Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
La casa dei doganieri
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Arsenio
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch’è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s’arrossa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, –
e fuori, dove un’ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l’acetilene –
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t’abbevera,
tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s’afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell’onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell’ora che si scioglie, il cenno d’una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
L’anguilla
L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre piú addentro, sempre piú nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito:
l’iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?
In limine
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
La Bufera
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti – per entrar nel buio.
Il balcone
Pareva facile giuoco
mutare in nulla lo spazio
che m’era aperto, in un tedio
malcerto il certo tuo fuoco.
Ora a quel vuoto ho congiunto
ogni mio tardo motivo,
sull’arduo nulla si spunta
l’ansia di attenderti vivo.
La vita che dà barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
finestra che non s’illumina.
Xenia I
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.
Xenia
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due
noi siamo una sola cosa.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
La Storia
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
Di un Natale metropolitano
Un vischio, fin dall’infanzia sospeso grappolo
di fede e di pruina sul tuo lavandino
e sullo specchio ovale ch’ora adombrano
i tuoi ricci bergére fra santini e ritratti
di ragazzi infilati un po’ alla svelta
nella cornice, una caraffa vuota,
bicchierini di cenere e di bucce,
le luci di Mayfair, poi a un crocicchio
le anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,
non più guerra né pace, il tardo frullo
di un piccione incapace di seguirti
sui gradini automatici che ti slittano in giù….
Forse un mattino
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.
Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Breve biografia di Eugenio Montale – nato a Genova nel 1896. Dopo aver seguito studi tecnici, si è dedicato per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi, ha preso parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ha avuto rapporti anche con l’ambiente torinese, collaborando al Baretti di Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove ha frequentato il caffè delle Giubbe Rosse vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 è stato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, rimosso nel 1938 perché non iscritto al partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce). Ha svolto un’attività di traduttore, soprattutto dall’inglese (da ricordare il suo contributo all’antologia Americana di E. Vittorini, 1942; le traduzioni sono in Quaderno di traduzioni, 1948, ed. accr. 1975, con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc.). Iscritto per breve tempo al Partito d’azione, ha collaborato con Bonsanti alla fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si è trasferito a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria e di quella musicale sul Corriere d’informazione. Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975). Ha pubblicato: Ossi di seppia (1925; ed. defin. 1931), Occasioni (1939, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932); La bufera e altro (1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), Satura (1971, in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia del 1966, scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi); Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977); Altri versi (1981); le due parti di Diario postumo (1991 e 1996). Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono i libri: i bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969), le prose di viaggio Fuori di casa (1969), le prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972), quelle riunite in Sulla poesia (1976), il volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983). Come critico musicale ha pubblicato Prime alla Scala (1981). È morto a Milano nel 1981.
Chiara Colombini-Storia passionale della guerra partigiana-
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE del libro di Chiara Colombini -Storia passionale della guerra partigiana-A partire dall’8 settembre 1943 fino all’aprile del 1945 migliaia di giovani e meno giovani abbandonarono la loro vita abituale, presero le armi e si gettarono in un’avventura che stravolte la loro esistenza.
Perché lo fecero? Quali furono i sentimenti e le passioni che li spinsero ad un passo del genere e li sostennero in quei venti mesi?
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prospettiche che inducono a giudicare le scelte di allora con il metro del nostro presente.
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della Resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prodotte dal passare del tempo.
Le passioni e i sentimenti, lo sappiamo, hanno un ruolo fondamentale nelle nostre vite. Ci fanno compiere scelte improvvise, ci fanno gioire e soffrire. Alimentano un fuoco che non può essere spento. Passioni e sentimenti certamente mossero le donne e gli uomini che scelsero la strada della ribellione e della Resistenza durante la guerra. Possiamo comprenderle davvero noi che viviamo un altro tempo e un’altra storia? È quanto prova a fare Chiara Colombini, cogliendo, attraverso diari, lettere e carteggi, queste passioni ‘in diretta’, nel loro erompere durante quei venti mesi, tenendo sullo sfondo ciò che solo lo svolgersi della storia ha permesso di razionalizzare. In un tempo condizionato dall’eccezionalità che deriva dall’intreccio tra guerra totale, occupazione e guerra civile, i partigiani si innamorano, coltivano ambizioni, si accendono di entusiasmo o si arrovellano nell’insoddisfazione. Una condizione in cui, oltre alla vita, è in gioco ciò che si è scelto di essere. E, a quasi ottant’anni di distanza, emerge intatto il fascino di quell’esperienza così centrale per la storia di questo paese, la sua dimensione di profonda umanità, il prezzo pagato da uomini e donne direttamente nelle loro esistenze, il loro lascito.
L’Autrice
Chiara Colombini, storica, è ricercatrice presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”.Ha curato, tra l’altro, Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria (con Aldo Agosti, Edizioni SEB27 2012) e gli Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947) di Vittorio Foa (con Andrea Ricciardi, Bollati Boringhieri 2010) ed è autrice di Giustizia e Libertà in Langa. La Resistenza della III e della X Divisione GL (Eataly Editore 2015).
Tersilio Leggio-Abbazia di Farfa- L’anello sigillare dell’abate Benedetto (802-815)
Marca/Marche-rivista di storia regionale n°8/2017-
AndreaLivi Editore
Tersilio Leggio-Non avviene tutti i giorni che si possa scrivere una nuova pagina della storia dell’abbazia di Farfa nel periodo carolingio grazie al riapparire improvviso e del tutto inatteso di un nuovo documento, che, come si vedrà, cambierà dalle fondamenta le vicende delle strutture materiali del monastero sabino all’epoca di Carlomagno, colmando molti vuoti ed aprendo nuovi e stimolanti itinerari di ricerca.
L’8 dicembre scorso l’abbazia di Farfa ed il suo priore Dom Eugenio Gargiulo ricevevano una mail che li informava che il giorno successivo presso la casa d’a- ste parigina Piasa era in vendita tra i vari lotti uno che riguardava l’anello-sigillo dell’abate Benedetto (802-815). Molto cortesemente Dom Eugenio mi ha girato la mail chiedendo una mia opinione in merito. Debbo dire di essere andato immediatamente a controllare sul sito della Piasa con molta circospezione e con numerosissimi dubbi, convinto che non si trattasse di nulla di importante. Quando però ho visto l’oggetto in questione confesso di essere rimasto stupefatto ed attonito per la sua bellezza e per la sua importanza.
Battuto all’asta con un prezzo di stima che era molto elevato e compreso tra 35.000 e 45.000 euro data la rarità dell’oggetto, non è stato aggiudicato o almeno così sembra. Le sue dimensioni sono h 2,6 x l 2,5 cm; il peso 31,4 g, con leggere mancanze nella niellatura. L’anello è in oro con incastonato al centro un cristallo di rocca di forma quadrata intorno al quale si sviluppa la legenda:
+ S[IGILLUM] ·BENEDICTI ·AB[BATIS]· FARFENSI[S]
Le spalle dell’anello sono ornate da motivi niellati costituiti da una croce greca con estremità svasate racchiusa in un doppio cerchio e da fogliame stilizzato. Quel che è maggiormente interessante è costituito dall’intaglio nel cristallo di rocca che rappresenta una facciata di una chiesa abbaziale fiancheggiata da due torri tonde, scandite da due cordonature, che culminano con un tetto conico con spiovente sormontato da due globi, mentre sul culmine del prospetto, che ha un frontone decorato , è rappresentata l’immagine della Madonna. Secondo gli esperti della casa d’aste, che escludono categoricamente la possibilità di un falso, il probabile luogo dove l’anello fu realizzato è da individuare in un atelier di Costantinopoli.
Il sigillo era appartenuto in passato al principe Ludovico Spada Veralli Potenziani di Rieti, con palazzo di abitazione anche a Roma, in via in Lucina. Il principe Potenziani era un personaggio di spicco dei suoi tempi. Governatore di Roma dal 1926 al 1928, senatore del Regno dal 1929, tanto per citare. Intimamente legato al periodo fascista, nel 1946 fu dichiarato decaduto dalla carica di senatore. Dopo la sua morte avvenuta nel 1971, l’archivio familiare è stato donato, quasi completa- mente a causa di alcune dispersioni, all’Archivio di Stato di Rieti1, nel quale sarà necessario indagare per chiarire come e quando l’anello-sigillo dell’abate Benedet- to sia finito nel possesso suo o della sua famiglia. Dalla collezione di Ludovico il sigillo passò nel 1919 al parigino Louis-Henri-Emile Moutier e da lui a Gustave Léon Schlumberger (1844-1929) ben noto storico e numismatico dell’impero bi- zantino, per finire poi in una collezione privata.
