Articolo diVenceslav Soroczynski– Libro di Franz Kafka “Il Processo”·Sognando un tribunale internazionale contro i crimini di guerra che agisca prima che sulle strade di mezzo mondo si asciughi il sangue degli innocenti, mi rigiro fra le mani questo imponente libretto di 170 pagine. Thomas Bernhard, in Estinzione, dice che uno dei pochi autori di lingua tedesca che non scrive come un impiegato è Kafka (che, guarda un po’, faceva proprio l’impiegato). E che il suo libro migliore è questo. Bernhard aveva ragione o no? Non posso rispondere, perché autori tedeschi non ne ho letti molti – però La morte a Venezia non sembra proprio scritto da un impiegato – ma una cosa la posso affermare: se è tanto che non avete un incubo e volete procurarvene uno bello definito, articolato, insistente, di quelli che la mattina dopo non si dimenticano, leggete “Il processo”.
Il processo è una metafora di quella frustrazione e di quell’angoscia connaturate agli uomini che devono vivere in una civiltà nella quale il singolo non conosce il suo nemico, non conosce il suo destino né chi l’ha ordito e non ha strumenti per esercitare i propri diritti e per difendersi. E, forse, non conosce nemmeno la propria psiche, dunque è vittima di tutto ciò che va oltre la propria coscienza. Nello sfondo – che si pure si fa protagonista – del romanzo, ogni elemento è ostile al protagonista: ogni relazione, ogni evento, ogni istituzione, ogni collega, ogni sottoscala.
La metafora è costruita raccontando tutto ciò che non funziona nella giustizia, nelle sue procedure ufficiali, nelle prassi, nei locali in cui si celebra, negli uomini che la subiscono e in quelli che la esercitano. Naturalmente, tutto è un po’ esagerato – e, infatti, pare che l’Autore e i suoi amici ridessero mentre il primo leggeva ad alta voce ai secondi il testo – ma non troppo, se siete stati ascoltatori di Radio Radicale negli anni Ottanta e, ahinoi, anche dopo. Io non riesco proprio a ridere in nessuna pagina: ho anzi i brividi mentre il signor K. è costretto a vivere esperienze assurde, frustranti e schiaccianti, che facilmente possiamo figurarci nel nostro mondo contemporaneo, di cui le fantasie di Kafka paiono soltanto un’approssimazione per eccesso.
Il protagonista, che peraltro non è uno spacciatore dei giardinetti, ma il procuratore di una banca, viene arrestato a casa sua da due persone che non sono nemmeno poliziotti. Le quali, mentre aspettano che lui si vesta, gli mangiano la colazione e non gli dicono neppure perché sono andati a prenderlo. L’accusa, inoltre, non viene mai dichiarata, quindi il sospettato si dibatte come un pesce in fin di vita, che non ha neanche capito se il pescatore aveva veramente fame o lo sta suppliziando per mero sadismo. Ogni tanto, qualcuno gli chiede se è innocente e lui risponde sì, ma naturalmente anche questa risposta può essere sbagliata, visto che non si sa di cosa è accusato e… chi può dire di essere innocente di qualsivoglia reato?
E non è tutto, visto che non è individuato neanche il pubblico ministero e tantomeno il giudice, e che il tribunale è insediato in un luogo indegno e plurimo, che assume in ogni sede un aspetto diverso e sempre meno solenne. I brani in cui il povero K. visita i palazzi di giustizia sono davvero un brutto sogno e non è neanche il peggiore, ché le ultime pagine sono ancora più oscure e penose. Tanto per darvi un’idea, io le ho lette con 31 gradi centigradi eppure sentivo addosso quel freddo brutto che si sente solo quando si ha davvero paura – ché ne ho letti di libri horror da ragazzo, ma pochi erano spaventosi come questo. Dracula, L’esorcista e Shining, al confronto, sono storielle per spaventare i bambini, poiché se pochi di noi hanno visto vampiri demoni e morti viventi, tutti hanno visto tribunali in centro città, pubblici ministeri in televisione e raccomandate di colore verde nelle mani del postino.
Citiamo solo di passaggio l’avvocato di K., che non si capisce bene riceva i clienti dal suo letto, perché maltratti i suoi assistiti, perché non riferisca esattamente lo stato del processo e perché pare non avere alcuna strategia difensiva. In più pare che tenga a servizio una ragazza che si innamora così facilmente dei clienti. Il sospetto è che lo stesso avvocato non capisca molto di quello che sta facendo, né di ciò che sta facendo il tribunale. Merita invece d’essere studiato attentamente il complesso delle reazioni e relazioni del povero K., spaventato dalla propria vicenda, incapace di reagire freddamente, tardo nelle contromisure di contenuto logico. Sembra che egli, da un lato, prenda di petto la sua disgrazia per sciogliere subito i dubbi che causano la sua incriminazione e, dall’altro, si muova troppo di lato, faccia giri troppo larghi, sbagliando completamente strategia.
Sembra che tutti ne sappiano più di lui sul mondo, sugli uomini, sulle regole che governano ogni meccanismo, sul suo stesso processo. E che egli vaghi sempre nel corridoio sbagliato, che varchi sempre il cancello proibito, che si affidi solo a personaggi di dubbio peso. Le emozioni che questa lettura suscita si situano in un punto equidistante fra l’inquietudine e l’oppressione psicologica. Quindi, questa volta, non so se consigliarvi la lettura, non vi conosco abbastanza e non me la sento. Fate voi. Ma, se avete deciso di cominciare, vi consiglio di attendere la prossima stagione calda: se non sarà ancora finita la guerra permanente che pare mossa dalla necessità del caos e della distruzione, invece di scegliere fra la pace e il condizionatore, avrete Il processo come terza opzione.
Pierre Antonetti-La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante-
Editore Rizzoli-Articolo di Giovanni Teresi
Descrizione del libro– di Pierre Antonetti –La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante -Articolo di Giovanni Teresi:Innanzitutto, non era la Firenze della Cupola del Brunelleschi, di Palazzo Pitti, del Campanile diGiotto o di Palazzo Strozzi. Era una delle città più popolose d’Italia (nel 1280 contava già tra i quarantamila e i cinquantamila abitanti),ma non aveva ancora dei monumenti architettonici imponenti; il centro cittadino era un complesso intrico di viuzze, case addossate le une sulle altre, botteghe, fondaci e botteghe, dominate dall’alto dalle case torri delle famiglie più importanti della città, costruite soprattutto per difendersi dai frequenti attacchi delle famiglie rivali.
La città ovviamente era piena di chiese,che tuttavia non avevano le dimensioni delle successive costruzioni. Tra le tante, ce ne sono tre molto legate a Dante: la prima è ovviamente il Battistero di San Giovanni, la chiesa cittadina per antonomasia, dove Dante era stato battezzato e dove, come racconta lui stesso nella Divina Commedia, aveva salvato un bambino rompendo una fonte battesimale (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XIX,vv. 16-21: “Non mi parean men ampi né maggiori/ che que’ che son nel mio bel San Giovanni,/ fatti per loco d’i battezzatori; / l’un de li quali, ancor non è molt’anni,/ rupp’io per un che dentro v’annegava:/e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.” ).
La seconda è la Badia fiorentina, una delle chiese più vecchie di Firenze, dove Dante andava spesso a messa, la quale viene citata nel XV Canto del Paradiso da Cacciaguida, l’avo di Dante, come la chiesa vicina alle vecchie mura della città, dal cu campanile si odono ancora i battiti delle ore canoniche ( Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, C. XV,vv. 97-99: “Fiorenza dentro da la cerchia antica,/ ond’ella toglie ancora e terza e nona,/ si stava in pace, sobria e pudica.”).
La terza e ultima chiesa è la chiesa di Santa Margherita,una piccola chiesetta vicino la (presunta) casa di Dante, dove la leggenda vuole che sia la chiesa in cui il Poeta abbia incontrato per la prima volta Beatrice, che andava di solito lì a pregare.
“Se mai continga che ‘l poema sacro/
al quale ha posto mano e cielo e terra,/
sì che m’ha fatto per molti anni macro,/
vinca la crudeltà che fuor mi serra/
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,/
nimico ai lupi che li danno guerra;/
con altra voce omai, con altro vello/
ritornerò poeta, e in sul fonte/
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
Con questi versi, nei quali il poeta spera un giorno di poter tornare nella sua Firenze e ricevere la corona d’alloro nel suo “bel San Giovanni”, ha inizio il XXV Canto del Paradiso, una delle tre Cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri.
In questo capolavoro della letteratura mondiale, tra i tanti argomenti di cui si tratta, si parla molto spesso di Firenze, la patria ingrata del Poeta, da cui nel 1301, con la falsa accusa di baratteria, venne esiliato a vita.
Nonostante la rabbia di Dante verso quel popolo ingrato che l’aveva ingiustamente cacciato, Dante rammenta spesso la sua città natale, sia rimpiangendola, sia più spesso criticandola, per le sue continue lotte intestine e per la corruzione del governo e del popolo fiorentino, avido, invidioso e lussurioso; basti pensare, per esempio, a tutte le discussioni che Dante ha con i vari fiorentini incontrati durante il viaggio ultraterreno (Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Forese Donati,Ciacco), dove tutte le imperfezioni dei fiorentini vengono chiaramente fuori, e alla celebre invettiva del XXVI Canto dell’Inferno, nel quale il poeta inveisce contro Firenze, diventata famosa anche all’Inferno per la presenza di cinque suoi cittadini nella VII Bolgia del VIII Cerchio,dove sono puniti i ladri (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XXVI,vv. 1-3: “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,/ che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande!”).
Oltre ai guelfi e ai ghibellini, nelle strade di Firenze c’erano donne che calzavano zoccoli in legno altissimi su strade trafficate e fangose, banchi di cambiatori, sarti, rigattieri, medici, barbieri e ciarlatani che vendevano droghe miracolose. L’autore Pierre Antonetti, nel suo testo, ci racconta diffusamente la tipica giornata del contadino. Si entra nei meccanismi delle magistrature, nei segreti delle corporazioni di artigiani, e si scopre come venivano combinati fidanzamenti e matrimoni. Proprio in questo periodo ha inizio il grande sviluppo artistico di Firenze, che oltre alle rime di Dante si concretizza con gli affreschi di Giotto e i primi disegni per il progetto del Duomo.
Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo
un comunista tra la guerra civile spagnola e la resistenza antifascista europea (1895-1973)
Editore- Red Star Press -Roma
Descrizione del libro di Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo-Non esiste avventura più grande, né romanzo in grado di eguagliare la forza di una vita vissuta dalla parte della classe operaia. Una vita come quella di Enrico Russo, metalmeccanico. Già protagonista del «biennio rosso» e ultimo segretario della Camera del Lavoro di Napoli, fu costretto dal fascismo alla clandestinità, non certo all’inazione. Non è certo un caso, dunque, se troveremo Russo in seno ai gruppi comunisti di lingua italiana in Francia e, in Spagna, al comando della Columna Internacional Lenin, in prima linea sul fronte di Aragona. Internato in un campo di concentramento in Francia, quindi destinato al confino in Italia, riguadagnerà la libertà nel 1943, quando svolgerà un ruolo determinante nella rifondazione della Confederazione Generale del Lavoro, la celebre «CGL rossa»: una pagina di storia fondamentale per il sindacalismo italiano che, grazie al lavoro di Francesco Giliani, si fa materia viva, carne e sangue del proletariato italiano nel cuore di una stagione di riscatto a cui, senza sconti per gli opportunisti e i rinnegati, si diede il nome di «rivoluzione».
«Probabilmente, le sconfitte dei movimenti rivoluzionari nei quali si era battuto in prima fila nella Spagna del 1936-1937 e nella Napoli del 19431945 esaurirono la sua forza. Ma non del tutto. Non gli mancò, infatti, la forza per non integrarsi in nessuna burocrazia politica, stalinista o socialdemocratica, contro le quali aveva combattuto negli anni più tempestosi e ardenti della sua vita. Avvisati dai dipendenti del cronicario del decesso del proprio parente, il figlio Alberto e il nipote Enrico curarono il funerale di Enrico Russo. Il nipote, mosso da affetto, cercò nelle bancherelle del quartiere una copia de Il Capitale di Karl Marx da porre nella bara del nonno come omaggio. Questo lavoro, al di là dei suoi aspetti scientifici, vorrebbe essere anche una ripresa di quel gesto»
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
Roma, Italia
CAP 00147
Traduzione di Monica Pareschi- titolo originale: The Mountain Lion
-In copertina-Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
Descrizione del libro di Jean Stafford-Qualcosa di morboso e strisciante, che è del paesaggio, delle presenze che lo animano, degli interni di case occasionalmente trasformate in camere ardenti, accoglie il lettore di questo paradossale romanzo di formazione, in cui all’impossibilità di abbandonare l’infanzia si accompagna quella di rimanere bambini. Ralph e Molly, fratelli malaticci e simbiotici, alleati contro l’universo stereotipato degli adulti – l’ottusa routine scolastica e quotidiana, una madre perbenista e due affettate sorelle maggiori, il fronte compatto delle autorità –, dividono il loro tempo tra la casa di famiglia nei sobborghi di Los Angeles e un ranch in Colorado appartenente al fratellastro della madre. Qui ogni estate i piccoli vengono in contatto con un mondo selvaggio e brutale, che contrasta con l’inautentico ordine della vita suburbana. Ma se dapprima la rudezza e la libertà dell’Ovest affascinano entrambi, poi è solo Ralph a entrare nell’orbita in cui lo attirano lo zio e la sua cerchia, e ad accettare i riti di passaggio necessari a trasformarlo in giovane uomo. E mentre il fratello si sposta sempre più verso un immaginario virile fatto di battute di caccia e di grandi bevute, e vive di pari passo l’inevitabile risveglio della sessualità, Molly, bambina puntuta e sarcastica che anticipa alcuni personaggi di Shirley Jackson, si aggrappa disperatamente al mondo surreale dell’infanzia. L’apparizione nei dintorni del ranch di un puma femmina – animale elusivo e archetipico, nel segno della tradizione letteraria americana – sancirà la scissione definitiva del legame fraterno, precipitando la storia verso un impensabile epilogo.
CAPITOLO PRIMO
Ralph aveva dieci anni e Molly ne aveva otto quando si ammalarono di scarlattina. La malattia aveva lasciato a entrambi una specie di disfunzione ghiandolare che, pur non essendo maligna, provocava in loro uno stato di intossicazione quasi perenne, dando spesso origine a e- pistassi così copiose che dovevano mandarli a casa da scuola. In genere succedeva a tutti e due contemporanea mente. Ralph si precipitava nel corridoio sanguinando a profusione dal naso e trovava Molly che usciva proprio in quel momento dalla terza, con un fazzoletto appallot- tolato e fradicio premuto sulla faccia. La madre non sop- portava la vista del sangue e la sua angoscia, nel vederli arrivare l’uno dopo l’altra sul vialetto d’accesso, non si attenuò mai, nemmeno quando quei ritorni a casa nel bel mezzo della giornata diventarono una consuetudi- ne. Ogni volta li implorava di telefonarle in modo da po- ter mandare Miguel, il factotum, a prenderli con la mac- china. Ma loro non lo facevano mai, perché si divertiva- no a tornare a casa a piedi, e per tutto il tragitto provava- no un piacevole senso di rivalsa nei confronti delle sorel- le, Leah e Rachel, ancora rinchiuse a scuola senz’altro da fare che masticare paraf$na di nascosto.
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Nel settembre successivo alla malattia, il giorno in cui era previsto l’arrivo del nonno Kenyon, il patrigno della madre, per la sua visita annuale, si ritrovarono fuori dal- l’aula di educazione artistica con il sangue che usciva a $otti dal naso, e vedendo oltre la porta socchiusa
la signorina Holihan alle prese con la taglierina e un fascio di carta manila, si misero a camminare in punta di piedi soffocando le risate $nché, giunti alle scale, comincia- rono a correre. Una volta fuori, nel cortile deserto, si congratularono l’uno con l’altra: Molly non sarebbe sta- ta costretta a disegnare una mela sul foglio della signori- na Holihan e Ralph si sarebbe risparmiato non solo cal- ligra$a, ma anche canto. In realtà non ci avrebbero gua- dagnato niente a rientrare qualche ora prima del pul- mino della scuola, visto che il nonno non sarebbe arri- vato alla stazione di Los Angeles prima di metà pome- riggio e Miguel ci avrebbe messo un’altra ora a portarlo a casa con la Willys-Knight. E così cincischiarono più del solito, per nulla sicuri che a casa avrebbero trovato qual- cosa di interessante da fare, ma sicurissimi, d’altra par- te, che la madre, oltre ad agitarsi e a non star zitta un momento come faceva ogni volta che aspettava visite, vedendoli sarebbe montata su tutte le furie.
Era una strada di campagna stretta e tortuosa quella che facevano per tornare. Su entrambi i lati correva un piccolo fosso d’acqua limpida, che biascicava come una bocca. Di tanto in tanto si fermavano a tuffarci i fazzolet- ti e si ripulivano il sangue dalle mani e dalle braccia. Sulla destra c’era un aranceto da cui, in ogni stagione dell’anno, arrivava un profumo opprimente, e dove qualche volta vedevano stormi di uccelli così strani e va- riopinti che dovevano arrivare dai mari del Sud o dal Giappone. Alcuni degli alberelli piramidali erano sem- pre $oriti e altri erano sempre carichi di frutti. Quel giorno nell’aranceto c’era un uomo arrampicato su una scala, che si girò sentendoli arrivare. Si levò il cappello asciugandosi la fronte con la manica della camicia nera e gridò: « Ciao, ragazzi », ma dato che era messicano lo-
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ro non risposero e anzi allungarono il passo, atterriti, $nché non sentirono più la sua risata di scherno.
Poi passarono davanti al grande casei$cio immacola- to del signor Vogelman. Il signor Vogelman era un tede- sco grasso che indossava una tuta bianca e che una volta era stato preso a sassate da un gruppo di scolari di se- conda quando avevano saputo cosa avevano fatto i cruc- chi ai belgi. Le madri, nel timore che potesse vendicarsi esponendo il latte ai bacilli della tubercolosi, gli aveva- no scritto per scusarsi, ma visto che l’episodio era suc- cesso a Halloween, il signor Vogelman aveva frainteso tutto senza capire il senso di quella lettera. Allevava mucche di razza Guernsey col manto che al sole emana- va un luccichio metallico, non proprio giallo banana e nemmeno della sfumatura azzurrina del latte, ma una via di mezzo. Quel giorno vicino alla staccionata c’era un vitello appena nato e, quando vide i piccoli umani che lo $ssavano, il suo muso di cerbiatto prese un’e- spressione di malinconico stupore. La madre muggì stizzita, con le enormi froge nere dilatate, e loro corsero via perché avevano paura delle mucche, anche se non si sarebbero mai sognati di ammetterlo. Conoscevano una barzelletta su un vitello che avevano letto su « The Amer- ican Boy » e, quando furono a distanza di sicurezza dal pascolo, la recitarono come se fosse un dialogo:
ralph: Sono di vitello le tue scarpe| molly: Come no, è pelle conciata. ralph: Lo conciano male|
molly: Per le feste! Col pugnale!
Risero tanto che dovettero sedersi per terra e tenersi la pancia; per via delle risate il sangue usciva molto più in fretta, e allora, torcendosi dal dolore, si tamponavano disperatamente il naso, urlando: «Ahi! Ahi!». In$ne, quando si furono un po’ calmati, Ralph disse: « Mi sa che questa la racconto al nonno» e Molly disse: «Anch’io». Negli ultimi tempi, lei ogni tanto gli dava sui nervi: spes-
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so, quando Ralph aveva $nito di raccontare una barzel- letta o una storia, lei immediatamente la ripeteva pari pari, senza dare agli altri il tempo di scoppiare a ridere o di rimanere sorpresi. Non solo, innumerevoli volte aveva raccontato i sogni del fratello $ngendo che fossero i suoi. Ralph non voleva che la barzelletta sul vitello si rive- lasse un $asco e così, dopo un attimo di tentennamento, accettò di recitarla insieme alla sorella come avevano ap- pena fatto. Non era lunga come una di quelle storielle sui negri che raccontavano Leah e Rachel, ma era molto più divertente, ed erano sicuri che il nonno non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare in quella sua risatona fragorosa, dandosi una manata sul ginocchio mentre e- sclamava: « Perbacco, buona questa! ».
Proseguirono pensando al nonno, strascicando alle- gramente i piedi nella polvere della strada $no a im- biancarsi completamente le scarpe, stringhe comprese. Vicino al casei$cio c’era un arroyo profondo e del tutto prosciugato, che da quelle parti chiamavano « Rio ». Era il risultato di un’inondazione che aveva avuto luogo nel- la primavera in cui Leah aveva tre anni, ma Ralph e Mol- ly avevano sentito raccontare così spesso i particolari del- la catastrofe da esser certi che le loro impressioni derivas- sero dal ricordo, e non dai discorsi della madre e dei suoi amici quando non avevano niente di nuovo da dire ed e- rano costretti a rintuzzare le emozioni del passato. Du- rante l’alluvione il signor Fawcett aveva attraversato un torrente in piena su un cavallo di nome Babe, ormai mor- to da tempo, per soccorrere un’anziana la cui casa era stata spazzata via subito dopo. Si era caricato la donna in sella come un sacco di mangime e le aveva fatto la respira- zione arti$ciale sul pavimento della cucina. Dalla pioggia scrosciante erano sbucati migliaia e migliaia di fringuelli, che si erano posati sulla veranda; erano così tanti che sembrava di essere in una riserva, aveva detto il papà; Fus chia stava preparando una crostata di ciliegie e lui le ave- va chiesto se per caso non voleva aggiungerci anche due dozzine di fringuelli. Dal vialetto d’accesso era arrivato
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galleggiando un albero di pompelmo, con le radici e tut- to, e il papà l’aveva piantato in giardino accanto al collet- tore solare. Ogni anno dava un unico frutto, più piccolo di una pallina da golf e quasi altrettanto duro.
