La prima donna Premio Nobel , in Fisica, nel 1903 insieme a suo marito Pierre e a Henri Becquerel, diventando la prima donna della storia ad avere ottenuto questo riconoscimento; il secondo Premio Nobel arrivò nel 1911, questa volta in chimica.
Marie Curie dedicò la sua vita alla scienza e le sue ricerche le valsero due Premi Nobel. Vinse il primo, in Fisica, nel 1903 insieme a suo marito Pierre e a Henri Becquerel, diventando la prima donna della storia ad avere ottenuto questo riconoscimento; il secondo arrivò nel 1911, questa volta in chimica.
«Nella vita non c’è niente da temere, solo da capire». Senza dubbio queste parole definiscono il carattere ostinato e combattivo di Marie Curie, una grande scienziata e una donna che viene ricordata come una persona sobria, riflessiva e con in volto un’espressione severa.
Breve biografia di Maria Sklodowska, conosciuta anche come Marie Curie, nacque a Varsavia (Polonia) il 7 novembre 1867.Figlia di un insegnante di scuola superiore, iniziò gli studi con il padre proseguendoli a Varsavia ed infine all’Università della Sorbona di Parigi, conseguendo le lauree in chimica e in fisica.
A Parigi conobbe Pierre Curie, scienziato già noto ed insegnante alla Sorbona, e lo sposò nel 1895. Nel 1897 nacque la prima figlia Irène, e nel dicembre del 1904 la seconda, Eve. I coniugi Curie, lavorando insieme, scoprirono nei sali di torio proprietà radioattive simili a quelle che poco prima aveva scoperto H. Becquerel nei sali di uranio. Dopo anni di studi arrivarono ad isolare due nuovi elementi radioattivi: il polonio, così chiamato in onore delle origini di Marie, e il radio.
Marito e moglie non brevettarono il metodo di estrazione: volevano che tutti potessero produrre liberamente il radio per il bene dell’umanità poichè si era scoperto che il nuovo elemento era in grado di combattere il cancro. Insieme al marito Pierre Curie ed a Antoine Henri Becquerel, Maria Sklodowska-Curie ricevette – prima donna della storia – il premio Nobel per la fisica nel 1903. Otto anni dopo, nel 1911, fu insignita di un altro premio Nobel, questa volta per la chimica.
Dopo la tragica morte del marito avvenuta nel 1906, Marie Curie continuò a lavorare nel suo laboratorio, venne chiamata alla cattedra alla Sorbonne e riuscì a isolare il polonio puro e il radio puro. Marie Curie morì il 4 luglio del 1934 di anemia perniciosa in conseguenza della lunga esposizione alle sostanze radioattive.
Raccolta di Poesie -“PENSIERI SCALZI” -Prefazione di Franco Leggeri.
“ PENSIERI SCALZI”, Riflessioni sull’ultima raccolta di Gianni Cristofani, un Poeta vero. Finalmente!
Le rose e gli ulivi sono i profumi della Sabina . Così entro nella nona Silloge di Gianni Cristofani.Questa nona di Cristofani è un battere e levare nell’anima e nella fantasia del lettore. Sono queste , forse, le parole giuste per definire , disegnare, l’opera poetica di Cristofani che si erge come una cattedrale dei sentimenti dove il Poeta della Sabina distilla e distribuisce il sapore della sua terra. L’immensità dei versi si trasforma in ritmo crescente che sa alimentare il quadro di colorati sogni in un quadro di libertà e sangue di passione. Cristofani consegna al lettore poesie che spiccano per la capacità di evocare, con forza lirica, immagini originali: immagini delineate con parole precise e nitide . Per presentare questa silloge di Cristofani, non bisogna associarla ad una poesia “stantia ”, un verseggiare alla “vecchia maniera “ del secolo breve, perché l’Autore ci mette tutta l’anima per distaccarsi da un tradizionalismo “scolastico” nello scrivere questi versi, Cristofani strappa i vecchi schemi e forgia i suoi versi con quel , come dicevo, “battere e levare”, immergere nell’acqua il rosso metallo del verso e , facendo sfumare e raffreddare il calore, ne assembla la poesia . “Pensieri Scalzi” è il risultato finale di questo lavoro ch’è l’Opera nona che Gianni Cristofani ci regala.
