Poesie scelte di Mario Luzi |Da Le Poesie– Garzanti Editore-
-L’Altrove Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-
Mario Luzi nasce a Castello, vicino a Firenze, nel 1914. Nel 1932 si iscrive alla facoltà di Lettere all’università di Firenze, dove stringe amicizia con Carlo Bo e altri giovani, che si ritrovano al caffè San Marco e che costituiscono il nucleo originario della rivista “Il Frontespizio”, voce del movimento ermetico. Entra, inoltre, in contatto con i letterati della rivista “Solaria”, tra i quali si trovano Montale, Vittorini, Gadda e Bilenchi. L’esordio letterario di Mario Luzi risale proprio a quegli anni; nel 1935, infatti, pubblica la sua prima raccolta poetica, La barca. Luzi, dopo la laurea in letteratura francese, inizia a insegnare in un istituto magistrale di Parma, ma poco tempo dopo si trasferisce a Roma, dove lavora alla rassegna bibliografica per conto dei ministeri dell’Educazione e della Cultura. Dal ’43 fino alla fine della Seconda guerra mondiale si sposta con la moglie Elena, sposata un anno prima, in Val d’Arno, interrompendo momentaneamente la sua attività lavorativa. Pubblica nel 1940 la raccolta Avvento notturno, che presenta le poesie composte tra 1936 e 1939, profondamente influenzate dal Simbolismo francese di Mallarmé, Rimbaud e Paul Éluard. Nel 1945 torna a Firenze e negli anni successivi pubblica le raccolte poetiche che lo consacreranno artisticamente in Italia e all’estero: Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Dal fondo delle campagne (1956), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978). Negli anni Ottanta Luzi riceve diversi premi e riconoscimenti: nel 1985 gli viene conferito il Premio Montale, e nel 1987 gli viene consegnato il Premio Feltrinelli per la poesia all’Accademia dei Lincei a Roma. Nel 1989 esce la raccolta dei suoi saggi, Scritti. Negli anni ‘90 pubblica Frasi incise di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999). Nel 2004 al suo novantesimo compleanno viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi; pubblica nello stesso anno la raccolta Dottrina dell’estremo principiante. Nel 2005 muore a Firenze, dove viene seppelito nella Basilica di Santa Croce. Nel 2008 viene pubblicata postuma la raccolta Lasciami non trattenermi.La poetica di Mario Luzi può essere suddivisa in tre fasi: la prima comprende la produzione degli anni ‘30-’40, quindi dalla prima raccolta La barca fino al Quaderno gotico, si tratta di poesia ermetica influenzata dal Simbolismo francese, anche se nella raccolta del 1947 si trovano già le premesse per la seconda fase. Questa comprende tre raccolte Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), e Dal fondo delle campagne (1965) e quella del 1971 Su fondamenti invisibili; aumenta l’inquietudine e l’amarezza dei testi, in cui vengono descritti paesaggi angosciosi e tetri, in cui il poeta sembra aggirarsi nella ricerca vana del senso della vita; nell’ultima fase Luzi adotta uno stile più prosastico nei suoi componimenti e si concentra in particolare sul ricordo nostalgico della giovinezza.
Di chi è mancanza questa mancanza
Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno? di che? Rotta la diga t’inonda e ti sommerge la piena della tua indigenza… Viene, forse viene, da oltre te un richiamo che ora perché agonizzi non ascolti. Ma c’è, ne custodisce forza e canto la musica perpetua… ritornerà. Sii calmo
La notte viene col canto
La notte viene col canto prolungato dell’assiuolo, semina le sue luci nella conca, sale per le pendici umide, trema un poco. La forza in lunghi anni acquistata a soffrire viene meno e la piccola scienza si disarma, il sorriso virile non ha più la sua calma.
Tu chi sei che aspettavi invisibile, appostata a una svolta dell’età finché fosse la tua ora? Ti devo questo tempo di gratitudine e d’altrettanto dolore.
Ed ora l’inquietudine s’insinua, penetra queste prime notti estive, invade il muro ancora caldo, segue il volo delle lucciole sulle aie, s’inselva nelle viottole ove a un tratto nell’abbaglio dei fari la lepre saetta.
Cara, come ho potuto non intendere? La vita era sospesa tutta come questa veglia. C’è da piangere a pensare come ho sciupato questa lunga attesa con tante parole inadeguate, con tanti atti inconsulti, irreparabili, e ora ferito dico non importa purché il supplizio abbia fine.
«La salvezza sperata così non si conviene né a te, né ad altri come te. La pace, se verrà, ti verrà per altre vie più lucide di questa, più sofferte; quando soffrire non ti parrà vano ché anche la pena esiste e deve vivere e trasformarsi in bene tuo ed altrui. La fede è in te, la fede è una persona».
Questa canzone non ha più parole.
Vola alta, parola
Vola alta, parola, cresci in profondità, tocca nadir e zenith della tua significazione, giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami nel buio della mente – però non separarti da me, non arrivare, ti prego, a quel celestiale appuntamento da sola, senza il caldo di me o almeno il mio ricordo, sii luce, non disabitata trasparenza…
La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?