L’abate Benedetto
L’abate Benedetto, secondo il racconto della cosiddetta Constructio monasterii Farfensis2, era l’undicesimo abate eletto dopo la seconda fondazione avvenuta in età longobarda. Le brevi note con il quale l’anonimo monaco cronista della metà del IX secolo lo descrisse ne fanno un abate molto attento alla devozione verso Dio ed alla salvezza sua e dei confratelli. Molto premuroso nel curare l’aspetto esteriore degli ornamenti ritenuti più utili per i culti da celebrare nella chiesa monastica. Fu inoltre sagacissimo nel provvedere Farfa di libri, di paramenti sacri per l’altare e di altri strumenti, dei quali parte era sopravvissuta fino al momento nel quale il monaco cronista registrò la scheda a lui dedicata. Benedetto fu a capo della comunità monastica per dieci anni, cinque mesi e tre giorni e morì il 26 marzo. Da osservare comunque che è molto difficile far conciliare le note biografiche degli abbaziati con l’effettivo esercizio della funzione che si ricava invece dalla documentazione scritta conservata. Più concisa la nota biografica che lo riguarda premessa da Gregorio da Catino3 alle carte riguardanti il suo abbaziato, con la discrepanza di una diversa data di morte che sarebbe avvenuta l’11 agosto, anche se la durata la funzione riportata è identica. L’attività dell’abate Benedetto, del quale è omessa l’origine, fu molto intensa. Il suo pieno inserimento nel mondo carolingio è dimostrato dai diplomi che gli furono concessi a partire da quello emanato da Carlomagno il 13 giugno dell’803, che riconfermava tutti i possessi dell’abbazia su esplicita richiesta dello stesso Benedetto, ai due da Ludovico II il 3 agosto dell’815. Lo Schuster4, partendo da questa data, ha avanzato l’ipotesi che Benedetto in persona si sarebbe recato presso la corte imperiale a
2 Balzani, a cura di, Il Chronicon farfense di Gregorio da Catino, I, Forzani e C., Roma 1903,
21.
3 Balzani, a cura di, Il Chronicon farfense cit., pp. 170-178; I. Giorgi, U. Balzani, a cura di, Il Regesto di Farfa, II, Presso la Società, Roma 1878, pp. 143-177.
4 I. Schuster, L’imperiale abbazia di Farfa. Contributo alla storia del Ducato romano nel Medio Evo, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1921, pp. 62-63.
Francoforte per impetrare la concessione dei due diplomi, dove sarebbe morto l’11 agosto subito dopo averli ottenuti. L’anello-sigillo rappresentava un’immagine adeguata al rango sociale al quale apparteneva il suo possessore, sia per lo stato, sia per la funzione ricoperta. Diversamente dagli anelli-sigillo civili coevi non riproduceva la figura del possesso- re, basti ricordare la lunga e consolidata tradizione di età longobarda5, né è stato riutilizzato qualche oggetto che si richiamava al passato – cammei, monete od altro –, ma intenzionalmente si è voluto realizzare una tipologia nuova, volendo per certi aspetti guardare al futuro piuttosto che rifarsi all’antico, mostrando uno spiccato senso di affermazione di una precisa identità monastica e di una salda appartenenza ad una comunità di cui l’abate era il rappresentante pro tempore, mentre la chiesa abbaziale ne costituiva il carattere peculiare, fondante e nel contempo duraturo.
L’anello-sigillo di Benedetto costituisce, inoltre, un caso del tutto particolare, perché modifica nella sostanza la cronologia della loro presenza nello scenario europeo dove sarebbero apparsi soltanto in XI secolo, mentre in precedenza rappresentavano una prerogativa pressoche esclusiva delle cancellerie sovrane, regie o imperiali che fossero, nel campo dell’ordine temporale e di quella pontificia nello spirituale6. Credo che su questo punto si debba avviare una riflessione critica sull’uso degli anello-sigillo, seguendo le linee tracciate dalla Bedos-Rezak, la quale ha dimostrato, comparando i cartari medievali con i sigilli regi e vescovili, quanto fosse importante nelle società medievali comunicare, utilizzando gli strumenti simbolici a disposizione, un’immagine coordinata e forte della persona rivestita di un’autorità pubblica7 ed in questo caso specifico della auctoritas che derivava all’abate dall’essere a capo di una potente abbazia intimamente legata all’impero carolingio e che esercitava un potere quasi egemonico in una vasta zona dell’Italia centrale appenninica.
Un altro aspetto che merita di essere sottolineato è comprendere se, quando e su quali atti il sigillo venisse apposto dall’abate come strumento di validazione e con quale formula di corroborazione. Il fatto stesso che l’anello-sigillo si sia conserva- to quasi intatto induce ad inferire che ci si trovi di fronte ad un riferimento agli usi ed alle tradizioni di area germanica e in conseguenza abbia seguito il proprio possessore nella tomba, piuttosto che a quelle di area romana dove invece veniva spezzato o comunque reso inutilizzabile.
5 S. Lusuardi Siena, a cura di, Anulus sui effigii. Identità e rappresentazione negli anelli-sigillo longobardi, Atti della giornata di studi, Milano, Università Cattolica, 29 aprile 2004, V&P, Milano 2006.
6 Fabre, Sceau médiéval. Analyse d’une pratique culturelle, L’Harmattan, Paris 2013, pp. 31-32.
7 M. Bedos-Rezak, When Ego Was Imago. Signs of Identity in the Middle Ages, Brill, Leiden
2010, in particolare pp. 55-74.
Farfa in età carolingia: la chiesa abbaziale
Nel caso di Farfa, non ostante la ricchezza dei cartulari e delle fonti narrative per quanto riguarda in particolar modo il periodo altomedievale, non sono molte le in- formazione ed i dati che permettano di leggere meglio l’evoluzione delle strutture monastiche e le loro specifiche funzioni, importanti per identificare i vari aspetti della celebrazione delle funzioni liturgiche benedettine8, anzi le poche notizie con- tenute hanno alimentato interpretazioni fortemente divergenti. In parallelo si sono sviluppati molti studi e molte ricerche sull’argomento ad incominciare da Ildefon- so Schuster9. Intorno agli ’80 del secolo scorso le ricerche ebbero un notevole im- pulso grazie a Charles McClendon10 ed a David Whitehouse, sotto la cui direzione si sono avute alcune campagne di scavo, con pubblicazione di dati preliminari i cui risultati finali non sono mai stati editi compiutamente, con grave danno per la storia degli studi sul monastero e con la perdita di un’importante opportunità di conoscenza. Una ulteriore breve stagione fu effettuata nel 1993 ad opera sempre della British School at Rome11.
Uno dei temi maggiormente dibattuti sulle strutture monastiche altomedievali farfensi è senza dubbio quello dell’orientamento della chiesa altomedievale e della sua cronologia. Due in particolare gli elementi di forte dubbio: la datazione della cripta semianulare12, che era compiutamente emersa soltanto a cavaliere degli anni ’60 del secolo scorso, e la collocazione spaziale dell’oratorio del Salvatore che l’abate Sicardo (830-842) aveva aggiunto alla chiesa di S. Maria.
Le ipotesi più accreditate sembravano orientate verso una datazione al secolo IX della cripta ed al secolo XI della così detta abside quadrata, che si trova nel cortile seicentesco di ingresso al complesso monastico, fiancheggiata da due torri campa- narie, delle quali soltanto una è superstite.
8 W. Jacobsen, Il problema dell’utilizzazione: l’architettura altomedievale e la liturgia nei conventi monastici, in F. De Rubeis, F. Marazzi, a cura di, Monasteri in Europa occidentale (secoli VIII-XI): topografia e strutture, Atti del Convegno Internazionale, Museo Archeologico di Castel San Vincenzo, 23-26 settembre 2004, Viella, Roma 2008, pp. 309-319.
9 Se ne veda una rassegna in T. Leggio, L’abbazia di Farfa: fonti scritte, cultura materiale e strutture edilizie. Un profilo storico, in Farfa, storia di una fabbrica abbaziale, Vivi l’Arte, Farfa 20062, pp. 135-141. 10 Le sue ipotesi sono state edite separatamente: Ch.B. McClendon, The Imperial Abbey of Farfa. Architectural Currents of the Early Middle Ages, Yale University Press, New Haven and London 1987. 11 O. Gilkes, J. Mitchell, The early medieval church at Farfa: its orientation and date, in «Archeologia
medievale», XXII (1995), pp. 343-364.