Franco Leggeri- Presidente dell’Associazione Culturale DEA SABINA-
PENSIERI SCALZI
(Lungo i bordi della memoria)
PRESENTAZIONE a cura dell’Autore
Alla fine del primo ventennio di questo nuovo secolo, il ventunesimo, eccomi pronto a dare alle stampe una nuova mia raccolta di poesie che negli ultimi trent’anni di produzione letteraria porta a nove le pubblicazioni a partire dalla prima, ISPIRAZIONE, che ospitava le iniziali esperienze in campo poetico figlie anche della acerba ed ingenua adolescenza.
Dopo le emozioni significate nella raccolta PENSIERI SPOGLIATI ho voluto continuare su quella direttrice letteraria intitolando questa nuova performance poetica PENSIERI SCALZI che dovrebbe fare pendant con l’ultimo lavoro A PIEDI NUDI impreziosito dalla bella prefazione della giornalista RAI Rossella Santilli.
Sono ormai sessanta anni che mi cimento nella scrittura di composizioni poetiche pur ritenendomi un semplice contadino del verso perché manco, purtroppo, di quella formazione umanistica che dovrebbe essere alla base di un vero e proprio poeta. La realtà è che il mio scrivere serve solo a me stesso e nasce dall’esigenza di mettere a nudo i miei sentimenti e le mie emozioni per auto psicanalizzarmi specialmente nei momenti più difficili della mia esistenza.
Questa ultima raccolta nasce dunque, come le precedenti, dalle esperienze del vissuto quotidiano con l’intento di cantare l’amore per la vita, per la natura, la devozione al mistero infinito della trascendenza. Ma su tutto si leva l’amore per la mia terra d’origine, la Sabina e per il paese dei padri Montebuono. Sono versi che mi portano ad confronto quotidiano con le piccole e le grandi cose che mi circondano, con un occhio critico verso il passato ed un benevole apprezzamento del presente e di ciò che sarà il futuro.
Certo è che superata la soglia dei settanta anni si avverte la netta sensazione di aver perso l’iniziale ispirazione, avvertendo quasi l’esaurirsi degli argomenti da mettere sulla pagina scritta. E’ il mio un continuo vis a vis con il tempo che ineluttabile scorre sopra le nostre teste e che scompagina le più consolidate realtà perché sono scomparsi i punti di riferimento cui ci si era da sempre abituati. Con PENSIERI SCALZI voglio dar voce alla mia anima stanca, alla mia mente confusa, alle fisime dell’uomo che invecchia, mi voglio mettere a nudo e stendere al sole i panni come faceva mia madre con il bucato sull’aia di casa. Un lenzuolo che dondola al vento sotto il sole di agosto e spara luce riflessa su un pulcino che si trascina nell’erba al seguito della chioccia.
*Gianni Cristofani (Malepassu)-Il Poeta della Sabina
Alcune poesie della raccolta
LA ROSA
Rosa di maggio
che ti schiudi al mattino
quando il sole solletica
i tuoi petali stanchi
di fronte la casa
dove vive l’amore.
Ogni petalo un bacio
sul tuo labbro vermiglio
il tuo sorriso consola
il mio esistere ed è
per questo che vivo
la pienezza dei giorni
al tuo fianco da sempre.
E’ un grido che squarcia
della notte i silenzi
questo mio amore per te.
RISVEGLI
Perdersi fra le pieghe di un lenzuolo
al risveglio d’inverno al mattino
quando picchia la pioggia sui vetri
ed il vento fa ondeggiare gli ulivi,
quando il sogno sembra essere vera
realtà che confonde e fiacca la mente.
Poi s’appressa la vestale in pigiama
con il caffè che sprigiona l’aroma
che ridà concretezza ai risvegli
rispedendo nell’oblio i perigli
che dei sogni s’erano fatti ragione.
Resterà nell’inconscio la traccia
di un conflitto tra l’onirico e il vero
per far si che ci si metta la faccia
quando si esterna un disagio sincero.
L’OMBRA
Ho calpestato l’ombra dei miei pensieri
sul lungo, impervio sentiero dei ricordi
quando un cuore di ghiaccio alimenta
tenui palpiti scomposti e sfilacciati sospiri
tanto che è allora che la macchia diventa
essa stessa l’ombra compatta dei respiri.
Scatta il momento di scoprire improvviso
d’essere io stesso un’ ombra in processione
col buio compatto che mi copre il viso
mentre cerco la luce forte d’una benedizione.
