Roma al Teatro degli Audaci ritorna a grande richiesta: “Un papà per tutti”-
Roma-Il direttore artistico del Teatro degli Audaci, Flavio De Paola, ha il piacere di invitare, il suo amatissimo pubblico, presso lo stabile del III Municipio per assistere ad una delle commedie che ha fatto ridere le città più importanti d’Italia: “Un papà per tutti“.
Questa divertentissima commedia di Jhon Tremblay, curata nei minimi dettagli dalla regia di Flavio De Paola, sarà in scena al Teatro degli Audaci sino al 16 febbraio 2025! Un cast curato ben selezionato, farà ridere e sorridere il pubblico in sala, saliranno sul palcoscenico Serena Renzi, Emiliano Ottaviani, Antonio Coppola, Antonella Rebecchi, Giulia De Santis e lo stesso Flavio De Paola, che, oltre a dirigere gli attori, in qualità di regista, ricoprirà un ruolo sostanziale all’interno della commedia!
Roma al Teatro degli Audaci : “Un papà per tutti”-Roma al Teatro degli Audaci : “Un papà per tutti”-
“Un papà per tutti” è l’apoteosi degli equivoci: tra menzogne, fraintendimenti e mezze verità, quella messa in atto non è che non una storia della nostra quotidianità. Il protagonista Matteo – interpretato da Flavio De Paola – quando finalmente sta per diventare padre adottivo, è vittima di ciò che non dovrebbe mai accadere in una simile situazione: il suo rapporto di coppia si frantuma e le certezze svaniscono, lasciando spazio a improvvisi e folli equilibri in un “gioco” di menzogne e mezze verità.
Matteo, inoltre, si troverà ad affrontare un incaricato dei servizi sociali, un’impassibile signorina Rottermeier, che incombe come un tuono in una situazione di calma apparente. Ma quella che doveva essere una semplice pratica burocratica di assegnazione dell’infante, si trasforma in una vera e propria baraonda, su cui si innestano storie di tradimenti, di false identità e di nuove scoperte.
Una commedia degli equivoci che non manca di divertire lo spettatore grazie a situazioni tanto assurde quanto comiche e che non perde occasione di trattare, seppur con leggerezza, temi sociali legati all’adozione, alla famiglia e all’omosessualità, lasciando spazio alla riflessione. Le relazioni umane sono al centro dell’intera pièce teatrale e s’intrecciano formando nuovi e insoliti legami, spesso con colpi di scena.
Ma a questo punto non ci resta che invitarvi al Teatro degli Audaci sino al 16 febbraio per non perdere questo straordinario spettacolo, telefonando al numero 06 94376057 tutti i giorni dal lunedì al sabato ore 10:00 – 13:30 / 16:00 – 20:00 e domenica ore 16:00 – 20:00!
Proponiamo quattro poesie inedite di Giuseppe Carlo Airaghi, che ha pubblicato di recente le raccolte I quaderni dell’aspettativa (2019) e Quello che restava da dire (2020).-Fonte –Blog Pane e Scorpioni-
L’ultimo scompartimento
“Quante stazioni dovremo passare
per ritornare di nuovo alla luce?”
chiede la signora che stringe la borsa
e la vita al grembo serrato
mentre dispensa sorrisi senza obiettivi,
sospesi a mezz’aria.
Viaggiamo tra palazzi periferici
che ci voltano coscienti le spalle
prima di venire inghiottiti dal buio ipogeo
tra le stazioni di Lancetti e porta Vittoria.
“La luce ci riaccoglierà
poco prima di giungere a destinazione”
vorrei rispondere
ma taccio nella consapevolezza
della soggettività di ogni mia risposta.
L’ultimo scompartimento del treno
è luogo riservato agli ultimi,
ai viaggiatori con biciclette moleste al seguito,
alle ombre senza biglietto da esibire,
rintanate nei cessi ad evitare il controllore
o tesi nel corpo in allerta a scrutare,
lungo il corridoio immisurabile,
l’arrivo della divisa che pretenderà
un compenso che non possono permettersi,
in bilico tra la sopravvivenza,
la rivolta
e la normalità anormale
di uomini dal destino segnato
e uomini senza neppure un destino
a cui affidare il peso del corpo nel viaggio.
C’è chi, guadagnato un precario posto nel mondo,
custodisce nella tasca la legittimità
di un biglietto obliterato
seduto sui sedili di chi non teme
il giudizio del controllore
e chi fugge la voce che pretende un biglietto
in una lingua non conosciuta
ma riconosciuta come lingua di una legge divina.
Io non so più quale sia
la giusta forma di comportamento,
vorrei scendere a ogni fermata non mia
(magari a Porta Garibaldi dalle tante alternative)
dimenticare il dovere della destinazione,
riscrivere una nuova storia da onorare.
Ma non lo faccio
per senso del dovere
mi limito a spiare fuori dal finestrino
le sagome e le ombre sotto i neon,
nel tempo sufficiente
a leggere un’ultima poesia
tra le stazioni di Forlanini e Segrate.
Chi resta si dia pace
Nelle viscere dell’ospedale vecchio di Garbagnate
spingiamo il letto medicale
verso il magazzino dell’economato.
Restituiamo il letto in comodato
e il dolore che vi è giaciuto
e la morte ospitata senza invito,
subita nella resa, lucidamente attesa.
Tornati a casa nell’espressione di rito
riapriremo le imposte alla luce
che entrerà senza cerimonie
ne cordoglio, ne vergogna.
Ritorneremo a un amore privo di rimorso,
a fischiettare cucinando il sugo,
ad ascoltare canzoni sceme alla radio
ad alto volume da una stanza all’altra,
malgrado la foto con lo sfondo di cielo
sistemata sulla mensola alta in soggiorno,
quotidiano arredo
su cui poseremo e toglieremo la polvere
per il resto dei giorni a venire.
Sei ancora sveglia?
Sei ancora sveglia? domando.
Sono ormai le due del mattino.
I sogni arrivano in punta di piedi,
approdano al respiro del tuo seno bianco
dopo avere percorso le strade di campagna
che ricuciono i lembi dei campi arati,
i quartieri addormentati
nelle ore sillabate, una ad una,
dalle donne che condividono l’attesa
con la ruggine fiorita
sulla ruota abbandonata nel cortile.
Alla mia domanda rispondi
con un sorriso silenzioso
e quel silenzio mostra
la bellezza capace
di far vacillare il mondo,
il mio buon senso,
i fogli bianchi
che dovrei stracciare
come si stracciano i sogni interrotti.
