MILANO (ITALPRESS) – Descrizione del libro di Roberto Fiorentini –“I dimenticati”- Nel Maggio 1940. Ai circa 25 mila italiani residenti in Libia, tra Tripoli, Bengasi e la Cirenaica, è notificata una circolare delle autorità locali. Invita le famiglie, con figli dai 5 ai 10 anni, a inviarli in Italia dove sarebbero stati accolti, per tutto il periodo estivo, nelle colonie marine costruite del Regime Fascista. Il 3 giugno 3000 bambini, partono così dal porto di Tripoli, a bordo della nave ‘Augustus’ Il giorno successivo per il porto di Napoli. Trasferiti nelle colonie del regime chi sul mar Adriatico, chi sulla riviera ligure di Ponente, chi in zone montane. Non torneranno mai più nelle loro famiglie.
Racconta tutta questa incredibile odissea il nuovo libro del giornalista Roberto Fiorentini dal titolo ‘I dimenticatì (Ronca Editore). Lo fa con la voce di una delle sopravvissute: Silvia Napoletano, ora 92enne e che vive nel piacentino. Una storia oscura e drammatica del regime fascista quasi mai raccontata e rimasta solo nella memoria personale dei pochi sopravvissuti.
La narrazione parte proprio dalle terre libiche e da quel terribile viaggio in nave dove 3000 bambini erano stati ammassati ‘come pecorè (così racconta Silvia) per raggiungere il porto di Napoli, sempre controllati dalle ‘educatricì e dalle ‘camice nerè. La voce della protagonista narra la sua odissea. Prima nelle colonie estive della Romagna; poi in quelle in collina sull’appennino tosco romagnolo. Vita da caserma per quei bimbi e quelle bimbe.
“Alla caduta del regime la vita diventa un vero inferno”, racconta Silvia. Cibo finito. Vestiti spariti. Scarpe inesistenti. Notti da brividi e da paura in mezzo alle sparatorie tra i partigiani, uomini allo sbando del fascismo e truppe tedesche in ritirata. A pranzo e a cena solo l’erba che, di giorno, quelle bambine raccoglievano nei campi a combattimenti sospesi.
Fiorentini traccia anche una vera mappa di questi luoghi soprattutto nell’Italia del Nord che dovevano essere di villeggiatura ma che, con il passare del tempo, si sono trasformati in grandi carceri da cui non potere più uscire. Ricostruisce l’indottrinamento a cui erano sottoposti. Lettere, canzoni, disegni : tutto era utile per far celebrare ai bimbi le ‘progressive sortì del regime.
Un viaggio nell’orrore troppo velocemente dimenticato dalla memoria collettiva del Paese. “Ho voluto dar voce a questi bambini – dice Fiorentini – perchè i bimbi, ieri come oggi, sono le principali vittime di ogni conflitto bellico. I più indifesi. I più deboli. E per questo i più ‘Dimenticatì”.
– Foto: Fiorentini –
(ITALPRESS).
Queste “ombre bianche”, cioè “storie brevi, divertimenti e dialoghi; infine occasioni, satire scritte negli ultimi quindici anni” che Flaiano radunò nel 1972 nella certezza che la realtà avesse ormai superato la satira, raccontano di «un “io” che detesta l’inesattezza ed è stato sopraffatto dalla menzogna». Vi ritroviamo dunque il Flaiano più risentito, impassibile e feroce, capace come pochi di mostrarci le allucinazioni di cui siamo vittime: e mentre legge e sorride è come se uno spiffero gelido investisse d’improvviso il lettore, perché nei mostri messi in scena riconosce, non solo la realtà che lo circonda, ma a tratti, e con raccapriccio, un po’ di se stesso.
Ennio Flaiano
Flaiano scrisse all’editor che l’apparente disordine delle parti del libro era voluto, calcolato. Ma così non sembra al lettore.
C’è un fil rouge che è il disincanto, la delusione, l’oppressione della condanna a un’esistenza che, per Flaiano, era diventata una gabbia; quel dolore interno che gli spezzò il cuore insomma.
Ma gli elementi che compongono questo pout-pourri, anche se scritti in un arco di tempo lungo – vent’anni più o meno – hanno in comune il lato lunare del pescarese, la sua famosa malinconia “canina”.
Non mancano guizzo e invenzione linguistica, battute e freddure. Ma prevale lo straniamento: il futuro è impossibile perchè lo sarebbe anche il presente, se non fosse umanizzato dalla parodia. Ed ecco cadere nella pretestuosità la fantasia: si tratti della vita su Marte, della corrispondenza impossibile, della cancellazione degli affetti verso quello che un giorno si immaginava sarebbe stato il mondo futuribile. “Nel duemila (cantava Bruno Martino) noi non mangeremo più le bistecche”, e Flaiano lo scrive e forse lo pensa.
I continui riferimenti erotici appartengono invece al Flaiano cinematografico, mente lucida del Fellini visionario, e gratta gratta anche qui sotto trovi la delusione personale di una vita familiare distrutta.
In sintesi, sembra di leggere il lungo percorso del brillante scrittore che si estingue giorno dopo giorno, non senza lo sberleffo che lo ha reso grande.
Ennio Flaiano
Flaiano scriveva col privilegiato disincanto di chi ormai si sente alieno a ogni passione, affrancato da ogni compromesso in una realtà che è riuscita a superare la satira, vittima di una quotidianità dove consumismo, conformismo e utilitarismo ormai non risparmiano nessuno.
Le sue ombre bianche disegnano sul muro i mostri di una commedia tutta italiana, da cui anche il mondo intellettuale ormai non è più esente, prigioniero di ghetti dorati da Basso Impero, lascivo di interminabili feste da Dolce Vita, dove il profumo delle “rose di Eliogabalo” segna il declino di quella grande bellezza, preda di marziani extraterrestri.
Perché è proprio in quel boom, le cui contraddizioni già denunciava Bianciardi nella sua “Vita agra”, che si intravedono i sinistri squarci di un Mondo Nuovo di barbari costruttori, di iene senza scrupoli a caccia di carogne, dove tutto fa notizia, tendenza, basta premere sull’acceleratore per non essere superati.
Non c’è curaro negli elzeviri di Flaiano, giacché anche il veleno è finito, non c’è speranza, si passa in rassegna ogni vizio endemico per enumerazioni, per mistificazioni, per aforismi. Per sconfinata desolazione, in odor di involontaria chiaroveggenza.
Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana.
Editore Einaudi
Descrizione del libro Gli uomini di Mussolini-Al termine della Seconda guerra mondiale molti tra i più alti vertici dell’esercito o degli apparati di forza del fascismo furono accusati di omicidi e torture, ma nessuno venne mai processato o epurato. Nessuno fu mai estradato all’estero o giudicato da un tribunale internazionale. Diversi di loro furono invece coscientemente reintegrati nei loro posti di responsabilità, dando corpo a quella «continuità dello Stato» che rappresentò una pesante ipoteca sull’Italia repubblicana. Attraverso l’analisi di una gran mole di documenti, Conti ricostruisce le vicende personali e i profili militari di alcuni dei principali funzionari del regime di Mussolini e illumina uno dei passaggi più appassionanti e controversi della nostra storia.
Mussolini-Uomo politico (Dovia di Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra, Dongo, 1945). Socialista, si andò staccando dal partito, fino a fondare i Fasci da combattimento (1919). Figura emergente nell’ambito del neoformato Partito nazionale fascista, subito dopo la “marcia su Roma” (1922) venne incaricato dal re della formazione del governo, instaurando nel giro di pochi anni un regime dittatoriale. In politica internazionale M. affrontò l’esperienza coloniale in Etiopia, si fece coinvolgere dai buoni rapporti con la Germania di Hitler nella persecuzione degli Ebrei, fino poi alla partecipazione al conflitto mondiale. I pessimi risultati bellici portarono il Gran Consiglio a votare la mozione Grandi presentata contro di lui (1943). Arrestato, fu liberato dai Tedeschi e assunse le cariche di capo dello Stato e del governo nella neonata Repubblica sociale. Alla fine della guerra fu catturato e fucilato dai partigiani per ordine del Comitato di liberazione nazionale. Dominò la storia italiana per oltre un ventennio, divenendo negli anni del suo potere una delle figure centrali della politica mondiale e incarnando uno dei modelli dittatoriali fra le due guerre.
-Stefania Franceschini-FRANCIS POULENC Una biografia-
-Zecchini Editore Varese-
Descrizione del libro di Stefania Franceschini-Questa è la prima biografia in italiano del compositore francese Francis Poulenc (Parigi 1899-1963). La Francia gli ha dedicato molti studi, elogiandolo quasi a guisa di eroe nazionale, ma in Italia c’era un vuoto che, forse, questo studio comincerà a colmare. Poulenc amava molto il nostro paese: la sua arte infatti si concretizza in una propensione naturale verso il melodismo. Oltre a Mozart e Stravinskij – i modelli di riferimento determinanti per la sua vita artistica – il suo sentire musicale si rivolge a Monteverdi, Verdi e Puccini. Proprio a Verdi dedicherà la partitura dell’opera che rappresenta l’apice della sua produzione artistica, Les Dialogues des Carmélites, la cui prima rappresentazione alla Scala di Milano – committente del lavoro – nel 1957, fu un vero trionfo. Le tappe fondamentali della vita privata ed artistica di Francis Poulenc sono raccontate con particolare attenzione ai concerti tenuti in Italia assieme ai suoi partner eterni: Pierre Bernac, Pierre Fournier e Denise Duval; le cronache dell’epoca (di mano di grandi esponenti del mondo musicale e letterario: Malipiero, Pizzetti e Montale) e gli scritti del compositore stesso – lettere, interviste e commenti sulle proprie opere impreziosiscono la narrazione. Un capitolo è dedicato a Venezia: qui Poulenc, nel 1932, presentò il suo Concerto per due pianoforti e orchestra – commissionato dalla Principessa de Polignac – al Festival della Musica Contemporanea della Biennale. In una seconda sezione del libro sono state classificate, per genere, tutte le opere: oltre ad un commento, ove possibile è stata indicata la data della prima esecuzione. L’augurio è che la passione per la musica di Poulenc, che ha spinto alla compilazione di questo volume, possa arrivare al cuore del lettore, proprio come le melodie del compositore, il quale scrisse solo sotto l’impulso della sua sensibilità, per una pura e semplice volontà di dilettare gli ascoltatori, prima, e se stesso, poi.
Stefania Franceschini
FRANCIS POULENC. Una biografia
XVI+320 – f.to cm. 17×24 – illustrato – Euro 23,00-
Sottopongo alla vostra attenzione alcuni versi di Giorgio Piovano (1920-2008) . Mi sembra straordinaria la capacità mostrata dall’autore di trasformare in poesia la vita di milioni di uomini cancellati e dimenticati dalla storia.
Giorgio Piovano
Proemio
Questo è il poema degli uomini senza storia
Che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico
E vengono a galla solo quando si compilano
Le statistiche dei cataclismi :
il poema degli uomini che non hanno mai
avuto una bandiera
e si sono sempre trovati
accodati a quelle degli altri.
Questo è un poema anonimo e materiale
Fatto solo di cose usuali
E di facce senza niente di speciale;
poema cosi povero e rozzo
che per spiegarsi non ha
se non parole di tutti i giorni
e di tutto il campionario
delle gioie e dei dolori
che la Vita mette in vetrina
sa commuoversi solo di quelli
che si possono chiamare
con nome e cognome.
E questo è il suo proemio
messo avanti per avvertire
le schive Anime Nobili
che qui non è aria per loro.
[…]
Ultimo canto
[…]
Io non sono che uno
della mia generazione, uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti la porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellerosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravano viandanti inquieti
tormentandosi per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustre
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e la guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
[…].
