All’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna di Amsterdam, intensa e passionale. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. È ebrea, ma non osservante. I temi religiosi la attirano, e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, uccisi o imprigionati. Un giorno, davanti a un gruppo sparuto di alberi, trova il cartello: «Vietato agli ebrei». Un altro giorno, certi negozi vengono proibiti agli ebrei. Un altro giorno, gli ebrei non possono più usare la bicicletta. Etty annota: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Ma, quanto più il cerchio si stringe, tanto più Etty sembra acquistare una straordinaria forza dell’anima. Non pensa un solo momento, anche se ne avrebbe l’occasione, a salvarsi. Pensa a come potrà essere d’aiuto ai tanti che stanno per condividere con lei il «destino di massa» della morte amministrata dalle autorità tedesche. Confinata a Westerbork, campo di transito da cui sarà mandata ad Auschwitz, Etty esalta persino in quel «pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato» la sua capacità di essere un «cuore pensante». Se la tecnica nazista consisteva innanzitutto nel provocare l’avvilimento fisico e psichico delle vittime, si può dire che su Etty abbia provocato l’effetto contrario. A mano a mano che si avvicina la fine, la sua voce diventa sempre più limpida e sicura, senza incrinature. Anche nel pieno dell’orrore, riesce a respingere ogni atomo di odio, perché renderebbe il mondo ancor più «inospitale». La disposizione che ha Etty ad amare è invincibile. Sul diario aveva annotato: «“Temprato”: distinguerlo da “indurito”». E proprio la sua vita sta a mostrare quella differenza.
In copertina-Etty Hillesum ritratta nella sua stanza (1937).
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Relazione di Daines Barrington alla Royal Society, 28 novembre 1769
Ricevuta il 28 novembre 1769
VIII. Relazione circa un notevolissimo giovane musicista. In una lettera dell’onorevole Daines Barrington F.R.S. a Mathew Maty, M.D. Segr. R.S.
Letta il 15 febbraio 1770
Signore,
Se vi inviassi una ben circostanziata relazione circa un ragazzo alto sette piedi all’età di neppure otto anni, essa potrebbe essere considerata non immeritevole dell’attenzione della Royal Society. Il caso, che ora desidero voi riferiate a codesta dotta istituzione, di una precoce manifestazione dei più straordinari talenti musicali, sembra forse richiamare allo stesso modo la sua attenzione.
Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart nacque a Salisburgo, in Baviera, il 17 gennaio 1756. Un musicista e compositore assai competente mi ha informato di averlo visto spesso a Vienna, quando aveva poco più di quattro anni.
A quell’epoca non soltanto era in grado di eseguire brani sul suo strumento preferito, il clavicembalo, ma ne componeva pure alcuni, semplici per stile e gusto, ma particolarmente apprezzati.
[…]
Gli portai un duetto manoscritto, composto da un gentiluomo inglese su alcune celebri parole tratte dall’opera Demofoonte di Metastasio.
L’intera partitura era in cinque parti, ossia l’accompagnamento di un primo e un secondo violino, le due parti vocali e un basso.
Devo inoltre menzionare che le parti della prima e della seconda voce erano scritte in quella che gli Italiani chiamano chiave di contralto; la ragione per prendere nota di questo particolare apparirà tra breve.
Portando con me questa composizione manoscritta, avevo intenzione di ottenere una prova inoppugnabile della sua abilità come esecutore a prima vista, essendo assolutamente impossibile che potesse aver mai visto quella musica in precedenza.
Non appena la partitura fu collocata sul suo leggio, cominciò a suonare la sinfonia nella maniera più magistrale, tanto nel tempo quanto nello stile, nel pieno rispetto delle intenzioni del compositore.
Faccio menzione di questa circostanza, perché i più grandi maestri spesso trascurano questi particolari alla prima prova.
La sinfonia terminò ed egli prese la parte superiore, lasciando a suo padre quella inferiore.
La sua voce, nel tono, era esile e infantile, ma nulla potrebbe superare la maniera magistrale in cui egli cantò.
Suo padre, che nel duetto eseguì la parte inferiore, sbagliò una o due volte, sebbene i passaggi non fossero più difficili di quelli nella parte superiore; in tali occasioni il figlio si voltò a guardarlo con una certa irritazione, mostrandogli gli errori e correggendolo.
