Descrizione del libro di Sandor Marai–Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: “una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione”. Tutto converge verso un “duello senza spade” ma ben più crudele. Tra loro, nell’ombra il fantasma di una donna.
Breve biografia di Sándor Márai, il patriota malinconico .
Articolo di Gian Paolo GRATTAROLA
Nel tracciare il profilo biografico di quello è stato indubbiamente uno dei più grandi scrittori del Novecento, ci si trova purtroppo a chiedersi chi era mai Sándor Márai. Perché è vero che, meritoriamente, l’editore Adelphi ha pubblicato in Italia tutte le sue principali opere; ma è altrettanto vero che egli rappresenta l’incarnazione di una concezione della letteratura troppo faticosa e impegnativa per essere digerita senza difficoltà dal lettore di oggi.
Nato nel 1900 a Kassa (oggi Košice), un estremo lembo dell’Impero Austroungarico ormai avviato al tramonto, da una famiglia ricca di passato e priva di avvenire, aveva nel sangue le radici di un’Europa che stava morendo per troppa nobiltà e troppo sapere, come racconterà tra il 1934 e il 1935 nel suo primo romanzo memoriale Le confessioni di un borghese. E ungherese lo resterà per sempre, sia quando si recherà in Germania allo scopo di frequentare la scuola universitaria di giornalismo, sia quando insieme con la moglie Lola sposata nel 1928 si trasferirà a Parigi e Londra in Italia e in Medio oriente come inviato del “Frankfurter Zeitung”. La percezione dolorosa che i cardini morali, che avevano sostenuto la civiltà aristocratica durante la stagione mitteleuropea, stanno per essere spazzati via dall’ansia di affermazione di una società borghese cinica e materialista innervano già le prime opere scritte in patria quali L’isola (1934), Divorzio a Buda (1936), La recita di Bolzano e Sindbad torna a casa (entrambi 1940), La donna giusta (1941) e La sorella (1946).
Quando, dopo essere sopravvissuto agli orrori della guerra e dell’occupazione nazista di cui fu fiero oppositore, assiste alle prime avvisaglie della non meno feroce dittatura sovietica, decide nel 1948 di lasciare l’Ungheria e inizia a girovagare tra Svizzera, Stati Uniti e Italia. Esule di un mondo in cui non riesce tuttavia a riconoscersi, la nuova forma di inquietudine di cui è prigioniero diviene il tratto essenziale e inconfondibile della psicologia dei protagonisti dei suoi più romanzi più importanti. Prima a San Diego, dove prende residenza, e più tardi a Salerno, dove si trasferisce quando il figlio János entra in rotta di collisione con i genitori assumendo la decisione di americanizzare il proprio nome rifiutando la sua discendenza ungherese, Màrai continua a scrivere nella lingua madre. In questo lungo periodo di esilio vedono la luce, tra le molte altre opere i capolavori che usciranno postume e faranno di lui uno dei maggiori romanzieri del secolo scorso: da Liberazione a Le braci, dal secondo romanzo memoriale Terra, Terra!… a L’eredità di Eszter, da Il sangue di San Gennaro a L’ultimo dono.
Romanzi che egli scrive non per comprendere la realtà, ma per fuggire da un presente che detesta e che non ci chiedono di comprendere l’autore, ma di seguirlo attraverso i suoi verbosi e interminabili monologhi, lungo le sue sfavillanti digressioni in cui si sofferma ad analizzare con grande finezza psicologica i personaggi in tutte le loro sfumature, a scrutare ogni increspatura dell’animo umano, a registrare ogni loro parola e ogni loro sospiro. Leggerlo e addirittura non cercar neanche di capirlo. Perché il chiedere risposte è la motivazione meno opportuna per andare a bussare alla porta della sua arte: si correrebbe inutilmente il rischio di non farsi aprire. E allora meglio ricorrere alle cinque dita dei sensi, affidandosi all’odore che si respira nelle abitazioni e per le strade delle sue storie, degustando i sapori delle sue trame, lasciandosi inebriare dalla musica e dall’eleganza di una scrittura sontuosa. Quando al duro fardello sopportato a causa delle sorti avverse della propria patria lontana si aggiunge il dolore della perdita della moglie e del figlio, Sándor Márai decide nel febbraio del 1989 di togliersi la vita. Mancano solo pochi mesi all’agognato crollo dell’impero sovietico e al definitivo affrancamento del popolo ungherese. Ma egli purtroppo non vi potrà assistere.
Duccio Balestracci- “La battaglia di Montaperti” –
Editori Laterza Bari
Descrizione del libro di Duccio Balestracci-Due città rivali, Siena e Firenze. Due fazioni in lotta, guelfi e ghibellini. Due poteri che si scontrano, Impero e Chiesa. Tutti questi conflitti convergono il 4 settembre 1260 a Montaperti per dare vita a una battaglia che sembrò segnare una svolta nella storia d’Italia. Lo scontro fu durissimo. La sera sul campo rimasero così tanti cadaveri di uomini e cavalli che il sangue, come scrive Dante, «fece l’Arbia colorata in rosso». Verso Siena si incamminavano le migliaia di prigionieri che erano tutto ciò che restava dell’imponente esercito messo insieme da Firenze e dalle sue alleate, sconfitto dai ghibellini e dai cavalieri di Manfredi.
Duccio Balestracci, professore ordinario di Storia Medievale presso il Dipartimento di Scienze storiche e dei beni culturali di Siena, è autore di numerosi saggi divulgativi di successo. Nel 2016 è stato uno dei protagonisti degli INCONTRI CON GLI AUTORI del Festival del Medioevo.
La battaglia di Montaperti fu combattuta a Montaperti, pochi chilometri a sud-est di Siena, il 4 settembre 1260, tra le truppe ghibelline capeggiate da Siena e quelle guelfe capeggiate da Firenze.
La vittoria dei Senesi e dei loro alleati segnò il dominio della fazione ghibellina sulla Toscana, con ripercussioni anche sui precari equilibri del resto d’Italia e d’Europa, segnando di fatto il ruolo predominante della Repubblica di Siena sullo scenario politico ed economico dell’epoca.