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
[…]
Quanto ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
[…]
Io non ho che la mia vita
e la sapienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno, lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Giorgio Piovano, Poema di noi, Effigie edizioni,Milano 2007.
Il “Poema di noi” (premio Viareggio opera prima nel 1950) è stato scritto negli anni Quaranta. Giorgio Piovano si richiamava a quel filone del “realismo socialista” che allora ispirava molta della letteratura di sinistra. Di fronte all’evolversi degli avvenimenti, al modificarsi dello stesso “modo di far politica”, potrebbe apparire anacronistico riproporre oggi – almeno nei termini in cui lo viveva allora l’autore – quel “bisogno di verità e coraggio” di cui ha parlato Davide Lajolo nella prefazione a “Il fuoco e la cenere”. In realtà, esiste un tenace filo conduttore tra le attese di ieri e quelle di oggi, come d’altra parte, senza quelle speranze, appare arduo capire la delusione e il disincanto che oggi sembrano serpeggiare in una parte della sinistra italiana ed europea. Sarebbe tuttavia riduttiva una lettura di questi versi condotta solo in chiave politica e nostalgica. La poesia di Piovano è soprattutto emozione, come scrive nell’introduzione un altro poeta civile, Alberto Bellocchio: “Poesia? Quella di Piovano è qualcosa di più. È spettacolo, è rappresentazione drammatica, è un torrente in piena, un affresco a tinte forti che ci sloggia dalle nostre plastificate certezze e catafratte abitudini e ci trascina in strada”. Se n’era accorto, fra gli altri, Giancarlo Majorino, che aveva incluso alcune liriche di Piovano nell’antologia “Poesie e realtà”, dedicata alla poesia civile italiana del Novecento.
«Ma il mio paese, il paese del mio cuore,
è là nelle piane lombarde, in Lomellina,
il paese delle nebbie e delle placide acque
che per diecimila canali si ritrovano in Po.
Al tempo dei risi, quando le mondine
calano a reggimenti dalle loro tradotte
e scaricano i sacchi e le casse
sui marciapiedi delle stazioni
allora è da vedere la Lomellina
come si canta per le strade a braccetto
piemontesi bresciane e bergamasche
e più brave di tutte, coi baschi rossi, le emiliane!»
(da: Giorgio Piovano, Il fuoco e la cenere, Editrice Edinform, Pavia 1984)
Giorgio Piovano
di Luca Ariano
È scomparso nella notte del 1 agosto 2008 all’età di 88 anni. Nato a Torino nel 1920 partecipò alla lotta partigiana prima a Pisa e poi a Lovere; così in un’intervista rilasciata sul web (http://solleviamoci.wordpress.com): “Sono stato avanguardista, come tutti. Odiavo le divise, ma non per politica. È che mi facevano fare brutta figura con le ragazze. A Pisa trovai qualcuno che mi aprì gli occhi: in pochi anni mi trovai antifascista. Nel ’43 entrai nel Partito d’Azione: alla prima manifestazione eravamo in tre. Il giorno dopo facemmo un comizio: a quella data risale la prima di molte denunce. Il discorso patriottico che tenni venne usato contro di me anni dopo, in tribunale, come prova che ero un sovversivo”. Il trasferimento poi a Pavia e la sua attività politica (Senatore del PCI per tre legislature e Presidente della Provincia di Pavia) nel dopoguerra: “Ero professore, cercavo una sede universitaria. Problemi di salute mi tennero lontano dalla guerra: da Pisa, dove ho studiato, mi spostai a Lovere. Poi mi venne offerto di insegnare all’Istituto Bordoni, e a Pavia sono rimasto fino ad oggi: le mie piccole radici sono qui”. Ricordo l’intervista filmata che gli feci con l’amico e poeta Tito Truglia, ricordo la sua schiettezza, la lucidità e la sua forza e voglia di combattere per un mondo migliore, per i giovani (uno dei pochi di quella generazione a capire la piaga del lavoro precario) perché alle sue idee credeva ancora fermamente e non si vergognava certo di essere stato comunista, di aver fatto la Resistenza. Ho scoperto prima il Piovano poeta leggendo estratti delle sue poesie nell’antologia Poesie e realtà 1945-2000Poema di noi (Premio Viareggio opera prima 1950) che amo molto: (Tropea, 2000) curata da Giancarlo Majorino; solo in seguito, dopo averlo conosciuto, ebbi la fortuna di avere in dono la sua opera omnia poetica. Così descriveva il suo rapporto con la poesia: “Era la mia ambizione, che sto rivivendo ora in tarda età.
Era il tempo di grandi arrabbiature poetiche, della lotta all’ermetismo e agli strascichi dannunziani. Per parafrasare un celebre verso di Montale, questo noi volevamo dire: chi siamo, cosa vogliamo”. Se n’è andato uno degli ultimi comunisti, di quelli che hanno lottato a viso aperto mettendoci la faccia, coraggio, passione ed impegno. Non voglio dilungarmi oltre per non scadere nella retorica o in patinate celebrazioni che so avrebbe odiato, ma voglio ricordarlo qui con una sua poesia tratta da
ULTIMO
Avrei voluto avere il verso lungo e profondo
come il rullo dell’Internazionale
sui tamburi delle divisioni
che sfilano in parata
sotto la porta del Brandemburgo;
avrei voluto potermi fare ascoltare
per amore o per forza come gli altoparlanti
installati tra i reticolati a Madrid
che giorno e notte spiegavano
ai mercenari franchisti
da che parte fosse la Patria vera.
Altro ebbi: come quando le cornamuse
calano dai monti alle città di provincia
accompagnando la fisarmonica
dalla voce sbiadita che tenta
maldestra su povere note
i ballabili più comuni.
Pure molti si fermano ad ascoltare,
il lattaio che gira in bicicletta
col suo bidone, la sposa
appena uscita per la spesa, l’oste
che apre allora… Dalla loggia
del vecchio casamento gentilizio
la fantesca in piedi sul davanzale
a pulire la vetrata, si sporge
col cencio in mano a salutare
i suonatori compaesani.
Poi quando l’allegra nenia è dileguata
oltre i mercati, ancora dura il canto
corale delle lavandaie
lungo la roggia e l’a solo
nei passaggi difficili, della voce
più giovane.
Io non sono che uno
della mia generazione,
uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti alla porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellirosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravamo viandanti inquieti
tormentandoci per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustrate
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e al guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
e dalla veranda del sanatorio
il respiro della risacca e la curva lunghissima
sotto la luna della linea delle spume
a perdita d’occhio nel golfo…
(«Rivedrete le sere che s’incendiano
i cieli, e i monti non hanno più peso
e nel fiume scorrono rivoli d’oro.
Salutatele per me
sperduto nelle valli profonde
donde muovono le ombre
che guidano il carro della Notte»).
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
Ascoltate l’allarme
delle volontà scatenate
come spari mirati al cuore.
Quando ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
Da continente a continente
le radio impazzite
invocano S.O.S.
Io non ho che la mia vita
e la pazienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Ma milioni come me
fanno il Partito
i vagoni di libri spediti
nei villaggi chirghisi
l’Eurasia fasciata
da una rete di canali
il grano al circolo polare
il razionale Discorso
messo insieme lettera per lettera
pazientemente coscienziosamente
come negli stampi il piombo fuso
sotto il tasto del linotipista:
le parole dei miei fratelli
e con loro le mie
che si danno la mano ed abbracciano
il pianeta col giro dei paralleli!
Milioni come me
e le generazioni martellano
nei bronzi della posterità
l’epopea della Classe Operaia
che mugghiava apocalittica
e si ergeva e colpiva
a mazzate di mille tonnellate
nelle grandi ondate dei popoli
che deragliavano la storia!
I nostri pensieri gridati
con gli altoparlanti nei refettori da cinquemila posti
pesati dagli uomini a veglia
nella stalla attorno al lume a petrolio
con lo stoppino abbassato perché durasse di più
le donne macilente e forsennate
a valanga contro i cordoni
le serpi nelle occhiaie
delle case bruciate per rappresaglia
l’offerta del disoccupato alla sottoscrizione
Montanari che sputava sangue nel fazzoletto
e contava i comizi che gli restavano
fino alla fine della campagna elettorale
Daccò che ha smesso di bere
per non essere espulso
la cooperativa di San Salvatore
costruita di notte e di domenica
Brasi fotografo che adesso
scopa la sua bottega
e indosso ha la giacca a vento
di quando comandava una divisione
le croci di legno sotto i larici a Monte Giglio
con la stella rossa e la scritta
NON PIANGETE
e il compagno senza nome che alla festa
rimase a guardia delle biciclette
al posteggio, e neanche si ricordarono
di mandargli un bicchiere di vino
e la musica della moto tra le mia gambe
sugli stradali nei tramonti estivi
nel pieno dello sciopero, e nel vento
della corsa, i colpi di spillo
dei moscerini sul viso
ed anche la faccia paonazza del Vicequestore
quando si accorse che né bonomia né cipiglio
non attaccavano, anche il pretoccolo
velenoso messo nel sacco
in pubblico contradditorio
e anche il pedatone che ruzzolò
dalle scale l’avvocatuccio
che tirava a diventare onorevole
e le bandiere rosse sulle locomotive
e le metropoli dove prima c’erano le paludi
e i congressi coi delegati di sei continenti
i nostri pensieri sul mondo
a stormo
perdio imparate posteri
in questo mondo si può essere giovani
imparate perdio in questo mondo
si può anche morire
a pieno cuore
come al termine di un’ardita giornata
di maggio, combattuta instancabile
a rincorse volanti e agguati
e subitanei parapiglia
lungo i sentieri dei pioppi
nel giallo del ravizzone
quando torniamo alla cascina
cantando – tutti stanati
i crumiri sotto il naso
dei campari con la doppietta imbracciata!
Pedaliamo a festa
nel fortore dei fieni
sotto le prime stelle,
e da lontano ci saluta
agitando il suo fanale
il compagno che batte la risaia
a caccia di rane
nell’acqua fino a mezza gamba.
(tratta da: Il fuoco e la cenere, Prefazione di Davide Lajolo, Pavia: Editrice Edinform, 1984.)
Giorgio Piovano
Biografia di Giorgio Piovano (Torino 1920 – Pavia 2008). Nato da famiglia operaia, frequenta, negli anni ’40, la Scuola Normale di Pisa, della quale diventerà in seguito, per un anno, docente di letteratura dantesca. Partecipa alla lotta antifascista a Pisa e a Lovere, militando nel Partito d’Azione. Con l’avvento della Repubblica, lega il suo destino al Partito comunista, del quale è stato componente della Federazione pavese. Nel 1950 vinse il premio “Viareggio” con l’opera “ Poema di noi”, un componimento che parla «degli uomini senza storia, che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico». Professore e preside. Uomo schietto, lucido, vicino ai giovani, uno dei pochi della vecchia generazione a capire la piaga del lavoro precario.
Biografia-
Giorgio Piovano (Torino, 27 marzo 1920 – Pavia, 31 luglio 2008) è stato un politico, scrittore e partigiano italiano.
Nasce in una famiglia operaia torinese e negli anni quaranta si trasferisce a Pisa dove frequenta la Scuola Normale Superiore. Iscrittosi al Partito d’Azione partecipa alla lotta partigiana nella zona della provincia di Pisa.[1]
Terminato il conflitto si iscrive al Partito Comunista, venendo nominato Presidente della provincia di Pavia, dove si era trasferito in quegli anni, ed eletto sindaco della città di Casteggio.[1]
Nel 1950 vince il Premio Viareggio per la migliore opera prima con Poema di noi.