[…]
La sua capacità di improvvisazione, della quale sono stato testimone, dimostra che il suo genio e la sua inventiva devono essere stati strabilianti. Però temo di diventare eccessivo nel tessere le sue lodi, per cui permettetemi di firmarmi, signore,
il vostro più fedele
umile servitore,
Daines Barrington-
Questo è l’estratto di una lunga, curiosa, e interessantissima relazione del 28 novembre 1769. Se volete leggerla integralmente (ne vale la pena!) ecco il link del cofanetto nel formato cartaceo:
Elisa Veronesi-Molesini Editore Venezia:il presente della Poesia-
Se la Venezia del Ventunesimo secolo ha poco o nulla a che vedere con la città ricca e cosmopolita che nel Quattrocento dominava il Mediterraneo, c’è tuttavia un fil rouge che pare saldare questo nostro presente catastrofico con la grandezza di una città il cui fascino continua ad irradiare, nonostante tutto, a pelo d’acqua. E questo legame è iscritto, o meglio sarebbe dire scritto, nei libri. Nei libri in quanto oggetti prodotti dall’arte sapiente della rilegatura e nei libri in quanto veicoli di conoscenza, di scienza e di poesia.
La storia della stampa si intreccia con la città di Venezia ancor prima dell’invenzione dei caratteri mobili, infatti, già nel Trecento, nella Laguna si sperimentavano nuove forme di stampa attraverso l’uso della riproduzione xilografica, soprattutto per riprodurre tabule (utilizzate dagli scolari per imparare l’alfabeto) e salteri (raccolta di preghiere utilizzato per imparare a leggere), molto richiesti dai numerosi studenti cittadini. Venezia era una città nella quale lo studio e il commercio erano vivissimi e i libri erano un’effettiva necessità. Quando dunque l’invenzione dei caratteri mobili arrivò nella laguna trovò terreno fertile e divenne in poco tempo un mercato fiorente, con all’attivo oltre 200 macchine da stampa alla fine del XV secolo e nomi illustri che rimarranno impressi nella storia del libro, come quello di Aldo Manunzio.
Anche nell’odierna Venezia si continuano a stampare libri e, nell’ottobre del 2022, è nato un nuovo editore: Molesini Editore Venezia. Andrea Molesini, veneziano, scrittore e traduttore, autore, tra gli altri libri, di Non tutti i bastardi di Vienna, vincitore del Premio Campiello nel 2010, ha deciso di fondare una casa editrice di poesia al motto vitruviano di firmitas, utilitas, venustas: solidità, praticità, bellezza. Creare una casa editrice oggi è già una scommessa non da poco, fondarne una di sola poesia poi, parrebbe ancor più un azzardo. Ma è proprio nell’intento «di rivitalizzare il ruolo della poesia, e della riflessione sulla poesia, nella vita letteraria italiana», come si legge nel sito web dell’editore, che nasce questo interessante progetto. Poesia dunque, e grande cura e attenzione nei dettagli dell’oggetto-libro. I libri pubblicati da Molesini, infatti, sono libri in formato tascabile, realizzati con carta di qualità, rilegata e cucita a mano e caratterizzati da una grafica essenziale con colori vivaci e senza immagini, firmata dal grafico Giacomo Callo. Il carattere tipografico utilizzato è il Baskerville Original, inventato da John Baskerville durante l’Illuminismo, un carattere non molto comune nell’editoria contemporanea, la quale preferisce il Garamond. Una scelta, quest’ultima, che vuole omaggiare la libertà di pensiero e la laicità. I libri di autori stranieri sono poi presentati con testo originale a fronte, una pratica essenziale per un testo poetico il cui ritmo e il cui respiro vivono realmente solo nella lingua d’origine.
Molesini Editore pubblicherà 10 libri all’anno, i primi 7 titoli sono usciti alla fine del 2022 e il primo libro della collana è Messaggio di Fernando Pessoa, tradotto da Francesco Zambon, il quale ha curato anche la prefazione e il commento al testo. Un titolo significativo che inaugura la collana e che pare davvero lanciare un messaggio, quello di un’utopia necessaria in un mondo alla deriva. La poesia visionaria di Pessoa, che in questo libro narra in versi la vicende di un re del ‘500, re Don Sebastiano, il quale deve ritornare in patria per fondare il Quinto Impero della storia universale, è una poesia che vuole salvare il mondo e che per farlo trasla verso un piano spirituale e recupera il mito come fondazione.
«Sogno è vedere le forme invisibili Della vaga distanza e, con sensibili Moti della speranza e del volere, Cercare sulla fredda linea dell’orizzonte Albero, spiaggia, fiore, uccello, fonte – I baci meritati della verità».
Pessoa, II. Orizzonte
Il secondo volume pubblicato, tradotto da Emilio Coco e arricchito di un saggio di Marco Frizzini è Il pesce rosso che ci nuota nel petto, della poetessa e scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, ex militante del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Si tratta di una raccolta che analizza, con una lingua poetica tesa fino alla prosa, i legami amorosi, le lotte femministe e gli elementi della natura. La scrittura chiara e precisa di Belli apre, spalanca voragini di senso e crea immagini che restano attaccate senza tregua alla retina. Un’ironia tagliente raggira con abilità gli stereotipi che spesso accompagnano il parlare d’amore o il parlare della femminilità e trasforma il dire in una lucida disamina del mondo e degli esseri umani.