12 Sulla diffusione delle cripte semianulari e sulla loro cronologia in Italia cfr. C.M.C. Mancuso,
Genesi e sviluppo della cripta semianulare in Italia, in «Quaderni del Centro di Studi Lunensi», ns 2 (1996), pp. 143-166, che data, p. 159, la cripta di Farfa alla metà del secolo IX. Cfr. anche F. Betti, Fondi e il Lazio meridionale. La formazione del Patrimonium Sancti Petri e la diffusione dell’arte carolingia nella regione, in M. Gianandrea, M. D’Onofrio, a cura di, Fondi nel Medioevo, Gangemi ed., Roma 2016, pp. 63-78.
Più recentemente, però, John Mitchell ha avanzato l’ipotesi che la cripta semia- nulare possa risalire alla seconda metà dell’VIII secolo, attribuendone la costruzio- ne all’abate Probato (770-779)13, e che la così detta abside quadrata possa essere attribuita invece all’abate Sicardo, riprendendo un’ipotesi che avevo formulato più di un trentennio fa14.
Del resto, anche da un punto di vista delle strutture edilizie del complesso monastico, le fonti scritte sembrano suggerire che Farfa già alla metà dell’VIII secolo avesse raggiunto aspetti monumentali caratterizzati da grandi effetti sia formali sia simbolici, adeguati al ruolo centrale che aveva assunto nel regnum Italiae. Come si può constatare, pur sommariamente riassunte, le posizioni sul- la dinamica temporale e sull’articolazione spaziale dei primi secoli di vita far- fense sono molte e variegate a testimoniare la complessità degli interventi che si sono succeduti, stimolati anche dalla ricchezza sempre crescente dell’abbazia sabina e, quindi, dalla possibilità per i suoi abati di poter investire molto sulla continua trasformazione delle sue strutture materiali e sul loro abbellimento, con chiari ed evidenti fini simbolici15. Un altro momento nel quale si sviluppa- rono interventi di grande importanza fu la prima metà del secolo IX, quando Farfa ormai costituiva un polo centrale del governo dell’impero carolingio nel regnum Italiae. È soprattutto nel periodo dell’abate Sicardo (830-842) che si concentrarono i lavori per la costruzione dell’oratorio dedicato al Salvatore, come sopra ricordato.
L’ultima rilettura delle architetture del monastero farfense e della loro storia, in particolare per il periodo altomedievale, è stata compiuta da Fabio Betti16, che ha sintetizzato le ipotesi precedentemente avanzate, mettendo nuovamente in evidenza la notevole produzione di capitelli a stampella, ben trentanove, inquadrabile cronologicamente tra il VI e l’VIII decennio dell’VIII secolo, realizzata da numerosi artisti con influssi e apporti, anche diretti, derivati dalle principali correnti artistiche altomedievali europee, dalla longobarda, all’aqui- tanica, alla visigotica, che avevano forse costituito ex-novo un’unica bottega
13 J. Mitchell, The display of cript and the use of painting in Longobard Italy, in Testo e immagine nell’alto Medioevo, Atti della XLI settimana di studio, Presso la sede del Centro, Spoleto 1994, p. 949 nota 149; Gilkes, Mitchell, The early medieval church cit., pp. 360-362.
14 Leggio, Farfa: problemi e prospettive di ricerca, in «Il territorio», 1 (1984), pp. 78-81.
15 Per una interessante e approfondita analisi della dinamica di accrescimento dei patrimoni
fondiari dei grandi monasteri benedettini italiani, F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno tra VIII e IX secolo: il percorso della grande crescita. Una indagine comparativa con le altre grandi fondazioni benedettine italiane, in Id., a cura di, San Vincenzo al Volturno. Cultura, istituzioni, economia, Abbazia di Montecassino, Cassino 1996, pp. 58-66, in particolare per Farfa, pp. 46-51.
16 F. Betti, Farfa nell’Alto Medioevo fra storia, arte e archeologia, in I. Del Frate, a cura di, Spazi della Preghiera, Spazi della Bellezza. Il Complesso Abbaziale di Santa Maria di Farfa, Palombi ed., Roma 2015, pp. 29-45.
Fonte-Marca/Marche-rivista di storia regionale n°8/2017-AndreaLivi Editore
Roma-Fontana di Trevi, concluso l’intervento di manutenzione-
Roma, 22 dicembre 2024 – A conclusione dei lavori di manutenzione della Fontana di Trevi, curati dalla Sovrintendenza Capitolina nell’ambito del programma di interventi PNRR Caput Mundi, è stata oggi restituita alla cittadinanza una delle aree più simboliche della città, tra le più amate e visitate al mondo.
Gli interventi si sono resi necessari a causa dei fenomeni di degrado che hanno interessato il monumento, situato in una zona ad alta frequentazione pedonale e sottoposto a particolari condizioni microclimatiche che hanno favorito la formazione di patine biologiche, vegetazione infestante e depositi calcarei sulle parti più esposte al contatto con l’acqua.
L’intervento, della durata di circa tre mesi e del costo di 327mila euro, ha previsto un’attività di pulitura approfondita delle superfici lapidee della parte inferiore del monumento, in particolare della scogliera e della zona tra il bordo della vasca e le gradinate di accesso. Sono state riparate le stuccature dei giunti in varie zone della fontana per preservarne l’integrità strutturale ed estetica ed è stata impermeabilizzata la vasca.
Inoltre ACEA per ottimizzare la circolazione dell’acqua ha effettuato una manutenzione straordinaria su tutto l’impianto di ricircolo, pompe, apparecchiature elettromeccaniche, sostituendo anche gli organi di manovra presenti.
Il monumento recuperato sarà visitabile secondo una nuova modalità che consentirà di ammirarlo senza il sovraffollamento che ne ha sempre caratterizzato la fruizione.
L’esperienza fatta con la passerella installata durante l’intervento di manutenzione ha evidenziato il gradimento dei cittadini e dei turisti per una visita di qualità e più diretta. Grazie alla nuova gestione dei flussi sarà possibile anche garantire l’appropriata fruizione della fontana, da sempre sottoposta a un’intensa presenza antropica non regolamentata ed eccessivamente invasiva per i delicati materiali che la compongono.
L’accesso, garantito a un numero massimo di 400 persone circa in contemporanea, è previsto dalla scalinata centrale mentre l’uscita si trova presso il varco dal lato di via dei Crociferi.
La visita sarà regolamentata con le seguenti modalità: tutti i giorni dalle 9 alle 21 (ultimo accesso ore 20.30); il lunedì e il venerdì dalle 11 per consentire le operazioni di raccolta delle monete; ogni due lunedì dalle 14 alle 21 per lo svuotamento e la pulizia della vasca. Accesso libero dalle ore 21.
All’entrata, all’uscita e all’interno del monumento sarà presente personale dedicato all’accoglienza e alla sicurezza. Il servizio è affidato a Zètema Progetto Cultura.
I visitatori potranno liberamente circolare negli spazi dell’invaso della fontana, ma non sarà consentito sedersi sul bordo della vasca, mangiare, bere, fumare.
Nella pannellistica informativa all’ingresso e nei totem sui lati della piazza è presente un qr code che consente di ottenere informazioni storiche sulla fontana.
CENNI STORICI
La realizzazione dell’attuale fontana di Trevi si deve a papa Clemente XII (1730-1740), che nel 1732 indice un concorso da cui emerge vincitore l’architetto Nicola Salvi (1697-1751). Il monumento, concepito come mostra dell’acquedotto Vergine e addossato alla facciata del retrostante Palazzo Poli, è articolato come un arco di trionfo e digrada verso l’ampio bacino con una larga scogliera, vivificata dalla rappresentazione scultorea di numerose piante. Al centro domina la statua di Oceano alla guida del cocchio a forma di conchiglia, trainato dal cavallo iroso e dal cavallo placido, frenati da due tritoni. Rilievi che alludono alla storia dell’acquedotto e figure allegoriche collegate agli effetti benefici dell’acqua decorano, a vari livelli, il prospetto. La costruzione viene conclusa da Giuseppe Pannini (c.1720-c.1810) che modifica parzialmente la scogliera regolarizzando i bacini centrali.
Dopo un intervento di restauro negli anni 1989-1991 (cui è seguita una manutenzione della parte centrale nel 1999), l’ultimo importante restauro è avvenuto nel 2014-2015 grazie a un contributo di FENDI.
Fontana di Trevi, mostra dell’acqua vergine
Mostra terminale dell’acquedotto Vergine – unico degli acquedotti antichi (19 a.C.) ininterrottamente in uso fino ai nostri giorni – è la più nota delle fontane romane e la più famosa nel mondo per la sua scenografica monumentalità.
