tredecim equitum, scritta poco tempo dopo l’evento, nello stesso anno 1503, dal medico ed umanista salentino Antonio De Ferraris, detto “Galateo”, che sta a Bari, dove è il medico di Isabella d’Aragona (vedova di Gian Galeazzo Sforza, Duca di Milano) ed il precettore della figlia Bona Sforza (futura Regina di Polonia).
All’inizio del Risorgimento, nel 1833, Massimo D’Azeglio scrive il romanzo storico Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, in chiave patriottica, facendo leva sul sentimento nazionale per favorire la “riscossa contro lo straniero”, rappresentato dall’Austria, che domina buona parte del territorio settentrionale.
Nel 1896 il compositore Vincenzo Ferroni compone il dramma lirico Ettore Fieramosca.
All’inizio del Novecento sono girati due film, ispirati al romanzo di D’Azeglio: Ettore Fieramosca, di Ernesto Maria Pasquali, nel 1909; Ettore Fieramosca, di Domenico Gaido e Umberto Paradisi, nel 1915.
Il regime fascista rivaluta di nuovo, come già era accaduto nel Risorgimento, la “disfida di Barletta”, ignorando però che il sentimento nazionale era assolutamente sconosciuto nel nostro Paese nel XVI° secolo, tanto che i 13 cavalieri italiani combattevano come “mercenari”, al soldo degli Spagnoli contro i Francesi, in guerra tra di loro per il possesso del Regno di Napoli.
Nel 1938 esce il film Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti, con un chiaro scopo di propaganda nazionalistica.
Nel 1939 il pittore Pino Cesarini dipinge il quadro La disfida di Barletta.
LA CONTROVERSIA RECENTE SUL LUOGO DELLA DISFIDA
Durante il regime fascista nasce una accesa disputa in merito al luogo in cui erigere il nuovo monumento in ricordo della “disfida”, al posto di quello costruito nel 1583 e distrutto dai Francesi nel 1805.
Nell’ottobre 1931 l’avvocato di Trani Assunto Gioia pubblica un opuscolo nel quale sostiene che la “disfida” era stata combattuta nella Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, per cui deve chiamarsi “disfida di Trani”.
Pochi giorni dopo, il 28 ottobre, il sottosegretario Sergio Panunzio scrive un articolo a sostegno di questa tesi, pubblicato sul quotidiano Gazzetta del Mezzogiorno.
Il 2 novembre 1931 la tesi sul luogo della “disfida” a Barletta è sostenuta da Salvatore Santeramo in un articolo pubblicato sul quotidiano Il Popolo di Roma.
Il giorno seguente lo stesso giornale pubblica, a sostegno di questa tesi, la lettera di Arturo Boccassini, segretario della sezione del Partito Nazionale Fascista-PNF di Barletta, che era stata rifiutata dalla Gazzetta del Mezzogiorno.
Il 3 novembre a Bari si costituisce un Comitato per far costruire il nuovo monumento nella città, di cui fanno parte alti esponenti del PNF, come Attilio Teruzzi, Comandante della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale-MVSN, Araldo di Crollalanza, Ministro dei Lavori Pubblici, e Achille Starace, Vice segretario nazionale del PNF. Appresa la notizia della costituzione del Comitato barese, a Barletta un gruppo di cittadini entra nel Comune, preleva il bozzetto del nuovo monumento e lo deposita nella Piazza del paese, su un piedistallo improvvisato.
Il 7 novembre 1931 Boccassini è destituito. Questo fatto provoca nuove manifestazioni, che degenerano in scontri con le forze dell’ordine.
Il 10 novembre, dopo l’arrivo del nuovo segretario della sezione del PNF di Barletta, si verifica una nuova manifestazione, nella quale sono lanciati sassi contro i Carabinieri, che reagiscono, sparando sui manifestanti ed uccidendo due persone.
In seguito a questi incidenti il nuovo monumento non viene più fatto. É rimasto quindi nella Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, il monumento ricostruito nel 1846, dopo la distruzione da parte dei Francesi nel 1805 di quello realizzato nel 1583.
Nel 1975, dopo decenni di abbandono, il monumento è stata restaurato dal Comune di Trani, con il sostegno finanziario del locale Rotary Club.
Ancora oggi, pur essendo stata combattuta la “disfida” nel territorio di Trani, si continua a chiamarla “disfida di Barletta”.
La scultura sembra ricoperta di un sottile strato di ghiaccio che aggiunge un’illusione ottica all’opera d’arte. La coppia che si abbraccia sulla panchina ha l’aspetto di una vecchia fotografia che prende vita. Il gelo sembra anche accompagnare la scena, dato che la donna appare rannicchiata accanto all’uomo, come se cercasse calore. Pare che, per la realizzazione di questa scultura, Lundeen sia stato ispirato da una giovane coppia alla stazione Termini di Roma. In quell’occasione, l’artista disegnò uno schizzo di quella scena. Il disegno ha in seguito ispirato diverse versioni di “Departure”, e quella definitiva è stata installata in diverse località di USA e Canada.
L’immagine in blu è di Shawneffel, le immagini in bronzo sono di Danila Napolitano
Castelnuovo, cambierà il motto da “Perla della Cultura della Sabina” sembrerebbe a ”Fregnacce per tutti” ?.
Castelnuovo di Farfa- Finalmente oggi, 20 settembre 2021, anche Castelnuovo celebra la sua “PORTA PIA” /“PORTA CASTELLO”-
A Castelnuovo oramai è in piena attività la fabbrica :”Amore per il Borgo”.
Be’, che dire se non EVVIVA.
Certo evviva , perché è pur vero che sembrerebbe che non abbiamo più l’acquedotto storico di Cerdomare, ma in sostituzione abbiamo “L’ORNISCHI” che disseta la nostra voglia del sapere tutto sulla storica “SAGRA delle FREGNACCE”.
Certamente la “Sagra delle Fregnacce” castelnuovese è appagante ed ora, quindi, come si potrebbe aggettivare o definire di “GREPPIA” o di “NICCHIA”?
Comunque EVVIVA ora Castelnuovo dal motto “Perla della Cultura della Sabina” ci chiediamo noi castelnuovesi, come direbbe il Foscolo:”siamo in un’ansia di trepida attesa” ,se verrà cambiato il motto in ”Fregnacce per tutti” .
Sinceramente noi sappiamo dove vanno a finire le “Fregnacce”, anche se molto gustose e invitanti, esattamente dalla parte opposta della Cultura.
Così è se vi pare come dice il Grande Luigi Pirandello.
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