Grazia Deledda- Nuova luce sul suo esordio letterario-
– Articolo di Fabrizio Federici-
Nel 2021 ricorreranno 150 anni dalla nascita (Nuoro,1871) di Grazia Deledda, l’autrice di “Canne al vento” ed “Elias Portolu”, Nobel per la Letteratura 1926, scrittrice poliedrica che tanti critici hanno cercato inutilmente d’ inquadrare nei piu’ vari filoni letterari, dal verismo ( ebbe, in effetti, le lodi di Luigi Capuana, per il suo romanzo del 1896 “La via del male”, e di Giovanni Verga) al regionalismo, al decadentismo, all’ esistenzialismo (dato anche il suo interesse per Dostoevskij e Tolstoi) . Neria De Giovanni, scrittrice e giornalista, presidente dell’ Associazione Internazionale Critici Letterari, organizzatrice del “Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo”, ha pubblicato, ultimamente, un altro saggio sulla Deledda ( cui ha dedicato, sinora, 15 libri): “Grazia Deledda- Corrispondenze giovanili” (Nemapress ed., Alghero,e. 15,00).
Saggio in cui l’ Autrice evidenzia la falsità del clichè che vorrebbe la Deledda “scrittrice per caso”, esordita nella letteratura per una serie di circostanze fortuite: in realtà, la scrittrice nuorese inizia a scrivere a soli 17 anni, pubblicando alcuni racconti, “Sangue sardo” e “Remigia Helder”, sulla rivista romana “L’ultima moda”, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa testata sarà poi pubblicato, a puntate, il romanzo “Memorie di Fernanda”, mentre nel 1890 uscirà sempre a puntate ,sul quotidiano di Cagliari “L’avvenire della Sardegna”, firmato con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo “Stella d’Oriente”; e a Milano, presso l’editore Trevisini, “Nell’azzurro”, libro di novelle per l’infanzia.La De Giovanni ricostruisce attentamente ,attraverso appunto le sue corrispondenze giovanili, gli esordi letterari e i primi amori della Deledda; a lungo combattuta – un po’come già Leopardi, diremmo -tra l’amore per la sua terra natale e l’uggia quotidiana provata nel vivere in “borgo selvaggio” che non puo’ che andarle sempre piu’ stretto.
Nel 1892 – vero anno chiave della storia d’Italia, che vede il primo governo Giolitti, la rivolta popolare dei fasci siciliani, lo scandalo della Banca Romana e la nascita, al congresso di Genova,in agosto,del Partito dei Lavoratori Italiani, il futuro PSI – la Deledda pubblica sul quindicinale “La vita sarda” la sua prima recensione, riguardante il romanzo “Vigliaccherie femminili”, del giornalista e scrittore Giulio Cesari. Nipote di quel Padre Antonio Cesari in passato protagonista di polemiche “cruscanti” sul purismo nella lingua italiana, e amico di Italo Svevo. E’ il primo passo di un viaggio che porterà gradualmente Grazia a contatto con l’ ambiente cosmopolita e poliedrico della mitteleuropea Trieste di fine ‘800- primi decenni del ‘900: la Trieste, in definitiva, di Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, del gallerista e critico d’arte Leo Castelli e di un certo James Joyce, agli inizi della sua parabola…
Nel libro, Neria de Giovanni ha potuto pubblicare – vera “chicca” filologica- la riproduzione dell’originale (4 fogli scritti fronte/retro) della recensione deleddiana del romanzo di Cesari, donatole, nel 2004, dall’avvocato Pasquale Giordano, professionjsta romano e collezionista d’arte; che l’aveva avuta, a sua volta, dal prozio Arturo Giordano, a suo tempo in corrispondenza con Grazia Deledda.
Sempre all’ aspra, quanto nobile, terra di Sardegna, appartiene un’altra autrice che ha pubblicato con Nemapress: Maria Teresa Petrini, medico, docente di geriatria all’ Università di Cagliari, membro dell’ AMSI, Associazione Medici Scrittori Italiani, nell’ XI legislatura eletta consigliere regionale e poi Presidente della commissione Cultura del Consiglio regionale sardo. “La magia dei ricordi nascosti” (2019, e. 18,99) . Un romanzo che trasporta invece il lettore nella Sardegna di oggi, sospesa tra sviluppo tecnologico e fascino del suo millenario passato, natura straordinaria e spinte indipendentiste: la Sardegna di Gavino Ledda, delle miniere del Sulcis e di…Graziano Mesina. Sì, perché al centro del romanzo c’è la vicenda di un sequestro di persona: che subisce Anna Marchi, medico originario di un paesino della Barbagia, improvvisamente rapita da professionisti del sequestro per torbidi interessi politici. In uno scenario da film, con tecnica appunto cinematografica, la Petrini narre le peripezie di Anna Marchi (suo possibile “alter ego”. diremmo), indulgendo a un joyciano ”giocare a rimpiattino” con sogni e ricordi.
Biografia di Grazia Deledda-Scrittrice italiana (Nuoro 1871 – Roma 1936). Scrittrice intensa e feconda, la sua fama si diffuse anche all’estero; nel 1926 le fu conferito il premio Nobel per la letteratura. La sua narrativa muove dal verismo a fondo regionale e folcloristico: cronache e leggende paesane, storie di passioni elementari e di esseri primitivi; ma a un mondo del peccato e del male, sentito come fatalità, e rappresentato con cupi accenti, si accompagnano o piuttosto si contrappongono un’ansia di liberazione e di riscatto, un estroso e romantico senso della vita, che trovano espressione soprattutto nella leggerezza idillica e trasognata del paesaggio.
Vita e opere
Sposatasi nel 1900 con P. Madesani, si trasferì a Roma. Esordì giovanissima con novelle e romanzi, pubblicati in modesti giornali e riviste; la prima notorietà le venne dal romanzo Anime oneste (1895), presentato da R. Bonghi, a cui seguirono La giustizia, 1899; Dopo il divorzio, 1903, ristampato col titolo Naufraghi in porto, 1920; Elias Portolu, 1903; Cenere 1904; L’edera, 1908; ecc., che presentano inconciliati i termini del dualismo tra il mondo del male e l’ansia del riscatto. Ma via via, come quella visione religiosa che la D. ha della vita viene temperando il suo biblico rigore in un senso di cristiana pietà, così quel contrasto tra verismo e lirismo viene sempre meglio componendosi in un’aria incantata, favolosa, dove le vicende umane arcanamente s’intrecciano con quelle della natura e del paesaggio. Le novelle di Chiaroscuro (1912), i romanzi Colombi e sparvieri (1912) e Canne al vento (1913) segnano i varî gradi di questo processo di fusione tematica e stilistica, il quale culminerà nei romanzi e racconti del cosiddetto secondo periodo o maniera della D. (Il segreto dell’uomo solitario, 1921; Il Dio dei viventi, 1922; Annalena Bilsini, 1927; La vigna sul mare, 1932; Cosima, post., 1937; ecc.), che mostrano come la sua narrativa, affrancatasi ormai da ogni regionalismo, per certi aspetti partecipi (fra gli autori prediletti della D., insieme con Verga e i romanzieri russi, ci fu sempre D’Annunzio) di quell’atteggiamento della sensibilità e del gusto che va sotto il nome di “decadentismo”.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
5) Giovan Battista Grassi- medico, zoologo, botanico ed entomologo –
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage-5)Giovan Battista Grassi- medico, zoologo, botanico ed entomologo–: Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Rovellasca (Como)-Casa natale di Giovan Battista Grassi, scienziato e Senatore del Regno
Giovan Battista Grassi, scienziato di fama mondiale per gli studi di zoologia e per l’individuazione del vettore della malaria, nacque a Rovellasca il 27 Marzo 1854 da Luigi Battista Grassi, funzionario pubblico, e Costanza Mazzucchelli di origine contadina.
Nel 1872 si diplomò presso il Regio Liceo Volta di Como e nel 1878 si laureò in medicina all’Università di Pavia. Si dedicò alla biologia e alla zoologia. A Heidelberg, in Germania, incontrò la ricercatrice Marie Koenen, dapprima sua assistente e poi sua moglie. Nel 1883, a soli 29 anni, fu nominato Professore di Zoologia, Anatomia e Fisiologia Comparata all’Università di Catania.
Le sue ricerche gli procurarono fama internazionale e nel 1895 ottenne il trasferimento all‘Università di Roma.
Il 28 Novembre 1898 dichiarò, in una nota all’Accademia dei Lincei, di aver ottenuto la prova sperimentale della trasmissione del parassita della malaria e l’identificazione della specie di zanzara vettrice nell’uomo.
Dopo la delusione per il Premio Nobel al britannico Ronald Ross per un analogo studio sulla malaria, Grassi iniziò a dedicarsi alla medicina sociale e all’entomologia. Intanto, si diffuse l’idea che quel Premio Nobel spettasse a Grassi e nel 1910 la prestigiosa Università di Lipsia gli conferì la Laurea Honoris Causa per le sue “subtilissima sagacissimaque investigationes” sul contagio malarico, sottolineandone la preminenza (in primis vero).
Dopo la prima Guerra Mondiale, con un nuovo picco di diffusione della malaria in Italia, tornò ad occuparsi di questa malattia, scoprendo l’esistenza di una specie di anofele (zanzara) che non punge l’uomo, ma solo gli animali; ipotesi poi confermata da Falleroni (1926). Grassi venne insignito di numerose medaglie e onorificenze da tutto il mondo; fu anche nominato nel 1908 Senatore del Regno.