Documentata nel medioevo, la sua denominazione deriva da un toponimo in uso nella zona già dalla metà del XII secolo (regio Trivii), oppure dal triplice sbocco dell’acqua dell’originaria fontana.
Nel 1640 per volontà di papa Urbano VIII (1622-1644), in concomitanza con l’ampliamento della piazza, Gian Lorenzo Bernini progetta una nuova fontana orientata come l’attuale, la cui costruzione si limita alla messa in opera di un basamento ad esedra con una vasca antistante, addossato agli edifici poi inglobati nel palazzo Poli.
La realizzazione dell’attuale fontana di Trevi si deve a papa Clemente XII (1730-1740), che nel 1732 indice un concorso al quale partecipano i maggiori artisti dell’epoca. Il pontefice sceglie tra i progetti dell’architetto Nicola Salvi (1697-1751) quello più monumentale e “di minor pregiudizio per il retrostante palazzo” sulla cui facciata si inserisce l’intera mostra con uno studio meditato delle proporzioni e delle decorazioni.
La fontana, articolata come un arco di trionfo, con una profonda nicchia, digrada verso l’ampio bacino con una larga scogliera, vivificata dalla rappresentazione scultorea di numerose piante e dallo scorrere spettacolare dell’acqua. Al centro domina la statua di Oceano alla guida del cocchio a forma di conchiglia, trainato dal cavallo iroso e dal cavallo placido, frenati da due tritoni. Rilievi che alludono alla storia dell’acquedotto e figure allegoriche collegate agli effetti benefici dell’acqua decorano, a vari livelli, il prospetto. Si fondono così magistralmente nell’opera del Salvi storia e natura intese in un rapporto dialettico, quale veniva affermato dal nascente illuminismo.
La costruzione viene conclusa da Giuseppe Pannini (c.1720-c.1810) che modifica parzialmente la scogliera regolarizzando i bacini centrali.
Dopo un intervento di restauro negli anni 1989-1991 (ad esso è seguita una manutenzione della parte centrale nel 1999), l’ultimo importante restauro è avvenuto nel 2014 grazie a FENDI, concludendosi dopo diciassette mesi nel 2015, con inaugurazione il 3 novembre. Maggiori informazioni
L’intervento di manutenzione straordinaria del 2024
Tra i mesi di ottobre e dicembre 2024 è stato effettuato un intervento di manutenzione della Fontana di Trevi nell’ambito del programma PNRR – Caput Mundi (Manutenzione straordinaria di alcune fontane monumentali del Centro Storico di Roma, n. 323). Tale attività si pone in una posizione intermedia tra le operazioni di pulitura e manutenzione ordinaria che periodicamente vengono effettuate con lo svuotamento delle vasche, e gli interventi strutturali di restauro (come quelli del 1989-90, 1999 e 2014) mirati a eliminare il calcare e le patine biologiche che si depositano sui materiali. L’intervento è stato finalizzato a rimuovere localmente gli elementi che determinano un rischio di conservazione dell’opera stessa, agendo sulle superfici lapidee della parte inferiore del monumento, in particolare la zona tra il bordo della vasca e le gradinate di accesso, sottoposta a una pulitura approfondita.
L’operazione, condotta a cura della Sovrintendenza Capitolina, è parte di un programma che ha interessato anche la Fontana del Quirinale, della Barcaccia, delle Tartarughe e delle Tiare, per un importo complessivo di 1,187 milioni di euro.
L’indagine preliminare sui materiali
Propedeutica a ogni intervento di manutenzione o restauro è la fase conoscitiva del monumento, con analisi diagnostiche non invasive atte a indagare lo stato di conservazione del bene.
La Fontana di Trevi è costituita da un insieme eterogeneo di materiali, quali ad esempio marmo di Carrara, travertino, stucco e metalli. La loro analisi e il confronto con campioni di riferimento permette di quantificare gli effetti del degrado e stabilire gli interventi più opportuni, atti a rimuovere ad esempio patine e incrostazioni.
Il travertino della Fontana di Trevi in particolare è caratterizzato da una predominante composizione calcarea, con elevata concentrazione di calcio e, in quantità minori, ferro e stronzio. La patina rossa visibile sulla superficie della scogliera dimostra un notevole aumento della concentrazione di ferro, evidenziando un’alterazione significativa rispetto al travertino di riferimento.
I fattori di degrado
Esposta all’aperto, la Fontana di Trevi è soggetta a un insieme di fattori di degrado quali la presenza di inquinanti e agenti atmosferici, acqua e umidità che esplicano la propria azione attraverso processi di natura chimica, fisica e biologica.
L’utilizzo del ferro per le staffe di sostegno ai gruppi scultorei, ad esempio, se da un lato garantisce vantaggi in termini di stabilità e resistenza meccanica, dall’altro pone dei problemi legati ai processi di ossidazione cui il metallo va incontro, con formazione di ruggine e, di riflesso, alterazioni estetiche del travertino.
Un altro fattore di degrado è la presenza costante di acqua e umidità, che comportano rischi di erosione e la formazione di un habitat favorevole allo sviluppo di flora e fauna microbiche, dannose per la pietra e gli altri materiali costitutivi.
Un ruolo, infine, è giocato dagli inquinanti atmosferici, solo in parte mitigati dalla semi-pedonalizzazione della piazza. Piccole particelle si depositano continuamente sulle superfici, richiedendo costante monitoraggio e pulizia.
Gli interventi
Gli interventi sulle superfici lapidee si sono sviluppati attraverso tre fasi:
Pulitura. Disinfezione da microrganismi e rimozione dei depositi superficiali incoerenti e parzialmente aderenti, croste nere, strati carbonatati e ossidi di ferro.
Consolidamento. Ripristino della coesione, riadesione di scaglie e frammenti ed esecuzione e riparazione delle stuccature.
Applicazione di protettivo. Applicazione di uno strato protettivo sulle superfici per contrastare l’azione degli agenti atmosferici e inquinanti.
Sugli elementi metallici è stato eseguito un trattamento per l’arresto dell’ossidazione al fine di prevenire la corrosione di perni, grappe, staffe e cerchiature.
Nell’area di rispetto si è svolta un’attività di diserbo, disinfezione e lavaggio, la revisione delle stuccature alterate e il riposizionamento degli elementi pavimentali divelti a causa della frequentazione pedonale della piazza.
Nella vasca principale e in quelle secondarie, infine, sono stati applicati rivestimenti impermeabilizzanti al fine di proteggere il materiale lapideo dalle infiltrazioni.
La passerella: un modo nuovo di ammirare la Fontana
Nell’ottica di garantire la fruibilità del monumento e offrire al visitatore una prospettiva nuova da cui poter ammirare la Fontana di Trevi, nel primo mese di cantiere è stata allestita una passerella temporanea che ha consentito di osservare a pochi metri di distanza i celeberrimi apparati scultorei, nonché le operazioni di manutenzione in corso. La passerella ha offerto inoltre l’occasione per acquisire nuovi dati sulla frequentazione, utili a risolvere i problemi di sovraffollamento dell’area.
Fazi Editore –Elizabeth Jane Howard autrice di «La ragazza giusta»
È da oggi nelle librerie «La ragazza giusta» di Elizabeth Jane Howard, un romanzo finora inedito in Italia che delizierà tutti i lettori affezionati all’autrice della saga dei Cazalet. Traduzione dall’inglese di Manuela Francescon.
In una Londra di fine anni Settanta trascina i suoi giorni il giovane Gavin, un timido e sensibile parrucchiere di modesta estrazione. Il suo mestiere lo porta a essere il confidente di molte donne: con loro Gavin è brillante e prodigo di consigli, mentre è assai goffo con le ragazze che gli piacciono. Ha anche un caro amico, un ragazzo omosessuale di nome Harry. È proprio lui a rimescolare le carte della vita del giovane aprendogli le porte della mondanità e portandolo a una festa presso una casa aristocratica. La padrona di casa, Joan, è una donna adulta molto carismatica, colta, capace di sfidarlo intellettualmente, e Gavin ne è subito irretito. Quella sera, però, conosce anche la giovanissima Minerva: ricca e infelice, cresciuta in un ambiente indifferente e anaffettivo, ha un disperato bisogno di attenzioni. Dopo aver sperimentato, non senza scottarsi, i due opposti modelli femminili, Gavin sembra finalmente accorgersi dell’esistenza di una ragazza che gli è sempre stata molto vicina…
Elizabeth Jane Howard confeziona una frizzante commedia punteggiata di ironia – all’epoca dell’uscita al terzo posto nelle classifiche inglesi dopo Frederick Forsyth e Wilbur Smith –, da cui fu tratto un film girato da Randal Kleiser, il regista di Grease, con Lynn Redgrave e Helena Bonham Carter.