Antefatti
Dopo l’anno 1000, le città di Firenze e di Siena erano cresciute grazie alle attività mercantili e commerciali; i banchieri e i mercanti delle due città attraversavano l’Europa arricchendosi. Firenze era facilitata dalla via d’acqua dell’Arno, Siena dalla sua posizione lungo la via Francigena, percorsa dai numerosi pellegrini diretti a Roma o dai traffici che da questa si dirigevano verso il cuore del Sacro Romano Impero. Era lo sviluppo dell’era mercantile. Ovviamente, gli interessi delle due città erano da tempo in conflitto, sia per questioni economiche che di pura egemonia sul territorio. Nella prima metà del XIII secolo, i confini fiorentini si spingevano a sud fino a pochi chilometri da Siena. La rivalità economica si traduceva in una rivalità politica. A Firenze avevano la supremazia i guelfi, che sostenevano il primato papale, mentre a Siena il partito predominante era quello ghibellino, alleato dell’Imperatore, che in quel periodo era capeggiato dal re di SiciliaManfredi di Svevia, figlio naturale di Federico II.
Nel 1251 i senesi si erano legati ai ghibellini di Firenze in un patto di reciproca assistenza. Nella guerra del 1255, Siena aveva avuto la peggio ed era stata spinta a sottoscrivere un impegno a non ospitare alcun esiliato dalle città di Firenze, Montepulciano e Montalcino. Il casus belli fu l’accoglienza data nel 1258 da Siena ai ghibellini di Firenze, esiliati dopo una tentata rivolta contro i guelfi al potere. A questo esilio era seguito l’assassinio di Tesauro Beccaria, abate di Vallombrosa, accusato di complottare con i ghibellini allo scopo di farli rientrare a Firenze.
All’inizio della nuova guerra, il teatro delle operazioni fu soprattutto la Maremma, dove i guelfi riuscirono a fomentare rivolte dei comuni di Grosseto, Montiano, Montemassi[1]. Nel 1259 Siena ottenne l’appoggio di re Manfredi, che fornì alcuni squadroni di cavalieri tedeschi comandati dal vicario regio, il conte Giordano d’Agliano, suo stesso cugino; l’offerta di cento cavalieri, inizialmente ritenuta non adeguata dagli ambasciatori senesi, fu poi accettata su consiglio di Farinata degli Uberti. L’idea era che, una volta che le bandiere di re Manfredi fossero state coinvolte nello scontro, questi sarebbe stato costretto a inviare ulteriori rinforzi.
Nei primi mesi del 1260 le truppe tedesche piegarono la resistenza dei comuni maremmani. Questo suscitò la reazione della lega guelfa, guidata da Firenze, che, nonostante i richiami alla prudenza di alcuni membri importanti come Cece Gherardini (successivamente uno dei dodici capitani dell’esercito a Montaperti), fece muovere un esercito di circa trentacinquemila uomini a difesa dei comuni riconquistati dai ghibellini senesi. L’esercito guelfo si accampò alle porte di Siena, nei pressi di Santa Petronilla, nella zona nord vicina a Porta Camollia, attuando un assedio il 18 maggio. I cavalieri tedeschi e quelli senesi attaccarono l’accampamento nello stesso giorno e le operazioni si protrassero per i successivi due giorni. I cronisti delle due parti descrissero in modo diametralmente opposto l’esito dei combattimenti, a seconda dello schieramento per cui parteggiavano. Il 20 maggio i guelfi interruppero l’assedio e, mentre una piccola parte proseguì il cammino verso la Maremma, il restante dell’esercito fece ritorno a Firenze. Durante le operazioni del 18 maggio, alcuni cavalieri tedeschi furono feriti, ma l’attacco ebbe l’effetto di far togliere il campo ai Fiorentini. Questo spinse re Manfredi ad inviare in luglio ulteriori e più consistenti aiuti a Siena, nel numero di ottocento cavalieri. Altri aiuti arrivarono da Pisa e dagli altri ghibellini toscani. Questo diede ulteriore respiro ai senesi, che riconquistarono Montepulciano e Montalcino, stazione strategica a sud, sulla via Francigena.
Descrizione del libro di Takase Junko -È possibile che il cibo, quando è condiviso, abbia un sapore migliore? Davvero mangiare insieme rappresenta un momento di felicità?
Nitani, impiegato ligio e ambizioso in una grande azienda dell’area metropolitana di Tokyo, non ci crede proprio, anzi: l’idea che il suo tempo possa essere in qualche modo condizionato da pranzo e cena gli è insopportabile.
E se bastasse una pillola per nutrirsi, lui sarebbe l’uomo più felice sulla terra.
Tra una pausa a base di noodles istantanei e un corso di aggiornamento, Nitani comincia a sviluppare un’antipatia mista ad attrazione per la graziosa Ashikawa, la collega colpevole ai suoi occhi di fare solo il minimo indispensabile e, allo stesso tempo, in grado di impersonare con la sua fragilità che invoca protezione la figura della moglie perfetta, così come vuole l’educazione con cui è cresciuto.
Oltretutto, per farsi perdonare le frequenti assenze in ufficio, Ashikawa prende l’abitudine di preparare per i colleghi deliziosi ed elaborati dolci fatti in casa.
E in una società che impone ritmi professionali impietosi, la sua diventa una scelta rivoluzionaria, in cui la rivendicazione della cura di sé e degli altri e la ricerca dell’appagamento passano anche attraverso l’amore per il cibo.
Le delizie della signorina Ashikawa mette in scena le contraddizioni di un paese diviso tra regole ed eccessi, tradizionalismo e ribellione, dove è quasi impossibile trovare un equilibrio tra la carriera e il privato; una scissione che si riflette anche nel modo in cui ognuno sceglie di fare la spesa.
Un romanzo gustoso, che intreccia il fascino pop della cucina del Sol Levante a un’ironica satira contemporanea, finendo per rivelare una ricetta per una vita più serena.
Autore
Takase Junko (1988)è stata acclamata come una delle autrici più interessanti della letteratura giapponese contemporanea. Con questo romanzo ha ottenuto il premio Akutagawa, il più importante riconoscimento letterario del suo paese.
Premessa di Gennaro Carastiglia: sono tra coloro che ritengono che il Nobel per la letteratura ad Han Kang si assolutamente meritato. Inutile proseguire la lettura se si è già convinti del contrario.
Probabilmente per me questo è il romanzo più bello tra quelli fin qui tradotti in italiano (o inglese). Molto breve ma denso, esplora temi profondi come la perdita, la solitudine, e la ricerca dell’identità. È del 2011 anche se qui da noi è arrivato appena l’anno scorso. Un viaggio introspettivo in cui due persone, apparentemente molto diverse, si incontrano e si comprendono attraverso la condivisione di un dolore nascosto e silenzioso.