Grassi morì a Roma il 4 Maggio 1925 e fu sepolto, secondo le sue ultime volontà, nel piccolo cimitero di Fiumicino.
Giovan Battista Grassi- medico, zoologo, botanico ed entomologo.
Biologo italiano (Rovellasca 1854 – Roma 1925), prof. di zoologia a Catania (1883) e di anatomia comparata a Roma (1896); socio nazionale dei Lincei (1897). Le sue prime ricerche vertono sui vermi parassiti, di molti dei quali fece conoscere il ciclo di sviluppo; si dedicò poi a lavori di zoologia e anatomia comparata su altri gruppi, fra cui notevoli la monografia sui Chetognati (1883), e le sette memorie sui progenitori dei Miriapodi e degli Insetti (1886); del 1893 è la fondamentale memoria sulla costituzione e lo sviluppo della società dei Termitidi; del 1892-93 la dimostrazione della trasformazione del leptocefalo in anguilla. Negli stessi anni iniziò le ricerche sulla malaria degli uccelli, estese poi alla malaria umana, che lo condussero a determinare l’agente trasmettitore (1898). Al problema della malaria il G. dedicò in seguito tutta la propria attività fino alla morte, iniziando la profilassi antimalarica nell’Agro Romano. Si occupò anche dei Flebotomi e della fillossera, nonché di problemi generali e storici. Uomo di vastissima cultura, d’attività instancabile e d’inesauribile passione per la ricerca, ebbe notevolissima influenza anche come insegnante. Nel 1908 fu nominato senatore del Regno.
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Poesie di Meira Delmar – poetessa colombiana di origini libanesi-
Meira Delmar, era figlia di immigrati libanesi e compì gli studi a Barranquilla per poi trasferirsi a Roma, dove si laureò. Non si sposò mai perché, secondo le sue stesse parole, “aspettava l’amore, e non è mai arrivato”. La ricompensa a questa assenza tuttavia fu non solo la fortuna di avere grandi amici, ma anche l’ispirazione che fece di questa attesa il filone d’oro della sua poetica, attraversata da una sensualità di fondo: così ha analizzato i percorsi dell’amore e dell’oblio, descrivendo la vita con toni pacati e una gozzaniana nostalgia per ciò che non può essere. Della sua poesia la scrittrice colombiana Águeda Pizarro ha detto che “si legge come si osserva un tramonto sul mare. Ci illumina con il ricordo del giorno passato e della coscienza, tornasole come lo è il tramonto della notte che segue”.Fonte-Le Poesie provengono da -Maledetti Poeti-Blog- Il Canto delle Sirene
ASSENZA DELLA ROSA
Sospesa
nel fiume trasparente
del vento,
con un altro nome, amore,
la chiamerebbe
il cuore.
Non resta niente
del suo profumo. Nessuno
può credere, crederebbe,
che qui c’era la rosa
in un altro tempo
Soltanto io so che se faccio scivolare
la mano nell’aria, ancora
mi feriscono le sue spine.
(da Liuto della memoria, 1995)
. . CASIDAS DELLA PAROLA
1. Lampeggia, fuggendo,
la parola.
Oro del pesce che svanisce
nella schiuma, improvviso.
2. Cade dall’albero
la parola foglia.
Il poeta la segue.
Non la raggiunge.
Così giace a terra
quando avrebbe potuto
ah! vivere nel verso.
3. Arriva
la parola.
La voce vuole
afferrarla.
Ma fugge e si perde
sul dorso
dell’aria
4. Solo,
nell’azzurro mattino vola
un airone.
Lo sa Dio quale poeta
distratto
si è lasciato scappare
una parola
(da Liuto della memoria, 1995)
. MEIRA DELMAR BREVE
Arrivi quando meno
ti ricordo, quando
più lontano sembri
dalla mia vita.
Inatteso come
quelle tempeste che si inventa
il vento
un giorno immensamente azzurro.
Poi la pioggia
trascina i suoi stracci
e cancella le tue impronte.
. Il ricordo talvolta appare così, proprio come un improvviso annuvolarsi del cielo, un incresparsi dell’acqua, come lo evoca la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar. Il ricordo rimane dentro di noi, in remote lande di sinapsi e di neuroni, per poi affiorare senza preavviso. È qualcosa che ci lavora dentro, e forse è vero quello che scrive Hermann Hesse: “Credo anch’io che la nostra vita e le nostre percezioni si sviluppino a partire da un groviglio di ricordi sommersi. Forse quello che chiamiamo anima non è se non l’insieme di questi oscuri detriti di ricordi”. Poi viene la pioggia, sotto forma di oblio, a sciogliere quelle arcane macerie, a cancellare le tracce misteriosamente riapparse.
MEIRA DELMAR BREVE
Arrivi quando meno
ti ricordo, quando
più lontano sembri
dalla mia vita.
Inatteso come
quelle tempeste che si inventa
il vento
un giorno immensamente azzurro.
Poi la pioggia
trascina i suoi stracci
e cancella le tue impronte.
.
Il ricordo talvolta appare così, proprio come un improvviso annuvolarsi del cielo, un incresparsi dell’acqua, come lo evoca la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar. Il ricordo rimane dentro di noi, in remote lande di sinapsi e di neuroni, per poi affiorare senza preavviso. È qualcosa che ci lavora dentro, e forse è vero quello che scrive Hermann Hesse: “Credo anch’io che la nostra vita e le nostre percezioni si sviluppino a partire da un groviglio di ricordi sommersi. Forse quello che chiamiamo anima non è se non l’insieme di questi oscuri detriti di ricordi”. Poi viene la pioggia, sotto forma di oblio, a sciogliere quelle arcane macerie, a cancellare le tracce misteriosamente riapparse. MEIRA DELMAR IL RICORDO
Questo giorno dall’aria di colomba
sarà presto ricordo.
Mi riempirò di esso
come un’anfora di vino,
per berlo a sorsi quando vorrò
ritrovare il suo sapore.
Prima che voli nel tramonto, prima
di vedere come svanisce nella notte. . Il tempo che scorre inesorabile, il susseguirsi dei giorni, il presente che si trasforma in passato e inevitabilmente in memoria: la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar riesce però a cogliere un istante, a scoprirne un’armonia da conservare. È allora, forse, che “il tempo, fermato, trabocca / come un fiume d’oro. / E lascia scorgere sul suo fondale / chissà quali cose dimenticate”.
MEIRA DELMAR ISTANTE
Vieni a guardare con me
la fine della pioggia.
Cadono le ultime gocce come
diamanti staccatisi
dalla corona dell’inverno,
e torna a essere
nuda l’aria.
Presto un raggio di sole
accenderà il verde
del cortile,
e salteranno sul prato
ancora una volta gli uccelli.
Vieni con me e infilziamo l’istante
– farfalla di vetro –
su questa pagina.
. L’istante, il momento, l’attimo esatto in cui l’emozione si presenta: la poetessa colombiana Meira Delmar ne comprende appieno la portata, tanto da volerlo fermare, bloccare, fossilizzarlo per poterlo poi rivivere nella memoria. MEIRA DELMAR LAGGIÙ
Se un giorno dall’altro lato della vita
per caso noi di nuovo ci incontrassimo,
i nostri occhi si riconoscerebbero
o saremmo soltanto due estranei?
Ad ogni modo, ti amerei lo stesso
insieme o separati.
(da Passa qualcuno, 1998)
. La nostalgia dell’impossibile, il desiderio di qualcosa che non può essere se non nei sogni è alla base di gran parte della poetica di Meira Delmar, autrice colombiana. Questo anelito per un amore atteso e mai giunto, oppure arrivato e perduto, non è però fine a se stesso, è un perenne stato di vita, è il sottofondo di un’intera esistenza.
. MEIRA DELMAR LA SERA
Ti dirò della sera, amico mio.
La sera di campane e violette
che spargono lentamente il loro piccolo
firmamento di profumo.
La sera in cui non sei.
Il tempo, fermato, trabocca
come un fiume d’oro.
E lascia scorgere sul suo fondale
chissà quali cose dimenticate.
Il giorno si volge ancora in un lampo
del sole,
e spilla farfalle dorate
sul vetro dell’aria…
Suona un flauto nel silenzio, una
malinconica bocca innamorata,
e nella torre tinta dal crepuscolo
le colombe ripetono il loro bianco.
La sera in cui non sei… la sera
in cui ti desidero.
Qualcuno che non conosco,
apre segretamente i gelsomini
e vi rinchiude una a una le parole.
. La malinconica dolcezza di un tramonto, la bellezza dolorosa della luce del crepuscolo, quando la lontananza della persona amata fa più intenso il desiderio: così la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar racconta le sue sensazioni e le sue emozioni al calare della sera: “Vieni con me, / vieni al mio fianco / a guardare con i miei occhi / versarsi nel mare / il tramonto”.
MEIRA DELMAR PROFUMO
Ti ho ancora, amore,
come se mai
mi avessi lasciato.
Le tue mani percorrono
dolcemente il mio viso,
e sento la tua voce in un
sussurro
sfiorarmi l’orecchio.
Ti ho ancora
e penso al profumo
che di nuovo mi ferisce
sebbene il gelsomino non esista.
(da Qualcuno passa, 1998)
. Quel profumo che “di nuovo ferisce” la poetessa colombiana Meira Delmar è quello dolce e amaro del ricordo, della nostalgia che si trasforma in un’acre malinconia. È allora che “Il tempo, fermato, trabocca / come un fiume d’oro. / E lascia scorgere sul suo fondale / chissà quali cose dimenticate. // La sera in cui non sei… la sera in cui ti desidero”.
