IDA BINCHI:”Da tempo volevo scrivere qualcosa su questo capolavoro che ho letto due volte ed avrei voglia di rileggerlo, per condividere con il gruppo i pareri al riguardo.
I Buddenbrook è stato il primo romanzo che ha scritto T. Mann, all’età di 26 anni e che fu premiato con il Nobel quando aveva 29 anni. Questo grandissimo capolavoro , che è in gran parte autobiografico, è la storia di una famiglia di commercianti di Lubecca e si sviluppa nell’ arco di 4 generazioni. Il romanzo inizia con il successo economico e la conquista del prestigio sociale della famiglia, fino ad arrivare alla decadenza di questa.
I Buddenbrook è un romanzo bellissimo, con una descrizione della personalità dei personaggi e del loro ambiente così elevata che sembra di vederli e viverli. Il romanzo inizia con persone della famiglia molto unite che condividono la visione della vita, pieni di energia e che con molta disciplina e dedizione seguono il lavoro e la famiglia. I discendenti invece vivranno conflitti interiori e relazionali tra di loro, perché scegliere di vivere per il prestigio e la ricchezza della famiglia impone delle grandi rinunce ed il sacrificio delle loro inclinazioni. L’ arte che secondo la mentalità trasmessa dalla famiglia è sregolatezza e superficialità, diventa il tradimento dei valori della famiglia”.
I Buddenbrook-DESCRIZIONE
Il primo grande romanzo di Thomas Mann racconta la storia di una famiglia tedesca dell’Ottocento che dopo anni di prosperità è esposta a una tragica decadenza: le basi di un patrimonio e di una potenza che sembravano incrollabili sono sgretolate da una forza ostinata e segreta. Opera di ispirazione autobiografica, questo romanzo, capolavoro della letteratura europea, esprime compiutamente la concezione estetica e politica dello scrittore tedesco, il suo rimpianto per una mitica e solida borghesia, la coscienza della crisi di un mondo e di valori destinati inesorabilmente a scomparire.
Charles-Henri Favrod è scomparso alle soglie dei novant’anni il «padre» del Museé de l’Elysée di Losanna.
Parigi.Charles-Henri Favrod In un’intervista rilasciata a «Le Temps» nel 2015, aveva detto: «Vi immaginate com’era il mondo prima di duplicarlo, prima di inventariarlo, prima di fotografare ognuna delle cose che lo costituiscono? La gente non aveva idea; come immaginare il Louvre quando si vive ad Angoulême? Ci sono due invenzioni fenomenali nel XIX secolo: la fotografia e la psicoanalisi, due fondamenti».
Scomparso a Morges lo scorso 15 gennaio, quasi novantenne, Charles-Henri Favrod (giornalista, fotografo, scrittore, storico, erudito, collezionista, direttore editoriale) torna qui a sottolineare l’enorme portata del cambiamento che ha travolto il mondo dopo l’invenzione della fotografia, arte alla quale ha dedicato buona parte della sua vita.
Nato a Montreux il 21 aprile del 1927, dopo gli studi umanistici all’Università di Losanna si dedica al giornalismo, sia come reporter per la «Gazette de Lausanne» sia come critico letterario per il supplemento «La Gazette littéraire». È corrispondente di guerra in Indocina e in Algeria, dove si impegnerà attivamente per la decolonizzazione del Paese, tanto da essere poi insignito della Médaille de la Reconnaissance algérienne. Dirige le Éditions Rencontre per le quali si occupa dell’enciclopedia Edma e degli «Atlas des voyages»: sono i primi anni Sessanta e Favrod lavora già in stretto contatto con i fotografi. Diventa responsabile de La Guilde du livre dell’editore Albert Mermoud, e a lui si deve la creazione della Fondation suisse pour la photographie nel 1974. «Ho passato il mio tempo a reclamare un museo della fotografia, prosegue nella stessa intervista, trovavo insensato che non esistesse alcun luogo per presentare la fotografia, e soprattutto per spiegarla. L’inizio delle mie proteste risale agli anni Cinquanta, il museo è nato nel 1985!».
Il museo in questione è il Musée de l’Elysée di Losanna, il primo in Europa a essere consacrato esclusivamente alla fotografia, e costruito su quello che era stato il Cabinet des estampes. «Desideravo esporre i più grandi come i più giovani, nell’idea di costituire una collezione, perché un museo senza collezione è un’assurdità». Nei suoi spazi passeranno le immagini dei più noti autori internazionali, da Capa a Man Ray, da Atget a Henri Cartier-Bresson, da William Klein a Robert Frank a Lee Friedlander.
E quando dopo dieci anni, come previsto dalla legge cantonale, deve lasciare la direzione dell’Elysée, è con qualche dissapore che si separa dalla sua creatura, anche se subito dopo la Fratelli Alinari lo incarica dell’apertura del Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, che avverrà nel 2006. Favrod affida proprio al museo la conservazione della sua sterminata collezione, dalla quale provengono le opere che lui stesso seleziona per «Cento fotografi del XX secolo», la mostra con la quale nel 2007 l’istituzione fiorentina rende omaggio alla sua attività di collezionista. Intanto continuano a susseguirsi attività e pubblicazioni, a ribadire una passione per l’immagine che le sue parole spiegano bene: «La fotografia cattura il mio interesse perché mi fornisce delle informazioni. Desiderio di riconoscere, piacere di guardare. E senza dubbio anche perché essa permette d’ingannare un po’ la morte».
Poesie di Aldo Fabrizi- attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore
Aldo Fabrizi è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, è nato il 1 novembre 1905 a Roma (Italia) ed è morto il 2 aprile 1990 all’età di 84 anni a Roma (Italia). Nel 1988 ha ricevuto il premio speciale alla carriera al David di Donatello. Dal 1947 al 1988 Aldo Fabrizi ha vinto 4 premi: David di Donatello (1988), Festival di Venezia (1947), Nastri d’Argento (1951, 1975).
La Romanella
I Mì nonna, benedetta indó riposa,
se comportava come ‘na formica
e puro si avanzava ‘na mollica
l’utilizzava per un’antra cosa.
Perciò er dovere primo d’ogni sposa,
pure che costa un’oncia de fatica,
è d’esse sempre, a la maniera antica,
risparmiatrice, pratica e ingegnosa.
Si avanza un po’ de pasta, mai buttalla:
se sarta co’ un po’ d’acqua solamente,
pe’ falla abbruscolì senz’abbrucialla.
E la riuscita de ‘sta Romanella
che fa faville e che nun costa gnente
dipenne da ‘na semplice padella.
II Mò l’urtima invenzione è ‘na padella,
che quello che se còce poi se stacca,
mastice, colla, pece e ceralacca,
se rivorteno come ‘na frittella.
‘Sta novità sarà ‘na cosa bella,
ma dato che la Pasta nun attacca
in pratica sarebbe ‘na patacca
perché dev’esse mezz’abbruscatella.
Vedete, er gusto nun dipenne mica
dar fatto che diventa più odorosa,
ma dar sapore de padella antica.
E detto questo, porca la miseria,
fò a meno de la chiusa spiritosa,
perché ‘sto piatto qui è ‘na cosa seria!
Pasta alla capricciosella
Provate a fa’ ‘sto sugo, ch’è un poema:
piselli freschi, oppure surgelati,
calamaretti, funghi “cortivati”,
così magnate senz’avé patema.
Pe’ fa’ li calamari c’è un sistema:
se metteno a pezzetti martajati
nell’ajo e l’ojo e bene rosolati,
so’ teneri che pareno ‘na crema.
Appresso svaporate un po’ de vino;
poi pommidoro, funghi e pisellini
insaporiti cor peperoncino.
Formaggio gnente, a la maniera antica,
fatece bavettine o spaghettini…
Bòn appetito e Dio ve benedica!.
Chi sarà stato?
Ho letto cento libri de cucina.
de storia, d’arte, e nun ce nè uno solo
che citi co’ la Pasta er Pastarolo
che unì pe’ primo l’acqua e la farina.
Credevo fosse una creazione latina,
invece poi, m’ha detto l’orzarolo,
che l’ha portata a Roma Marco Polo
un giorno che tornava dalla Cina.
Pe’ me st’affare de la Cina è strano,
chissà se fu inventata da un cinese
o la venneva là un napoletano.
Sapessimo chi è, sia pure tardi,
bisognerebbe faje… a ‘gni paese
più monumenti a lui che a Garibardi.
La cottura
I Nun è ‘na cosa tanto compricata,
però bisogna sempre fà attenzione
perché ce vò ‘na certa proporzione
tra tipo e quantità che va lessata.
Me spiego: quella fina e delicata
va bene tutt’ar più pe’ du’ persone,
ma si presempio se ne fa un pilone
basta un seconno in più che viè incollata.