Sul letto del Rio Ralph e Molly trovavano sassi colora- ti, rosa, verdi, gialli e azzurri. A volte, nelle pozze che si formavano dopo un acquazzone, si vedeva luccicare l’o- ro degli stolti. Le sponde ripide erano tutte ricoperte di strani $ori ispidi dalle radici poco profonde e da mac- chie di malva che stillava un latte amaro. C’era un punto in cui il fango si seccava sbriciolandosi come pastafrolla e da piccola Molly era convinta che con quello si prepa- rassero i biscotti del gelato. Tutto ciò che di misterioso e malvagio c’era al mondo veniva dal Rio. Quei sassi lisci e colorati erano in realtà gioielli rubati e il ladro era uno Skalawag nero come il carbone che di giorno dormiva nel deposito del mais del signor Vogelman, ma la notte rimaneva sveglio. Ralph e Molly non si azzardavano a scendere nel Rio col naso sanguinante, perché lo Skala- wag sentiva l’odore del sangue a qualunque distanza e di sicuro avrebbe dato loro la caccia. E così passavano veloci, guardando il Rio con la coda dell’occhio. L’au- tunno precedente, quando ci avevano portato il nonno Kenyon, lui aveva detto: « Ah, ecco, così si ragiona. C’è troppo verde in quest’accidente di California, per la mi- seria. Ma quel $umiciattolo secco lì, quello sì che è un posto come Dio comanda ». Aveva fatto correre gli oc- chi neri sul paesaggio respirando appena, come se la fragranza dei $ori d’arancio lo offendesse, e aveva det- to: «Ma pensa tu, neanche l’inverno avete, da queste parti! Diamine, meglio andarsene in carretta all’inferno che perdersi i primi $occhi di neve che cade ». I bambi- ni erano un po’ indignati e un po’ intimiditi; rendendo- sene conto, lui aveva spiegato – anche se loro non ci ave- vano capito niente – che lì la natura non rappresentava nessuna s$da per l’uomo. « Prendete il mio ranch nel Panhandle. Non c’è posto al mondo dove la natura sia bizzosa come da quelle parti, ma ogni volta che si arrab-
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bia è uno schianto di ragazza, eh! ». Quando aveva com- prato il terreno, su ventimila ettari non c’era una sola goccia d’acqua, nemmeno un ruscello, uno stagno. Da- vanti alla sua intenzione di acquistarlo, gli avevano dato tutti del babbeo. Ma lui era andato avanti per la sua stra- da e l’aveva comprato lo stesso, poi aveva preso una ver- ghetta biforcuta di agrifoglio e aveva scelto un punto su un’altura subito a ovest di dove intendeva costruire la casa. Era rimasto fermo lì con la sua bacchetta di agrifo- glio, tenendo la forcella con entrambe le mani. Dopo un po’, la verga si era piegata verso il basso: nella dire- zione indicata c’era una sorgente profonda di acqua po- tabile che non si era mai prosciugata.
Da quel momento il Rio aveva assunto un nuovo signi$cato per Ralph e Molly, e si erano convinti che lo Skalawag fosse così circospetto perché temeva che potes- se arrivare qualcuno con una bacchetta divinatoria, e a quel punto l’acqua avrebbe trascinato via tutti i suoi gio- ielli. Anche adesso, ogni volta che passavano davanti all’arroyo, pensavano al ranch del nonno nel Panhandle e Ralph, sospirando, diceva: « Accipicchia, come mi pia- cerebbe andare nell’Ovest ». Perché credeva al nonno Kenyon quando gli diceva che la California non era l’O- vest ma una cosa a sé, come la Florida o Washington D.C.
Per esempio, nell’Ovest non si trovavano mica tutte quelle carabattole che piacevano tanto alla signorina Runyon. La signorina Runyon abitava vicino al Rio in una casetta bianca con le persiane verdi e begonie a tut- te le $nestre, che a Molly piaceva tanto prima che il non- no la de$nisse « una roba che non sta né in cielo né in terra ». Il giardino arrivava $no alla strada e tra le aiuole di phlox, $ordalisi e acetosella c’erano strane creature d’ogni sorta: una rana verde gigante, tre nanetti, una papera con quattro paperette, due uccellini azzurri grossi come gatti, un’olandesina con la sua cuf$etta e un palo totemico. Sulla porta di casa c’era un’insegna che diceva « Locanda Passapure ». Accanto alla casa c’e- ra la cuccia del cane, costruita esattamente come la lo-
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canda Passapure, e sopra l’apertura c’era scritto « Il rifu- gio del pastorello », perché la signorina Runyon aveva un pastore tedesco di nome Rover. Sotto la grondaia, sulla veranda, c’era una casetta per gli uccelli costruita come le altre due, ma il nome era meno evocativo: si chiamava semplicemente « Casa degli scriccioli ».
La signorina Runyon era la direttrice dell’uf$cio po- stale e a detta di tutti era proprio un personaggio. Gui- dava da sola un’automobile che chiamava «Mac», ab- breviazione di « macchina », anche se lei per ridere l’a- veva soprannominata « Macchiappa ». Non mangiava né carne né spezie, perché era una seguace del dottor Kel- logg. Di tanto in tanto invitava i Fawcett a un picnic sera- le nel suo giardino e serviva hamburger fatti con i cerea- li della colazione tenuti insieme da una $nta gelatina di piedini di vitello. La domenica pomeriggio andava sem- pre a casa loro a leggere il giornale e non faceva mistero del fatto che, come a tutti i bambini, le piacesse la pagi- na dei fumetti. Li leggeva con la stessa serietà e la stessa concentrazione di Ralph, Molly, Leah e Rachel. Una volta aveva detto che era stufa marcia di Elmer Tuggle e del suo eterno guantone da baseball; il suo preferito era Happy Hooligan. A dispetto di quell’aggressiva bono- mia, era molto paurosa e non se la sentiva di dormire in casa da sola, perciò aveva invitato a stare da lei una don- nina giapponese, la signora Haisan. Se per caso la signo- ra Haisan doveva assentarsi, andavano a dormire da lei Leah e Rachel, che tuttavia lo facevano malvolentieri perché, la prima volta che si erano fermate a casa sua, lei nel bel mezzo della serata aveva alzato improvvisa- mente gli occhi dalla rivista femminile che stava leggen- do e aveva detto in tono nervoso: « Avete sentito| Qual- cuno ha inghiottito qualcosa! ». Secondo Ralph e Molly era stato lo Skalawag, e le cose che poteva aver inghiotti- to erano così numerose e terri$canti che bastava la sola parola a farli tremare come foglie.
La signora Follansbee, la moglie del pastore, aveva a- vanzato scherzosamente l’ipotesi che la signorina Run-
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yon avesse messo gli occhi sul signor Kenyon, e in parte la supposizione si basava sul fatto che i loro cognomi fa- cevano rima; è vero che in diverse occasioni, durante le visite del nonno, lei li aveva invitati ad andare a casa sua «accontentandosi di quel che passa il convento», ma loro non ci erano mai andati, perché, come disse la si- gnora Fawcett nel segreto familiare, « non oso pensare a cosa farebbe una buona forchetta come il signor Ken- yon se gli servissero cereali per cena, per quanto abil- mente camuffati ».
Ralph pensò che forse avrebbe potuto raccontare al nonno una storiella sulla signorina Runyon, una storia inventata ma usando il suo nome, e rimase lì a ponzare appoggiato alla palizzata, lasciando gocciolare il naso sulle assi, $nché due non assunsero l’aspetto di lance andate a segno. O forse avrebbe potuto raccontarne una sulla signora Haisan. La signora Haisan aveva due $gli più o meno della stessa età sua e di Molly, e i bambini vivevano con la zia Hana, un donnino minuscolo che la- vorava dalla signora Fawcett come lavandaia. Si chiama- vano Maisol e Maisako e uno era nato il 4 luglio, l’altro il 1° aprile. C’era stato un episodio terribile quando erano venuti a casa loro con Hana e avevano costretto Ralph e Molly a seguirli nel campo di cocomeri, e non solo aveva- no tagliato un cocomero acerbo con una spatola per lo stucco, ma avevano detto e insinuato cose così orribili che Ralph e Molly erano stati costretti a picchiarli. Natu- ralmente avevano vinto in quattro e quattr’otto, perché i musi gialli erano molto meno robusti di loro.
Ralph non riuscì a farsi venire in mente nessun’altra storiella a parte la barzelletta sul vitello. Allora, facendo marameo alla casa della signorina Runyon, cantilenò: « Postina beduina babbuina truffaldina, non mi fai nien- te, faccia di serpente, non mi fai male, faccia di maia- le!». E poi, prendendo per mano la sorella, si mise a correre veloce come il vento perché la signora Haisan e Rover erano comparsi simultaneamente sulla porta dei rispettivi alloggi e, sebbene Rover fosse innocuo come
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una coccinella e con ogni probabilità la signora Haisan volesse solo offrire loro un kumquat candito, era più di- vertente pensare che fossero inferociti come lo Skala- wag. Appena la casa non fu più visibile, Ralph si inginoc- chiò a terra, accostò l’orecchio alla strada e balzò in pie- di esclamando: «Ehi! Arrivano!». A quel punto, non smisero più di correre $nché non ebbero imboccato la via di casa.