MEIRA DELMAR QUESTO AMORE
Come andare quasi insieme
ma non insieme,
come
camminare fianco a fianco
e tra noi due un muro
di vetro,
come il vento
del sud che chiamano
Vento del Sud sembra
che fugga con il suo nome,
questo amore.
Come il fiume che unisce
con le sue mani d’acqua
le rive che separa,
come anche il tempo,
come la vita,
che scorrono vivendo,
lasciandoci
ogni volta meno nostri
e più suoi,
questo amore.
Come dire domani
e pensare mai,
come sapere che non andiamo
da nessuna parte
e tuttavia niente
potrebbe fermarci,
come la mitezza
del mare, che è il rovescio
di tempeste nascoste,
questo amore.
Questo
amore disperato. (da Ricongiungimento, 1981)
. “La sera in cui non sei… la sera / in cui ti desidero”: è lontano l’amore di Meira Delmar. La poetessa colombiana di origini libanesi ha costruito tutta la sua poetica su questa assenza, su questa continua attesa dell’amore che diventa un disperato desiderio: “Di quell’amore che mai è stato mio / e tuttavia si è preso la mia vita / resta una nostalgia ribadita / all’infinito, che pianga o che rida”. MEIRA DELMAR REMINISCENZA
Si incrociarono un breve istante
il tuo sguardo e il mio.
E seppi all’improvviso
– non so se anche tu –
che in un tempo
senza anni né orologi,
un altro tempo,
i tuoi occhi e i miei
si erano incontrati,
e quella di allora
non era che un’eco,
l’onda che ritorna,
attraversando mari,
all’antica spiaggia.
. Gli antichi uomini – mito narrato nel Simposio di Platone – erano forniti di due teste, quattro braccia e quattro mani e di entrambi i sessi, e con la loro forza arrogante mossero guerra gli dei: per punirli Zeus decise di tagliare ciascuno di essi in due “come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo”. Ogni metà è condannata ad andare in cerca dell’altra metà. È un mito, d’accordo, ma capita talvolta di incontrare una persona e di sentire quell’emozione, di pensare che sia la nostra altra metà separata, quella che si definisce anche “anima gemella”. È il caso raccontato dalla poetessa colombiana Meira Delmar, la percezione di essersi già incontrati, di essere l’altro atteso per anni: basta uno sguardo per far ritornare l’onda partita un giorno alla stessa spiaggia dove nacque. . Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo. Maledetti Poeti-Meira Delmar (Barranquilla, 1922 – Barranquilla, 2009), <<Nella mia poesia c’è sempre l’amore, però anche il dolore.E, come figura principale, la nostalgia.>> *Dichiarazione di poetica di Meira Delmar (Barranquilla, 1922 – Barranquilla, 2009), una delle più importanti e famose autrici sudamericane di liriche del ventesimo secolo. Nata da genitori libanesi, la poetessa colombiana compì gli studi a Barranquilla ed a Roma, dove si laureò. Lavorò in seguito come professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura e, dal 1958, diresse per 36 anni la Biblioteca Pública Departamental del Atlántico, struttura che oggi porta il suo nome. Già nel 1950, quando era appena ventottenne, la sua celebre collega uruguaiana Juana de Ibarbourou le riconosceva in una lettera: “Voglio che tu sappia che per me il primo poeta colombiano sei tu, e che, nonostante la tua giovinezza, sei anche, per me, tra i grandi d’America.” Secondo l’ispanista Martha Canfield, la Delmar svolse anche un ruolo pionieristico per la letteratura femminile latinoamericana in un’epoca, a metà del Novecento, in cui la Poesia era nel suo Paese appannaggio degli autori maschi: “In un panorama dominato dal segno maschile, una delle prime e costanti eccezioni è proprio la poetessa della Costa Atlantica, la dolce e nostalgica, forte e lucida Meira. La sua figura deve essere considerata come eccezionale e dirompente, la prima di una lunga e ricca serie di scrittrici cui lei stessa, probabilmente, apre la strada.” Sulla sua opera, afferma la scrittrice Águeda Pizarro: “La sua poesia si legge come si osserva un tramonto sul mare. Ci illumina con il ricordo del giorno passato e della coscienza, tornasole come lo è il tramonto della notte che segue.”
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PARLAMI DEL MARE (Meira Delmar, pseudonimo di Olga Isabel Chams Eljach)
Amica mia, dici,
parlami del mare.
E ti racconto della mia infanzia
che mi insegnò a guardare
la terra come terra,
come cielo il mare.
La valle, la montagna,
erano la realtà.
Il mare l’incertezza
il sogno, l’inquietudine.
E io, tu lo sai bene,
sono rimasta con il mare.
Un giorno vicino al molo
un vecchio pescatore,
tra le mani da bambina
mi mise una conchiglia.
La portai all’orecchio,
ne riconobbi il suono
e iniziò a diventarmi
fugace il cuore,
come fragile barca
che porta una canzone.
Attraverso le mie vene che partono
da un lontano Simbad,
me ne vado, strano cammino,
a cercare un altro mare
dove un giorno mi vedranno
navigando a caso,
la distanza negli occhi,
il viso contro il vento.
Ancora mi bacia le labbra
il sapore del sale.
Amica mia, dici,
parlami del mare!
VERDE MARE
Dal tanto amarti, mare,
il mio cuore è divenuto
marinaio.
E mi inizia a cantare
sui pennoni d’oro
della luna, nel vento.
Qui la voce, il canto,
il cuore lontano
dove risuonano i tuoi passi
lungo le rive del porto.
Dal tanto amarti, mare,
la tua assenza mi fa soffrire
fin quasi a farmi piangere.
Mare!
Ed è come se, all’improvviso,
fosse tutto chiaro.
Angeli nudi, angeli
di brezza e luce. Il canto
dell’acqua che danza,
sarabanda di cristallo.
Isole, onde, conchiglie.
Bianco grido di sale…
E il cuore, battito
dopo battito, dice Mare!
Meira Delmar, poetessa colombiana di origini libanesi, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, era figlia di immigrati libanesi e compì gli studi a Barranquilla per poi trasferirsi a Roma, dove si laureò. Non si sposò mai perché, secondo le sue stesse parole, “aspettava l’amore, e non è mai arrivato”. La ricompensa a questa assenza tuttavia fu non solo la fortuna di avere grandi amici, ma anche l’ispirazione che fece di questa attesa il filone d’oro della sua poetica, attraversata da una sensualità di fondo: così ha analizzato i percorsi dell’amore e dell’oblio, descrivendo la vita con toni pacati e una gozzaniana nostalgia per ciò che non può essere. Della sua poesia la scrittrice colombiana Águeda Pizarro ha detto che “si legge come si osserva un tramonto sul mare. Ci illumina con il ricordo del giorno passato e della coscienza, tornasole come lo è il tramonto della notte che segue”.
Risvolto del libro di Vladimir Nabokov-Lezioni di letteratura russa-Due volte esule, dalla Russia comunista e dall’Europa nazista, negli Stati Uniti Nabokov insegnò per quasi vent’anni letteratura russa al Wellesley College e in seguito alla Cornell University. Erano lezioni memorabili in cui, con paziente tenacia, richiamava l’attenzione su oggetti o particolari che sembrano non avere alcuna rilevanza artistica: la borsa rossa di Anna Karenina; la fetta di cocomero che Gurov mangia rumorosamente in una stanza d’albergo nella Signora col cagnolino o il vestito «serpentino» di Aksin’ja in un altro racconto di Čechov, «artista perfetto»; la ruota del tondeggiante calesse sul quale, in Anime morte di Gogol’, il tondo Čičikov, ipostasi dell’enfia volgarità universale, arriva nella città di NN. Maestro atipico, spericolato, Nabokov avrebbe voluto trasformare gli allievi in «buoni lettori», quelli che non leggono un libro per identificarsi con i personaggi, e tantomeno per imparare a vivere, giacché la vera letteratura – gioco sacro, superiore forma di felicità – non insegna nulla che possa essere applicato ai problemi della vita. Metteva in guardia contro il veleno ideologico del «messaggio» e contro ogni tentativo di cercare la famigerata «anima russa» nell’opera di giganti come Tolstoj, Čechov, Gogol’ e il pur disamato Dostoevskij. Il professor Nabokov non ha alcun metodo, alcun approccio critico: con gli unici strumenti della passione e di una precisione infinita, si limita a scoprire la magia delle parole nelle loro più segrete combinazioni. E noi, come i suoi studenti, lo ascoltiamo incantati mentre va dritto al cuore di questo o quel capolavoro.
In copertina
Konstantin Andreevič Somov, Giovane donna sullo sfondo di un giardino (1913). Collezione privata. heritage image partnership ltd / alamy stock photo
Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Per la mano sinistra
La forma è limpida – per esprimere cose e opache.
Ma se, dalla porta in cui appaio, fossi già scomparso?
Certi giorni, che trascorrono senza di me.
Scrivere è un atto di violenza, un magico errore, una gioia senza nome.
La poesia non nasconde e non svela.
La forma della poesia confluisce in suoni che ne cancellano l’architettura.
Prima di scrivere, maturo la gioia di tacere.
Sciolse la scena del disastro con parole che risuonarono armoniose.
Somigliando a qualcuno mi scopro inimitabile.