Aprile-Amore
Il pensiero della morte m’accompagna tra i due muri di questa via che sale e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo di primavera irrita i coloni, stranisce l’erba, il glicine, fa aspra la selce; sotto cappe ed impermeabili punge le mani secche, mette un brivido.
Tempo che soffre e fa soffrire, tempo che in un turbine chiaro porta fiori misti e crudeli apparizioni, e ognuna mentre ti chiedi che cos’è sparisce rapida nella polvere e nel vento.
Il cammino è per luoghi noti se non che fatti irreali prefigurano l’esilio e la morte. Tu che sei, io che sono divenuto che m’aggiro in così ventoso spazio, uomo dietro una traccia fine e debole!
E’ incredibile ch’io ti cerchi in questo o in altro luogo della terra dove è molto se possiamo riconoscerci. Ma è ancora un’età, la mia, che s’aspetta dagli altri quello che è in noi oppure non esiste.
L’amore aiuta a vivere, a durare, l’amore annulla e dà principio. E quando chi soffre o langue spera, se anche spera, che un soccorso s’annunci di lontano, e in lui, un soffio basta a suscitarlo. Questo ho imparato e dimenticato mille volte, ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità.
La mia pena è durare oltre quest’attimo.
Questa felicità
Questa felicità promessa o data m’è dolore, dolore senza causa o la causa se esiste è questo brivido che sommuove il molteplice nell’unico come il liquido scosso nella sfera di vetro che interpreta il fachiro. Eppure dico: salva anche per oggi. Torno torno le fanno guerra cose e immagini su cui cala o si leva o la notte o la neve uniforme del ricordo.
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La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” a cura di Simonetta Losi
Betti Editrice
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Dall’Introduzione del libro di Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata”:«Il mio incontro con Vittoria Gazzei Barbetti, nata a Siena il 25 ottobre 1892 e morta il 30 marzo 1934, ha quella non casuale casualità che ha contraddistinto spesso le mie scoperte in biblioteca e negli archivi. Sembra che a un certo punto dalle carte si levi un fumo sottile, azzurrino, che ricompone i pensieri che hanno mosso la scrittura, la calligrafia, il manoscritto. Ogni inedito è un una sorta di messaggio in bottiglia nel mare dell’oblio, che cerca la terraferma di una rivisitazione, di una riscoperta, di un affettuoso entusiasmo. È così che si inizia a dialogare con l’autore, è così che si ascolta la sua storia o, come in questo caso, la storia che ci ha voluto narrare. L’dea di pubblicare il romanzo inedito di Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” nasce dall’interesse per questa sfortunata figura di donna che ha origine da un articolo pubblicato sulla rivista “Il Carroccio”. Studi successivi hanno portato alla pubblicazione di un contributo sulla rivista dell’Accademia dei Rozzi. In occasione di queste ricerche è avvenuta la scoperta, all’interno del Fondo Barbetti custodito dalla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, del romanzo dattiloscritto che oggi, dopo quasi un secolo, vede la luce».
A cura di Simonetta Losi
Simonetta Losi è nata a Siena il 18 febbraio 1963.E’ laureata in Lettere e lavora come collaboratore ed esperto linguistico all’Università per Stranieri di Siena. All’attività di insegnamento accompagna quella di aggiornamento e formazione professionale per docenti di italiano all’estero. E’ giornalista pubblicista e collabora a varie testate.
Betti Editrice
La Betti Editrice nasce nel 1992 con un taglio prevalentemente locale con una particolare attenzione alla storia, cultura e turismo a Siena. Negli anni ha allargato il suo raggio d’azione a generi diversi (narrativa, edizioni per bambini,..) con uno sguardo che spazia all’intero territorio Toscano e a tematiche di interesse nazionale. Una produzione differenziata per argomenti e generi è elemento distintivo della Betti Editrice che opera nel mondo editoriale cercando di far convivere e tenere in equilibrio il rispetto della storia e delle tradizioni con la curiosità per l’innovazione e i linguaggi contemporanei. Dal 2017 organizza il premio di narrativa dedicato alle storie di viaggio lungo la Via Francigena.
Sinossi del libro di Cauvain Henry-L’investigatore Maximilien Heller-Un ricchissimo banchiere parigino viene ucciso. La polizia, il procuratore del re, il giudice istruttore accusano senza esitare un poveraccio, Guérin, servitore del banchiere. Avrebbe ucciso il padrone per un pugno di denaro, usando l’arsenico, il classico veleno per topi. La fortuna di Guérin è di essere il vicino di casa, o meglio: di soffitta, di Maximilien Heller, un giovane avvocato che ha lasciato anzitempo la professione, misantropo e geniale. Sospetta subito che il servitore sia accusato ingiustamente, perché i segni che ha potuto osservare sul cadavere non confermano la presenza della sostanza tossica. Così, con il suo attivismo, un po’ alacre un po’ pigro, che scopre tracce, ricostruisce fatti e deduce conclusioni, trova la verità. E, grazie ad astute dissimulazioni, sventa un complotto. Colpisce quante cose in comune con Sherlock Holmes (nato nel 1887) abbia Maximilien Heller che lo precede di sedici anni (1871). Compreso il medico narratore e amico protettivo, e tranne il fatto che l’investigatore di Cauvain vanta una cultura pressoché illimitata, mentre Sherlock cancella sistematicamente tutte le nozioni che non gli sono utili. Tanto che si può sospettare che sia lui il modello per l’allampanato eroe di Conan Doyle. Il francese ha forse una maggiore sensibilità sociale. Comunque sia, Maximilien Heller è evidentemente uno dei prototipi originari di tutti gli investigatori deduttivi. Ama i gatti come Baudelaire, conduce vita bohémienne e si muove tra languori decadenti e orgoglio positivista.