DEDICATA A FAUSTO
Ci hai lasciato in un autunno di pioggia
poco dopo aver festeggiato i settanta
grande amico ora la tua anima alloggia
nella casa dove un coro di angeli canta.
Troppo in fretta l’esistenza hai concluso
tu che amavi colloquiar con la gente
con garbo, in silenzio la porta hai chiuso
per far della fine un tuo pensiero silente.
Solitario stavi quando il male ha colpito
anche se amici avevi per chiedere aiuto
amarezza di un animo vistosi tradito
aspettativa d’amore che fu solo rifiuto.
Generoso compagno di bella vita paesana
trascorsa all’ombra di discorsi importanti
davanti al bar ai bordi della strada romana
consumando ogni tanto gelati croccanti.
Fu la banca nostrana a cementar l’amicizia
per Dante e Ilia fu la vera manna dal cielo
mi solleva il ricordo dalla mia tanta mestizia
averti visto raggiante come il fiore d’un melo.
Pier Augusto Breccia-
Quando entri nella notte stellata dello Spirito attraverso la porta dell’arte, togli al pensiero il peso della sua razionalità.
Rendi libera la mente dal rigido cuoio che la protegge e la ingabbia lungo i percorsi del mondo e lasciala galleggiare tra le stelle.
Nell’indefinito spazio dell’Essere i pensieri camminano scalzi.-Pier Augusto Breccia
-Castelnuovo di Farfa (Rieti)-Piccole Storie dal Campo Profughi Farfa Sabina-
Lettera di Roberto Rossellini a Ingrid Bergman
Lettera di Rossellini che invio alla Bergman al fine di invitarla a visitare il Campo Profughi FARFA SABINA. L’idea della visita Rossellini l’ha avuta passando un giorno per il Campo Profughi di Farfa e parlando con una profuga lettone. Questo è uno stralcio della splendida lettera con la quale Rossellini propose il film alla Bergman e nella quale parla del Campo Profughi. L’attrice INGRID BERGMAN il 23 marzo 1949 visiterà il CAMPO PROFUGHI FARFA SABINA.
“Cara Signora Bergman,
ho atteso un po’ prima di scriverle perché volevo essere sicuro di quello che le avrei proposto. Prima di tutto, però, voglio che lei sappia che il mio modo di lavorare è estremamente personale. Evito qualsiasi sceneggiatura che, a mio parere, limita enormemente il campo di azione. Ovviamente parto da idee molto precise e da una serie di dialoghi e di situazioni che scelgo e modifico nel corso della lavorazione.
A questo punto non posso fare a meno di confessarle che sono molto eccitato all’idea di lavorare con lei.
Un po’ di tempo fa… credo fosse la fine di febbraio, percorrevo in automobile la Sabina, una zona a nord di Roma, quando, vicino alle sorgenti del Farfa, la mia attenzione venne attirata da una scena insolita. In un campo circondato da un’alta rete in filo spinato alcune donne si aggiravano come agnelli in un pascolo. Mi avvicinai e mi accorsi che erano straniere, jugoslave, polacche, rumene, greche, tedesche, lettoni, lituane, ungheresi, che, costrette a fuggire dai loro paesi d’origine a causa della guerra, avevano girovagato per l’Europa, conoscendo l’orrore dei campi di concentramento, del lavoro coatto e dei saccheggi notturni. Erano state facile preda dei soldati di venti nazioni diverse finché erano state radunate in quel campo dove attendevano di essere rispedite a casa.
Una guardia mi ordinò di allontanarmi. Erano indesiderabili ed era proibito parlare con loro. Dietro il filo spinato, all’estremità più lontana del campo, una donna bionda, tutta vestita di nero, se ne stava appartata dalle altre e mi guardava. Incurante dei richiami delle guardie mi avvicinai. Non sapeva che qualche parola d’italiano, arrossì per lo sforzo di parlare. Era lettone.
Negli occhi chiari si leggeva una disperazione muta e intensa. Infilai la mano nella barriera di filo spinato e lei me l’afferrò, come un naufrago che si aggrappa a un relitto.
La guardia si avvicinò con aria minacciosa. Tornai alla macchina.
