Descrizione-Harold Bloom ha scritto che “con l’eccezione di Shakespeare” Emily Dickinson dimostra più originalità cognitiva di qualsiasi altro poeta occidentale dopo Dante, e che i critici quasi sempre sottovalutano la sua sorprendente complessità intellettuale. Forse anche per questa complessità, quasi un prisma che moltiplica immagini, luci, sensi, la poetessa che dalla sua stanza ha inviato una “lettera al mondo” colma di verità distillate in solitudine, continua ad attirare ovunque “biografi, filologi, docenti, studiosi, traduttori, critici” (Vivian Lamarque). E soprattutto lettori, catturati e conquistati dall’enigma di Emily, “piccola come lo scricciolo” e vestita sempre di bianco. I suoi versi concisi, intensi e misteriosi ritraggono ciò che la circonda: animali, fiori, piante, voci di una poesia spesso definita oracolare. Da un isolato punto di osservazione lo sguardo acutissimo di Emily ha saputo individuare e ampliare i limiti dell’espressione e della comprensione, indicare nuovi significati, vedere oltre la vita. Ha saputo creare un linguaggio nuovo per suggerire sensi inediti, pause come improvvise deviazioni nel volo degli uccelli: forse indecifrabili, ma ipnotiche, libere.
Crocetti Editore
Traduzione: Barbara Lanati;
Pagine: 96
Prezzo: € 7,00
ISBN: 9788883064326
Data Uscita: 02/07/2024
LA CASA EDITRICE CROCETTI
Fondata nel 1981 dal grecista e traduttore Nicola Crocetti, la casa editrice Crocetti è specializzata nella pubblicazione di opere di poesia e di letteratura neogreca, omaggio alle origini del suo fondatore.
In quasi quarant’anni di attività, la Crocetti ha pubblicato numerose opere di poeti italiani e stranieri, tra cui i Premi Nobel Ghiorgos Seferis, Odisseas Elitis, Saint-John Perse, Derek Walcott e Tomas Tranströmer. Nel catalogo figurano inoltre volumi di Emily Dickinson, Antonio Machado, Walt Whitman, Ghiannis Ritsos, Costantino Kavafis, Louis Aragon, Kahlil Gibran, Rainer Maria Rilke, Edna St. Vincent Millay, Paul Valéry, Simone Weil, Yehuda Amichai, Anne Sexton, Manolis Anaghnostakis, Adrienne Rich, Jaime Saenz, Carol Ann Duffy, Thomas Bernhard. Quasi tutti i volumi sono pubblicati con il testo originale a fronte.
Tra gli autori italiani in catalogo, troviamo Alda Merini, Franco Loi, Antonella Anedda, Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani, Antonio Porta, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Aldo Nove, Giorgio Manganelli, Mariangela Gualtieri, Maria Grazia Calandrone, Pierluigi Cappello.
Oltre alle opere di singoli autori, la Crocetti ha inoltre pubblicati alcuni volumi collettanei, come le antologie della poesia basca, svedese, russa, greca e svizzera di lingua tedesca.
Da alcuni volumi editi dalla Crocetti sono stati tratti spettacoli teatrali interpretati da importanti attori italiani. Ne sono un esempio alcuni monologhi drammatici di Ghiannis Ritsos, portati sul palcoscenico, tra gli altri, da Moni Ovadia, Paolo Rossi, Anna Bonaiuto, Elisabetta Vergani, Isabella Ragonese, Luigi Lo Cascio ed Elisabetta Pozzi.
Nel 1995 alle collane di poesia si è aggiunta la collana di narrativa neogreca “Aristea”, che ha proposto ai lettori alcuni dei romanzi greci più venduti e letterariamente più rilevanti del Ventesimo secolo, finora assolutamente sconosciuti al pubblico italiano.
Nel 2020 la Crocetti è stata acquisita dal gruppo Feltrinelli e ha inaugurato questa nuova fase cominciando a ristampare i titoli che l’hanno resa una delle più prestigiose case editrici italiane.
LA RIVISTA “POESIA”
Nel gennaio 1988 Nicola Crocetti ha fondato “Poesia”, la rivista mensile di cultura poetica più diffusa d’Europa. Fin dal primo numero, le caratteristiche principali di “Poesia” sono state: il taglio internazionale e informativo, la distribuzione capillare nelle edicole e un apparato iconografico che finalmente consentiva ai lettori di conoscere i volti dei poeti.
La distribuzione nelle edicole ha permesso alla rivista di raggiungere un pubblico molto vasto, distribuito su tutto il territorio nazionale. La tiratura di “Poesia” ha raggiunto in passato le 50.000 copie. Molte tra le maggiori Università europee e tra le più prestigiose Università americane sono abbonate alla rivista fin dal primo numero. Nei suoi trentatré anni di vita, “Poesia” ha venduto complessivamente circa tre milioni di copie.
L’alto interesse non solo italiano nei confronti di questa rivista può essere verificato digitando la parola “poesia” sul motore di ricerca Google: su oltre cento milioni di pagine la rivista “Poesia” risulta in prima posizione tra quelle regolarmente visitate.
Del comitato di redazione di “Poesia”, garante del suo alto livello culturale, fanno o hanno fatto parte sei Premi Nobel per la Letteratura (il russo-americano Joseph Brodsky, il caraibico Derek Walcott, l’irlandese Seamus Heaney, il greco Odisseas Elitis, il polacco Czesław Miłosz e lo svedese Tomas Tranströmer), oltre a poeti di fama nazionale e internazionale, come Yves Bonnefoy, Tony Harrison, Charles Wright, Adam Zagajewski, Durs Grünbein, Paul Muldoon, Antonella Anedda, Milo De Angelis, Nicola Gardini, Franco Loi, Vivian Lamarque, Silvio Ramat.
Dopo che per i primi tre anni “Poesia”è stata diretta dai poeti Patrizia Valduga e Maurizio Cucchi, nel 1991 la direzione è stata assunta da Nicola Crocetti, e la rivista si è sempre più caratterizzata per la sua vocazione internazionale. Nei 358 numeri usciti con cadenza mensile fino all’aprile 2020 e nelle sue 30.000 pagine, la rivista ha proposto centinaia di articoli su poeti tradotti per la prima volta in italiano e di nuove traduzioni di poeti ancora sconosciuti in Italia. In totale ha pubblicato quasi 3.500 poeti, tra i maggiori a livello nazionale e internazionale, e oltre 36.000 poesie tradotte da una quarantina di lingue, quasi sempre con il testo originale a fronte.
La casa editrice Crocetti ha organizzato anche diversi festival di poesia. In collaborazione con il Comune di Parma e il Teatro Due, dal 2004 al 2012 ha curato la sezione internazionale del Festival di poesia di Parma, uno dei più prestigiosi appuntamenti culturali di quegli anni, al quale sono intervenuti alcuni dei maggiori poeti del mondo.
Nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha assegnato a “Poesia”un riconoscimento per la sua attività di diffusione della poesia in Italia, consegnato al direttore della rivista Nicola Crocetti il 12 maggio 2003 al Quirinale dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Con il passaggio al gruppo Feltrinelli, dal maggio 2020 “Poesia” ha cambiato veste grafica, periodicità (da mensile in bimestrale) e canale distributivo (dalle edicole alle librerie). Non è mutata, però, la passione con cui i suoi redattori e i collaboratori raccontano da trentaquattro anni il mondo poetico italiano e internazionale.
Per attivare l’abbonamento a “Poesia” scrivi a info@poesia.it . Otterrai tutte le informazioni.
I numeri arretrati di “Poesia” (nuova serie) sono ordinabili in libreria (certamente nelle Librerie Feltrinelli) e nei principali store online (lafeltrinelli.it, ibs.it, Amazon.it ecc).
Nel nostro magazzino sono disponibili molti titoli del catalogo Crocetti, chiedi al tuo libraio di fiducia di ordinarteli. In caso di difficoltà o per ulteriori informazioni scrivi a info@poesia.it
Olga Aleksándrovna Spesívtseva, Una delle migliori “prima ballerina” del XX secolo
Articolo del Profesor José Gongora Ballet–Olga Aleksándrovna Spesívtseva, también Olga Spessivtseva (Spessivtzeva y Spessiva) (Ольга Александровна Спесивцева) (18 de julio de 1895—16 de septiembre de 1991) fue una célebre bailarina rusa cuya carrera se extendió entre 1913 y 1939.
Una de las máximas prima ballerinas del siglo XX. De excelente técnica clásica, estilo inmaculado y espiritualidad escénica se la considera la encarnación de la bailarina romántica rusa. Irónicamente, su vida tendría un trágico desenlace al sufrir un colapso nervioso, al igual que el personaje Giselle, obra de ballet que sería la más representativa de su vida.
Nació en Rostov del Don, era hija de un cantante de ópera, al morir su padre ella fue enviada a un orfanato en San Petersburgo. En 1906, entró a la academia imperial de danzas donde estudio con Klavdia Kulichévskaya, Yevguenia Sokolova y Agrippina Vagánova. Se graduó en 1913 e ingresó al Teatro Mariinski donde fue promovida a solista poco después. Fue una de las más famosas Giselle y Odette/Odile de El lago de los cisnes de su época.
En 1916, Serguéi Diáguilev la invitó a la gira de los Ballets Russes por América reemplazando a Tamara Karsávina, donde bailó con Nizhinski, regresando al Mariinski en 1918. Siguió alternando sus presentaciones en Leningrado con giras, entre ellas la realizada por los Ballets Russes a Londres y Buenos Aires en 1923.
Gracias a la intervención de su exmarido Borís Kaplún, un funcionario del régimen bolchevique, logró abandonar Rusia en 1924 para establecerse en París donde fue etoile de la Opera parisina (donde creó Salomé y Las criaturas de Prometeo de Serge Lifar) hasta 1932. Ese año creó una legendaria Giselle en Londres con el joven Anton Dolin, fue la primera en bailar en Occidente la variación del primer acto agregada posteriormente.
Entre 1932-37, hizo giras por el mundo con obras de Michel Fokine y Bronislava Nijinska.
Sufrió de depresión crónica y su última aparición fue en el Teatro Colón de Buenos Aires en 1939, año en el que se mudó a Estados Unidos para dedicarse a la enseñanza.
En 1943, sufrió un severo colapso nervioso y fue internada durante 20 años hasta que en 1963 sus amigos Anton Dolin, Felia Doubrovska y Dale Fern, la mudaron a Valley Cottage en la Fundación Tolstói, una comunidad rusa en el estado de Nueva York fundada por la hija menor del escritor Lev Tolstói, Aleksandra Tolstaya.
Vivió pacíficamente hasta morir de 96 años.
En 1964, la BBC realizó un documental sobre su vida y en 1966, Antón Dolin escribió su biografía ‘The Sleeping Ballerina’.
En 1982, aparece entrevistada por Antón Dolin en el documental “A portrait of Giselle” junto a otras siete supremas intérpretes del rol.
El ballet “Red Giselle” está inspirado en ella.
Olga Aleksándrovna Spesívtseva, anche Olga Spessivtseva (Spessivtzeva e Spessiva) ( Ольга Александровна Спесивцева) (18 luglio 1895-16 settembre 1991) è stata una celebre ballerina russa la cui carriera si estende tra il 1913 e il 1939.
Una delle migliori prima ballerine del XX secolo. Di eccellente tecnica classica, stile immacolato e spiritualità scenica è considerata l’incarnazione della ballerina romantica russa. Ironia della sorte, la sua vita avrebbe un tragico esito quando soffre di un esaurimento nervoso, proprio come il personaggio Giselle, opera di danza che sarebbe la più rappresentativa della sua vita.
Nato a Rostov del Don, figlia di un cantante d’opera, dopo la morte del padre lei fu mandata in un orfanotrofio a San Pietroburgo. Nel 1906 entrò nell’accademia imperiale di ballo dove studio con Klavdia Kulichévskaya, Yevguenia Sokolova e Agrippina Vaganova. Si è laureata nel 1913 ed è entrata al Teatro Mariinski dove è stata promossa a solista poco dopo. Era una delle più famose Giselle e Odette/Odile de Il lago dei cigni dei suoi tempi.
Nel 1916, Serghej Diaguilev la invitò al tour dei Russes Ballets in America sostituendo Tamara Karsavina, dove ballò con Nizhinski, tornando al Mariinski nel 1918. Continuò ad alternarsi le sue esibizioni a Leningrado con tour, tra cui quella fatta dai Russes Ballets a Londra e Buenos Aires nel 1923.
Grazie all’intervento del suo ex marito Boris Kaplún, un funzionario del regime bolscevico, riuscì a lasciare la Russia nel 1924 per stabilirsi a Parigi dove fu etoile dell’Opera parigina (dove Salomé e Le creature di Prometeo de Serge Lifar) fino al 1932. Quell’anno creò una leggendaria Giselle a Londra con il giovane Anton Dolin, fu la prima a ballare in Occidente la variazione del primo atto aggiunto successivamente.
Tra il 1932-37, ha girato il mondo con opere di Michel Fokine e Bronislava Nijinska.
Soffriva di depressione cronica e la sua ultima apparizione fu al Teatro Colón di Buenos Aires nel 1939, anno in cui si trasferì negli Stati Uniti per dedicarsi all’insegnamento.
Nel 1943 ha avuto un grave crollo nervoso ed è stata internata per 20 anni fino a quando nel 1963 i suoi amici Anton Dolin, Felia Doubrovska e Dale Fern la trasferirono a Valley Cottage presso la Fondazione Tolstoj, una comunità russa nello stato di New York fondata dalla figlia minore del Scrittore Lev Tolstoj, Aleksandra Tolstaya.
Ha vissuto pacificamente fino alla morte di 96 anni.
Nel 1964 la BBC ha realizzato un documentario sulla sua vita e nel 1966 Anton Dolin ha scritto la sua biografia ‘The Sleeping Ballerina’.
Nel 1982 appare intervistata da Anton Dolin nel documentario “Un portratto di Giselle” insieme ad altre sette interpreti supreme del ruolo.