Articolo di Venceslav Soroczynski-RAI-Cultura-Letteratura
Articolo di Venceslav Soroczynski -Il libro di Albert Camus “Lo straniero” Bompiani Editore-C’è qualcosa che mi dice vai a cercarlo, perché ha cose da dirti. E io, di solito sordo alle chiamate dell’intuizione e cieco a quelle della coscienza, mi avvicino al secondo scaffale, quarto ripiano dall’alto. Lo trovo, subito: sarà uno dei pochi libri che leggo per la seconda volta. Ma devo andare dal medico e, fra malati immaginari e sani bisognosi di una carezza, mi aspetta un’attesa lunga, quindi mi serve un libretto breve, che mi stia nella tasca e nella testa.
Invece, i doloranti sono pochi e sembrano avere dolori epidermici, quindi sfilano in fretta e non riesco ad arrivare alla fine del romanzo. Eppure già sento il bisogno di aprire la porta e raccontare qualcosa. Sapete, io vivo in campagna: anche se spalanco le finestre e parlo ad alta voce del libro, mi sentono al massimo le monache di clausura della Comunità di Gesù di Nazareth – che poi non mi dispiacerebbe intervistarne una, non dico la badessa, che quella ne parlerebbe bene come il promotore dei fermenti lattici al supermercato. Piuttosto, una monachella, l’ultima arrivata, o la più anziana.
Ma sto divagando (a scuola mi accusavano di andare fuori tema. È il tema che non è in tema, avrei dovuto rispondere, ma da ragazzino non avevo la battuta pronta – mentre adesso non sono pronti quelli che dovrebbero capirla). Lo straniero è uno di quei romanzi che pensi essere uno dei dieci libri che andrebbe assolutamente letto. Poi ti rendi conto che l’hai già detto di altri venti e ti scopri essere un esaltato e perdi credibilità anche di fronte a te stesso (figuriamoci davanti alle monache).
Perché leggerlo? Perché lo straniero del 1942 è un corpo morto senza il certificato di morte che somiglia al corpo sociale del terzo millennio (sovviene immediata la battuta di Kraus: “La condizione in cui viviamo è la vera fine del mondo: quella cronica.”). È un uomo che non vive, si lascia vivere. Non gli si può attribuire il concetto heideggeriano: “Noi non parliamo un linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio” soltanto perché egli, quasi, non parla. “Non aprivo la bocca per non dir nulla”, pensa, infatti, mentre gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa durante il suo processo. Vive per inerzia, come un’auto lanciata in folle in una discesa sull’autostrada. E, infatti, la sua vita è una discesa e, proprio perché non si aggrappa a nulla, scivola nel suo destino come un dito in un vasetto di miele.
Ma è miele di fiori amari, poiché il nostro uomo non pare provare dolore nelle cose brutte (“Mi ha chiesto se avevo sofferto [della morte della madre] e ho risposto che tanto io che la mamma non ci aspettavamo più nulla l’uno dall’altro e del resto neppure dal prossimo e che ci eravamo abituati tutt’e due alle nostre nuove vite”), né felicità nelle cose belle (“La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha chiesto se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla.“Perché sposarmi, allora?” mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto “no”. È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta da un’altra donna cui fossi stato legato allo stesso modo. Io ho detto: “naturalmente”. Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi”).
Mersault è del tutto singolare, ma assolutamente credibile. Per amicizia, o solo per non turbare un rapporto, continua a frequentare un uomo che ha picchiato la propria compagna per non essergli stata fedele.E quando gli chiedono com’è Parigi, risponde solo: “È sporco. Ci sono dei piccioni e dei cortili bui. La gente ha la pelle bianca”. Camus stende il suo personaggio su un giaciglio di indifferenza che perfino m’innervosisce come lettore. Ma quella indifferenza è la sua condanna, poiché, in un paio d’ore, il Pubblico Ministero nel processo in cui è imputato la trasforma agli occhi dei giurati in insensibilità e poi, con la retorica dell’accusatore che tanto solletica chi gode della disgrazia altrui, converte quella insensibilità in condotta criminale. Immediatamente, mi ritorna la scena di un bel film in cui l’avvocato dice: “Tutti sono fatti da una certa porzione di fango. Tutti hanno la fogna dentro. Per questo bisogna cercare nella vita delle persone. L’indagine è come un temporale: acqua, acqua, acqua, acqua, acqua finché si intasano i tombini, le fognature scoppiano e esce tutta la merda che c’è sotto.”