«Che romanzo fantastico: divertente, commovente e molto intelligente. Molte, molte congratulazioni».
Angus Wilson
«Ciò che affascina Howard sono le bugie e le verità che ci raccontiamo… Il suo tocco abile si sente ancora una volta».
«The Telegraph»
«Elizabeth Jane Howard è una scrittrice che dimostra attraverso il proprio lavoro a cosa serve un romanzo. Ci aiuta a fare quello che è necessario: aprire occhi e cuore».
Fara in Sabina-Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina si illumina grazie al Teatro Potlach-
Fara in Sabina, 22 dicembre 2024-Un fine settimana pieno di luce a Fara in Sabina. A poche ore dal giorno più magico ed emozionante dell’anno, il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina – situato nel cuore del borgo medievale di Fara in Sabina – si illumina e splende grazie alle luci installate dal Teatro Potlach. Ieri infatti a Palazzo Brancaleoni, sede del museo, è avvenuta l’accensione delle luci che durerà fino a oggi: grandi e piccoli hanno quindi la possibilità di ammirare il museo vestito a festa in occasione dell’arrivo del Natale. Un gioco di luci che immerge il centro storico della città in un’atmosfera ancora più fiabesca e suggestiva. Si tratta infatti di una delle numerose iniziative che, organizzate dalla Pro Loco di Fara in Sabina APS in collaborazione con il Comune, sono dedicate alla promozione turistica del borgo: una delle tante attività volte renderlo ancora più attrattivo e accogliente.
Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina di Fara in Sabina
Il Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina è uno dei punti di riferimento per la conoscenza della civiltà dei Sabini, in quanto conserva i materiali provenienti dai due centri più importanti della Sabina Tiberina: Cures ed Eretum. Allestito a partire dal 2001 all’interno del rinascimentale Palazzo Brancaleoni (sito in piazza del Duomo) ha visto – nel corso degli anni – le sue collezioni ampliarsi, grazie agli scavi effettuati con regolarità proprio a Cures ed Eretum. Il cospicuo aumento del numero dei materiali ha reso necessario nel corso del tempo l’allestimento di nuove sale: la sala della Scrittura, interamente dedicata al cippo inscritto ritrovato nel greto del Fiume Farfa, e la sala dedicata alla Tomba XXXVI di Colle del Forno. Della fase rinascimentale, l’edificio conserva intatta la facciata della prima metà del ‘400, mentre gli interni sono stati pesantemente ristrutturati dai successivi proprietari: al tardo barocco possono essere ascritti gli affreschi di una delle sale, dipinti con motivi a grottesche come si usava nei piani nobili delle case di fine ‘700. Inoltre, a inizio anno si sono conclusi i lavori per l’allestimento in via definitiva di un’altra sala, dedicata ad una tomba i cui corredi sono stati protagonisti di vicende tra le più travagliate e a tratti rocambolesche della storia dell’archeologia: la Tomba XI di Colle del Forno, meglio conosciuta come Tomba del Carro.
Per informazioni e prenotazioni: visitfarainsabina@gmail.com 0765277321 – 3802838920.
Fara in Sabina: tra passato e presente
Popolata fin dall’epoca preistorica, Fara in Sabina, ridente comune in provincia di Rieti, fa risalire le origini del suo attuale abitato ad epoca longobarda. Placidamente adagiato a circa cinquecento metri, il borgo di Fara in Sabina è contornato da un incantevole panorama.
Un dolce paesaggio, ove spiccano uliveti e verdi colline. Nel suo territorio, inoltre, vi è una ampia presenza di monumenti e testimonianze storiche di grande rilevanza. Visitando Fara in Sabina, si rimarrà ammaliati dall’incantevole visione di secolari ulivi, abbazie, rocche e torri.
Fara in Sabina tra passato e presente, offre la possibilità di godere di un momento unico, in cui vivere le emozionanti storie e leggende legate a mostri spaventosi, briganti, ma anche a condottieri e santi.
Gioiello di Fara Sabina è il suo centro storico, un delizioso ricco scrigno, che ha conservato, nonostante l’inesorabile trascorrere dei secoli, angoli pittoreschi e alquanto caratteristici.
Girovagando per i vicoli di Fara in Sabina vi imbatterete nel Palazzo Baronale, oggi sede di un interessante Museo Archeologico. Merita una nota particolare la Seicentesca Chiesa intitolata a San Giacomo, e la Collegiata di Sant’Antonio risalente al XVI. Eretto nel XVII secolo sulle rovine del suo castello, vi è il Monastero delle Clarisse Eremite.
Se brillano gli esempi di architettura religiosa, non sono da meno quelli relativi ai suoi palazzi. Una magnifica rassegna è data dal Palazzo Foschi del XV secolo, dal Palazzo Farnese risalente al 1585 e dal Palazzo Orsini, un eccellente esempio di architettura civile del XV secolo.
Tra i siti archeologici presenti a Fara in Sabina, si segnalano i Ruderi di San Martino e i resti di Cures Sabini, di origine preromana. Una gita a Farfa in Sabina, quindi, è una occasione magnifica per riscoprire un territorio stupendo e degustare ottimi piatti della fantastica cucina sabina.
Se siete a Fara in Sabina, non potete di certo perdere l’occasione per visitare anche la celeberrima Abbazia di Farfa, indiscutibile punta di diamante del territorio sabino e che dista solo pochi chilometri dal borgo di Fara.
Quando crolla lo Stato: Studi sull’Italia preunitaria
a cura di Paolo Macry
Descrizione del libro di Paolo Macry, quando crolla lo Stato: Studi sull’Italia preunitaria-Gli storici analizzano le scienze sociali hanno prestato grande attenzione al fenomeno delle discontinuità politiche e statuali. Quelle fratture, tuttavia, sono state analizzate per lo più sul versante dei vincitori: la Francia della sovranità popolare, la Russia bolscevica, la Cina di Mao, l’Europa post-comunista. Questo volume, dedicato alla crisi italiana del 1848-1861, sposta l’ottica analitica dalla rivoluzione al crollo, dai regimi emergenti ai regimi che muoiono, dal «nuovo» al «vecchio». Il che restituisce legittimità storiografica a Stati e sistemi politici talvolta letti nell’ottica teleologica di una sconfitta poco meno che fatale, avvolti in una sorta di leggenda nera, sottovalutati. Ma non soltanto. Mettendo l’accento sul breve momento, ovvero sui processi repentini che, nel giro di settimane, liquidano formazioni statuali potenti e antiche, il volume riflette l’ipotesi che la fase terminale dello Stato sia una finestra interpretativa di speciale rilevanza. Niente più di quelle settimane cruciali sembra capace di svelare nel profondo, oltre che le ragioni della morte, le ragioni d’essere di uno Stato. Come un’autopsia.
Ha fatto parte della direzione di “Quaderni Storici“, dell’Editorial Board del “Journal of Modern Italian Studies”, del direttivo dell’Istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali (IMES), del direttivo della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO), del comitato editoriale per la storia della casa editrice Il Mulino. Ha tenuto conferenze, seminari e corsi presso numerose istituzioni, fra le quali: Accademia Nazionale dei Lincei, Roma; Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma; McGill University, Montreal; Center for European Studies, Harvard; Columbia University, New York; Eighteenth-Century Studies Association, Berkeley.
I suoi interessi di ricerca si sono rivolti prevalentemente alla storia economica e sociale nella tarda età moderna e in età contemporanea. In questa cornice vanno collocati gli studi sul mercato nel XVIII secolo, sulle borghesie e le culture urbane ottocentesche, sulle pratiche ereditarie e patrimoniali delle famiglie nel XIX secolo. In seguito, coniugando storia sociale e storia politica, ha analizzato i fenomeni di discontinuità istituzionale – il “crollo dello stato” – nel caso dell’Italia del 1860 e nel quadro della storia europea del XX secolo. Ha lavorato sui metodi e le interpretazioni della storiografia nel secondo Novecento.
Dal 1997 ha collaborato assiduamente alle pagine politiche e culturali del “Corriere della Sera”, del “Corriere del Mezzogiorno”, del “Riformista” e del “Mattino”.