Senatore della Repubblica Italiana
Legislature
IV, V, VI
Gruppo
parlamentare
comunista
Incarichi parlamentari
IV legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 3 marzo 1964 al 4 giugno 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 3 luglio 1963 al 4 luglio 1963, Segretario dal 5 luglio 1963 al 4 giugno 1968
V legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 5 giugno 1968 all’11 novembre 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 5 luglio 1968 al 17 luglio 1968, Vicepresidente dal 18 luglio 1968 al 24 maggio 1972
VI legislatura
7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica): Membro dal 4 luglio 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per il parere al Governo sulle norme delegate in materia di stato giuridico del personale della scuola: Membro dal 13 dicembre 1973 al 19 giugno 1976
SINOSSI del libro di Ugo Savoia-Dalla parte giusta- Guido Ucelli di Nemi (1885-1964) è stato uno dei grandi industriali italiani del Novecento e, al tempo stesso, un italiano che ebbe il coraggio di mettere in gioco tutte le sue fortune per salvare gli amici ebrei dalle aberrazioni delle leggi razziali prima e dalle persecuzioni naziste poi. Nel 1914 sposò Carla Tosi, figlia del fondatore delle omonime officine meccaniche di Legnano. Consigliere delegato della Riva, ingegnere, era un visionario appassionato di archeologia. A lui si deve il recupero delle navi fatte costruire duemila anni fa da Caligola e che giacevano da secoli sul fondo del lago di Nemi, nel Lazio, impresa che gli valse la gratitudine di Mussolini e il titolo di nobile, con predicato «di Nemi», concesso da Vittorio Emanuele iii. Questi privilegi non lo fecero comunque esitare nemmeno un istante, quando le leggi razziali misero al bando gli italiani di origine ebraica. Tra il 1943 e il 1944, durante l’occupazione nazista di Milano e del Nord Italia, assieme alla moglie sfidò le SS e il regime fascista offrendo rifugio e sostegno economico agli amici che cercavano di sfuggire alle persecuzioni. Scoperti, Guido e Carla vennero arrestati e rinchiusi a San Vittore: lui torturato, lei spedita in un campo di concentramento. Finita la guerra, Ucelli tornò a essere il visionario di un tempo fondando, negli anni Cinquanta, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica «Leonardo da Vinci» di Milano, progetto che aveva caparbiamente inseguito tra le due guerre con il benestare di Guglielmo Marconi.
La storia di una coppia speciale, che comincia da un ex convento in via Cappuccio, nel cuore di Milano.
Ugo Savoia-Dalla parte giusta-
«La storia raccontata da Ugo Savoia di Guido Ucelli di Nemi e Carla Tosi ci riporta indietro a quegli anni, in una Milano piegata al nazifascismo, ma ci ricorda anche, che allora come oggi, si possono fare scelte diverse» Liliana Segre
«Qualcuno parla di Schindler italiano, ma ogni confronto lascia un pezzo di verità. In comune c’è la capacità di scegliere “la parte giusta”, la forza della rettitudine che si eleva sulla barbarie» Il Giornale, Simone Finotti
Autore-Ugo Savoia è stato direttore del Corriere del Veneto, primo responsabile dell’edizione online del Corriere della Sera nel 2000, caporedattore e capocronista del quotidiano di via Solferino. Ha lavorato anche per La Notte, il Giornale di Montanelli e Il Sole 24 Ore. Dal 2018 è coordinatore didattico del Master in Giornalismo dell’università Iulm. Nel 2022 ha pubblicato per Castelvecchi Bombe su Milano, raccolta di testimonianze di cittadini milanesi che ricordavano il primo grande bombardamento sulla città, avvenuto sabato 24 ottobre 1942.
Prima stesura a cura di Maria Fancelli con un testo di Jonathan Bazzi –
Marsilio Editori Venezia
Descrizione-Il libro Johann W. Goethe racconta la breve vita di Werther, un giovane uomo redditiere, aspirante pittore, che vive in una imprecisata cittadina della Germania tardo-feudale circa quindici anni prima della Rivoluzione francese. Uscito di casa per un viaggio legato all’eredità materna, si innamora perdutamente di Lotte, promessa e poi sposa di Albert, il consorte esemplare. Mentre nella prima parte vive una stagione di travolgente felicità fisica, in armonia con se stesso e con gli altri, nella seconda parte Werther cade in uno stato depressivo e si abbandona a una crescente pulsione di morte. Finché, di fronte all’impossibilità di amare Lotte, medita una decisione estrema. Sistema le sue carte e scrive un biglietto di addio, quindi manda il servitore a chiedere le pistole ad Albert per un improbabile viaggio. Si lascia guidare in questo percorso dalle drammatiche pagine di un bardo gaelico appena scoperto, Ossian. Le accarezzerà a lungo, quelle pistole passate attraverso le mani di lei, contemplandole come un vettore d’amore. Lei che aveva tremato ed era trasalita nel porgere al servitore l’oggetto richiesto dall’amato. Altri temi si affacciano all’orizzonte del libro: la decadenza di un’aristocrazia al tramonto, la società chiusa, la pulsione artistica, il rifiuto della cultura accademica, lo spirito di libertà, la natura splendente e divina, la città ostile, il giardino, il sogno di un abbandono al dionisiaco. Ossian e Omero sono le contrastanti letture. Una storia d’amore e di morte, atto fondativo della letteratura tedesca moderna e icona del romanzo epistolare europeo.
Johann W. Goethe
Autore-Johann W.GoetheL’entusiasmo per il genio di Shakespeare, l’approfondimento dei grandi temi della sensibilità borghese, l’esperienza diretta della vita politica e culturale di un piccolo ducato tedesco, il lungo viaggio in Italia, l’assidua attenzione agli sviluppi della Rivoluzione francese, il costante riferimento ai grandi esempi della civiltà classica e la fervida discussione con le espressioni più salienti della cultura del suo tempo: su queste basi Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) costruisce i pilastri della letteratura tedesca moderna e con le grandi figure di Werther e di Egmont, di Ifigenia e di Tasso, ma soprattutto di Wilhelm Meister e di Faust, la eleva a Weltliteratur.
Johann W. Goethe-I dolori del giovane Werther-
Prima stesura a cura di Maria Fancelli, con un testo di Jonathan Bazzi – Marsilio Editori Venezia
Descrizione del libro di Carlo Greppi–Editori Laterza–Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.
Sui monti di Sarzana, proprio lungo la Linea Gotica, dove nel 1944 i combattimenti infuriavano con maggiore ferocia, il capitano della marina tedesca Rudolf Jacobs, ottimo soldato, abbandonò le proprie fila. Non lo fece per fuggire da una guerra ormai persa, ma per unirsi ai partigiani garibaldini, fino a morire eroicamente durante l’assalto a una caserma delle Brigate nere fasciste. Apparentemente la sua sembra la storia di un’eccezione, commovente e coraggiosa, ma pur sempre un’eccezione rispetto alla nostra idea dei tedeschi zelanti combattenti della Germania nazista, fedeli fino al suo crollo. Eppure questa eccezione non fu così solitaria e isolata: parliamo di centinaia di uomini, almeno mille secondo le stime degli storici. O erano di più? Tedeschi e austriaci, ‘banditi’, ‘disertori’, ‘senza patria’, che hanno saputo dire di no agli ordini ingiusti, che hanno rigettato la legge dell’onore e del sangue per scegliere quella della libertà e della coscienza. Partendo da tracce labili, quasi svanite – un nome su una lapide, poche righe nei documenti ufficiali, qualche ricordo dei partigiani sopravvissuti –, questo libro è un’indagine appassionata e coinvolgente che ci trascina alla riscoperta di una pagina di storia che nessuno in Italia ha mai raccontato in questo modo.
Solo la coscienza non inaridisce,
questo fiero, aspro paesaggio di giustizia,
questo fortino contro il rimorso.
Siegfried Lenz, Il disertore (1952)
Sotto una stella armata
1.
Brema, Germania nord-occidentale, domenica 26 luglio 1914.
Poche ore prima di quel pianto apparentemente inconsolabile, gran parte del mondo era totalmente all’oscuro delle macchinazioni dei potenti del Vecchio Continente. Dopo il durissimo ultimatum austroungarico alla Serbia di tre giorni prima, l’Europa sta entrando in guerra. Spalleggiato da un incondizionato sostegno tedesco, l’impero asburgico ha deciso che la sua pazienza è finita, e si percepisce il montare di uno scontro generalizzato, e non limitato alla regione balcanica. Non succedeva da oltre quarant’anni, dal conflitto franco-prussiano del 1870-71, che gli eserciti si scontrassero nel cuore dell’Europa – su altri scenari non avevano mai smesso di esportare distruzione, chiaro, ma questa è un’altra storia. E, soprattutto, una guerra così nessuno l’aveva ancora vista mai. La crisi continentale apertasi da meno di un mese con un colpo di pistola a Sarajevo deflagrerà nel giro di una manciata di ore, questa volta, nel conflitto più devastante della modernità. Ma nessuno, in questa domenica d’estate, può davvero intuire la portata epocale di quello che sta cominciando. Cinque giorni più tardi la Germania dichiarerà guerra alla Russia e due giorni dopo le truppe tedesche entreranno in Francia; nelle settimane successive i cadaveri si conteranno già a centinaia di migliaia – alla fine del conflitto, i morti della sola Germania saranno oltre due milioni.
La madre del bambino che viene al mondo, Frieda Rosenthal, compressa com’è nell’ultimo, definitivo sforzo di darlo alla luce, difficilmente sta pensando all’inquietudine che la circonda. Ma essere nati a luglio del 1914, e per la precisione in quegli ultimi giorni che hanno visto scattare il perverso meccanismo delle alleanze senza possibilità di fare marcia indietro, diciamocelo, non è cosa da poco. Forse si intende questo, quando si dice che qualcuno è nato sotto una stella. L’astro che osserva la venuta al mondo a Brema di Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs, il 26 luglio dell’anno in cui si schiantano le speranze in un progresso generatore di futuro e milioni di giovani europei si preparano ad andare alla guerra, è circondato dall’euforia e dal terrore, sentimenti vagamente intrecciati in tutti e in ciascuno. Perché, poi, quello della popolazione tedesca compattamente e ferocemente convinta di questo nuovo conflitto è in parte un mito – la realtà, nella storia e nel presente, è spesso molto diversa da come appare a un primo sguardo superficiale. Proprio il 26 luglio, a voler seguire i tratti contraddittori di quella stella che sbircia la nascita di Rudolf Heinrich Otto Max, si scatenano massicce proteste contro la guerra in tutta la Germania: dureranno fino al 30 del mese, coinvolgendo oltre 750.000 tedeschi. Anche a Brema, nella città vecchia, il 28 si tengono ben sette corposi assembramenti che rigurgitano una folla tenacemente contraria al gioco al massacro che si intuisce stia per cominciare. Sfogliando i giornali locali degli ultimi giorni di quella settimana scarsa, decisiva per le sorti della Germania e dell’umanità intera, si colgono da un lato l’incertezza e la paura ma anche, è vero, una sprezzante arroganza, quel “sentimento nazionale” che è sempre pronto a tutto, pur di nutrire se stesso. Anche a fagocitare padri, fratelli, figli altrui e propri. La tensione montata da Sarajevo al cuore della Mitteleuropa è alle stelle: anche a Brema, come nel resto della Germania e come, gradualmente, nel continente intero, i manifestanti vengono randellati, caricati, ostracizzati – e chi si oppone al conflitto diventa presto, agli occhi della maggioranza della popolazione, nemico della nazione. “Traditori della patria”, per usare una formulazione che incontreremo: Landesverräter, in tedesco. Traditori, siete solo dei maledetti traditori.