Andrea Camilleri “La prima indagine di Montalbano”
Sellerio Editore-Palermo
Andrea Camilleri -La prima indagine di Montalbano-Cari amici, si veste di blu “La prima indagine di Montalbano” di Andrea Camilleri. I primi passi del commissario più amato d’Italia in tre storie imperdibili, tre indagini di Montalbano dislocate in fasi diverse della carriera del commissario. L’indagine centrale è quella più lontana nel tempo, addirittura la prima affrontata dal giovane Montalbano fresco di nomina a Vigàta.
Questo libro è stato scritto da Camilleri parallelamente all’ultima indagine, Riccardino. “Ci si convince che Camilleri abbia voluto completare la biografia del commissario aggiungendo le origini della sua carriera. E con geniale mossa narrativa abbia voluto far coincidere la figura di Montalbano con il panorama naturale delle sue vicende – scrive Salvatore Silvano Nigro – Sta di fatto che il giovane commissario viene introdotto come «omo di mare» nel suo paesaggio vitale, con arenili, barbagli di acque, e aromi salsi; e che Montalbano, in Riccardino, si congeda portando con sé il «paisaggio» di Vigàta. Malinconicamente”.
Una gioia per i lettori affezionati, il migliore inizio per chi ancora non lo conosce.
Breve biografia di Andrea Camilleri–Scrittore, nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925. Pur avendo cominciato giovanissimo a pubblicare poesie e racconti, per molti anni si è dedicato soprattutto al lavoro di regista e soltanto in età matura ha ripreso a scrivere, diventando un caso letterario grazie allo straordinario successo ottenuto dai suoi libri. Trasferitosi a Roma nel 1948 per seguire il corso di regia all’Accademia nazionale di arte drammatica, dal 1953 cominciò a lavorare come regista teatrale, preferibilmente su testi di A. Adamov, S. Beckett, L. Pirandello, e dal 1958 al 1988 lavorò soprattutto all’interno della RAI curando innumerevoli regie e sceneggiature radiofoniche e televisive. Fu anche chiamato a insegnare all’Accademia nazionale di arte drammatica e al Centro sperimentale di cinematografia. L’esperienza accumulata nell’esercizio di tali attività non sarebbe stata priva di riflessi sulla sua opera di scrittore, se si pensa all’intrinseca teatralità di certi dialoghi e situazioni narrative, o alla straordinaria perizia nel trattamento e nell’assemblaggio di diversi materiali letterari. Queste doti di alto artigianato, unite all’invenzione di una tessitura linguistica cordialmente affabulatoria, mista di italiano e siciliano, costituiscono in effetti il segreto su cui si fonda il successo della sua scrittura, la quale, nei suoi risultati più felici, è tutt’altro che evasiva, e anzi illumina con divertita ironia aspetti della storia passata e recente della Sicilia, nel solco della migliore tradizione regionale, da G. Verga a L. Sciascia.
Dopo i primi romanzi (Il corso delle cose, 1978, ma scritto nel 1967-68; Un filo di fumo, 1980; La strage dimenticata, 1984; La stagione della caccia, 1992; La bolla di componenda, 1993), che, in parte ispirati a episodi reali della storia siciliana, già rivelano uno spiccato gusto dell’intreccio e una decisa inclinazione ai registri del comico e del grottesco, nel 1994, con La forma dell’acqua, C. ha inaugurato una serie di romanzi e racconti incentrati su un personaggio fisso: il commissario di polizia Salvo Montalbano, che nella cittadina immaginaria (ma inconfondibilmente siciliana) di Vigàta deve sbrogliare numerosi casi di omicidio e malaffare, tanto animato da un sentimento di giustizia sostanziale quanto estraneo a preoccupazioni di carriera e semmai incline a procedure non sempre formalmente ineccepibili. Con crescente fortuna (dovuta anche alla risonanza dei film televisivi a essa ispirati, interpretati da L. Zingaretti), la serie è continuata con Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L’odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d’agosto (2006) e con alcune raccolte di racconti. La prevalente inclinazione di C. al grottesco delle situazioni e dei caratteri trova forse migliore espressione in alcuni romanzi che appartengono all’altro filone della sua produzione, come Il birraio di Preston (1995), dove, sullo spunto delle sue investigazioni nei misteri della storia siciliana, C. imbastisce una costruzione narrativa dal ritmo incalzante, non priva di colorite incursioni nel comico basso e nel boccaccesco, o La concessione del telefono (1998), in cui, attraverso un virtuosistico montaggio di lettere, relazioni, ordinanze e dialoghi dal vivo, si racconta come una mostruosa cultura del sospetto possa trasformare una privata vicenda burocratica in un caso di portata nazionale. Vanno anche ricordati Il gioco della mosca (1995), La mossa del cavallo (1999), La scomparsa di Patò (2000), Biografia del figlio cambiato (2000), ricostruzione della vita di Pirandello, Il re di Girgenti (2001), certamente il romanzo più impegnativo di C., e La pensione Eva (2006).
Antonio Gramsci, Lettera alla mamma del 15 dicembre 1930.
Antonio Gramsci:”Carissima mamma,ecco il quinto natale che passo in privazione di libertà e il quarto che passo in carcere. Veramente la condizione di coatto in cui passai il natale del 26 ad Ustica era ancora una specie di paradiso della libertà personale in confronto alla condizione di carcerato. Ma non credere che la mia serenità sia venuta meno. Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere diventato più saggio e di avere arricchito la mia esperienza degli uomini e delle cose. Del resto non ho perduto il gusto della vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che se anche non posso piú «zaccurrare sa fae arrostia» [«sgranocchiare le fave arrostite» in lingua sarda], tuttavia non proverei dispiacere a vedere e sentire gli altri a zaccurrare.
Dunque non sono diventato vecchio, ti pare? Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. In questo senso sono sicuro che neanche tu sei diventata vecchia nonostante la tua età. Sono sicuro che sei decisa a vivere a lungo, per poterci rivedere tutti insieme e per poter conoscere tutti i tuoi nipotini: finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie. Devi persuaderti però che occorre anche risparmiare un po’ le proprie forze e non intestarsi a fare dei grandi sforzi come quando si era di primo pelo. Ora mi pare appunto che Teresina, nella sua lettera, mi abbia accennato, con un po’ di malizia, che tu pretendi di fare troppo e che non vuoi rinunziare alla tua supremazia nei lavori di casa. Devi invece rinunziare e riposarti. Carissima mamma, ti auguro tante cose per le feste, di essere allegra e tranquilla. Tanti auguri e saluti a tutti di casa.
Ti abbraccio teneramente.
Antonio Gramsci, 15 dicembre 1930.
Antonio Gramsciè tra i fondatori del Partito comunista italiano. Fatto arrestare da Mussolini muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione.
Antonio Gramsci è nato ad Ales (Cagliari) nel 1891 da famiglia piccolo-borghese. Di salute cagionevole fin dall’infanzia, vince una borsa di studio per l’Università di Torino, laureandosi in lettere e filosofia. Nel 1913 aderisce al Partito socialista del quale diventa, nel ’17, segretario della sezione torinese. Affascinato dal pensiero e dall’opera di Lenin, in Russia, nel 1919 promuove la formazione della corrente comunista nel Partito socialista, dalla quale, nel 1921, nasce il Partito comunista d’Italia. Direttore del quotidiano L’Ordine nuovo, nel ’22 è componente dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista. Si sposa a Mosca; avrà due figli per i quali, dal carcere italiano, scriverà una serie di commoventi favole pubblicate con il titolo L’albero del riccio. Rientrato in Italia, è eletto deputato per il collegio Veneto e segretario generale del Partito comunista. Nel 1926 viene arrestato dalla polizia fascista nonostante l’immunità parlamentare, il re e Mussolini sciolgono la Camera dei deputati, mettendo fuori legge i comunisti. Gramsci e tutti i deputati comunisti sono processati e confinati: Gramsci nell’isola di Ustica e successivamente nel carcere di Civitavecchia e Turi. Non essendo adeguatamente curato è abbandonato al lento spegnimento fra sofferenze. Muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione, senza aver mai rivisto i figlioletti. Negli anni della reclusione scrive 33 quaderni di studi filosofici e politici, definiti una delle opere più alte e acute del secolo; pubblicati da Einaudi, nel dopoguerra, sono noti universalmente come i Quaderni dal carcere, tradotti in tutte le lingue più importanti.
Articolo e Fotoreportage di FRANCO LEGGERI-Roma- Municipi XIII- XIV-Il Castello di Bocceaanticamente “Ad Nimphas Catabasi”, sito al decimo miglio dell’antica via Cornelia,(domina il ristorante i SALICI sito sulla via Boccea). Si accede da una via sterrata all’interno della campagna e, come d’incanto, si vedono i resti del vecchio castello, luogo dove albergano le fiabe e ciò che rimane di una architettura delle allucinazioni per chi ha voglia di emozioni, le grandi emozioni, con un percorso iniziatico alla fantasia. Della vecchia costruzione , oltre ai cunicoli e gallerie, è visibile il Torrione, costruito in pietra selce e mattoni con rinforzi di possenti barbacani, necessari per contenere ed arginare il progressivo cedimento del banco tufaceo che costituisce la base naturale del fabbricato. Il Castello domina i boschi dove, nel 260 d.C. furono martirizzate S.s. Rufina e Seconda, mentre nelle vicinanze, al XIII miglio della stessa via Cornelia, nel 270 d.C. sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, subirono il martirio Mario e Marta con i figli Audiface ed Abachum, famiglia nobile di origine persiana, come si legge nel Martirologio Romano”Via Cornelia melario terbio decimo ad urbe Roma in coementerio ad Nimphas, sanctorum Marii, Marthae, Audifacis et Abaci, martyrum”. Le prime tracce cartacee documentali del Castello si trovano nella bolla di Papa Leone IV, conservata negli archivi vaticani,tomo I pag. 16, con la quale si conferma la donazione al monastero di San Martino del “fundus Buccia” e delle chiese dei Santi Martiri Mario e Marta. Il Papa Adriano IV nel 1158 confermò alla basilica vaticana il Castello e i fondi di Atticiano, Colle e Paolo. In un antico atto conservato in Vaticano, al fascicolo 142,si legge che nel 1166 Stefano, Cencio e Pietro, fratelli germani e figli del fu Pietro di Cencio, cedettero a Tebaldo, altro fratello, la loro porzione del Castello di “Buccega”. Sempre dal medesimo archivio si apprende che Giacomo, Oddo, Francesco e Giovanni di Obicione, Senatori di Roma nell’anno 58 ( 1201), stabilivano che la basilica di San Pietro possedesse e godesse tutti i beni e gli abitanti del Castello di Buccia fossero sotto la protezione del Senato. Si stabilì che anche i canonici del Castello usufruissero dei privilegi e consuetudini accordati ai loro vicini, cioè come l’esercitavano nei loro castelli i figli di Stefano Normanno, Guido di Galeria e Giacomo di Tragliata (Vitale, “Storia diplomatica dei Senatori di Roma”, pag. 74 ). Da una bolla di Gregorio IX del 1240 si ha notizia di un incendio che distrusse il Castello e che il Pontefice ordinò di prelevare il denaro necessario alla ricostruzione direttamente dal tesoro della Basilica Vaticana ( Bolla vaticana Tomo I, pag.124).In un lodo del 1270,che tratta di una lite di confini della tenuta,si menziona tra i testimoni Carbone, Visconte del Castello di Boccea. Il Castello subì nel 1341 l’attacco di Giacomo de’ Savelli, figlio di Pandolfo che, dopo averlo preso, scacciò gli abitanti e lo incendiò. Papa Benedetto XII, che era ad Avignone, scrisse al Rettore del patrimonio di San Pietro di”costringere quel prepotente a risarcire il danno”. Dopo il saccheggio da parte del Savelli il luogo rimase deserto secondo il Nibby mentre il Tomassetti, nella sua opera (pag.153) ci descrive il castello e la tenuta ancora abitato da una popolazione di 600 anime, cifra ricavata dalle quote sulla tassa del sale dell’anno 1480/81, durante il papato di Sisto IV. Della trasformazione da Castello a Casale di Boccea, moderna denominazione, si trova traccia nel Catasto Alessandrino del 1661,dove la costruzione viene indicata come “Casale con Torre”. Va ricordato che da 20 ettari di uliveto di Boccea si produceva l’olio destinato ai lumi della Basilica Vaticana, come si può desumere dalla cartografia seicentesca di G.B.Cingolani dove si legge”seguita a destra il procoio pure detto delle Vacche Rosse del Venerabile Capitolo di San Pietro, chiamato Buccea, olium Buxetum”. Attualmente il Casale di Boccea è in ristrutturazione con destinazione turistico-alberghiera, con un grande ristorante nel quale troneggia un imponente camino seicentesco in pietra. Altre tracce del passato sono i vari stemmi papali inseriti nei muri ed un frantoio manuale di recente ritrovamento, del tutto simile a quelli del Castello della Porcareccia e di Santa Maria di Galeria. –
Roberto Sansuini – Silvano Sansuini-“ESTETICA DELLA MUSICA”.