Questo fa il tribunale allo Straniero. Processa una vita, non un atto. Un uomo, non un’azione (triangolazione disonesta e violenta, che attraversa il subconscio per titillare le corde dei deboli. E che si vede tutti i giorni – i nostri inclusi). Quanto c’è del nostro mondo del nostro tempo e del nostro io, ne Lo straniero! Straniero sono anche io per il luogo dove sono nato, poiché da esso sono andato via molto tempo fa. E lo sono nel luogo in cui ora vivo, poiché vengo da altrove. E sono straniero anche in casa mia, poiché i miei quattro nonni vengono da quattro posti diversi d’Italia e d’Europa. E sono straniero in me, poiché mi vedo ogni giorno di più come un terzo, un testimone, dall’alto muovermi come un animale da abitudine, o dal basso come un uomo alla ricerca dell’estintore dell’inquietudine. Mi osservo, cerco la distanza ma, per non impazzire e per convenienza, trasporto la mia duplicità in un pezzo unico senza apparenti fessure, che so essere cucito male e rapidamente deperibile.
Straniero è già pirandellianamente l’uomo in quanto, agli occhi degli altri, è diverso da come appare ai propri. Mentre, però, l’uomo di Uno, nessuno e centomila, pensa, decide, reagisce, sovverte, rivoluziona, quello di Camus subisce, come fosse addormentato. Come se aspettasse che qualcuno lo salvi dall’alto. O come se non gli importasse neppure di questo. Che disonore, l’evoluzione, se penso che, più di trecento anni prima, Amleto, a Guildestern, che vorrebbe manovrarlo, aveva risposto: “Qualunque strumento io sia, anche se puoi strimpellarmi, non mi puoi suonare!”). Ma è inutile rimpiangere le età degli imperi: viviamo il nostro esistenzialismo puntando a qualcosa che sta a metà fra il desistenzialismo e l’assistenzialismo: ci guardiamo esistere. La vita fuga dalla vita. Il piano B pensato prima del piano A. Eppure, abbiamo avuto decenni per approfondire il declino. Scuola per tutti, università per tutti, medicina per tutti, reddito di cittadinanza per tutti – ma è scuola, non educazione; è università, non conoscenza; è medicina, non sanità; è reddito, non cittadinanza. Quindi, è un ripiego continuo. Siamo peggiori dell’uomo di Camus, il quale, almeno, esiste fortemente, con distacco e noia, senza finzione, poiché è se stesso dalla prima all’ultima riga del romanzo. Dal bagno in mare alla prigione, non ha mentito una sola volta. Non ha pronunciato, in sua propria difesa, un solo verbo che si discostasse dalla verità. La verità è che ha premuto il grilletto contro un uomo che ha guardato in faccia: lo straniero è un assassino. Ma lui stesso non ha compreso il perché. Quando articola una proposizione per spiegare i fatti, l’aula intera ride, ma egli ha detto esattamente il vero. Non sa spiegare le cose al giudice, né al suo avvocato. Eppure, è proprio vero che la causa è stata il sole troppo forte, il caldo, il fuoco che precipitava dal cielo, lo stordimento di un paese troppo caldo, troppo lontano, troppo straniero anch’esso. Ma Mersault apre la bocca solo per dire cose che abbiano importanza. E forse quelle non ne avrebbero.
Eppure, non si riesce a odiarlo: è come un bambino che ha fatto del male per qualcosa che è un po’ più dell’istinto e un po’ meno della necessità, sotto un sole troppo forte. È limpido come l’acqua di un lago in cui è vietata la balneazione per non inquinarlo, per non svegliarlo. Quindi, nessuno può entrare. E io non sono neanche arrivato alla riva. Sto leggendo, come si dice nel poker, mentre Mersault non ha ancora lasciato l’aula, il processo non è terminato e io, per fortuna, non ricordo com’è andata a finire. Mi sono fermato a queste parole, lette le quali ho chiuso gli occhi: “Dalla strada, attraverso tutte le sale e le aule, mentre il mio avvocato continuava a parlare, ha risuonato fino a me la trombetta di un venditore di panna. Mi hanno assalito i ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il riso e gli abiti di Maria. Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto di farla finita presto e di ritrovare la mia cella e il sonno.”
«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
Stig Dagerman-Breve è la vita di tutto quel che arde
Traduzione di: Fulvio Ferrari -Prima edizione: 09 novembre 2022-
-Casa Editrice IPERBOREA-
Per la prima volta tradotta in italiano, un’antologia che dà conto di circa dieci anni di attività poetica di Stig Dagerman.«Un giorno all’anno si dovrebbe immaginare / la morte chiusa in una scatoletta bianca. / A nessuna illusione si dovrebbe rinunciare, / nessuno morrebbe per quattro dollari in banca. // (…) Nessuno vien bruciato all’improvviso / e nessuno per strada ha da crepare. / Certo, è menzogna, son del vostro avviso. / Dico soltanto: Possiamo immaginare.» Stig Dagerman espresse anche in versi la vicinanza agli ultimi e l’umanesimo dolente che in una continua tensione tra speranza e disincanto attraversano la sua multiforme opera in prosa. Negli anni 1944-47 e 1950-54, fino al giorno prima di morire, scrisse per il giornale anarchico Arbetaren oltre 1300 dagsedlar, poesie satiriche a commento della cronaca politica e sociale che con il loro tono diretto contribuirono a fare di Dagerman un riferimento identitario per i giovani libertari della sua generazione. Il metro è per lo più tradizionale, quasi da filastrocca, ma la giocosità della rima e del ritmo potenzia per contrasto la durezza dei contenuti: gli accordi della «democratica» Svezia con la Spagna di Franco, i senzatetto di Stoccolma lasciati al freddo, i bambini armati per combattere le guerre dei grandi. Ai brevi componimenti di denuncia, questo volume affianca una scelta di versi in cui la forma irregolare insieme alla riflessione sulla condizione umana, pur sempre intrecciata all’impegno politico, avvicina l’autore alle avanguardie internazionali e ben accoglie simboli e metafore della sua narrativa. Una lettura toccante che aggiunge un tassello significativo al ritratto di uno sperimentatore instancabile al quale ancora oggi s’ispirano scrittori, giornalisti e musicisti di tutta Europa.