All’inferno e ritorno: così titola il grande storico britannico Ian Kershaw la sua opera monumentale dedicata all’Europa “nell’era dell’autodistruzione”, fornendoci un frame per leggere, in linea con una cornice interpretativa ormai fiorente e consolidata, quello che si spalanca nel 1914 come un interminabile conflitto che cova una sua seconda fase in una lunga, drammatica pausa, la Guerra dei Trent’anni, con un “comune denominatore ideologico” – il nazionalismo. Tutto cominciò, nella via via più lucida percezione degli europei, in quei giorni finali di luglio del 1914: “La convinzione che la guerra fosse necessaria e giustificata, e l’autoconsolatorio presupposto che sarebbe stata una cosa spiccia – una breve, eccitante ed eroica avventura coronata da una vittoria rapida e con poche perdite – era penetrata in ampi settori della popolazione, molto al di là delle classi dirigenti europee. Questo aiuta a spiegare come mai in tutti i paesi belligeranti tanta gente fosse così euforica, perfino entusiasta, mentre la tensione, che non toccò il grosso della popolazione fino all’ultima settimana di luglio, andava montando fino a esplodere nella guerra generale”. Il sigillo di questo inizio, per la Germania, lo si può forse apporre al 31 luglio, quando 50.000 cittadini tedeschi, a Berlino, acclamano il Kaiser Guglielmo II in un discorso che diventerà immensamente celebre. “Nella lotta che ci sta davanti io non conosco più partiti nel mio popolo. Adesso tra noi ci sono soltanto tedeschi”, ribadisce il Kaiser nei giorni successivi. Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs – per la sua famiglia e per noi sarà semplicemente Rudolf – ha cinque giorni, è in effetti tedesco, e la sua esistenza sarà integralmente incastonata in questi trent’anni.
Venuto al mondo nell’anticamera dell’inferno, lo vedrà e cercherà la via del ritorno, con tutte le sue forze. È nato sotto una stella armata, Rudolf, mentre intorno a lui qualcuno ragiona e grida che no, questa carneficina la si deve fermare.
2.
A dirla tutta, tra i tanti figli illustri di Brema, una città che all’alba della Grande Guerra conta 250.000 abitanti, ce n’è uno che spicca su molti per chiara fama: il suo nome è Ludwig Quidde. Storico di formazione, quando Rudolf nasce Quidde è ormai un uomo di 56 anni che da molto tempo si batte contro la politica estera aggressiva del Kaiser e, più in generale, per la pace tra le nazioni. Non è certo l’unico, intesi: mentre infuriano i nazionalismi, gli imperialismi, il razzismo e il darwinismo sociale che – in forme e misure diverse – legittimano la guerra come strumento di regolazione dei rapporti di forza, in Europa non mancano gli afflati di contrapposizione a un’idea di senso di appartenenza esclusiva, asfittica, chiusa. Innanzitutto l’internazionalismo socialista e l’universalismo di frange del composito mondo cristiano, che si fronteggiano e a tratti convergono. E poi una rete pulviscolare di realtà associative – come il Bund Neues Vaterland, di cui lo stesso Quidde fa parte – e di semplici donne e uomini, non di rado cresciuti nella prosperità e nel benessere, che intendono sinceramente favorire la cooperazione tra i popoli e tra gli stati attraverso forme di associazionismo di vario tipo. “Pacifismo” è una parola potente, per uomini come Ludwig Quidde. Una parola alla quale dedicare l’intera propria vita, oscillando tra momenti di riconosciuta pavidità – Quidde non si pronuncia sull’aggressione tedesca del Belgio, per dirne una – e invidiabili squarci di coerenza.
Quidde, ad esempio, avrebbe potuto fare del mestiere di storico la sua vita. Ma ha avuto la carriera accademica stroncata vent’anni prima, in seguito alla pubblicazione di un infuocato pamphlet che, pur riferendosi all’imperialismo dell’antica Roma, accusava implicitamente Guglielmo II e le mire espansioniste della Germania di fine Ottocento, in una sorta di parodia nella quale accostava il Kaiser a Caligola, e che gli era costata tre mesi di galera. Si era tenacemente impegnato per ridurre l’ostilità tra la Francia e la Germania dopo il conflitto del 1870-71, e proprio a maggio del 1914, poche settimane prima dello scoppio del conflitto mondiale, è diventato presidente della Deutsche Friedensgesellschaft (DFG), la Società tedesca per la pace, che conta circa 10.000 membri per lo più appartenenti alla piccola borghesia, e che guiderà per quindici anni. Esiste ancora oggi, scopro, con una straordinaria e nitida specifica in aggiunta: “Resistenti Uniti contro la Guerra” (Vereinigte KriegsdienstgegnerInnen). La Società aveva raggiunto addirittura il traguardo del Nobel con la baronessa Bertha von Suttner, seconda donna dopo Marie Curie a vincere il prestigioso premio e prima ad aggiudicarsi quello per la pace, che era stata intima amica proprio di Alfred Nobel. Lei stessa, nel ritirarlo, aveva mostrato una profetica consapevolezza di quello che il prossimo futuro avrebbe potuto riservare al Vecchio Continente: “I sostenitori del pacifismo – aveva detto – sono ben consapevoli di quanto siano limitati il loro potere e le loro capacità di influire. Sanno di essere ridotti di numero e di avere scarsa autorità, ma quando considerano realisticamente chi sono e l’ideale che servono, si sentono servitori della più grande di tutte le cause. Dipende dalla soluzione di questo problema se l’Europa diventerà un cumulo di rovine e di fallimenti, o se riusciremo a evitare questo pericolo pervenendo più rapidamente all’era della pace e del diritto”. Era il 1905, e i quattro decenni successivi avrebbero in effetti generato quel “cumulo di rovine e di fallimenti” da lei pronosticato, anche se la baronessa non lo vedrà, perché muore a 71 anni il 21 giugno 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo. Come non può saperlo Quidde, ritirando il medesimo premio insieme al francese Ferdinand Édouard Buisson, nel 1927. Nella lecture che tiene il 12 dicembre, al cui testo rimetterà più volte mano nei quattro anni seguenti, insiste sul fatto che il programma di disarmo propugnato dalla maggioranza dei pacifisti nei decenni precedenti sarebbe ormai “ridicolo”: “un disarmo drastico e completo è oggi il nostro obiettivo”, altrimenti il disastro è dietro l’orizzonte. Ma la sua, per quanto supportata da schiaccianti evidenze, è ormai pura utopia.
Il clima è irrimediabilmente precipitato, e Quidde lo sa. “Una razza forte scaccerà le deboli” è il mantra del Mein Kampf, il “vangelo” dell’austriaco Adolf Hitler che punta tutto sul riscatto tedesco da affidare a un “uomo forte” (lui stesso, naturalmente), con idee chiare e nemici altrettanto chiari. La Germania e il suo popolo, la Volksgemeinschaft, l’Herrenvolk di cui già si parlava nel secolo precedente (il “popolo di dominatori”, appunto), devono avere diritto al loro “spazio vitale” (Lebensraum) recuperando i territori perduti e prendendosi quelli che ritengono necessari, soprattutto a est. La storia è per Hitler una “lotta totale tra i popoli”: predica la necessità di gerarchie tra esseri umani auspicando con foga l’annientamento dei deboli. La “razza forte”, per prevalere, deve distruggere le altre.
Hitler non è certo l’unico a soffiare sul fuoco della politica di potenza nazionale, né – in Germania – a criticare i trattati di Versailles, e cerca di farsi anzi collettore di una serie complessa di istanze. Molti tedeschi vogliono infatti “rifarsi” perché sulla sola Germania grava l’imposizione della colpa – da lei forzatamente riconosciuta nel noto articolo 231 del Trattato del 1919 – della guerra, e questa trasversale voglia di rivincita nazionale si sposa così a rivendicazioni sociali che coinvolgono ampi strati della Germania inquieta degli anni Venti, nella quale l’ormai anziano Quidde è tra i pochi che invitano alla ragione. Il vento della storia soffia, di nuovo, verso un conflitto generalizzato.
L’anno in cui tutto precipita, lo sappiamo, è il 1929, lo stesso in cui peraltro Quidde lascia la presidenza della Società tedesca per la pace. Rudolf ha 15 anni ed è ancora uno scolaro del Realgymnasium di Brema, mentre suo padre osserva con immensa preoccupazione la crescita improvvisa del partito dell’agitatore austriaco, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP). Il 3 ottobre di quell’anno muore infatti Gustav Stresemann, il politico conservatore che – pur non lesinando misure anche dure – era stato tra coloro che avevano cercato di salvaguardare la tenuta della repubblica di Weimar e dei suoi rapporti internazionali. La scomparsa di Stresemann segna simbolicamente la fine di un’epoca, per la Germania. Tre settimane più tardi, a New York crolla la borsa valori: per i nazionalsocialisti è la grande occasione. Nel giro di tre anni e pochi mesi arrivano al potere, inaugurando una delle epoche più buie della storia dell’umanità, mentre Rudolf frequenta la Seemannsschule di Amburgo, l’istituto nautico fondato da armatori e mercanti della città anseatica cinquant’anni prima.
Sappiamo che suo padre invita immediatamente Rudolf, che nel frattempo ha compiuto 18 anni, a proseguire gli studi e ad abbandonare la Germania per tenersi alla larga dal clima di violenza che si sta facendo asfissiante. Rudolf è ancora giovane, si deve fare le ossa. Imparerà, e ci metterà molto tempo, che la pace – e il suo concittadino Quidde lo sapeva bene – si può fare anche con le armi.
3.
“Per i traditori della Patria e per i disertori, che magari si sono anche vantati di aver combattuto al fianco dei partigiani e di aver ucciso dei soldati tedeschi, non c’è alcuno spazio tra di noi. Siffatti apprendisti senza onore non devono aspettarsi alcun rispetto nemmeno da quelli che sono stati fin’ora nostri avversari. Verranno isolati e trattati nel modo che si sono meritati […] Le nostre leggi militari hanno piena validità, oggi come ieri. Chi le trasgredisce deve portarne inesorabilmente le conseguenze”. Queste parole senza possibilità di fraintendimento sono vergate a giugno 1945 nel Deutsches Hauptquartier Bellaria, il quartier generale tedesco del campo di prigionia di Bellaria, dal comandante Karl von Graffen, che negli ultimi giorni di guerra era stato nominato comandante del LXXVI Panzerkorps sullo scacchiere italiano. Siamo alla fine di quella che molti definiscono la Guerra dei Trent’anni del Novecento, tre decenni e qualche mese dopo le parole con cui il Kaiser Guglielmo II, a Berlino, auspicava – intimava – che davanti a lui ci fossero “soltanto tedeschi”. E sette anni dopo il boato con cui una folla di 250.000 persone nell’Heldenplatz di Vienna invocava l’annessione tedesca dell’Austria, prima di certificarla con oltre il 99 per cento dei voti in un plebiscito che nel 1938 aveva saldato le due nazioni in un solo destino, in quella che sarà un’unica “comunità di popolo armata in guerra”. Così non è stato, almeno in parte: davanti al comandante del LXXVI Panzerkorps non ci sono solamente soldati che hanno inseguito quel sogno di dominio nazionale.
Alle spalle delle spietate minacce di von Graffen, sul suolo italiano e su tutto il globo terracqueo, quel “cumulo di rovine e di fallimenti” previsto dalla baronessa von Suttner quarant’anni prima. Eppure – c’è sempre un “eppure” – queste parole lasciano trasparire qualcosa di immenso. E cioè che von Graffen minaccia inesorabili conseguenze per chi, tedesco, con spudorata doppiezza o vestito di sincera convinzione, ha “combattuto al fianco dei partigiani”. E più in generale per chi si è macchiato del più infamante dei gesti che si possano immaginare, in tempo di guerra: la resa ai nemici, la diserzione, il tradimento – Special Germans, li chiamano gli Alleati. Tedeschi e austriaci speciali, con traiettorie imprevedibili, come molto più spesso erano stati imprevedibili i percorsi di tutte le nazionalità da loro arruolate più o meno a forza: soprattutto cecoslovacchi, polacchi e sovietici di varie provenienze.