Dopo un centinaio di passi videro le palme che deli- mitavano la loro proprietà. In quell’ultimo tratto, per un motivo o per l’altro, Molly pensava sempre a Redon- do Beach, dove avevano trascorso qualche settimana alla $ne dell’estate. Alzando gli occhi verso il cielo az- zurro e vuoto, aveva ancora la sensazione di essere a pie- di nudi nella sabbia rovente, a caccia di stelle marine e ricci, e di sentire le urla terrorizzate delle madri e quel- le petulanti dei $gli che, avanzando nell’acqua, rispon- devano che le onde non erano poi così alte. Pensare al- la spiaggia la rendeva irrequieta e nostalgica, e di tanto in tanto le strappava un gemito sommesso, perché ogni volta le tornava in mente lo strano fremito d’orrore mi- sto a piacere provato quando un gabbiano le aveva striz- zato l’occhio e lei si era accorta che muoveva solo la pal- pebra inferiore, mentre l’altra rimaneva immobile. Quel giorno però non pianse: Ralph era troppo allegro – lo sapeva – per consolarla, e quando Molly piangeva l’uni- co piacere era proprio farsi abbracciare da lui, inalare il suo odore pungente di serge e bretelle di cuoio, e senti- re, rabbrividendo, le sue mani piene di verruche che le s$oravano la faccia. Molly poteva sempre imporsi di pensare con tristezza non al mare bensì a suo padre, che era morto; di lui non aveva ricordi, ma sapeva che era in cielo con Gesù e l’avrebbe miracolosamente rico- nosciuta quando lei lo avesse raggiunto, anche se al mo- mento della sua morte non era ancora nata. Era il pen- siero più elettrizzante che avesse mai avuto in vita sua, e la mandava in visibilio dal giorno in cui lei e Ralph ave- vano concordato di non morire $nché lui non avesse a-
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vuto novantanove anni e lei novantasette: in quel modo al loro arrivo in cielo sarebbero apparsi molto più vec- chi del padre, che invece era morto all’età di trentasei anni.
Appena imboccarono il vialetto d’accesso, Ralph attac- cò con le tabelline: « Sei per tre| ». « Diciotto » rispose Mol- ly. E Ralph: «Asino cotto». Continuarono: «Otto per ot- to|». «Sessantaquattro». «A Sophia è morto il gatto». «Due per dieci|». «Venti». «Ho perso tutti i denti», e a quel punto Molly strillò, sbellicandosi dalle risa: « Mam- maaa! Ralph ha perso tutti i denti! ». Ma la mamma non era seduta sulla veranda come al solito, e Ralph e Molly rimasero a guardarsi come due ebeti, pieni di imbarazzo.
Avrebbero dovuto saperlo che era in cucina, indaffa- rata con i preparativi per l’arrivo del nonno. La sentiro- no accorrere alla porta nelle sue pantofoline col tacco, gridando, in previsione della scena che si sarebbe trova- ta davanti: « Oh, non ditemi che è successo di nuovo! ». Poi si fermò al di là della zanzariera, le mani sui $anchi, il vitino da vespa nella gonna grigio perla, incerta se ar- rabbiarsi o preoccuparsi, per un attimo troppo sconvol- ta anche solo per aprire bocca. I bambini rimasero in attesa sul primo gradino come cani perfettamente adde- strati e la madre, vedendoli così umiliati, decise di angu- stiarsi e corse loro incontro, abbracciandoli ma allo stes- so tempo facendo attenzione a non macchiarsi la cami- cetta bianca. Profumava di giaggiolo e pan di zenzero, e i bambini, annusandola, ebbero la netta sensazione che l’ospite sarebbe arrivato di lì a poco, una sensazione an- cor più netta di quella che avevano provato al mattino, quando avevano visto Miguel uscire in macchina per an- dare alla stazione. Era partito presto per acquistare ogni sorta di prelibatezze ai mercati di Los Angeles: tra le al- tre cose, avrebbero mangiato amarene e lokum.
«Oh, poveri pulcini!» esclamò la signora Fawcett, e gli occhi azzurri le si riempirono prontamente di lacri- me. « Oh, cari, perché non avete telefonato| Perché dovete sempre far arrabbiare la mamma| ».
Marian Drăghici-“Illimitato – De necuprins” Giuliano Ladolfi editore
Nota di Sonia Elvirenau, traduzione di Giuliano Ladolfi-
Rivista Atelier
Descrizione del libro di Marian Drăghici si distingue nella lirica contemporanea per l’audace tentativo di scrivere il “Libro della sua vita”, sempre rivisto, levigato, per cogliere nel poema l’illuminazione, come Brâncuși, il volo dell’uccello nelle sue sculture, seguendo così l’esortazione di Stéphane Mallarmé: «Vincere significherebbe comporre, finalmente, l’Opera, il Libro – l’unico –, trionfare, quindi, sulle fatalità e le leggi del mondo, su tutto ciò che il pensiero non può sottomettere al suo impero, sul Destino». [Lettera a Verlaine (1885), citata da J. Royère nel suo libro Mallarmé]
Nel 2022 è apparsa in Italia la sua raccolta bilingue italo-romena illimitato/ de necuprins, tradotta dal poeta, critico e traduttore Giuliano Ladolfi in un’armoniosa composizione poetica che comprende la maggior parte delle poesie della raccolta leggero, lentamente (2013), un minimo di versi del volume păhăruțul (2019), poesie nuove, pubblicate su riviste e inedite. Eccellente critico letterario, Giuliano Ladolfi intuisce nella creazione di Marian Drăghici una radicale trasformazione della sua coscienza attraverso l’arte e il suo dramma esistenziale, accogliendo il libro come «testimonianza di una graduale “metanoia”».
La struttura del libro rivela il percorso seguito dal poeta, dal sacro estetico al religioso, dall’amore per la poesia all’amore per Dio, dall’intuizione della presenza divina nell’uomo all’attivazione dell’archetipo della divinità nella mente e nel cuore, dalla poesia che salverà il mondo alla fede che salverà l’uomo attraverso la sua rinascita nello spirito, nella divinità, nel cammino ascetico da uomo a santo.
La poesia e l’amore sono per Marian Drăghici forme per sperimentare l’illuminazione, passi verso la “metanoia” annunciata dal titolo stesso della precedente raccolta, luce, lentamente. L’esperienza esicasta, per mezzo della grazia acquisita con la preghiera, sulle orme dei Santi Padri, della tranquillità interiore attraverso la comunione con Cristo, è testimoniata nella poesia Il gatto faustiano, un racconto invernale incompiuto.
La raccolta illimitato/ de necuprins si apre con la poesia, che richiama le parole del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Il poeta cerca la parola illuminata attraverso la quale si rivela la divinità, la traccia del “seme degli angeli” nell’uomo, il legame con Dio.
Tutta la sua esistenza poetica è giustificata dalla ricerca incessante dello «sfolgorio di Dio» nell’uomo. Poiché la grazia poetica è di essenza divina, il poeta assume questo dono come una sorta di apostolato, rivelando fin dall’inizio il suo percorso spirituale verso la scoperta della divinità e il legame con il sacro religioso:
Ora, questo libro è il luogo illimitato/indefinito
dove l’angelo entra nell’uomo, per suonare l’armonica rossa,
quando ancora lo stava visitando.
Più precisamente, una fotografia sfocata, una mappa imperfetta di questo luogo.
«Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro…».
Logicamente, la traccia rimasta in quel luogo battuto dall’uomo,
dopo la partenza intempestiva dell’angelo,
è la poesia.
Il mio lavoro di una vita: fare la fotografia, la grande fotografia –
In realtà, preservare un bagliore di angelità
prima che si cancelli completamente dalla memoria di questo luogo
la traccia del guizzo di Dio nell’uomo.
(All’inizio)
Su questo filo si costruisce la sua nuova raccolta tra l’amore per la poesia e l’amore per Dio, fondendo in essa il dramma di se stesso, dell’essere umano. Il poeta confessa infine la sua conversione, rinunciando alla vanità mondana:
ormai, il solo premio che riceverò con gioia
(ma che possa darlo proprio a me!)
è di essere in vecchiaia pazzo per Cristo
come ero in gioventù pazzo per la poesia».
(prezzo)
Marian Drăghici trasforma la sua poesia in una forma di conoscenza ontica e metafisica, giustificando così la sua esistenza di poeta. Dal rifiuto della parola di posarsi sulla pagina bianca alla vertigine delle sue visioni, le parole scorrono in poesia sulla poesia, l’amore, la sofferenza, la morte, la divinità, la rinascita, nel gioco raffinato dell’immaginario poetico passato attraverso sottili stratificazioni esistenziali e libresche. Si aprono così finestre successive sulle profondità non illuminate della conoscenza, sulle molteplici iniziazioni acquisite dal poeta attraverso la sperimentazione e la lettura.
La lucida confessione conserva l’essenza delle sue esperienze drammatiche: il male terrificante proiettato dal subconscio nell’onirico, la morte della giovane moglie dopo atroci sofferenze, la solitudine, la desolazione dell’anima, l’alcolismo, la messa in discussione della divinità, la scoperta del senso della sofferenza, l’invocazione della divinità, l’aspirazione ad accedere alla Gerusalemme celeste, la conversione.
Il poeta sopravvive alle molteplici forme di morte credendo nell’arte e nella divinità. La memoria affettiva si intreccia con la memoria culturale, substrato leggero della lirica di Marian Drăghici, formata spiritualmente alla fonte della grande letteratura universale e romena. Le sue letture si irradiano nel palinsesto del testo poetico. I riferimenti letterari, mitologici, religiosi, pittorici, psicanalitici sono precisi, diluiti o fusi nel testo. L’autenticità della vita, dell’esperienza personale, prevale nelle sue poesie, la cui espressione si diversifica metaforicamente e visionariamente.
Il lettore è contemporaneamente invitato a scoprire la complessità di una poesia in cui l’orizzonte si estende dall’interiorità del poeta all’esteriorità sociale, dalla realtà fisica a quella metafisica, dall’esperienza individuale a quella collettiva, dal conscio all’inconscio. Un poema elegiaco, mistico, salmico, ermetico, di strana bellezza, con un evidente taglio sarcastico quando si parla di sociale.
Il poeta scrive una vita all’interno delle stesse ossessioni, racchiudendosi nel suo mito personale. La sua poesia gravita a spirale intorno a un nucleo orfico, in variazioni di motivi ricorrenti. Apparentemente, la lirica di Marian Drăghici si chiude sulla sua esperienza, in una ripresa dei nuclei tematici, con un doppio ruolo. Da un lato, crea un modo specifico di lavorare in poesia, assunto con lucidità; dall’altro, permette di sfumare, aprendosi a una sfera più ampia di conoscenza e autoconsapevolezza: dal sé all’altro, dal profano al sacro, dal reale al metafisico.
Le metafore ricorrenti, che rivelano le sue ossessioni, operano all’interno delle poesie come un segno poetico riconoscibile, come la firma di un pittore su un quadro. Si riconosce così il poeta nelle varianti delle sue opere e contemporaneamente si ha la strana sensazione di conoscere la sua poesia ma di non averla decifrata, di essere ancora un enigma, di trovarsi di nuovo, come al primo contatto con la sua poesia, nello stesso stadio iniziatico. I versi non hanno perso la loro freschezza, come se il vecchio si rigenerasse incessantemente assorbito in una nuova forma. È come trovarsi di fronte a una casa con due ingressi, uno ti porta in uno spazio familiare, l’altro ti porta fuori da esso, in una zona crepuscolare in cui non riconosci più le cose.