Recensione di Angelo Ferracuti a «Breve è la vita di tutto quel che arde» di Stig Dagerman, apparsa su La Lettura il 6 novembre 2022
Tutta la letteratura di Stig Dagerman è fortemente permeata di esistenzialismo politico e coerenza tematica, ma anche da un contrasto molto forte tra io e mondo, istinto di libertà, desiderio di giustizia sociale contrapposti alla brutalità del potere. Come la sua cristallina postura di autore è segnata da una combattività angosciata e a volte disperata, che pendolareggia tra sogno utopico e disincanto, speranza e disillusione, e da una militanza totale nel movimento libertario svedese vissuta a microfono aperto nella sua breve vita, iniziata nel 1923 e finita a soli 31 anni nel 1954 quando morì suicida al culmine del successo editoriale.
In poche stagioni ci ha lasciato alcuni libri di rara forza espressiva, valore letterario e trasporto emotivo, la passione e la purezza delle raccolte di racconti, romanzi come «Bambino bruciato», «I giochi della notte», «Il serpente», l’esordio del «1945», il lancinante «Il nostro bisogno di consolazione», un breve ma intensissimo monologo filosofico sulla tensione dell’uomo verso la felicità, il bisogno di libertà e lo schiacciante sistema di dominio sociale, che può reputarsi il suo testamento intellettuale; i reportage lirici di «Autunno tedesco», quando fu inviato da l’«Expressen» nel 1946 in Germania fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, a raccontare il Paese sconfitto, tutti libri fedelmente editi da Iperborea.
Un’altra componente di Dagerman e della sua letteratura è la ricerca ossessiva della coerenza visionaria attraverso quella che ha definito «La politica dell’impossibile», nella letteratura e nella vita, titolo di un libro di saggi, avversa a quella «Realpolitik», la politica concreta, pragmatica, dello status quo, dei compromessi e della rinuncia al cambiamento, schiacciata dal giogo economico.
Adesso esce il libro delle sue poesie politiche, «Breve è la vita di tutto quel che arde» (Iperborea) tradotto e curato con rigore e passione da Fulvio Ferrari, professore ordinario di Filologia germanica all’università di Trento, ma soprattutto grande conoscitore e divulgatore delle letterature scandinave. Si tratta di una scelta del suo corpus poetico che mette insieme testi sparsi ai «dagsedlar», dispacci quotidiani spesso scritti in rima affidati al giornale anarchico «Arbetaren» («L’operaio»), di cui era redattore, che però nel linguaggio corrente significa anche «ceffoni» per la loro immediatezza e vicinanza ai fatti di cronaca.
Insieme agli accadimenti storici c’è anche la vena esistenzialistica e romantica dello scrittore svedese: l’incrocio di questi due elementi è la sua cifra, il suo conio profondo che percorre tutta la sua opera, dentro quell’angoscia e paura prodotte dalla Seconda guerra mondiale che ne è il tellurico fondale storico.
Nel libro si alternano differenti stili compositivi, riflessioni intimistiche sulla condizione umana e il senso della vita, così come testi di impegno sociale come l’intenso «No pasarán» dove commemora l’epica tragica della guerra di Spagna con tutta la sua verve antifranchista, un inno alla lotta, alla resistenza.
La poesia di Dagerman ha una urgenza politica, ma soprattutto esistenziale, stilistica, la forma è il suo fuoco, la forma che incrocia gli ideali dei «Cuori ardenti» di cui parla in un saggio, anche per questo lo sentiamo contemporaneo e fratello, la sua letteratura è viva. I «dagsedlar», scritti con caustica ironia, hanno spesso l’andamento di una filastrocca, un gusto agrodolce, nel senso che ibridano lo stile cantilenante del verso con contenuti di dura crudezza, spietati, del palcoscenico impazzito del mondo, e nascono sempre da una notizia di cronaca.
I temi sono l’antimilitarismo, la bomba atomica, la condizione umana degli ultimi, la violenza sui bambini, un argomento molto caro a Dagerman, siano essi i senzatetto svedesi o gli africani dannati della Terra, i neri americani condannati a morte e portati al patibolo, come in «Due volte morto»: «Tutti quanti abbiamo da imparare,/ ci si allena ore e ore per fare il boia./ Che importa come un negro può campare,/ Quello che conta è che un negro muoia».