Insomma, c’è ‘na regola importante:
fino a tre etti se pò fà leggera
poi più s’aumenta e più ce vò pesante.
Er sale è mejo poco, l’acqua assai,
un litro a etto, l’unica maniera,
perché la Pasta nun s’incolli mai.
II Un’antra cosa: mai bollilla stretta,
e quanno l’acqua è in piena bollitura,
se butta giù e la pila se riattura
pe’ fà riarzà er bollore in fretta in fretta.
Poi dopo un po’ s’assaggia: n’anticchietta;
appena è cotta, ancora bella dura,
se leva e je se ferma la cottura
coll’acqua fresca sotto la bocchetta.
Doppo girata un attimo, scolate:
quanno l’urtima gocciola viè fòri
conditela de prescia e scodellate.
Si c’è quarcuno attenti a controllavve:
« mangiate calmi, piano, da signori » ,
si state soli… attenti a nun strozzavve.
La Creazione
Dio disse: « Mò che ho fatto Cielo e Tera,
domani attacco Luce e Firmamento,
mercoledì fò er mare, doppo invento
farfalle e fiori pe’ la Primavera.
Pe’ giovedì fò er Sole, verso sera
fò li Pianeti, er Fòco, l’Acqua, er Vento,
così se venerdì nun vado lento,
faccio sabbato ingrese e bònasera! »
Finì defatti er sabbato abbonora.
« Mò » disse « vojo vede chi protesta
dicenno che er “Signore” nun lavora…
Ho sfacchinato quarant’ore… basta!
Domani ch’è domenica fò festa…
e prima de fa’ Adamo fò la Pasta! »
La dieta
Doppo che ho rinnegato Pasta e pane,
so’ dieci giorni che nun calo, eppure
resisto, soffro e seguito le cure…
me pare un anno e so’ du’ settimane.
Nemmanco dormo più, le notti sane,
pe’ damme er conciabbocca a le torture,
le passo a immaginà le svojature
co’ la lingua de fòra come un cane.
Ma vale poi la pena de soffrì
lontano da ‘na tavola e ‘na sedia
pensanno che se deve da morì?
Nun è pe’ fà er fanatico romano;
però de fronte a ‘sto campà d’inedia,
mejo morì co’ la forchetta in mano!
La panzanella
E che ce vo’
pe’ fa’ la Panzanella?
Nun è ch’er condimento sia un segreto,
oppure è stabbilito da un decreto,
però la qualità dev’esse quella.
In primise: acqua fresca de cannella,
in secondise: ojo d’uliveto,
e come terzo: quer di-vino aceto
che fa’ venì la febbre magnarella.
Pagnotta paesana un po’ intostata,
cotta all’antica,co’ la crosta scura,
bagnata fino a che nun s’è ammollata.
In più, per un boccone da signori,
abbasta rifinì la svojatura
co’ basilico, pepe e pommidori.
Biografia di Aldo Fabrizi rappresenta l’anima di Roma, la cosiddetta Città Eterna,che l’ha sempre considerato il suo figlio prediletto. Del popolo romano l’attore ha canzonato in oltre cinquant’anni di carriera vizi e debolezze, con quel suo umorismo tanto cinico e disincantato, quanto dissacrante e tagliente, così caratterizzante del suo fare flemmatico e arguto. Sapeva scherzare su tutto, ma prima di tutto su se stesso, ed in particolar modo sul suo fisico corpulento, palese dimostrazione della sua smisurata passione per il cibo, e soprattutto per i piatti tipici della cucina romana, che egli stesso si deliziava nel preparare. Era la voce del “popolino”, dal quale egli proveniva e che ha sempre portato nel cuore. Attraverso i suoi tipici personaggi – con i quali ha conquistato le platee dell’Italia intera a partire dai suoi esordi teatrali nei primi anni Trenta, e che ha fortunatamente riproposto in televisione negli anni Settanta – come il vetturino il cui cavallo lo batte in fatto di stanchezza, il tranviere contro cui tutti i passeggeri si accaniscono, o il cameriere dai piedi stanchi, Fabrizi esprimeva il suo spirito caustico, e conduceva una sferzante satira sulla romanità, ma ancor più in generale sull’uomo qualunque del suo tempo. In cinema debuttò nel 1942, ma si sarebbe dovuto aspettare il 1945 perché egli avesse potuto dar prova di una profonda sensibilità artistica in un ruolo diverso dai soliti, stavolta drammatico, quello di un prete eroico che si fa fucilare dai tedeschi pur di non rivelare i nomi di alcuni partigiani, nel capolavoro di Rossellini, Roma città aperta. Il film – che lo vede per la terza volta al fianco dell’amica-nemica Anna Magnani, che in quanto a schiettezza e sfacciataggine riusciva a tenergli testa – gli offrì l’opportunità di fornire una struggente e sofferta interpretazione, densa di emotività, e carica di una coinvolgente naturalezza, dimostrando così di essere un attore a tutto tondo. La sua filmografia è sterminata: lo ricordiamo spesse volte al fianco dell’amico Totò, soprattutto nel film caustico-amaro Guardie e ladri (1951) di Steno e Mario Monicelli; e poi in una serie di svariati, e talvolta grotteschi personaggi, come il contadino furbo e bonario di Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa, il padre egoista e protervo di Prima comunione (1950) di Alessandro Blasetti, lo sfortunato e bizzarro capofamiglia nella serie de “La famiglia Passaguai” (tre film dal 1951 al ’52), di cui egli stesso fu il regista, e il ricco e rozzo palazzinaro di C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, deluso e disincantato ritratto della pseudo-impegnata generazione di sinistra del periodo post-secondo conflitto mondiale. Dopo tanti impegni come attore cinematografico, il teatro lo rivide incontrastato mattatore nella celeberrima commedia musicale di Garinei e Giovannini, Rugantino, portata per la prima volta in scena nel 1962, ripetuta diverse volte negli anni successivi, e portata addirittura a New York. Accanto ad interpreti del calibro di Nino Manfredi e Bice Valori, Fabrizi impersonò il tragicomico personaggio di Mastro Titta, un boia della Roma papalina, che dietro il suo aspetto burbero e rude, si dimostrava sensibile e bonario. Da ricordare infine le sua spassosissime apparizioni televisive, e le sue deliziose raccolte di ricette e poesie, spiritosamente intitolate La pastasciutta (1971), Nonna minestra (1974) e Nonno pane (1980). La Roma paciosa e scanzonata che lo vide nascere, se lo portò via, in una triste mattinata primaverile del 1990, quando “er sor Aldo” aveva da qualche mese compiuto ottantaquattro anni.
Giovanni Prati – Il Romanticismo italiano-Nuovi canti Poesie-
– Editore Stabilimento Tipografico Fontana di TORINO 1844 –
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Giovanni Prati – Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Poesie di Giovanni Prati
Incantesimo
La maga entro l’arena
girò, cantando, l’orma:
con frasca di vermena
mi ha tocco in sull’occipite,
ed io mi veggio appena in questa forma.
Sì picciolo mi fei
per arte della maga,
che in verità potrei
nuotar sopra diafane
ale di scarabei per l’aura vaga.
O fili d’erba, io provo
un’allegria superba
d’esser altrui sì novo,
sì strano a me. Deh fatemi,
fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
Minuscola formica
o ruchetta d’argento
sarà mia dolce amica
nell’odoroso e picciolo
nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
E della curva luna
al freddo raggio, quando
nella selvetta bruna
le mille frasche armoniche
si vanno ad una ad una addormentando;
e dentro gli arboscelli
si smorza la confusa
canzon de’ filunguelli,
e sotto i muschi e l’eriche
l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
noi, cinta in bianca veste
la piccioletta fata
vedrem dalla foresta
venir nei verdi ombracoli,
di bianchi fior la testa incoronata.
E dormirem congiunti
sotto l’erbetta molle;
mentre alla luna i punti
toglie l’attento astrologo,
e danzano i defunti in cima al colle.
I magi d’Asia han detto
che quanto il corpo è meno,
più vasto è l’intelletto,
e il mondo degli spiriti
gli raggia più perfetto e più sereno.
Infatti, io sento l’onde
cantar di là dal mare,
odo stormir le fronde
di là dal bosco; e un transito
d’anime vagabonde il ciel mi pare.
Da un calamo di veccia
qua un satirin germoglia,
da un pruno, o mo’ di freccia,
la sbalza un’amadriade
è in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
Lampane graziose
giran la verde stanza:
e, strani amanti e spose,
i gnomi e le mandragore
coi gigli e con le rose escono in danza.
Del mondo ameno e tetro
com’è che ai sensi tardi
mi piove il raggio e il metro?
E né cornetta acustica
mi soccorre né vetro orecchi e sguardi?
Com’è che le mie colpe
non anco all’olmo e al pino
latra la iniqua volpe?
Né il truculento martoro
mi succhiella le polpe a mattutino?