La finestra
Dalla parte in silenzio della strada
osservo la casa
(qualcuno direbbe la spio),
la finestra ancora illuminata,
il pudore tenue di una tenda bianca.
Dietro il vetro
ci sono io,
una mano a scostare la tenda.
Guardo fuori
l’uomo che dalla strada mi osserva
(qualcuno direbbe mi spia)
e forse mi somiglia.
Trattengo a stento un cenno di saluto
per timore di essere frainteso.
Giuseppe Carlo Airaghi
Giuseppe Carlo Airaghi è nato a Legnano nel 1966 e vive attualmente a Lainate, sempre in provincia di Milano.
Come racconta lui stesso, in passato è stato geometra, animatore di villaggi turistici, venditore di prodotti siderurgici e cantante di una band rock-blues. Sognava una carriera da ballerino ma la sua completa mancanza di coordinazione si è rivelata un ostacolo insormontabile. Attualmente lavora presso un’azienda di servizi, “cassa integrazione Covid-19 permettendo”.
Ha una moglie paziente e due figli recentemente usciti incolumi dall’adolescenza.
Sul comodino si ostina ad accumulare libri, che tenta di leggere contemporaneamente senza mai riuscire a terminarne uno.
Per una bibliografia dettagliata e le indicazioni per acquistare i suoi libri, consultate il profilo dell’autore.
DESCRIZIONE-Pablo PICASSO Nel 1935, quando ha già 54 anni e attraversa un periodo di crisi nella professione e nella vita privata, Picasso comincia a scrivere poesie, una passione alla quale si dedicherà, con alcune interruzioni, fino al 1959 facendone il territorio di una geniale sperimentazione. Guidato da un istinto innato, maneggia la lingua con la stessa libertà inventiva con cui utilizza gli altri mezzi espressivi nel suo lavoro di artista. Ama i giochi di parole, gli inventari, le accumulazioni e le combinazioni. Alterna il francese allo spagnolo; liriche composte di getto a elaborate riscritture basate sulla ripresa e variazione degli stessi elementi; poesie fiume, in cui le parole si spintonano proprio come gli oggetti si assemblano sulla tela, a labirintici componimenti a rizoma in cui la linearità è messa al bando: una scrittura personalissima, vertiginosa, inafferrabile, che sfida ogni classificazione ma a cui non sono estranee suggestioni colte, dal barocco spagnolo a Mallarmé, da Alfred Jarry al dadaismo e al surrealismo. Dietro il poeta si intravede in filigrana il pittore, con i numerosi riferimenti alla luce, alle ombre e soprattutto ai colori. Anche i temi che ricorrono sono gli stessi che popolano i dipinti: la Spagna, la corrida, le danze e i canti popolari; la guerra e la violenza della dittatura franchista; il cibo, l’amore, la morte. Arricchita dalle riproduzioni di alcune splendide pagine manoscritte, questa raccolta dei più significativi testi di uncorpus che ne comprende oltre 350 documenta un aspetto ancora poco noto dell’opera di Picasso contribuendo a far luce sul percorso creativo del più grande artista del Novecento.
Il sentiero dei nidi di ragnoè il primo romanzo di Italo Calvino. Pubblicato nel 1947 da Einaudi, è ambientato in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana. Nonostante una certa propensione per la dimensione fantastica, determinata dal fatto che gli eventi vengono narrati attraverso il punto di vista di un bambino, può ascriversi, assieme alla raccolta Ultimo viene il corvo (1949), alla corrente neorealista.
ITALO CALVINO
Trama
Italia, periodo della Resistenza, dopo l’8 settembre 1943. In una cittadina ligure della Riviera di Ponente, Sanremo, tra valli, boschi e luoghi impervi dove la lotta partigiana è più forte, Pin è un bambino ligure di circa dieci anni, orfano di madre e con il padre marinaio irreperibile, abbandonato a se stesso e in perenne ricerca di amicizie tra gli adulti del vicolo dove vive, e dell’osteria che frequenta dove viene preso in giro da tutti: Pin è canzonato a causa delle relazioni sessuali che la sorella prostituta ,che si intrattiene coi militari tedeschi; provocato dagli adulti a provare la sua fedeltà, Pin sottrae a Frick, un marinaio tedesco amante della donna, la pistola di servizio, una P38, e la sotterra in campagna, nel luogo, sconosciuto a tutti, in cui è solito rifugiarsi, dove i ragni fanno il nido. Il furto sarà poi causa del suo arresto e dell’internamento in prigione. Qui entra a contatto con la durezza della vita di carcerato e con la violenza perpetrata da uomini su altri uomini. In prigione incontra Pietromagro, il ciabattino di cui era garzone, ma specialmente Lupo Rosso, un giovane e coraggioso partigiano, che in prigione subiva interrogatori e violenze da parte dei fascisti. Lupo Rosso aiuta Pin ad evadere dal carcere, ma una volta fuori, per cause indipendenti dalla sua volontà abbandona Pin a se stesso, a girovagare nel bosco da solo, finché non incontra Cugino, un partigiano solitario alto, grosso e dall’aria mite. Questi lo condurrà sulle montagne, al gruppo segreto di militanti partigiani a cui appartiene, il distaccamento del Dritto. Qui Pin entra in contatto con una folta casistica umana di antifascisti, dalla dubbia eroicità e caratterizzati dai più comuni difetti umani: Dritto il comandante, Pelle, Carabiniere, Mancino il cuciniere, Giglia la moglie di Mancino, Zena il lungo detto Berretta-di-Legno o Labbra di Bue e così si sistema presso di loro.
Una sera Dritto appicca inavvertitamente il fuoco all’accampamento perché avvinto in un gioco di sguardi con Giglia, la moglie di Mancino; questa sua imprudenza costringe i compagni partigiani a fuggire e ad insediarsi in un vecchio casolare dal tetto sfondato. Un litigio col capo brigata irrita Pelle a tal punto da spingerlo al tradimento dei suoi compagni: parte per il villaggio e rivela ai tedeschi l’insediamento partigiano. In seguito la Resistenza provvederà a freddarlo in un gap. Il giorno seguente i comandanti partigiani, Kim e Ferriera, fanno sopralluogo nel distaccamento del Dritto e gli impartiscono le istruzioni per l’imminente battaglia. Al momento di partire però il Dritto, ormai ridotto all’ombra di se stesso, si rifiuta di scendere in battaglia e decide di restare con Giglia. Con loro resterà solo Pin che sin dall’incendio aveva compreso l’interesse dei due e li sorprenderà, una volta partiti tutti, a consumare il loro sesso adulterino. Il Dritto d’altronde sa di aver segnato il suo destino.