«Abitante millenaria Della precarietà dei sogni Desidero l’angolo della tua spalla Piangere sulla tua schiena Attraccare la mia barca sul dorso del tuo braccio Penisola della mia speranza». Gioconda Belli, Dichiarazione di vulnerabilità
Oltre a Pessoa e Belli sono già uscite le raccolte poetiche di Emmanuel Moses con Oscuro come il tempo nella traduzione di Andrea Molesini, Bianca Tarozzi con Devozioni domestiche, Il tempo degli spaventapasseri di Jozefina Dautbegović, tradotto da Neval Berber, Gilberto Sacerdoti con Peltro e argento e Francesco Zambon, quest’ultimo con L’iride nel fango, un suggestivo commento a L’anguilla di Eugenio Montale, un viaggio negli abissi fangosi tra il mondo umano e non umano.
Un panorama poetico, insomma, quello di Molesi Editore, che pare intercettare tematiche cruciali del presente e che lo fa con la parola più profetica della quale disponiamo, quella poetica. Aspettiamo dunque le nuove pubblicazioni di questo nuovo anno, sicuri che questa nuova avventura editoriale e poetica arricchirà il panorama editoriale italiano e ci ricorderà, ancora una volta, che la poesia è sempre stata là e non può «fare naufragio».
«Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora la poesia che è la nostra fame, la nostra sete, la nostra necessità e il nostro desiderio […] Il mare in tempesta che ci lacera il docile mare che ci rispecchia il mare traslucido dove vediamo tesori insospettabili il mare nero come un incubo senza fine la poesia continua là il suo viaggio galleggia hai mai visto una poesia fare naufragio?» Emmanuel Moses, Il mare interiore
Elisa Veronesi è nata a Castelnovo ne’ Monti, nell’Appennino Reggiano.Ha vissuto a Bologna, dove si è laureata in Italianistica e poi a Reggio Emilia, dove ha faticato per qualche anno nei magazzini di un’azienda di moda. Dal 2019 vive in Francia e lavora come insegante e formatrice di italiano in un liceo privato e in diversi centri di formazione. Dal 2022 è lettrice di italiano all’Université Côte d’Azur. Scrive, un po’ da sempre, disordinatamente. Legge molto, un po’ da sempre, altrettanto disordinatamente Un suo racconto è apparso sulla rivista on line “YAWP Giornale di Letterature e Filosofie”, altri racconti sono archiviati nel suo sito, poco aggiornato, messmerprimo.com e altri ancora sono in giro in rete. Collabora con il blog “La Grande Estinzione – per un romanzo diffuso dell’Antropocene”. Ha collaborato con la rivista on-line “Simposio Italiano” con recensioni e diversi articoli legati al territorio appenninico e alla frontiera franco-italiana.
Castelnuovo di Farfa, la notte e i Bar di via Roma
Castelnuovo lo ami sempre di più fino a che non si arrende.
Articolo di Franco Leggeri
Castelnuovo di Farfa-La notte estiva castelnuovese con il suo splendido cielo e le sue stelle simili a margherite ed ecco il miracolo del giallo notturno. I bar sono illuminati da una luce gialla che attira le falene, così irrimediabilmente attratte da essa. Le falene sembrano ripetere il passeggio della gente , alcune si posano sulle sedie accatastate, come essere in attesa del caffè. In questa notte blu che si contrappone al colore giallo dei bar castelnuovesi, se passeggi per la strada, via Roma, sembra di entrare in un dipinto. Diventa lo sguardo un pennello che deposita colori che delimitano i contorni di questa notte castelnuovese . Gli occhi si soffermano, indugiano, su ogni elemento della composizione di questa splendida scenografia castelnuovese.