In quello stesso campo di prigionia – il lager 12 – erano infatti presenti diversi soldati della Wehrmacht che durante il conflitto avevano disertato, e si erano uniti alla Resistenza italiana. Alcuni dei loro nomi li sappiamo: il sottufficiale Karl Berger, il caporalmaggiore Oskar Blümel, il caporalmaggiore Erich Stey, il caporale austriaco Franz Maier. Dubito che abbiano conosciuto Rudolf, eppure qualcosa li univa. Innanzitutto il fatto che, a differenza di Quidde e della baronessa von Suttner, a loro nessuno avrebbe neanche mai pensato di dare un premio Nobel. Anzi. Il futuro avrebbe riservato, a quegli uomini, quasi solo sguardi e parole taglienti come quelli del comandante von Graffen – quasi solo disprezzo, e al massimo poche briciole di compassione.
“Lui ha combattuto con loro”, avrebbero detto i concittadini, i parenti, gli amici: “Ha rivolto le armi contro di noi”.
4.
Quando ti uccidono più volte, forse non sarai mai morto per davvero. Se hai dimostrato di saper essere un uomo protagonista del tuo tempo ma guidato da valori universali, che trascendono quel tempo stesso, il tuo nome resterà scolpito da qualche parte – nella memoria dei luoghi, in una lapide dimenticata, tra documenti accartocciati, nei sussurrii della gente del posto. Si dirà “lui aveva combattuto con i nostri. Lui, che era tedesco”. Si tramanderà un racconto, che così manterrà viva la tua storia, finché qualcuno non la spolvererà per raccontarla battagliando con l’oblio.
Questo è quanto accaduto a chi, vestendo la divisa delle forze armate tedesche, ha saputo dire di no, seguendo non gli ordini liberticidi e criminali della “patria” ma la propria coscienza, pur sapendo che avrebbe potuto morire non una ma due volte. Se da un lato avrebbe potuto essere ucciso in battaglia, combattendo contro i suoi ex commilitoni e i loro alleati fascisti, dall’altro il suo nome – questo invece era pressoché certo – sarebbe stato a lungo cancellato dalla memoria pubblica del suo paese. Sarebbe stato complicato, anche se si fosse persa la guerra, celebrare i disertori, queste anime rinnegate che avevano scelto il lato giusto della storia, intralciando la cavalcata del Reich millenario per inseguire, al contrario, un altro ideale.
Già nella riedizione della prima grande narrazione della guerra partigiana di Roberto Battaglia, uscita postuma, sono inserite ex novo alcune pagine dedicate al tema su cui lo storico scrive in maniera pionieristica negli anni Sessanta. E tra gli stranieri che si unirono alla Resistenza ricorda anche i disertori dell’esercito tedesco (nati nel Reich o altrove), che appaiono “nelle file del movimento partigiano in quasi tutte le regioni del Nord”. Stiamo parlando di un nucleo numericamente non trascurabile anche secondo gli storici tedeschi che avrebbero proseguito questo filone di ricerca, arrivando a suggerire l’ipotesi che fossero centinaia. Come avrebbe sottolineato Claudio Pavone molto tempo dopo, si sarebbe addirittura tentato di costituire reparti composti integralmente da disertori della Wehrmacht, e le stime più aggiornate confermano le sensazioni dei primi storici della Resistenza: questi uomini capaci di scarti improvvisi e senza possibilità di ripensamento erano certamente svariate centinaia, questo è il dato dal quale devo e dobbiamo partire. E lo stesso vale per diversi altri teatri di guerra, come la Francia, la Jugoslavia e la Grecia (dove furono oltre mille), anche se in questi casi come in quello dell’Europa orientale è difficile raggiungere delle stime certe: va detto che le biografie a nostra conoscenza hanno raggiunto ormai da tempo, allargando lo sguardo al continente, un ordine complessivo quantificabile in diverse migliaia.
Per la sola 10ª armata di stanza in Italia i dati disponibili parlano di 3.582 casi di diserzione e allontanamento non autorizzato, circa la metà dei quali di nazionalità tedesca o austriaca, e una parte considerevole di loro si unì al partigianato italiano – era uno stillicidio continuo, come rilevava la giustizia militare tedesca nel corso del conflitto. Schegge, in confronto a storie epiche confrontabili, come quella dei molti ex soldati italiani che si unirono alla Resistenza francese o greca, o come quella della Divisione partigiana Garibaldi, in Montenegro, dove 20.000 italiani prima appartenenti all’esercito fascista combatterono fianco a fianco ai partigiani locali, e tra i 6.500 e gli 8.500 di loro morirono per la libertà degli ex nemici. Ma schegge commoventi, che si fanno ossessionanti e irrompono brutalmente, con costanza, nei pensieri di chi studia questi anni. Schegge che, a un certo punto, non lasciano più scampo, e pretendono di essere indagate.
Un giovane studioso cui va il merito di essere stato il primo a provare a operare una ricognizione sistematica su questi disertori nella penisola, Francesco Corniani, ha osservato che in termini assoluti si tratta di un numero limitato, “se rapportato al milione di soldati circa dell’esercito tedesco che furono presenti tra il 1943 e il 1945 in Italia” – uno su mille, a spanne. Eppure l’esistenza di questa nutrita minoranza dimenticata, sulla quale non ha svolto “nessuna ricerca mirata” neanche la Commissione storica italo-tedesca (2009-2012), è un dato dal portato storico, civile, etico e simbolico strabiliante. Rivoluzionario. “Dopotutto, chi controlla i valori del mondo?”, chiede un commilitone di Walter Proska, il riluttante disertore del romanzo di impianto autobiografico di Siegfried Lenz, Der Überläufer,scritto nell’immediato dopoguerra ma uscito solo nel 2016: “Tu e tu soltanto”, si risponde.
L’aspetto più entusiasmante della storia, in fin dei conti, si cela nelle traiettorie biografiche dei suoi protagonisti, come l’archetipico Walter Proska, o come Rudolf. E, in questo caso più che in molti altri, si possono – si devono – ricostruire. Sapendo che saranno innumerevoli i vuoti, gli inciampi, le informazioni che vorremmo e che non potremo avere. Fin dalla riedizione del 1964 della Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia il simbolo anche problematico, tra gli addetti ai lavori, di queste vite utopiche di veri e propri “partigiani dell’umanità” che scelsero il loro versante della lotta senza adagiarsi sui confini imposti alla nascita, è Rudolf, quell’uomo nato a Brema nella “crisi di luglio” del 1914. Ma chi era veramente? È possibile scoprirlo? E quali domande pone a noi oggi la sua parabola umana?
Per quelle inaspettate coincidenze che l’indagine del passato spesso ci fornisce, quell’uomo portava un nome, Rudolf, che molti anni dopo avrebbe raccontato una storia non accomunata solamente dall’omonimia. Una storia di un altro Rudolf, una storia diversa.
Ma – per gli interrogativi che scatena – non poi così tanto.
Saremmo stati diversi?
1.
“Esistevano dei tedeschi buoni?”. È il 1989, un anno fondante per la nuova Europa aperta che si intravede all’orizzonte e in cui inizia a infuriare il dibattito sulla “guerra civile europea”, e Nuto Revelli – ex partigiano, insuperato indagatore della storia sociale italiana – rivolge questa domanda a C.M., un combattente della Resistenza belga ebreo, di madre polacca e padre russo. “No, nessun tedesco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insieme non buoni”, gli risponde C.M.
Revelli, un reduce del freddo glaciale del fronte russo dove aveva maturato un’irriducibile opposizione ai fascismi, aveva narrato diverse volte e per iscritto la sua esperienza – la sua “conversione” all’antifascismo, verrebbe da dire. “Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato”, aveva scritto a inizio anni Sessanta ne La guerra dei poveri a proposito dei giorni di settembre del 1943 in cui finì il suo fascismo “fatto di ignoranza e presunzione”, e scelse la lotta contro i fascisti repubblicani di Salò e i loro alleati nazisti. Come avrebbe più volte raccontato, il suo odio per i tedeschi durante e in seguito alla campagna di Russia era via via cresciuto, diventando coriaceo, insopprimibile. E lo sarebbe rimasto per decenni – nonostante ne avesse incontrati, di tedeschi antinazisti, durante la lotta di liberazione.
“Nei venti mesi della guerra partigiana distinguevo i tedeschi della Wehrmacht dalle SS, ma non i tedeschi dagli austriaci. Erano tutti tedeschi per me, tutti uguali, tutti nazisti”: la sua leggendaria – rivendicata – incapacità di voler andare oltre quell’odio quasi atavico, coltivato con rancore, però, a un certo punto, incontra un ostacolo. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta comincia a ossessionarlo la storia di un “cavaliere solitario” che era diventato un disperso nel Cuneese nel corso della guerra 1943-45. E cerca spasmodicamente di ricollegare le poche tracce consunte di questa storia dai contorni così incerti, da “sordomuto” (Revelli non parlava né capiva il tedesco, né poteva accedere a Google Translate, ovviamente). Oltre a interrogare una miriade di testimoni e a mettersi alla caccia di una documentazione che pare impossibile da trovare, Revelli si confronta anche con diversi storici, tra cui Christoph Schminck-Gustavus, professore di storia del diritto e storia sociale all’università di Brema. Proprio Schminck-Gustavus, a distanza di poco dal dialogo con il partigiano belga, gli manifesta il suo disagio: “Magari il vostro odio di allora vi ha accecati, fino al punto che non vedevate più quei tanti poveri diavoli” che indossavano malvolentieri la divisa tedesca. In effetti, per Revelli e per molti altri, era stato così, e proprio l’incontro con una nuova leva di storici tedeschi che indaga più a fondo e racconta i crimini del nazionalsocialismo inizia a scavare dubbi nelle sue certezze. Due anni prima, a oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ha scritto questo di Christoph, diventato nel frattempo una frequentazione preziosa: “la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio ‘tedesco buono’ l’ho trovato”.
Cinque anni dopo questa prima folgorazione – e il capitolo del libro dedicato a questa ricerca, Il disperso di Marburg, si intitola “La svolta” – finalmente, grazie all’aiuto decisivo di un altro storico, l’italiano Carlo Gentile, il bandolo della matassa si sgroviglia e il “cavaliere solitario” guadagna una provenienza (Marburg), un nome – Rudolf, appunto – e un cognome, Knaut. Non molto altro, in realtà, ma anni di vicoli ciechi e false piste alla fine approdano al punto che sogna chiunque si metta su una traccia, sperando di arrivare da qualche parte. “Il sentimento di pietà è così profondo da annullare ogni compiacimento per il risultato conseguito”, annota Revelli a proposito di quel tedesco di Marburg che usciva solo a cavallo tutte le mattine dalle “Casermette” di San Rocco, alle porte di Cuneo, e che un giorno venne catturato e ucciso da un gruppo di partigiani. E che lui insiste, tra le pieghe del suo resoconto impostato quasi come un diario di bordo, a definire il suo “tedesco buono”, nonostante lo stesso Gentile non accetti questa ipotesi e lo inviti “amichevolmente a ritornare con i piedi per terra”. Revelli pare avere una necessità spasmodica di trovare pietà per tutti i combattenti, anche per se stesso.
In realtà Rudolf Knaut non era affatto un “buono”. Certo, come ha osservato Luigi Bonanate, è “il simbolo più banale e più anti-eroico della figura del disperso (di tutte le guerre)”, figura immensamente cara a Revelli per via della sua personale esperienza in Russia, ma non è “né migliore né peggiore di tanti combattenti”, degli oltre sette milioni di morti tedeschi e austriaci della seconda guerra mondiale. Revelli si ostina a voler vedere un “buono” in Knaut, un uomo che, sebbene non fosse iscritto al Partito nazionalsocialista di Hitler, si presume che fosse sistematicamente impegnato in attività antipartigiana con il suo battaglione. Se pensiamo che possa esserci dell’ingenuità in questa clemenza ex post di Revelli, però, ci sbagliamo.