Editore:Zecchini
Perché questo libro di Roberto Sansuini?Molto spesso i musicisti che escono dai nostri Conservatori sono ritenuti carenti di quella formazione di base, di tipo multidisciplinare, che dovrebbe caratterizzare chi è in possesso di una maturità liceale o addirittura di una laurea. Si ritiene che, frequentemente, i Conservatori italiani, per la loro struttura, non siano ancora in grado di assicurare, accanto alla formazione musicale, anche quando sia di altissimo livello, una preparazione generale di base che faccia del musicista anche un uomo di cultura. Del resto, i Licei musicali, fin dal tempo delle loro molteplici sperimentazioni, hanno sempre mirato a sanare tale carenza. Questo testo vuole essere un parziale, ma significativo contributo all’ampliamento degli orizzonti di pensiero dei giovani musicisti, affinché questi possano cominciare a concepire il mondo musicale come parte di un universo culturale più vasto, nelle molteplici correlazioni di tipo interdisciplinare e storico. Per fare questo, dobbiamo cercare di chiarire cos’è stata la musica nelle antiche stagioni degli uomini, nelle culture del passato, quale posto ha occupato nelle varie epoche, in riferimento alla vita di tutti i giorni, alla cultura, alla religione, alle arti. Ci si rende conto facilmente che la grande parte delle problematiche e degli interrogativi che ancora oggi ci poniamo hanno le loro radici nel pensiero degli antichi e negli sviluppi che esso ha conosciuto nel lungo cammino della storia. Tutto ciò anche per la constatazione che è mancato fino ad oggi un concreto raccordo, soprattutto nel campo dell’Estetica della musica, fra la ricerca musicologica, necessariamente a carattere specialistico e la possibilità di accedere, da parte dei giovani musicisti, a quelle conoscenze e riflessioni fondamentali sulla musica che possano consentire a chiunque una più informata consapevolezza dei fatti musicali. Questo volume, affiancando il lavoro dei docenti, spesso anche di alto livello, vuole rappresentare una prima introduzione ad un settore di studio che può giungere a riflessioni avvincenti, ma che possono diventare spesso di grande complessità. Per tali motivi il testo è redatto con una attenzione didattica a misura di chi voglia cominciare ad esplorare i diversi significati della musica, in un approccio di grande semplicità, nei vari rapporti con la storia, la filosofia, le scienze, ecc.., fino alle soglie della ricerca estetico-filosofica dei nostri giorni. Il lettore, anche privo di una specifica competenza di tipo musicale, storica o filosofica, viene guidato con un continuo supporto di riferimenti, annotazioni, chiarimenti che gli consentono una lettura sempre agevole e chiarificatrice.
Trama
Questo testo vuole essere un parziale, ma significativo contributo all’ampliamento degli orizzonti di pensiero dei giovani musicisti, affinché questi possano cominciare a concepire il mondo musicale come parte di un universo culturale più vasto, nelle molteplici correlazioni di tipo interdisciplinare e storico. Per fare questo, dobbiamo cercare di chiarire cos’è stata la musica nelle antiche stagioni degli uomini, nelle culture del passato, quale posto ha occupato nelle varie epoche, in riferimento alla vita di tutti i giorni, alla cultura, alla religione, alle arti. Ci si rende conto facilmente che la grande parte delle problematiche e degli interrogativi che ancora oggi ci poniamo hanno le loro radici nel pensiero degli antichi e negli sviluppi che esso ha conosciuto nel lungo cammino della storia. Tutto ciò anche per la constatazione che è mancato fino ad oggi un concreto raccordo, soprattutto nel campo dell’Estetica della musica, fra la ricerca musicologica, necessariamente a carattere specialistico e la possibilità di accedere, da parte dei giovani musicisti, a quelle conoscenze e riflessioni fondamentali sulla musica che possano consentire a chiunque una più informata consapevolezza dei fatti musicali. Questo volume, affiancando il lavoro dei docenti, spesso anche di alto livello, vuole rappresentare una prima introduzione ad un settore di studio che può giungere a riflessioni avvincenti, ma che possono diventare spesso di grande complessità.
Roberto Sansuini – Silvano Sansuini
ESTETICA DELLA MUSICA.
Pagine VIII+296 – formato cm. 17×24 – Euro 25,00
I luoghi sono memoria, radici, punti di vista – di Luigi Oliveto-
Editore Feltrinelli
Reduce dal successo del Premio Campiello, ecco il romanzo “Alma” di Federica Manzon. Pagine intense, dove geografie reali e interiori (fino a che punto le seconde possono prescindere dalle prime?), vicende personali e Storia, vanno a costruire un racconto che, per quanto riferito a un recente passato, fa pensare molto al presente. A come, nel nostro oggi, ci si voglia aprire o chiudere al futuro, ragionando – non senza apprensione – di radici e strappi, confini e spaesamenti, patrie e apolidia. Del resto tutto questo ha a che fare con il ‘chi sono’, in quale luogo (fisico e mentale) posso dire di trovarmi a casa, poiché i luoghi sono anche ‘punti di vista’. Il romanzo di Federica Manzon pare avere le sue ragioni proprio in questa intelligente inquietudine, mossa da memorie, sentimenti, visioni del mondo. La protagonista, Alma, torna tre giorni a Trieste per gli adempimenti relativi a una inaspettata eredità lasciatale dal padre. Uomo di grande fascino, pressoché assente dalla famiglia in un continuo andirivieni oltre confine, su un’isola della ex Jugoslavia del maresciallo Tito, senza che si sapesse quale lavoro vi andasse a fare: “andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.” Sono anni che Alma ha lasciato Trieste per rifarsi una vita altrove. Ora ritrova la città e, con essa, una parte di sé: l’infanzia, il viale di platani che portava alla bella casa dei nonni, gli eleganti caffè dove si respirava mondanità e mitteleuropa. Ritrova la casa sul Carso nella quale, da un giorno all’altro, si erano trasferiti e dove, da Belgrado, era arrivato Vili, figlio di due intellettuali amici di suo padre. Destino vuole che sia proprio Vili a consegnarle l’eredità, lui che era stato “un fratello, un amico, un antagonista” e che oggi sarebbe stata l’ultima persona che desiderava rivedere. Sono dunque per Alma tre giorni emotivamente impegnativi, di sovrapposti pensieri su quanto è accaduto nella sua vita e nelle esistenze altrui; in un prima e in un dopo, qui e oltre. Non è un caso che tutto ciò sia avvenuto – e adesso si riproponga – in una terra di confine, nella seducente Trieste, che, per dirla con Saba, è città di “scontrosa grazia”, di “aria strana, tormentosa”. Un posto che bene accondiscende desideri di altrove e sconfinamenti. Terra di furioso vento che vorrebbe portar via cose e anime. Passa, sconquassa, non si ferma. Poi torna, nuovamente arriva, e fugge.
Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all’isola. Lei cammina nel paese chiuso: una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola tra case di vacanza disabitate, qualche facciata sfoggia una bandiera della Dinamo Zagabria appesa ai fili del bucato, qualche altra un muro decorato da fori di proiettile. Alma alza gli occhi verso il campanile e vede un gabbiano che si sgranchisce le ali. Stamattina ha telefonato all’albergo sull’isola, ha chiesto se era possibile prenotare una camera. È possibile, le hanno risposto con riluttanza. Sono cambiati i tempi ma l’isola conserva la sua scortesia. Il cielo intanto è schiarito, c’è un sole baltico. Le sembra di aver passato la vita sotto cieli come questo, a inseguire qualcosa che non aveva chiaro. Un inverno nella sua città a est, doveva essere la fine di febbraio, camminava nel bosco del barone Revoltella e gli alberi sobbalzavano per la bora, lei stringeva la mano di un uomo che si era intrufolata nella tasca del suo cappotto e tremava. Accadevano cose del genere, conosceva persone con cui passava del tempo, scrutavano il cielo insieme, facevano un pezzo di strada, poi lei se ne andava. Le campane battono l’ora, il capitano della barca è entrato in cabina a controllare che tutto sia pronto. Alma si affretta a raggiungere la passerella, nessuno le controlla il biglietto: è l’unica passeggera, e ha l’aria da straniera del nord. Ovunque abbia vissuto l’hanno sempre scambiata per una che viene da un altrove, c’è qualcosa di provvisorio nei suoi gesti, come se fosse sempre sul punto di partire, o perché dà l’impressione di aspettare un attimo di troppo prima di rispondere alle domande e la gente pensa che lei non capisca la lingua, nessuna lingua, anche se lei ne capisce e ne parla diverse.
Sul ponte appoggia i gomiti al parapetto e si sporge a vedere l’acqua che si increspa appena i motori iniziano a rullare. Una volta, in braccio a suo padre, le era caduto il cappello in acqua. Un cappellino di paglia con il nastro blu comprato a Venezia. Per consolarla lui l’aveva portata sotto coperta, dove molti nel vederlo si erano alzati a stringergli la mano, aveva detto qualcosa al capitano e quello aveva fatto spuntare dall’armadietto sotto i comandi un rettangolo di tessuto blu con una stella rossa cucita su un lato e gliel’aveva sistemato sulla testa. Lei aveva detto grazie, e il capitano e suo padre si erano scambiati uno sguardo significativo. Il cappello dei giovani pionieri di Jugoslavia non è sopravvissuto all’infanzia e non esistono foto di quel giorno: pochi di noi sono stati immortalati nelle occasioni di festa, se non si aveva la fortuna di entrare nelle parate nazionali e di finire sul “Vjesnik” o sul “Novi list”. Alma ricorda che portava sandali blu e una maglietta alla marinara. Per anni ha creduto che quel ricordo fosse una suggestione della fantasia, cresciuto nel deserto della memoria familiare con l’ostinazione di un’acacia nel Sahara, poi aveva smesso di pensarci.
A quel tempo suo padre la portava due o tre volte l’anno sull’isola. C’era un’aria da festa del cinema e coppe di champagne, l’aria sbarazzina dei Paesi non allineati. Uomini in giacca e cravatta o con il cappello bianco passeggiavano lungo i viali o sfilavano su piccole macchine decappottabili; branchi di cerbiatti brucavano l’erba del campo da golf. Alma si tuffava dagli scogli piatti e nuotava in apnea tra i pomodori di mare grossi come un pugno e i cefali, e i saraghi. Aveva il divieto di rivolgere la parola a chicchessia, e d’altra parte si chiedeva come avrebbe potuto farlo dal momento che parlavano lingue indistinguibili diverse dalla sua, solo ogni tanto riconosceva qua e là dei suoni che assomigliavano a quelli che sentiva sugli autobus di casa sua, o alla spiaggia dopo la Pineta dove scendevano al bagno gli sloveni di Contovello. A volte sull’isola c’erano anche altri bambini, il cappellino blu con la stella rossa come il suo, camicie bianche e un fazzoletto rosso attorno al collo. Suo padre le aveva spiegato che erano i giovani pionieri, e lei gli aveva detto che voleva essere una pioniera. E perché mai? Per avere la divisa come loro! In realtà detestava le volte in cui sull’isola c’erano i pionieri. Erano una banda, una tribù. Parlavano una lingua esoterica, possedevano un codice di gesti che lei ignorava: battevano palmo contro palmo, pugno contro pugno, urlavano, si tuffavano dalle scogliere a sud, le più pericolose, fischiavano con due dita in bocca. A volte la trascinavano nelle loro spedizioni alle ville e dai buchi nelle recinzioni spiavano i camerieri in divisa preparare il fuoco per la griglia mentre sui grandi tavoli di pietra i vasi aspettavano di essere riempiti dai fiori e i militari piantonavano i cancelli. Nessuno dei soldati li minacciava mai, né li scacciava quando diventavano molesti, perché il Maresciallo adorava i bambini, si faceva fotografare con loro ogni volta che appariva alle cerimonie pubbliche, li baciava e accettava i loro doni, finanziava i giochi atletici a cui presenziava con la moglie e i funzionari che negli anni sopravvivevano alle epurazioni. Ad Alma capitava di imbattersi in suo padre che passeggiava lungo i viali dell’isola in compagnia di donne con collane di perle e uomini che fumavano, le strizzava l’occhio a dire che non era il momento per ricordare a tutti che era un padre. Passandogli accanto lo sentiva parlare ogni volta lingue diverse, le parole uscivano agili dalla sua bocca, accavallate le une sulle altre così che diventava difficile per chiunque attribuirgli un accento, capire da dove veniva o, meglio ancora, da che parte stava. (Dov’era nato? Chi erano i suoi genitori? E il nome che portava?) Non sapevano, quelle donne e quegli uomini eleganti, che suo padre era uno zingaro capace di imbastire storie che stordivano e di cantare ninne nanne che mettevano paura – andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.
L’infanzia di Alma, che durò più o meno fino al trasferimento nella casa sul Carso, era stata un alternarsi di attese e pomeriggi carichi di tensione in cui sua madre rientrava con vaschette di alluminio colme di ćevapčići arrostiti e ajvar, kipferl e biete cucinate con le patate, la cena per il ritorno di suo padre che finivano per sbocconcellare da sole. E se da adulta Alma ha sviluppato una certa irritazione per il rumore di tacchi femminili che avanzano sul parquet, è perché in quei giorni di vana speranza sua madre indossava il vestito di raso verde che le lasciava le ginocchia e le spalle scoperte e i tacchi che risuonavano tormentosamente dalla cucina alla finestra del salotto, per ore, fino a quando non si arrendevano al buio e venivano lanciati nello sgabuzzino lasciando nell’aria uno strascico di trepidazione e dolore.
Articolo di Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista-[da Alma di Federica Manzon, Feltrinelli, 2024]-Fonte-toscanalibri.it
Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista.Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004), Mario Luzi. Un segno indelebile (2016). Esce nel 2020 la raccolta di racconti Le rose di Kathryn. Nell’album Indy e Lib (cinque ristampe) adatta, per i bambini della scuola primaria, il testo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», edizione patrocinata dalla Federazione Italiana dei Club Unesco. E’ autore di trasmissioni culturali per la televisione e di docufilm pubblicati in Dvd. È direttore del portale Toscanalibri.it.
Kate Clanchy –Nata a Glasgow nel 1965, Kate Clanchy ha studiato ad Edimburgo e Oxford, città in cui oggi vive e lavora come insegnante, giornalista e scrittrice freelance. Ha vinto numerosi premi prestigiosi con diversi libri di poesia tra cui “Newborn”, una raccolta dedicata ai temi della gravidanza, della nascita e della cura di un bambino. Il suo ultimo libro è la biografia “What Is She Doing Here?: A Refugee’s Story”, con cui ha vinto il Writer’s Guild Best Book Award for 2008 e che è stato mandato in onda dalla BBC
Patagonia
Dissi forse la Patagonia, e immaginavo
una penisola, grande abbastanza
per un paio di sedie a sdraio
su cui dondolare nell’alta marea. Pensavo
a noi in un freddo mozzafiato, davanti
a un orizzonte tondo come una moneta, avvolti
nell’intreccio del ripiglino che i gabbiani giocano
dal mare fino al sole. Pensavo di aspettare
finché le onde non si fossero addormentate
dalla noia.