Lei, Hanja, dopo aver vissuto un periodo di intensa sofferenza, ha trovato il silenzio come rifugio: non parlare, più che una scelta volontaria, è una reazione istintiva e fisiologica alla sua sofferenza. Le parole per lei si sono trasformate in strumenti di dolore, tanto che la voce stessa le sembra ormai qualcosa di estraneo. Dopo in matrimonio fallito e la perdita di custodia del figlio, persa anche la madre le sembra di aver ormai perso qualsiasi contatto con la propria identità e il mondo che la circonda. Come via di fuga da questo dolore, inizia a seguire lezioni di greco antico, una lingua che per lei diventa una sorta di “nuovo inizio”, poiché le consente di esprimere e riscoprire sé stessa senza le ferite che l’uso della lingua madre le provoca.
È così che la sua vita incrocia il suo insegnante di greco, un uomo non vedente che vive anche lui un’esistenza profondamente segnata dalla perdita. Per lui la cecità ha rappresentato un graduale distacco dal mondo, ma nonostante le difficoltà quotidiane ha imparato a navigare attraverso questo vuoto grazie all’amore per le parole e per la letteratura. Egli usa il greco come strumento per mantenere un legame con il mondo esterno e per dare un senso al proprio passato.
Attraverso questo incontro tra la donna e il suo insegnante, Han Kang esplora l’intimità della comunicazione e del linguaggio come mezzo di guarigione. Entrambi i protagonisti sono segnati da ferite invisibili e trovano nella lingua greca un terreno neutrale in cui potersi esprimere senza il peso delle loro storie personali. Il greco antico diventa simbolo di un viaggio interiore, che permette loro di riconoscere il proprio dolore e, in qualche modo, di riappropriarsi delle proprie vite.
Han Kang utilizza una prosa poetica e riflessiva per approfondire i sentimenti complessi dei protagonisti. La narrazione alterna i punti di vista della donna e dell’insegnante, e attraverso le loro prospettive frammentate il lettore è invitato a riflettere sul significato dell’empatia, della perdita, e della redenzione. I dialoghi sono ridotti al minimo, quasi come se l’autrice volesse rispettare il silenzio che i due protagonisti sembrano cercare.
In sostanza, un romanzo che parla di sopravvivenza emotiva. Attraverso la storia dei protagonisti, Han Kang esplora la possibilità di trovare una via d’uscita dal dolore e dalla perdita senza negare le proprie ferite. La lingua greca diventa metafora del processo di auto-ricostruzione, una lingua che, con le sue radici antiche, permette ai personaggi di esprimere sentimenti che sembravano impossibili da comunicare.
Un delicatissimo racconto di Han Kang, che con la sua scrittura minimalista invita alla riflessione sulla complessità dell’animo umano, sul ruolo del linguaggio, e sulla possibilità di una rinascita anche nei momenti più bui. Leggetelo solo se questi temi vi appassionano. Diversamente state andando incontro a una delusione.
Figlia dello scrittore Han Seung-won[2], è nata a Gwangju il 27 novembre 1970. Dopo gli studi all’Università Yonsei di Seul (letteratura coreana)[3], esordisce pubblicando una serie di cinque poesie nella rivista coreana Letteratura e società[4] nel 1993.[5] L’anno successivo esce il suo primo romanzo[6] al quale ne seguiranno altri cinque. Dal 2013 insegna scrittura creativa al Seoul Institute of the Arts[7].
Il 25 maggio 2019 ha consegnato un suo manoscritto inedito intitolato Dear Son, My Beloved alla Biblioteca del futuro, un progetto artistico culturale ideato da Katie Paterson. Così come le altre opere di questa biblioteca anche il libro di Han verrà pubblicato e reso disponibile solo nel 2114, cento anni dopo l’avvio dell’iniziativa.[10]
Il 10 ottobre 2024 viene insignita del Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: “per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana”[11][12], divenendo il primo rappresentante del suo Paese a vincere un Nobel in questa categoria[13].
사랑과, 사랑을 둘러싼 것들 (letteralmente L’amore e le cose che circondano l’amore), 2003.
가만가만 부르는 노래 (letteralmente Una canzone cantata sottovoce), Bichae, 2007. ISBN 9788992036276 Il libro include un CD musicale di 10 brani in veste di autrice e cantante di canzoni.[15]
Jack Kerouac,Scrittore e poeta, nato giovedì 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts (USA – Stati Uniti d’America), morto martedì 21 ottobre 1969 a St. Petersburg, Florida (USA – Stati Uniti d’America)
Jack Kerouac, E’ uno dei padri della beat generation, l’autore di Sulla strada (1957), lo scrittore che seppe intercettare in anticipo lo spirito di un Paese che stava cambiando, l’interprete di un desiderio di libertà e di profondità spirituale che erano nell’aria, prima degli hippy, di una ribellione contro la civiltà occidentale. I grandi spazi dell’America da attraversare coincidevano con quelli della coscienza. Ha ispirato molti, come Bob Dylan, come i movimenti pacifisti, con le sue idee e con il suo stile immediato, la prosa spontanea, rapsodica e jazz; e continua a ricorrere ancora oggi, nella nostra cultura, ad essere evocato, attraverso quel suo concetto geniale di vivere “on the road”. Jack Kerouac è nato cento anni fa, il 12 marzo 1922, a Lowell (Massachusetts), ed è morto giovane, a 47 anni nel 1969, per una emorragia addominale causata dall’alcolismo.
Poesie di Jack Kerouac
DULUOZ
Nome tratto da fonti
di primo mattino
Nella sede di un giornale
Tanti Anni Fa a Lowell Mass
Mentre gli uccelli cacavano
Sul canale
E Sperma galleggiava
Tra i Muri di Mattone
Di un Albeggiar di Fumo
Che usciva da un Camino
di Chtistian Hill
Ah Sire, Duluoz,
Re dei miei Pensieri,
Salve a te!
(Caccia un’altra lattina di birra)
QUALUNQUE MOMENTO
Qualunque momento hai voglia
Di scrivere una cazzuta poesia
Apri ‘sto libro
& Strilla nient’ altro
Che Crema
Strilla
Non ti scomare
Scorri
Scortica
Scrosta i bordi di Scrono
AllitteRa le Rane
Bekkek! Bekkek!
Koax! Koax!
Carra Quax!
Carra qualquus
Kerouacainius!
PERSINO JOYCE
Persino lui, Joyce,
ha avuto l’amore
Persino i poeti ciechi.