La battaglia si risolve con una ritirata strategica. Il bilancio è di un solo morto e di un ferito. Poiché l’accampamento non è più sicuro come prima, i partigiani si mettono in cammino e raggiungono la postazione di altre brigate partigiane. Presto la discussione si accende quando Pin comincia a rivelare la tresca amorosa tra il Dritto e la Giglia scoperta il mattino: il Dritto tenta allora di zittire il bambino, malmenandolo, tanto che Pin gli morde la mano. Con quel gesto rabbioso esce dal casolare e scappa via di corsa. Incontra di tanto in tanto dei tedeschi e dopo alcuni giorni di marcia, arriva al suo paesino o almeno quello che ne resta dopo il rastrellamento dei nazisti. Ancora una volta si rifugia nel suo luogo segreto, ma vi trova tutta la terra rimossa e la pistola scomparsa: è quasi sicuro che sia stato Pelle.
Sconvolto, si reca dalla sorella, ormai in combutta con i tedeschi ma suo unico contatto con il mondo, la quale è molto sorpresa di vederlo. Mentre conversa, viene a sapere che lei possiede una pistola datale da un giovane delle brigate nere, sempre raffreddato. Pin capisce che si tratta di Pelle e che la pistola è proprio la P38 che lui aveva sottratto al tedesco e che aveva sotterrato al sentiero dei nidi di ragno. Se la riprende con rabbia e, gridando contro la sorella, va via di casa. Si sente ancora più solo, fugge verso il sentiero dei nidi di ragno, dove incontra nuovamente Cugino. Durante la conversazione che intrattengono, Pin si rende conto che proprio Cugino è l’unico vero amico, un adulto che si interessa persino ai nidi di ragno scoperti da Pin. Ma Cugino dice a Pin che vorrebbe andare con una donna, dopo tanti mesi passati in montagna. Pin rimane male, proprio Cugino che era sempre stato così ferocemente critico verso le donne. Anche lui, pensa Pin, è come tutti gli altri adulti. Parlano della sorella prostituta, Cugino è interessato e si fa indicare la sua abitazione. Si allontana lasciando a Pin il suo mitra e portandosi dietro proprio la pistola del bambino, dicendo che aveva paura di incontrare dei tedeschi. Dopo pochi minuti Pin sente degli spari venire dalla città vecchia. Ma ecco, invece, che ricompare Cugino: troppo presto rispetto a quello che aveva detto di voler fare con la prostituta. Il bambino è felice: Cugino gli dice che ci ha ripensato, che non ha voglia di andare con una donna, che le donne gli fanno schifo. È probabile che abbia provveduto ad uccidere la sorella di Pin perché complice delle truppe tedesche, ma questo fatto rimane incerto, non detto, e Pin non collega gli spari sentiti alla rapidità del ritorno di Cugino. Nessuna consapevolezza o sospetto c’è da parte di Pin: è felice di aver ritrovato una figura di adulto che lo protegga e lo capisca. I due si tengono per mano e si allontanano, di notte, in mezzo alle lucciole.
ITALO CALVINO
Luoghi
Il romanzo è ambientato nei comuni montuosi dell’Estremo Ponente ligure, specie la parte collinare di Sanremo – città natale della famiglia dell’autore – dove esiste ancora oggi, nel centro storico detto “la Pigna”, un viottolo chiamato “Carruggio Lungo”, vicolo stretto ma carrabile: stradicciola tipica dei centri storici liguri, massime quello ben noto della città di Genova. Le azioni narrate sono proprio quelle, brulicanti di tedeschi, prima come alleati dell’Italia poi come nemici inferociti dall’armistizio di Cassibile (8 settembre ’43), dove si svolsero sanguinosissimi combattimenti tra partigiani e nazifascisti.
Qui si svolge la prima parte del libro, in cui Pin si trova ancora dalla sorella: la locanda degli adulti del vicolo, la casa di Pin, il luogo in cui lavora e le abitazioni di tutti gli altri personaggi del romanzo. Alla carcerazione del protagonista, la scena si sposta fuori dal “Carruggio Lungo”, così dalla prigione, fino al distaccamento del Dritto, insediato tra i boschi delle montagne liguri; tra i luoghi citati in questa parte c’è lo storico Passo della Mezzaluna[2]. Se il paese natale di Pin è sinonimo di consuetudine all’esclusione, ma punto di riferimento per il piccolo, il bosco e il distaccamento partigiano significherà disorientamento e precarietà. Esiste un ulteriore luogo, di decisiva rilevanza all’interno della trama, ovvero il sentiero dei nidi di ragno, uno spazio quasi surreale, dove la natura è complice di Pin, custode e sicura. Per il protagonista rappresenta l’Arcadia, l’ambiente quasi idilliaco e immaginifico dove Pin esprime unico la sua puerilità. Essendo questo posto anche conosciuto dal solo Pin, lo spinge ad escludere chiunque dal godimento di tal luogo, se non all’amico vero che lui per tutto il romanzo cerca velatamente.
Lessico e stile
Questo primo libro di Italo Calvino, scritto subito dopo la fine della guerra, è molto scorrevole, i dialoghi, scritti con un linguaggio quotidiano spesso scurrile, si alternano a descrizioni minuziose dell’animo dei personaggi principali (come quello di Lupo Rosso, o come il ritratto di Kim nel IX capitolo, infatti questo capitolo si distacca dal tono degli altri perché attraverso Kim il narratore può esprimere i suoi giudizi) e dei luoghi dove si svolgono le azioni di guerra.
Il narratore del libro è esterno e il libro è narrato in terza persona. Calvino sceglie di raccontare e descrivere i fatti e le paure di una guerra visti dal “basso”, da chi non può nulla nei conflitti eppure è costretto a farvi parte: l’ottica è quella di un bambino. Dietro lo sguardo un po’ spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, giovane universitario di estrazione borghese, lascia gli studi ed entra nella Resistenza, in clandestinità vive a contatto di operai, gente semplice, condividendo la vita partigiana ma facendo parte inesorabilmente di un altro mondo.