Il nucleo della creazione di Marian Drăghici è orfico, generato dalla morte della giovane e amata moglie dopo una lunga sofferenza. Sono le poesie d’amore più belle e autentiche, che sublimano il sentimento e possono sempre stare accanto a quelle della lirica universale:
forse esiste
qualcosa di più reale del nulla, signor Beckett,
l’amore di una donna che non esiste più
(la morte non ci ha separati né l’oblio)
e che improvvisamente ti viene voglia di rivedere a tal punto che
vorresti lasciare la terra
vorresti lasciare la terra
ma non è ancora il momento.
basta dire che presto forse rivedrò il tuo volto, mia amata,
come tante volte ho guardato la morte in faccia
o probabilmente di profilo
nei giorni tumultuosi della rivolta vagando per le strade
nella speranza di ritrovarti,
sì, ti troverò
da qualche parte lontano la sera dopo la morte
vicino a un piccolo fuoco di ramoscelli presso la sorgente,
assolutamente al sicuro dagli uomini,
assolutamente al sicuro dalle belve
al solo luccichio delle stelle del cielo e nei tuoi movimenti
con la grazia della nudità originaria
(qualcosa di più reale del nulla).
Il poeta reprime il suo dolore, rivelando il vuoto dell’anima causato dall’assenza dell’amata, rappresentata figurativamente da un albero che continua a crescere dal suo cuore verso il cielo, una scala verso l’Aldilà:
senza amore sono veramente capace
di far crescere in me l’assenza
un lussureggiante albero, soffice, fino al cielo.
– come dal cuore dei morti?
– come dal cuore dei morti! Lassù,
sul ramo dell’apice ti culli nuda
tra le tue braccia l’uovo primordiale appena deposto
dall’uccello di Char, spirituale.
(ramo inclinato sul mare)
Lo shock della morte è così intenso che la voce del poeta tace per un po’, sostituita dalla voce stellare e dalla luminosa evanescenza dell’amata. Quando poi la ritrova, l’ispirazione, il tono lirico, la struttura, il linguaggio e l’atteggiamento cambiano. Da elegiaco, il poeta diventa parodia, ironia, sarcasmo, anche nelle poesie incentrate sull’atto della creazione poetica, sui metapoemi, sulla vera arte poetica.
La poesia autentica, infatti, è di natura sacra, la scrittura non è che una trascrizione imperfetta della poesia nascosta, invisibile, rivelata in sogno, un’arte povera nella concezione del poeta. Da qui lo stato di veglia per cogliere il momento di grazia e l’incapacità di creare la poesia sognata in uno spasmo letale. Ogni poesia scritta è percepita come una morte simbolica per la sopravvivenza della parola che dovrebbe essere illuminazione e salvezza.
L’esperienza della morte nelle sue molteplici forme (malattia, sofferenza, morte, guerra, alcool) è il filone su cui si costruisce la poesia di Marian Drăghici e giustifica la sua solitudine e la sensazione di esilio permanente, il suo vivere “con gli esiliati e i morti”. Ma il brivido tanatologico è superato dalla rinascita in una nuova luce, dalla graduale rivelazione di Dio non solo come ispirazione poetica, amore per l’altro (la moglie), ma soprattutto come esperienza religiosa: ” è tempo di avere un cristallo nel pensiero – / è così che io vedo Cristo – / un’assenza piena di lacrime / che non cadono a terra. // è tempo di avere un cristallo nel cuore – / è così che io sento Gesù – / un’assenza piena di lacrime / che salgono in alto” (luce, dolcemente, ultima variante).
Per Jung, la scoperta di Dio equivale alla riattivazione della funzione religiosa che esiste come archetipo nell’uomo, quindi alla connessione con il divino, alla riscoperta dell’angelo nell’essere umano. Il percorso di sopravvivenza del poeta è quello spirituale invocato nella poesia Gerusalemme, un percorso drammatico, perché passa attraverso la morte, la rivolta, l’incomprensione, l’interrogazione, la decadenza, la ricerca, l’esperienza mistica per la resurrezione nello spirito santo, l’esperienza esicasta, la comunione con la Divinità. Dal bambino affascinato dal cielo riflesso nell’acqua dello stagno, all’adolescente terrorizzato da uno spirito maligno, al fumatore malinconico e solitario, dall’ Harrum solitario e alienato al poeta oltraggiato dal declino della società, dallo scriba mortificato dall’impotenza al mistico illuminato, c’è il cammino dell’ascesa spirituale, del graduale avvicinamento a Dio, della rinascita attraverso la fede autentica. La tragedia dell’esistenza umana viene superata dalla rinascita nello spirito, grazie alla grazia acquisita con la preghiera costante, realizzando così la “metanoia” del poeta. L’edizione bilingue illimitato/ denecumpris rappresenta il risultato più elevato della lirica di Marian Drăghici, la traduzione nella lingua di Dante la impone nel circuito universale. Il testo in lingua rumena è pubblicato sul sito della rivista letteraria «Apostrof» https://www.revista-apostrof.ro/arhiva/an2023/n3/a13/
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Traduzione di Roberta Scarabelli- Neri Pozza Editore
Un bar nella Vienna degli anni Sessanta: i suoi avventori e le loro storie di vita, speranze, amori e illusioni.
Sinossi del libro di Robert Seethaler-Nell’estate del 1966 Robert Simon ha poco piú di trent’anni e un sogno: aprire un bar. Cresciuto in un istituto per orfani di guerra gestito dalle suore della Carità, per qualche tempo ha lavorato come aiuto cameriere e garzone nei locali all’aperto del Prater, e forse è stato proprio lí – mentre girava fra i tavoli alla luce delle lanterne colorate, alla ricerca di bicchieri vuoti e mozziconi di sigaretta – che si è acceso in lui il desiderio di stare, un giorno, dietro il bancone della propria osteria. Quando il bar all’angolo del mercato chiude i battenti, Robert capisce che la sua occasione è arrivata. Il locale, cupo e fatiscente, si trova in uno dei quartieri piú poveri e sporchi di Vienna, ma da qualche tempo spira un vento nuovo e l’aria è pervasa da uno strano fermento: sui giornali con cui i pescivendoli avvolgono i salmerini e le trote del Danubio si legge di grandi cose a venire, di un futuro radioso pronto a sorgere dal pantano del passato. Infiammato da questi cambiamenti, Robert rimette a nuovo il bar, imbiancando le pareti, verniciando i mobili e lucidando le piastre dei fornelli. Non ha molto da offrire, ma i clienti arrivano comunque, portando storie di passioni, amicizie, abbandoni e lutti. Alcuni sono in cerca di compagnia, altri desiderano ardentemente l’amore, o soltanto un luogo dove sentirsi compresi, e mentre la città diventa sempre piú affollata, anche la vita di Robert si trasforma. Combinando l’incanto di una prosa malinconica a una tenera comicità, Robert Seethaler ha scritto un romanzo animato da personaggi indimenticabili, un caleidoscopio di storie che si fa parabola dell’esistenza umana.
Andreas Heimann:«L’autore traccia un quadro non sentimentale dei suoi personaggi, ma con molta empatia. È un’arte che padroneggia alla perfezione: quella di raccontare grandi storie di piccole persone».
Brigitte:«La narrazione di Robert Seethaler è cosí toccante che si ha voglia di sedersi personalmente in questo “bar senza nome”».
Breve biografia di Robert Seethaler – nato a Vienna nel 1966 e vive tra questa città e Berlino. Autore e sceneggiatore, nel 2007 ha ricevuto il prestigioso premio del Buddenbrookhaus per il suo romanzo d’esordio. Ha ottenuto numerose borse di studio, tra cui la Alfred Döblin dalla Akademie der Künste, e il film tratto dalla sua sceneggiatura (Die zweite Frau) ha ricevuto un importante riconoscimento al Festival del Cinema di Monaco di Baviera nel 2009. Una vita intera (Neri Pozza 2016) è stato selezionato per l’International Booker Prize e diventerà un film diretto da Hans Steinbichler, con Stefan Gorski nei panni di Andreas Egger. Presso Neri Pozza sono apparsi anche Il campo (2019) e L’ultimo movimento (2021). I libri di Seethaler sono tradotti in piú di 40 lingue.
Descizione del libro di Federici Canaccini, il Medioevo in 21 battagie. Cavalieri, fanti, arcieri e poi armi, strategie, tecniche. Questi sono gli elementi che fanno una battaglia. Ma se osserviamo con attenzione il ‘volto della guerra’ ci riconosciamo molto altro: emozioni, cultura, contesti, personalità e caratteristiche individuali. Un nuovo racconto del Medioevo in 21 momenti fatali che hanno deciso la Storia.Quando pensiamo al Medioevo, automaticamente ci vengono in mente immagini di spade, castelli e armature. Quasi ogni cosa che ricordiamo di questo periodo storico ha a che fare con battaglie, duelli o assedi. Mai come nei mille anni dell’Età di Mezzo, la guerra ha occupato uno spazio così centrale nella vita degli uomini. In queste pagine troveremo tutte le battaglie più famose, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma più volte ci stupiremo inoltrandoci in luoghi lontani, sconosciuti e affascinanti: dalle umide pianure indiane alle gole del Tagikistan, dalle acque del Giappone fino alle inesplorate valli dell’Impero azteco, dai ghiacci del Baltico fino al profondo deserto d’Arabia. Ciascuno di questi 21 ‘fatti d’arme’ diventa un prisma attraverso il quale conosciamo gli avanzamenti dell’῾arte della guerra’, ma anche uomini, culture, contesti. Un libro che piacerà a tutti gli appassionati di storia militare e che ha l’ambizione di proporre uno sguardo nuovo, capace di coinvolgere tutti coloro che amano la storia.
L’autore – Federico Canaccini, medievista, si occupa da anni di storia comunale italiana, con una particolare attenzione al conflitto tra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Ha insegnato Storia della guerra nel Medioevo alla Catholic University of America di Washington, Paleografia latina alla LUMSA di Roma e attualmente insegna Paleografia e Filosofia medievale alla Università Pontificia Salesiana di Roma. In qualità di ricercatore all’Università di Princeton ha intrapreso un lavoro di edizione critica di Questioni quodlibetali e di trattati astrologici inediti. È assiduo collaboratore della rivista “Medioevo”, di cui cura la rubrica d’apertura. Tra le sue pubblicazioni, Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (2007), Matteo d’Acquasparta tra Dante e Bonifacio VIII (2008) e Al cuore del primo Giubileo (2016). Per Laterza è autore di 1268. La battaglia di Tagliacozzo (2018) e 1289. La battaglia di Campaldino (2021).