“Credo di non aver dimenticato nulla di quei tempi in cui la ferocia era all’ordine del giorno” – scrive in uno dei passaggi più memorabili de Il disperso di Marburg. “Ma voglio che ogni tanto i freni della razionalità si allentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti. Quante volte, in quei tempi della malora, mi dicevo che in guerra erano i buoni a pagare, non i peggiori”. E questo, nella nostra storia, è sicuramente vero.
2.
Uno degli ultimi giorni del secolo scorso, intervenendo subito prima di un dibattito tra Revelli e il pubblico, il suo amico Christoph Schminck-Gustavus – “tedesco buono”, lui sì – chiede alla platea: “Come ci saremmo comportati noi?”. Immagino la commozione sua e degli astanti, mentre prosegue: incalza chi lo ascolta definendo certo un po’ “farisaico” il pensiero “che avremmo opposto resistenza, che sarem[m]o stati coraggiosi, che saremmo stati un po’ diversi dal normale, da quella normalità che ha permesso che andasse in rovina quasi tutta l’Europa, che morissero milioni e milioni di uomini”. “Saremmo stati diversi?”, chiede Schminck-Gustavus al pubblico, e a tutti noi. Forse, o forse no. Gli avrebbe fatto eco, molti anni dopo, il conturbante criminale di guerra (hollywoodianamente e ordinariamente “cattivo”) Max Aue, voce narrante e protagonista del romanzo Le benevole di Jonathan Littell, con tutt’altro tono: “Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo”.
Naturalmente il fatto che questa domanda, “saremmo stati diversi?”, l’abbia posta un tedesco – seppure in un invidiabile italiano – non deve essere passato inosservato. Negli ultimi tre quarti di secolo è spesso bastato l’accento, di un tedesco, per sentire quel piglio “fanatico, cinico, arrogante, spietato”, “quasi a indicare un’essenza antropologica imperitura”, quasi a significare l’incarnazione del male, come avrebbe osservato Filippo Focardi una dozzina d’anni più tardi. Lo fa nel capitolo “Uomini o tedeschi?” del saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano, un pilastro della storiografia italiana più recente che ci mostra come lo sforzo di addossare tutte le colpe della guerra non solo alla Germania nazista ma, per induzione, a tutti “i tedeschi”, avesse coinvolto a trecentosessanta gradi il mondo della cultura e della politica, anche antifascista, con lo scopo di riabilitare l’Italia, nel dopoguerra, nella cornice internazionale. Ma, parallelamente, era rimasta viva la ricerca di “bagliori di umanità non spenta dall’omologazione imposta dal regime”, in scia alla tradizione pacifista – con tutti i suoi chiaroscuri – incarnata da von Suttner e Quidde, a quella socialdemocratica e conservatrice, a quella con connotazioni religiose rappresentata dal pastore protestante Martin Niemöller e dal teologo Dietrich Bonhoeffer, a quella più controversa di parte dell’establishment militare con il suo apice nell’ultima estate di guerra, fino a percorsi di militanza radicale con le salde radici fin nel 1933, quando il nascente regime aveva cominciato immediatamente a internare, a decine di migliaia, i suoi oppositori (soprattutto comunisti, socialisti e sindacalisti), mentre altre decine di migliaia di antinazisti trovavano riparo in esilio. È stato stimato che furono quasi un milione i tedeschi internati nei campi di concentramento del regime, a diverso titolo componenti della “complessa galassia delle resistenze tedesche”. Quanto di questo è trapelato, all’epoca dei fatti e poi nella loro memoria, in Italia?
Fin dall’immediato dopoguerra sulla penisola avevano iniziato a circolare racconti puntuali e locali relativi a tedeschi – non di rado relativamente anziani – che si erano comportati umanamente, senza per questo scalfire oltre la superficie una raffigurazione fondamentalmente “permeata dall’astio antigermanico”. Focardi ha messo in rilievo come, nonostante il tentativo di contrastarlo recuperando, tra le altre cose, il meglio della “cultura di Weimar” e più in generale frammenti dell’“altra Germania”, questo archetipo del tedesco guidato dall’obbedienza acritica e incondizionata fosse un convincimento ben presente dall’Ottocento risorgimentale e con radici addirittura nella contrapposizione fra latinità e germanesimo in epoca romana. Cresciuto esponenzialmente con la propaganda del primo conflitto mondiale, era poi esploso con il nazismo e con una diffusa sensazione di “asservimento” all’alleato – con cui l’esercito fascista gareggiava in ferocia su diversi fronti – nella prima fase del conflitto mondiale. Questo stereotipo del “barbaro” aveva così inquinato anche nel corso della guerra di liberazione il vissuto di tutti i tedeschi, nessuno escluso, “distorcendo anche la percezione di quanti di loro avevano compiuto concretamente un atto di rottura o quantomeno di distacco nei confronti del Terzo Reich, ovvero i disertori e gli oppositori politici”. Al punto che persino nelle Lettere della Resistenza europea (1969) che ne includono dieci di antinazisti tedeschi e austriaci, si ragiona intorno all’odio maturato nei confronti di un “popolo di assassini”. A questo si erano affiancati, in parziale controtendenza, sporadici riferimenti a tedeschi che avevano abbandonato la lotta, mossi più che altro da nichilismo e disperazione, senza coscienza politica, e più in generale a coloro che nel corso della guerra venivano definiti Wehrkraftzersetzer – “disfattisti”, in sostanza.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, tuttavia, i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti (anche di origine ebraica) impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi: fucilati o impiccati all’albero più vicino dai loro ex commilitoni.
Ma limitiamoci a osservare i dati certi, per ora: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in “battaglioni punitivi”. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo (SS e Gestapo), ma anche da molti soldati e ufficiali, né che molti “uomini comuni” parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci anche gusto, dall’altro la vicenda dei disertori è un elefante che si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra europea dei Trent’anni. E va raccontata, anche se questo dovesse significare dibattersi fra tracce rarefatte, sbiadite.
Se raramente questi disertori si unirono alle fila nemiche e lo fecero per ragioni ideali, non si può sottovalutare che – come ha mostrato una ricognizione di 16.000 lettere di soldati, sui tre miliardi di missive e pacchi fatti transitare dalla Feldpost tedesca tra il 1939 e il 1945 – i ragazzi e gli uomini tedeschi che combattevano sui vari fronti vedevano la loro guerra “attraverso il prisma non solo dell’ideologia ma anche della tradizione familiare di ciascuno, delle sue letture, della sua esperienza, del suo rapporto con la storia e del modo in cui collocava se stesso nella storia”. Non era facile scostarsi da quella narrazione nella quale rimbombavano i discorsi ottocenteschi sull’Herrenvolk, e che attingeva a piene mani dalla guerra miseramente persa, quella prima: i principali teatri delle operazioni della seconda guerra mondiale, infatti, avevano visto la generazione dei padri battersi nel conflitto precedente, e questi giovani di nuovo in armi avevano spesso “bisogno di sentirsi parte di una lunga genealogia di combattenti”. Per questa ragione le storie di chi remò controcorrente, di chi si mise di traverso cercando di arginare la tracimante marea nazionalista che aveva travolto (quasi) ogni cosa, in patria e oltre, hanno qualcosa di stupefacente.
Nell’estate del 1944, ad esempio, dopo lo sbarco in Normandia la Wehrmacht si trovò vicina al punto di rottura, e le sistematiche diserzioni riguardavano soldati inquadrati precedentemente a est, alsaziani e Volksdeutsche, ma anche tedeschi nati nel Reich (Reichsdeutsche) e austriaci, come ha notato lo storico militare Antony Beevor: “Alcuni erano soldati che non credevano nel regime nazista o che, più semplicemente, odiavano la guerra […] Il generale Lüttwitz, comandante della 2ª Divisione panzer, rimase sconvolto quando tre dei suoi austriaci disertarono passando al nemico e avvertì che i nomi di tutti i disertori sarebbero stati resi pubblici nelle loro rispettive città, così da poter prendere misure contro i loro parenti. ‘Se qualcuno tradisce il suo stesso popolo’ annunciò ‘la sua famiglia non appartiene più alla comunità nazionale tedesca’”. Un alsaziano che cercò di unirsi a una colonna di profughi francesi, racconta ancora Beevor, venne picchiato a morte dai soldati della sua compagnia, e il suo cadavere con le ossa fratturate venne gettato nel cratere di una bomba – “il capitano proclamò che questo era un esempio di ‘Kameradenerziehung’, un’‘educazione al cameratismo’”. Non stupisce che chi aveva ancora energia e coraggio valutasse di passare tra i ranghi del nemico: non è certo un caso che, sul fronte orientale, Himmler decise di proibire la parola “partigiano”, per riferirsi ai gruppi di civili che affiancavano le forze regolari sovietiche, ordinando di utilizzare il termine “banditi” (Banditen), largamente in uso in tutta Europa, o in alternativa il termine franc-tireurs, espressione che i tedeschi conoscevano bene per via della guerra del 1870-71. Il lemma “partigiano” poteva fare presa sui soldati tedeschi, persino nella “guerra assoluta” contro l’URSS, dove fin dalle ore precedenti l’attacco un militare tedesco passò le linee per avvisare i nemici. Dovrebbe trattarsi dell’operaio comunista berlinese Wilhelm Korpik o del caporale Alfred Liskow, falegname comunista bavarese, che è l’unico disertore (e) del quale è citata l’identità nella raccolta di documenti dell’URSS sulla “grande guerra patriottica” e che venne probabilmente non creduto e fucilato dai sovietici. In realtà sappiamo che di militari passati a dar manforte ai “rossi” ce ne furono diversi altri (persino dei generali come Rudolf Bamler), e furono numerosissimi nel celebre e leggendario “Battaglione punitivo 999” – che poi in Grecia vedrà un altissimo tasso di diserzione –, dove erano assegnati i comunisti tedeschi, e in genere gli antinazisti; i passaggi di campo, considerando anche quelli dei combattenti locali, possono essere stimati in decine di migliaia. Le loro storie, e innanzitutto la lungimirante diserzione di Liskow, a guerra in corso vennero talvolta utilizzate per la propaganda antinazista: tra le più emozionanti rimane la vicenda del muratore comunista Fritz Schmenkel, di Stettino, catturato in Bielorussia dai suoi ex camerati dopo oltre due anni di lotta con i partigiani sovietici e fucilato nel febbraio del 1944.
Anche durante la lotta contro i nazifascisti, le Resistenze europee avevano ben chiaro, con gradazioni e convinzioni diverse a seconda della regione geografica e del posizionamento politico, che il nemico non doveva essere demonizzato in toto, e si moltiplicavano gli appelli che lo invitavano a disertare, e a unirsi ai combattenti per la libertà. Sebbene pochi, i “giusti” c’erano, nelle città e sui fronti più disparati. Uno era Joe J. Heydecker, un fotografo della Compagnia Propaganda 689 della Wehrmacht che partecipò come Revelli all’invasione dell’Unione Sovietica e che nel corso dell’occupazione della Polonia fotografò, a rischio della vita, le condizioni degli ebrei del ghetto, consegnando ai posteri una delle più vigili e strazianti testimonianze dello sterminio nazista. Anche tra le vittime in molti cercarono fin da subito di vedere questi “giusti”, per poter credere in un mondo diverso.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, è tra i pionieri di questa ricerca dei tedeschi che non fossero complici, alla quale dedica tutta la sua vita di superstite, non senza ricorrenti ritrosie, in maniera ondivaga, “a tratti entusiasta, a tratti frustrante”. Già nel suo ritorno a casa si sorprende a cercare per le vie di Monaco, “fra quella folla anonima di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro, ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece”.