Posa
Ora faccio sedere mio figlio
sull’anca e reggo
il suo peso con la curva
della vita, come un albero
diviso da una forcella,
come amanti inclinati in un valzer.
Niente è perduto. Mai stata
una di quelle ragazze
rimaste magre come un fuscello.
Ai balli spesso ero da sola.
* * *
Amore
Non ne avevo mai incontrati così prima.
Una faccia da sollievo – davvero,
come una battuta su suo padre – sfocata
come da anni di lucidatura;
mani aggrinzite come foglie secche;
il calore licenzioso che emetteva,
emetteva, i suoi respiri corti,
prudenti: pensavo
che i suoi filamenti esplodessero,
pensavo fosse un imperatore,
morente su cuscini di seta.
Non sapevo come tenerlo
avvolto, non sapevo
come allattarlo, non avevo
alcuna idea su di lui. Di notte
cercavo di ricordare la sensazione
della sua testa sul mio collo, il cranio
piccolo come un gatto, quell’affetto
caldo come un soldo fuso,
e i capelli, la peluria, fine
come lo strato più interno nel pelo
di qualche rara creatura delle nevi,
un’aureola di pelliccia, se mai
incontrassi una bestia così potresti
andarci vicino. Ho cominciato da lì.
* * *
Il ponte oltre il confine
Qui, dovrei senz’altro pensare a casa:
il mio paese e la città ripida e pulita
dove sono cresciuta: i suoi banchi di nubi,
i venti e la luce cangiante, teatrale,
i suoi scrosci di pioggia burbera e gelida, o altrimenti,
la volta che il treno rimase qui un’ora e mezza.
Era caldo, per una volta. Il motore sembrava
borbottare e respirare con noi,
e nel silenzio, il suonatore sul retro
strimpellava Scotland the Brave. C’era
una luce dorata, da film, e l’uomo di fronte
soffriva, diceva, per amore.
Vide un paese nei miei occhi.
Ma era di Los Angeles,
e io pensavo a un altro ponte.
Era ottobre. Io correvo a incontrare un uomo
con cui le cose non erano proprio stabili,
e in effetti non lo sarebbero mai state, e mi fermai
a mezza strada per guardare gli uccelli – rondini
in lontane migliaia, trascinate
verso l’Africa, o il caldo, o la casa, senza sapere
cosa, ma certamente come. Scivolavano sul cielo di carta
erano croci sui grafici del mercato azionaio,
erano sabbia in un canestro scosso,
e io le fissavo, come a setacciare l’oro.
* * *
Un uomo sposato
L’uomo sposato la notte scorsa sognava
di una casa che gli era stata lasciata: una casa come quelle che hai nei sogni,
mille stanze, un corridoio. Vagava
in giro da solo, mi disse, sorrideva
con suo sorriso quieto e interiore. Trovavo
un giardino segreto, mura alte, chiuso, uno strano verde vellutato. Lì, una finestra guardava verso l’oceano. Piegava le mani pallide,
avevo, diceva, la chiave. Sua moglie toccava
la figlia addormentata, pesante lussuoso animale,
e lo guardava, d’intesa, soddisfatta.
traduzioni di Sergio PASQUANDRA
Breve biografia di Kate Clanchy –Nata a Glasgow nel 1965, Kate Clanchy ha studiato ad Edimburgo e Oxford, città in cui oggi vive e lavora come insegnante, giornalista e scrittrice freelance. Ha vinto numerosi premi prestigiosi con diversi libri di poesia tra cui “Newborn”, una raccolta dedicata ai temi della gravidanza, della nascita e della cura di un bambino. Il suo ultimo libro è la biografia “What Is She Doing Here?: A Refugee’s Story”, con cui ha vinto il Writer’s Guild Best Book Award for 2008 e che è stato mandato in onda dalla BBC
Ne l’ora in che si affaccian caute ed escono
Da i nascondigli de la casa l’ombre
E s’incontran, si mescon circonfuse
Ai morenti chiaror de le finestre,
Ne la dimora solitaria un vecchio,
Pascendo sè de le tristezze sue,
Pensa gli anni lontani, l’imminente
Ultima sera e, sospirati invano
I dì che più non tornano, sospira
Invano i dì che non vedrà, sospira
Una parte di sè gittar vivente
Ne l’avvenir, almeno un disïoso
Guardo che si lontani e parli ancora
Quando l’occhio sia chiuso, una infocata
Stilla di pianto almen che ancor non resti,
Che ancor non geli. Va pensando i cori
In che più fida ed ogni più diletta
Cosa cui giunger la memoria sua:
Capelli sacri di chi amò e scomparve
Ne la morte, gioielli, antiche tele
Il 25 marzo del 1842 nasceva a Vicenza, Antonio Fogazzaro (Vicenza, 25 marzo 1842 – Vicenza, 7 marzo 1911) è stato uno scrittore e poeta italiano.
Nasce a Vicenza, nella casa al numero civico 111 dell’attuale corso Fogazzaro, da Mariano, industriale tessile, e da Teresa Barrera, in un’agiata famiglia di tradizioni cattoliche: lo zio paterno Giuseppe era prete e una sorella del padre, Maria Innocente, era suora nel convento di Alzano, presso Bergamo. Antonio scriverà di sé stesso: «Dicono che sapessi leggere prima dei tre anni, che fossi un enfant prodige, antipatico genere. Infatti ero poco vivace, molto riflessivo, avido di libri. Mio padre e mia madre mi istruivano con grande amore. Avevo un carattere sensibile, ma chiuso».
Nel maggio 1848, nelle giornate della prima guerra di indipendenza, la madre lo porta con la sorella minore Ina a Rovigo: Vicenza è insorta e prepara la sua difesa contro la reazione dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico. Il padre Mariano e lo zio prete don Giuseppe partecipano ai preparativi della città, ma sarà tutto vano e il 10 giugno l’esercito di Radetzky entra in Vicenza.
Concluse gli studi elementari nel 1850: scriverà poi di non avere «mai studiato con gran zelo quello che dovevo studiare, anche da ragazzetto leggevo con avidità ogni sorta di libri dilettevoli; per il vero studio non avevo nessun entusiasmo. Leggevo poi malissimo, in fretta e furia, disordinatamente […] Il mio libro prediletto erano le Mémoires d’Outre-tombe del Chateaubriand. Andavo pazzo dell’autore; m’innamoravo fantasticamente di Lucile del Chateaubriand, come più tardi mi innamorai di Diana Vernon, un’eroina di Walter Scott».
Nel 1856 inizia a frequentare il liceo; tra i suoi professori è il poeta Giacomo Zanella: «Fu lui che mi fece innamorare di Heinrich Heine. Io non vedevo, non sognavo più che Heine». Non si crea amici fra i suoi compagni di scuola: «Passavo per aristocratico, reputazione che ho poi avuto più o meno dappertutto per il mio esteriore freddo, riservato e soprattutto per il mio odio della trivialità» ed è un adolescente timido e romantico: «Le mie fantasie amorose erano sempre tanto fervide quanto aeree: mi figuravo di avere un’amante ideale, un essere sovrumano come Chateaubriand descrive la sua Silfide. Con le signore ero di un imbarazzo, d’una timidezza, di una goffaggine straordinarie».
Scrive modeste poesie d’occasione, conservate in un suo quaderno e in lettere familiari, come una Campana a stormo, del 1855, o La Rassegnazione, del 1856.
Terminato il liceo nel 1858, i suoi interessi lo spingerebbero verso studi di letteratura ma trova l’opposizione del padre, che non trova in lui capacità letterarie e intende farne un avvocato. Iscritto all’Università di Padova, tra alcune lunghe malattie e la stessa chiusura d’autorità dell’Università nel 1859 a causa delle proteste studentesche contro il regime austriaco, Antonio perde due anni di studi. Nel novembre del 1860 la famiglia Fogazzaro si trasferisce a Torino e Antonio è iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università sabauda. Studia poco e malvolentieri, frequenta più spesso i caffè, giocando al biliardo, che le aule dell’Università e perde anche la fede cattolica; scrisse poi di aver provato allora «una certa soddisfazione come per aver rotto una catena pesante; sentivo però anche un lontano dubbio di errare. Lo provai specialmente la prima Pasqua che passai senza Sacramenti. So di avere passato delle ore di grande agitazione interna, passeggiando per il giardino deserto del Valentino».
Continua a scrivere poesie e il giornale Universo ne pubblica alcune nel 1863: si ricordano Campana del Mezzogiorno, Nuvola, Ricordanza del Lago di Como; si laurea nel 1864 con voti modesti. Nel novembre dell’anno successivo la famiglia si trasferisce a Milano e Antonio svolge il proprio praticantato presso uno studio legale.
Fogazzaro conosceva fin dall’infanzia la famiglia vicentina dei conti Valmarana; rivide in particolare la giovane Margherita già a Torino nel 1862 e poi durante le vacanze degli anni successivi, finché i Valmarana resero visita a Milano alla famiglia Fogazzaro nel 1866, in quella che doveva essere la preparazione a una richiesta di fidanzamento, avvenuta qualche mese dopo. I due giovani si sposarono il 31 luglio 1866 a Vicenza, da poco occupata dalle truppe italiane a seguito della terza guerra di indipendenza, e pochi mesi prima che il Veneto entrasse ufficialmente a far parte del Regno d’Italia.
Il suo lavoro di collaboratore svogliato di uno studio legale non gli permette di mantenere se stesso e la moglie senza il soccorso economico della sua famiglia di origine. A Milano conosce Abbondio Chialiva, un vecchio carbonaro che lo introduce nell’ambiente letterario degli scapigliati, scrittori che, come Emilio Praga, i fratelli Arrigo e Camillo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, cercavano, consapevoli del provincialismo letterario italiano, nuove strade nell’arte, rifacendosi alle tradizioni romantiche tedesche e francesi. Si lega in particolare con Arrigo Boito ma non farà mai parte di quella corrente che, per quanto confusa e velleitaria, appariva troppo ribelle ai suoi occhi di borgheseconservatore e intimamente conformista.
Nel 1868 supera gli esami di abilitazione alla professione di avvocato; scrive allo zio Giuseppe il 21 maggio: «Eccomi avvocato; bell’affare per i miei futuri clienti! Intanto metto il Codice Civile in disponibilità, mando la Procedura in licenza e condanno il Codice Penale alla reclusione». Pensa infatti di dedicarsi ancora alla poesia; nel 1869 nasce Gina, la prima figlia, e intanto comincia a lavorare a un romanzo e a un poemetto in versi.
Fogazzaro inviò al padre il manoscritto del poemetto Miranda il 3 dicembre 1873: «A me pare buono e in certe parti, devo dirtelo? molto buono, ma sono il primo a convenire che tutti gli autori, sino a’ più ladri, hanno la stessa opinione delle cose proprie». Anche al padre, che è deputato del collegio di Marostica al Parlamento italiano, l’opera pare «bella, bellissima […] ho divorato i tuoi versi tutti d’un fiato […]» e ricerca un editore che la pubblichi, ricevendo tuttavia solo rifiuti, tanto da far pubblicare il libro a proprie spese nel 1874.
Sollecitò giudizi da un letterato di fama come Gino Capponi che, non si sa con quanto spirito di circostanza, ne dà una valutazione lusinghiera ma riceve, il 15 giugno 1874, un giudizio netto e severo dal grande critico, e collega al Parlamento, Francesco de Sanctis:
«La maniera pare un po’ arida e asciutta ma l’autore ha voluto così fare per reagire contro la morbosa abbondanza de’ nostri periodi poetici e per stare un po’ più dappresso alla natura. Forse ha oltrepassato il segno, come fanno tutte le reazioni. Ci ho trovato dei bei motivi psicologici, ma poca ricchezza e poca serietà nel loro sviluppo e nelle loro gradazioni. Il meno interessante è Enrico. Il suo Libro non ci mostra che velleità di poeta e di amante e nessuna potenza a esser l’uno o l’altro. E se l’autore mi dirà che questo appunto voleva significare, allora la forma doveva esser comica e ironica, e il lavoro doveva riuscire tutt’altro.
Miranda è un carattere muto, come direbbero i tedeschi, che si sviluppa poco a poco sotto la fiamma latente dell’amore. Concezione bellissima e anche originale, ma poco studiata e poco scrutata. Che l’autore abbia la forza di far meglio si vede in certi momenti psicologici colti felicemente e ben rappresentati, specialmente nel Libro di Miranda. Questi difetti organici producono una monotonia che giunge talora sino alla stanchezza e all’ineloquenza, un difetto d’espressione, un soverchio di muta concentrazione che può nutrire una scena, ma non una poesia così lunga.»
Miranda si compone di tre parti: La lettera, Il libro di Miranda e Il libro di Enrico svolgendo la vicenda di un amore irrealizzato: in Enrico, Fogazzaro avrebbe voluto rappresentare la figura di un giovane poeta estetizzante e troppo egoista per amare altri fuori di sé stesso, un figlio del suo tempo visto nel lato più negativo, mentre in Miranda è raffigurata una ragazza – come scrive il Gallarati Scotti (Vita di A. F.) – «nata tutta dal sogno, anima e corpo, e dei sogni ha perciò il pallore e l’inconsistenza. I suoi piedi non toccano terra e il suo cuore, in fondo, non batte con violenza, come chi ami in questo mondo reale un uomo reale […] essa ci commuove per quel tanto del mondo interiore che del suo poeta che si accende in lei. Ma non appena essa si muove come un personaggio che è centro di un piccolo intreccio di avvenimenti […] noi sentiamo che essa non ha mai avuto vita vera».