Sono un granel di pepe
non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
ed è minor che lucciola
nell’ombra siepe il mio pensiero.
Oh fata bianca, come
un nevicato ramo,
dagli occhi e dalle chiome
più bruni della tenebra,
e dal soave nome in ch’io ti chiamo.
Oh Azzarelina! in pegno
dell’amor mio, ricevi
questo morente ingegno,
tu che puoi far continovi
nel tuo magico regno i miei dì brevi.
L’erbetta ov’io m’ascondo
so che è incanata anch’ella;
né vampa o furibondo
refolo o gel mortifica
lo smeraldo giocando in che è sì bella.
So che, d’amor rapita,
in un perpetuo ballo
mi puoi mutar la vita
o su fra gli astri, o in nitide
case di margherita e di corallo.
sien acque, o stelle, o venti,
ove abitar degg’io,
per primo don m’assenti
il bacio tuo: per ultimo,
dei rissosi viventi il pieno oblìo.
Ascolta, Azzarelina:
la scienza è dolore,
la speranza è ruina
la gloria è roseo nugolo,
la bellezza è divina ombra fiore.
Così la vita è un forte
licor che ebbri ci rende,
un sonno alto è la morte
e il mondo un gran Fantasima
che danza con la Sorte e il fine attende.
Vieni ed amiam. L’aurora
non spunta ancor; gli steli
ancor son curvi; ancora
il focherel di Venere
malinconico infiora i glauchi cieli.
Vieni ed amiam. Chi vive,
naturalmente guada
alle tenarie rive:
ma chi è prigion nel circolo
che la tua man descrive a ciò non bada.
Un giorno d’inverno
Sempre sul farsi della tacit’ora
Crepuscolar m’invade una tranquilla
Malinconia, che dolcemente irrora
Questi occhi del dolor che da lei stilla.
Guardo il foco morente, e m’innamora
Tenervi intenta e risa la pupilla,
lnsin che appena qualche brace ancora
Tra la commossa cenere scintilla.
Il crepitar di quella ultima vita,
L’ombra addensata e la cadente neve
Di piu cupa tristezza il cor mi serra.
E prorompoll dall’anima atterrita:
Mio Dio, che sogno è questo viver breve!
Mio Dio, che solitudine è la terra!
Oh che cielo!
Oh che cielo ! oh che mar ! Quella profonda
e doppia immensità quanti sospiri
mi trae dal cor ! di che malie m’inonda!
con che forza m’assorbe entro i suoi giri!
La man per gioco, o fanciulletta bionda,
non por sugli occhi miei: lascia ch’io miri
queste due glorie. A te né il ciel né l’onda
parlano: ed altro muove i tuoi desiri,
Te move il riso dell’età tua verde,
un’ape d’oro, una farfalla, un fiore:
me l’infinito ciel, l’onda infinita.
E in questi abissi il mio pensier si perde,
e mentre scherzi, o bimba, il pensatore
piange tra il vel delle tue rosee dita.
Alba
Fumano i campi; la rugiada stilla
sull’erba nova; il cheto aere si desta
il sol che spunta, e con l’aletta in resta
il cardellino in cima al gelso trilla.
Al giocondo lavor sparsa è la villa
sui bruni solchi; pei declivi a festa
saltan le capre; e in seno a la foresta
le allegrie della caccia il corno squilla.
Questa è vita davver; questo è divino
elemento di forza all’uman petto:
aria, luce, tripudio, opera intorno.
E noi, civico vulgo, ogni mattino
(fatica insigne!) ci leviam dal letto,
pallidi spettri, ad invecchiar d’un giorno.
Ramuscello
O ramuscel di mandorlo,
quando su te si posa
il cardellino, e ai limpidi
rigagni e al ciel di rosa
sparge la fresca e lieta
anima di fanciullo e di poeta;
o ramuscel, per magica
arte io vorrei mutarmi
nell’ augellin che dondola
su te, trillando carmi;
su te che spargi al vento
la molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
E là, cantando il giovane
mio tempo e i dolci inganni,
le ingrate nevi e il cumulo
non sentirei degli anni.
Ma ognun la sua fatale
stella ha sul capo; ed accusarla è male.
Marionette
Al fantolino, più che pesca o mela,
piace il casotto degl’incanti, dove
un piccol mondo di figure nove
al suo cupido e fermo occhio si svela:
né sa che dietro la dipinta tela
per fili arcani in giocolier le move;
e crede velo il finto; e in quelle prove,
in quegli atti, in que’ volti avvampa e gela.
Grandeggia quindi il fantolin con l’ora:
e nel mondo degli uomini s’aggira,
e crede vero ciò ch’ è finto ancora.
Uom poi diventa, e si travaglia e stanca
pur dietro a sogni: e il dì che l’ombra ei mira
del Ver, spìa sul quadrante, e il tempo manca.
Or passeggi solinga
Ti veggo, o madre; per i conscii lochi
dove teco scherzava io fanciulletto
or passeggi solinga, e il caro aspetto
del tuo lontano lacrimando invochi.
Parmi d’udire i tuoi gemiti fiochi
i quando mesta riguardi il vacuo letto,
e tuo figlio mancar vedi al banchetto,
e il cerchi indarno ai consueti giochi.
Sì, vederti mi par, parmi d’udirti
povera madre! e rimaner lontano,
tal rimorso è per me ch’io non so dirti.
Conosco il fallo e m’addoloro e piango!
Ahi! Com’è questo cor misero e strano!
Conosco il fallo, eppur lontan rimango.
Tra veglia e sonno
Un verno a notte bruna
mentre nell’erma stanza
d’Usca inducea la luna
un pallido chiaror,
cantò questa romanza
il reduce Gildorl.
«Senti diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor:
compi la tua promessa;
vieni, mio dolce amor.
Eccoti il lino bianco,
segnaI della tua fede;
mirami cinta al fianco
la ciarpa tricolor;
vieni, nessun ti vede,
angelo del mio cor.
Mio bel tesor, calcai
sabbie infuocate e nevi;
un oceàn varcai
per te, mio bel tesor;
per me varcar tu devi .
solo un vial di fior.
Tu mi dicesti un giorno,
con lacrime dirotte:
«Quando farai ritorno,
chiamami, o mio Gildor,
chiamami a mezzanotte, .
ti volerò sul cor.»
Senti, diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor;
compi la tua promessa,
vieni, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
piti bello ho salutato
ma te recando in core,
fu mio secondo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.
Che fai, diletta mia?
Quell’ora è già suonata.
lo gelo sulla via,
e tu non vieni ancor …
Ti sei di me scordata;
addio, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
le belle ho ricusato ;
or senza te nel core,
sarà mio solo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.»
E dileguò. Svegliata
Usca, sul far del giorno,
disse d’aver sognata
la voce di Gildor;
e aspetta il suo ritorno
la poveretta ancor.
Biografia di Giovanni Prati
Giovanni Prati (Comano Terme, 27 gennaio 1815 – Roma, 9 maggio 1884) è stato un poeta e politico italiano.
Giovanni Prati nacque nel 1815 a Dasindo (oggi frazione del Comune di Comano Terme) nel Trentino, all’epoca appartenente all’Impero Austro-Ungarico e si formò nell’Imperial Regio Ginnasio d’Austria-Ungheria di Trento, intitolato alla sua persona nel 1919, Liceo Classico Giovanni Prati, dopo il passaggio del Trentino – Alto Adige all’Italia. Nello stesso Ginnasio studiò il poeta e patriota Antonio Gazzoletti.
Studiò legge a Padova e si dedicò alla poesia. Si sposò nel 1834 con Elisa Bassi, dalla quale ebbe tre figli: Riccardo, Rita ed Ersilia (i primi due morirono infanti). La moglie venne a mancare nel 1840. I temi della morte della moglie e dell’affetto per la figlia ritorneranno frequentemente nelle sue liriche. Pubblicò a Padova la prima raccolta, Poesie, nel 1836. Decise di trasferirsi a Milano nel 1841; qui conobbe Alessandro Manzoni e pubblicò l’Edmenegarda, una novella sentimentale in endecasillabi sciolti che ebbe un grande successo di pubblico ma fu stroncata dalla critica.
A Milano pubblicò nel 1843 i Canti lirici, canti per il popolo e ballate; nel 1844 dette alle stampe Memorie e lacrime e Nuovi canti. Dal 1845 al 1848 soggiornò a Padova, a Venezia e a Firenze. Nel 1848, recatosi a Torino, si mostrò sostenitore della Monarchia Sabauda. Negli anni che precedettero la prima guerra di indipendenza, fu sostenitore di Re Carlo Alberto di Savoia: per questo motivo, gli austriaci lo espulsero dal Regno Lombardo Veneto (anche Milano e Venezia all’epoca appartenevano all’Impero),e il governo di Firenze del Granducato di Toscana (sotto la dinastia Asburgo-Lorena) gli rifiutò l’asilo politico.