Sono un ammiratore inguaribile del grande scrittore Ernest Hemingway e vorrei immaginare se anche qui in qui in questa notte e nei bar castelnuovesi , avrebbe lasciata scritto : “My mojito in La Bodeguita, my daiquiri in El Floridita”, credo di si. Nella notte castelnuovese , se la sai vivere, ti riserva , se lo sai individuare, l’angolo “intellettuale”. Un angolo che sarebbe o farebbe la felicità per gli amanti della fotografia, della pittura e dell’architettura del paesaggio, così come l’interpreta e la descrive Goethe. Ai passeggiatori attenti e amanti della notte castlnuovese non può essere sfuggito che la Valle , dominata da Castelnuovo, è una visione, uno stato d’animo, sensibilità per l’astratto e immateriale che solo loro, gli Artisti e i bambini lo sanno individuare e vivere. Parlo di quel particolare momento, durante il crepuscolo, che preannuncia il passaggio dalla luce al buio: la cosiddetta “Ora Blu”. “L’heure bleue”, cara alla poetica , alla contemplazione e ai voli immensi che solo i notturni sottolineati dalle note di Chopin sanno trasformare la realtà in estasi che, poi, si sveglia alle note del Jazz. Ai Bar di castelnuovo potresti ordinare un mojito e se ti allontani per gustarlo , per esempio sulla piazza da qui puoi estasiarti nel vedere la “luce della notte” che illumina la Valle e, se osservi attentamente, scopri che la Valle non è solamente illuminata , ma è baciata, con dolcezza, dal cielo stellato di questo caldo agosto castelnuovese; visioni che solo qui puoi scoprire perché il cielo sopra Castelnuovo è affollato di stelle che disegnano e sottolineano un’architettura dell’immaginario, il suo silenzio, e accende la natura che diventa palcoscenico teatrale o set cinematografico, un ponte tra il reale e il fantastico che, tra un mojito e l’altro, ti consente di compiere incursioni nel fiabesco e nel magico. Sensazioni che solo in queste notti d’estate qui a Castelnuovo,ai tavoli dei Bar di Castelnuovo oppure passeggiando per le sue vie e immergendoti nel silenzio delle case addormentate riesci a scoprirle. Solo “l’ora bleu” di Castelnuovo genera sensazioni, visioni suggestive e sempre originali sino al limite della fantasia. Immaginate se Ernest Hemingway qui seduto nella piazza “all’Here Blue” a gustare il suo rum, chissà, forse, avrebbe scritto: “Il Vecchio e la Valle del Farfa”, o no?Metti una notte estiva a Castelnuovo, immaginate di passeggiare lungo via Roma , io l’ho fatto, sembra di essere in una notte stellata tra i boulevard e i caffè illuminati di Parigi.
Articolo di Franco Leggeri
Castelnuovo lo ami sempre di più fino a che non si arrende.
Tutti hanno sentito il suo nome, molti hanno udito la sua voce. La parabola spettacolare di un’artista che conobbe un’ascesa scabrosa benché non avara di riconoscimenti, fino a un culmine breve come tutti i culmini, e una prolungata, malinconica discesa verso una brusca morte misteriosa, ha ispirato romanzi, poesie, testi teatrali e musicali, spettacoli di danza, film, programmi radiofonici e televisivi. Crisalide mutatasi in icona di eleganza femminile, la greco-americana si fece italiana, anzi veneta (di Verona) e poi milanese, per finire francese o quasi: l’essenza internazionale del melodramma italiano non poteva essere sancita in forma più apodittica. Il suo canto, ora osannato ora censurato, il suo stile interpretativo paragonato alle grandi voci dell’Ottocento, le sue riconosciute facoltà di attrice hanno riportato prepotentemente l’opera lirica al centro del dibattito intellettuale, hanno aperto nuovi sentieri nel repertorio, hanno contribuito a rafforzare in Italia il ruolo della regìa operistica. Maria Callas (1923-1977) è tutto questo. Per la prima volta, filosofi, storici della letteratura, dell’arte, del teatro, del cinema, della danza, della moda, sociologi della comunicazione indagano gli effetti della sua presenza umana e artistica nella sfera dello spettacolo e del costume sociale. Lo studio del lascito artistico è affidato ai musicologi, impegnati anche a delineare possibili metodologie per un terreno di ricerca ancora poco dissodato – almeno in Italia – quale è l’interpretazione musicale. Dei ricordi parlano testimoni diretti e amici del grande soprano.
ILSE WEBER: Da Terezin verso Auschwitz Birkenau-Articolo di Anna Foa
Elsa Weber, di religione ebraica, nata a Witkowitz nel 1903, scrisse poesie e fiabe per bambini fin da giovanissima, entrando a far parte del grande mondo intellettuale ceco. Come tutti gli ebrei cechi, era di lingua tedesca. Sposatasi con Willi Weber, Ilse si dedicò poi alla famiglia, pur senza interrompere la sua attività di scrittrice. Nel 1930 aveva già pubblicato tre fortunati libri di fiabe ed era divenuta una valente musicista. Patriota della sua Cecoslovacchia, diede al suo secondo bambino il nome di Tomáš in onore del presidente Masaryk.
La Cecoslovacchia degli anni Trenta era un’isola di democrazia e una crogiolo di attività intellettuali, che spiccava nel panorama degli altri Stati dell’Europa orientale, sottoposti a regimi dittatoriali e caratterizzati dal prevalere dell’antisemitismo.