IL POETA
Quante volte da quando
Ho visto il poeta
di Greenwich Village
Scorciare al lavoro nell’ alba grigia
Con la gavetta &
il taglio di capelli fuori moda
Occhi allo Hudson
Narici alla strada
All’inverno, al lavoro, alla carità,
Ai pasti, cibo di follia
Tante volte da quando
Ho visto il poeta
Che scriveva ritmi & rime
Incazzato tra Minetta’s
E Minetta Lane
Affrettarsi al Lavoro
Sessosico, sessitico, psico
analizzato?
Al lavoro nell’alba impoetica
Le mattine dopo essermi sbronzato
con Lucien & Allen
& gli Angeli Alleati
Nella Vasta Pesciaia
di Manhattan
O America!
O canti!
Poesie!
o Sax Alti! o Tenori!
Suonate!
(il Poeta è Morto).
TUONO
Il tuono fa un frastuono
di rumore come finestre
Chiuse in silenzio
istericamente
Perciò Papi è caduto dalle scale
del tempo
Malgrado l’acquasanta
E tutti i vs. beveroni
nell’
Eternità.
LA ROSA
«Ah, Rosa»ho gridato,
«Risplendi nella Fosforescente
Notte.»
L’INSETTO
E al piccolo insetto che io sono
ho detto
«Insetto, detto, vetta, tetta del tempo,
Prova, prendi, prendi, spremi, vola,
L’amore traversa i t.i zigomi
Sulla fosforescente trasparente
ala
Del Metamorfosato Insetto
Kafkiano divora formaggio»
L’ORRORE
Quindi ho visto l’orrore,
E ho gridato,
«Toglitimi di do sso».
L’errorrore mi ha messo osso
Per osso in un sacco di terra,
Poi mi ha arrostito in forno
D’infernocielo nell’alluminio
Di Diavolo Dio Gesù ,
Cioè la Vs. Santa Trinità.
I SORRISI
I sorrisi scostano la pelle delle guance
Da perle d’osso
E mostrano a chi guarda
Tremolare la crema
In occhi di pietra.
SULLE LACRIME
Lacrime è la mia fronte che si rompe,
Il lunato agitato
sedersi
In bui cimiteri di treni
Quando per vedere il volto di mia madre
Che richiamava dalla sua visione
Piansi alla comprensione
Della trappola mortalità
E del sangue personale della terra
Che mi aspettavano
Padre padre
Perché mi hai abbandonato?
Mortalità & repulsione
Scorrazzano per questa città
Infelicità è il mio secondo nome
Voglio essere salvato,
Affondato-non può essere
Non vuole essere
Mai fu fatta per essere
Così da vomitare!
DA VECCHIO
Quando comincerò a invecchiare
E forse sentirò .il braccio sinistro
intorpidirsi
E il cervello resistita speranza,
Siederò addormentato
L’energia soffocata esaurita
nel mio occhio
E l’amore fuggito da me
Quando la peggior notizia
Mi fu portata
Ed esultai di essere solo
Di ormai essere morto
Ho avuto la visione del
santo
Misconosciuto & troppo stanco
per spiegare il perché
E di dolci intenzioni
un altro giorno-
Persino Stanley Gould
andrà in cielo.
LO SO
Lo so che non so scrivere
versi
Ma questo è il mio libro
di righine lattine
Di birra e allora compatiscimi
invisibile
Lettore lasciami pasticciare
anche
Quando ho i postumi & sono senza
idee.
DIO
Seduto sui nostri significati
Egomaniaco Dio,
Solitaria macchia d’olio luccico di pioggia
È solito irritarci per di più
Nel Reale.
SPERANZE
La poesia non lo sa:
Il condizionatore
Disusato d’inverno
È come le mie speranze
Un po’ dentro, un po’ fuori,
Verdi su ruota bianca,
Buone solo a gettare
Un’ombra lunga
Nella livida luce della strada.
55° Chorus
Un giorno o l’altro alzeranno monumenti
costruiti in onore dei folli
quelli che oggi stanno in manicomio
Come primi pionieri del concetto
per il quale se perdi la ragione
attingi al sapere più perfetto
Il quale è immune da predicati
quali «lo sono,. io voglio, io ragiono -»
-immune dal dire: «Lo farò»
– Immune
Immune anche da follia in virtù
del non contatto
Ma per intanto questi medici
deterministi credono davvero
che un matto è matto –
E per questo hanno eretto una religione
da un miliardo di dollari, detta Psico-medicina,
e ah –
Be’ apprenderemo la normalità
dell’Ard Bar
Al mattino, alle volte, da soli
Blues
Parte delle stelle mattutine
La luna e la posta
L’insaziabile X, il dolore delirante,
– la luna Sittle La
Pottle, teh, teh, teh, –
I poeti in vecchie stanze gufose
che scrivono curvi parole
sanno che le parole furono inventate
perché il nulla era nulla
Usando le parole, usate le parole,
le X e gli spazi vuoti
E la pagina bianca dell’Imperatore
E l’ultimo dei Tori
Prima che la primavera si metta in moto
Sono una montagna di nulla
di cui volenti o nolenti disponiamo
Così di notte contratteremo
nel mercato delle parole.
Poesia
Il jazz s’è suicidato
Fate che la poesia non faccia la stessa fine
Non temiate
l’aria fredda della notte
Non date retta alle istituzioni
quando trasformate i manoscritti in
arenaria
non inchinatevi né fate a cazzotti
per i pionieri di Edith Wharton
o per la prosa alla nebraska di ursula major
no, statevene nel vostro giardinetto
& ridete, suonate
il trombone di mollica
& se poi qualcuno vi regala perline
ebree, marocchine, o vattelappesca,
addormentatevi con quella collana al collo
È probabile che facciate sogni più belli
La pioggia non c’è
non ci sono più me
te lo dico io, ragazzo,
affidabile come la merda.