Furono questi i tempi più difficili e tormentati della sua vita perché professava i suoi ideali a favore della Monarchia Sabauda in una terra ostile e tra uomini decisamente avversi. Legato da ideali alla Monarchia Sabauda tornò a Torino, dove la sua fedeltà fu premiata con la nomina del Re Vittorio Emanuele II di Savoia a storiografo della Corona. Nel 1851 sposò in seconde nozze l’attrice drammatica Lucia Arnaudon.
Nel 1861 nel Governo Cavour (VIII legislatura del Regno d’Italia) venne eletto Deputato nel Parlamento Italiano con Torino divenuta Capitale del Regno d’Italia. A Torino presso il Caffè Fiorio in via Po, frequentato tra gli altri anche da Camillo Benso conte di Cavour, Massimo D’Azeglio, Urbano Rattazzi, Gabrio Casati, discuteva le sorti della neonata Italia. Nel 1865 seguì il Governo Unitario a Firenze divenuta Capitale, dove conobbe Mario Rapisardi, Niccolò Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Francesco Dall’Ongaro, Terenzio Mamiani ed altri.
Nel 1871 si trasferì a Roma divenuta Capitale d’Italia, nel 1876 divenne Senatore nel governo Depretis I XIII legislatura del Regno d’Italia nel 1878 divenne membro del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1878 il Ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis governo Cairoli I fondò a Roma l’Istituto Superiore di Magistero del quale Giovanni Prati divenne direttore. Durante questi anni la sua poesia aveva continuato a fluire con la pubblicazione del poema Armando (1868, una parte del quale era apparsa nel ’64), degli oltre cinquecento sonetti di Psiche (1876) e delle liriche raccolte in Iside (1878). Morì a Roma nel 1884.
Sepolto a Torino, le sue ceneri furono trasferite nel paese natio ricongiunto alla patria. Dal 1923 le sue spoglie risiedono nella chiesa di Dasindo di Lomaso.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Prati
Anne-Elisabeth Mathieu–Poetessa francese -Rivista EMPORIUM- N°gennaio 1908-
Copia Anastatica
Biografia di Anne-Elisabeth Mathieu,contessa Mathieu de NOAILLES-Poetessa francese, nata a Parigi il 15 novembre 1876, morta ivi il 30 aprile 1933. Il padre suo apparteneva alla potente famiglia valacca dei Bibescu, ed era diventato, per adozione, erede del titolo e dei privilegi dell’ultimo principe Brancovan (Brâncoveanu); la madre discendeva dall’illustre ceppo cretese dei Musurus; Anna di Brancovan nel 1897 andò sposa al conte Mathieu de Noailles. Nata e cresciuta in Francia, formò il suo ingegno letterario sotto le dominanti influenze di M. Barrès e di G. D’Annunzio; tuttavia seppe conservare alla sua ispirazione l’originario carattere orientale: una schietta e calda sensualità, ora pigra ora impetuosa, un forte sentimento della natura mediterranea in fiore e in frutto sotto il gran sole, un tormentoso sentimento del morire sorgente dal fondo della voluttà carnale.
Biblioteca DEA SABINA –La Poetessa Contessa MATHIEU DE NOAILLES-
Rivista PAN n°7 luglio 1934
Contessa MATHIEU DE NOAILLES– Poetessa francese ( Parigi 1876 – ivi 1933),discendente, da parte di padre, dalla famiglia valacca Brâncoveanu e, per parte di madre, dai Musùros di Creta. Poetessa romantica di sensibilità raffinata e voluttuosa, subì l’influenza di Barrès e D’Annunzio, assidui, assieme a Proust, Cocteau e Colette, del suo salotto. Copiosa la sua produzione letteraria, che vanta opere di poesia (Le coeur innombrable, 1901; L’ombre des jours, 1902; Les éblouissements, 1907, di un’ardente ispirazione, tormentata dal pensiero della morte; Les vivants et les morts, 1913; Les forces éternelles, 1920; L’honneur de souffrir, 1927), romanzi (La nouvelle espérance, 1903; Le visage émerveillé, 1904; La domination, 1905), saggi (Exactitudeş, 1930) e ricordi autobiografici: (Le livre de ma vie, 1932).
Dieci poesie dal “Coeur innombrable”
L’orto
Nel giardino, addolcito di garofani e odori,
Quando l’alba ha imperlato il cespo del serpillo
E i tozzi calabroni, appesi ai pomodori,
Rigonfi di rugiada e di succhi vacillano,
Io verrò nell’azzurro, nella bruma ondeggiante,
Ebbra del vivo tempo e del dì ritrovato,
Si drizzerà il mio cuore come il gallo che canta
Con desiderio insazio verso il sole levato.
Di latte sarà l’aria e calda sopra il verde,
Sul generoso e cauto sforzo dei seminati,
Sull’insalata fresca e i bossi profilati,
Sul turgido baccello che nel mezzo si fende;
La terra lavorata in cui la vita germina
S’incresperà, gioiosa, di piccole fessure,
Felice di sentire nell’infime sue fibre
Adempiersi il destino del grano e della vite.
Sui rami arrosseranno le pesche nettarine,
A ridosso del muro dove s’avventa il sole,
Inonderà la luce di chiarore i vialetti
Su cui le ombre dei fiori intessono merletti,
Un sapore di nascita e di essenze succose
Salirà dalla zucca rorida e dal melone,
Mezzodì avvamperà le erbe silenziose,
Il giorno sarà lungo, instancabile e buono.
E protetta, la casa, dal suo tetto d’ardesia,
Schiusa la buia porta, le imposte spalancate,
Di cotogni e lamponi respirerà gli effluvi
Che si addensano attorno ai frondosi cespugli;
L’impronta
Mi avvinghierò così fortemente alla vita,
Con stretta tanto rude e in tal modo serrata
Che del dì la dolcezza non mi sarà rapita
Prima che nel mio abbraccio io l’abbia riscaldata.
Il mare, riversato sul mondo in abbondanza,
Serberà nell’errante cammino delle onde
Il gusto aspro e salato della mia sofferenza
Che come nave solca giornate mai uguali.
E lascerò di me sul crinale dei colli
Il calore degli occhi che li han visti fiorire,
E la cicala appesa ai rami del crespino
Del desiderio mio farà stridere il grido.
Nei campi a primavera la verdura novella
E l’erba che accestisce sul ciglio dei fossati
Sentiranno palpitare e involarsi come ala
L’ombra delle mie mani che le hanno accarezzate.
La natura che fu la mia gioia e il mio regno
Respirerà nell’aria il mio indomito ardore,
E sulla prostrazione dell’umano scontento
Lascerò ineguagliabile la forma del mio cuore.
Alla notte
Notte che estingui i suoni, i contorni e l’azzurro,
Dove le chiarità si smorzano una a una,
O notte, urna al cui chiuso le ceneri del giorno
Pianamente discendono e danzano alla luna,
Giardino d’ombra spessa, asilo a corpi insani,
Cuore grande in che tutto sogna e scende la brama
Di riposar la carne oppure di appagarla,
Notte piena di sonno, intervallo di vita.
Notte propizia, insieme, al piacere e all’oblio,
Nella cui nera requie si apre e trasale l’anima
Come un fiore cui il vento ha portato l’amore,
O giù si abbatte come capra sopra la paglia.
Notte che ti protendi sopra acque e abitati,
Tu che contempli l’uomo coi tuoi occhi di stelle,
Vedi, il mio cuore s’agita ebbro come un naviglio,
Cui il vento spezza l’albero e percuote le vele.
Guardalo col tuo occhio che inargenta i selciati
Questo cuore di fosforo di cui la bruciatura
Rischiarerebbe quanto le pupille dei gufi
L’ora illune che l’ombra è malcerta e insidiosa.
Vedi il cuor mio più lacero, più pesante e più amaro
Della ruvida rete che a notte i pescatori
Issano, gonfia d’alghe, di pesci e d’acqua salsa
Nella bruma leggera umida e senza voci.
A un cuore così lacero, così pesante e amaro,
Concedi di dormire senza sogni né pene,
Soffocagli l’orgoglio, il rimpianto, l’amore,
Pietosa notte, ombra di morte, notte lieve!…
L’innocenza-
Se vuoi la nostra casa diverrà così bella
Che ci trascorreremo l’estate e l’inverno!
Tutt’intorno vedremo fluire l’acqua che si scongela
E gli alberi ingialliti rivestirsi del verde.
Armoniose giornate e stagioni felici
Passeranno sul ciglio luminoso del viale,
Come bei monelli le cui bande ridenti
Si allacciano per gioco e si tengono per mano.