Sotto il “cumulo di rovine e di fallimenti”, a ben cercare, ha sempre covato un’altra narrazione – un contromovimento presente sottotraccia anche in tutta la letteratura resistenziale del continente, e non solo nei percorsi di ricerca e nelle testimonianze dei combattenti e dei sopravvissuti. Sono squarci della narrativa, come “l’ufficialetto” austriaco unitosi alla Resistenza ne Il partigiano Johnny di Fenoglio, “appena un ragazzo, ma pallido e già stempiato […] straordinariamente smilzo, e la divisa naturalmente gli andava larga, ma senza effetto buffo, anzi con un incredibile incremento di romanticità”; accompagnato da una “totale, immascherabile, propagantesi tristezza”. Ricorda, per contrasto, il tedesco catturato – e soprannominato “Fritz” – che nel racconto fenogliano Golia non osa neanche colpire i partigiani con le palle di neve. È “una pasta frolla, non sembra nemmeno un soldato tedesco”, nella descrizione del comandante Sandor; è un soldato tedesco che aveva combattuto anche “l’altra” guerra e che, dopo una lunga convivenza in banda, finisce “giù piatto come una rana”, la faccia nella neve, in una sorta di beffardo e tragico regolamento di conti che ha più a che vedere con la brama di autostima di un minuto partigiano giovanissimo – “Carnera” – che con il comportamento di Fritz, alias “Golia”.
Uno dei picchi più alti di questa ricerca in apparenza destinata al fallimento lo incrociamo nello straordinario Educazione europea di Romain Gary, un romanzo scritto a guerra in corso e ambientato nella Polonia occupata dai nazisti, nel quale troviamo un dialogo tra il protagonista – un ragazzino, Janek – e il suo mentore, Dobranski, che gli vuole dimostrare “fino a che punto ci assomigliamo, noi e loro”. E gli racconta la storia di quando “il terrore tedesco era al colmo”:
“Allora mi domandavo: come può il popolo tedesco accettare tutto ciò? Perché non si ribella? Perché si sottomette e accetta questo ruolo di boia? Certo, coscienze tedesche ferite, oltraggiate in ciò che hanno di più semplicemente umano, si ribellano e si rifiutano di obbedire. Quando, però, vedremo i segni della loro ribellione? Ebbene, a quel tempo un giovane soldato tedesco venne qui, in questa foresta. Aveva disertato. Veniva a unirsi a noi, a mettersi al nostro fianco, sinceramente, coraggiosamente. Non vi erano dubbi: era un puro. Non si trattava d’un membro del Herrenvolk, si trattava di un uomo. Aveva sentito il richiamo di ciò che in lui vi era di più semplicemente umano, e aveva voluto togliersi di dosso l’etichetta di soldato tedesco. Ma noi avevamo occhi soltanto per questo, per l’etichetta. Tutti sapevamo che era un puro. La purezza la senti, quando ti capita di trovarla. Ti acceca, in mezzo a questo buio. Quel ragazzo era uno dei nostri. Ma aveva l’etichetta”.
“E allora?”
“E allora noi lo abbiamo fucilato. Perché aveva addosso l’etichetta: tedesco. Perché noi ne avevamo un’altra: polacchi. E perché l’odio era nei nostri cuori… Qualcuno, a mo’ di spiegazione, o di scusa, non so, gli aveva detto: ‘È troppo tardi’. Ma sbagliava. Non era affatto troppo tardi. Era troppo presto…”.
Dobranski aggiunse:
“Ora ti lascio. Arrivederci”.
E si allontanò nella notte.
3.
Quando le preoccupazioni ti assediano, non è inconsueto che tu ti svegli all’alba. Forse ti sei già costruito un giudizio inappellabile sul baratro in cui è precipitata la Germania, ma hai due figli, uno di pochi mesi e l’altro di due anni, e devi prendere tempo. Vuoi prendere tempo, dannazione – ci va un coraggio immenso, per osare. Per essere “un puro”.
Rudolf non può aver letto Educazione europea, questo è certo, perché uscirà di scena prima che il romanzo di Gary veda la luce. Conosce invece, con ogni probabilità, alcune delle storie della Resistenza tedesca, che non saprà mai farsi un movimento tendenzialmente strutturato e diffuso come invece accadrà in tutta Europa, è vero, ma che ha sempre innervato la Germania nazista, anche negli anni più bui. Avrà sentito parlare, ad esempio, di Georg Elser, carpentiere e falegname, che a due mesi dallo scoppio della guerra ha mancato il Führer di 13 minuti in un attentato dinamitardo, uno tra le decine di mancati tirannicidi che si sono avvicendati in dodici anni di nazionalsocialismo. Nel frattempo Rudolf si è da poco sposato con Herta Jacke, e ha avuto due figli, Rudolf (nato già nel 1937, prima del matrimonio) e Wilhelm, venuto al mondo il 14 febbraio del 1939 a Brema, pochi mesi prima che calasse l’oscurità sul continente, con l’invasione nazista della Polonia.
Papà Rudolf ha fatto di tutto per non essere arruolato nelle forze armate tedesche, trovando una legittima motivazione nella sua condizione familiare e nel fatto che è ancora impegnato con gli studi. D’altra parte ha già prestato servizio militare a partire dall’ottobre del 1935: negli anni Trenta compie un percorso di formazione da marinaio in patria e all’estero, probabilmente in India, allargando così il suo orizzonte. Tornando sul suolo tedesco ha però disobbedito al padre, che aveva ampiamente previsto la tormenta che si stava abbattendo sulla Germania e sull’Europa intera, e l’aveva supplicato – lo abbiamo visto – di stare lontano dal centro degli eventi. Ora, quando gli anni Trenta sfumano nei Quaranta, vive con la famiglia nel sobborgo Francop di Amburgo. La città diventerà celebre per via di un’istantanea e di una storia. L’istantanea: quella foto che immortala un uomo a braccia conserte, in una posa quasi di sdegnosa disubbidienza, immerso in una folla oceanica tesa nel saluto romano a Hitler, nel 1936, in occasione del varo di una nave.
La storia è invece la vicenda della St. Louis, la nave capitanata da un connazionale di Rudolf, il capitano Gustav Schröder, che ha tentato in ogni modo, nell’estate del 1939, di portare in salvo quasi mille ebrei oltre Atlantico, salvo essere poi costretta a fare marcia indietro, perché nessuno, nelle Americhe, li voleva. La vicenda ha avuto un’immensa eco in tutto il mondo, e quasi certamente Rudolf ha osservato la tenacia di Schröder chiedendosi se lui sarebbe stato capace di fare altrettanto – per non parlare delle migliaia di volontari tedeschi e austriaci che in questi medesimi anni si sono battuti per la Repubblica contro i fascismi, nella guerra civile spagnola.
È un giovane uomo nel pieno delle proprie forze, Rudolf, e suppongo cerchi spiragli di coerenza in quella prigione a cielo aperto che è diventata la Germania. Secondo la sorella, ma non a parere del resto della famiglia, è – o almeno era stato – un Weiberheld, un donnaiolo: una foto di quegli anni in divisa da marinaio cattura il suo sguardo vivace, i capelli tirati all’indietro, leggermente rasati sulla tempia, un’occhiata in camera che sembra chiedere “sto bene, così?”. Ha la vita davanti, Rudolf, e pare esserne del tutto consapevole: se in un ritratto di coppia scattato in occasione del suo matrimonio mantiene uno sguardo austero, con il papillon bianco quasi a scomparire sulla camicia altrettanto candida nell’uniformità cromatica, in un quadretto familiare con il figlio Rudolf jr. cogliamo lateralmente il sorriso sincero di un uomo raggiante. La fossetta sulla guancia destra, la mano del figlio appoggiata con delicatezza sulla sua spalla – si intravede una felicità che chi non ha vissuto non sa di poter provare. Quanto inciderà sulle sue future scelte?, mi chiedo.
Perché la Germania – la Germania nazionalsocialista, ora – pronuncia a più riprese il suo nome. Avere 25 anni allo scoppio della guerra, per Rudolf, è una dannazione e un’opportunità: deve lasciare la sua famiglia, come milioni di altri suoi coetanei, e rispondere alla chiamata alle armi, e questa è la maledizione. Ma può fare carriera, con alle spalle la sua formazione da marinaio alla Seemannschule e i suoi studi da ingegnere, seppur interrotti a più riprese: nonostante riesca per diverso tempo a scampare l’arruolamento, gli viene infine intimato di partecipare alla realizzazione del “Vallo Atlantico”, un progetto mastodontico con l’obiettivo di rendere la “fortezza Europa” nazista inespugnabile, ad Amburgo-Altona e a Saarburg. Presta giuramento alla Marina di guerra – la Kriegsmarine – l’8 maggio del 1941 e a fine agosto del 1942, quando il mondo sta entrando nel quarto anno di guerra, si trova a nord di Brema, nella Bassa Sassonia (a Wilhelmshaven). Un tedesco di 28 anni, in pieno conflitto mondiale, difficilmente può evitare di prenderne parte.
Ed è così che Rudolf, nato sotto una stella armata a Brema e diventato adulto per le vie del mondo e nella turbolenta Amburgo, richiamato dalla Marina il 25 settembre del 1943, dopo qualche mese con la Maas-Flottille nell’Europa settentrionale arriva infine in Italia – un fronte che diventerà presto secondario, ma sul quale i vertici delle forze armate tedesche ripongono ancora fiducia. Sul suo ruolino militare non risultano sanzioni disciplinari. Servono gli uomini migliori per arrestare la risalita della penisola degli Alleati, e per annichilire quei piantagrane dei “banditi” italiani, che imperversano intorno alle Alpi Apuane.
4.
Secondo alcuni dei partigiani protagonisti di questa stagione, la banda del marinaio sarzanese Flavio Bertone, nome di battaglia “Walter”, proprio nell’estate del 1944 prende il nome “Ugo Muccini”, in ricordo di un militante comunista che si era arruolato nelle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola ed era morto eroicamente a Sierra Cabals, nel corso della leggendaria battaglia dell’Ebro, non ancora trentenne. Secondo altri, il nome della banda i cui primi nuclei nascono nella valle del fiume Magra sarebbe stato acquisito ben prima, mentre è certo che dall’autunno la denominazione sarebbe stata questa, fino al termine della guerra, una volta costituitasi come Brigata garibaldina d’assalto. La banda guidata da “Walter”, il cui commissario politico è Paolino Ranieri (“Andrea”), in ogni caso, dopo essersi spostata nell’entroterra, a giugno partecipa alla liberazione del paese di Bardi, non lontano da Parma, e da questo colpo di mano nasce l’esperienza della repubblica partigiana del Ceno – un’esperienza pionieristica nell’Italia occupata –, alla quale fa seguito l’istituzione del vicino Territorio libero della Val Taro, con una popolazione di oltre 40.000 abitanti. Le fotografie scattate agli uomini di “Walter” e “Andrea” a Bardi ci mostrano un gruppo compatto di giovani determinati, che vogliono fare la differenza non solo nei luoghi dei quali la maggior parte di loro è originaria. La porzione di territorio dalla Spezia a Parma in cui si stanno muovendo è cruciale per gli Alleati: la presenza delle Alpi Apuane e dell’area appenninica che porta da Genova a Modena rende infatti alquanto impervia la zona nella quale non è in sostanza possibile ingaggiare scontri in campo aperto. Né, per i partigiani, sarebbe sensato.