Sergio Solmi-Opere, I – Poesie, meditazioni e ricordi
Tomo I: Poesie e versioni poetiche- A cura di Giovanni Pacchiano-
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto del libro di Sergio Solmi “Opere , Poesie e meditazioni”-Con questo volume diamo inizio alla pubblicazione delle Opere di Sergio Solmi, impresa che si propone non solo di presentare sotto un’unica veste scritti che hanno molto sofferto per la dispersione dei luoghi in cui apparivano, ma vuole soprattutto rivendicare l’opera di Solmi come una delle più alte e durature di tutta la nostra letteratura del Novecento. Questo primo volume raccoglie l’intera opera poetica, includendo una importante zona di liriche sparse o inedite e tutte le traduzioni in versi (anch’esse in parte inedite). Come scrisse Solmi stesso in un testo di autopresentazione, «la poesia di Solmi ha avuto il destino di una situazione appartata e solitaria, spesso fraintesa dalla critica per la sua difficoltà a essere classificata, di volta in volta, fra le correnti del tempo». Natura di rêveur nella più limpida accezione romantica del termine, Solmi sembra aver scelto fin dall’inizio un paradossale classicismo in equilibrio sul vuoto – essendo ormai sprofondati i grandi canoni che lo reggevano – sotto la tutela della «cara ombra» di Leopardi e insieme di alcuni grandi maestri del moderno, quali Rimbaud, Mallarmé, Valéry. E grazie a questa scelta, la cui singolarità restò forzatamente mimetizzata durante il periodo ‘rondista’, egli è riuscito col tempo ad assorbire in ugual modo, nella misura del suo verso, i mondi del fantastico (di cui è emblema, nella splendida Levania, una fantomatica reincarnazione lunare del poeta) e della quotidianità più dura (si pensi alle esperienze di carcere del «Quaderno di Mario Rossetti»). Seguendo le più ambigue linee di confine fra le apparenze, abbandonandosi senza contrarsi al «vento improvviso» che muove, talvolta, la vita, ascoltando i desideri «anonimi e diffusi come foglie», questa poesia ha trovato un timbro, una malinconica lucidità, una fluidezza del disegno, dinanzi a una persistente angoscia. Ha scoperto infine un parlare sommesso per dire cose essenziali, che emergono dalla «buca d’ombra» e sostano un attimo alla luce in parole diafane. Le novità presentate in questa edizione, sia nelle poesie giovanili sia in quelle tarde, non faranno che confermare la sconcertante coerenza di quest’opera, così discreta ma così ferma nelle sue inclinazioni e nei suoi rifiuti. «Esule disperato della vita» dicono le prime parole della prima lirica raccolta, che risale al remoto 1917, e danno subito il segno di una poesia che ha sempre un piede in qualche altro mondo. Fra quei mondi molteplici appariranno alla fine, nelle poesie inedite degli ultimi anni, la terra immaginale di Hûrqalyâ, svelata dalla mistica iranica, o i giardini di Babilonia, ma anche la pianura platonica dove l’anima sceglie quel «difficile viluppo» che sarà il suo destino. In questa visione sembra concludersi il lungo itinerario del flâneur cosmico, che si inchina alla necessità mentre contempla, attonito, «la mano che mi scrive».
Breve Biografia di Sergio Solmi– Critico e poeta italiano (Rieti 1899 – Milano 1981); fondatore, con G. Debenedetti e altri, della rivista torinese Primo tempo (1922–23); socio corrispondente dei Lincei (1968). La sua notevole produzione saggistica ha spaziato dalla letteratura francese (Il pensiero di Alain, 1930; La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, 1942; Saggio su Rimbaud, 1974) alla paraletteratura (Della favola, del viaggio e di altre cose. Saggio sul fantastico, 1971), da Leopardi (Studi e nuovi studi leopardiani, 1975) alla letteratura contemporanea, che ha penetrato con fine intelligenza (Scrittori negli anni, 1963). È stato poeta tanto originale quanto radicato nella tradizione italiana (Fine di stagione, 1933; Poesie, 1950; Levania e altre poesie, 1956; Dal balcone, 1968; Poesie complete, 1974), nonché felice traduttore (Versioni poetiche da contemporanei, 1963; Quaderno di traduzioni, 1969; Quaderno di traduzioni II, 1977); da ricordare anche la raccolta di prose poetiche Meditazioni sullo scorpione (1972). L’edizione completa delle Opere di S. S. è stata avviata nel 1983 (il 5°vol. è uscito nel 2000).
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
L’altra verità. Diario di una diversa-di ALDA MERINI
Descrizione del libro di Alda Merini-Un alternarsi di orrore e solitudine, di incapacità di comprendere e di essere compresi, in una narrazione che nonostante tutto è un inno alla vita e alla forza del “sentire”. Alda Merini ripercorre il suo ricovero decennale in manicomio: il racconto della vita nella clinica psichiatrica, tra elettroshock e autentiche torture, libera lo sguardo della poetessa su questo inferno, come un’onda che alterna la lucidità all’incanto. Un diario senza traccia di sentimentalismo o di facili condanne, in cui emerge lo “sperdimento”, ma anche la sicurezza di sé e delle proprie emozioni in una sorta di innocenza primaria che tutto osserva e trasforma, senza mai disconoscere la malattia, o la fatica del non sentire i ritmi e i bisogni altrui, in una riflessione che si fa poesia, negli interrogativi e nei dubbi che divengono rime a lacerare il torpore, l’abitudine, l’indifferenza e la paura del mondo che c’è “fuori”.
Biografia di Alda Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano da una famiglia di condizioni modeste. Dopo aver terminato il ciclo elementare frequenta i tre anni di avviamento al lavoro presso un istituto milanese e cerca, senza riuscirci (per non aver superato la prova di italiano), di essere ammessa al Liceo Manzoni. Nello stesso periodo si dedica allo studio del pianoforte.
Esordisce come autrice a soli quindici anni nell’Antologia della poesia italiana contemporanea dal 1909 al 1949. Nel 1947 Alda incontra “le prime ombre della sua mente” e viene internata per un mese in una clinica psichiatrica. Nel periodo che va dal 1950 al 1953 frequenta per lavoro e per amicizia il poeta Salvatore Quasimodo, che beneficerà di alcune poesie a lui dedicate.
La sua vita privata invece subisce un’evoluzione al termine della sua difficile relazione con il famoso scrittore, traduttore e critico letterario Giorgio Manganelli. Nel 1954 infatti sposa Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie di Milano, con il quale avrà un rapporto tormentato e burrascoso intervallato dalla nascita delle quattro figlie: Emanuela, Barbara, Flavia e Simona.
Nel 1962 inizia un difficile periodo di silenzio e di isolamento, dovuto all’internamento al «Paolo Pini» che dura fino al 1972, salvo alcuni periodi trascorsi in famiglia.
Nel 1979 ritorna a scrivere, dando il via ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza del manicomio, contenuti in quello che può essere inteso come il suo capolavoro: Terra Santa, con la quale vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale.