Si aggrapperà un rosaio davanti alla finestra
Per aspergere il giorno di guazza e di profumo;
Miti armenti, menati da un bimbo alla pastura,
Punteggeranno i campi di un placido candore.
Il volubile sole e la luna pensosa
Che si avvitano al tronco delicato dei pioppi
Rispecchieranno in noi l’anima stanca o viva
Lungo tersi meriggi e domestiche sere.
Diverrà il nostro cuore così semplice e credulo
Che gli incantati spiriti delle fole di un tempo
Torneranno a abitare dentro le vecchie pendole
con un’aria discreta, faccendiera e cortese.
Nelle sere d’inverno, per accostarci al fuoco,
Noi due fingeremo di sentire un po’ freddo,
Con vampate di luce a danzarci nell’anima
Al chiarore dei ceppi cigolanti festosi.
Scossi dalla dolcezza che primavera porta,
in aprile faremo sogni più conturbanti.
E, giudizioso, Amore giocherà sulla porta
contando i nostri giorni con sassolini bianchi.
-Sarà chiaro per molto stasera
Sarà chiaro per molto stasera, i giorni allungano.
Lo strepito del giorno si disperde e vanisce,
E gli alberi stupiti di non veder la notte
Restano svegli nella bianca sera, a pensare…
I castagni, nell’aria tutta satura d’oro,
Esalano profumi e sembra li diffondano;
Non si osa fare un passo né muover l’aria tenera
Per tema di turbare il sonno degli odori.
Dalla città lontani rombi di carro giungono…
La polvere che un filo di brezza ha sollevato,
Staccandosi dal tronco vivo e stanco che fascia,
Dolcemente discende sui sentieri quieti;
Siamo avvezzi a vederla un giorno dopo l’altro
Questa povera strada così spesso seguita,
Qualcosa nondimeno è cambiato nella vita:
Non avremo mai più l’anima di stasera…
La giornata felice-
Ecco, per poco, manco e tremo nel vederti,
Bella estate che vieni a giocare e sederti
Nel giardino frondoso, sotto l’albero e il chiosco.
Quanta dolcezza sento piovermi dentro il petto…
Il prato io ritrovo, lo stagno e i noci schietti,
Voli di moscerini sui fulgenti roseti,
L’abete dalla scorza tepida e resinosa;
Tutto il miele d’estate satura del suo aroma
Il vento che si appende come uno sciame ai fiori.
– Già si vedono gli acini gonfiare e farsi d’oro;
Il profumo del grano alto da terra si alza,
Il giorno è lungo e chiaro; così disseta l’aria
Come l’acqua bevuta all’ombra dentro i pozzi,
Il giardino riposa, racchiuso dai suoi bossi…
– Ah! ora deliziosa e fragile dell’anno,
Ti farò mio respiro lungo il filo dei giorni
Premendomi sul petto le spighe del cammino;
Assaporare voglio e stringer tra le mani
Il bosco, le sorgenti, la siepe e le sue spine.
E, quando sulla rosea china delle colline,
Bel sole, scenderai per andare a morire,
Ritornerò, seguendo nell’aria cheta e accesa
La traccia del silenzio e dei frutti odorosi,
Nell’orto tutto fiori ed erbe familiari,
Felice di trovare, serale attimo amato,
L’annaffiatoio, l’acqua e il giardino assonnato…
Sera d’estate-
Si allunga nello spazio un morbido languore;
Senti dell’erba esausta salire a te l’odore?
Umido il vento a sera intristisce il giardino;
L’acqua dentro la vasca corrugata si scaglia
E le cose hanno l’aria di esser tutte smarrite;
Dagli steli rigonfi viene un sentore strano.
Ci teniamo per mano, e tuttavia tu senti
Che il fiele del mio sogno e del tuo la dolcezza
D’un tratto ci hanno resi estranei l’una all’altro;
Cuore inconsapevole, cuore fragile il nostro!…
Le foglie che sui rami giocavano hanno freddo:
Fremendo si ripiegano, l’ombra cresce, lo vedi,
E il profumo dei fiori taglia come una lama…
Lo strazio del passato mi si desta nell’anima,
Mentre cari fantasmi girano intorno a te.
L’inverno era più buono, mi sembra; perché
Bisogna che in perpetuo rinasca primavera?
Quanto breve e inesperta sarà la giovinezza!…
Non entra nelle mani tutto l’amore umano;
Sempre un poco ne scivola sui sassi del cammino.
Vieni, rientriamo all’ombra tranquilla delle stanze;
Vedi con che durezza ci respinge l’estate;
Al chiuso troveremo tutt’e due un po’ di pace.
Ma l’odore d’estate resta nei tuoi capelli
E il languore del giorno nel mio cuore persiste:
Dove potremmo andare per esser meno tristi?..
L’autunno-
Ecco venire il freddo raggiante di settembre:
Il vento vuole entrare nelle stanze a giocare;
Ma la casa, stamane, affetta un’aria austera
E lo lascia là fuori che singhiozza in giardino.
Come sono ora mute le voci dell’estate!
Perché mai non mettiamo dei mantelli alle statue?
Tutto assidera, trema, è atterrito; io credo
Che anche la bora abbrividi e che l’acqua abbia freddo.
Dentro il vento le foglie corrono come folli
Per la smania di andare dove volano gli uccelli,
Ma il vento le riacciuffa, sbarrandone il cammino:
Finiranno a morire sugli stagni domani.
Calmo e lieve è il silenzio; ad intervalli il vento
Lo fende e lo attraversa quasi suonasse un flauto,
Poi tutto ridiventa come prima silente,
E Amore che giocava sotto cieli indulgenti
Ritorna per scaldarsi al fuoco che sfavilla
Con mani freddolose e gambe rattrappite,
E la vecchia dimora che si accinge a mutare
e trasalisce e intenerisce a sentirlo rientrare…
Gli animali-
Dèi guardiani dei greggi che impugnate le verghe
Rendeteci l’antica purezza delle bestie;
Perché possiamo apprendere la pazienza dei mali,
Dateci la dolcezza dei frugali animali.
Fate diventi nostro nel dolore furioso
Dei cigni il taciturno distacco disdegnoso;
Per patir della sorte l’azzardo date a noi
La placida e distratta indolenza dei buoi;
Fate che il nostro cuore dove l’infanzia smuore
Del somaro conservi la gaiezza e il candore;
Dateci per far scudo a promesse fasulle
La diffidenza accorta e pronta degli uccelli;
Fate che possediamo per impiegar le veglie
L’alacrità gioiosa e saggia delle pecchie;
Dateci per smorzare le voglie e gli appetiti
L’impassibilità assoluta dei gufi;
E, nei giorni crudeli in cui il senno vaneggia,
Calma di pesci immoti sull’onda che mareggia;
– Fate che il sentimento misterioso ci tocchi
Dell’infinito accolto in fondo ai loro occhi,
Liberateci i corpi, miseri come sono,
Dall’anima gloriosa e dannata dell’uomo!…
Dissuasione-
Chiudete con cautela i vetri sulla strada
E fate ricadere giro giro i tendaggi,
Così che il brontolio della città scontrosa
Non arrivi a ferire il nostro amore fragile.
Non è viva o fatale la nostra tenerezza.
Avremmo anche potuto, noi, non sceglierci mai;
Quel che di me vi piacque fu l’uguale dolcezza,
Ed è l’amara vostra tristezza che io amai.
Troppo affine è il tormento dei nostri cuori, e tale
Che ci mescoleremmo, ma senza rinnovarci:
Eludiamo l’inganno di un desiderio che,
se ancora riesce a accenderci, non può però bruciarci.
La vita ha sperperato ciò che le abbiamo offerto,
Niente può ricomporsi del confuso passato;
Delle due nostre anime avremmo troppa pena,
Dopo l’istante immemore e incerto del piacere:
Perché poi sentiremmo piangere sconsolata
La nostra infanzia affranta da segrete inquietudini
e immedicati mali, che profuso ma tardo
Il compenso dei baci non basta a riscattare…
COMTESSE MATHIEU DE NOAILLES
Des vers qui circulaient manuscrits quand Mme de Noailles était Mlle Anna de Brancovan, beaucoup sont perdus pour le public, et les deux seuls volumes que l’auteur ait publiés et qui ne marquent pas le début de sa pensée, sont le Cœur innombrable et L’Ombre desjours.
Le don merveilleux d’une sensibilité extraordinaire à toutes les impressions de l’air, de la nature, du jardin ; une âme que le soleil réchauffe, que l’été mûrit, et qui est une petite chose frémissante entre beaucoup d’autres choses ; le sentiment de tout cela, et que tout cela fait une brève et irréparable jeunesse : telle était cette poésie qui parlait en vers langoureux et beaux, et où les mots renouvelés semblaient vivants et moites encore de la main qui les avait tenus.