Daria Menicanti è stata una Poetessa, insegnante e traduttrice italiana. In lei si mescolano il registro sarcastico e ironico e quello più sottile della malinconia. Per Lalla Romano la sua era “una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”.
ESTIVA
*
Ogni sera le madri dai balconi
chiamano i figli con urli soavi.
Cadono i nomi gridati nel buio
come stelle filanti. Ad uno ad uno
tornano con le bluse a quadrettini
le gonnellette alte una spanna i teneri
re,le regine.
Daria Menicanti, il “grillo” che ha cantato Milano
“Io mi sento il palloncino fuggito dal suo grappolo”
Da bambina la chiamavano grillo, un soprannome che ha conservato per tutta la vita e che a volte disegnava accanto alla sua firma. Un nomignolo profetico per chi del canto ha fatto la sua voce. Daria Menicanti è una delle poetesse italiane dimenticate da riscoprire.
A Piacenza c’è nata “per caso” in quel 6 aprile del 1914 perché sentiva di avere un destino legato al mare viste le origini livornesi e fiumane dei genitori. Il padre aveva studiato con Pascoli che nutriva speranze nel promettente poeta. Lui scelse però di studiare legge e lavorare prima come assicuratore a Trieste e poi come bancario in diverse città del Nord. In seguito fu costretto a cambiare molti lavori per le difficoltà dovute al suo antifascismo e la famiglia si spostò spesso seguendolo.
Daria era la sesta figlia, l’ultima, la più vezzeggiata, la più capricciosa, mingherlina ma con un carattere molto risoluto. I rapporti con la famiglia furono sempre burrascosi, specie col padre spesso assente. Non disse a nessuno che si laureava e nessuno invitò al suo matrimonio, pochi mesi dopo. Dopo le nozze in Comune tornò semplicemente a casa, riempì una borsa e se ne andò dicendo “stasera non vengo a casa perché mi sono sposata”, ricorda la nipote Lucia.
A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dispari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.
Daria è una persona schiva e solitaria e i primi anni li vive nella stessa “campana di vetro” di cui parla Sylvia Plath, che avrebbe poi tradotto nel 1968. È di salute cagionevole perciò non va a scuola e studia a casa seguita dalla sorella maggiore Trieste. Inizia a frequentare la scuola pubblica solo alle superiori iscrivendosi al Liceo Ginnasio Berchet di Milano. Continua gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia e ha come compagni di corso Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Enzo Paci. Si laurea in estetica con Antonio Banfi e una tesi sulla poetica di Keats. Proprio quel Banfi che creerà intorno a sé la “scuola di Milano”.
Lo sbocco naturale della sua formazione è l’insegnamento e per tutta la vita Daria Menicanti insegna nella scuola media, diventando in seguito anche preside. Ma il suo lavoro culturale è più ampio. Dagli Anni 30 in poi compone poesie, scrive sulle riviste letterarie e traduce, traduce moltissimo, specialmente dall’inglese e dal francese: John Henry Muirhead, Paul Nizan, Betty Smith, Noel Coward, Nelly Sachs, Paul Geraldy, Sylvia Plath. Le traduzioni servono da laboratorio per la definizione della lingua poetica anche se Daria ha tradotto soprattutto prosa, e specialmente filosofia. “La vita dello scriba è una manciata / di sillabe e vocali e consonanti / e di allitterazioni”.
Dopo tanto silenzio
mi arriva di lontano
festante, fragorosa
una banda di rime,
di assonanze.
Le corro incontro
felice
fino sull’angolo.
L’impronta filosofica resta sempre forte nella sua scrittura. La sua poesia non si lascia andare mai al sentimentalismo ma è sempre frutto della lucida riflessione propria della filosofia. Eppure non è mai fredda, distante, anzi si interessa alla più piccola realtà, inclusi animali e piante, tanto cari alla poetessa.
È ancora capace di infanzia
il tronco ficcato sul cuore
della città. Una luce d’alba gli esce
dai rami, ai piedi gli si affolla
un subbuglio di verde.
A un vento improvviso lo zampillo
della fontana gira verso il tronco
assentendo approvando: – D’accordo,
sussurra, la vita
può essere ancora bella
“Il razionalismo per me è sempre stata una vocazione. Pensa che tempo fa mi dicevo che ero una illuminista” dice in una intervista parlando della sua poesia come dell’“irrazionale espresso razionalmente”. A radicare la sua opera creativa nel razionalismo filosofico ha contribuito l’amore per Giulio Preti, anche lui filosofo della scuola banfiana. Si sposano nel 1937 ma il matrimonio è burrascoso. Finisce nel 1954 ma restano legati da una profonda amicizia.
Poeta
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice
Le amicizie di Daria si contano sulle dita di una mano ma sono per sempre. Lalla Romano, collega a scuola, diventa la sua più cara amica e di lei dice che “aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”. Anche Vittorio Sereni è un punto di riferimento importante, sia personale che professionale. Ogni domenica la poetessa va a pranzo dai Sereni e dà alle loro figlie lezioni private di greco e latino.
Alla poesia si avvicina già negli anni dell’Università ma è ancora qualcosa che tiene per sé. È negli Anni 50, e soprattutto dopo il definitivo trasferimento a Milano, che si dedica alla poesia innestandola a fondo nella sua città.
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Nel 1964 esce per Mondadori la prima raccolta, Città come, che vince il premio Carducci. Nella prestigiosa collana Lo Specchio saranno pubblicate anche Un nero d’ombra nel 1969 e Poesie per un passante nel 1978. Il direttore della collana era Sereni e nel 1982 aveva già approvato un volume in attesa di pubblicazione, Ferragosto. Ma nel 1983 l’amico muore improvvisamente e Mondadori fa un passo indietro comunicandole per lettera che non sarà più pubblicata. Uno sgarbo che Daria non digerirà mai. Da allora in avanti la poetessa affida le sue raccolte a editori più piccoli: Altri amici, un bestiario poetico dedicato agli animali da Daria tanto amati, esce nel 1986; Ferragosto, considerata dall’autrice la sua opera migliore, vede le stampe nello stesso anno; Ultimo Quarto nel 1990.
Lucciola
Fu per come esitava che l’amai
subito
e colsi quel seme di luce
stringendo le due palme.
Ma come ci guardai gelosa, buio
era tornato il bel fuoco,
ombra con ombra
pace
Dopo l’ultima raccolta continua a scrivere anche se le sue condizioni fisiche e psichiche vanno peggiorando rapidamente, fino alla morte appena 5 anni dopo. Sulle poesie inedite ha lavorato febbrilmente, correggendo e limando continuamente i versi come testimoniano i taccuini scritti a matita. Un lavorio continuo che passa al setaccio della ragione tutti i moti dell’animo e li distilla.
Di qua la vita e da quell’altra parte
la morte e in mezzo l’uomo
in stato di assedio
La sua poesia si è nutrita di minime situazioni quotidiane, di silenzi e inquietudini, piccole epifanie, di vissuto cittadino popolato da personaggi che qualche volta Daria sembra orchestrare sulla scena come una abile regista. Quando parla di se stessa si definisce un “camaleont poet” come il suo amato Keats.
Ma sono – oltre che me – sono sul guscio
d’un fiore il mite grillo
dell’estate inquilino –
o l’urlo abbandonato dell’ossesso
sul marciapiede riverso –
Nella sua opera si passa dal tratto nostalgico e struggente a quello ironico e tagliente, dalla riflessione filosofica sulla vita al ritratto dei reietti metropolitani. La città è sempre presente, se non da protagonista come sfondo attivo.
Me ne vo con un gran coltello infisso
nel petto, il manico fuori.
Me ne vado tranquilla e bianca. Un vigile
col fischio mi richiama: – Il coltello,
mi grida, il coltello! –
Par proprio che la lama
superi le misure della legge.
Così mi fermo e pago
l’ennesima contravvenzione
E spesso presente è il cuore, anche se non viene quasi mai nominato direttamente ed è sempre mediato dall’intelletto. Non c’è sentimentalismo fine a se stesso ma riflessione lucida e acuta sulle ragioni del cuore.
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
L’hanno paragonata a Umberto Saba e Sandro Penna ma a lei piaceva di più far riferimento ai poeti classici, specialmente a Orazio e Marziale, a cui si ispirano anche i suoi fulminanti epigrammi.
Dopo tanto odio ti ricordo infine
con animo fraterno
e ti perdono
il bene che mi hai fatto
(Le poesie e le citazioni sono tratte da Il concerto del grillo: l’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, Mimesis)
Traduzione di Paolo Dilonardo -Edizioni Nottetempo –
Descrizione del libro di Susan Sontag (1933-2004) Stili di volontà radicale –Edizioni Nottetempo–Dalla guerra in Vietnam al cinema di Bergman e Godard, dall’identità americana alla pornografia: Stili di volontà radicale è un libro che ha segnato un’epoca intellettuale. Uscito nel 1969, è la seconda raccolta di saggi pubblicata da Susan Sontag, dopo Contro l’interpretazione. Siamo alla fine degli anni Sessanta, un periodo di sovvertimenti e sperimentazioni tra i più inquieti del Novecento, in cui la critica, il pensiero, le forme artistiche e la contestazione politica si orientano verso stili radicali, come suggerisce il titolo del libro. In cui la spinta contro il mainstream capitalistico e la cultura di massa produce rivoluzioni nei linguaggi dell’arte e nella coscienza, toccando spesso soglie estreme e sondando i limiti della consapevolezza, dell’esperienza e del dicibile. Nascono da questa tensione le riflessioni di Sontag sul rapporto tra l’estetica contemporanea e il silenzio, l’acuta analisi dell’immaginazione pornografica con le sue ossessioni erotiche e la sua violazione delle norme (sessuali e letterarie), le incursioni in opere di personalità filosofiche o artistiche radicali come Bataille, Cage, Beckett, Godard. E, infine, i giudizi brucianti e la visione pessimistica dell’America contemporanea, con la sua “innocenza” e “barbarie” – entrambe “spropositate, letali” –, cui segue il resoconto del viaggio in Vietnam fatto dall’autrice nel 1968, nel pieno di una guerra spietata: ritratti feroci dell’identità statunitense, in testi che, come gli altri di questa raccolta, sono ancora capaci di parlare con accenti innovativi al nostro prese
Nota biografica-Susan Sontag (1933-2004), tra gli intellettuali, scrittori e critici statunitensi più influenti della seconda metà del ’900, nottetempo ha pubblicato i primi due volumi dei diari, Rinata (2018, 2024) e La coscienza imbrigliata al corpo (2019), il romanzo L’amante del vulcano (2020) e i saggi Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore (2020), Davanti al dolore degli altri (2021), Contro l’interpretazione (2022) e Sotto il segno di Saturno (2023), tutti tradotti da Paolo Dilonardo.