Nel testo sono riportati alcuni termini militari e partigiani che affascinano il protagonista come del resto tutto il mondo dei grandi, ad esempio gap che indica un’organizzazione partigiana, come un’altra parola “misteriosa” sim. Alcune parole di uso tipicamente militare sono sten e P38, che sono rispettivamente la pistola mitragliatrice di fabbricazione Inglese in uso durante la Seconda guerra mondiale e la pistola semiautomatica di fabbricazione tedesca in dotazione all’esercito nazista.
È frequente l’uso di figure retoriche da parte di Italo Calvino, come le similitudini per rendere il testo di più facile comprensione al lettore (es.con ansia un po’ voluta: a toccare la fondina ha un senso di commozione dolce, come da piccolo a un giocattolo sotto il guanciale.). I termini usati sono facili e non si presentano quasi arcaismi, solo qualche termine come “chetare” invece che calmare, oggi più usato.
Frequenti sono i riferimenti lessicali al dialetto, riconoscibili sulla bocca di alcuni personaggi, in altre opere più mature quest’esigenza di una lingua viva troverà sbocco nella vivacità di una lingua italiana nutrita di linfa anche dialettale e popolare. Il tempo della narrazione è il presente. Questa scelta stilistica dà al testo un ritmo veloce, rendendo il testo moderno e “nervoso”.
Tutto il racconto sottende una dimensione fiabesca, come notò per primo Cesare Pavese,[3] anticipando uno dei grandi temi della riflessione e della successiva produzione di Italo Calvino.
ITALO CALVINO
Personaggi
Pin
È il protagonista del racconto. È un bambino di bassa estrazione sociale, spesso maleducato, ribelle, pagliaccio e menefreghista. I suoi genitori sono scomparsi quando lui era ancora piccolo. Fin da allora ha cercato spazio nel mondo dei grandi pur non comprendendo il loro strano modo di ragionare, infatti durante la giornata cerca clienti per sua sorella, una prostituta conosciuta in tutto il paese come la Nera di Carrugio Lungo. Non gioca con i suoi coetanei, ma al contrario ha sempre cercato la stima degli adulti, che cercava di far ridere cantando canzoni su cose volgari e da grandi, per le quali manca di consapevolezza (come il sesso, la guerra e la prigione).
Nonostante la sua tenera età, Pin ha vissuto esperienze da adulto: lavorava in una bottega come calzolaio per il padrone Pietromagro e faceva “pubblicità” alla sorella, ma questo non ha cambiato il suo modo di ragionare e di sognare, tipico di un bambino, tanto che non riesce a distinguere il bene dal male a causa della superficialità con cui supera le difficoltà. Frequenta un’osteria dove si ritrovano gli adulti che con lui parlano molto, ma lo usano per calmare i momenti di tensione con le filastrocche cantate o per scopi personali, come quando gli ordinano di prendere una pistola.
Pin non ripone fiducia in quelle persone così diverse da lui, infatti non rivela a nessuno di loro il suo posto magico e segreto, il sentiero dove fanno il nido i ragni. È un personaggio sospeso tra il mondo dei grandi, nel quale cerca di entrare, e il mondo al quale appartiene, ma nel quale non ha mai voluto identificarsi. Pensa che nel mondo dei grandi lui possa trovare un grande amico sincero al quale confidare il suo segreto.
In questa strana ricerca Pin si fa più saggio, perché vive nuove esperienze con la guerra, ma le idee che si farà lo porteranno ad essere ancora più solo. Diventa crudele con la natura forse per sfogarsi, forse per vedere cosa provano gli uomini quando vogliono uccidere loro simili, così si chiede che cosa succederebbe a sparare ad una rana, infilza ragni, seppellisce freddamente il falchetto morto.
Alla fine del romanzo Pin rincontrerà Cugino e capirà di aver trovato un vero amico, a cui possa svelare dove si celano i nidi dei ragni.
ITALO CALVINO
Cugino
Il personaggio è descritto come di stazza imponente, un omone possente che assomiglia ad un orco, con baffi spioventi e rossicci, alto, curvo su sé stesso e vestito sempre con una mantellina e un berretto di lana. Il carattere si rivela però buono e caloroso. In seguito ai ripetuti tradimenti della moglie durante la sua missione di guerra, e una faccenda avvenuta con una sua amante poco prima, sviluppa una profonda avversione per le donne, che lo porterà a maturare la concezione che la causa delle tragedie accadute e della guerra siano proprio le donne.
Cugino fa la conoscenza di Pin dopo l’evasione dal carcere, proprio lui lo accompagna al distaccamento del Dritto, il gruppo dei partigiani di cui faceva parte, anche se solitamente preferisce agire da solo. Qui i due approfondiscono la loro conoscenza e Pin inizia a provare un sentimento di amicizia nei suoi confronti. Quest’uomo possente infatti nasconde in sé una dolcezza e una semplicità di sentimenti che lo portano ad essere un grande-piccolo, ma fermo negli ideali, proprio la persona che Pin il “bambino-vecchio”, stava cercando. Infatti Cugino pare non voler fare parte del mondo dei grandi con donne e guerra ma sembra interessato a discorsi infantili, ma in qualche modo ricchi di speranza, come quelli riguardanti i nidi di ragno.
Kim
È il dedicatario dell’opera, oltre ad essere il personaggio di spicco per un intero capitolo, in cui la storia principale resta per un po’ da parte. Il suo ritratto caratteriale rispecchia subito fedelmente la sua storia biografica: come studente universitario in medicina e futuro psichiatra, è un rigoroso e scrupoloso ricercatore di certezze. Da questa peculiarità nasce il discorso serio sulla ragione del furore dell’uomo. Sul rapporto tra storia e senso della storia. Nella trama il personaggio si dimostra profondamente convinto del suo importante ruolo di comandante delle truppe partigiane. Appare tardi sulla scena, infatti arriva la notte prima della battaglia e porta dentro la freddezza della guerra il bisogno di riflettere sulle motivazioni profonde che animano partigiani e repubblichini. Egli riconosce che entrambi gli schieramenti credono di essere nel giusto, ma che solo i partigiani lo sono. Sa che c’è bisogno di certezze, ma non può rinunciare alle domande, soprattutto a quelli più radicali.