Opere principali
Mercato e società nel Regno di Napoli. Commercio del grano e politica economica del Settecento, Guida, Napoli 1974
Ottocento. Famiglia, élites e patrimoni a Napoli, Einaudi, Torino 1988 (Il Mulino, Bologna 2002)
La società contemporanea, Il Mulino, Bologna 1989 (Ariel, Barcelona 1997)
Giocare la vita. Storia del lotto a Napoli tra Sette e Ottocento, Donzelli, Roma 1997
Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2009
Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Il Mulino, Bologna 2012
Napoli. Nostalgia di domani, Il Mulino, Bologna 2018
Storie di fuoco. Patrioti, militanti, terroristi, Il Mulino, Bologna 2021
I segni del lavoro. I siti industriali in Bassa Sabina tra agricoltura e industria dal XVIII al XX secolo
A cura di Fondazione Nenni e Associazione Eolo
Editore Espera
DESCRIZIONE del libro I segni del lavoro. I siti industriali in Bassa Sabina Il volume è il risultato di una ricerca storico-archivistica, coordinata dalla Fondazione Pietro Nenni e dall’Associazione Eolo, che ha permesso di riscoprire all’interno di sette comuni della Bassa Sabina, con l’ausilio di documenti inediti e fonti orali, tracce di industrie, miniere, botteghe artigianali, mulini e mattatoi, forni, frantoi, allevamenti di bachi da seta, officine meccaniche, fabbriche di utensili e ceramiche, laboratori di sartoria e maglieria. Il lettore troverà un volume ricco di informazioni, dati e curiosità, sui siti produttivi, sul tessuto economico e sociale dei comuni di Cantalupo, Casperia, Forano, Magliano Sabina, Poggio Mirteto, Roccantica e Stimigliano tra il XVIII e il XX secolo. L’agricoltura ha rappresentato sempre un aspetto dominante dell’economia locale ma, nel corso del periodo preso in esame, si sono sviluppati oltre ad essa insediamenti produttivi e protoindustriali che hanno cambiato radicalmente la vita della popolazione. È uno studio realizzato con rigore, pensato per valorizzare il patrimonio archeologico industriale e agricolo di questo territorio.
Chronique d’une famille italienne dans les tourments du XXe siècle.
La migration est un thème d’actualité mais qui n’est pas nouveau. La Bible n’en parle-t-elle pas déjà abondamment ? Une chose est d’en parler, tout autre est d’en témoigner. Dans son livre,Mario Petricola (qui est issu d’une famille italienne venue s’installer en Lorraine) s’est lancé le défi de décrire les tribulations de sa famille dans les contextes géographiques, politiques, sociaux et religieux de son terroir d’origine comme des lointaines contrées où le destin a jeté les siens. Il le fait en ajoutant à la sensibilité d’un poète la rigueur d’un ethnologue, d’un sociologue et d’un historien.
D’une plume alerte, il emporte le lecteur dans les paysages des mondes d’hier et d’avant-hier. Avec un art consommé, ainsi fait-il monter aux narines les puissants effluves de la garrigue et de la cuisine parfumée des Abruzzes, berceau de sa famille. En suivant les migrants, ce décor bucolique laisse bientôt place aux vapeurs d’échappement du Nouveau Monde, aux remugles des tranchées de 14-18 et des sinistres camps nazis de la seconde guerre mondiale avec, pour finir, les jets de gaz brûlants des coulées de fonte des fours de Longwy qu’avec tristesse on verra démanteler sans que les mouvements sociaux des ouvriers désemparés n’y puissent mais.
L’auteur dépeint avec délicatesse comment, confrontée aux bouleversements survenus entre 1880 et 1980, sa famille pastorale est passée d’un mode de vie proche de la nature et largement autosuffisant où l’eau se cherchait au puits et les repas mijotaient dans l’âtre, à l’ère du béton qui a effacé ciel et terre et instillé une dépendance qui fait craindre désormais la moindre coupure de courant électrique. Autrement dit, les aventures des différents membres de la famille auxquels le lecteur s’identifie volontiers permettent de réaliser comment d’une société rurale à la stabilité millénaire que nos parents savaient presque instinctivement maîtriser, nous sommes passés à une civilisation urbaine dans laquelle nous éprouvons la frustration de n’en pouvoir assujettir les aléas devenus complexes.
En parallèle, l’auteur fait vivre les affres d’une traversée de trois semaines à fond de cale, entre Naples et New-York où, à l’ombre de la statue de Bartholdi, les rêves se fracassent contre la réalité. Il fait, en outre, assister à l’éclatement des familles en raison de la conscription qui, pour des combats stériles, coupe l’individu de ses racines, à moins qu’il ne doive affronter l’isolement et l’inconnu pour emplir les assiettes.
Pourtant, en dépit des vicissitudes, flotte constamment dans le livre une brise tonique qui trouve son dénouement dans les dernières pages. On y voit en effet, avec soulagement, les transalpins poser leurs valises et sereinement s’intégrer dans leur pays d’adoption, “happy end” qui, au départ, n’avait rien d’évident.
Recension par Pierre Yves Divisia
La version italienne de l’ouvrage est à paraître en octobre 2021 chez l’éditeur Il Filo d’Arianna.
Partir pour un ailleurs Chronique d’une famille italienne dans les tourments du XXe siècle.
De Mario Petricola
(paru en France en 2019 à compte d’auteur)
Vous pouvez en savoir plus, voir quelques photos et lire le premier chapitre du livre sur le site de Mario PETRICOLA : https://vivrecrire.monsite-orange.fr/
Si vous souhaitez vous procurer le livre il est disponible sur Amazon en format broché ou kindle et sur Fnac.com mais en version e-book uniquement sur liseuse Kobbo by FNAC.
Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 1926 – Roma 1973), nota anche come Ruth Keller, ottiene il Premio del Gruppo 47 per le poesie riunite ne Il tempo dilazionato (1953), in cui i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrano con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico.
Quel ch’è vero
Quel ch’è vero non sparge sabbia nei tuoi occhi,
per quel ch’è vero morte e sonno con te si scuseranno,
come incarnato, saggio per ogni dolore,
quel ch’è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro.
Quel ch’è vero, caduto ormai, slavato
seme o già foglia, nel letto malsano della lingua,
un anno e un anno ancora ed ogni anno –
quel ch’è vero non crea tempo, lo salva.
Quel ch’è vero discrimina la terra,
pettinando sogno serto e coltura,
alza la cresta e colmo di frutti strappati
ti folgora, prosciugando ogni cosa.
Quel ch’è vero non spera la scorreria
quando per te forse è in gioco tutto.
Sei la sua preda, se le tue ferite sgorgano;
nulla ti assale, che non ti tradisca.
Giunge la luna, con brocche avvelenate.
Bevi il tuo calice. L’amara notte cala.
La feccia schiuma su penne di colombe,
se un ramo non è portato in salvo.
Schiavo del mondo, sei gravato di catene,
ma quel ch’è vero nel muro apre le crepe.
Vegli e nel buio vai scrutando intorno,
a ignota via d’uscita tu sei volto.
Il gioco è finito
Mio caro fratello, quando costruiremo una zattera
per scendere lungo il cielo?
Mio caro fratello, presto sarà il carico immenso
e noi affonderemo.
Mio caro fratello, tracciamo sul foglio
molti paesi e binari.
Sta attento a linee nere,
lì salti in aria con le mine.
Mio caro fratello, voglio gridare
legata stretta al palo.
Ma già cavalchi dalla valle dei morti
e insieme fuggiamo.
Svegli nel campo di zingari e svegli in tenda nel deserto,
scorre sabbia dai nostri capelli,
la tua, la mia età e l’età della terra
non si misura con gli anni.
Non lasciarti ingannare dall’astuzia dei corvi,
da una zampa vischiosa di ragno, dalla penna nel rovo,
nel paese di cuccagna non mangiare e non bere,
schiuma apparenza da padelle e bicchieri.
Solo chi al ponte d’oro, per la fata rubino
la parola sa ancora, ha vinto.
Devo dirti che con l’ultima neve
si è sciolta nel giardino.
Hanno piaghe i nostri piedi, per molte e molte pietre.
Uno è sano. Con lui salteremo,
finché il re dei fanciulli, con in bocca la chiave del regno,
non ci prenda con sé e noi canteremo:
È una bella stagione, quando il dattero è in fiore!
Chi cade ha le ali.
Un rosso ditale orla il sudario dei poveri,
e il tuo cuore cade sul mio sigillo.
Si va a dormire, caro, il gioco è finito.
In punta di piedi. Si gonfiano le camicie bianche,
Papà e mamma dicono che ci sono i fantasmi
quando scambiamo il respiro.