Nel 1939, dopo l’occupazione nazista, i Weber decisero di mandare il primo figlio Hanuš in Inghilterra, affidandolo all’amica di Ilse, che lo avrebbe lasciato in Svezia presso sua madre e che sarebbe poi morta nel 1941. Il piccolo Weber partì così insieme ad oltre seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie all’attività di salvataggio di un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e spediti in treno nell’unico paese europeo che accettò di accoglierli, l’Inghilterra. Ilse non lo avrebbe più rivisto. Nel 1942, Ilse con il marito e il piccolo Tomáš furono deportati a Theresienstadt, “il ghetto modello” da cui partivano i trasporti per Auschwitz. Qui Ilse fece l’infermiera nell’ospedale dei bambini, creando per loro e per gli altri prigionieri poesie e canzoni, suonando per loro il liuto e la chitarra. Una sua poesia, Le pecore di Lidice, suscitò violente reazioni da parte delle SS, senza fortunatamente che Ilse ne fosse individuata come l’autrice. Un’altra, Lettera al mio bambino, indirizzata al figlio Hanuš, fu tradotta e pubblicata nel 1945 in Svezia e Hanuš poté così leggerla. Nel 1944, Willi fu per primo deportato ad Auschwitz. Poco dopo anche Ilse e Tomáš furono inseriti in un “trasporto all’Est”. Sembra che Ilse abbia scelto volontariamente la deportazione per non abbandonare i bambini a lei affidati. E qui, insieme con loro, Ilse e Tomáš furono subito mandati alle camere a gas. Tornato a Praga dopo la guerra, Willi riprese con sé il figlio, che era vissuto in Svezia affidato alla madre di Lilian, Gertrud. Un ricongiungimento difficile, perché il ragazzo, dopo quei sei anni lontano, rifiutava di parlare con il padre su quanto era avvenuto durante la Shoah. Nel 1968, dopo l’invasione da parte dei russi, divenuto giornalista e legato alla primavera praghese, Hanuš fuggì in Svezia dove si stabilì. Lentamente, alla rimozione dei suoi primi anni si sostituì il desiderio di ricostruire la sua storia. Nel 1974, Willi si preparava a raggiungere in Svezia il figlio per collaborare ad un film sui campi di concentramento che questi stava preparando, quando morì improvvisamente d’infarto. Ora questo libro, con la presentazione di Hanuš e un’ampia prefazione di Ulrike Migdal, viene a riproporci la storia di Ilse e della sua famiglia.Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una struggente bellezza, mentre le sue lettere a Lilian, che vanno dal 1933 al 1944, cioè fino alla deportazione a Auschwitz, sono un eccezionale e vivissimo ritratto, oltre che della sua vita, dei suoi affetti e della sua arte, anche del suo paese, la Cecoslovacchia, man mano che l’ombra dell’antisemitismo e di Hitler si faceva più vicina. Dopo la partenza del figlio, nel 1939, la maggior parte delle lettere sono indirizzate al bambino, che Ilse cerca di seguire a distanza, della cui educazione si preoccupa, di cui lamenta la pigrizia nello scrivere, di cui sollecita il mantenimento dell’appartenenza ebraica. Le ultime lettere sono da Theresienstadt, dove Ilse fa ancora in tempo, prima della deportazione, a piangere in una lettera alla madre di Lilian la morte dell’amica. Subito dopo, Auschwitz.
Il romanzo estremamente coinvolgente di Rosella Postorino prende spunto da una storia vera. Nel 1992, durante l’assedio di Sarajevo, i bambini dell’orfanatrofio di Bjelave vennero trasferiti in Italia per essere messi in salvo. Molto furono adottati anche se i genitori biologici erano ancora in vita e non tornarono più in Bosnia. Se l’intento era buono, togliergli dal pericolo dei bombardamenti, dalla crudeltà dei cecchini, dalla fame e dagli orrori della guerra, il risultato finale non fu altrettanto degno di lode. Figli e genitori che non hanno mai smesso di cercarsi né di rassegnarsi alla perdita. In questo dramma si ambienta la storia di Omar, Nada e Danilo i tre indimenticabili bambini protagonisti principali del romanzo. Con storie familiari, personalità e atteggiamenti nel corso degli eventi, completamente diversi tra loro, hanno in comune l’esodo verso l’Italia e la difficoltà nell’integrazione. Ognuno di essi con la sua vicenda personale, ognuno con il suo fardello di ricordi e orrori, ma uniti dalla solidarietà di chi soffre insieme e la sofferenza crea legame.