Il personaggio di Kim (il nome di battaglia deriva dal Kim del romanzo di Rudyard Kipling) è ispirato al capo partigiano Ivar Oddone (che sarà un famoso medico del lavoro nel dopoguerra) conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza, e le sue argomentazioni nel suo discorso con Ferriera (che non lo capisce) e nel successivo monologo sono un sunto dei ragionamenti che Calvino e lui facevano fra loro, in quanto unici intellettuali in una brigata composta per lo più di operai e contadini.[4]
Alberto Asor Rosa riconosce in Kim Calvino stesso, che affida al suo alter ego l’unico momento di riflessione teorica presente nel romanzo.[5]
Ferriera
Egli entra in scena nel libro quando deve annunciare la battaglia insieme al commissario Kim. I due partigiani, come ci viene descritto nel capitolo IX, “sono di poche parole: Ferriera è tarchiato con la barbetta bionda e il cappello alpino, ha due grandi occhi chiari e freddi che alza sempre a mezzo guardando di sottecchi…”. Ferriera è un operaio nato in montagna e per questo il suo modo di fare è sempre schietto e limpido, a volte un po’ freddo come quello di tutti i montanari. È sempre disposto ad ascoltare tutti, ma dietro al suo sorriso di convenienza si nascondono le sue vere intenzioni e decisioni: come dovrà schierarsi la brigata, quando dovranno entrare in azione… Avendo sempre lavorato per anni in una fabbrica, è convinto che tutto debba muoversi con perfezione e regolarità, come in una macchina. Ecco perché la sua visione della guerra partigiana è perfetta come una macchina; è l’aspirazione rivoluzionaria cresciutagli nelle officine. A differenza del commissario Kim, il comandante Ferriera sostiene che nello squadrone del Dritto siano stati raggruppati gli uomini che valgono meno e per questo vorrebbe dividerlo. Durante la narrazione, il comandante ci spiega che non bisogna aspettarsi nulla dagli eserciti alleati, sostenendo l’idea che i partigiani da soli riusciranno a tener testa ai nemici. Dopo la scoperta del tradimento di Pelle e il dialogo avuto con il Dritto, Kim e Ferriera si allontanano, ma durante la camminata i due si confrontano. Secondo il comandante, l’idea di Kim era sbagliata, “È stata un’idea sbagliata la tua, di fare un distaccamento tutto di uomini poco fidati, con un comandante meno fidato ancora. Vedi quello che rendono. Se li dividevamo un po’ qua un po’ là in mezzo ai buoni era più facile che rigirassero dritti”. Ma Kim non è dello stesso parere. Secondo lui infatti, quel distaccamento era uno dei migliori, uno dei quali era più contento. Questa opinione suscita in Ferriera una reazione scontrosa. Emerge particolarmente in questo passaggio la diversa formazione educativa dei due personaggi: da una parte abbiamo Kim, studioso e logico; dall’altro Ferriera particolarmente pragmatico. “Non è un laboratorio d’esperimenti” afferma Ferriera, “capisco che avrai le tue soddisfazioni scientifiche a controllare le reazioni di questi uomini, tutti in ordine come li hai voluti mettere, proletario da una parte, contadini dall’altra (…). Il lavoro politico che dovresti fare, mi sembra, sarebbe di metterli tutti mischiati e dare coscienza di classe a chi non l’ha e raggiungere questa benedetta unità… senza contare il rendimento militare poi.” Kim si trova in difficoltà di fronte ai discorsi di Ferriera, ma in un secondo momento afferma che tutti gli uomini combattono nello stesso modo, ognuno con il proprio furore. Nell’analizzare le situazioni Kim è terribilmente chiaro e dialettico, nel parlare schietto e diretto “c’è da farsi venire le vertigini”! Al contrario il suo comandante vede le cose molto più chiaramente.
Il personaggio di Ferriera è ispirato al partigiano Giuseppe Vittorio Guglielmo conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza[6]
Lupo Rosso
È un sedicenne grande e grosso, con la faccia livida e i capelli rasi sotto un cappello a visiera alla russa. Ha scelto il suo nome durante un discorso con il commissario politico della Brigata. Dice di volersi chiamare come un animale forte (precedentemente era noto come Ghepeù fra gli operai suoi colleghi di lavoro, a causa delle sue continue citazioni di Lenin e della sua ammirazione per l’Unione sovietica, ma il nome non è stato considerato adatto), quindi il commissario gli ha suggerito di chiamarsi Lupo. Lupo Rosso sostiene che Lupo è un animale considerato fascista quindi aggiungono la parola rosso al fine di dare al suo nome di battaglia una sfumatura comunista. Dichiaratamente leninista e dal carattere impetuoso e deciso, è un grande appassionato di armi da fuoco, con cui ha preso particolare confidenza lavorando come meccanico alla Organizzazione Todt. Fa conoscenza con Pin in carcere, avvicinando per la prima volta il bambino alla Resistenza. È tisico, sputa spesso sangue in seguito alle percosse ricevute con frequenza disumana dalle squadracce. Da qui alcuni disturbi legati all’alimentazione, in quanto afferma che non può mangiare e dà a Pin la sua porzione di minestra. Possiede molta fama fra i partigiani e sono tanti a stimarlo per le sue azioni di guerra. Scappa dalla prigione con Pin per vedere con lui il posto magico del bambino e prendere la pistola P.38, ma durante il tragitto si perdono e si separano, a causa dei tedeschi. L’abbandono per Pin significa una dura delusione, Pin infatti vede Lupo Rosso come uno dei pochi esempi di coerenza e di fermezza, uno dei pochi disinteressati alle donne. Pin lo rivede poco tempo dopo, durante un incontro del distaccamento del Dritto con quello del Biondo, del quale Lupo Rosso fa parte. Successivamente Lupo Rosso partecipa all’azione punitiva contro i fascisti e contro Pelle, il partigiano traditore, e recupera molte delle armi collezionate da quest’ultimo.
Il personaggio di Lupo Rosso è ispirato al partigiano Sergio Grignolio (nome di battaglia Ghepeù), conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza.[6]
Il Dritto
È il comandante del gruppo partigiano a cui appartiene Cugino. Per tutta la durata del libro rimane un comandante forte, che sa guidare i suoi uomini in battaglia e sa farsi rispettare da loro, fino a quando per via dell’amore che prova per la Giglia, la moglie di Mancino, si distrae e lascia bruciare il capanno in cui risiedeva tutta la brigata. Quel gesto di incapacità attira i tedeschi nel luogo in cui erano nascoste tutte le brigate e lo porterà ad essere fucilato alla fine del libro. Il commissario Kim gli fa capire che se andrà in battaglia in prima linea contro i tedeschi potrà riscattarsi e salvarsi, ma lui non va per stare con Giglia (mentre tutti gli altri sono in combattimento), e alla fine – poco dopo la fuga di Pin – viene così arrestato da due partigiani mandati dal comando, per essere fucilato per insubordinazione, mentre il distaccamento verrà sciolto e gli uomini divisi in altri gruppi.