À un siècle de distance, née comme Chénier, d’une mère grecque, son âme comme celle du poète s’est formée à travers les paysages de l’Île-de-France. Mme de Noailles a repris, renouvelé la jeunesse païenne de la nature.
Par delà les tumultes du xixe siècle, les deux poètes se prennent la main, et leurs cœurs s’appareillent ainsi que leurs visions.
À ces œuvres poétiques ont succédé trois romans : La Nouvelle Espérance, le Visage émerveillé, la Domination.
C’est la même âme impressionnable aux choses, et qui l’est cette fois aux êtres humains.
Telle est dans la Nouvelle Espérance, cette délicieuse Mme de Fontenay, si ingénument incertaine et attirée en sens divers, comme les petits morceaux de papier blanc par un morceau d’aimant, par toutes les forces d’amour qui passent dans son horizon. Telle est surtout l’étrange religieuse du Visage émerveillé.
Toutes ces héroïnes aimantes, passives, frissonnantes sous le vent qui passe, et soudain portées tout entières au point où la sensation les a touchées, toutes ces jeunes femmes sans âme consistante, ni noyau volontaire, mais sans cesse sollicitées à la surface frémissante de leur âme en mouvement, sont la proie de l’homme : et c’est en rassemblant quelques-unes, que Mme de Noailles a écrit La Domination.
Elle-même est une jeune femme, aux yeux admirables, aux traits où parait dans le lointain bourgeon qu’il a poussé en Roumanie, la rectitude du type latin, aux mouvements vifs et à l’esprit le plus étincelant.
Télégramme de Marcel Proust à
la comtesse de Noailles suite à son discours d’investiture à l’Académie royale de Belgique en janvier 1922.
Biografia di Anne-Elisabeth,contessa Mathieu de NOAILLES-Poetessa francese, nata a Parigi il 15 novembre 1876, morta ivi il 30 aprile 1933.Il padre suo apparteneva alla potente famiglia valacca dei Bibescu, ed era diventato, per adozione, erede del titolo e dei privilegi dell’ultimo principe Brancovan (Brâncoveanu); la madre discendeva dall’illustre ceppo cretese dei Musurus; Anna di Brancovan nel 1897 andò sposa al conte Mathieu de Noailles. Nata e cresciuta in Francia, formò il suo ingegno letterario sotto le dominanti influenze di M. Barrès e di G. D’Annunzio; tuttavia seppe conservare alla sua ispirazione l’originario carattere orientale: una schietta e calda sensualità, ora pigra ora impetuosa, un forte sentimento della natura mediterranea in fiore e in frutto sotto il gran sole, un tormentoso sentimento del morire sorgente dal fondo della voluttà carnale.
Le sue prime poesie, inserite nella Revue de Caris del 1892, appaiono già improntate dal sigillo d’una personalità umana e artistica, che più tardi s’affinerà e si determinerà meglio, ma in sostanza non si modificherà più. Nel 1901 pubblicò il suo primo volume di versi, Le Cœur innombrable, a cui seguì subito L’ombre des jours (1902). Poi si volse al romanzo, con La nouvelle espérance (1903), Le visage émerveillé (1904), La domination (1905); ma tornò alla poesia con Les éblouissement (1907), che è forse, insieme con la prima, la più importante delle sue raccolte liriche. Tra le successive ricorderemo Les vivants et les morts (1913) e L’honneur de souffrir (1927). I suoi ultimi libri furono: Exactitudes, saggi e meditazioni (1930), e Le livre de ma vie, ricordi (1932). La fantasia della N. s’esprime più felicemente nei versi che nelle narrazioni; le quali son tutte impregnate di spiriti lirici, e non riescono pertanto alla creazione di personaggi in sé e per sé consistenti. E tra i versi bisognerà fare, o meglio lasciar fare al tempo, una scelta rigorosa, così che, cadute le molte pagine di facile improvvisazione, restino in luce solo quei componimenti in cui la N. ha cantato con vibrante sincerità la propria bellezza e la misteriosa potenza di donna, come un modo di essere, effimero ma pieno ed intero, della realtà universale.
Bibl.: J. Larnac, La Comtesse de N., sa vie, son oeuvre, Parigi 1931; Les Nouvelles littéraires, Parigi, numero del 6 maggio 1933.
Francesco Riccio-Lo rifarei. Vita di partito da via Barberia a Botteghe Oscure –
prefazione di Gianni Cuperlo
DESCRIZIONE- del libro di Francesco Riccio -Una serie di racconti, un viaggio nella vita del Partito, del Pci, con il dichiarato intento di rendere omaggio alle donne ed agli uomini, alle compagne e ai compagni con i quali l’autore ha trascorso (da militante-funzionario-dirigente) un importante trentennio. Un omaggio a quelle figure sconosciute al grande pubblico e spesso genericamente indicate come “apparato”, anche con un certo disprezzo. In realtà si trattava di una comunità che ha dedicato la propria vita agli ideali della solidarietà, della difesa dei più deboli, del progresso sociale. Donne e uomini che non avevano nulla di quel grigiore con il quale venivano descritti. Anzi, attraverso la caratterizzazione di ciascuno si disegna il quadro di un popolo che sapeva coniugare la massima serietà dell’impegno politico con lo spensierato divertimento. Certo, c’è nostalgia di quel tempo e di quel popolo. La storia ha assegnato a quella vicenda un esito ben noto. Ciò non può impedire che ciascuno di quelli che l’hanno vissuta avverta un sentimento di nostalgia e di rimpianto. Nella consapevolezza che i sentimenti possono sempre reinventarsi se non si nega il loro valore profondo.
Gianni Cuperlo, che ha curato la prefazione, coglie brillantemente gli aspetti principali del racconto. Bruno Magno, storico grafico del Pci, li sintetizza con maestria nella copertina. Due omaggi all’autore per tanti anni loro compagno in quel viaggio.
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Un viaggio nei miti e nelle leggende del Sol Levante tra mostri, spiriti e Yokai
Descrizione del libro scritto da Patrick Nippo, questo libro ti offrirà un’esperienza che vi porterà nel cuore della cultura giapponese, attraverso le sue storie e i suoi racconti tipici della tradizione millenaria giapponese.E’ un libro unico che ti condurrà in un viaggio alla scoperta delle leggende e dei miti del Giappone.
Immergiti nella mitologia giapponese attraverso le storie dei suoi mostri, spiriti e Yokai
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Franco Leggeri-Castelnuovo di Farfa “l’Acchiesola” e il paradosso dell’algebra astratta-
-Brano da “Murales Castelnuovesi” di Franco Leggeri-
Franco Leggeri-Castelnuovo di Farfa – Brano da Murales Castelnuovesi -“l’Acchiesola” e il paradosso dell’algebra astratta-Muoversi nelle intuizioni e immergersi nei problemi irrisolti . Era questa l’equazione che sia i bambini e sia i giovani castelnuovesi degli anni ’50 dovevano risolvere in assenza dei media : radio, televisione , giornali e cinema.I media che dovevano essere vitamina e “stimolatori” della fantasia e creatività per le giovani menti castelnuovesi non esistevano ancora per tutti, sino al giorno in cui fu aperta la “scatola magica” della “piccola-grande “ sala cinematografica “su nell’Acchiesola”, ora Aula consigliare .Questa sala fu una prima miniera della fantasia , in Bianco e Nero, per le giovani menti castelnuovesi. Fu il cinema, per la sua capacità di “parlare” ad ogni pubblico : dal proletario, la maggioranza di noi castelnuovesi, sino a quello “aristocratico” .Proprio per il suo linguaggio, il cinema è un luogo comune nel senso di condiviso. Il cinema è allo stesso tempo un formidabile mezzo per la trasmissione, sia di mentalità che di ideologie, sia che si presenti nella forma di documentario e sia come finzione. Con il cinema, molti di noi giovani scoprimmo la grande città e l’esotismo di luoghi lontani. Scoprimmo le melodie delle colonne sonore, la sottolineatura e il clima da suspense che solo la musica e il gioco delle luci sanno evidenziare. Il vento prese “voce” e scoprimmo il canto dei fiumi e del mare. Ho nella memoria una presenza reale dell’attesa per l‘inizio del film, poi il silenzio e le immagini “enormi” proiettate sullo schermo che ci raccontavano una storia . Devo dire che ero affascinato! Ricordo, per esempio ,la “fantasiosa e furbesca” storia di un assalto alla diligenza e gli spari delle “colt”. E così che provai a risolvere l’equazione del paradosso dell’algebra astratta. La fantasia veniva , man mano, trovando i passaggi giusti nelle semplificazioni, tra realtà, finzione ed emozione, sino al coinvolgimento e all’identificazione nei personaggi del film . Fu allora che scoprimmo il Far West ( poi imparammo che il West era l’Ovest delle grandi praterie) e fu così che riuscimmo, in questa “Grande-minuscola sala”, a provare l’emozione di essere partecipi di una avventura sino a scoprire che , alla fine, “arrivava sempre il settimo cavalleria” e tutto aveva un lieto fine.