Se non ai critici e ai letterati, quella poesia piacque però al pubblico dei lettori dei quali solleticava l’allora dominante spirito sentimentale e Fogazzaro ne trasse incoraggiamento per proseguire nella via intrapresa della scrittura letteraria.
Valsolda
Due anni dopo, nel 1876, esce la raccolta di versi Valsolda, legata alla omonima località sul lago di Lugano, presso una piccola casa editrice milanese, giacché il maggior editore dell’epoca, il Treves, rifiuta di pubblicarla. Questa volta, all’insuccesso critico si somma la delusione del pubblico, che in quei versi non trova il tono sentimentale di Miranda, che tanto era piaciuto agli spiriti romantici del tempo; in Valsolda Fogazzaro privilegia la nota paesistica ma il suo verseggiare, pur immaginoso e musicale, è privo di note personali, ha un che di accatto dilettantesco: vi si trova del Prati e dello Zanella, dell’Aleardi, dell’Hugo e del Heine, ma la poesia è assente.
Era intanto ritornato alla fede cattolica; scriverà anni dopo che a questo passo un influsso decisivo aveva avuto un libro di Joseph Gratry, la Philosophie du Credo:
«Volevo aver fede, riposarmi, ristorarmi in Dio, sola pace sicura, e tante volte non potevo. Incominciai a leggere con desiderio e speranza; ero molto commosso quando chiusi il libro».
Fu forse la consapevolezza di non avere nelle sue corde l’espressione poetica a spingerlo verso la prosa. Iniziato nella seconda metà degli anni settanta, nel 1881 esce il suo primo romanzo, Malombra. Protagonista è Marina di Malombra, bella e psicotica nipote del conte Cesare d’Ormengo, nel cui palazzo vive dopo la morte dei genitori. Qui trova casualmente un biglietto scritto nei primi anni dell’Ottocento da un’antenata – moglie infelice del padre del conte d’Ormengo e amante di un certo Renato – Cecilia Varrega, che invitava chi avesse trovato il suo messaggio a vendicarla contro i discendenti del marito.
Puntualmente Marina, che si considera una reincarnazione della disgraziata Cecilia, consumerà la vendetta, facendo morire lo zio Cesare e uccidendo lo scrittore Corrado Silla, a sua volta considerato come la reincarnazione dell’amante di Cecilia. In una notte tempestosa, Marina scomparirà nelle oscure acque del lago.
I protagonisti del romanzo, Marina e Corrado, sono figure che Fogazzaro riprenderà pressoché in tutti i suoi romanzi successivi: Marina è la donna bella, aristocratica, sensuale ma inafferrabile, inquieta e nevrotica; Corrado Silla è l’intellettuale ispirato da importanti ideali che vorrebbe realizzare, ma ne è impedito dalle lusinghe del mondo e dall’inettitudine che lui stesso sente come fondamento del proprio essere.
Nel romanzo, percorso da un’atmosfera morbosa di occultismo, sensualità e morte, Fogazzaro introduce personaggi umoristici e generosi (il segretario del conte e sua figlia Edith, di casta purezza) o macchiettistici, come la contessa Fosca e il figlio Nepo. L’utilizzo del dialetto nei dialoghi di alcuni personaggi e il cogliere l’umana cordialità della provincia lombarda attenua la tensione di mistero e d’imminente tragedia che agita la vicenda.
Il libro, che mostra anche gli interessi spiritisti dello scrittore, suscitò reazioni contrastanti. Criticato da Salvatore Farina e da Enrico Panzacchi, fu parzialmente lodato da Giovanni Verga, che lo definì «una delle più alte e delle più artistiche concezioni romantiche che siano comparse ai nostri giorni in Italia». Anche Giuseppe Giacosa lo descrisse come «il più bel libro che siasi pubblicato in Italia dopo I promessi sposi», ma le maggiori riviste letterarie non lo citarono nemmeno.[1]
La vicenda è ambientata sulle rive del lago del Segrino, un piccolo lago della Brianzacomasca. Il palazzo, invece, è l’antica villa Pliniana sul Lago di Como, che Fogazzaro visitò e che con la sua lugubre atmosfera costituì una delle principali fonti di ispirazione del romanzo. La versione cinematografica di Mario Soldati (1942), uno dei capolavori del cinema italiano, venne girata nella stessa villa Pliniana.
Si conosce con esattezza il periodo di composizione del successivo romanzo, il Daniele Cortis, indicato dallo stesso scrittore: iniziato il 30 maggio 1881, fu compiuto l’11 marzo 1884. In tale periodo Fogazzaro ebbe una relazione, che si prolungherà per una decina d’anni, con Felicitas Buchner, una bavarese istitutrice dei figli del cognato dello scrittore, vissuta da entrambi con forti sensi di colpa, fra sensualità e volontà misticheggianti, che si riflette nello stesso intreccio del romanzo.
Protagonista è un deputato cattolico che si propone la costituzione di un nuovo partito nel panorama dell’Italia del tempo, una democrazia cristiana che raccolga l’adesione dei tanti cattolici alla vita politica – vietata allora dal Non expedit papale – e abbia a capo un uomo di alte qualità intellettuali e morali. Il tentativo si rivela un fallimento, come un fallimento è la vicenda d’amore del Cortis con la cugina Elena, sposata a un personaggio indegno, che si conclude con la rinuncia in nome di un amore sublimato nel sacrificio e nella lontananza degli amanti.
Nel romanzo Fogazzaro esprime, per bocca del suo protagonista, le proprie convinzioni politiche: «Io lascerò dunque la Camera, augurando che vi entrino presto degli uomini sciolti dalle superstizioni e dalle ignoranze di un certo individualismoliberale, che si crede alla testa dell’umanità, e non s’accorge di passare alla coda; non si accorge di aver lavorato utilmente sì, a distruggere tante cose, ma di aver lavorato non per sé, sibbene per uno molto più forte, molto più potente, che ora, trovando le vie sgombre, arriva e se lo piglia lui il mondo, e lascerà forse a simili liberali qualche prato d’Arcadia e poche pecore. Questi uomini penetrati dal futuro, questa gente positiva, verrà alla Camera, convinta, a differenza di altri retori e mitologi, che nel lungo lavoro di rinnovamento sociale cui le forme moderne della produzione impongono, il migliore strumento sarà una monarchia forte, sciolta da qualunque legame con qualunque chiesa, ma profondamente rispettosa del sentimento religioso».
Il libro ebbe successo e il Giuseppe Giacosa, che lo propose all’editore torinese Casanova per la pubblicazione, scrisse a Fogazzaro che « […] Daniele Cortis va per la strada del trionfo. Quanti lo leggono ne sono entusiasti; io me lo rilessi e me lo gustai deliziosamente: ho inteso Verga esclamare leggendolo: questo non è solamente il primo romanziere d’Italia ma dei primissimi in Europa».[2]
Nel 1887 comparve una mediocre raccolta di novelle e poesie, Fedele e altre novelle; l’11 aprile di quell’anno morì il padre: la figura di Mariano Fogazzaro rivivrà nel protagonista del suo migliore romanzo, Piccolo mondo antico da cui è tratto l’omonimo film del 1941 ad opera di Mario Soldati, che ne consacra il titolo fra i classici del cinema italiano.
Il 28 marzo Fogazzaro aveva tenuto al Circolo filologico di Firenze una conferenza sul tema Un’opinione di Alessandro Manzoni, criticando il rifiuto dello scrittore milanese di trattare nel suo romanzo dell’amore – più propriamente potremmo dire dell’erotismo. Manzoni aveva scritto, motivando con la consueta, sottile ironia, la sua scelta, che « […] l’amore è necessario a questo mondo: ma ve n’ha quanto basta e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farlo nascere dove non fa bisogno». Fogazzaro, romanziere del resto estraneo in tutto al Manzoni, ne critica l’assunto, sostenendo che è proprio dell’arte dover esaltare l’amore che « […] incompreso da loro stessi tende continuamente là, aspira al suo fine, all’unità piena, impossibile su questa terra». È la teorizzazione del “grande amore”, quello esclusivo, delle anime nobili o singolari o tormentate, un amore che appartiene sostanzialmente alla letteratura ma non alla realtà.
Fogazzaro e l’evoluzionismo darwiniano
Con L’origine delle specie (The Origin of Species), pubblicata nel 1859, Charles Darwin diede un colpo decisivo sia alle teorie creazioniste che si fondavano sulla tradizione biblica dell’origine delle specie, sia all’evoluzionismo lamarckiano che postulava che gli organismi fossero il risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali. Nonostante le polemiche sulla teoria darwiniana si trascinassero ancora per diversi decenni, Fogazzaro, che lesse il libro del Darwin nel 1889, ne fu conquistato e turbato insieme; consapevole dei seri problemi che la nuova teoria, alla quale aderì senza riserve, comportava per il magistero della Chiesa, egli volle tentare di conciliarla con la tradizione del pensiero cattolico. Credette di trovarla nella lettura del libro di Joseph LeConteEvolution and its relations with religious thought, ove lo scrittore statunitense formula l’ipotesi che le forze naturali responsabili dell’evoluzione delle specie sarebbero una diretta emanazione della volontà divina.
Con questo spirito Fogazzaro tenne, il 22 febbraio 1891, una conferenza all’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia (del quale sarà anche presidente tra il 1902 e il 1905[3]), sul tema Per un recente raffronto delle teorie di Sant’Agostino e di Darwin sull’evoluzione, che tuttavia scontentò i cattolici senza peraltro conquistarsi le simpatie dei darwiniani. Il vescovo di CremonaGeremia Bonomelli gli scrisse il 2 maggio invitandolo alla prudenza, perché «le ottime sue pagine sono gravissime e domandano maggior svolgimento: è necessario a cessare certi pericoli e certe accuse». Fogazzaro rispose due giorni dopo sostenendo di essere stato spinto, « […] col desiderio sincero di dar gloria di Dio», a contrastare « […] la protervia, la ignoranza e la malafede di quegli evoluzionisti che giudicano spacciato il cristianesimo e così predicano facendo un male immenso come io stimo, sopra tutto ai giovani di ingegno e di cuore, cui la dottrina dell’Evoluzione, ormai professata da una grande maggioranza di scienziati, invincibilmente attrae».
Il 2 marzo 1893 tenne, al Collegio Romano, una conferenza sull’Origine dell’uomo e il sentimento religioso, presente anche la regina Margherita di Savoia, ove ribadì la sua adesione alla teoria darwiniana, sostenendo anche la teoria, ripresa da Antonio Rosmini, sull’origine dell’anima che non si formerebbe immediatamente con l’embrione, ma solo dopo un certo grado del suo sviluppo.
Fu attaccato dal quotidiano L’Osservatore Cattolico il 16 marzo e da La Civiltà Cattolica il 15 e il 31 ottobre che rimproverò che un « […] laico di sua privata autorità si presenta a insegnare ad altri fedeli ciò che è o non è da credere e come s’abbia a concepire d’ora innanzi la creazione», ravvisando in questa pretesa un pericolo di compromissione non solo della dottrina teologica ma della stessa struttura gerarchica della Chiesa.
Lo studioso vicentino Paolo Marangon scrive: «In buona sostanza l’autore di Piccolo mondo antico, nel momento stesso in cui riconosce la grandezza di Darwin e la sua onestà di studioso, ne riduce l’opera a livello di spiegazione tecnica dell’origine e della varietà delle specie, sostituendo il meccanismo mutazione-selezione-caso tipico del darwinismo con un Potere occulto, una segreta Potenza, che presiederebbe internamente non solo al processo dell’evoluzione biologica, ma all’ascensione complessiva dell’universo e della storia umana secondo un immenso, imperscrutabile disegno trascendente».[4]
Nel luglio 1894 decise di cessare la relazione con la Buchner – la Elena del Daniele Cortis – la quale, dopo la morte di Fogazzaro scrisse al Gallarati Scotti, nel settembre 1911, che dopo aver provato « […] un dolore amaro, durai fatica a perdonare; la ragione comprendeva molto bene ma il cuore non voleva comprendere, si ribellava […] tre anni fa […] avevo ritrovato l’equilibrio morale e sentivo che quel passato era un tesoro che nessuno poteva togliermi […] cominciavo a dire al Signore, pensando all’amore perduto: Tu l’hai donato, tu l’hai tolto, sia benedetta la tua mano severa».
Il 16 maggio 1895 morì a vent’anni il figlio Mariano; scrisse alla cugina Anna: « […] adesso è lui che guida me, è lui che mi assiste, che mi consiglia, che mi aiuta col mio stesso pianto».
L’anno dopo uscì il suo capolavoro, Piccolo mondo antico, meditato e lentamente composto fin dal 1889. Ambientata negli anni che precedono la seconda guerra di indipendenza, sullo sfondo del lago di Lugano, è la storia della famiglia del nobile Franco Maironi, cattolico e liberale, e della piccolo borghese Luisa Rigey, al cui matrimonio si era opposta la filoaustriaca marchesa Orsola, nonna di Franco. Le difficoltà economiche e il senso profondo di schiettezza e di giustizia che anima Luisa, rispetto al carattere flessibile di Franco, rendono difficile il rapporto fra i due coniugi fino ad allontanarli quando la piccola figlia Maria muore annegando nel lago; ma mentre Luisa si chiude in sé stessa e si dedica allo spiritismo nell’illusione di ricostituire un contatto con la bambina, Franco si trasferisce a Torino, dove lavora e acquisisce la coscienza della necessità di partecipare attivamente alla liberazione delle terre italiane dall’occupazione austriaca.
Il romanzo si conclude con l’incontro dei due coniugi all’Isola Bella, nel 1859, dove Franco s’imbarca per raggiungere la riva lombarda del lago Maggiore e combattere con le truppe italiane: l’annuncio del rinnovamento risorgimentale allude a un prossimo, rinnovato rapporto tra Franco e Luisa.