Pelle
Pelle è poco più di un ragazzo, sempre raffreddato e molto irascibile. Infatti, durante una lite col Dritto, si infuria al tal punto da tradire i partigiani. Pelle si occupa di procurare l’armamento ai partigiani (rubandolo) e per esso nutre una vera passione. Dopo una scommessa fatta con Pin, va in cerca della P38 che il ragazzino aveva nascosto nel sentiero dei nidi di ragno, la trova e la lascia in regalo alla sorella di Pin, perché resti in famiglia. Verso la fine del romanzo Lupo Rosso racconta la fucilazione di Pelle e la confisca di tutte le sue armi, tra cui, per l’appunto, si trova un’immensa varietà di fucili e pistole, ma non una P38.
ITALO CALVINO
Altri personaggi
Miscel il Francese, Gian l’Autista, Giraffa: uomini che si ritrovano con Pin all’osteria; finiranno a combattere chi con le brigate nere, chi con i partigiani.
Rina detta la Nera di Carrugio Lungo: sorella di Pin, prostituta che frequenta tedeschi e fascisti
Frick: marinaio tedesco, amante della sorella di Pin, a cui il ragazzino ruba la pistola; viene descritto come non molto sveglio e nostalgico della sua famiglia ad Amburgo
Mancino: cuoco del distaccamento del Dritto, comunista convinto e considerato estremista anche da Lupo Rosso, anche se evita spesso di andare in battaglia con varie scuse; ha un falchetto chiamato Babeuf, ma poi lo uccide su insistenza degli altri perché starnazzando attira i nazisti all’accampamento
Giglia: moglie di Mancino, amante del Dritto
Zena il Lungo detto Berretta-di-legno: partigiano genovese, non è comunista anche se sta con i garibaldini
Carabiniere: un carabiniere che ha disertato per combattere i fascisti
Duca, Conte, Marchese, Barone: quattro cognati calabresi
Pietromagro: ciabattino e piccolo truffatore, padrone della bottega dove lavora Pin
La Prefazione del 1964
Nel giugno del 1964 l’editore Einaudi propone una nuova edizione del “Il sentiero dei nidi di ragno”, riveduta e corretta, a cui Calvino scrive una lunga prefazione. La Prefazione o Presentazione diverrà subito un testo fondamentale, in cui Calvino esprime delle riflessioni sulla propria opera.[7] Calvino descrive le ragioni che l’hanno portato a scrivere il libro e parla della responsabilità che ha avvertito, come testimone e protagonista della Resistenza, a perpetuarne la memoria.[8] Avvertendo il tema come troppo impegnativo e solenne, decide di affrontarlo di scorcio, trattandolo cogli occhi di un bambino[3] e per andar contro la «rispettabilità ben pensante», sceglie non di rappresentare i migliori partigiani, ma i peggiori possibili. Ciononostante – dice – loro sono stati uomini migliori di coloro che sono rimasti al sicuro nelle città e nelle campagne, perché spinti da un’elementare voglia di riscatto sono diventati forze storiche attive.[3] Questa idea è riportata nel romanzo per bocca di Kim, il commissario politico.
Tuttavia esprime un senso di delusione: il suo libro, a suo dire, non è riuscito a rappresentare la Resistenza in modo pieno, cosa riuscita soltanto a Beppe Fenoglio in Una questione privata, capace di serbare per tanti anni limpidamente la memoria fedele e a rappresentarne i valori.[3] Scrivere Il Sentiero dei nidi di ragno conclude ha bruciato la sua memoria, ha cancellato i ricordi di
«quell’esperienza che custodita per gli anni della vita […] sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non […] è bastata che a scrivere il primo»
(Italo Calvino, 1964.)
Premi e riconoscimenti
Nel 1947 il libro presentato al Premio Mondadori viene scartato. Lo stesso anno vince la prima edizione del Premio Riccione.
Influenza culturale
Il contenuto del libro è stato ripreso nel 2005 dai Modena City Ramblers nella canzone Il Sentiero contenuta nell’album Appunti Partigiani.[9]
Edizioni
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana I Coralli n.11, Torino, Einaudi, ottobre 1947.
Il sentiero dei nidi di ragno, Nota introduttiva dell’Autore, Collana Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria n.63, Torino, Einaudi, 1954. [edizione con testo modificato]
Il sentiero dei nidi di ragno, Con una prefazione dell’Autore, Collana I Coralli, Torino, Einaudi, 1964. [edizione definitiva con testo ancora riveduto, appare in anticipo presso il Club degli Editori]
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Nuovi Coralli n.16, Torino, Einaudi, 1972-1991. – Collana Einaudi Tascabili, 2002.
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Gli elefanti, Milano, Garzanti, 1987-1992.
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Oscar Opere di Italo Calvino, Milano, Mondadori, settembre 1993. – Con uno scritto di Cesare Pavese, Collana Oscar, Mondadori, 2011; Collana Oscar Moderni n.55, Mondadori, 2016-2019.
UMBERTO SABA. Quello che resta da fare ai poeti. Trieste, Edizioni dello Zibaldone (Fratelli Cosarini), 1959 (Aprile)- Questo interessante saggio, scritto nel 1911, fu inviato da Saba a “La Voce” e rimase inedito per il rifiuto di Scipio Slataper. Nota introduttiva di Anita Pittoni. Prima edizione postuma.
Umberto Saba Il poeta sereno e disperato -Tra i più importanti poeti italiani del Novecento, Umberto Saba è l’unico a non aver vissuto le esperienze dell’avanguardia e del simbolismo. Nei suoi versi vuole rinnovare la tradizione lirica italiana, da Petrarca a Leopardi. Il suo linguaggio è semplice e diretto, come la lingua parlata. I temi che sceglie sono autobiografici, analizzati attraverso lo studio delle teorie psicoanalitiche di Freud
Gli anni della formazione
Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883. L’abbandono della famiglia da parte del padre prima della sua nascita, le apprensioni della madre, di origine ebrea, l’affetto eccessivo della balia slovena saranno momenti sempre ricordati e sviscerati nella sua poesia, che si caratterizza subito come autobiografica.