Carmen Verde-Romanzo “Una minima infelicità” – Neri Pozza Editore
DESCRIZIONE-
Una minima infelicitàè un romanzo vertiginoso. Una nave in bottiglia che non si può smettere di ammirare. Annetta racconta la sua vita vissuta all’ombra della madre, Sofia Vivier. Bella, inquieta, elegante, Sofia si vergogna del corpo della figlia perché è scandalosamente minuto. Una petite che non cresce, che resta alta come una bambina. Chiusa nel sacrario della sua casa, Annetta fugge la rozzezza del mondo di fuori, rispetto al quale si sente inadeguata. A sua insaputa, però, il declino lavora in segreto. È l’arrivo di Clara Bigi, una domestica crudele, capace di imporle regole rigide e insensate, a introdurre il primo elemento di discontinuità nella vita familiare. Il padre, Antonio Baldini, ricco commerciante di tessuti, cede a quella donna il controllo della sua vita domestica. Clara Bigi diventa cosí il guardiano di Annetta, arrivando a sorvegliarne anche le letture. La morte improvvisa del padre è per Annetta l’approdo brusco all’età adulta. Dimentica di sé, decide di rivolgere le sue cure soltanto alla madre, fino ad accudirne la bellezza sfiorita. Allenata dal suo stesso corpo alla rinuncia, coltiva con ostinazione il suo istinto alla diminuzione. Ogni pagina di questo romanzo ci mostra cosa significhi davvero saper narrare utilizzando una lingua magnifica che ci ipnotizza, ci costringe ad arrivare all’ultima pagina, come un naufragio desiderato. Questo libro è il miracolo di una scrittrice che segna un nuovo confine nella narrativa di questi anni.
RECENSIONI
«Nelle fotografie sediamo sempre vicine, io e mia madre: lei pallida, a disagio, con uno sguardo che pare scusarsi. A quei tempi, pregava ancora Dio che le mie ossa s’allungassero. Ma Dio non c’entrava. Se ci vuole ostinazione per non crescere, io ne avevo anche troppa».
«Ho letto il romanzo di Carmen Verde. Mi è piaciuto. Ha un ritmo veloce e leggero, come un treno che attraversa la notte con tutte le luci accese. Guardi stupito e ti chiedi chi siano quelle sagome che appaiono dietro i vetri. L’autrice conosce la geometria dei segreti e sa come giocare con il lettore». Dacia Maraini
«Carmen Verde ha una voce sorprendente e un immaginario cosí personale da risultare splendidamente spiazzante. Una minima infelicità è un libro pieno di ossessione e dolcezza, di crudeltà e pietas. Ha dentro la meravigliosa complessità di certe miniature, dove la cura per i dettagli rivela un mondo insieme familiare e straniato. I suoi personaggi si muovono sul bilico morale dei grandi classici e custodiscono l’oscura sensualità e abiezione che sanno regalarci scrittrici come Némirovsky o Lispector». Veronica Raimo
L’Autrice-Carmen Verde, vive a Roma. Questo è il suo primo romanzo.
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Lo fa scandendo una serie di versi, di quesiti, di punti di riflessione in un susseguirsi talmente veloce, talmente duro, dirompente e tagliente che arriva a toccare e a bruciare l’anima.
La simbologia è fortissima, le parole prendono quasi vita, si possono immaginare, concretizzare; pregne di tristezza, sature di dolore. Fadwa sembra quasi discostarsi dalla sua stessa realtà, appare una visitatrice ignara, catapultata a sua insaputa di fronte a un pezzo importante della tragedia e travolta da un senso profondo di solitudine.
In pochi ma efficaci fiumi di parole, racconta il dramma -ancora attuale- di donne, uomini e bambini. Il dramma logorante dell’abbandono delle proprie case, ancore dell’appartenenza alla loro patria. E’ proprio l’abbandono il concetto che fa da sfondo e cornice; sensazione alienante che accompagna la poetessa quasi fosse un osso granitico che si riforma in essa, dal quale non si può separare mai più – declinato e espresso tramite più metafore. Le “piante spinose”, cresciute nelle case, sono il simbolo della tangibile solitudine rimasta del seme dell’ingiustizia maturato fino a prendere il posto di chi, fra quelle mura, aveva vissuto e costruito i propri sogni. Cosa vi è rimasto dopo la diaspora? Dei gufi, branchi di gufi cupi, sinistri. Tipico simbolo della letteratura classica, viene proiettato dalla poetessa nel suo presente: diviene la metafora dell’occupante.