Ma le pene della scrittrice continuano. Nel 1981 muore il marito e la Merini, rimasta sola e ignorata dal mondo letterario, cerca inutilmente di diffondere i suoi versi. Trovandosi in difficoltà economiche affitta una stanza del proprio appartamento a un pittore. Nel frattempo inizia a comunicare telefonicamente con l’anziano poeta Michele Pierri, che sposerà nell’ottobre del 1983 trasferendosi a Taranto. Le sue condizioni peggiorano nonostante la serenità ritrovata con il secondo marito, e nel luglio del 1986 la poetessa sperimenta nuovamente gli orrori dell’ospedale psichiatrico.
Dal 1989 torna alla “ribalta poetica” grazie a numerosi collaborazioni con differenti editori, illustratori e fotografi del panorama italiano. Nel 2004 alcune sue poesie sono messe in musica e cantate da Milva. Proprio nello stesso anno, però, le sue condizioni di salute peggiorano e il 1° novembre 2009 muore all’ospedale San Paolo di Milano a causa di una affezione tumorale.
John Julius Norwich “I normanni nel Sud. 1016-1130”
Sellerio editore
Descrizione del libro di John Julius Norwich -Una storia di uomini, di armi e di bellezza: lo «stile arabo-normanno» diventa un romanzo grazie alla penna appassionata di John Julius Norwich che dopo “Breve storia della Sicilia” e “Il mare di mezzo” torna ad emozionarci con “I normanni nel Sud. 1016-1130”.
Le gesta e le imprese dei normanni, il loro lento viaggio alla conquista dell’Italia meridionale in un racconto storico divertito che scorre agile e veloce, coinvolgente come un romanzo, appassionante come una saga epica. La conquista normanna di Sicilia e dell’Italia meridionale è l’epopea più avvincente che ci giunge dal Medioevo. Un pugno di guerrieri poveri chiamati, dal villaggetto di Hauteville in Francia del Nord, a battersi, con la forza, con il coraggio e con l’astuzia, contro bizantini, longobardi, saraceni: è l’esempio chiaro di cosa volesse dire in quell’epoca essere cavaliere. E il risultato, strabiliante agli occhi di papi e imperatori, fu l’edificazione in poco più di un secolo, su terre favorite dalla natura, del regno più florido e moderno del tempo, guidato da una linea dinastica, gli Altavilla, breve e favolosa.
«Qui, al centro del Mediterraneo, si trovava il ponte che riuniva Nord e Sud, Est ed Ovest, latini, teutoni, cristiani e musulmani – scrive Norwich – magnifica inconfutabile testimonianza di un’era di illuminata tolleranza, ignota ovunque nell’Europa medievale e raramente eguagliata nei secoli che seguirono». Un colorato affresco che rappresenta il mescolarsi di culture e genti quale fonte di civiltà, ed è, in questi anni di migrazioni e trasferimenti, una lezione che ha tanto da insegnarci ancora oggi.
E l’autore lo dipinge da scrittore, con la freschezza, l’entusiasmo, di una scoperta che riguarda gli umani, l’ardore che deriva dal trasporto dello storico verso i luoghi di cui tratta, una scrittura elegante e carica di umo
Anjet Daanje-Il canto della cicogna e del dromedario-
Traduzione di Laura Pignatti-Neri Pozza Editore
Il romanzo di Anjet Daanje è ispirato dalla vita di Emily Brontë e dal suo capolavoro Cime tempestose, Anjet Daanje ha costruito un romanzo immenso, febbrile, che ne contiene tanti altri, in un gioco di specchi che canta l’amore, la perdita, la sorellanza, il potere eterno della letteratura.
Il canto della cicogna e del dromedario: il primo capitolo del romanzo di Anjet Daanje
Susan Knowles-Chester (1788-1851)
Il 12 dicembre 1847 segna la vita di Susan Knowles, che allora ha già quasi sessant’anni, e quattro anni dopo muore. Nel corso della sua vita sono molti i giorni verso i quali nutre aspettative che nell’attesa, e poi quando si presentano, si riempiono di significato, mentre a posteriori non sembrano aver mantenuto le promesse. Quando arriva quel 12 dicembre, nell’anno del Signore 1847, sembra un giorno d’inverno come tanti altri, iniziati nell’oscurità e finiti nell’oscurità e nel freddo, soffia un vento da nord con neve polverosa che imbianca le strade intirizzite di Bridge Fowling al crepuscolo. Solo per poco le impronte di Susan tradiscono la direzione dei suoi passi, a destra in Church Street, su per il ripido pendio del cimitero, ma quando gira in silenzio dietro la piazzetta della canonica, nessuno distingue più dalle sue impronte verso quale anima sventurata l’emissaria della Morte si sia diretta. La gente del paese aborre il suo lavoro, dove lei va, il dolore la segue come pezzi di legno alla deriva dopo un naufragio, eppure quando quel momento arriva molti chiedono il suo aiuto, è un segreto di pubblico dominio. Proprio come tutti sanno che gran parte di loro, perfino i più credenti, non se ne va senza paura o umiliazioni fisiche, e si riempiono la bocca di come il defunto abbia accettato in pace il volere di Dio, come sia stato sereno e consolante, così in paese tutti sanno che molte donne, dopo avere accudito per settimane, a volte per anni, un familiare, non sono in grado di assumersi quell’ultimo onere, per dolore, o perché non ne hanno il coraggio, non vogliono, o non sanno cosa fare. Susan insegna loro i rispettosi rituali, i gesti pratici, e tuttavia, anche dopo avere appreso le usanze quella prima volta, preferiscono lasciare che sia lei a occuparsi di metterle in pratica. Arriva in segreto, e in segreto se ne va, sulla porta di servizio i benestanti le mettono in mano qualche scellino, i poveri un paio di penny, nessuno deve sapere, a volte neanche la famiglia, o il marito. Gliel’aveva insegnato sua madre, alla morte della sua cara, piccola Susey, che aveva appena quattro anni quando la scarlattina se l’era portata via. La parte più orribile del rituale per Susan erano i batuffoli di ovatta bagnati che aveva dovuto mettere sugli occhi della sua bambina, perché, ore dopo che Susey aveva chiuso gli occhi per l’ultima volta, Susan aveva avuto l’impressione che volesse riaprirli per cercare la sua mamma con il suo sguardo inerme castano chiaro. E anche la fascia con cui Susan aveva dovuto legarle la mascella per prevenire il rigor mortis era terribile, quasi volesse tapparle la bocca una volta per tutte. Ma la madre aveva spiegato a Susan che dovevano preparare Susey alla vita eterna nel miglior modo possibile per amore e rispetto. Le preghiere che recitavano, le abluzioni, la camicia pulita, l’acconciatura dei capelli annodati, le mani giunte, tutto doveva essere perfetto per chi voleva vederla un’ultima volta, e anche per Susey stessa, soprattutto per lei, che presto si sarebbe presentata degnamente al cospetto del suo Creatore per essere ammessa in cielo come un piccolo angelo. È come un matrimonio, così aveva detto la madre di Susan, anche per quello ti lavi le orecchie e tra le gambe, ti metti i vestiti migliori, pronunci parole solenni, e poi cominci una nuova vita. Questo Susan non se l’era mai dimenticato, un matrimonio, cercava di vederlo così, mentre altri vedevano la Morte.