Lo spostamento di un avverbio è più eversivo di una rivoluzione vittoriosa.
Le opere inessenziali hanno una grazia particolare.
I fiumi si differenziano per i detriti che trascinano.
***
La pertinenza del testo: modulare una passione.
Le perfezioni sono attimi.
La poesia è abitare desideri impossibili.
Il fulmine frantuma lo specchio che riflette il lampo.
Lo scrittore ha un solo dovere: essere cosciente delle proprie visioni.
Perché la mia lingua sia vera, deve averla nutrita il buio.
L’immobilità: limite estremo del rallentamento del moto.
Lo scoglio non esaurisce il flusso delle onde.
Scrivo per prepararmi a scrivere in qualche impossibile giorno
Siamo perduti, solo se siamo stati ingiusti.
Disimpari lo stupore e cominci a morire.
Disorientare il presente: sopravvivere.
***
Allo scrittore accade di anticipare se stesso senza conoscersi ancora.
La parola è indicibile. Ma occorre scrivere per saperlo.
Morirò per non essere sopraffatto dalla morte.
Maldestri e inutili, stupidi e balordi. Eletti.
Qualcuno si crede originale per eccesso d’ignoranza.
Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza.
Non c’è nulla di conforme: mi aiuta la scienza del deforme.
Nascere sempre nel tempo sbagliato.
Scrivo per ripetere ciò che non sono. Per allontanarmi da me
Non avendo più nessun desiderio, come posso desiderare la morte?
Solo quando la casa va a fuoco, è visibile la sua architettura.
***
Chi è cieco grida di non vedere. Non scrive aforismi sulla cecità.
Distruggere quel suono solo per aprire le orecchie a un altro suono.
L’arte, consumando opere, non si annulla ma cambia forma.
La parola è trasparenza dell’io all’esperienza dell’abisso.
Non si crea verità ma la si dissotterra.
Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. Da dove si inizia?
Un uomo che guardi se stesso da lontananze estreme e trovi un linguaggio possibile.
La forma dell’io, alla radice, è visione del non-io: vertigine dello specchio.
Un dio – ma simile al fumo che sale dalle macerie.
La forma più primitiva del sapere è un soffio di vento.
Il passato non è mai certo della sua estinzione.
***
La follia, come l’arte, presume di sconfiggere la morte.
La scrittura è spartito per la voce.
Troppe parole, nella pagina, e pochissimi ricordi, nella mente.
Uccidermi sarebbe perdere il flusso vivente di cui solo io sono occhio e orecchio.
Avvicinarsi alla mancanza di maschere è la via maestra per togliersi la vita.
Scrivere è parlare di un vento di cui non ricordiamo il suono.
Nessuna interiorità è personale.
Tutte le idee vengono dal sonno.
Solo chi si sveglia può osservare dormire.
Dormire è appartenere al segreto di un altro.
All’interno del sonno c’è un risveglio di cui la scrittura è complice.
Il testo è il risveglio ma il fondo della parola è il sonno.
Stile: gioco di equilibri attorno a un precipizio.
***
La scrittura è il sogno illegittimo ma reale della resurrezione.
Il sonno rende la veglia un territorio misterioso.
La vita: progressivo misconoscimento del mondo.
Ci sono fantasmi che devono esistere per noi e oltre di noi.
Farsi sopraffare dalle voci è la volontà di creare un non-luogo della letteratura.
Il punto più in ombra corrisponde al centro della luce più intensa.
Disegni fatti di fuliggine e cenere, di ciò che è esistito ed è bruciato.
Il vero incendio è dove soffochi, non nel chiarore delle fiamme.
Ricordo impossibile: il sole sotto il cuscino.
L’opera deve restare segreta, se occorre, contro il suo stesso autore.
Annotare, ma lentamente.
***
Missione impossibile ma necessaria: trovare le frasi lucide dello stordimento.
E’ l’opera stessa a inventare l’io nel quale vuole esprimersi.
La scrittura può descrivere i colori, ma ogni descrizione è un’ombra.
La musica tradisce il corpo meno della parola.
Della musica attrae il silenzio suscitato dalle note.
Scrivere: emorragia che non può essere fermata.
Ci sono ferite che richiudere sarebbe un delitto.
Aveva molto buio, nelle dita.
Accettare il fallimento personale come la linfa necessaria.
***
Perseverare nel sogno: scegliere il delirio contro l’annientamento.
Alcuni intervalli, dentro il mio sonnambulismo: gli atti vitali.
Riposare dai miei folli. Non vivere più in loro ostaggio.
Ritrovare, sotto il torace, la gaia, palpitante oppressione di creare.
Letteralmente non togliere mai la penna dal foglio.
Stupirsi per chi ti chiede cosa stai scrivendo.
I libri: la propria ferita, inarrestabile, scesa a patto con delle cicatrici.
La «cifra del tappeto» di tutta la mia opera è la necessità di vivere nonostante.
Per chi esige una certa luce, l’ombra non sarà mai sufficiente.
Non vivere neppure un attimo senza le potenzialità della parola.
Pagina mai vuota – inesauribile esorcismo.
Silloge dal titolo celaniano, incantevole: Da quale rupe riflessa (finalista al Premio Lorenzo Montano 2021, sezione «Raccolta inedita»). Ossia: dall’impossibilità di guardare in faccia, senza schermi, la luce. E qui si parla di giochi sui sipari che sono riverberi di oggetti deprivati di consistenza, ombre d’acqua, resti del diluvio.
Marco parla di uno «stormire» come brezza della dismisura oceanica più che brusio di foglie. L’acqua e l’aria appaiono elementi trionfali e trionfano, vorticosi e dolorosi elementi, sulla terra e sul fuoco, esperienze deludenti. Che il poeta si sia annidato nel riflesso per deviare l’urlo del ‘reale’ lacaniano, della Chose?
Protezione, forse, raffica parata continuamente per un indice di salvezza. Ercolani tenta di mettersi salvo, lungi dal suo credo ogni senso o sentimento della Redenzione. Sparire è il suo traguardo, nel silenzio, tra le ammirate nuvole, tra i fumi e gli ectoplasmi di una Genova opaca e graffiante, sparire, walserianamente. Quasi un sì, quasi un’obbedienza in extremis. Obbedienza all’altrove, alle nebbie.
Poesia mentale, tutta tesa alla cosa estraente, al nucleo e alla polvere particellare. Fino al sinistro di certe ombre persecutrici. Ombre che sopraggiungono allorché la distanza si fa più netta ed esatta. Appare allora il desiderio taciuto del salto, l’affondo nel buio. Non un buio romantico, decadente, ma deangelisiano, irto di editti e spaventi.
Tutto avviene, scrive il poeta, come se «quel lungo incredibile altrove […] non esistesse e l’aria fosse / ancora quel precipizio del volo perfetto / sopra la pietra finale».
Alfonso Guida
***
Non parli la nostra lingua
arrivi e non parli:
guardi quel doppio sole,
come i fuggiti dal mondo guardano,
senza lacrime dopo la fuga,
la doppia luce e non abbassano gli occhi.
Arrivi, e questo cielo a picco
è tuo.
***
Cenere sognata dai morti
numero primo –
sillaba.
Senza una parola che rompa il muro della lingua
posso trascrivere me?
Vagabondo nelle stazioni
ma non ho occhio di folle.
La corda dondola vuota dal ramo.
Quale testa sprofonderà nell’ombra?
***
Qui non foglie, non alberi,
ma l’immagine esatta di una porta
nel profumo del giorno.
I venti, sulla maniglia,
indifferenti alla morte.
Torniamo
verso la luce bianchissima
inventiamo
un cielo mai, mai
notturno.
La vista ritorni,
del mare muto.
Marco Ercolani è nato nel 1954 a Genova, dove vive e lavora come psichiatra. S’interessa alla poesia contemporanea e al rapporto arte-follia. Numerose sono le sue pubblicazioni, in ambito sia scientifico sia letterario, sia come unico autore sia in coppia con Lucetta Frisa.