L’anarchico ribelle, quello che dice di voler opporre il potere delle sue parole «a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà», è anche al fianco dei lavoratori insorti in Germania dell’Est contro il regime comunista: «Quante volte il popolo avete chiamato./ Ora rispondiamo: Siam qui, siamo arrivati./ Fatevi avanti, popolari signori/ – e se vi è possibile, disarmati!».
L’ultima poesia scritta da Dagerman si intitola «Attenti al cane!», pubblicata il 5 novembre 1954, e nasce dopo avere letto la dichiarazione di un responsabile della Previdenza sociale di Värmland, una contea che si trova nella parte occidentale del Paese: «Certo è deplorevole che gente che vive di sussidi tenga poi un cane» fu l’affermazione indignata di una persona probabilmente appartenente alla ricca borghesia svedese.
Stig Dagerman il ribelle, lo scrittore nato nel cuore del proletariato e figlio di un operaio artificiere poverissimo e di una telefonista, quello posseduto dal radicalismo che giovanissimo diresse «Storm», il giornale della gioventù anarchica, reagisce a queste parole scrivendo versi venati di ironica indignazione, descrive la gente dei bassifondi come quelli che «stanno in stanzette strette e fosche/ con i loro bastardi costosi», poi la denuncia arriva con un’invettiva provocatoriamente sarcastica: «Ora è il momento di esser risoluti:/ Abbattere i cani! Non è buona cosa?/ E siano poi anche i poveri abbattuti,/ così il Comune risparmia qualcosa».
La poesia fu pubblicata il giorno dopo la sua morte, l’aveva scritta ventiquattr’ore prima di uccidersi con il gas di scarico della sua automobile.
Dopo una serie di tentativi di suicidio non riusciti, sprofondato in una cupa depressione, questa volta aveva organizzato tutto, scrivendo persino l’epitaffio per la sua lapide: «Qui riposa/ uno scrittore svedese/ caduto per niente/ sua colpa fu l’innocenza/ dimenticatelo spesso».
Breve nota sull’Autore Stig Dagerman Poeta svedese-
Stig Dagerman – Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Dagerman appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco e Il serpente.
Biografia di Stig Dagerman (Älvkarleby, 5 ottobre 1923 – Enebyberg, 5 novembre 1954) è stato un giornalista, scrittore e anarchico svedese. Talentuoso, sensibile e libertario concluse la propria esistenza suicidandosi a soli 31 anni. Per la somma di questi fattori sopravvive tutt’oggi come figura mitica della letteratura svedese. È per molti versi un emblema della letteratura quarantista, capitanata dai celebri Karl Vennberg e Erik Lindegren.
In seguito all’abbandono da parte della madre nei primissimi mesi dopo la nascita e per la difficoltà del padre, minatore nei pressi di Stoccolma, di garantire le condizioni essenziali alla crescita, il piccolo Stig fu ospitato e cresciuto dai nonni paterni. Anche contrariamente a talune descrizioni biografiche, egli più tardi descrisse l’infanzia come l’epoca forse più felice della sua vita.
Nei nonni, similmente a quanto accadde allo scrittore austriaco Thomas Bernhard, trovò delle figure vivaci, rassicuranti ed intellettualmente stimolanti, dunque le prime condizioni per il futuro percorso intellettuale. L’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e, poco tempo dopo, la perdita della nonna colpita da una emorragia cerebrale, portarono Stig Dagerman a commettere il primo di una serie di tentati suicidi. Tempo dopo si sarebbe trasferito a Stoccolma dal padre.
A soli tredici anni poté avvicinarsi all’anarchismo e al sindacalismo. Iniziò precocemente l’attività di scrittore in seno all’Unione Sindacale Giovanile (Syndikalistiska Ungdomsförbundet) per poi elevarsi a redattore del giornale Storm (traducibile come La tempesta) e, ancora, a cura prevalentemente di fatti di cronaca, del giornale anarcosindacalista Arbetaren (L’operaio). Solo in seguito avrebbe potuto scrivere per le sezioni culturali.
Nel 1945 il primo romanzo, Ormen (Il serpente), avente per soggetto l’elemento del terrore, segnò il debutto di Stig Dagerman e l’immediato riconoscimento della critica a fronte del contenuto e dell’originale soluzione stilistica. Non passò troppo tempo perché egli si dimettesse dall’incarico di redattore da Arbetaren e si dedicasse a tempo pieno alla scrittura non giornalistica, per cui nel 1946 vide la luce De dömdas ö (L’isola dei condannati), uno dei suoi lavori più complessi, concepito nella casa di Strindberg a Kymmendö.
La produzione di Dagerman subì un’accelerazione. Nel 1947 comparve e fu messa in scena al Dramaten la prima pièce teatrale, Den Dödsdömde (Il condannato a morte), mentre raggiunsero la pubblicazione anche la raccolta di racconti Nattens Lekar (I giochi della notte) e l’intera serie di reportage dalla Germania dell’immediato dopoguerra, prodotti per Expressen (L’espresso) e riuniti nel volume Tysk höst (Autunno tedesco), vera consacrazione al grande pubblico.