La carriera scolastica è irregolare; la sua giovinezza, agitata da problemi prima familiari e poi razziali – egli vive nel ghetto di Trieste –, trova un rifugio nella fantasia e in quelle che egli poi definì «le sterminate letture d’infanzia». Le prime prove poetiche sono caratterizzate da parole semplici e da ritmi cantabili, ma in realtà dietro quella superficie si nascondono tanti dolori. Un suo verso, infatti, recita: «Quante rose a nascondere un abisso!».
Quando è in età di poterlo fare, lascia il cognome paterno (Poli) come segno di ostilità verso il padre e sceglie lo pseudonimo di Saba – parola ebraica che significa «pane» – in omaggio alla mamma.
Nel 1905 si trasferisce a Firenze, dove prende contatto con gli ambienti intellettuali della città, tra cui la rivista La voce, ma i rapporti sono di reciproca incomprensione. Nel 1909 torna a stabilirsi a Trieste e sposa Carolina Wölfler, la Lina del Canzoniere, da cui l’anno seguente avrà la figlia Linuccia. Nel 1911 esce a spese del poeta il primo libro di versi, Poesie.
L’incontro con la psicoanalisi
Dopo la Prima guerra mondiale, alla quale partecipa ricoprendo ruoli amministrativi e di retroguardia, Saba rileva a Trieste una bella libreria antiquaria che gli consentirà di vivere modestamente per tutta la vita e di dedicarsi alla produzione poetica. Nel 1921, con il marchio editoriale della libreria, pubblica il Canzoniere, che comprende tutte le liriche composte fino ad allora. Le più particolari sono quelle in cui il poeta paragona con un tono affettuoso e delicato l’uomo agli animali: identifica sé stesso con una capra; la moglie con una serie di bestie, come una bianca pollastra, una giovenca e una rondine; i militari con giovani cani.
Nel 1929 si sottopone a una terapia psicoanalitica con il dottor Edoardo Weiss, allievo di Sigmund Freud, per curare una nevrosi da cui era afflitto. La conoscenza delle teorie freudiane gli conferma alcune sue intuizioni sull’importanza delle esperienze infantili nella formazione della personalità, e di conseguenza la psicoanalisi gli appare come uno strumento fondamentale per la conoscenza dell’animo umano.
La poesia autobiografica
Nel 1945 esce il secondo libro del Canzoniere, nel quale confluiscono le raccolte poetiche successive al 1921: tra esse troviamo Il piccolo Berto, dove il poeta analizza i traumi della sua infanzia attraverso un immaginario dialogo tra il Saba adulto e il Saba bambino.
Nel 1938, in seguito all’introduzione delle leggi razziali, aveva dovuto abbandonare Trieste e rifugiarsi a Parigi. Le persecuzioni contro gli Ebrei, la Seconda guerra mondiale e la crisi triestina dell’immediato dopoguerra aggiungono motivi sociali e politici all’infelicità del poeta. Sono esperienze che tornano insistenti nelle ultime raccolte di poesie, riunite nella terza parte del Canzoniere. Tra esse però troviamo anche le Cinque poesie per il gioco del calcio, attraverso le quali Saba realizza il desiderio di non sentirsi, per una volta, solitario tra gli uomini, e di riuscire a condividere con loro una passione. Sono pure l’occasione di riparlare dei ragazzi, del loro amore per i calciatori, e di ricordare le pulsioni e le delusioni della propria infanzia.
A Trieste Saba trascorre gli ultimi anni della vita con prolungati ricoveri in clinica, dovuti alla sua nevrosi, resa più acuta dalla perdita della moglie. Compone ancora delle raccolte di versi e un romanzo rimasto incompiuto, Ernesto. Muore a Gorizia nel 1957.
UMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poeti
Città del Vaticano-Gli appuntamenti del Giubileo degli Artisti e del mondo della Cultura-
Città del Vaticano–Molte le iniziative, rese noti dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione, in occasione del Giubileo della cultura, in programma dal 15 al 18 febbraio. Diverse le mostre che saranno allestite, domenica 16 nella Basilica di San Pietro la Messa celebrata dal Papa che il giorno successivo sarà a Cinecittà per incontrare artisti e operatori del cinema. Si tratta della prima volta per un Pontefice negli studios
La Chiesa cattolica – si legge in una nota del Dicastero per la Cultura e l’Educazione – sta celebrando il 25° Giubileo della storia, che il Santo Padre Francesco ha scelto di porre sotto il tema della Speranza. L’Anno Santo si organizza anche attraverso un calendario di appuntamenti tematici, fra i quali spicca il Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura, che si celebrerà a Roma dal 15 al 18 febbraio 2025. Il Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura si ispira alla capacità che Papa Francesco riconosce alle arti e alla cultura: «sognare nuove versioni del mondo, introducendo novità nella storia e mettendo al mondo qualcosa che così non si era mai visto». Per questo, il Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede invita a vivere questa esperienza di fraternità e spiritualità tutti coloro che, con il proprio impegno nell’arte e nella cultura, possono contribuire a portare speranza.
Il Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura si aprirà sabato 15 febbraio, con l’incontro internazionale Sharing Hope – Orizzonti per il Patrimonio Culturale , organizzato in collaborazione con i Musei Vaticani. Sono responsabile di alcune tra le più prestigiose istituzioni artistiche e museali al mondo si riuniranno per esplorare nuovi linguaggi e strategie per la valorizzazione e la trasmissione del patrimonio religioso e artistico. Il loro dialogo confluirà nella consegna di un Manifesto educativo sulla trasmissione del codice culturale delle religioni. Lo stesso giorno, alle ore 18, si terrà l’inaugurazione dello spazio espositivo Conciliazione 5, situato lungo l’omonima via che conduce i pellegrini alla Basilica di San Pietro. La programmazione, affidata per il 2025 alla curatrice Cristiana Perrella, sarà incentrata sulla commissione di progetti d’arte contemporanea ad artisti internazionali, che si avvicenderanno nel corso dell’anno, sul tema della Speranza. Si comincia con i ritratti della comunità carceraria di Regina Coeli: realizzati dall’artista Yan Pei-Ming, saranno esposti presso lo spazio Conciliazione 5 e proiettati sulla facciata dello stesso Istituto.