Quella della banda di “Walter”, e vale in generale per la Resistenza italiana, è guerra di guerriglia: un conflitto asimmetrico, contro un nemico che ha risorse spropositate e armamenti con un raro potenziale distruttivo. L’occupazione nazista è iniziata a settembre del 1943, e nelle settimane successive in un’ampia area dell’Italia centrosettentrionale è sorto il governo vassallo fascista della Repubblica sociale italiana, per proseguire la guerra al fianco dello storico alleato. I diversi sbarchi angloamericani hanno rapidamente liberato l’Italia del sud, e il fronte si è incancrenito per circa otto mesi sulla Linea Gustav, dove combattono truppe arruolate in ogni dove, in uno schieramento e nell’altro – anche qui è davvero una guerra “mondiale” che coinvolge decine di stati e di nazionalità. Dopo lo sfondamento della Gustav a maggio, grazie al contributo determinante delle truppe coloniali francesi e del corpo di spedizione polacco, i tedeschi sono definitivamente in ritirata dal Mezzogiorno, incalzati anche dai combattenti provenienti dal Corno d’Africa come quelli della “Banda Mario”, che avrà tra i suoi ranghi un melting pot di combattenti di almeno otto nazionalità tra cui un viennese, Emerich Schafranek. La pressione alleata sta spingendo gli avamposti tedeschi più meridionali verso il sud della Toscana: in quell’area i disertori sono numerosi, rileva Carlo Gentile – lo storico che aiutò Revelli nella sua ricerca –, e la disciplina risulta “fortemente compromessa”. Il Comando supremo della Wehrmacht tenta di “reagire a quelle tendenze disgregative mandando in Italia un reggimento di Feldjäger, un corpo speciale di polizia militare dotato di pieni poteri e incaricato di intercettare fuggiaschi e disertori alle spalle della linea di combattimento per rispedirli al fronte”.
“Te la fanno vedere loro, la diserzione”, commenta portandosi un dito teso alla tempia Walter, il protagonista diciassettenne del romanzo Morire in primavera di Ralf Rothmann, ambientato in un altro teatro di guerra (quello ungherese, dove Walter è trascinato suo malgrado) ma che delinea perfettamente i rischi che la diserzione comporta: “La polizia militare vede chiunque a mille metri di distanza e ti impicca su due piedi, senza processo. Sono dei veri bastardi. Probabilmente rischi di meno se riesci a tenerti fuori fino alla fine”.
Nella regione lo sa bene il diciannovenne tedesco Günter Frielingsdorff, pittore e studente d’architettura, “un bel ragazzo, un bel moro, alto” secondo una testimone, che già a ottobre del 1943 ha disertato insieme a un compagno, aggregandosi alla Resistenza nel Grossetano: dopo varie peripezie, si è unito a una banda di dieci giovani italiani – con loro “lo spezzino” trentottenne Mario Becucci – nella macchia di Monte Bottigli, una trentina di chilometri a sud di Grosseto. Durante un rastrellamento in seguito a delazione, iniziato la notte tra il 21 e il 22 marzo 1944, Frielingsdorff riesce a salvarsi sfondando audacemente la parete della capanna in cui si trova per fuggire nella boscaglia, dove i fascisti lo inseguono sparando all’impazzata – gli abitanti del luogo ricorderanno che “gli passavano sopra le pallottole”, come in un film. Ma è la bruta realtà: “il fatto che soltanto uno della banda è riuscito a fuggire all’annientamento, dimostra che la sorpresa è riuscita in pieno”, commenta poi il capo fascista della provincia ai suoi “gregari”, rivolgendo il suo “vivo plauso” agli autori materiali di quella che passerà alla storia come la strage di Istia d’Ombrone. Gli undici compagni di Frielingsdorff – tutti tranne Becucci fra i 19 e i 24 anni – vengono fucilati la mattina stessa, e gli esecutori si allontanano dal luogo dell’eccidio cantando. La sera del giorno seguente il disertore tedesco si presenta a un podere “tutto strappato” (ricorda un’altra testimone) con i piedi sanguinanti e, rimasto nella zona, partecipa alla guerra di liberazione nella banda di Monte Bottigli “Sempre Presente”, mantenendo il nome di battaglia “Gino” e ottenendo il riconoscimento di partigiano combattente – con lui combatterà anche un coetaneo austriaco, Frurin Chlofch. Nelle vite di molti dei ragazzi come Frielingsdorff e Chlofch – che alla fine della guerra avranno vent’anni – e come gli undici ragazzi della strage di Istia d’Ombrone che Frielingsdorff scampa a testa bassa nella boscaglia, in fondo, “a parte la guerra non era successo ancora molto”. Leggo questa osservazione folgorante nel “romanzo di fatti” di Christiane Kohl intitolato Villa Paradiso, ambientato proprio in Toscana e che illumina la complessità tra i ranghi delle forze armate tedesche, mostrando parecchie e diverse possibilità dell’agire umano anche nella schiera dei carnefici, sebbene non appaiano disertori in senso stretto fino ai “titoli di coda” del libro, dove l’autrice racconta di un renano senza nome che, fuggito dal fronte orientale, raggiunge rocambolescamente i partigiani italiani per unirsi a loro. Le descrizioni di Kohl ci aiutano anche a restituire la giusta tinta – fosca – a quanto sta accadendo sulle colline toscane: “La regione si stava progressivamente trasformando in uno scacchiere su cui si svolgeva una guerriglia confusa e disordinata. I tedeschi, che vedevano avvicinarsi lo scacco matto, rappresentato dalle truppe inglesi sempre più vicine, si vendicavano con maggior accanimento sulle pedine più piccole, ovvero sulla popolazione civile italiana. Intanto gli abitanti si aspettavano che la guerra sarebbe terminata nel giro di pochi giorni, con l’arrivo degli alleati: la vita era come una violenta raffica di vento, capace di far precipitare la gente dalla speranza alla paura e viceversa, in una continua altalena”.
L’Autore
Carlo Greppi-
Carlo Greppi,storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento.Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018) e Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022).
RASSEGNA STAMPA
Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-
Il Novecento di Maria Luisa Berneri e Giovanna Caleffi
Editore Biblion
DESCRIZIONE del libri di Giorgio Sacchetti- Eretiche- Giovanna Caleffi (1897-1962) e Maria Luisa Berneri (1918-1949), sono principalmente conosciute come “moglie di” e “ figlia di” Camillo Berneri, noto intellettuale antifascista e militante anarchico assassinato dai comunisti staliniani durante la guerra civile in Spagna. Le figure e l’opera di queste due donne, il loro tragico percorso umano nell’Europa dei totalitarismi, la loro comune sensibilità politica e culturale, cosmopolita e transnazionale, ci propongono un’inconsueta, profonda visuale femminile e anarchica nel cuore del Novecento. Tra gli anni Trenta e Sessanta, prima con la giovane Maria Luisa esule in Francia e a Londra, poi – dopo la sua prematura scomparsa – nel secondo dopoguerra con la madre Giovanna, redattrice della rivista “Volontà” in Italia, si prospetta una sorprendente linea di continuità di pensiero e di critica antiautoritaria all’esistente di grande spessore, anticonvenzionale. Esuli, perseguitate, eretiche, vittime e testimoni in apparenza fragili della violenza e della disumanità dispiegate dalla grande Storia, ci lasciano, in continuità fra di loro e in una sequenza innaturale figlia-madre, uno sguardo sensibile e un anelito libertario sullo scenario sofferente della modernità, inseguendo ideali di felicità possibile e un riscatto alla “viltà delle moltitudini”.
Pescara- Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus-Presentazione del libro
di M. Vanni, M. Lanzinger e D. Piraina:”Musei , cambiare pelle per evitare il fallimento”-
Pescara, 11 dicembre 2024 – Evento Culturale della Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus al Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara- Sabato 14 dicembre (ore 11), la Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus presenta il volume “Museologia del presente. Musei sostenibili e inclusivi si diventa” (Pacini Editore), scritto dal museologo Maurizio Vanni, insieme al presidente di ICOM Italia, Michele Lanzinger e al Direttore Cultura di Milano, Domenico Piraina, per aiutare i musei a vincere le sfide del cambiamento–L’appuntamento, in collaborazione con i Musei Archeologi Nazionali di Chieti Direzione Regionale Musei Nazionali Abruzzo, si svolgerà al Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara
Cambiare radicalmente per sopravvivere al futuro ed evitare di fallire. Come? Attraverso una rinnovata gestione, più assimilabile a quella di un’impresa che di un’istituzione museale per come siamo abituati a conoscerla oggi. È questa la strada da percorrere per i musei, se vogliono restare al passo con i tempi e rispondere alle nuove esigenze della società contemporanea, senza mettere a rischio la loro sopravvivenza. Un tema, questo, al centro di “Museologia del presente. Musei sostenibili e inclusivi si diventa” (Pacini Editore), primo volume della nuova collana “Musei e Museologia del presente”, curato dal museologo (Università di Pisa), critico e storico dell’Arte, Maurizio Vanni.
Il libro, scritto insieme al presidente di ICOM Italia, Michele Lanzinger e a Domenico Piraina, Direttore Cultura del Comune di Milano e Direttore di Palazzo Reale, sarà presentato a Pescara, dalla Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus in collaborazione con i Musei Archeologici Nazionali di Chieti Direzione Regionali Musei Nazionali Abruzzo. L’appuntamento è per sabato 14 dicembre, alle ore 11, al Museo delle Genti d’Abruzzo (via delle Caserme, 24), ad ingresso libero.
:”Musei , cambiare pelle per evitare il fallimento”-
Dopo i saluti istituzionali del Sindaco di Pescara, Carlo Masci e di Luigi Di Alberti Presidente della Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, interverrà la Direttrice della Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, Letizia Lizza per introdurre i lavori. A seguire gli interventi del museologo Maurizio Vanni e del Direttore Musei Archeologici Nazionali di Chieti Direzione Regionali Musei Nazionali Abruzzo, Massimo Sericola. Modererà l’incontro Ermanno de Pompeis, conservatore Museo delle Genti d’Abruzzo.
Il volume vuole rappresentare un vademecum per invitare i musei ad aprirsi alla collettività, affinché sappiano elaborare programmi che pongano la relazione con le proprie comunità al centro della loro azione. Una sfida che passa anzitutto da una gestione simile a quella delle imprese, elaborando quindi piani economici, bilanci di missione, strategie di marketing, profilazione e fidelizzazione del pubblico, percorsi inclusivi e progetti di fundraising per entrare nella dimensione quotidiana dei cittadini.
“Senza una solida progettualità che ne garantistica anzitutto la sostenibilità economica il museo non può adempiere alle proprie mission e non può raggiungere obiettivi misurabili – spiega Maurizio Vanni, Direttore scientifico della collana. – La creazione di valore non significa far prevalere gli aspetti manageriali rispetto a quelli storico-artistici, ma prendere coscienza che un piano economico è qualcosa di più di un elenco di costi e ricavi, ovvero uno strumento strategico di misurazione e verifica per rendere ancora più appropriate le offerte culturali su misura e migliorare gli impatti sul territorio”.
Maurizio Vanni, museologo, critico e storico dell’arte, specialista in sostenibilità, valorizzazione e gestione museale. È docente di Museologia all’Università di Pisa. Ha al suo attivo 3 direzioni museali, 400 mostre e 700 pubblicazioni.
Michele Lanzinger, geologo e Dottore di Ricerca in Scienze Antropologiche, è stato direttore del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, dal 1992 al 2024. Attualmente è presidente di ICOM Italia, la principale organizzazione non governativa che rappresenta i musei ed i suoi professionisti
Domenico Piraina, ha una duplice formazione, storico-artistica-letteraria e giuridico-economica. È Direttore Cultura del Comune di Milano e Direttore di Palazzo Reale. Ha diretto e organizzato oltre 1500 mostre.
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