P.S.“Su nell’Acchiesola” noi “monelli de Castellu” quelli della generazione del dopoguerra abbiamo votato per la prima volta, perché “l’Acchiesola” era adibita, sin dall’800 , a sede di seggio elettorale. E’ qui che per molti Castelnuovesi ebbe inizio la speranza del “biennio rosso” del 1919 -1921 ,con il voto al Partito Socialista Italiano di Filippo Turati . In questa sala fu pronunciato, per la prima volta a Castelnuovo, il voto alla Lista “Falce, Martello e Libro”. Di queste elezioni del 1919 ne ho raccolto e trascritto la testimonianza diretta così come mi è stata raccontata dal nostro compaesano Fiore Tancioni che , assieme ad altri compaesani da me intervistati, ne fu testimone . Ma questa è una storia che tratto in un capitolo del libro “Castenuovo, la riva sinistra del Farfa”.
Un’immagine, una fotografia, alcune parole ci aprono a ricordi che pensavamo di aver dimenticato… Antonio Vivaldi –Qui è una lapide appesa ad una chiesa (si chiama della Pietà ed è ben visibile dalla Riva degli Schiavoni a due passi da Piazza San Marco) a ricordarmi chi in questo luogo passò gran parte della sua vita a suonare il violino e a dirigere i concerti che lui stesso componeva. Di lui oggi si sa quasi tutto anche se un oblio prolungato durato 200 anni ne aveva fatto scomparire la memoria. Forse avrete già intuito a chi alludo: lui è Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori del suo tempo… (Venezia 1678-Vienna 1741).
Ma non starò certo a raccontarvi la sua storia che, pur interessante, immagino già conoscerete, anche se certe parti della sua vita, forse, sono rimaste ancora nell’ombra. Quello che cercherò di fare sarà un breve viaggio nella Venezia della sua decadenza, alla ricerca del suo stile, tra quello spazio che va dalla fine del 1600 ai primi decenni del 1700, tempo in cui Vivaldi visse e dove seppe esprimere tutto il suo genio.
Sembrerà curioso sapere che, nonostante la città non fosse più la stessa dei secoli precedenti (in quanto a ricchezza e potenza bellica) e faccia fatica a fronteggiare le calamità verificatesi più volte (la più gravosa fu l’epidemia di peste che il secolo prima aveva decimato la sua popolazione) si aprono nuovi teatri, dove la gente si precipita: per divertirsi, o per dimenticare. Emergono figure di scrittori divenuti poi in seguito famosi: Carlo Goldoni, i fratelli Gozzi, Giacinto Gallina…
Ma quanto accade in città non è ancora, per Vivaldi, motivo di interesse. Iniziò qui la sua storia quando, uscito dal seminario, ha già 25 anni, ma soprattutto è un sacerdote. Sembra però che la vita ecclesiastica non sia stata quella adatta a lui. Il pretesto, o la causa, che lo allontana dai suoi obblighi sacerdotali è una malattia di cui soffriva fin da ragazzino e diagnosticata allora come « strettezza de petto » (un’asma bronchiale). Per il giovane Antonio la dispensa dal dire messa fu una vera fortuna che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla musica, unica ragione della sua vita. Ma al periodo passato in seminario Vivaldi sarà sempre grato: gli consentì di studiare e approfondire la conoscenza della musica, imparando a suonare il violino e a perfezionare una tecnica virtuosistica, da molti definita insuperabile.Ma, in cuor suo, Vivaldi si sente attratto dalla composizione. Scrive musica, anzitutto quella strumentale, che sottopone al padre (suona il violino nella Cappella Marciana, l’unica istituzione musicale della città), ma non trova estimatori. Il suo sogno di dirigere un giorno la Cappella Marciana si infrange quasi subito. Gli unici che si accorgono di lui sono i membri del direttivo dell’Oratorio della Pietà, luogo di carità istituito già nel lontano 1300. Lì verrà accolto nell’organico degli insegnanti come « maestro de violin » e compensato con 40 ducati annui, aumentati poi a 100 per l’incarico aggiuntivo di maestro concertatore.
Questa assunzione presso l’oratorio sarà la sua fortuna. Tra l’impenetrabile silenzio delle sue mura, lavorerà per decenni portando avanti la sua non dichiarata “rivoluzione musicale”, dando vita a tutto il suo estro creativo, mettendo la sua musica su un piano che allora, ma anche oggi, sorprese tutti per le evidenti novità che introdusse. Dagli studi fatti al seminario Vivaldi si era accorto di come tutto ciò che aveva appreso appartenesse ad un’epoca ormai spenta. Le dinamiche espressive dei concerti che ascoltava risentivano della lentezza con cui venivano eseguiti. Certi strumenti, come il clavicembalo, non potevano esprimere più nessuna nuova potenza sonora, ragione che lo spinse, progressivamente, ad escluderlo dagli strumenti della sua orchestra a favore degli archi e dei fiati di cui intravvedeva nuovi e più importanti sviluppi. Nelle sue partiture emergono nuovi simboli dove si riconoscono ben tredici graduazioni che stabiliscono le intensità dei “piani” e dei “forti”. Nel solo tempo “allegro”, 18 sono le variazioni sonore a riprova che tutto era stato da lui vagliato e migliorato.
Dentro all’Oratorio spetta a lui scegliere tra le allieve le più meritevoli (non sorprenda questo fatto ma l’istituto raccoglieva solo ragazze, abbandonate in tenera età). Per disciplina interna sono tenute al rispetto e all’obbedienza e lui non chiede di più: l’impostazione musicale ottenuta porterà nel giro di qualche anno le sue allieve al massimo grado di perfezione, superando, per capacità, l’orchestra ed il coro della stessa Cappella Marciana. A Vivaldi molti guarderanno con rinnovato interesse. Dall’estero gli giungeranno richieste per poter partecipare alle sue lezioni, domande che non sempre furono concesse.
Dal libro di Walter Kolneder Vivaldi (edit. Rusconi), a proposito della sua musica, leggo : «… le prime opere di questo genere dovettero apparire al pubblico come rivelazioni di una nuova umanità, l’ampiezza degli sviluppi dovette produrre un effetto tale da mozzare il respiro».
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi (ma ci sorprendono anche oggi!), poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, così definite allora, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.
Nel corso degli anni successivi, Vivaldi comincerà a comporre anche per le corti europee più importanti. La sua musica aveva raggiunto le vette più alte guadagnata in anni di silenzioso lavoro. Il re di Francia Luigi XV per il compleanno del figlio Delfino chiese a Vivaldi una cantata. “La Senna festeggiante”, così si chiama, fu composta ed eseguita nel 1726, tra la compiaciuta contentezza dei convenuti.
Ma ad impreziosire i suoi rapporti di quegli anni va ricordata l’amicizia e stima di J. S. Bach il quale intuì, e fu forse l’unico, l’enorme portata del rinnovamento messo in campo dal “prete rosso”; lo apprezzò così tanto che trascrisse alcune sue sonate portandole alla sola voce del clavicembalo (Bach era innamorato di questo strumento scrivendo per lui decine e decine di pezzi). Si sa della loro corrispondenza e di come Bach studiasse gli spartiti di Vivaldi. Tracce dell’influenza vivaldiana si possono trovare nei Concerti Brandeburghesi.
Di Vivaldi esiste un unico disegno fatto da Pier Leone Ghezzi nel 1723 quando giunse a Roma. Aveva allora 45 anni. Dal profilo si nota la grande massa dei suoi capelli (erano rossi e arricciati), gli cadono sulle spalle. L’ampia fronte fa scendere lo sguardo sul naso aquilino, poi sulle labbra, forse sottili. Più volte ho cercato di immaginarlo Vivaldi. Alto circa un metro e settanta, dentro al suo lungo abito nero, col breviario stretto sotto al braccio, la mente che inseguiva le sue musiche, il suo passo veloce per tornare all’Oratorio e metterle nel foglio pentagrammato. Di lui Charles De Brosse disse che era più veloce a scrivere un concerto di quanto non facesse un copista a ricopiarlo…
Tralascio ciò che fece Vivaldi nei decenni successivi dove si dedicò quasi esclusivamente alla musica profana, scrivendo più di 90 fra opere e cantate. Potrà sorprendere questo cambio di indirizzo, ma Vivaldi aveva capito che le nuove tendenze che circolavano in città volevano altro. La musica sacra, che gli aveva dato la notorietà, non era più richiesta come prima. In questa sua nuova veste Vivaldi si dedicherà anima e corpo in un lavoro che sembrava non aver mai fine. La grande produzione del “prete rosso” ammonta a più di 750 composizioni, ma ciò non deve sorprendere perché ogni compositore dell’epoca aveva come requisito necessario, quello di saper scrivere musica con continuità. Allora, nelle chiese e nelle sale da concerto, non era previsto che una stessa musica fosse suonata due volte.