Senza addentrarci troppo nella trama, per non togliere gusto al lettore, di può dire che questo libro è di un’attualità estrema. Le guerre sono oscene, privano gli esseri viventi della loro umanità, portano la crudeltà e l’inimmaginabile limite di accettazione del male a livelli inconcepibili. Quando tutto questo colpisce bambini innocenti e lascia su di loro segni indelebili, che siano fisici o psicologici, è inaccettabile. Sono solo bambini. Pensiamo all’Ucraina, pensiamo al conflitto israelo/palestinese e a tanti altri su tutto il pianeta. Non ci interessi chi ha ragione o chi ha torto, i bambini sono sempre non colpevoli e pagano lo scotto più alto per guerre assurde e immorali.
Brava Postorino a portare l’attenzione su questa vicenda in particolare e sull’insensatezza delle guerre fratricide in generale. Facciamo tutti parte di questa tormentata umanità, non si può ignorare o fingere di non sapere.
Adeste Fidelis è un canto natalizio ben più che famoso e per molti ragazzi giovani rappresenta il primo approccio con una lingua sempre meno usata: il latino. La cantano da sempre i genitori mentre preparano l’albero di Natale, la insegnano ai più piccoli la notte del 24 dicembre e poi è immancabile in chiesa durante la messa di mezzanotte. Sa proprio di Natale, non c’è bisogno di un complesso canto corale per ricreare una atmosfera fuori dal tempo, quasi di fratellanza, difficile da spiegare ma facilissimo da provare nei giorni di festa.
Non esistono purtroppo delle prove sufficienti che permettano di attribuirne la giusta paternità e fino ad oggi Adeste Fidelis non vanta un nome preciso in merito a chi l’abbia realmente scritta. Un dato sicuro però è legato al nome del copista, cioè colui che si occupò di trascrivere il testo e la melodia. Si tratta di sir John Francis Wade. Quest’ultimo lo avrebbe riportato in tema popolare irlandese in un periodo di tempo non troppo antico: parliamo degli anni 1743-1744.
L’uso di Adeste Fidelis era dedicato ad un coro cattolico, a Douai, una cittadina del nord della Francia dove molti cattolici trovavano rifugio all’epoca perchè perseguitati dai protestanti nelle Isole britanniche.Ecco il testo originale in latino per ricordarvi le parole di una canzone popolare che certamente conoscete e che almeno una volta nella vostra vita avete provato a intonare, magari a scuola nelle prime recite scolastiche durante la vostra infanzia o per caso mentre ora, da grandi, scegliete i doni per i vostri cari.
Adeste Fidelis
Adeste Fideles
Laeti triumphantes
Venite, venite in Bethlehem
Natum videte
Regem angelorum
Venite adoremus
Dominum
Cantet nunc io
Chorus angelorum
Cantet nunc aula caelestium
Gloria, gloria
In excelsis Deo
Venite adoremus
Dominum
Ergo qui natus
Die hodierna
Jesu, tibi sit gloria
Patris aeterni
Verbum caro factus
Venite adoremus
Dominum
Chi è John Francis Wade autore di Adeste Fideles
La versione di Adeste Fideles giunta fino a noi e che tutti conosciamo è opera di John Francis Wade, un religioso cattolico nato presumibilmente nel 1711 in Inghilterra e morto il 16 agosto 1786 a Douai in Francia.
John Francis Wade si guadagnava da vivere “copiando e vendendo semplici canti e altre musiche”, e insegnando latino e canti religiosi. E’ proprio grazie alla copia di Wade che il canto Adeste Fideles è diventato popolare.
Romanzesca vicenda di una enigmatica donna ospite del CAMPO PROFUGHI di GRANICA-
Ricerca a cura di Franco Leggeri-
-Cronaca del processo svoltosi a Trento e concluso al Campo di GRANICA di Castelnuovo Farfa-
Campo Profughi di GRANICA -anno 1953-Von Pless, principessa polacca o Sonia Balasch, avventuriera tedesca? – Processata e condannata per una clamorosa rapina in casa del barone Hoepfner, ritorce le accuse contro questi denunciandolo per collaborazionismo – Voleva farsi suora ma poi ha cambiato idea .
-Cronaca del processo svoltosi a Trento e concluso al Campo di GRANICA di Castelnuovo Farfa-
Trento- 24/04/1953-– La romanzesca vicenda di Sonia Balasch, alias principessa Elfi von Pless, sarà quanto prima rievocata alla Corte di Assise d’appello della nostra città. Di fronte al giudice che esaminavano il suo “ caso “, la giovane straniera ha sostenuto di essere la principessa von Pless, figlia naturale di un principe polacco fucilato dai nazisti e fuggita in Italia subito dopo l’occupazione per sottrarsi all’arresto e alle persecuzioni. Essa ha aggiunto orgogliosamente: “ Dio mi vede e sa che dico la verità “. Sostenevano invece i suoi accusatori che li vero nome di lei era Sonia Balasch, una strana donna emersa da quel mondo equivoco di trafficanti, di spie e di poliziotti segreti calati in Italia al seguito delle truppe naziste: una tedesca nata nel 1910 in Slesia, figlia di Ignoti.