Nel 1949 vide la luce Bröllopsbesvär, burla popolare dai tratti satirici; alla quale fece seguito una condizione esistenziale complessa, la separazione dalla prima moglie e una nuova unione con l’attrice Anita Björk, il rifiuto continuo delle proposte di lavoro da parte dell’editore e una lunga depressione terminata con il suicidio, il 5 novembre 1954. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
– A cura di Claudio Bolzan -Zecchini Editore-Varese
Il curatore della Guida è Claudio Bolzan, Oltre 800 pagine, più di 150 compositori, 400 anni di musica, 450 monografie, 650 consigli discografici: è ciò che trovate nella poderosa e ponderosa Guida alla Musica da Camera.
«In un mercato fino a pochi anni fa asfittico, si inserisce questo nuovo passo di Zecchini Editore nella erigenda biblioteca della classica, iniziata nel 2010. Nella Musica da Camera ci si ritrova in mano uno strumento indirizzato dal curatore Claudio Bolzan a musicisti, insegnanti e semplici appassionati: nella prefazione l’autore spiega di non credere a quel tipo di manuali che “si leggono come romanzi”. [… ] In conclusione, una guida equilibrata e strategica, di facile consultazione, che offre la possibilità di scoprire compositori generalmente assenti da auditorium e discografie generaliste, ma anche le composizioni meno note dei grandi della musica […]». (Ferdinando Vincenzoni ,ANSA)
Guida alla Musica da Camera
A cura di Claudio Bolzan
Presentazione di Enrico Dindo
Hanno collaborato: Marco Angius, Davide Anzaghi, Nicola Cattò, Elena Filini, Edoardo Lattes, Stefano Pagliantini, Alessandro Solbiati, Massimo Viazzo.
Copertina cartonata – pp. XXVI+836 – formato cm. 15×21
Collana “Le Guide Zecchini, 4” – Euro 49,00
La musica da camera rappresenta senza dubbio la parte più cospicua e raffinata dell’intero repertorio musicale occidentale, percorrendo da cima a fondo la storia della musica dalla fine del ’500 all’età contemporanea e dando vita ad opere di fondamentale importanza, tali da rappresentare nel modo più completo le varie fasi e i vari movimenti succedutisi nell’arco di ben quattro secoli. Anche per questo tanto più indispensabile diventa una Guida che permetta di orientarsi con efficacia nel mare magnum di questo repertorio, selezionando gli autori più rappresentativi ed analizzando le loro opere più importanti, permettendo di penetrare nel loro interno e offrendo una conoscenza approfondita dei generi, delle forme adottate, dei più svariati organici (dal duo, al trio, al quartetto, con e senza pianoforte, fino alle formazioni comprendenti dieci e più strumenti). Tanto più necessaria diventa una tale Guida nel nostro Paese, data l’assoluta mancanza di un testo di questo tipo, organico ed esauriente, concepito per soddisfare l’interesse dei semplici appassionati, senza per questo trascurare il bisogno di approfondimento di chi è, invece, più addentro nelle conoscenze e nella pratica della musica. Se i primi troveranno gli autori più amati e la presentazione e l’analisi delle opere più celebri e frequentate in sede concertistica e discografica, i secondi potranno incontrare anche i personaggi meno noti, le analisi più ricche, i riferimenti più approfonditi e capillari, uniti ad un’ampia documentazione di prima mano, spesso presentata e tradotta per la prima volta nella nostra lingua.
Richiedete il libro nei migliori negozi o a questo link:
Introduzione di Sabrina Campolongo. Postfazione di Valérie Cossy.
Descrizione-del libro di Alice Rivaz- “La pace degli alveari“-Credo di non amare più mio marito”. Così si apre il diario segreto di Jeanne Bornand, moglie e lavoratrice, donna che è stata amante e amata e che si ritrova, ancora giovane ma vicina a non esserlo più, faccia a faccia con la sua estraneità alla vita cui le sue scelte l’hanno condotta. A finire implacabilmente sotto accusa è il matrimonio, nella sua prosaicità, nel suo insanabile scollamento dall’amore, ma una volta cominciato sembra che Jeanne non riesca più a fermarsi. L’intera società degli uomini, di cui le donne sono al tempo stesso vittime e complici, finisce sotto la sua critica spietata, tanto più feroce perché tinta della più lucida ironia”.
In tanti anni di femminismo, di teorie e pratiche, mai ho incontrato pagine di una consapevolezza così profonda e insieme di una capacità di nominare l’innominabile della relazione tra uomini e donne, nella quotidianità dei matrimoni come nella vita pubblica, così libera, diretta, felicemente senza remore e coperture.
Verità, svelamenti, messa a nudo impietosa, senza nascondere le ambiguità e le contraddizioni che passano attraverso la violenza invisibile del patriarcato.