* Marco Ercolani, Nel fermo centro di polvere (Il Leggio, Chioggia (Ve), 2018
LA POESIA COME ENIGMA NECESSARIO
Marco Ercolani è nato a Genova nel 1954. E’ psichiatra e scrittore. Artista complesso: narratore, critico letterario, saggista, curatore di collane, aforista, poeta. Insomma un autore che pratica la parola ed usa il linguaggio nelle sue forme, stili e strutture diverse. Come ha scritto Dario Capello, questo “È il libro di un poeta che da sempre conosce il senso della vertigine, del doppio movimento, imprendibile, delle cose e della lingua che le nomina. La parola di Marco Ercolani è qui scagliata, scagliata fuori dal suo stesso fluire ritmico, dopo essere stata a lungo macerata, febbrilmente meditata.” E’ la padronanza del linguaggio che prima di tutto colpisce in questa raccolta raffinata, articolata, profonda. La lingua qui “ritrova una forza non comune, un’originalità di dizione che altri poeti hanno perduto o non sanno trovare” (così scrive Antonio Devicienti nella sua introduzione) per cui la raccolta è portatrice di un piacere in sé, quello di incontrare una scrittura forte e piena, consapevole e ricca di sfumature. In un momento storico in cui la perdita di qualità del linguaggio va di pari passo con lo scadere della qualità della vita sociale e culturale del nostro Paese, credo che Ercolani ci offra una via di riflessione critica necessaria. Persona che analizza lucidamente, spietatamente il proprio lavoro, autore critico con se stesso, come con gli altri, Ercolani, nell’intervista curata da Gabriela Fantato che arricchisce il libro, chiarisce il senso del suo lavoro e della sua poetica. “La poesia, in quanto enigma, è esperienza dell’inconciliabile. Tutto non è mai come appare: l’universo di ogni parola ha l’inafferrabilità e la potenza del miraggio. La magia del canto incrina la compattezza del discorso, lo dissolve…”. La scrittura di Ercolani, per sua stessa indicazione, cerca “sequenza musicali” che nascono non dalla retorica (vera o presunta) della rima, ad esempio, ma dalla forza intrinseca dei significati che il poeta esprime, allude, indica, scolpisce. La poesia assume così un senso ontologico, fluttuante magari in certi momenti, ma sempre determinato. La poesia di Ercolani è un viaggio che cerca l’Altro dentro di noi e così facendo si sorprende e sorprende il lettore di pari passo. Il lirismo di Ercolani è di una forma diversa da quello abituale: siamo dinnanzi ad un lirismo “metafisico” non perché trascenda le cose, ma perché accede alle cose, entra nel vivo della materia poetica. Un lirismo quindi che sa fondere intelletto ed emozione, riflessione e visione intuitiva. La poesia di Ercolani è colta, ricca di riferimenti espliciti ed impliciti, ma mai pedante; egli sa connettere pensiero e visionarietà, un po’ come accade appunto per la musica. La scrittura nella poesia di Ercolani cerca il senso ed è senso essa stessa nel momento in cui si dice; la lingua accade e così si descrive, riflette su se stessa, propone una direzione a se stessa nel momento in cui indica le cose. Non ci si attenda quindi una poesia cerebrale, intellettualistica: “Nel fermo centro di polvere” è fuoco, passione che brucia, segreto che non si svela, miraggio necessario del nostro andare.
Stefano Vitale
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Lei tace, tu abbandoni le braccia.
Torna segreto, il sole.
Lettere ancora bianche, mai scritte, mai perdute.
Aprono i cancelli. Ma del vento nessuna traccia.
Soffierà, forse.
In cima alle pietre.
Buio agli occhi. Vertigine.
Naufraghi sul tavolo.
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Torre alta. Parto da qui.
Il bianco che le onde lasciano alla notte
è schiuma viva, dove l’acqua evapora:
restano, sempre, le fitte d’ombra dei versi.
Io parlo da qui:
insperabile reale limpida
voce.
Respiro, ma ai miei giorni
manca qualcosa di terrestre e di dolce.
Il lavoro poetico?
Rigorosa dilapidazione.
Essere nel nulla e non salvarsi. Cancellare
le parole nel foglio vuoto.
Leggere le pagine di chi fu vivo
e guardare la bellezza del cielo:
ritardare il congedo dal mondo,
léggere, non
scrivere più,
smettere di ripararsi dal cielo.
Finalmente
non capire.
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Le maschere della mente
Immobile durante il giorno a leggere e a pensare,
ma ogni notte, la testa sul cuscino,
le gambe ferme, a perdifiato
nella terra lucente per sognare,
nella terra sconosciuta, in cima ai torrenti,
fra i monti percossi dai venti,
correre,
con cose strane da guardare,
nessun incubo a potermi spaventare…
Ma poi svegliarsi
e inutile e lungo torna il giorno.
Impossibile trovare la terra non vista,
impossibile riascoltare il sogno:
muto alle parole adulte
diventare il bambino trasparente
che abita la stanza di niente,
fumo di parole
le maschere della mente.
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Ostuni
Dove sono le pietre che l’occhio inventava fra viso e mondo,
la masseria tra gli ulivi, le mura circolari e in alto
l’abbagliante, bellissima Ostuni?
La ricordo e la cerco
mentre scrivo all’interno del foglio,
lettera sotto lettera:
sotterro le frasi
concentro lo spazio
attendo che si laceri
la mia invisibile, affilata parola.
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Tornare e tacere
A chi mi chiede, scrollo la testa.
È un no a ogni domanda:
appena ricorderei
qualcosa come odissee e ciclopi,
uno spazio invaso da navi e acqua,
il mondo interrotto dal ritmo del navigare
fra cieli sotterranei.
Il segreto è tornare, e tacere.
Ciò che ha vibrato
tradurlo in brevi bisbigli e rinascere
in silenzio, la nebbia dissolta,
in una vaga fedeltà
di testimoni di nulla.
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Note sull’Autore Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore.
Per la narrativa scrive: Col favore delle tenebre, Praga, Il ritardo della caduta, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa, Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, Destini minori.
Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, L’opera non perfetta, Il poema ininterrotto, L‘archetipo della parola. René Char e Paul Celan e Fuochi complici.
Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. I suoi taccuini sono raccolti in Nottario. Partecipa al convegno internazionale Bruno Schulz: il profeta sommerso. Suoi testi in riviste (Nuova Corrente, Poesia, La mosca di Milano), antologie (Altra marea) e siti web (La dimora del tempo sospeso, Doppio zero).
Vince il Premio Montano, il Premio per l’Aforisma “Torino in sintesi”, il Premio Morselli e il Premio Smasher. In coppia con Lucetta Frisa cura “I libri dell’Arca” e scrive: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane (Âmes inquiètes, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils, 2011), Sento le voci (J’entends les voix, ibidem, 2011), Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio e Furto d’anima.
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Nota biobibliografica–Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Sergio Vitale–L’arco, il telaio e la tempesta-Giometti & Antonello-Editori-Macerata
Quarta del libro di Sergio Vitale–L’arco, il telaio e la tempesta-Ma se esiste un potere del corpo, i suoi movimenti possono scrollarsi di dosso il peso di automatismi inveterati, sottomessi a sintassi prescritte, e confrontarsi con gli eventi in modo da trasformarli in occasioni (insisteremo su questo termine), attraverso astuzie e trovate ingegnose, capacità di manovra, tiri mancini, estro dell’intelligenza, un vasto insieme di tattiche che gli antichi Greci raggruppavano sotto il termine μῆτις. Detto in termini diversi, è necessario allentare il giogo dei gesti finalizzati allo scopo, perché è tra di essi che s’infiltrano e si nascondono facilmente le strategie del potere funzionali alla sua riproduzione; bisogna cioè sottrarre spazio ai gesti del fare, per donarlo ai gesti dell’agire.
Risvolto
Vi sono parole antiche, enigmatiche e dall’incerta etimologia, che risultano difficilmente traducibili. Una di queste è καιρός, parola greca che nel corso della sua lunga storia ha attraversato svariati campi del sapere e della conoscenza, caricandosi di valori sempre diversi e talora anche opposti. In molti ne hanno tessuto l’elogio: per Esiodo «il καιρός è in tutto la qualità suprema»; Sofocle lo considera «la migliore delle guide in ogni impresa umana»; Polibio riconosce che esso «comanda tutte le opere dell’uomo», e Callistrato, alla fine del basso impero, ci ricorda che «non vi è altro artigiano della bellezza che il καιρός». Ma quali sono i suoi significati, tali da meritargli il riconoscimento di tanta importanza? Per rispondere a questo interrogativo, il libro si propone di ordinare la pluralità di gesti che caratterizzano il fare e l’agire dell’uomo in base a una triplice partizione, corrispondente a tre dimensioni fondamentali del καιρός: tempestività, temporeggiamento e temperie. Queste dimensioni trovano la loro rappresentazione paradigmatica in altrettante scene che il poema omerico dell’Odissea ha reso eterne. La freccia scoccata da Odisseo, capace di trapassare con assoluta precisione gli anelli di dodici scuri; il lenzuolo che Penelope tesse all’infinito, in attesa di ricongiungersi allo sposo; la tempesta, nata dalla mescolanza di condizioni climatiche e atmosferiche diverse, che impedisce il ritorno dell’eroe. In forme, modi e contesti anche molto distanti, i tre modelli del καιρός si ripetono nel tempo, e fanno ad esempio la loro apparizione nel lavoro di Fernand Deligny, nel pensiero di Aby Warburg, nella fotografia di Cartier-Bresson, nel cinema di Andy Warhol o nella musica di Iannis Xenakis, come pure nell’incessante pioggia di atomi epicurea dalla quale è nato e si evolve di continuo il mondo che abitiamo.