Alcune pagine in anteprima-Susan Sontag –Stili di volontà radicale
L’estetica del silenzio
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Ogni epoca deve reinventarsi un progetto di “spiritualità”. (Spiritualità = propositi, terminologie, regole di comportamen- to, che mirano alla risoluzione delle dolorose contraddizioni strutturali insite nella condizione umana, al perfezionamento della coscienza, e alla trascendenza).
Nell’età moderna una delle metafore più efficaci per de- signare il progetto spirituale è quella dell’“arte”. Una volta raggruppate sotto questa denominazione generica (una mossa relativamente recente), le attività di pittori, musicisti, poeti o danzatori si sono rivelate un ambito particolarmente duttile in cui mettere in scena i drammi formali che assillano la coscien- za, poiché ogni singola opera d’arte fornisce un paradigma più o meno ingegnoso attraverso cui gestire o appianare quelle contraddizioni. Ma, com’è ovvio, tale ambito deve essere con- tinuamente rinnovato. Qualunque obiettivo l’arte si proponga, infatti, finisce per dimostrarsi restrittivo, se paragonato agli obiettivi più ampi perseguiti dalla coscienza. L’arte, che è di per sé una forma di mistificazione, subisce una serie di attac- chi demistificatori; i vecchi intenti artistici vengono contestati e ostentatamente rimpiazzati; le mappe della coscienza ormai obsolete sono ridisegnate. Ma ciò che conferisce energia a tutte queste crisi – l’energia che, per così dire, le accomuna – è pro- prio la convergenza di un insieme di attività piuttosto disparate
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in una singola classificazione. Con la nascita del concetto di “arte” ha inizio la stagione dell’arte moderna. Da quel momen- to in poi, ogni attività sussunta in quel concetto diventa un’at- tività profondamente problematica, di cui è possibile mettere in discussione i procedimenti e, in ultima analisi, lo stesso diritto di esistere.
Dalla promozione delle arti allo statuto di “arte” deriva il mito cardine dell’arte, quello dell’assolutezza dell’attività dell’artista. Nella sua prima, e più irriflessiva, versione, questo mito considerava l’arte un’espressione della coscienza umana, di una coscienza che cercava di conoscere se stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito risulta- va piuttosto facile: alcune espressioni erano più complete, più edificanti, più informative o più ricche di altre). La versione più tarda del mito postula un rapporto più complesso, e più tragico, tra arte e coscienza. Negando che l’arte sia pura e sem- plice espressione, il mito più recente la associa al bisogno o alla capacità della mente di estraniarsi da se stessa. L’arte non è più intesa come una coscienza che si esprime e, di conseguenza, afferma implicitamente se stessa. Non è la coscienza in sé e per sé, quanto, piuttosto, il suo antidoto – sviluppato dalla coscien- za stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito si è rivelato molto più difficile).
Il mito più recente, che deriva da una concezione post-psi- cologica della coscienza, trasferisce all’interno dell’attività ar- tistica molti dei paradossi connessi al raggiungimento di una condizione assoluta dell’essere, descritta dai grandi mistici re- ligiosi. Così come l’attività del mistico deve sfociare in una via negativa, in una teologia dell’assenza di Dio, in un’aspirazione a immergersi nella nube della non conoscenza che trascende la conoscenza e a coltivare un silenzio che trascende le parole, l’arte deve tendere all’anti-arte, all’eliminazione del “soggetto”
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(dell’“oggetto”, dell’“immagine”), alla sostituzione dell’inten- zione con la casualità, e al perseguimento del silenzio.
Nella prima, lineare, versione del rapporto tra arte e coscien- za si percepiva un conflitto tra l’integrità “spirituale” degli im- pulsi creativi e la fuorviante “materialità” della vita ordinaria, che dissemina un gran numero di ostacoli sul cammino verso un’autentica sublimazione. La versione più recente, in cui l’arte è parte di un’interazione dialettica con la coscienza, instaura, invece, un conflitto più profondo e frustrante. Lo “spirito” che cerca di incarnarsi nell’arte si scontra con la materialità che la caratterizza. L’arte è smascherata come un atto gratuito, e la concretezza stessa degli strumenti dell’artista (così come, so- prattutto nel caso del linguaggio, la loro storicità) si rivela una trappola. Esercitata in un mondo saturo di percezioni di secon- da mano, e particolarmente disorientata dalla natura infida del- le parole, l’attività dell’artista è tormentata dalla mediazione. L’arte diventa nemica dell’artista, perché gli nega il compimen- to – il trascendimento – a cui egli aspira.
Perciò, l’arte finisce per essere considerata qualcosa da esau- torare. Un nuovo elemento entra a far parte di ogni opera in- dividuale, divenendone una componente costitutiva: l’auspicio (tacito o dichiarato) della propria soppressione – e, in ultima analisi, della soppressione dell’arte in quanto tale.
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La scena si apre su una stanza vuota.
Rimbaud è andato in Abissinia per fare fortuna con il traffico
degli schiavi. Dopo esser stato per un certo periodo maestro elementare in un villaggio, Wittgenstein ha scelto di dedicarsi all’umile mestiere di portantino in un ospedale. Duchamp si è
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dato agli scacchi. Commentando queste esemplari rinunce alla propria vocazione, ognuno di loro ha dichiarato che considera- va i traguardi raggiunti nel campo della poesia, della filosofia o dell’arte come irrilevanti, privi di importanza.
Ma la scelta del silenzio definitivo non vanifica la loro ope- ra. Al contrario, conferisce retroattivamente una forza e un’au- torevolezza aggiuntive a ciò che è stato interrotto – il ripudio dell’opera diventa una nuova garanzia di validità, un attestato di serietà incontestabile. Questa serietà consiste nel non con- siderare l’arte (o la filosofia praticata in quanto forma d’arte: Wittgenstein) come qualcosa la cui importanza duri in eterno, come un “fine” o un veicolo perenne per l’ambizione spiritua- le. Il principio realmente serio è quello che considera l’arte un “mezzo” per raggiungere un fine che forse è possibile conse- guire soltanto abbandonando l’arte stessa; secondo un giudizio più insofferente, l’arte è una falsa strada o (per dirla con l’artista dadaista Jacques Vaché) una stupidaggine.
Benché non sia più una confessione, l’arte è più che mai una liberazione, un esercizio ascetico. Per suo tramite l’artista si purifica – da se stesso e, alla fine, dalla propria arte. L’artista (se non l’arte stessa) si impegna ancora a proseguire il pro- prio cammino verso il “bene”. Ma se in passato quel bene si identificava per lui con la padronanza e la piena realizzazione della propria arte, oggi il bene supremo consiste nel giunge- re al punto in cui l’obiettivo dell’eccellenza gli appare etica- mente ed emotivamente privo di senso, ed è più gratificato dal serbare il silenzio che dal trovare la propria voce nell’arte. Inteso come punto di arrivo, il silenzio propone uno spirito di definitività antitetico a quello che pervade il modo tradizio- nale (descritto a meraviglia da Valéry e Rilke) in cui gli artisti più autoconsapevoli hanno seriamente utilizzato il silenzio: come spazio di meditazione, di preparazione alla maturazione
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spirituale, di un’ordalia che si conclude con la conquista del diritto a parlare.
Nella misura in cui è serio, l’artista prova la continua tenta- zione di recidere il dialogo che intrattiene con il pubblico. Il silenzio è la conseguenza estrema di quella riluttanza a comuni- care, di quell’ambivalenza rispetto alla creazione di un contatto con il pubblico che è una caratteristica precipua dell’arte mo- derna, instancabilmente votata al “nuovo” e/o all’“esoterico”. È il supremo gesto ultraterreno dell’artista: attraverso il silen- zio, egli si libera dal legame servile con il mondo, che assume di volta in volta le vesti di mecenate, cliente, consumatore, antago- nista, giudice o travisatore della sua opera.
Eppure, non si può fare a meno di ravvisare in questa ri- nuncia alla “società” un gesto profondamente sociale. L’artista coglie i segnali della sua futura liberazione dal bisogno di eser- citare la propria vocazione osservando i colleghi e misurando- si con loro. Può assumere una decisione esemplare di questo tipo solo dopo aver dimostrato, e autorevolmente messo in pratica, la sua genialità. Una volta che, secondo criteri di giu- dizio di cui egli stesso riconosce la validità, ha superato i pro- pri pari, al suo orgoglio resta una sola direzione da imboccare. Essere preda di un anelito al silenzio, infatti, significa rivelarsi, in un senso ancora più estremo, superiore a chiunque altro. Suggerisce che quell’artista ha avuto l’ingegno di porre più domande degli altri, e che ha nervi più saldi e parametri di eccellenza più rigorosi. (Che l’artista possa perseverare nell’in- terrogare la sua arte fino al proprio esaurimento, o a quello dell’arte stessa, non ha certo bisogno di dimostrazioni. Come ha scritto René Char, “nessun uccello è in vena di cantare in un cespuglio di domande”).
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Di rado l’artista moderno spinge la scelta del silenzio fino a un punto di semplificazione talmente estremo da indurlo al muti- smo. Più consueto è che continui a parlare, ma in modo tale che il pubblico non sia in grado di udirlo. L’arte più valida della no- stra epoca è stata recepita dagli spettatori come una mossa verso il silenzio (o l’inintelligibilità, l’invisibilità, l’inudibilità), come uno smantellamento della competenza dell’artista, della respon- sabilità con cui esercita la sua vocazione – e, di conseguenza, come un’aggressione nei loro confronti.
L’inveterata tendenza dell’arte moderna a scontentare, provoca- re o frustrare il pubblico potrebbe essere considerata una condivi- sione vicaria e limitata di quell’ideale del silenzio che nell’estetica contemporanea è assurto a modello fondamentale di “serietà”.
Ma si tratta di una forma di condivisione contraddittoria. Non solo perché l’artista continua a creare opere d’arte, ma an- che perché il distacco dell’opera dal pubblico non è mai dura- turo. Con il passare del tempo e la comparsa di opere sempre più innovative e complesse, le trasgressioni degli artisti diventa- no accattivanti e, in ultimo, legittime. Goethe accusò Kleist di scrivere drammi per un “teatro invisibile”. Ma anche il teatro invisibile finisce per diventare visibile. Il brutto, il dissonante e l’insensato divengono “belli”. La storia dell’arte è un susseguir- si di acclamate trasgressioni.
L’intento caratteristico dell’arte moderna, diventare inac- cettabile per il suo pubblico, dichiara, per converso, l’inaccet- tabilità agli occhi dell’artista della presenza stessa del pubblico – un pubblico inteso, nell’accezione moderna del termine, come un’aggregazione di spettatori voyeuristici. Almeno fin da quando Nietzsche ha affermato, nella Nascita della tragedia, che il pub- blico di spettatori così come lo intendiamo noi – una presenza
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ignorata dagli attori – era sconosciuto ai Greci, gran parte dell’ar- te contemporanea sembra animata dal desiderio di liberarsi del pubblico, un’impresa che spesso si presenta come un tentativo di eliminare del tutto l’“arte” stessa. (A favore della vita?)