Biografia di Anjet Daanje è nata a Wijster, nei Paesi Bassi, nel 1965.Con un dottorato in matematica, si è dedicata alla scrittura fin dall’età di ventun anni. È autrice di sceneggiature, racconti, romanzi. Con Il canto della cicogna e del dromedario, Daanje si è aggiudicata il Boekenbon Literatuurprijs, il Libris Literatuur Prijs (i due più importanti riconoscimenti letterari dei Paesi Bassi mai prima d’ora assegnati allo stesso libro), il Constantijn Huygensprijs, premio alla carriera, e l’Inktap, premio attribuito dagli studenti dei licei nederlandesi. Il canto della cicogna e del dromedario è in corso di traduzione in dodici lingue.
Joan Didion:“Volevo studiare gli oceani, ma scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua”.
Joan Didion sembra incarnare la divinità della letteraturaIn principio fu il viso – il numero, invece, è il 325. Ammetto, a volte vale la regola rabdomantica. La usava anche Iosif Brodskij, per altro. L’opera di uno scrittore è incisa nel suo volto. E quel volto. Mio dio. Occhi tratti dal bosco e conficcati in una donna in vetro – sembra uno spago di ferro, tenuta in piedi con qualche laccio, pronta a esplodere. Joan Didion sembra una formula magica – o una maledizione, è uguale – sullo squarcio delle labbra. Mi pareva bellissima – anni Sessanta, la Corvette, il New Journalism, che abita con devota ferocia, l’incontro con John Gregory Dunne, giornalista di fama, sceneggiatore di film importanti come Panico a Needle Park (1971; con Al Pacino) e L’assoluzione (1981; con Robert De Niro e Robert Duvall). Continuai a guardare le fotografie – l’esordio nel 1963, sulla scia dei trent’anni, con Run, River, poi quel libro mirabile, Slouching Towards Bethlehem, diceva di fondere la concisione di Hemingway allo sguardo di Henry James, alla basilica narrativa di George Eliot. Ora l’hanno mutata in icona. Accade così, negli States – i sopravvissuti diventano idoli. L’anno scorso, al numero 325, la consacrazione. La Library of America comincia a pubblicare la sua opera, 980 pagine, da Run, River a The White Album sotto la sigla “The 1960s & 70s”. In Italia è sommamente pubblicata da il Saggiatore; tra poco assaggeremo il suo ennesimo libro, Political Fictions – come Finzioni politiche, in origine uscito nel 2001 – che raccoglie, dal 1988 al 2000, i testi di Joan sulle elezioni (in particolare: Bill Clinton impantanato nel caso Lewinsky, George Bush, e poi Bush figlio vs. Al Gore). Mi pare bellissima, qualcosa che viene a torturarti – bisogna sempre dubitare di ciò che appare fragile perché, è facile, ti ferirà con millenaria minuzia.
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Lo dice lei, per altro, in Why I Write (1976): “Per molti versi scrivere è il gesto di dire Io, di imporsi agli altri, di dire, ascoltami, guarda ciò che vedo, cambia idea, seguimi. È un gesto aggressivo – perfino ostile. Puoi mascherare gli aggettivi, raffinare le congiunzioni, adottare ellissi, evasioni – e accennare più che pretendere, alludere più che affermare – ma mettere parole su carta resta la tattica del bullo segreto, un’invasione, l’imposizione della legge dello scrittore nello spazio più intimo del lettore”.
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Ma la violenza può voltarsi in pratica sadica. “Scrivo sola. Certo, commetto un atto aggressivo nei miei confronti, sono ostile a me stessa” (1978, alla “Paris Review”). Elusione ed eleganza: il moto del cobra, prima del tocco. Ostilità verso di sé: scrivere come estrarre spine. “La voce. Quella ti viene addosso. Non avevo mai sentito prima una voce narrativa simile. Equilibrio tra distanza e impegno, occhio acuto dell’osservatore, ma anche la percezione di guardare tutto dall’esterno. E poi, la congiunzione tra il materiale personale, confessato, e la storia comune. E poi, l’idea che la narrazione sia aperta, che si stia ancora svolgendo, una volta terminata la lettura. Ha aperto delle possibilità finora inaudite”, dichiara David L. Ulin, che cura l’opera di Joan Didion per la Library of America.
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Estratta a se stessa, Joan Didion sembra incarnare la divinità della letteratura. L’efficacia della spada si misura da levigatezza e disciplina: addestramento che coincide con un destino. Non è mai facile scrivere, si scrive come si costruisce una sedia, di cui il lettore valuterà il censo. Qui si traduce una intervista a Joan Didion, a cura di Sheila Heti per “The Believer”, era il 2012. La scrittura è ciò che porti in superficie dopo un lungo inabissamento; le parole, in effetti, sono di legno. (d.b.)
***
Da bambina voleva fare l’attrice.
Vero.
D’altronde anche la scrittura è performance: interpreti un personaggio.
Non proprio. Costruisci uno spettacolo intero. Ma, è vero, la scrittura mi è sempre sembrata una sorta di performance.
Qual è la natura di questa performance?
A volte un attore interpreta un personaggio, a volte si esibisce e basta. Con la scrittura non reciti un personaggio. Lo crei. Lo doni al pubblico. Non interpreti nessuno, ostenti le tue idee. “Guardami, eccomi”: dici questo.
Ma questo “io” è stabile o instabile, che distanza c’è, intendo, tra il ruolo dello scrittore e…
…e la persona reale. Non lo so. La persona reale diventa il ruolo che hai scelto di darle.
Si esibisce per sé o per gli altri?
Per me. Ma anche, è ovvio, per chi sceglie di essere coinvolto. Voglio dire, il lettore è il pubblico.