Come scrisse il Gallarati Scotti nella sua biografia, in questo romanzo il Fogazzaro « […] ha scoperto le pure sorgenti della sua sincerità e della sua ispirazione. L’accento nuovo e originale egli l’ha trovato nella rinuncia a tutti i sentimenti torbidi e convenzionali che attraggono le masse e in una più intima comunione con gli ideali che gli erano stati trasmessi dai suoi padri; con gli uomini e la terra della sua infanzia. Egli ha voluto glorificare le cose umili e non comprese dal mondo: un paese nascosto tra le ultime pieghe della terra lombarda; anime generose, dolorose e buone, nascoste tra le pieghe della grande storia del Risorgimento; virtù eroiche ma non apparenti, vicende piane, affetti sani, l’amore nel matrimonio, il dolore nella famiglia, il dramma intimo fra le pareti di una modesta casa borghese».
Fu l’unanime successo del romanzo a spingere re Umberto I a emanare, il 25 ottobre 1896, il decreto di nomina a senatore del Fogazzaro il quale tuttavia, avendo un censo inferiore alle canoniche 3.000 lire d’imposta, poté entrare in Senato solo il 14 giugno 1900, soddisfacendo allora ai requisiti richiesti.
Il 2 marzo 1897, centenario della nascita di Antonio Rosmini, furono pubblicati dall’Accademia degli Agiati di Rovereto due volumi sul filosofo trentino, nei quali è contenuto anche lo studio di Fogazzaro La figura di Antonio Rosmini, da lui considerato « […] il propugnatore dell’unità italiana, delle istituzioni liberali e d’una riforma ecclesiastica; il contraddittore formidabile di certi teologi e moralisti e soprattutto il patrono, per così dire, di una specie di opposizione costituzionale cattolica, che osa disapprovare l’azione del partito preponderante nella Chiesa».
Il 6 giugno, a Vicenza, tenne un discorso dalla loggia della Basilica Palladiana per l’inaugurazione di un busto di Cavour, esaltando l’opera del politico piemontese che « […] affrontò intrepido, per la libertà dei commerci, le collere di plebi ingannate; stette nella questione ecclesiastica, a difesa della libertà civile, contro tutto che nel suo paese era più potente, l’alto clero, gran parte della classe cui egli stesso appartenne, gli uomini più provati nel servizio del Re e dello Stato», opponendosi a ogni ipotesi di restaurazione del potere temporale e facendo propria la massima famosa della «Libera Chiesa in libero Stato».
Il 21 novembre 1900 terminò il manoscritto del nuovo romanzo Piccolo mondo moderno, pubblicato l’anno dopo. Protagonista è Piero Maironi, il figlio di Franco e Luisa; sposato a una donna mentalmente malata, è attratto dal fascino sensuale di Jeanne Dessalle, un’intellettuale raffinata, bella e ricca, appartenente al “bel mondo” internazionale; il rapporto, fatto di ambiguità e di desideri deviati, non si conclude: con la morte della moglie, Piero decide di vivere asceticamente, ripromettendosi di agire per la riforma della Chiesa.
Anche per i protagonisti di questo romanzo può riferirsi il giudizio che Luigi Russo (I Narratori, 1922) diede per tutti gli altri – con l’esclusione di quelli di Piccolo mondo antico: «I personaggi del Fogazzaro parlano spesso di Dio, ma sempre in compagnia di una donna; immaginano di amare, ma non amano mai attivamente: sentono i contrasti e i richiami dei doveri superiori, ma come se obbedissero allo scatto di una molla meccanica. Donde quel misticismo diffuso, quell’erotismo cronico, che non arriva mai a una conclusiva catarsi di vita e di arte».
Il 20 luglio 1903 morì papa Leone XIII: a suo successore, Fogazzaro sperava nell’elezione del cardinale Alfonso Capecelatro di Castelpagano, nel quale credeva di vedere interpretati i suoi desideri di rinnovamento della Chiesa; ma il 4 agosto venne eletto il cardinale Giuseppe Sarto, col nome di Pio X. Fu una delusione per lo scrittore, che vide nel nuovo papa uno spirito semplice, persino rude, ma nemico delle sottigliezze della politica come dei tormenti delle meditazioni dell’intelletto; ne temeva un’accentuazione dell’autoritarismo gerarchico e una chiusura nei confronti dello spirito più moderno.
Il 27 dicembre 1902 Fogazzaro scriveva al vescovo Geremia Bonomelli che le « […] letture di Loisy, di Houtin, di Tyrrell, conversazioni con Semeria, P. Gazzola, don Brizio, P. Genocchi mi hanno scosso, illuminata, qualche volta pure, se vuole, turbata l’anima; turbata di quel turbamento del quale il Tyrrell dice che è facile prenderlo per una febbre mortale mentre non è che una febbre di sviluppo. Ho finalmente capito, leggendo quei libri, quello che Semeria mi disse anni sono: “bisogna conoscere la critica biblica“» e alla contessa Caterina Colleoni: « […] ora ho per le mani due libri nuovi dell’abate Loisy: L’Evangile et l’Eglise è una confutazione di Harnack che mi fa particolarmente piacere, perché Harnack col suo cristianesimo depurato (Das Wesen des Christenthums) mi pare abbia sedotto molti».
Il Loisy sosteneva che la Chiesa aveva mostrato nella storia capacità di adattare i dogmi ai bisogni dei tempi, senza con ciò alterare la propria tradizione; il 16 dicembre 1903 il Sant’Uffizio condannava gli scritti del Loisy, al quale Fogazzaro fece pervenire la propria solidarietà.
Nel novembre 1905 uscì il nuovo romanzo Il Santo, protagonista ancora Piero Maironi che, ortolano nell’abbazia benedettina di Subiaco, si fa chiamare Benedetto e conduce una vita di preghiera e di penitenza. Qui è riconosciuto da Jeanne Dassalle che, rimasta vedova, sperava di poter riallacciare una relazione ma si rende subito conto che Piero è ormai troppo mutato; venerato come un santo nel paesino di Jenne, Piero va a Roma, contando di convincere lo stesso papa della necessità di una radicale riforma della Chiesa, ma viene ostacolato tanto dai cattolici tradizionalisti che dagli esponenti dello Stato laico. Sfiduciato e malato, muore in casa di un amico, assistito da Jeanne.
Se non ebbe successo di critica, grande fu la sua risonanza fra il pubblico; gli espresse la propria ammirazione perfino il presidente degli Stati Uniti d’America – e premio Nobel per la pace – Theodore Roosevelt: « […] it is a good book for any sincerly religious man or woman of any creed, provided only that he realizes that conduct counts for more than dogma», ma fu condannato tanto dai laici intransigenti quanto dai cattolici. Si pensò subito alla sua messa all’Indice: nel romanzo, il personaggio di padre Clemente, monaco di Subiaco, sostiene che « […] probabilmente dopo la morte le anime umane si troveranno in uno stato e in un ambiente regolati da leggi naturali come in questa vita» e Piero sostiene la presenza attiva delle anime dei defunti su questa terra.
E in effetti, il 4 aprile 1906 il libro fu condannato con un Decreto della Congregazione dell’Indice. Lo scrittore fece atto di obbedienza: « […] ho risoluto fin dal primo momento di prestare al Decreto quella obbedienza che è mio dovere di cattolico, ossia di non discuterlo, di non operare in contraddizione di esso autorizzando altre traduzioni e ristampe».
Pur avendo fatto atto di sottomissione, Fogazzaro continuò a ribadire la convinzione della necessità di un rinnovamento delle istituzioni ecclesiali che le rendessero aperte alle esigenze dello spirito moderno. Il 18 gennaio 1907 tenne all’École des Hautes Études di Parigi una conferenza su Le idee di Giovanni Selva, uno dei personaggi del romanzo Il Santo, l’intellettuale modernista le cui dottrine sono riprese da Piero Maironi.
Vi sostiene che « […] l’avvenire vedrà uno straordinario ringiovanimento della Chiesa», certo che vi coopereranno forze nuove e vitali. La religione è per lui, più che dogma, azione e vita, e soprattutto carità attiva e amore fraterno, le migliori dimostrazioni della verità cattolica, e un rinnovato spirito evangelico quale egli credeva di vedere espresso da un George Tyrrell « […] l’uomo davanti al quale tutti i Giovanni Selva del mondo s’inchinano con venerazione», che tuttavia la Chiesa scomunicherà solo pochi mesi dopo.
A ribadire ogni chiusura col mondo moderno viene, l’8 settembre 1907, l’enciclicaPascendi Dominici gregis, che condanna il movimento modernista, accusato di non porre « […] già la scure ai rami e ai germogli, ma alla radice medesima, cioè alla fede e alle fibre di lei più profonde […] ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quello di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore»; di qui la necessità di istituire in ogni Diocesi un Consiglio di disciplina che scruti « […] gli indizi di modernismo tanto nei libri che nell’insegnamento, con prudenza, pacatezza ed efficacia, stabilendo quanto è necessario per l’incolumità del clero e della gioventù».
Come scrive il Gallarati Scotti, « […] si entrava in un’ora grigia di spionaggi e di denunce, forme odiose e non infrequenti in tutti i secoli e in tutte le società, ma che il Fogazzaro s’illudeva non dovessero e non potessero mai più risorgere nel mondo cosiddetto moderno e che perciò lo turbavano e gli parevano maggior male degli errori stessi, per l’antipatia che avrebbero provocato nei regimi di libertà contro la Chiesa».
Iniziato nel 1905, Leila, l’ultimo romanzo di Fogazzaro, fu presentato a Milano l’11 novembre 1910 ma era già noto da una decina di giorni: infatti, il 10 novembre, il critico Giuseppe Antonio Borgese poteva già scriveva dalle colonne de La Stampa di Torino che « […] i personaggi di Leila partecipano vivamente alla vita dello spirito. Vi sono i rappresentanti dell’estrema destra, l’arciprete don Tita, il canonico don Emanuele, le bizzochere che fan loro bordone, gente di costumi immacolati, ma di cuor gretto e di mente chiusa, cristiani osservantissimi secondo la lettera, ma ignari di ciò che sia veramente la fede e la carità, sepolcri imbiancati. La gente di mal costume, il losco sior Momi, padre di Leila, la madre galante, i furbi e gl’imbroglioni fan lega con costoro: sante alleanze.
L’estrema sinistra è rappresentata, fino a un certo punto, da Massimo Alberti. Egli è divenuto un vero e proprio modernista. Scolaro ed amico del Santo, ne ha portato tropp’oltre gli insegnamenti, è giunto a credere che l’organismo del cattolicesimo è consunto, e che dalla Chiesa esaurita nascerà una nuova fede migliore, come dalla Sinagoga nacque la Chiesa […] Leila è l’estrema ombra fuggiasca di quella figura femminile che ha per lunghi anni tormentato la fantasia di Fogazzaro, l’estrema progenie spirituale di quella “sciura Luisa”, devota a un’altra fede morale nel cuore, vagamente e capricciosamente ribelle alla Chiesa nella sua piccola mente irrequieta. Ma è appena un’ombra, è appena un ricordo. Le sue crisi sono scatti di nervi provocati da onde torbide di sensualità».
Fogazzaro scrisse di aver voluto, col nuovo romanzo, presentare una « […] propaganda religiosa e morale conforme alle mie profonde convinzioni cristiane e cattoliche, ottenuta rappresentando un’anima ignara delle lotte che oggi straziano la Chiesa, penetrata di Vangelo e ferma nelle credenze tradizionali», così che il libro deluse tanto i cattolici progressisti che i conservatori e fu condannato dalla Chiesa.
Gli ultimi mesi della sua vita furono segnati dalla delusione e dal senso di aver fatto il proprio tempo. Era molto malato e alla fine di febbraio venne ricoverato all’Ospedale di Vicenza: operato il 4 marzo 1911, si aggravò rapidamente; il 7 marzo ricevette l’unzione degli infermi: « […] con le labbra già bianche della morte, l’agonizzante rispose con l’ultimo soffio di voce alle preghiere della Chiesa: amen. E chi gli era vicino comprese che egli si era addormentato in lumine Vitae».
Un saggio di Benedetto Croce, apparso nel 1903 e poi inserito nella sua Letteratura della nuova Italia, era molto critico nei confronti del vicentino: « […] cattolico, tiene fermo persino all’infallibilità del papa: ma è insieme ossequente alla moderna scienza naturale darvinistica, e pensa che la fede non le si opponga, e anzi la compia e le si armonizzi; e riconosce importanza ai fenomeni della suggestione, della telepatia, dello sdoppiamento, della chiaroveggenza, dello spiritismo, come segni di futura unione della scienza con la fede.»[5] Messa così in luce la contraddizione fra il panteismo dinamico di Darwin e la fede in un Dio trascendente di Fogazzaro, e rilevato anche come l’etica dello scrittore odorasse « […] di blandizie e di alcova», il filosofo napoletano ne criticava la visione politica: « […] la sua politica sembra antistorica, un neoguelfismo socialistico, che la chiesa e il gesuitismo imperante respingeranno, salvo il caso che non si riveli adatto a servire da maschera a intenti di reazione».
Il critico Natalino Sapegno coglie nel poemetto Miranda e nelle liriche di Valsolda gli elementi della formazione letteraria di Fogazzaro: il romanticismo sentimentale di Aleardo Aleardi e certe irrequietezze della Scapigliatura. I temi dei romanzi, evidenziati da Sapegno, sono: il gusto degli ambienti aristocratici, dei conflitti interiori che agitano le anime elette e i cuori sensibili; gli influssi del Romanticismo, specie inglese[6] tedesco e francese; il lirismo e l’ambiguità delle situazioni tra erotiche e religiose, infernali e paradisiache; la tendenza all’autobiografia; l’amore del vago, dello strano, del misterioso; il cattolicesimo torbido e combattuto, incerto fra tradizione e rinnovamento. Importante fu poi per lo scrittore l’adesione al modernismo.[7]
Mentre la biografia del Gallarati Scotti resta fondamentale per la mole di informazioni che racchiude, ma poco plausibile per l’intenzionalità programmatica di presentare la sua vita come un itinerarium ad Deum, lo scrittore fu ammirato dal Momigliano, che trovava in lui « […] un’inquietudine, un’ombra, un’indeterminatezza, che il nostro romanticismo non aveva conosciuto e che ti fa pensare a uno Chateaubriand meno solenne e più nervoso. Lo spirito del paesaggio del Fogazzaro non è pittoresco, ma musicale: Fogazzaro, in certo modo, ha preceduto Pascoli, e aperto in Italia la via di quella sensibilità indefinita, fatta di accordi occulti che accosta inevitabilmente la poesia alla musica».