Per l’artista votato all’idea che il potere dell’arte sia quello di negare, l’arma decisiva nell’incoerente guerra che combat- te contro il pubblico sta nella tensione sempre più crescente verso il silenzio. Il divario sensoriale e concettuale tra artista e spettatori, lo spazio del dialogo mancato o troncato, può anche costituire la base di un’affermazione ascetica. Beckett sogna “un’arte senza risentimenti per la propria insuperabile indigenza, e troppo orgogliosa per la farsa del dare e dell’ave- re”. Ma non c’è modo di abolire un minimo di interazione, un minimo scambio di doni – così come non esiste un ascetismo provetto e rigoroso che, quali che siano le sue intenzioni, non produca un incremento (anziché una perdita) della capacità di provare piacere.
E nessuna delle aggressioni compiute, intenzionalmente o inavvertitamente, dagli artisti moderni è riuscita ad abolire il pubblico o a trasformarlo in qualcos’altro – per esempio, in una comunità impegnata in un’attività condivisa. Non è possibile. Finché sarà concepita e apprezzata come un’attività “assoluta”, l’arte resterà separata ed elitaria. E le élite presuppongono le masse. Nella misura in cui si definisce essenzialmente in base ai suoi scopi “sacerdotali”, l’arte migliore presuppone e ratifica l’esistenza di voyeur profani, relativamente passivi e mai iniziati appieno, regolarmente convocati perché guardino, ascoltino o leggano – e subito dopo congedati.
Il massimo che l’artista possa fare è modificare i termini della relazione che si instaura tra lui e il pubblico. Analizzare il concetto di silenzio nell’arte vuol dire analizzare le alternative che si pon- gono all’interno di questa situazione sostanzialmente inalterabile.
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Indice
Parte i
L’estetica del silenzio 13 L’immaginazione pornografica 51 Pensare contro se stessi. Riflessioni su Cioran 97
Parte ii
Teatro e cinema 123 Persona di Bergman 151 Godard 179
Parte iii
Cosa sta succedendo in America? 231 Viaggio a Hanoi 245
Ringraziamenti 327
Appendice bibliografica
di Paolo Dilonardo 329
Edizioni Nottetempo –
Chi siamo
nottetempo, fondata nel 2002 da Ginevra Bompiani, Roberta Einaudi e Andrea Gessner, è una casa editrice indipendente che pubblica saggi, opere di narrativa e poesia, e in tutti gli ambiti orienta la propria ricerca verso gli spazi critici proponendosi di dare voce a testimoni e interpreti che della nostra società esplorino la complessità e le contraddizioni.
Fin dall’inizio, la casa editrice ha intrattenuto un dialogo costante con la scena editoriale internazionale, sia nella scoperta di autori da tradurre sia attraverso la promozione dei nostri autori in altri paesi, perché solo in uno scambio culturale continuo possono verificarsi le condizioni per esercitare la nostra attività.
Le collane:
La collana di narrativa accoglie quindi autori italiani e stranieri, esordi e conferme, testi classici e nuove proposte.
Alla saggistica sono dedicate le cronache, libri documentari ma molto narrativi; i ritratti, biografie o diari di artisti e pensatori colti nella loro intimità creativa; le figure, saggi limpidi intensi e contemporanei sulle figure del pensiero e dell’arte; animalìa, collana di monografie agili, divulgative dedicate al mondo animale; e la più giovane collana terra che ha come campo d’indagine le possibili relazioni alternative tra viventi per un nuovo pensiero ecologico che superi la visione antropocentrica. Infine Semi, una collana di ebook gratuiti che contengono idee e proposte di filosofi e pensatori interpreti del presente; piccoli libri che mettiamo a disposizione della riflessione attorno a quello che sta accadendo e come possiamo immaginare il mondo a venire.
Le collane di piccolo formato da portare con sé e leggere agilmente nei momenti di attesa sono gli ormai classici sassi e i gransassi, in cui trovano spazio testi veloci e incisivi di saggistica, pamphlet e pensieri.
Alla poesia è dedicata una collana diretta da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio.
“Canto è [R]Esistenza”, il nuovo libro di Gerardo Magliacano
Il titolo dell’opera di Gerardo Magliacano è ispirato a un verso de I sonetti a Orfeo di R. M. Rilke, «Gesang ist Dasein», canto è esistenza, canto è “esser-ci”, l’essere-noi-qui-ora, una corale polifonica, senza voci soliste o fuori dal coro, intonate e in accordo, a cantare la nostra R-Esistenza, d’individui e di popoli. Inoltre, prende spunto da un passo de La Nascita della Tragedia di F. Nietzsche: “Cantando e danzando, l’uomo si mostra come membro d’una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando [e cantando].” Il titolo, pertanto, traduce l’intento di ritrarre figure salvifiche, una sorta di ‘oltre-umanità’, e non di superuomini, disciplinata e incorruttibile che possa rappresentare l’alternativa al totalitarismo massificante d’ ‘0 Sistema.
Attraverso le voci di dissenso della nostra epoca, Magliacano compone, canto dopo canto, il manifesto di una nuova Resistenza, che si è ‘rifatta carne’, carne del mondo, cui i neopartigiani, con le loro gesta, hanno dato gambe e fiato; hanno dato un volto e un’anima. Pagina dopo pagina, si delinea l’immagine di una Resistenza che è rivoluzione costante; è lotta indefessa, senza tregua e senza indugio; è sopravvivenza; è il sacrificio di un’intera esistenza, consacrata alla libertà, alla giustizia e alla verità. È memoria e coscienza.
L’opera passa in rassegna una schiera di vite, di (r)esistenze esemplari: dai “Vivi” – canti dedicati ad attivisti combattenti, che ancora lottano per difendere una terra, un’ideologia, un’etnia, un principio – ai “Morti” – biografie in versi di eroi e martiri della contemporaneità, tra i meno celebrati –, passando per le grandi incognite della vita – idee per cui lottare, per cui morire –, fino ai partigiani in quarantena. Il testo, un insieme d’instant book, si apre con l’eroica provocazione di “Ammazzateci tutti” e si chiude con un congedo sussurrato ad libitum. Inoltre, l’autore, dalle pagine del libro, scaglia le sue filippiche contro mafiosi e imprenditori collusi che hanno ridotto il Bel Paese in ‘poderi’, in appezzamenti di terre dei fuochi; accusa, denuncia i mali pandemici del nostro tempo, mentre ha già definito figure salvifiche, ha già testato l’antidoto, l’antivirale.
Ciro Corona, simbolo della lotta alla camorra di Scampia, consiglia, nella prefazione: “Lasciatevi accompagnare dallo scrittore Magliacano […] in un percorso catartico, forse unico e senza precedenti, fino a scoprire che questi ‘canti di Resistenza’ sono, nella loro dirompente portata rivoluzionaria […] «un libro per spiriti liberi»”. Canto è [R]Esistenza: il diritto di esistere, il dovere di resistere!
La maggior parte dei canti può essere definita una sorta di autobiografie in versi, una sorta di poema cavalleresco contemporaneo, che ha come protagonisti eroi, eroine e martiri, in cui il “vero storico”, la cronaca, si intreccia con il “vero poetico”, tipico tratto delle odi risorgimentali. L’idea di fondo è proprio quella di inaugurare un nuovo Risorgimento, partendo da alcune vite esemplari: dai Borsellino agli Impastato; da Falcone a Gratteri; dal Valore civile ai testimoni di Giustizia; dai giornalisti ammazzati a quelli sotto scorta; dalla favela della Franco alla Cecenia della Politkovskaja; dalla fotogenia curda al murale palestinese; dalle Lettere luterane di Pasolini a La rivolta nera della Davis; dai braccianti di Dolci ai tupamaro di Mujica; dalla Terra degli uomini integri al Villaggio Globale, da Yako a Riace; dalle praterie di Toro Seduto al deserto di Sawadogo; dall’empate dei seringueiri alle tuerredda dei pastori sardi; dalle Roverelle valsusine agli Ulivi salentini; dai beni confiscati ai comitati cittadini; dalle terre dei fuochi all’Amazzonia; dai campi profughi alle Shoah; Da Dachau a Sabra e Shatila; da Nanchino a Soweto; dai Briganti ai Partigiani; dalle pandemie all’antivirale. Un’istantanea, una foto di gruppo per ritrarre l’Inferno in cui viviamo, i demoni che lo governano, e i santi che ancora r-esistono, i martiri di una nuova Resistenza, affinché non siano lasciati soli nella lotta comune.
Gerardo Magliacano è docente di Storia e Letteratura, ed Esteta. Laureato presso l’Università di Salerno in Lettere e Filosofia, ha insegnato e insegna discipline umanistiche. Nato e formatosi a Salerno, classe 1974, ha lavorato per più di un decennio in Lombardia, dove ha insegnato e pubblicato le sue prime opere. A partire dal 2014 ha deciso di trasferirsi in Campania per “faticare” per la sua Terra Felix, dove tuttora insegna, con la promessa di pubblicare solo con editori meridionali e di devolvere parte del ricavato ad associazioni che promuovono il territorio.
In veste di scrittore e saggista, Magliacano ha pubblicato: due saggi di filosofia della canzone – Vasco. L’ultimo poeta male-detto, (Milano 2006), Generazione di Suonati. La Cultura gira in-formato mp3 (Milano 2008) – e un’inchiesta romanzata d’impianto storico dal titolo Santa Escort. La ‘Matria’ degli italiani, (Milano 2011). Nel 2010 ha curato, in collaborazione con AMREF, una raccolta di scritti adolescenziali dal titolo Il mondo salvato dall’Adolesce(ME)nza (Milano 2010): con il ricavato è stato costruito un pozzo in Tanzania. Ultimi lavori: “TERRO(M)NIA. Ritorno alla (mia) terra” (Napoli 2014), il ricavato è stato destinato al progetto “Melo aDotto”, che si propone la riforestazione di tutte quelle terre mortificate dalle mafie. Nel 2016 esce “Una Nea-Polis sospesa”, che gli vale il Premio “Gelsomina Verde” per essersi contraddistinto “con impegno e passione ed esempio di vita, nella lotta alle mafie e nell’affermazione delle verità storiche e del sentimento di giustizia”. Del 2018 è “SERVI della GLEBA”(Napoli 2018), prefazione di Ciro Corona e postfazione di Don Aniello Manganiello.
Fonte-sito web IlSaltodellaQuaglia.com-ANGELO BARRACO Giornalista
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