Queste accuse furono ribadite al processo svoltosi contro di lei alle Assise di Bolzano, Il 10 giugno 1950. La misteriosa Sonia doveva rispondere di una grave rapina, compiuta in circostanze romanzesche, ma della quale si proclamava innocente, dicendosi vittima di uno scambio di persona. Il fatto era avvenuto il 15 febbraio 1946 in una villa di Maia Alta presso Merano abitata dal barone Alessandro e Frida Hoepfner.
La sera era appena calata, quando alla porta della palazzina fu suonato il campanello Una cameriera si affacciò all’uscio e scorse cinque sconosciuti, due dei quali tenevano minacciosamente spianati i fucili mitragliatori. La banda, al seguito della quale era una donna, entrò nell’appartamento qualificandosi come una formazione partigiana. La baronessa e la cameriera vennero rinchiuse a chiave in una stanza, mentre il barone Alessandro, trasferito nel salotto, fu legato e imbavagliato. La banda, rovistando minuziosamente ogni locale, si impossessa di oggetti preziosi e di vestiario per un valore denunciato di venti milioni, e si allontanò quindi rapidamente a bordo di un’automobile.
Per molto tempo le indagini della polizia riuscirono infruttuose. Soltanto dieci mesi più tardi si affacciò alla ribalta, in un modo veramente strano e tuttora incomprensibile, il nome della bionda enigmatica Sonia. Essa aveva infatti presentato a Milano, dove risiedeva, una circostanziata denuncia contro il barone Hoepfner e sua moglie per rapina e collaborazionismo con i nazisti.
Sosteneva l’accusatrice che, giunta a Roma profuga dalla Polonia nel 1951, era stata denunciata alla polizia germanica dal barone che gestiva nella Capitale un’azienda commerciale ma che sarebbe stato l’eminenza grigia, del Ministero dell’Economia del Reich, un pezzo grosso al servizio del Comando tedesco. Incarcerata sotto l’accusa di aver svolto propaganda contraria agli interessi della Germania in guerra, fu rinchiusa nelle segrete di una caserma della polizia tedesca, mentre il suo appartamento venne perquisito dal barone che, sempre secondo la denuncia della donna, ne aveva asportato gioielli e denari per circa quaranta milioni. Dopo un mese di prigione fu liberata e si occupò, come interprete, prima a Roma e poi a Milano.
In seguito a questa precisa denuncia, i baroni Hoepfner vennero arrestati, ma successivamente, dopo una lunga e accurata istruttoria, nulla essendo risultato a loro carico, riebbe la libertà. Fu a questo punto che il barone Alessandro passò decisamente alla controffensiva e denunciò a sua volta la donna, che egli sosteneva essere l’avventuriera Sonia Balasch, come la protagonista della brigantesca aggressione di Maia Alta.
Arrestata, fu riconosciuta tanto dal barone quanto dalla cameriera che le aveva aperto la porta, ma protestò subito vivacemente sostenendo la sua innocenza e dichiarando che l’accusa del barone era soltanto una manovra tattica per stornare gli effetti penali e politici della precedente denuncia che essa aveva presentato contro di lui.
Tradotta in carcere, prima a Trento e poi a Bolzano, la enigmatica straniera dimostrò subito la sua insofferenza. Rispose malamente al giudice istruttore, pronunciò frasi oltraggiose contro chi metteva in dubbio, anche sulla scorta di documenti ufficiali, le sue origini principesche.
Nelle movimentate udienze del processo di Bolzano furono citati nomi grossi e illustri, strani ambienti romani dell’ultimo periodo bellico prima della liberazione della città. Sfilano in questa colorita rassegna rievocativa le figure del colonnello Kappler, responsabile della strage alle Fosse Ardeatine, del gen. Moetzler e di altre personalità germaniche, e affiorano curiosi retroscena: segrete poliziesche, anticamere di ministeri, circoli mondani, amori di un’ora e di un minuto.
Sonia fu feroce contro il barone. “ Lei è un criminale di guerra! — gli gridò in faccia non è tornato in Germania perché l’avrebbero impiccato “, e lo accusò di aver “pizzicato” parecchi ebrei. A sua volta il barone fu altrettanto spietato verso di lei: “Sono sicuro tre milioni di volte che essa fu la mia rapinatrice “, disse al giudice. E un teste importante, il milanese Giovanni Masten, riferì queste strane parole che il barone aveva pronunciato in sua presenza: “ Ho commesso un solo errore facendo togliere di mezzo una persona di meno, la Balasch. Con un colpo di pollice l’avrei fatta scomparire per sempre, l’avrei atomizzata”.