Louis GILLET-Gli Artisti francesi in Italia-Copia anastatica della Rivista PAN n°8 del 1934
Louis GILLET– Storico e critico d’arte francese, nato a Parigi l’11 dicembre 1876; ivi morto nel luglio 1943. Il suo primo saggio, intorno alla cattedrale di Chartres, orientò il suo gusto verso il Medioevo. I volumi giovanili su Nos Maîtres d’autrefois e Les primitifs français (1904) chiariscono la natura di una mentalità che si vale della erudizione positivistica ma sa trasfigurarla nell’emozione del bello e nelle relazioni della sensibilità. Gli studî successivi lo interessarono alla conoscenza dell’arte rinascimentale. Il Raphael, scritto durante un viaggio in Italia, è del 1907. Appena uscito dalla Normale fu lettore a Greifswald, poi docente alla Université Laval di Montréal. Altri viaggi in Italia gli consentirono di ammirare la pittura giottesca e fu spinto a scrivere l’Histoire artistique des Ordres Mendiants (1912), dove tracciò il quadro dell’influenza della spiritualità francescana dal Due al Seicento. Dell’anno appresso è l’Histoire de la Peinture Française du XVIIéme et XVIIIéme siècle, di grande perspicuità espositiva. Partecipò alla prima Guerra mondiale e la sua mente acuta di osservatore e di storico ne ricavò vivaci considerazioni raccolte in L’assaut repoussé (1919) e in La bataille de Verdun (1920). Gli studî su L’art flamand et la France erano apparsi mentre durava la guerra. La sua attività continuò intensamente con il libro su Watteau (1921), la redazione del vasto quadro di sintesi su l’Histoire des arts en France (1922) e La Peinture dans les Pays-Bas au XVIéme; XVIIéme et XVIIéme siècle e delle arti in America. Riprese gli studî francescani di cui sono frutto i due volumi su Saint-François d’Assise (1925) e Sur les pas de Saint-François d’Assise (1926); ampliò la precedente trattazione manualistica in La peinture française: Moyen-Age; Renaissance (1928); diede forma definitiva al saggio su La Cathédrale de Chartres (1929). In Cathédrales (1935) studiò le cattedrali di Reims, di San Giacomo di Compostella e ancora quelle di Chartres e di Assisi. La Cathédrale vivante (1936) è un’analisi che cerca di cogliere il senso intimo delle grandi chiese francesi. È stato redattore dal 1917, di letterature straniere alla Revue des deux mondes, e dal 1934 critico letterario all’Écho de Paris. Nel 1929 pubblicò la corrispondenza inedita tra Sainte-Beuve e de Vigny. Libri di viaggio e reportages politici sono Le tapis enchanté, Rome et Naples e Londres et Rome (1936). Collaborò anche, per la storia dell’arte francese, all’Enciclopedia Italiana. Accademico di Francia dal 25 novembre 1935.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Articolo di Antonio Tarallo
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Non solo una grande santa, dottore della Chiesa, ma anche una sublime poetessa-“Il poeta comincia dove finisce l’uomo”, così sentenziava il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset. Santa Teresa d’Avila Dottore della Chiesa, nella sua profonda esperienza mistica, si è servita anche della poesia, oltreppassando così con i suoi componimenti quel guado che divide l’uomo dall’infinito.
Eppure troppe volte sono stati dimenticati i suoi versi in cui è possibile trovare un vero e proprio scrigno di bellezza e di spiritualità. Al loro interno, infatti, è possibile persino scovare quella che sarà poi conosciuta comunemente la “trasverberazione del cuore”, una delle grazie mistiche di cui santa Teresa spiegherà nella sua Vita, l’autobiografia della santa: il dardo, la “freccia” dell’Amore di Dio colpisce il suo cuore, lo tramuta e lo sublima facendolo avvicinare al Cuore di Dio in nozze mistiche. Nozze che, in molte occasioni, sembrano essere celebrate dalla santa nei suoi componimenti poetici: santa Teresa ascende a Dio così come discende nelle profondità della poesia.
Sfogliando queste pagine poetiche, è possibile dividere la produzione in versi in tre determinati gruppi: prima di tutto troviamo le poesie mistiche nelle quali si respira tutta la spiritualità della santa; il secondo gruppo comprende le poesie che hanno come oggetto le feste liturgiche come il Natale, l’Epifania o l’Esaltazione della Croce; e, infine, il terzo gruppo, scritte – come lei stessa le definisce – con “stile di fratellanza e di ricreazione”: sono versi che celebrano avvenimenti interni alla comunità religiosa per allietare le consorelle della comunità monastica.
Tre diverse situazioni poetiche, ma con un elemento in comune ben preciso: la Bellezza. Santa Teresa è stata sempre affascinata – fin dalla fanciullezza – dalla bellezza artistica, nelle sue diverse espressioni, ma specialmente era attratta dall’arte pittorica e scultorea. Più volte, nel libro della sua Vita, si sofferma sul piacere che prova per l’armonia scaturita dalla musica del fruscio della campagna che la circonda. Più volte si sofferma sulle note di una canzone che ha ascoltato. E’ proprio questo, infondo, l’humus dell’anima da cui nasceranno i suoi versi, frammenti poi di una Bellezza ancora più vasta, quella del Signore. Un riassunto della sua visione poetica è possibile trovarlo in questi suoi versi che delineano, tratteggiano con efficacia il suo animo poetico dedicato a Dio: “Bellezza che trascendi/ ogni bellezza!/ Senza ferire, fate soffrire;/ senza dolore, voi fate morire”. Passare in rassegna tutte le poesie che ha composto santa Teresa sarebbe impresa alquanto ardua visto la molteplicità di temi affrontati. Cercheremo, allora, di fare una breve selezione.
Vivo sin vivir en mi (Vivo ma non vivo in me) è questo il nome di una delle poesie-canzoni più importanti della sua produzione. I versi racchiudono ossimori e altre figure retoriche assai care ai poeti, di ogni epoca: “Vivo ma non vivo in me/e attendo una tal vita/ da morirne se non muoio”.
E ancora “Questa divina prigione/ dell’amore in cui vivo,/ ha reso Dio, mio prigioniero/ e libero il mio cuore;/ e causa in me tanta passione/ da morirne se non muoio”. Del tutto particolare, rimane la seconda tipologia di produzione, quella legata alle feste liturgiche. Il loro maggior merito è quello di aver introdotto nei monasteri carmelitani il ricorso alla poesia come componente festiva della vita religiosa. Un tema fondamentale – e non poteva essere altrimenti – per l’ordine carmelitano è quello della Croce che santa Teresa canta in diversi componimenti da condividere con le proprie consorelle. E’ il caso di En la Cruz está la vida (Nella Croce risiede la vita), composta per le religiose del monastero di Soria, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce: “Le religiose la cantano durante la processione che fanno in detto giorno per i corridoi del monastero, recandosi al luogo della sepoltura comune, sotto il coro inferiore. E’ una funzione commovente: si procede a croce alzata, e le religiose tengono in mano rami di palma e di olivo”, così si legge in un antico manoscritto.
I versi che santa Teresa compone per quest’occasione sono versi dal ritmo serrato, scandito da sillabe che vengono cadenzate in rima. Bisogna ricordare che questi componimenti vivevano poi dell’improvvisazione delle consorelle. Si può, dunque, solo immaginare l’effetto vero e proprio che potevano avere. Altra occasione, il Santo Natale: nei monasteri carmelitani si respirava un’aria di particolare gioia durante le feste natalizie; ogni comunità aveva le sue modalità di festeggiare e molte di queste sono state introdotte dalla stessa Santa Teresa e dall’altro poeta carmelitano, San Giovanni della Croce. E’ possibile trovare il tema della notte santa nelle seguenti poesie: Pastores que veláis (Pastori che vegliate), nel componimento Al nascimento de Jesús (Per la nascità di Gesù), e ancora nella graziosa canzone En la noche de Navidad (Nella notte di Natale).
L’entrata di una nuova sorella nel Carmelo era poi celebrata come una grande festa. Ed è così che nascono per queste occasioni speciali alcuni poemetti che riescono a offrirci una sorta di fotografia della vita nei monasteri del Carmelo: “Il leggiadro vostro velo/ dice a voi di stare in veglia/ di montar la sentinella, fino a che lo Sposo venga./ Nella vostra mano accesa/ sempre abbiate una candela;/ sotto il velo state in veglia”.
Santa Teresa, una voce poetica votata al Signore; un forziere di ricordi e immagini che andrebbe riscoperto perché la mistica passa anche per la poesia.
Articolo di Antonio Tarallo-Fonte ACI Stampa
Roma , martedì, 15. ottobre, 2024 16:00 (ACI Stampa).Articolo di Antonio Tarallo Santa Teresa d’Avila, una delle più affascinanti figure della Chiesa.Teresa d’Avila e le sue Opere: pagine di una profondità spirituale inaudita. Leggere le sue parole è come percorrere un viaggio verso Dio. Basterebbe leggere solo alcune righe della sua “Vita”, opera autobiografica della santa, per rendersi conto di quanto la santa mistica spagnola sia importante per comprendere la storia della Chiesa; di quanto sia preziosa la testimonianza dei Santi per il cammino di ogni fedele: “Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano così magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa; Gesù infatti aiuta e dà forza, non viene mai meno ed ama sinceramente. Infatti ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi. Ne ho fatto molte volte l’esperienza, e me l’ha detto il Signore stesso”.
La “Vita” è un’opera fondamentale per entrare nella biografia della Santa d’Avila. I primi 5 capitoli esprimono l’intento fondamentale della Santa e narrano alcuni fatti salienti della sua vita. Il capitolo 6 è dedicato a San Giuseppe e alla devozione a lui rivolta. Bisogna ricordare che su 18 case che Teresa fonderà ben 12 le intitolerà a San Giuseppe. Nei capitoli 7,8,9 e 10 Teresa dà consigli preziosi a coloro che, progressivamente si danno all’orazione. Dal capitolo 11, la Santa accenna ai vari metodi per praticare l’orazione. E per poter meglio spiegarsi farà uso di molte similitudini. Da questo momento in poi, il testo assume l’aspetto di un trattato sull’orazione. Il capitolo 23 è la descrizioni delle immense esperienze mistiche avute nella sua vita. L’ultima parte del libro, infine, racconterà di come si può parlare di una “nuova vita” per la Santa dopo l’incontro intimo con il Signore.
Bisogna poi ricordare un altro testo fondamentale, il “Cammino di perfezione”, testo composto da quarantadue capitoli, che riesce a distillare tutta la sostanza dell’insegnamento teresiano: l’orazione; le virtù evangeliche; la Chiesa e Cristo. E’ un’alternanza di confidenze e consigli personali. E’ appunto un “cammino” al quale il lettore è invitato: l’autrice, lo guida, lo consiglia, lo esorta nella strada che porta alla perfezione.