Vivaldi avverte che il suo tempo sta per scadere. A Venezia altri sono i compositori le cui musiche trovano maggiori consensi. Si fanno largo Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e per Vivaldi gli spazi si vanno restringendo. Molti non approvano che un prete, come continuava ad essere lui, dovesse vestire anche i panni dell’impresario e uomo d’affari. (Per gli accordi presi con il Teatro di S. Angelo e per garantire i contratti con le maestranze con cui era venuto a collaborare, Vivaldi si prese cura di tutta la gestione). Ma erano troppe le voci contrarie per poter respingere i pregiudizi più velenosi.
Vivaldi lasciò per sempre Venezia accogliendo l’invito di Carlo VI d’Asburgo che lo volle alla sua corte a Vienna. Era il 1728. Nella capitale asburgica rimase fino al 1741, anno della sua morte, un anno dopo la morte del sovrano Carlo VI che lasciò il nostro Vivaldi in condizioni economiche precarie. Fu sepolto nel cimitero dell’ospedale in una fossa comune. Le note del suo funerale , trascritte nel registro parrocchiale così dicono: «Si è constatata la morte del molto reverendo Sig. Antonio Vivaldi prete secolare età 60 anni, avvenuta per infiammazione interna, nella casa Satler presso la porta di Carinzia.» Si concluse così la vita di uno dei più grandi musicisti del 700.
Ed il suo stile? Vi chiederete. Già… Sta tutto nei fogli pentagrammati, negli ascolti ripetuti che ce lo rivelano puntualmente. Se confrontati con altre composizioni dell’epoca, si potrà intuire quasi subito nei duetti fra l’assolo del violino e l’orchestra, fra soprano e contralto, fra flauto dolce e orchestra.
Per quanti volessero farsi un’idea più precisa della musica di Vivaldi potrei suggerire l’ascolto di alcuni brani che, a mio avviso, sono tra i più significativi della sua arte.
Tra le Quattro Stagioni scelgo L’Estate (LINK). Poi passo ai Concerti di Dresda, allo Stabat Mater (Philippe Jaroussky LINK), al Concerto Grosso in fa minore, il Concerto per flauto dolce e orchestra RV 443, la Cantata Juditha Triumphans. Aggiungo, e lo consiglio vivamente, il bellissimo documentario girato dalla BBC che ha per titolo Gloria at Pietà. All’ascolto del celeberrimo brano, si aggiungono le immagini, e la ricostruzione fedele delle atmosfere dei concerti vivaldiani all’interno della chiesa della Pietà.
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.
La volpe e il sipario. Poesie d’amore di Alda MERINI-
Dal libro di Alda Merini,”La volpe e il sipario”, uscito nel 1997 in edizione non venale e poi nel 2004 da Rizzoli, rappresenta uno dei momenti più alti dell’opera di un’artista amatissima. È una raccolta compatta e unitaria della maturità di Alda Merini, una collezione di versi nei quali si aggira una volpe esile e feroce, capace di squarciare il sipario della quotidianità. “La volpe e il sipario” è, prima di ogni altra cosa, nuda poesia d’amore: ogni sua parola afferma sull’angoscia, sulla sofferenza, sulla follia – la forza dirompente dell’esserci e dell’amare. C’è un’energia, in queste pagine, che merita di raggiungere un ampio pubblico di lettori; e un’infinita capacità dì stupirci con una scandalosa dichiarazione di felicità: la felicità impossibile dì essere poeta.
Alda Merini-Biografia-Poetessa, nata a Milano il 21 marzo1931 e morta ivi il 1° novembre 2009. È considerata una delle più importanti voci liriche del Novecento italiano ed è stata candidata al premio Nobel per la letteratura nel 1996 dall’Académie française e nel 2001 dal Pen Club italiano.
Esordì nel 1950 sull’Antologia della poesia italiana 1909-1949 dietro suggerimento del curatore Giacinto Spagnoletti. La prima raccolta di versi, La presenza di Orfeo, venne pubblicata nel 1953. Il grande favore di pubblico e critica ottenuto dall’opera spinse l’editore Scheiwiller a ripubblicare il testo nel 1993 insieme alle successive raccolte Paura di Dio (1955), Nozze romane (1955) e Tu sei Pietro (1961). Nel 1958 Salvatore Quasimodo, al quale M. era legata da un rapporto di amicizia, pubblicò alcune liriche della poetessa nel volume Poesia italiana del dopoguerra (1958). Al centro della sua poetica, evidente fin dagli esordi e costante nella produzione successiva, vi è l’espressione del proprio vissuto, quell’esperienza di vita che traspare nei frammenti di una dolorosa autobiografia. I versi, tuttavia, non si riducono a un mero solipsismo autoreferenziale, ma si fanno portavoce di una sofferenza che diventa sentire collettivo. I riferimenti personali, tradotti in una brutale e cruda esternazione dei sentimenti, si intensificarono nella produzione successiva al lungo periodo di internamento manicomiale iniziato nel 1965 e proseguito fino al 1972, con riprese nel 1973 e nel 1978. Il tragico ricovero fu alla base di un silenzio durato circa vent’anni e interrottosi con la pubblicazione di Destinati a morire. Poesie vecchie e nuove (1980). Nel 1979 avviò la stesura di alcuni tra i suoi componimenti più intensi pubblicati nella raccolta La Terra Santa (1984), riedita qualche mese dopo con il titolo La Terra Santa e altre poesie, opera che le valse il premio Cittadella nel 1985 e il premio Librex-Guggenheim ‘Eugenio Montale’ nel 1993. Questa raccolta segna il passaggio verso una poetica potente e violenta, esito della devastante esperienza manicomiale, qui paragonata al viaggio del popolo eletto verso la Terra Santa: l’espressione lirica diventa veicolo per una rappresentazione della realtà trasfigurata dal male della follia.
La dolorosa testimonianza degli anni trascorsi in manicomio fu riportata in L’altra verità. Diario di una diversa (1986), primo testo in prosa di Merini. Seguirono numerose altre pubblicazioni come Fogli bianchi (1987), Testamento (1988), Vuoto d’amore (1991) e Ballate non pagate (1995). Nel 1996 ottenne il premio Viareggio. Il secolo si chiuse con l’edizione di una nuova antologia poetica, Fiore di poesia – 1951-1997 (1998), curata da Maria Corti ed edita da Einaudi, presso cui venne stampata anche Superba è la notte (2000).
I primi anni Duemila mostrarono uno spostamento dei motivi ispiratori verso tematiche religiose; sotto l’egida di queste nuove suggestioni furono pubblicate: L’anima innamorata (2000) e Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001). Da qui in poi la produzione di M. divenne straripante: arrivò a scrivere, tra il 2001 e il 2004, più di trenta raccolte poetiche.
Nel 2005 fu pubblicato Nel cerchio di un pensiero (Teatro per voce sola), che raccoglie 53 poesie dettate al telefono da M. a Marco Campedelli. I componimenti sono lasciati privi dei segni di interpunzione a sottolineare anche graficamente la trasmissione orale dei testi. Il carnevale della croce (2009), raccolta di poesie d’amore e religiose, fu l’ultima opera curata dalla poetessa che, tuttavia, non riuscì a vederla stampata.
si dedicò anche alla prosa pubblicando, oltre al già citato testo L’altra verità, Delirio amoroso (1989), Il tormento delle figure (1990), Le parole di Alda Merini (1991) e La vita facile (1996). Intenso fu poi il rapporto con l’universo musicale: nel 1994 iniziò la collaborazione con il cantautore Giovanni Nuti che metterà in musica numerosi versi della scrittrice; nel 1999 M. prese parte con Enrico Ghezzi e Manlio Sgalambro al CD del gruppo rock Bluvertigo Canone inverso, incontro tra musica e poesia. Infine nel 2004 Milva pubblicò l’album Milva canta Merini.
Bibliografia: G. Spagnoletti, Alda Merini: da La presenza di Orfeo a La Terra Santa, in Poesia italiana contemporanea, Milano 2003, pp. 634-44; A. Cortellessa, Alda Merini, la felicità mentale, in Id., La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma 2006, pp. 158-63; G. Ferroni, prefazione a Come polvere al vento, Lecce 2009, pp. 5-11; G. Ravasi, Lettere imprecise spedite all’amato, «L’Osservatore romano», 2-3 novembre 2009, p. 5; P. Di Stefano, A.M., la poetessa dei Navigli che cantò i poveri, l’amore e l’inferno, «Corriere della sera», 2 novembre 2009; G. Manganelli, prefazione a L’altra verità: diario di una diversa, Milano 2010.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
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