Domenica 16 febbraio sono in programma due appuntamenti: alle ore 10, la celebrazione dell’Eucarestia nella Basilica di San Pietro, aperta a tutti ed in particolare a quanti lottano nelle arti e nella cultura; a partire dalle 20, una suggestiva Notte Bianca presso la Basilica di San Pietro, eccezionalmente aperta per un percorso di visita che inviterà alla contemplazione e alla riflessione spirituale. Lunedì 17 febbraio il Santo Padre si recherà presso gli studi cinematografici di Cinecittà – la prima volta di un pontefice – per un momento dall’alto valore contenutistico ed evocativo. Nello spirito del Giubileo, Papa Francesco incontrerà a Cinecittà una delegazione di artisti e operatori della cultura, a cui rivolgerà il proprio messaggio. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con il Ministero della Cultura della Repubblica Italiana e Cinecittà Luce SpA. Non mancheranno riflessioni sul futuro del patrimonio culturale – con l’incontro Artisans of Hope , riservato ai rappresentanti dei centri culturali cattolici e agli organismi internazionali impegnati nella promozione della cultura – e un’attenzione speciale a forme d’arte contemporanee come la poesia visiva, protagonista dell’esposizione Global Visual Poetry , curata da Raffaella Perna e ospitata nella sede del Dicastero per la Cultura e l’Educazione.
Nei giorni del Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura, i partecipanti saranno invitati a compiere il passaggio della Porta Santa. Il Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura invita a vedere nell’arte e nella cultura strumenti privilegiati per promuovere il dialogo, l’inclusione e la speranza. Attraverso la celebrazione della bellezza e della creatività, esso vuole essere occasione di riflessione e appello ampio affinché le aspirazioni e le ricerche individuali si riconnettano a quelle collettive, cooperando alla costruzione di una società più giusta.
Letizia Battaglia, la più celebre fotografa italiana-
Letizia Battaglia
Il 5 marzo 1935 nasce Letizia Battaglia, la più celebre fotografa italiana. Celebre più all’estero che nei nostri confini, e questo è un grande classico nostrano: non saper riconoscere e premiare il talento. Figuriamoci se poi fa un mestiere difficile, il fotografo, e se per di più è donna. Quindi fotografa.
Letizia Battaglia è nata a Palermo. La Sicilia sembra andarle stretta, e invece sarà il destino di una vita. Si sposa giovanissima, scappa a Milano, collabora con giornali e riviste scandalose per l’epoca, come “Le Ore”. Impara a scrivere reportage, ma soprattutto impara e perfeziona la sua tecnica fotografica.
Ma Palermo è nel suo destino. Il direttore de “L’Ora” la reclama e dai primi anni ’70 diventa la testimone di una lunga stagione: stagione di morti ammazzati, di bambini che giocano allo Zen o in qualche altra periferia, di donne che faticano in casa, di boom edilizio.
Letizia è sempre lì, in prima fila a raccontare per immagini ciò che nemmeno le parole possono più fare. Una società schiacciata dal fenomeno mafioso, tarpata nel suo volo da una cappa viscosa e invisibile. E i suoi scatti prediligono le figure femminili, le donne di Sicilia nelle loro strade, nei mercati, nei loro lutti continui a causa della mattanza che in quegli anni causerà più di mille vittime di mafia. Nel 1979 è cofondatrice del centro di documentazione Giuseppe Impastato. Nel 1985 è la prima donna europea a ricevere il premio Eugene Smith a New York, primo di una lunga serie di riconoscimenti.
Racconta la mafia in tutta la sua cruda violenza, la porta nella casa dei siciliani prima, del resto d’Italia poi. Suo è lo splendido scatto in bianco e nero di Rosaria, la vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di Falcone, saltato in aria a Capaci. In una intervista ha descritto le battaglie della sua vita: «Mio padre non capiva cosa fosse un essere umano donna. Mi trovavo all’interno di una società dove una donna non veniva considerata, ho attraversato tutto questo mentre ancora si doveva lottare. Queste lotte le ho fatte prettamente da sola, senza percepire che fosse una lotta giusta, è stato molto complicato uscirne indenne».
Martha Argerich puoi conoscerla attraverso la sua biografia scritta da Olivier Bellamy: un libro interessante, intrigante e ricco di aneddoti, corredato di cronologia, premi, galleria fotografica, repertorio, discografia e videografia, documentari, indici dei nomi, delle etichette, delle opere citate, dei musicisti, dei cantanti, dei cori, dei luoghi, delle orchestre e degli ensemble che hanno collaborato con la grande pianista argentina.
MARTHA ARGERICH
Olivier Bellamy
MARTHA ARGERICH- L’enfant et les sortilèges-
Presentazione di Carlo Piccardi
pagine XII+356 – formato cm. 17×24 – illustrato
Collana “Personaggi della Musica”, 19 – euro 25,00
Genio del pianoforte”, “miracolo della natura”, “ciclone argentino”, o ancora “leonessa della tastiera”: non mancano certo le definizioni per evocare la dirompente personalità di Martha Argerich. Nata nel 1941, la leggendaria pianista argentina, applaudita sulle scene internazionali da decenni, affascina per la potenza delle sue esecuzioni e per il mistero della sua personalità. Il suo temperamento indomabile, il carattere libero e indipendente ne fanno un personaggio davvero atipico nel mondo della musica classica. In una narrazione costellata di aneddoti inediti e di sorprendenti rivelazioni, Olivier Bellamy dipana le fila di una vita ricca di eventi e di sviluppi imprevedibili: dall’infanzia in Argentina, quand’era bambina prodigio a Buenos Aires, passando per gli studi di perfezionamento dapprima a Vienna con Friedrich Gulda e quindi ad Arezzo e Moncalieri con Arturo Benedetti Michelangeli, per arrivare alle decisive affermazioni del Premio Busoni di Bolzano e del Concorso di Ginevra e all’apoteosi dello “Chopin” di Varsavia, fino agli anni più recenti, caratterizzati anche da momenti di profonda crisi, da rinunce ai concerti e ancora da trionfali ritorni… Di città in città (Buenos Aires, Vienna, Bolzano, Amburgo, New York, Ginevra, Bruxelles, Londra, Rio de Janeiro, Mosca…), attraverso i suoi colleghi musicisti, gli amori, le amicizie, il libro delinea il ritratto intimo di un’artista dalla profonda umanità.
MARTHA ARGERICH
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Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924
Programma di sala originale completo
Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
Fonte -Enciclopedia TRECCANI on line-
Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARIGiovanni BRAHMSBernardino MOLINARI
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
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