Ma, sicuramente, il testo più famoso della Santa rimane “Il Castello interiore”. Il testo è un approfondimento dei due libri precedentemente redatti: è uno sviluppo ancor più intenso. Si ispira a un castello con sette stanze, come immagine dell’interiorità dell’uomo, introducendo il simbolo del baco da seta che rinasce farfalla. Nelle pagine, l’eco del “Cantico dei Cantici”, libro del Vecchio Testamento. Troviamo, infatti, una delle figure-immagini più care a Santa Teresa d’Avila (e a San Giovanni della Croce, anche lui Carmelitano): il simbolo dei “due Sposi”. Bellissima l’immagine dell’Amato (Cristo) e dell’amata (Santa Teresa) che si snoda in un dialogo amoroso. Grande importanza è data alle virtù evangeliche che per Santa Teresa d’Avila rappresentano la base, le fondamenta di tutta la vita cristiana e umana: il distacco dai beni terreni, ossia la povertà evangelica; la fraternità del mondo; l’umiltà come amore alla verità; la determinazione e la perseveranza come frutti del coraggio cristiano; la speranza che viene descritta come “sete di acqua viva”.
In tutto questo percorso è importante, ovviamente, la preghiera, l’orazione. Il fare silenzio dentro sé per poter esplorare le “sette stanze”dell’anima. Una preghiera che si amplia, si sviluppa con la crescita nella vita stessa. In sintesi, più si cresce nell’orazione, più si entra in sé stessi nel poter così dialogare con Dio e unisrsi spiritualmente con Lui.
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte- Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Editore Laterza
Descrizione-Nell’indagine di Benedetto CROCE si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Articolo scritto da Domenico BULFERETTI per la Rivista PEGASO n°5 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Descrizione-
Nell’indagine crociana si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Biografia di Benedetto Croce
Biografia di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neoidealismo.
Presentò il suo idealismo come «storicismo assoluto», giacché «la filosofia non può essere altro che “filosofia dello spirito” […] e la filosofia dello spirito non può essere altro che “pensiero storico”», ossia «pensiero che ha come contenuto la storia», che rifugge ogni metafisica, la quale è «filosofia di una realtà immutabile trascendente lo spirito». In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Con Giovanni Gentile – dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti – è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell’idealismo e del neoidealismo italiano che assieme a Gentile contribuì a fondare, partendo dall’aspra critica fatta al materialismo storico e alla filosofia di Marx in Materialismo storico ed economia marxista.
La dottrina crociana improntata alla storiografia ebbe grande influenza politica sulla cultura italiana; Croce, in particolare, con la sua “religione della libertà, è ricordato come guida morale dell’antifascismo”, tanto che fu anche proposto come Presidente della Repubblica italiana. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, insieme con Luigi Einaudi.
Alcune riserve sulla sua estetica, sulla critica letteraria (in particolare sulla sua definizione di «poesia») e sulla superiorità attribuita alla filosofia rispetto alle scienze nell’ambito della logica, tuttavia, sono state espresse in tempi successivi.
D’altra parte, il pensiero di Croce, specialmente quello politico, ha goduto di apprezzamenti più recenti e di una “riscoperta” anche al di fuori dell’Italia, in Europa e nel mondo anglosassone (specialmente gli Stati Uniti d’America), dov’è riconosciuto, al pari di pensatori come Karl Popper, come uno dei più eminenti teorici del liberalismo europeo e un autorevole oppositore di ogni totalitarismo. Il liberalismo politico crociano distinto dal liberismo economico fu causa di disaccordo con un altro importante esponente del liberalismo italiano come Luigi Einaudi.
SINOSSI del libro-Lettere di una vita di Irène Némirovsky –Traduzione di Laura Frausin Guarino-Prefazione di Olivier Philipponnat- «Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria degli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sentono osservati dalla posterità» osserva Olivier Philipponnat nella prefazione a questo volume. E tuttavia, aggiunge, le sue lettere fanno parte a pieno titolo dell’opera letteraria, soprattutto perché ci consentono di scoprire una voce più intima, più autentica, diversa da quella che abbiamo imparato ad amare nei romanzi e nei racconti – sorprendente. Se le prime, le lettere delle années folles, ci restituiscono l’immagine di una ragazza vivace e spensierata che, pur legata alle sue origini russe (e al ricordo della tragedia a cui ha assistito), approfitta golosamente di tutto quello che Parigi e la Francia possono offrirle – e che non perde l’ironia nemmeno quando si sente malinconica, arrivando a chiedersi: «Pene di cuore o indigestione di astice?» –, in quelle degli anni Trenta scopriamo la romanziera brillante e determinata, sia nei rapporti con gli editori che nei confronti della critica. Con lo scoppio della guerra, l’occupazione nazista e le leggi antiebraiche, vediamo crescere in lei l’angoscia, la collera, la disillusione – e leggeremo con un nodo in gola la lettera con cui affida le figlie alla governante, elencando i beni di cui disfarsi per provvedere al loro sostentamento, e l’ultima, scritta al marito subito prima della deportazione ad Auschwitz.
PREFAZIONE di Olivier Philipponnat
Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria de- gli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sen- tono osservati dalla posterità. Non pensò mai che un giorno le sue lettere sarebbero giunte ad altri che ai lo- ro destinatari, né che potessero essere incluse nella sua produzione letteraria. Lo stesso vale, del resto, per i suoi « diari di lavoro », ancora poco studiati e molto simili a una sorta di « autocorrispondenza » dove l’autrice si ri- volge spesso a sé stessa.
Si può dire che queste lettere, che rientrano a pieno titolo nella sua opera, ne rappresentino piuttosto il lato nascosto. Irène Némirovsky, che pure nutriva grande interesse per la teoria romanzesca, negli scambi episto- lari discute poco di tecnica narrativa; non lo fa neanche con Gaston Chérau, al quale chiede volentieri consigli professionali. «Quando scrivo un libro» con$derà a René Lalou nel 1938 « provo una sorta di inspiegabile pudore a parlarne, anche con le persone più vicine ». Pudore non lontano dall’orgoglio di essere compresa soltanto da sé stessa.
Nonostante questa reticenza, l’argomento principale di questi scambi è proprio la sua opera. La si scopre molto attenta alle condizioni di pubblicazione dei suoi libri, che segue con una cura materna. Inoltre, nel corso de- gli anni, Michel Epstein, il marito, avrà una parte sem- pre più attiva nella difesa dei suoi interessi presso gli e- ditori e i grandi settimanali che la pubblicano. Questa costante preoccupazione rivela la proli$cità di una scrit- trice impegnata nella stesura di un’opera che, dal 1926 al 1942, conta ben sedici romanzi e più di cinquanta racconti, che triplicano se si considerano anche bozze, minute e appunti, ai quali Irène Némirovsky dedica gran parte della giornata.
Si troveranno qui alcune delle sue risposte a certi cri- tici, quando non contengono solo banali e cortesi rin- graziamenti; ma il gran numero di biglietti più o meno di cortesia, mandati in tutta la Francia a oscuri redattori e oggi venduti all’asta o su catalogo a prezzi indecenti –, lascia intuire quanto fosse importante per lei la diffusio- ne e la recensione delle sue opere. L’umiltà di cui dà prova, il tacito consenso alle critiche, l’apparente liber- tà che concede ai giornali di modi$care a loro piaci- mento i suoi racconti contrastano con l’entusiasmo e la passione per la scrittura che traspaiono invece dai suoi manoscritti.
I rapporti epistolari che intrattiene con gli scrittori – Henry Bernstein, Jacques-Émile Blanche, Henri de Régnier, Gabriel Marcel, Jacques Chardonne e altri… sono occasionali, raramente confidenziali, e sempre ca- ratterizzati da un rispetto delle convenzioni, da un riserbo e da una modestia disarmanti, insaporiti a volte da un pizzico di malizia o da un’ombra di piaggeria, mai offuscati dalla mancanza di sincerità. Da una parte, dunque, una scrittrice che esercita un potere assoluto sui suoi personaggi e sulla sua opera; dall’altra, una donna che nelle lettere non ne fa mai parola. I dubbi, le paure, le domande che intimamente si pone sono e- spressi qui senza la rabbia e l’umorismo caratteristici dei suoi romanzi, piuttosto con un’autoironia sottile, come nelle lettere a monsignor Ghika, che nel febbraio 1939 le amministrerà il battesimo.
La corrispondenza è necessariamente lacunosa: anche se moltissime delle lettere scritte da Irène Némirov- sky sono state conservate dai loro destinatari e oggi si possono consultare in diversi fondi archivistici e in alcu- ne collezioni private, lo stesso non si può dire per quelle che lei aveva ricevuto e che furono molto probabilmen- te distrutte, dopo la guerra, dai nuovi occupanti dell’appartamento parigino in cui la scrittrice le aveva lasciate, nell’aprile 1940, per rifugiarsi insieme alle figlie nel villaggio borgognone di Issy-l’Évêque.