Fra le due tesi principali, colpevolezza totale o completa innocenza, fu inserita una ipotesi intermedia, ossia che la giovane straniera fosse stata travolta in una vicenda cui avrebbe voluto dare diverso Indirizzo. Tale ipotesi venne accolta dalla Corte che accordò infatti alla donna la speciale attenuante prevista dal codice quando un imputato corrispondeva in un reato diverso da quello inizialmente voluto.
Secondo i giudici, la donna sarebbe partita da Milano con presunti poliziotti per un’avventura di carattere non bene definito ma che aveva comunque un fine arbitrario.
A Merano gli pseudo poliziotti avrebbero gettata la maschera e la donna che era con loro avrebbe assistito e partecipato nolente ad un delitto non premeditato. Per questi motivi la condanna per la rapina fu contenuta nella mite pena di due anni e otto mesi di reclusione interamente condonati per gli indulti.
Il pubblico foltissimo che assisteva al dibattimento applaudi la sentenza e alcune signore portarono un omaggio floreale alla bionda Sonia che, scarcerata qualche giorno dopo, fu internata in un campo di concentramento per i profughi stranieri a Farfa Sabina nel Lazio.
Sembrava a questo punto che la vicenda pirandelliana dovesse concludersi. Sonia aveva espresso l’intenzione di entrare nell’Ordine delle Carmelitane scalze e di essere consacrata suora, perché, secondo le sue parole, “ solamente una vita claustrale poteva sollevarla dall’angoscia morale che per tanti anni aveva travagliato la sua esistenza “.
Giunta invece nel campo di concentramento per i profughi stranieri a Farfa Sabina nel Lazio, essa decideva di ricorrere contro la sentenza e chiedeva che il processo fosse rinnovato per poter dimostrare che una principessa von Pless non poteva essere una rapinatrice. Rivendicava cioè il suo nobile lignaggio e difendeva il suo onore. Chi aveva commesso il grave reato, di cui era stata ritenuta responsabile, era un’altra donna, forse l’avventuriera tedesca della quale le si era attribuito il nome.
Ricerca Storica Campi profughi in Sabina-A cura di Franco Leggeri
-Piccole Storie dal
di GRANICA di Castelnuovo di FARFA (Rieti)-
Bibliografia- Ricerca Archivio Biblioteche varie.
L’ordine pp. 88-89,225-L’Italia Libera del 25 settembre 1943.D.Sensi, “pagine partigiane”, in Corriere Sabino del 15 aprile del 1945. G.Allara, “ Dopo Anziao: la battaglia del Monte Tancia”, in Aa.Vv., La guerra partigiana in Italia, Edizioni Civitas, Roma 1984, pp.66 e 67. Musu-Polito, Roma ribelle, pp. 114-115. Bentivegna-De Simone, Operazione via Rasella pp. 89-90., Roma e Lazio 1930-1950 pp.542,545. Piscitelli, Storia della Resistenza pp.325,326,327.Giuseppe Mogavero- La resistenza a Roma-1943-1945-Massari Editore.
Fotoreport di Franco Leggeri- Fotocamera OLYMPUS OM-D
Breve storia del Borgo di Testa di Lepre-Ad ovest di Boccea, a circa 2500 m di distanza dal Castello di Boccea è conservato il Casale di Testa di Lepre di sopra. Nel secolo XII il Casale apparteneva alla Basilica di Santa Maria Maggiore di Roma, proprietà confermata da Papa Celestino III nel 1192. Il Casale entrò in seguito a far parte dei beni del Patrimonio della Basilica di San Pietro. Vi subentrarono, alla metà del XV secolo, gli Orsini e nel 1453 Francesco Orsini vendette “Testa di Lepre”, insieme ad un “Castrum dirutum” (Castello di Boccea?) a Pandolfo Anquillara. Il Casale di Testa di Lepre di sopra ( il Casale di Testa di Lepre di sotto circa 4 Km a Sud,–Pamphilj dal 1649- è invece completamente moderno), anche se notevolmente rimaneggiato , mostra ancora la caratteristica forma di Casale Torre con alta Torretta , centrale, incorporata. A Testa di Lepre, territorio, doveva esistere nel sito ove ora sorge il Casale di Malvicino, circa 2 Km a Nord di Testa di Lepre. L’esistenza della Torre di Malvicino è indicata in un disegno del Catasto Alessandrino (Papa Alessandro VII) in cui è disegnata una costruzione a tre piani munita di merlatura. Testa di Lepre e Malvicino dovevano costituire due importantissimi posti di vedetta per il controllo della via di Tragliata che univa il Castello di Boccea (sito sopra i Laghetti dei Salici) e il Castello (ora Borgo) di Tragliata.
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