Invocazione all’Orsa Maggiore
Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata,
fiera dal manto di nubi, dagli antichi occhi,
stelle occhi,
nel folto si aprono, scintillanti,
le tue zampe con gli artigli,
stelle artigli,
vigili pascoliamo gli armenti,
pur da te ammaliati, e diffidiamo
dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi
denti dischiusi,
vecchia orsa.
Un cono di pigna: il vostro mondo.
Voi: le sue squame.
Dagli abeti del principio
agli abeti della fine
lo rivolto, lo sbalzo,
l’annuso, ne saggio il sapore
e l’abbranco.
Temete e non temete!
Gettate l’obolo nella borsa,
all’uomo cieco una buona parola,
perché tenga l’orsa al guinzaglio.
E condite gli agnelli di spezie.
Potrebbe quest’orsa
liberarsi, non più minacciando,
incalzando ogni pigna, dagli abeti
caduta, maestosi abeti alati,
precipitati dal paradiso.
Mio uccello
Qualunque cosa accada: il mondo devastato
ricade indietro nel crepuscolo,
un elisir gli offrono i boschi perché dorma,
e dalla torre che la vedetta lasciò vuota
gli occhi della civetta calmi e fermi scrutano.
Qualunque cosa accada: tu sai il momento,
tu prendi il velo, mio uccello,
e giugni a me per la nebbia.
Vagano i nostri occhi nell’orbita abitata dalla feccia,
tu segui il mio cenno, portandoti fuori
in un vortice di piume e calugine –
Grigio compagno della mia spalla, mia arma,
adorno di quella penna, mia unica arma!
Mio unico fregio: il tuo velo e la tua penna.
Quand’anche nella danza degli aghi sotto l’albero
la pelle mi bruci,
e il cespuglio che giunge all’anca
mi tenti con foglie speziate,
quando le mie chiome guizzano
ondeggiando e bramano madore,
detriti di stelle rovinano
proprio sui miei capelli.
Quando sotto un elmo di fumo
nuovamente so cosa accade,
o mio uccello, o soccorso mio della notte,
quando nella notte divampo,
crepita nella macchia scura
e la scintilla da me stessa estraggo.
Quando infuocata come sono rimango,
e amata dal fuoco,
finché resina stilla dai tronchi
goccia a goccia sulle ferite, e calda
di sé intesse la terra,
(e quand’anche il mio cuore tu predassi di notte,
mio uccello in fede e mio uccello per sempre!)
nella luce si mostra la vedetta
che tu, placato,
in splendida calma volando raggiungi –
qualunque cosa accada.
Réclame
Ma dove andare
spensierato sii spensierato
quand’è buio e fa freddo
spensierato
e cosa fare
con musica
dunque
allegro con musica
e pensare
allegro
al cospetto di una fine
con musica
e dove portare
meglio
le nostre domande e l’orrore di tutti gli anni
nella lavanderia dei sogni spensierato sii spensierato
cosa accade dunque
meglio
quando quiete mortale
si fa
Discorso e diceria
Dalle labbra nostre non uscire,
parola che semini il drago.
È vero, l’aria è afosa,
schiuma la luce di acidi e fermenti,
e grava sulla palude nero il velo di zanzare.
Volentieri la cicuta si abbevera.
Una pelle di gatto è in mostra,
la serpe sopra vi soffia,
lo scorpione compare.
Al nostro orecchio non giungere,
notizia d’altrui colpa.
Parola, muori nella palude,
da cui sgorga la pozzanghera.
Parola, sii con noi,
pazientemente tenera
e impaziente. Deve il seminare
avere fine!
Non domerà l’animale, chi ne imita il verso.
Chi rivela i suoi segreti d’alcova, si priverà d’amore.
Bastarda la parola si fa lazzo e sacrifica uno stolto.
Chi ti chiede sullo straniero una sentenza?
E se la pronunci non richiesta, va’ tu, di notte in notte,
con le sue piaghe ai piedi, va’! non ritornare.
Parola, sii tra noi,
libera, chiara e bella.
Certo deve aver fine,
il diffidare.
(Il gambero indietreggia,
la talpa dorme troppo,
l’acqua morbida scioglie,
il calcare che ha tessuto pietre.)
Vieni, grazia di suono e di fiato,
fortifica questa bocca,
quando la sua debolezza
ci atterrisce e frena.
Vieni e non ti negare,
poiché noi siamo in lotta con tanto male.
Prima che sangue di drago protegga il nemico
cadrà questa mano nel fuoco.
Mia parola, salvami!
Ombre rose ombre
Sotto un cielo straniero
ombre rose
ombre
su una terra straniera
tra rose e ombre
in un’acqua straniera
la mia ombra
Breve biografia di Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 1926 – Roma 1973), nota anche come Ruth Keller, ottiene il Premio del Gruppo 47 per le poesie riunite ne Il tempo dilazionato (1953), in cui i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrano con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico. Nella successiva raccolta, Invocazione all’Orsa Maggiore (1956), i nodi espressivi tendono a sciogliersi in un dettato più lucido (vi compare spesso, al posto del metro libero, la strofa rimata), pur senza perdere di profondità. Di singolare interesse (a parte alcuni testi minori, fra i quali i radiodrammi Le cicale, 1955, e Il Buon Dio di Manhattan, 1958, in forma di ballata) sono altresì i volumi di racconti Il trentesimo anno (1961) e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971): pagine narrative caratterizzate da una intensa vibrazione poetica, anche se quasi sempre lontane dai moduli della prosa lirica.
Testi selezionati da Invocazione all’Orsa Maggiore (trad. di L. Reitani, Mondadori, 1999)
Fonte- AVAMPOSTO-Rivista di Poesia
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Per informazioni, segnalazioni, proposte di pubblicazione e/o collaborazione,
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“Scriveva poesie. Ciò stupì un poco gli amici. La sua mente raziocinante l’aveva fatta apparire più incline alla saggistica. Inoltre quegli anni erano particolarmente antieroici, antipoetici. Predominava il discorso, trionfava la frase più scarna possibile. Eppure Ingeborg covava una liricità che nulla aveva a che fare col ragionamento. Cantava, trasformando il pensiero in immagini che solcavano la pagina, a grappoli, con parole di fuoco. Tutte le più strane combinazioni potevano avvenire in mezzo ai versi: irruzione di sgomento e colpa, ammonizioni, verdetti, tragiche consapevolezze, estasi nei confronti della parola.”
Grazia Livi, Le lettere del mio nome, La Tartaruga
*
Così parlò
e la luce
si spense,
scrisse, e
un uomo cadde a pezzi
come un vestito vecchio. La tortura
*
Dalla terrazza più alta
volevo saltare,
sono salita a piedi
lungo la scala di servizio, per
i domestici, e ho origliato
alla porta le risate
nelle mie stanze, mi hanno scoraggiata. Un cadavere,
subito dopo colazione, lo avresti
preso male Sulla terrazza più alta
*
Andai dunque nel deserto. La luce si rovesciò su di me, l’eruzione del cielo, il suo odore nitido, ardente, mi è divenuto familiare. Sono fuggita, anzi mi sono ribellata, allontanata dalla clinica, mentendo ho fatto sparire le mie tracce, mi sono procurata il siero con dei pretesti, ho simulato che la vista si annebbiasse e di poter stare a galla, senza dover annaspare con le braccia, ho falsificato i referti. Non c’è più bisogno di menzogne qui, tutti guardano fisso dinanzi a sé, tutti hanno uno sguardo che non promette più nulla.
da Il libro Franza, Adelphi
*
Ma non vogliamo parlare dei limiti,
e limiti attraversano ogni parola:
spinti dalla nostalgia li oltrepasseremo
e poi saremo in armonia in ogni luogo. Von einem Land, einem Fluss und den Seen
Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nascondere le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui anzi il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti. E solo quel dolore nascosto ci fa sensibili all’esperienza e soprattutto all’esperienza della verità. Quando siamo in questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo. Far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi. Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar
Alla poetessa austriaca, nata a Klagenfurt nel 1926, gli occhi si sono aperti in Italia, a Roma.
Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere S.P.Q.R. […] Qui a Roma il Tevere è bello, ma trascurato. L’isola Tiberina è un’isola di malati e di morti. Al Ghetto non bisogna lodare il giorno prima che faccia sera. […] Giordano Bruno continua ad essere bruciato ogni sabato, quando si smantella il mercato. A Roma ho visto che tutto ha un nome e ho capito che bisogna conoscere i nomi. Quel che ho visto e udito a Roma
Arrivata a Roma, quasi per caso, nell’autunno del 1953 e senza poter spiegarne il vero motivo Ingeborg Bachmann ci rimase fino alla sua morte precoce nel 1973. A differenza della maggior parte degli scrittori tedeschi o austriaci che arrivano in Italia sulle tracce di Goethe e con lo sguardo nordico di chi ammira i monumenti e la storia, per la Bachmann vivere in Italia fu una cosa naturale e non sentì il bisogno di tematizzare e di citare Roma nelle sue opere. Anzi, diceva di avere una “doppia vita” abitando nel cuore di Roma e scrivendo opere ambientate a Vienna. Per lei Roma fu una “città aperta con un carattere utopico”, una “città a strati” dove riuscì semplicemente a trovare una “sensazione di patria intellettuale”. In questa Roma dal carattere utopico lavorò ininterrottamente al ciclo Todesarten (Modi di morire), una serie di romanzi che dovevano avere come tema la morte dovuta alla società. Summa della sua opera è Malina dove afferma la necessità della sofferenza tramite le parole: “La lingua è castigo. Tutte le cose devono entrare in essa e devono poi scomparire secondo la colpa e secondo la misura della loro colpa.”
Nikola Harsch
*
Roma e Vienna, la doppia vita della Bachmann
“Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere S.P.Q.R.” (Ingeborg Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma). Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca, visse per molti anni a Roma dove morì a causa di un terribile incidente il 17 ottobre 1973.
Nacque a Klagenfurt (Carinzia) nel 1926 e passò la sua infanzia lì, vicino al confine con l’Italia. Nel 1945 lasciò la casa dei genitori e dopo un anno di studi a Innsbruck e a Graz si trasferì a Vienna dove rimase fino alla laurea in filosofia e dove cominciò anche a scrivere poesie e radiodrammi. Nel 1952 fu invitata da Hans Werner Richter, insieme a Paul Celan e Inge Aichinger, al decimo congresso del Gruppo 47 che nel 1953 le assegnò un premio per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato. Nello stesso anno accettò un invito a Ischia da parte del compositore Hans Werner Henze. Partì per l’Italia lasciandosi alle spalle l’Austria dove non sarebbe più ritornata tranne che per brevi visite. A Ischia scrisse le poesie della raccolta L’Invocazione dell’Orsa Maggiore e furono in molti a dire che il suo stile si fosse trasformato positivamente con il trasloco.
Nell’autunno del 1953 la Bachmann venne a Roma per la prima volta. La decisione di trasferirsi nella capitale fu dettata dal bisogno di guadagnare: per un anno scrisse come corrispondente per vari giornali tedeschi. La sua idea fu quella di restare a Roma soltanto per qualche mese ma ci rimase molto di più benché non poté mai spiegare il vero motivo della sua decisione. Si stabilì nella capitale e presto entrò a far parte della scena letteraria romana.
Collaborò alla rivista letteraria Botteghe Oscure e tradusse le poesie di Giuseppe Ungaretti, si interessò di Morante e Manganelli, scrisse un saggio sulla relazione tra la letteratura italiana e quella tedesca e conobbe gli scrittori tedeschi che vivevano a Roma, tra cui Marie Luise Kaschnitz e la figlia Iris, Hermann Kesten e quelli che frequentarono come loro l’Istituto di Studi Germanici a Villa Sciarra. Spesso le venne chiesto perché avesse scelto di vivere proprio a Roma. Lei descrisse Roma come “una città aperta” con “un carattere utopico” dove si riesce ad avere “una sensazione di patria intellettuale”. In uno dei suoi pochissimi testi su Roma, Quel che ho visto e udito a Roma del 1954, descrisse proprio questo.
Nel 1957 Ingeborg Bachmann lasciò Roma per alcuni anni. Si trasferì a Monaco di Baviera dove accettò un posto in televisione come drammaturgo. Conobbe lo scrittore svizzero Max Frisch con il quale fu legata in una relazione molto movimentata fino al 1962. Con lui visse tra Roma e Zurigo, ma fu soltanto dopo la fine del loro rapporto che nel 1966 decise di ritornare definitivamente a Roma. Abitò in Via Bocca di Leone 60 (oggi una lapide ricorda gli anni dal 1966 al 1971) e dopo si trasferì in Via Giulia 66 dove visse fino alla morte. Soffrì di gravi problemi di salute dovuti alla sua farmacodipendenza ma nonostante tutto lavorò ininterrottamente al ciclo “Modi di morire”, una serie di romanzi che dovevano avere come tema la morte dovuta alla società. Summa della sua opera narrativa è Malina (1971), primo romanzo del ciclo; il secondo romanzo del ciclo, Il caso Franza, rimase incompiuto.
Quando la Bachmann parlò della sua vita a Roma alla fine degli anni Sessanta, la chiamò Doppelleben, doppia vita. I suoi racconti della raccolta Il trentesimo anno e anche i romanzi furono, infatti, ambientati esclusivamente in Austria mentre lei viveva nel cuore di Roma. “Sto meglio a Vienna perché sono a Roma; senza questa distanza non potrei immaginarla per il mio lavoro.”
Ingeborg Bachmann non fu la tipica poetessa venuta dal Nord, piena di ammirazione per l’Italia con la sua storia e i suoi monumenti, non sentì il bisogno di descrivere continuamente la città eterna come lo fecero molti dei suoi colleghi tedeschi. Sottolineò spesso che per lei vivere in Italia fosse qualcosa di normale visto che era cresciuta vicino al confine. Fu a Roma che trovò la libertà e la forza per concentrarsi sul suo lavoro di scrittrice e dove seguì un impegno ben preciso: “Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nascondere le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti. E solo quel dolore nascosto ci fa sensibili all’esperienza e soprattutto all’esperienza della verità. Quando siamo in questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi” (Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar).
Il dolore di cui la Bachmann parlò come via verso la percezione di una realtà diversa è quello della guerra, il “dolore troppo precoce” che aveva provato quando le truppe di Hitler invasero Klagenfurt, l’amara scoperta della volontà di distruzione, del desiderio di supremazia che si cela nelle relazioni umane, delle “ombre cupe” che accompagnano la vita di tutti i giorni.
Nikola Harsch, l’Unità, 17 ottobre 2003
*
È buio fitto davanti alla finestra, non posso aprirla e premo il viso contro il vetro, non si riesce a vedere quasi niente. Lentamente ho l’impressione che il fosco specchio d’acqua potrebbe essere un lago e sento gli uomini ubriachi cantare sul ghiaccio un corale. So che dietro a me è entrato mio padre, ha giurato di uccidermi, e mi metto svelta tra la lunga tenda pesante e la finestra, in modo che non mi sorprenda a guardare fuori, ma so già quello che non debbo sapere: in riva al lago c’è il cimitero delle figlie uccise.
da Malina, Adelphi
*
Era proprio uno strano meccanismo il suo, viveva senza un solo pensiero in testa, immersa nelle frasi degli altri che immediatamente doveva ripetere come una sonnambula, ma con suoni diversi: di “machen” sapeva fare to make, faire, fare, hacer e delat’, era capace di girare ogni parola come su un rullo per ben sei volte, soltanto non doveva pensare che machen significava veramente machen, faire fare, fare fare, delat’ delat’, questo avrebbe reso la sua testa inservibile e lei doveva stare molto attenta a non venire un giorno travolta da quella valanga di parole.
da “Simultaneo”, Tre sentieri per il lago, Adelphi
*
il rogo è eretto sul Kurfürstendamm, angolo Joachimsthalerstraße. C’è il black-out dei giornali. Nessuno dei giornali con cui si può accendere il fuoco è uscito. L’edicola è vuota, non c’è neanche la giornalaia. La gente esita, poi ciascuno si fa coraggio e prende un ciocco. Alcuni si portano subito a casa il ciotto sotto il soprabito, altri cominciano lì sul posto a incidere nel legno col temperino quel che gli salta in mente: segni solari, segni di vita. Un aio di persone fanno osservazioni volgari e dicono che la legna è umida. Un uomo decrepito alza il suo ciocco e grida: sabotaggio! Li lasciamo cadere in mano agli altri! E davvero i ciocchi corrono già in cerchio, ognuno passa all’altro un ciocco, ma nessuno scherza col fuoco, tutti sono molto ragionevoli. Ben presto la legna è finita e il traffico riprende. Tutt’a un tratto i giornali escono, prima i giornali piccolissimi, con lettere in grassetto nero, con sottolineature cotennose, con grasso freddo in eccedenza che sgronda ai margini. Poi i giornali grandissimi, quelli magri, stracotti, ricoperti di brodo pallido, che si prendono in mano coi guanti.
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