La casa, quello che fra gli spazi materiali è il più intimamente caro all’uomo, qui viene persino personificata per evidenziare la concreta realtà, l’unica rimasta dopo l’occupazione. Un panorama, però, desolato di rovine, specchio della condizione dell’anima di chi le ha lasciate; costruzioni vacue, non più case, ora abitate soltanto dal silenzio dell’assenza -forse il più assordante fra tutti- che ne colma il ventre, eco della privazione di un’identità. Dov’è ora il sogno? Dov’è l’avvenire? Dove sono loro?
Fadwa Tuqan, “la poetessa della Palestina”. Le sue poesie di impegno, di lotta, di incoraggiamento verso il popolo palestinese, sono ciò per cui ricordiamo e conosciamo la poetessa.
Per me, però, è stato illuminante scoprire che i suoi componimenti su questi temi, non costituiscono la totalità della sua produzione.
Fadwa Tuqan è stata prima di tutto una donna. Una donna che ha lottato per la propria libertà personale e per i propri diritti. Solo dopo ha unito la sua voce alla protesta nei confronti di Israele, in seguito a una ricerca di sé, una presa di coscienza maturata nel corso di buona parte della sua vita.
Inutile dire come questo mi abbia letteralmente conquistato.
Ciò che più mi ha affascinato è stato, sopratutto che la vita della poetessa e le vicende palestinese sembrano non viaggiare sullo stesso binario, ma anzi percorrere direzioni opposte. O almeno fino al 1967.
Mi spiego meglio: Fadwa Tuqan nasce a Nablus nel 1917 (anche se non ci sono dati certi sull’anno esatto) ed essendo nata in una famiglia appartenente all’alta borghesia e per di più conservatrice, la sua libertà era decisamente limitata e ben presto le venne proibito persino di frequentare la scuola.
Negli stessi anni si abbatterono sulla Palestina gli accordi Sykes-Picot e la dichiarazione di Balfour, che diedero il via all’immigrazione ebrea sotto il protettorato inglese, ma che non influirono in maniera diretta sulla vita quotidiana di Nablus, almeno non subito.
Allo stesso tempo la minaccia sionista diede propulsione a movimenti nazionalisti e di emancipazione femminile che permisero alla poetessa di riprendere gli studi.
Arrivò poi la Nakba, la catastrofe del 1948. Nablus rimase sotto il controllo arabo e migliaia di profughi vi si rifugiarono in cerca di protezione. Nello stesso anno morì il padre della Tuqan.
Questa duplice disgrazia, se da un lato gettò la poetessa nello sconforto, le fece acquistare una libertà mai sperimentata prima, grazie all’assenza del padre-padrone e all’impegno sociale e politico che la situazione richiedeva. Le donne palestinesi poterono finalmente unirsi ai combattenti e rivendicare, insieme alla libertà del proprio paese, anche quella personale.
Perciò uno dei momenti più drammatici della storia palestinese, rappresenta per Fadwa Tuqan l’inizio della libertà tanto agognata.
Tutto cambia, come vi dicevo, dopo il 1967, quando ha luogo il terzo conflitto arabo-israeliano, che vede la sconfitta definitiva delle rivendicazioni palestinesi.
È solo da questo momento in poi che la poetessa iniziò a celebrare la Palestina nelle sue poesie. In seguito a quest’ultimo dramma la Tuqan e il suo Paese si riconciliano e iniziano a camminare nella stessa direzione.
Questo percorso si rispecchia perfettamente nella sua produzione poetica.
La poetessa viene iniziata alla poesia dal fratello Ibrahim, anche lui poeta politicamente impegnato nella difesa della Palestina. I primi componimenti di Fadwa Tuqan sono quasi esclusivamente incentrati sul dolore: per l’isolamento in casa, per i lutti familiari (primo fra tutti quello per il fratello Ibrahim, morto giovanissimo). Anche se viene spesso invitata a scrivere per la causa Palestinese sembra che la poetessa non riesca a farsi carico di questo compito.
Quando nel 1948 la libertà fa capolino nella vita della Tuqan, lei ne approfitta a piene mani, ma, quasi come un’adolescente, è inesperta e immatura, sia dal punto di vista personale che politico. Inevitabilmente si rivolge al sentimento che più di tutti le era stato proibito: l’amore. Mai uguale a se stesso, l’amato cambia volto, carattere, ma rimane sempre anonimo.