Che cosa resta, quindi| Per gli anni dal 1919 al 1924, il ritratto di una studentessa in gamba, più seria e perseve- rante di quanto vogliano lasciar credere le sue lettere a Madeleine Avot; in mancanza di risposte, ci si può soltanto chiedere se la «cara piccola Mad», erede di una dinastia di cartai che servirà da modello alla virtuosa fa- miglia Hardelot nei Doni della vita, fosse realmente «shockingata» dalle scappatelle dell’amica russa. A quegli anni di spensieratezza segue un intervallo di tem- po, dal 1925 al 1930, di cui non abbiamo alcuna testimonianza epistolare; è il periodo in cui Irène Némirovsky sembra dedicarsi esclusivamente alla vita con Michel Epstein, sposato nel 1926, e alla stesura dei primi ro- manzi, Il malinteso (1926) e soprattutto David Golder (1929), in un anonimato reso ancora più marcato dal- l’uso di uno pseudonimo (Pierre Nerey) per La nemica (1928) e per Il ballo (1929). Tutto questo è in violento contrasto con la grandissima notorietà che le procura l’improvviso successo di David Golder, subito portato sul- lo schermo e sul palcoscenico con Harry Baur e preso in considerazione per il premio Goncourt – al quale la scrittrice, come spiega a Gaston Chérau, preferirà ri- nunciare affinché la sua domanda di naturalizzazione francese sia considerata completamente disinteressata. È l’epoca in cui, per lettera o al telefono, risponde con semplicità alle interviste più o meno serie dei giornali; ripetuta negli anni, questa abitudine finisce per comporre, una pennellata dopo l’altra, un brillante autori- tratto.
Estremamente meticolosa quando si tratta di far rispettare i propri diritti, Irène Némirovsky, nelle lettere di questo decennio, contrassegnate dal monogramma « IE », dimostra un’assoluta professionalità nei rapporti con gli editori o i direttori di riviste, sempre attenta a e- vitare controversie ovvero a prevenirle. Mai o quasi mai accenna al contenuto o al signi$cato della sua opera, se non nelle lettere aperte o nelle risposte che indirizza ad alcuni giornali; anche allora, è raro che alzi i toni, tran- ne quando è in gioco il suo onore e si trova accusata, per esempio, di aver fatto sì che il commediografo Fernand Nozière traesse spunto dalla sceneggiatura di Julien Duvivier per David Golder. La scopriamo attenta a non atti- rarsi critiche – e il sospetto di antisemitismo suscitato da David Golder non è, secondo lei, così assurdo. Ma gli al- terchi più violenti li riserva ai personaggi dei suoi libri, che sembra talvolta usare per ribellarsi alle regole della buona creanza alle quali di solito è vincolata dal rispetto delle convenienze, nonché dalla condizione di stranie- ra, o addirittura di intrusa nella repubblica delle lettere.
Questa tranquillità s’incrina nel 1938. Nel dicembre di quell’anno l’inquietudine religiosa di Irène Némirovsky, del tutto concreta, e il fallimento dei suoi tentativi di na- turalizzazione la convincono a ricevere il battesimo cat- tolico insieme al marito e alle figlie, per una sorta di de- vozione ai valori cristiani della Francia. O almeno così si poteva supporre, fino alla scoperta di una lettera (la numero 199) inviata nel giugno 1938 a Jean Zay, ministro dell’Istruzione. La richiesta sembra dimostrare che Irène Némirovsky desiderava evitare alle figlie, Denise ed Élisabeth, i palesi inconvenienti legati al loro essere ebree a cominciare dalla mancata ammissione della maggiore ad alcuni istituti privati cattolici, dopo che il liceo pubblico Victor-Duruy aveva dichiarato di non avere più posti. Il ministro trovò la soluzione, ma nella vita di Irène Némirovsky si introdusse l’incertezza, e l’angoscia di non essere francese alimentò via via le ultime opere del deennio, Il signore delle anime (1939), I cani e i lupi (1940) e anche, per simmetria, I doni della vita (scritto nel 1940) inno alla solidità delle vecchie famiglie della borghesia provinciale, ovviamente cattoliche.
Sopraggiungono poi la guerra, la sconfitta e il regime di Vichy. Dall’ottobre 1940 al luglio 1942, di lettera in lettera, vediamo Michel Epstein e Irène Némirovsky di battersi nella morsa delle disposizioni legislative antie- braiche, le quali a poco a poco li impoveriscono e fanno lievitare il debito contratto con le edizioni Albin Michel. Il senso e le finalità di tali provvedimenti sono loro incomprensibili, così cercano solo di aggirare la pioggia di vessazioni e di divieti che impediscono a Irène di amare le sue opere e la obbligano poi a usare Julie Du- mot, la governante delle figlie, come prestanome. Le lettere di questo periodo sono più numerose; sono me- glio conservate e, data la loro frequenza, rivelano un’an- goscia crescente. Quelle di Irène e Michel, indissolubil- mente legati nella sciagura e nella sofferenza, esistono spesso in forma di carta carbone o di minute che viagge- ranno, dopo la loro deportazione, nella famosa valigia in cui Julie Dumot stiperà tutti gli scritti incompleti, le vecchie carte e le lettere ricevute dai coniugi Epstein durante i due anni passati a Issy-l’Évêque. Ne consegue che il periodo più drammatico della vita di Irène Némirovsky, quello della stesura del suo capolavoro, è anche il meglio documentato da una corrispondenza in cui si esprimono senza inibizioni la collera, l’angoscia e la de- lusione. Ma anche l’amicizia e la riconoscenza, in una bellissima serie di lettere indirizzate a André Sabatier,1 il cui intervento fu fondamentale per convincere Robert Esménard, genero di Albin Michel, a continuare a versare a fondo perduto degli anticipi mensili a un’autrice che non poteva più pubblicare.
Questo legame privilegiato non s’interrompe con l’arresto di Irène Némirovsky il 13 luglio 1942, e neppure con quello, in ottobre, di Michel Epstein, il quale, dopo aver tempestato André Sabatier di lettere e di telegram- mi disperati, si arrende al suo destino: raggiungere la moglie passando per la prigione di Le Creusot e poi per il campo di Drancy. La sua ultima lettera, che le figlie non potranno mai leggere, è emblematica: « Forse presto vedrò Irène », scrive poche ore prima della partenza del convoglio numero 42 che lo porterà alla camera a gas. La divulgazione del Journal de guerre di Paul Morand, nel 2020, ha tinto di sinistra ironia i vani tentativi di Michel e di Sabatier di ottenere l’intercessione di questo stretto collaboratore di Pierre Laval. Se Morand per un breve momento appare colpito dalla sorte di Irène Né- mirovsky, una delle sue più ferventi ammiratrici, quella degli ebrei, spietatamente perseguitati dal regime di cui lui è al servizio, gli ispira soltanto indifferenza.
Anche Julie Dumot, divenuta tutrice legale di Denise ed Élisabeth $no alla loro « collocazione » nel collegio cattolico di Notre-Dame-de-Sion nel settembre 1945, continua a corrispondere con André Sabatier e con le edizioni Albin Michel. Avremmo forse dovuto eliminare questa « corrispondenza postuma », visto che il 17 a- gosto 1942 Irène Némirovsky era morta di tifo ad Auschwitz-Birkenau| Lo avremmo fatto se, prima del ritor- no degli ultimi deportati, qualcuno fosse stato a cono- scenza della sua sorte. E se Julie Dumot non le fosse servita per così dire da sostituta $no alla partenza per gli Stati Uniti nel 1946, a missione compiuta. Così, abbia- mo scelto di chiudere queste Lettere di una vita con le parole disincantate di Albin Michel: « Nonostante tutto, continuiamo a sperare… », che in realtà non lasciavano quasi alcuna speranza sulla fine dell’incubo.
SPENSIERATEZZA (1913-1924)
Nata a Kiev l’11 febbraio 1903, Irène Némirovsky cre- sce nella venerazione della lingua francese, nell’osses- sione del ghetto e nell’ignoranza della cultura ebraica. Troppo giovane per ricordare il pogrom dell’ottobre 1905, la prima immagine che conserva della sua infan- zia è il carnevale di Nizza, nel 1906. Ogni inverno, $no allo scoppio della guerra, va per sei mesi in Costa Azzurra o sulla costa basca con i genitori.
Suo padre, Leonid, spregiudicato uomo d’affari, sa chiudere un occhio di fronte alle scappatelle della mo- glie Anna. Irène invece, dopo il licenziamento di Zézelle, l’adorata governante francese, non perdona niente alla madre. Sopraggiunta la guerra, vediamo Leonid esercitare la sua attività di banchiere molto vicino ai cir- coli del potere. Nel febbraio 1917, a San Pietroburgo, Irène assiste alle cosiddette «rivolte per il pane». Nel gennaio 1918 la rivoluzione bolscevica costringe i Némi- rovsky a riparare in Finlandia viaggiando su una slitta. Qui, Irène scrive i suoi primi versi e legge con fervore autori francesi. Alla fine della primavera 1919 la fami- glia, passando da Stoccolma, riesce a raggiungere laFrancia, «il paese più bello del mondo», dove Leonid Némirovsky ricostruisce il suo patrimonio.
Alla Sorbona, dove studia letteratura russa e comparata, Irène stringe amicizia con René Avot, figlio di un industriale del Pas-de-Calais, e con la sorella Madeleine, detta « Mad ». Con la bella stagione, sotto la sorveglianza di una governante inglese, si trasferisce a Vichy, a Plombières o a Vittel e si sottopone alle cure termali per l’asma. A Parigi è libera di vivere come vuole: va nei locali dove si fa jazz, flirta, fa gite in auto. Frequenta gli ambienti dei russi in esilio e pubblica i primi testi in france- se su varie riviste, con il suo nome o sotto pseudonimo.
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