Scrisse il Piromalli che Fogazzaro era stato giudicato « […] in relazione a una determinata società ottocentesca chiusa e narcisista, era uno scrittore di un luogo e di un tempo, di un particolare pubblico; saltavano in aria l’universalità e l’eternità; il magismo musicale che i crociani vi avevano rinvenuto era l’estenuazione letteraria del sentimentalismo veneto tardo-romantico, era l’elegia della falsa spiritualità, l’orgoglio fatuo di volere essere spiritualmente al di sopra degli altri, di avere per sé e per il proprio amore un cantuccio riservato in un paradiso dell’aldilà quando le leggi della società civile non lo consentivano sulla terra», finché un saggio di Gaetano Trombatore, pubblicato nel 1945, « […] aveva fatto cadere le impalcature mistificatrici, i belletti fasulli, la maschera idealistico-cattolica, aveva fatto vedere la miseria morale di una società angusta e greve». In realtà Fogazzaro è stato uno dei romanzieri italiani più aggiornati e consapevoli (da qui la sua fortuna internazionale): la sua critica alle debolezze concettuali della cultura decadente, in particolare all’estetizzazione del male, operata da Charles Baudelaire, è arrivata diversi decenni prima di quella identica proposta da autori come Hermann Broch o Elias Canetti.[8]
Questa voce o sezione sugli argomenti scrittori italiani e poeti italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
Commento: La sezione che segue è tutta una citazione di critici (o di un critico!) non menzionati. È necessario esplicitare il nome degli estensori (o dell’estensore) di queste critiche, altrimenti la sezione pare POV
«Fogazzaro fu l’idolo della borghesia italiana nel periodo che corre all’incirca tra il 1880 e il 1910; dell’alta borghesia prevalentemente intellettuale e terriera, che confinava con l’aristocrazia, con cui talvolta riusciva a confondersi; e anche della borghesia media e piccola in quanto seguiva i gusti di quella e ne condivideva i sentimenti e ne ammirava le forme. E fu adesione tanto più spontanea e naturale, in quanto lo scrittore stesso apparteneva a quella classe sociale; e vi apparteneva non pure per la nascita, ma per la sua formazione intellettuale e morale, con tutte le fibre del suo essere» (Gaetano Trombatore).
Se scrittori come il Farina, il Barrili e il Rovetta, pur scrivendo per gli stessi lettori, non ebbero il suo stesso successo, si dovette, secondo il Trombatore, al fatto che essi non li seppero, come fece il Fogazzaro, « […] scuotere e rasserenare, commuovere e divertire e lusingare, e soprattutto non seppero farli vivere, e vivere pienamente, in un mondo che pareva reale ed era ideale, che pareva ideale ed era reale, e che rimaneva pur sempre il loro mondo».
I personaggi dei romanzi di Fogazzaro appartengono essi stessi alla borghesia « […] ma i loro parenti sono conti e marchesi; accanto al lustro dei blasoni essi portano la luce della loro nobiltà d’animo, della loro intelligenza, della loro cultura, e vivono perfettamente intonati in quegli ambienti di elegante mondanità. Siamo in quella zona di confine in cui le due classi riescono a convivere fino a confondersi insieme. La scena è di solito una villa con un paesetto fra i monti o in riva a un lago; ma non così isolata che non vi giungano le voci del mondo circostante. Non manca in Malombra qualche riflesso della mondanità milanese, c’è la mondanità romana del Santo; e non bisogna neanche dimenticare le località del turismo mondano, Isola Bella, l’abbazia di Praglia, Subiaco, Bruges, Norimberga. Ecco veramente gli ambienti in cui potevano alimentarsi e fiorire i nobili pensieri, le alte passioni. Il Fogazzaro non deludeva mai i suoi lettori. Mentre rispondeva alle loro tendenze sentimentali e morali, egli ne appagava e ne lusingava le esigenze mondane e intellettuali».
I lettori che amavano Fogazzaro « […] aspiravano, almeno nell’illusione, a evadere in una vita più nobile e alta, avevan perduta la fede e volevano credere, si sentivano insozzati di colpa e anelavano alla purezza, volevano amare non grettamente ma col tumulto dei sensi e dell’anima: lo scrittore offrì il vasto pascolo ideale che cercavano, fece, di là dalle tenebre della carne, balenare la sublimità dello Spirito, ed essi arsero nella fiamma della sua anima».
Il declino del successo sopravvenne con un mutamento del gusto che pure partiva da quelle premesse, il romanticismo crepuscolare espresso dallo scrittore vicentino non essendo più adeguato all’esigenza di un «…sublime che, abbandonata la sua sede sopramondana, si celebrasse tutto sulla terra, incarnandosi nell’individuo e sollevandolo sulla servile umanità a sbramare la sua bruciante sete di conquista e di dominio. Nacque, o meglio, si perfezionò così il gusto della vita come avventura inimitabile, e, secondo alcuni, il Fogazzaro dové a poco a poco consegnare i suoi lettori a un incantatore ben più agguerrito e più ricco di multiformi e incestuose magie: il despota dell’estetismodannunziano, lordo di sangue e d’oro». In realtà, a Fogazzaro interessava una critica radicale dei presupposti dell’estetismo, del suo soggettivismo esasperato, come mostra chiaramente il romanzo Malombra: «Se l’illusa Emma Bovary di Gustave Flaubert è prima di tutto la giovane donna preda del ciarpame romantico di cui ha nutrito da ragazza il suo spirito, analogamente Marina incarna la deriva di quella cultura e degli sviluppi che essa aveva avuto alla metà dell’Ottocento. ‘Non le mancava un solo romanzo della Sand’ – osserva nel cap. V (Parte Prima) del romanzo l’autore, che descrive anche Corrado come un viaggiatore “fantastico”, con un aggettivo capace di riportare subito, per associazione, a Ernst T. A. Hoffmann e al giovane «innamorato e fantastico come lo Stenio di George Sand» dell’operetta satirico-parodica Un romanzo in vapore dell’estroso Collodi. Ciò chiarisce meglio perché Fogazzaro proceda ad una “contemporaneizzazione del fantastico”, unendo nella sua narrazione alcuni elementi realistici e altri contrari nel senso dell’astratto, della fascinazione, dell’oscuramente misterioso, dell’invisibile. Tale patronato letterario spiega anche molto dei personaggi: […] per loro, i diritti della passione verranno prima di qualsiasi altra cosa o si dovranno imporre ineluttabilmente contro ogni barriera. Non per nulla Silla, orgoglioso, superbo, incapace di “giusto equilibrio” fra spirito e sensi, si definisce “inetto a vivere”: ha “la forza […] di resistere a qualunque disinganno, a qualunque amarezza”, ha un “cuore ardente”, ma gli mancano la “potenza” e “l’arte” per portare a compimento le cose (Parte Prima, cap. VIII). Per questa carenza di volontà, nel segno di Arthur Schopenhauer, […] il personaggio sembra assomigliare piuttosto a certe moderne figure di Svevo e della narrativa nordica del Novecento. Corrado Silla vorrebbe resistere a Marina, ne avrebbe la possibilità, ma non riesce a compiere questa scelta morale.[…] Silla non è capace di seguire la sincera e appassionata Edith, letteralmente impaniato nella “mala ombra” del fascino di Marina: intelligente, questa, brillante, innamorata dell’amore oltre tutto e tutti, ma allo stesso tempo circondata da amicizie fatue, frivola, piena di sarcasmo, di “pensieri torbidi” (Parte Prima, cap. IV), di uno spirito “scettico e falso” (Parte Prima, cap. I). In breve la giovane donna è angelo e demonio insieme. Marina è, come Enrico di Miranda al maschile, una versione femminile del dandy: bella, elegante, sprezzante, ma anche capricciosa, annoiata e ricca di odio. Disdegna le parole di Friedrich Schiller e Johann Wolfgang Goethe che gli cita il segretario Steinegge, padre amatissimo di Edith, e possiede, significativamente accanto ai Fiori del male di Baudelaire che l’ebbe particolarmente cara, l’opera di Edgar Allan Poe, il cui destino fu presto segnato dall’alcoolismo e dalle allucinazioni. Inoltre “al concetto del bene e del male” Marina ha voluto sostituire “il concetto meno volgare del bello e del brutto” (Parte Prima, cap. V): cede così alla lusinga baudelairiana della bellezza del Male, confondendo l’etica con l’estetica e dando a quest’ultima il primato assoluto».[10]
L’amore
Fogazzaro apparteneva dunque a una borghesia moderna e attiva e a un pubblico di tal fatta egli si rivolgeva; moderno, ma che teneva ben presenti le tradizioni di un cattolicesimo non gretto, ma sostanzialmente conservatore, capace di rendersi conto della necessità di accogliere quanto di nuovo lo sviluppo sociale proponesse ma senza stravolgimenti. Nella rappresentazione della vita familiare Fogazzaro si mosse seguendo quell’impostazione e, seguendo il proprio temperamento, preferì trattare, nell’ambito dei rapporti familiari, il tema dell’amore.
«La precedente esperienza romantica aveva sancita l’incompatibilità dell’amore con il matrimonio, nel senso che l’amore non può raggiungere le vette della passione senza un forte ostacolo che lo alimenti e lo esasperi. Perciò l’amore fogazzariano è preconiugale o extraconiugale (nel caso di Franco e Luisa [i protagonisti di Piccolo mondo antico] la questione non verte sull’amore, ma sui contrasti ideologici dei due coniugi). Anche l’amore preconiugale si alimenta di ostacoli: in Violet [la protagonista de Il mistero del poeta] è il senso dell’occulta colpa, è il suo carattere irresoluto, è la sua salute cagionevole; in Leila è la fede giurata al morto fidanzato, è il suo orgoglio […].
S’intende che la più ricca è l’impostazione dell’amore extraconiugale, quello di Piero e di Jeanne [in Piccolo mondo moderno] o quello di Daniele e di Elena [in Daniele Cortis], che è rimasto il più caratteristico. Ma sempre in lui l’amore è un ardore nascosto, una pena struggente, un lento spasimo, vi si sentono i brividi della voluttà sfiorata, le seduzioni del peccato; si rasenta l’orlo della colpa. Ecco l’innovazione: codesto amore ideale e platonico egli lo fa vivere alle sue eroine con le fiamme della passione vera, coi sensi sempre in subbuglio. Ma è sempre un amore d’eccezione e l’istituto matrimoniale, se non è proprio salvo, è almeno conservato; il Fogazzaro corre sempre ai ripari; ognuno patisce la sua tragedia nel chiuso della propria anima; non vi sono scandali; le norme della moralità borghese non sono sovvertite».
Il romanticismo
Il percorso del romanzo italiano quasi non conobbe il romanticismo, inteso come letteratura di forti contrasti, che spazino dal dramma all’idillio, dal sentimento del patetico alle vette del sublime; non poté averlo nel Manzoni, per il programmatico rifiuto di quello scrittore a farsi interprete dei pur tanti temi romantici che nei Promessi sposi erano presenti; quanto alla Scapigliatura, fu un fenomeno di breve durata, un’artefatta costruzione intellettualistica, non l’espressione di un’esigenza intimamente sentita; in Italia il romanticismo ebbe la sua maggiore espressione nella musica, raggiungendo il vertice del successo popolare nel melodrammaverdiano.
Secondo alcuni critici, fu proprio il Fogazzaro a farsi interprete dell’esigenza romantica presente nei lettori italiani: « […] lo spirito borghese fu al tempo stesso il movente e il limite del romanticismo fogazzariano: lo fece nascere ma ne circoscrisse i motivi e l’intensità. Perciò non fu tutto genuino e compiuto; tuttavia, anche a giudicarlo deteriore, bisogna riconoscere che esso rispose largamente all’aspettativa. Il Fogazzaro ebbe il senso del Destino, pur senza saperne sceverare e decifrare il volto maligno e inesorabile, l’implacabilità che atterra e annichila; non seppe perciò riuscire veramente tragico, nel senso alto della parola, ma decadde nel suo surrogato che è il teatrale. Sincero e costante fu però il suo gusto delle situazioni drammatiche, e suggestive le sue evasioni nell’atmosfera del sublime […]». Queste tempeste dell’anima sono vissute da esseri culturalmente e spiritualmente superiori: gli umili vivono accettando con semplicità la volontà divina, non le provano né le comprendono quando le vedono vissute dai “signori”, e questo è motivo, nel Fogazzaro, di ricorrere all’umorismo e alle risorse del macchiettismo. In realtà, Fogazzaro alimenta la sua scrittura di un confronto profondo con il più impegnativo pensiero teologico, cosicché le consuete categorie “romanticismo”, “macchiettismo” e simili, decadono subito non appena si individuino le sue fonti da sant’Agostino a Ruysbroek il Mirabile, da san Tommaso d’Aquino a Madame Guyon (che si chiamava Jeanne, si noti, come la protagonista di Piccolo mondo moderno).[11]
Ma nei protagonisti dei suoi romanzi vi è un « […] mareggiare fra l’ideale e il reale, fra l’essere e il dover essere, fra un’ansia di elevazione e un ardore di perdizione. E da questo conflitto non si può uscire per una composizione armonica dei due termini, si può uscire solo per la via che conduce al sublime […] e tutto quel vario agitarsi e cozzare di passioni aspira sempre a risolversi e a sublimarsi nell’atmosfera assorta del Mistero, dove, a tratti, par di scorgere anche il volto velato del Destino. Il tema del mistero è forse il tema più alto e romantico del Fogazzaro. Sempre è avvertibile in lui il senso di una nascosta, arcana realtà […]. Allora anche la natura partecipa all’azione con una sua vasta coralità […] Questo largo fremito romantico, non incomposto, anzi sempre decorosamente atteggiato, fu l’elemento decisivo della vittoria del Fogazzaro, quello per cui egli riuscì a rapire e a sollevare con sé l’animo dei suoi lettori».