Nello stesso periodo iniziano i viaggi della poetessa per presenziare a conferenze e incontri sulla poesia. In una di queste occasioni incontrò Salvatore Quasimodo, il quale rimase colpito dalla Tuqan e, probabilmente, le rivolse degli apprezzamenti. La poetessa gli rispose con una poesia intitolata “Lan abi’ hubbahu” (Non venderò il suo amore), in cui declina con ironia le avance del poeta:
Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Ma, ciò nonostante, i sentimenti ed i desideri di donna
mi fanno battere il cuore gioiosamente
al vedere le ombre d’amore negli occhi tuoi
e al sentire il loro desideroso invito.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella!»
Essenziale nella formazione personale e artistica della poetessa fu anche il suo soggiorno in Inghilterra, dove decise anche di iscriversi ad un corso di Lingua e letteratura inglese presso l’Università di Oxford.
La scoperta di un paese diverso dal proprio dove poteva essere molto più libera fu un’esperienza elettrizzante per l’ormai quarantacinquenne Fadwa Tuqan. Dopo qualche anno, però, iniziò a vedere con disillusione anche l’Inghilterra, che dopo l’entusiasmo iniziale, si rivelò un Paese estraneo. Significativa è questa poesia senza titolo:
Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
– Scusami, della Giordania, dici?
Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
– Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore!Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!
Tornata finalmente in Palestina, fu allora che iniziò ad impegnarsi attivamente per il suo Paese e diventò realmente una degli esponenti più significativi della letteratura palestinese.
Vi voglio lasciare con una delle poesie a me più care di questo periodo. Si intitola Madinati al-hazina (La mia triste città):
Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento
l’alta marea si ritirò,
e finestre del cielo si chiusero
e la mia città perse il fiato.
Il giorno in cui si ritirarono le onde
e le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole,
s’infiammarono gli occhi della speranza
e la mia triste città
si soffocò di tormento.
Sparirono bimbi e canzoni,
non più ombre né più echi,
e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia città
Tra i rottami dell’automobile sulla quale Albert Camus trovò la morte nel gennaio 1960 fu rinvenuto un manoscritto con correzioni e cancellature: la stesura originaria di Il primo uomo. La figlia Catherine ha meticolosamente ricostruito il testo qui pubblicato sulla base di quel manoscritto. Una narrazione forte, commovente e autobiografica: una sorta di romanzo di formazione a ritroso. Attraverso le emozioni e le impressioni del protagonista, che torna in Algeria nel desiderio di ritrovare il ricordo del padre scomparso durante la prima guerra mondiale, Camus ripercorre parte della propria vita: l’infanzia algerina, il periodo della povertà, le amicizie, le tradizioni, i sogni dai quali emerge la figura di un uomo ideale, il primo uomo, appunto. A sessant’anni dalla scomparsa di questo grande autore ecco il suo testamento letterario: vi ritroviamo le radici della sua personalità, la genesi del suo pensiero, le ragioni della scelta di dare voce, con la sua scrittura, a chi non l’ha mai avuta. Da questa storia l’omonimo film del 2011 scritto e diretto da Gianni Amelio.
L’Autore
Albert Camus (1913-1960) nacque in Algeria, dove studiò e cominciò a lavorare come attore e giornalista. Affermatosi nel 1942 con il romanzo Lo straniero e con il saggio Il mito di Sisifo, raggiunse un vasto riconoscimento di pubblico con La peste (1947). Nel 1957 ricevette il premio Nobel per la letteratura per aver saputo esprimere come scrittore “i problemi che oggi si impongono alla coscienza umana”. Di questo autore, oltre ai titoli già citati, Bompiani ha pubblicato L’uomo in rivolta, L’esilio e il regno, La caduta, Il diritto e il rovescio, Taccuini 1935-1959, Caligola, Tutto il teatro, Il primo uomo, L’estate e altri saggi solari, Riflessioni sulla pena di morte, I demoni, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, Conferenze e discorsi (1937-1958), Saremo leggeri. Corrispondenza (1944-1959). Nei Classici Bompiani è disponibile il volume Opere. Romanzi, racconti, saggi.
“Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo i raccolti con il padrone è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, ma golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia , anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi”.
Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati .
di Ilan Pappé (Autore)-Michele Zurlo (Traduttore)
Descrizione
Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappe´ rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappe´ rappresenta probabilmente l’analisi piu` completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione piu` grande del mondo». Pappe´ analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele e` riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle ONG che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappe´ denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappe´ e` al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianita` nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perche´ non chiuda gli occhi di fronte ai crimini contro l’umanita` a cui e` soggetta da piu` di settant’anni la popolazione indigena della Palestina.
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