Un frammento:
“Non l’avevamo previsto, il lavoro notturno degli aviatori, le bombe sopra i lettini dei bambini, sulle cucine a gas, sulle mensole con i libri. Non avevamo previsto niente, noi donne; come sempre li abbiamo lasciati fare; che si minacciassero, che sfilassero in parata, che venissero alle mani. Siamo rimaste a guardarli mentre si scatenavano. È proprio quello che, da madri, reprimiamo nei nostri figli piccoli, che ammiriamo nei nostri bambini diventati uomini. Quel gesto che meriterebbe il biasimo, se non una sberla, basta che il ragazzino sia diventato adulto ed ecco che le donne gli danno un altro nome. Come le parole “crudeltà” e “violenza” che diventano di colpo coraggio o eroismo.
(…)
Noi facciamo e loro disfano. Disfano persino, poco alla volta, le loro stesse teorie, rimpiazzando il credo di una generazione con quello di un’altra, cercando nomi sempre nuovi per giustificare le loro dementi carneficine.
E noi, invece di dire “Altolà!”, noi ancora ci sforziamo di seguirli, di comprenderli, di ottenere da loro delle attestazioni di devozione, e questo al fine di piacergli.”
“Quella complicità tra i sessi, se ne conosce fin troppo bene la causa, tuttavia non è per forza inevitabile…”
*Alice Rivaz, “La pace degli alveari” pagina uno 2019, pag.80
Descrizione del libro di Fabio Stassi-Vince Corso è un biblioterapeuta. Precario più per nascita e per vocazione esistenziale che per condizione sociale, un giorno ha scoperto le doti curative, per l’anima e per il corpo, dei libri e ne ha fatto la propria professione. Si rivolge a lui una bella sessantenne: ha un fratello malato di Alzheimer che, nel marasma della sua mente, da qualche tempo ripete delle frasi spezzate, sempre le stesse, senza alcun legame tra di loro. Era stato uno studioso di fama e un lettore vorace, un amante delle lingue, un ricco collezionista di volumi, quelle parole potrebbero essere citazioni da un romanzo. «E solo un’ipotesi, ma se questo libro esiste, ci terrei a sapere qual è. E se lei lo trovasse, potrei leggerglielo a voce alta, qualche pagina al giorno». Il biblioterapeuta si mette al lavoro, con una domanda che lo assilla: se avessi perso tutto, e ti venisse concesso di salvare un solo ricordo, quale sceglieresti? Ha diversi enigmi da risolvere, mediante tecniche per decifrare e interpretare i testi, attraverso psicologie di identificazione con possibili autori, ricerche di biblioteca in biblioteca, incontri fortuiti e rivelatori. Un’avventura che lo guida a una soluzione che proprio innocente, come all’inizio appariva, non sarà. Intanto scruta i luoghi, fa sedute di biblioterapia con pazienti nuovi e inaspettati, scopre l’odio che è tornato ad attraversare i quartieri e la società. Ed è come una ricerca nella ricerca, un romanzo nel romanzo. Perché Vince è un camminatore, un esploratore di spazi e di persone: itinerari, spazi e persone che lo rimandano senza tregua a coincidenze con i momenti della letteratura di cui è vittima e complice, quasi come un prigioniero felice. Ma dominato da un bisogno inesauribile: trovare la linea di confine tra la vita e i libri e forse superarla, perché sempre di più è attratto dalle passioni, dalle paure e dalle gioie di uomini e donne in carne e ossa.
Recensione di Simona Bettin
OGNI COINCIDENZA HA UN’ANIMA Fabio Stassi
Il protagonista è un biblioterapeuta, Vince, accoglie pazienti nel proprio studio e a seconda delle esigenze, invece di prescrivere medicine , consiglia la lettura dei testi trovando affinità tra le parole scritte e le emozioni dei suoi pazienti. Durante una delle sue sedute arriva una donna di mezza età per sottoporgli il caso del fratello malato di Alzheimer che ormai non comunica quasi più se non ripetendo come una cantilena alcune frasi sconnesse tra di loro, sarà questo il compito del biblioterapeuta, scoprire il libro da cui sono tratte le citazioni.
Un’avventura che lo guida a una soluzione che proprio innocente, come all’inizio appariva, non sarà.
Intanto scruta i luoghi, fa sedute di biblioterapia con pazienti nuovi e inaspettati, scopre l’odio che è tornato ad attraversare i quartieri e la società. Ed è come una ricerca nella ricerca, un romanzo nel romanzo. Vince che distribuisce libri come cura, che promuove lo scambio di storie per salvare le persone, e mi torna in mente che è una coincidenza con il mio disagio nel leggere libri non miei , e mi accorgo che soprattutto la coincidenza è già nel titolo e questo romanzo ha un’anima bellissima.
Breve biografia incompleta di Fabio Stassi,scrittore di origini arbëreshë della Sicilia, è nato a Roma nel 1962 e attualmente vive a Viterbo e lavora a Roma in una biblioteca universitaria. È autore di romanzi quali Fumisteria (GBM 2006, Premio Vittorini per il miglior esordio), È finito il nostro carnevale (2007), La rivincita di Capablanca (2008), Holden, Lolita, Zivago e gli altri (2010), pubblicati da Minimum Fax. Ha scritto L’ultimo ballo di Charlot (Sellerio, 2012), in traduzione in diciassette lingue (secondo classificato al Campiello 2013, Premio Sciascia Racalmare, Premio Caffè Corretto Città di Cave, Premio Alassio), e ha curato l’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (Sellerio, 2013).
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