La religione
Fogazzaro fu profondamente cattolico e osservante e se tentò di conciliare Darwin e sant’Agostino fu soltanto perché riteneva, così facendo, di non violare alcun articolo di fede. Anche la sua adesione al modernismo, che non portò a nessun contributo concreto, era dettata dalla sua convinzione di mantenersi nel solco dell’ortodossia, tanto che si piegò subito alla condanna.
La sua vera innovazione fu l’espressione del sentimento religioso; in sintonia con le esigenze dei lettori del suo tempo, manifestò nei suoi romanzi una fede religiosa che « […] si alleava con l’amore e si profumava di peccato; sempre compromessa, sempre in pericolo e pur sempre divincolantesi e risorgente, viveva nella coscienza e pur anche nel subcosciente; non era un fatto ma un fare perenne, un’inesausta esperienza. Perciò si attirava facili anatemi e sarcasmi; eppure sempre avvinceva, sempre attirava nel suo gorgo meduseo, specialmente le donne. E sempre salvo rimaneva il principio, sempre intatta splendeva la maestà di Dio.
In fondo, la maggior seduzione dei romanzi del Fogazzaro consisteva nell’appagare il gusto borghese di affrontare il rischio e di ritraersene in tempo. Nella religione, come nella politica e nell’amore, si era condotti all’orlo del baratro, ma non ci si cadeva; si provavano le vertigini dell’abisso, ma da un fidato belvedere. Era come – tanto per restare nell’Ottocento e cioè in un’epoca che non conosceva ancora le acrobazie aeree – era come sulle montagne russe, che facevano sentire le ebbrezze delle ascese, le angosce dei vorticosi aggiramenti, lo spasimo della caduta; girava la testa, la coscienza si smarriva e si oscurava, ma solo per un attimo; il carrello funzionava a dovere, e alla fine si toccava terra palpitanti e felici».
La politica
Negli anni ottanta, dopo la caduta della Destra, era diffuso in Italia un senso di sfiducia e di scontento verso una classe politica, considerata corrotta e pronta a ogni compromesso, e verso il parlamentarismo, considerato inefficiente e limitante una possibile e auspicata azione della monarchia. Si era fatta largo l’idea che occorresse l’azione di un uomo forte, un Bismarck italiano che limitasse l’istituto parlamentare, desse forza alla monarchia, risolvesse la Questione romana e rendesse l’Italia autorevole e rispettata nel mondo. Sono le idee espresse nel Daniele Cortis e sono i progetti che Fogazzaro non ripresentò più nei suoi romanzi: nel Piccolo mondo antico torna ai passati ideali del Risorgimento, a un patriottismo semplice e generoso, che scaturisce dall’animo come un dovere morale, come affermazione di dignità contro la sopraffazione e l’ingiustizia.
Erano temi troppo forti, innaturali per un Fogazzaro che se poteva esprimere il dramma dei sentimenti, non poteva sottrarsi all’idillio nella rappresentazione della vita sociale che, nei suoi romanzi, è « […] una beata e quieta arcadia, dove tutto va per il suo giusto verso, che è poi il verso gradito a chi sta in alto […] in lui, profondamente sincero e convinto cattolico, viveva e operava sempre implicito il senso dell’uguaglianza delle anime, e questo non gli faceva avvertire, o gliela faceva avvertire troppo scarsamente, l’ingiustizia delle disparità sociali. L’uguaglianza giuridica e formale, che allora si era già raggiunta, lo appagava compiutamente […] Fra i vari strati sociali non corrono relazioni d’interesse, ma d’affetto. Gli abitanti dei ranghi superiori trattano gl’inferiori con arguta bonomia, con amorevole condiscendenza, e ne riscuotono una commovente devozione».
Utilizzando il dialetto, introducendo effetti comici con l’impostare figure macchiettistiche al limite del verismo, e senza dar loro troppo rilievo, Fogazzaro trovò « […] il talismano segreto che lo salvò dall’arcadia […] Questo vivace brulicare di vita minuscola è sempre in funzione di quel che vibra nell’alto declamato della vita superiore. La scala sociale di questi romanzi si dispone come una scala armonica e non tollera né dissonanze né stonature: al virtuosismo del compositore rimane però la risorsa di ricavarne pregevoli effetti di contrappunto».
Antonio Fogazzaro fu molto amico del compositore italiano Gaetano Braga, il quale musicò il testo Il canto della ricamatrice. A sua volta, il Fogazzaro, ritrasse il compositore nella novella Il Maestro Chieco.
Il vescovo Geremia Bonomelli intrattenne un’amicizia sincera con Fogazzaro, che lo portò ad essere richiamato più volte dalle autorità papali per avere espresso giudizi positivi su alcune opere dello scrittore, questo anche se Bonomelli tentò di tenere un po’ a freno le teorie sulla evoluzione darwiniana che il Fogazzaro, in un certo periodo della sua vita, approvava. Il Fogazzaro scrisse nel 1901, su invito del vescovo che intendeva così favorire e incrementare lo spirito religioso dei marinai italiani, la Preghiera del marinaio. [12]
Lascito
Nei primi mesi del 2011, in occasione del centenario della morte dello scrittore, è stato aperto uno scatolone donato alla Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza nei primi anni sessanta contenente tutti i taccuini e i diari di Fogazzaro che per disposizioni testamentarie doveva essere aperto proprio in questo anno. Sempre per volere dello scrittore molti carteggi sono conservati nell’Abbazia di Praglia a Teolo in provincia di Padova
1899 – Ascensioni umane. Teoria dell’evoluzione e filosofia cristiana. Baldini e Castoldi.Rieditato da Longanesi nel 1977 con introduzione di Paolo Rossi.
^Per un recente ed importante studio sul Daniele Cortis si consiglia la lettura di Antonio Fogazzaro e Felicitas Buchner: un incontro nel Daniele Cortis. Con lettere inedite di Ileana Moretti, Roma, Bulzoni, 2009.
^Antonio Fogazzaro e l’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Con presentazione di Manlio Pastore Stocchi, Venezia 2011, ISBN 978-88-95996-32-5
^Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1982, vol. 3, pag. 322.
^Cfr. Daniela Marcheschi,Introduzione a Antonio Fogazzaro, Malombra, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Oscar Mondadori, 2009; e Introduzione a Antonio Fogazzaro, Piccolo Mondo Antico, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Oscar Mondadori, 2010.
^Daniela Marcheschi, Introduzione in Antonio Fogazzaro, Malombra, Milano, Oscar Mondadori 2009, pp. 5-7.
^Cfr. Daniela Marcheschi, Introduzione a Antonio Fogazzaro, Piccolo Mondo Moderno , a cura di Roberto Randaccio, Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Fogazzaro, Volume I, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 11-45.
Benedetto Croce, L’ultimo Fogazzaro, in “La Critica”, marzo 1935
Piero Nardi, Antonio Fogazzaro, Milano, Mondadori, 1938
Benedetto Croce, La letteratura della Nuova Italia, Bari, Laterza, 1912 – 1940
Annibale Alberti, Lettere a Fogazzaro, Nel centenario della nascita di Antonio Fogazzaro, Venezia, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, 1942, pp. 35-47.
Antonio Piromalli, Fogazzaro e la critica, Firenze, La Nuova Italia, 1952
Attilio Momigliano, Storia della letteratura italiana, 3 voll., Milano, Principato, 1955
Luigi Maria Personè – Antonio Fogazzaro. S.l.; Lions Club, 1961.
Corrispondenza Fogazzaro-Bonomelli, a cura di C. Marcora, Brescia, Morcelliana, 1965
Mario Gabriele Giordano, “Idealismo e realtà in ‘Piccolo mondo antico’“, in “Nostro tempo”, a. XXI, nov. 1971-apr. 1972; ora in M.G. Giordano, A. Pavone, “Lo studio critico della letteratura italiana“, Vol. III, Tomo I, Napoli, Conte, 1974.
Stefano Bertani, L’ascensione della modernità. Antonio Fogazzaro tra santità ed evoluzionismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, ISBN 88-498-1516-6
Carmelo Ciccia, Antonio Fogazzaro fra arte e propaganda, in Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pp. 163-186. ISBN 978-88-8101-435-4
Arnaldo Di Benedetto, Fogazzaro, Di Giacomo e Heine, in Fra Germania e Italia. Studi e flashes letterari, Firenze, Olschki, 2008.
Ileana Moretti, Antonio Fogazzaro e Felicitas Buchner: un incontro nel Daniele Cortis. Con alcune lettere inedite, Roma, Bulzoni, 2009. ISBN 978-88-7870-406-0
Ileana Moretti, Antonio Fogazzaro, Felicitas Buchner e il cristianesimo sociale, Lanciano, Carabba, 2010. ISBN 978-88-6344-135-2
Marco Cavalli, Fogazzaro in tasca, Vicenza, Colla Editore, 2011, 8889527609
Marco Pasi, “Antonio Fogazzaro e il movimento teosofico. Una ricognizione sulla base di nuovi documenti inediti”, in: Octagon. La ricerca della totalità (a cura di Hans Thomas Hakl), Scientia Nova, Gaggenau, 2017, vol. 3, pp. 231-265.
-Fotoreportage di Franco Leggeri –Torretta di Porta Pertusa-
Fotoreportage di Franco Leggeri Torretta di Porta Pertusa-di questa Torre che si trova a Roma ,sulla via Aurelia vicino al Vaticano di fronte all’ingresso dell’Ospedale San Carlo di Nancy, esisteva una sola foto in B/N. risalente agli anni 1940.
La storia in beve-Il Tomassetti parla di questa Torretta e la chiama “torretta nei pressi di Porta Pertusiam…(1)”. Il Tomassetti cita gli Atti Capitolini e citazioni della Camera Apostolica.
Questa Torretta è l’ultima delle torri di avvistamento della via Aurelia immediatamente a ridosso , linea d’aria (100/150 metri) dalle mura vaticane proprio di fronte a Porta Pertusa in posizione strategica sopra a Via Baldo degli Ubaldi in posizione dominante Valle Aurelia e Valle del Gelsomino-Via Gregorio VII. Dalla Torretta era possibile vedere Villa Carpegna e la Torre Rossa,oggi non più esistente ma ricordata dalla via omonima (poi è stato scoperto che Torre Rossa è in essere e pubblicherò foto e storia..).La Torretta ha una altezza di circa 7 m. La base di 3 m. circa.
La torretta si trova all’interno della Villa Pacelli in via Aurelia civ. 290 di fronte all’ospedale San Carlo . Nel 1947 Pio XII donò la villa Pacelli alla Congregazione Oblati di Maria Immacolata che ancora la possiedono , la villa è sede Generalizia della Congregazione.
Per le foto si ringrazia Monsignor Gilberto Pinon Gaytàn- Padre Generale della Congregazione Oblati di Maria Immacolata che mi ha ricevuto e mi ha permesso di scattare le foto . Per ultimo allego anche la foto in B/N del 1940-
(1)- Durante la Repubblica Romana del 1849 i francesi cercarono, ma invano, di aprirla per attaccare Garibaldi il quale aveva piazzato l’artiglieria repubblicana nei giardini vaticani.
È strutturata su tre aperture: due accessi secondari posti ai lati del portale principale, contornato da un maestoso bugnato. Attualmente è murata, e si trova su viale Vaticano, vicino alla via omonima, in corrispondenza del torrione di San Giovanni (restaurato da papa Giovanni XXIII che vi risiedette negli ultimi tempi del suo pontificato) che costituisce il baluardo sud-occidentale delle originali mura leonine.
L’epoca di edificazione, come anche per la porta Cavalleggeri, è alquanto controversa. Come l’altra, sembra dover risalire al tempo del rientro dei papi dalla cattività avignonese, quindi verso la fine del XIV secolo, quando i pontefici, di ritorno a Roma da Avignone con un consistente seguito, fissarono definitivamente la loro dimora in Vaticano (abbandonando la precedente residenza del Laterano) e le tre aperture delle mura leonine[1] si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze del conseguente incremento demografico ed edilizio. Venne aperta forando le mura originarie, da cui il nome, e sembra dovesse servire solo per un utilizzo da parte della Curia e non per il traffico cittadino. Stefano Piale, basandosi sul fatto che non ne esistono menzioni precedenti all’umanista Flavio Biondo, ritiene che fu aperta dall’antipapa Giovanni XXIII, facendola quindi risalire al primo quarto del XV secolo. Di contro, potrebbe invece esserci un riferimento in un documento del 1279.
Praticamente nessuna citazione fa riferimento alla posterula situata poco oltre la porta, della quale esiste una sola testimonianza che la definisce “porta Palatii”.
Il restauro più consistente, insieme a quello dell’intero tratto occidentale di mura, sembra si possa far risalire a papa Pio IV, nel 1565, che però non vide la fine dei lavori, sebbene presso la porta sia stata apposta, in memoria, una lapide con lo stemma dalla sua casata, i Medici.
Fu probabilmente chiusa e riaperta in varie occasioni, di una sola delle quali però si ha notizia, poiché un documento del 1655 riferisce che fu aperta per l’arrivo a Roma della regina Cristina di Svezia[2].
^Dalle cronache del Gigli per l’anno 1655 apprendiamo: “La sera delli 20 Decembre arrivò a Roma la Regina alle doi hore di notte, et entrò per porta Pertusa, la quale già stava murata, et allora fu aperta per tale effetto.” (L. G.Cozzi, “Le porte di Roma”, F.Spinosi Ed., Roma, 1968 – nota 13 pag. 363)
Bibliografia
Mauro Quercioli, “Le mura e le porte di Roma”, Newton Compton, 1982
Laura G. Cozzi, “Le porte di Roma”, F. Spinosi Ed., Roma, 1968
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