Quanto del suo lavoro è stato creato in risposta o in collaborazione con il pubblico?
Molto. Ho creato uno spettacolo su L’anno del pensiero magico e sono rimasta sorpresa dal modo in cui il pubblico è diventato parte dello spettacolo. Penso che ciò accada anche quando si scrive.
Nel caso della scrittura è diverso, però.
Certo. Ma non riesco a immaginare di scrivere senza l’idea di un lettore. Non più di quanto un attore penserebbe di recitare in assenza di pubblico. Non esiste il vuoto, quando scrivi. Se non hai la percezione di un lettore, nuoti nel vuoto.
Quando ha iniziato a scrivere?
Da bambina. Avevo quattro o cinque anni, mia madre mi dà una grossa lavagna nera, perché mi lamentavo, mi annoiavo. “Scrivi qualcosa, poi me lo leggi”, mi disse. Avevo appena imparato a leggere. Fu un momento emozionante. Scrivere qualcosa per leggerlo!
Le piaceva leggere ciò che scriveva?
Negli anni, sì. Non sempre.
Non sempre…
Il mio primo romanzo. Non mi ha coinvolto perché, molto banalmente, non sono riuscita a fare ciò che avevo in mente. Volevo confinare la cronologia didascalica, volevo confondere i piani. Non avevo esperienza, ho seguito i suggerimenti del mio editor, e ho scritto un libro convenzionale. E questa non è una bella cosa.
Pubblicare non è facile: devi avere fiducia nel tuo pensiero, nel tuo sguardo sulla realtà.
Si impara lavorando, la fiducia. Devi essere certo di ciò che fai, anche se pare ridicolo. Il mio personale punto di fiducia credo di averlo conquistato con Prendila così. Il mio terzo libro. Mio marito mi diceva, ricordo, “Questo libro non ce la farà, non ce la farà, non ce la farà”. La pensavo come lui. Ma ce l’ho fatta. Da quel momento, ho avuto fiducia.
Perché pensavate di non farcela?
Perché era il mio terzo libro. Voglio dire: non credi immediatamente di farcela. Pensi di avere un talento stabile, che si farà ascoltare nel tempo. Se non comunichi subito con un pubblico non sai quando questo potrà accadere.
Qual è stato il primo segnale che la ha convinta di avercela fatta?
Non ricordo esattamente. Ricordo che all’improvviso si parlava del mio libro. La gente ne parlava. Era una cosa che non avevo mai sperimentato prima.
Il successo ha cambiato la sua relazione con quel libro?
Ero felice. Mi ha fatto sentire più in sintonia con quel libro. Ero molto triste mentre lo scrivevo perché era un libro difficile da scrivere per me, soltanto dopo ho realizzato quanto scriverlo mi abbia prostrato. Poi l’ho finito, e improvvisamente è come se un peso si fosse tolto dalla testa. Ero felice.
Forse è difficile trovare un libro ‘facile’ da scrivere.
Già. I libri ti portano sempre dove non vorresti andare.
Negli anni Settanta lei scrive un brillante articolo sui film di Woody Allen – tra cui “Io e Annie” e “Manhattan” – pubblicato dalla “New York Review of Books” dove la parola “relazioni” è sempre messa tra virgolette…
Non mi pareva abbastanza onesto il modo in cui Woody Allen ragionava di relazioni. Film dove gente parla delle proprie relazioni e questa è la sola cosa che capita. Per me non funzionava.
In “The White Album” lei scrive: “Sono entrata nella vita adulta dotata di un’etica essenzialmente romantica; credevo che la salvezza si trovasse negli oneri estremi, nelle vite segnate”. Riguardo a matrimonio e maternità…
Oneri estremi e vite segnate, appunto. Non parlo per esperienza vissuta, ma per ciò che ho visto. Matrimonio e maternità sono una specie di condanna – e una salvezza.
Salvezza da cosa?
Dalla solitudine, dalle estremità della solitudine.
Perché la relazione è intima o per il matrimonio in sé?
Il solo fatto di avere un’altra persona – di rispondere a un’altra persona. Per me è stato molto. Era una specie di romanzo, qualcosa che nel tempo si è rivelato grande.
Penso a “Blue Nights” e a “Verso Betlemme” e mi chiedo se si diventi davvero più frammentati, atomizzati quando si è lontani dalla propria famiglia, senza punti di riferimento.
È così. Poi, bisogna imparare a gestire le proprie rovine. Quei libri sono personali non tanto perché parlano della mia personalità o di ciò che mi è accaduto, ma perché narrano il mio smarrimento, l’incapacità di trovare un filo narrativo.
Scrivere qualcosa di frammentario anziché narrativo invoca un altro tipo di pensiero…
Un modo assolutamente diverso di pensare, sì. Di solito cerchi il tono narrativo, un orientamento. Per molti anni la ricerca della narrazione è stata il mio compito. Poi ho cambiato. Blue Nights nasce dall’idea che la narrativa non sia importante, che narrare non sia il punto fondamentale.
È questa una verità più profonda del narrare?
Così mi si è rivelata. Scrivere, per me, è sempre un modo per giungere a una comprensione che altrimenti resterebbe irraggiungibile. La scrittura ti costringe a pensare. Ti costringe a risolvere dei problemi. Niente viene a noi con facilità. Quindi, se vuoi capire cosa stai pensando devi in qualche modo elaborarlo. E per me scrivere è la sola forma di elaborazione che conosco.
Quando scrive, di solito?
Quando trovo il ritmo del libro.
Ci sono momenti in cui scrive e vorrebbe evitarlo?
Accade. Devono esserci dei momenti in cui scrivi anche se non vorresti.
Che natura ha questa evasione, questo evitare la scrittura?
Non pensare. Non penare pensando.
Se non fosse diventata una scrittrice…
Volevo diventare un oceanografo. Quando vivevo a New York e lavoravo per una rivista, la mia intenzione era diventare oceanografo. Non potevo. Mi sono informata presso la Scripps Institution of Oceanography. Mi hanno detto che mi mancavano dei corsi di scienze. Non avevo seguito quei corsi che mi avrebbero permesso di seguirne altri e di seguirne altri ancora. Quindi, ho abbandonato l’idea di diventare un oceanografo.
Le sarebbe piaciuto…
Scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua.
Fonte-Pangea • Rivista avventuriera di cultura & idee è un progetto di Associazione Culturale Pangea- Direttore editoriale: Davide Brullo.
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