Descrizione del libro Il pianoforte in Italia-Editore Lim-Questo volume, dedicato alla storia del pianoforte in Italia, è il frutto di un progetto di ricerca ventennale, culminato in un convegno internazionale presso il Museo di San Colombano – Collezione Tagliavini di Bologna. Inventato a Firenze intorno all’anno 1700 dal celebre cembalaro padovano Bartolomeo Cristofori, il pianoforte ha avuto un enorme impatto sulla storia della musica degli ultimi tre secoli. Il testo analizza, per la prima volta in modo unitario, il ruolo che le attività manifatturiere legate alla fabbricazione del pianoforte hanno ricoperto nella cultura e nell’economia italiana tra gli anni successivi all’invenzione dello strumento e l’età contemporanea. Largo spazio è dedicato allo studio delle caratteristiche tecnologiche dei pianoforti storici di costruzione italiana, di cui si conservano numerosi esemplari presso musei e collezioni in tutto il mondo. I diciotto saggi che compongono questo libro hanno dunque l’effetto di riscrivere — sulla scorta di un cospicuo scavo documentario e di significativi aggiustamenti critici — un importante capitolo della storia di uno degli strumenti musicali più diffusi e amati nella moderna cultura occidentale.
Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-
Editori Laterza
Descrizione di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli-Storia della Resistenza in montagna e quella in pianura. La guerriglia nelle città. Il sostegno della popolazione e il rapporto con la ‘zona grigia’. La collaborazione con gli Alleati e la guerra civile con gli italiani in camicia nera. A 75 anni dalla Liberazione, finalmente una ricostruzione con l’ambizione di proporre uno sguardo complessivo su fatti, momenti e protagonisti che hanno cambiato per sempre il nostro Paese.
I due anni che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 rappresentano un momento cruciale della storia d’Italia. Sono gli anni della guerra mondiale, con le truppe straniere che occupano la penisola. Sono gli anni della guerra civile, con lo scontro tra italiani di diverso orientamento. Sono gli anni della guerra di liberazione, in cui si combatte contro il nazifascismo per far nascere un paese democratico e libero. È il ‘tempo delle scelte’ per una società italiana schiacciata sotto il tallone nazista e fascista. Una nazione divisa politicamente, militarmente e moralmente all’interno di un’Europa in fiamme. Per fare i conti con la storia della Resistenza italiana, il libro ripercorre le varie fasi delle diverse Resistenze: dalle specificità della guerriglia urbana all’attestamento nelle regioni di montagna. Affianca alla lotta armata le varie forme di supporto fornito ai ‘banditi’ dalle popolazioni e la conflittualità interpartigiana, si addentra nella cosiddetta ‘zona grigia’, evidenzia la peculiarità delle deportazioni politiche e razziali. Una ricostruzione nuova, originale, vivida, in cui lo sguardo d’insieme si alterna costantemente con l’attenzione a vicende personali e collettive poco conosciute o inedite. Un libro necessario oggi, quando il venir meno degli ultimi testimoni diretti di queste vicende lascia sempre più spazio a un uso politico della Resistenza che deforma e rimuove i fatti, le fonti e la storia.
Ferruccio Parri
Rifiutiamo per noi le penne del pavone.
Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice. Dietro di essi abbiamo vinto anche noi. Non è stato un miracolo, ma è stato il riscatto di fronte al mondo ed all’avvenire dell’onore nazionale; e questo riscatto, pagato col dono così grave del sangue più generoso, resta una cosa grande nella storia di un paese che pareva civilmente e moralmente paralizzato dall’inquinamento fascista.
Ferruccio Parri (1971)
Introduzione
La Resistenza, ancora oggi, rappresenta in Italia un fattore di divisione. Benché costituisca l’antefatto e il presupposto di quello che la volontà popolare sanzionò il 2 giugno 1946 – la nascita della Repubblica e l’avvio del percorso che un anno e mezzo dopo porterà alla promulgazione della Costituzione – essa non gode dell’ampio e condiviso riconoscimento che sia la Repubblica sia la Costituzione hanno saputo guadagnarsi, soprattutto nei decenni successivi, da parte di un’estesa maggioranza della popolazione.
A ben guardare, in realtà, la maggioranza degli italiani non nutre particolare interesse verso la Resistenza, se non in occasione delle ricorrenze, delle celebrazioni, delle memorie – e delle polemiche – che rivisitano ogni tanto questo o quell’evento a essa legato. C’è una forte minoranza, tuttavia, che ritiene giusto insistere nel richiamare la Resistenza non solo come prodromo della Repubblica e della Costituente, ma come momento formativo di quella nuova “morale politica” che si era manifestata e affermata proprio tra il 1943 e il 1945. Una politica che condannava senza esitazione il totalitarismo fascista, l’aver condotto l’Italia nella tragedia della guerra, la mancanza di libertà sofferta da tutti durante il regime e l’offesa alla dignità patita soprattutto dai suoi oppositori; e una morale che vedeva nella partecipazione e nell’impegno individuale – nella “scelta” di stare dalla parte di chi voleva riportare in Europa la libertà e la dignità sottomessa e calpestata dal nuovo ordine nazista – la possibilità di uscire da quello stato di passività, di inazione, di subalternità che si era diffuso e consolidato nell’ultimo decennio di vita del fascismo.
Una minoranza molto più contenuta, da parte sua, considera la Resistenza, se non un atto di tradimento verso la fedeltà all’alleato tedesco – e questi sono i pochi ma rumorosi “seguaci” della RSI che ancora ricordano Mussolini come il migliore degli italiani – come un inutile dramma, che ha anticipato di poco la liberazione del paese da parte degli eserciti alleati e ha offerto il destro per violenze suppletive che un’ordinata obbedienza ai voleri germanici avrebbe potuto evitare.
Tra queste tre posizioni, come naturale, sono presenti numerose sfaccettature, diversità, gradualità, che rendono l’atteggiamento nei confronti della Resistenza molto più frammentato e irriducibile a una casistica limitata. Il dibattito pubblico che si è sviluppato nel corso dei decenni, anche se a volte sollecitato da studi, memorie, approfondimenti, o dall’uscita di romanzi e film (alcuni dei quali capaci non solo di raggiungere un vasto pubblico ma anche di riassumere in modo chiaro ed esemplare problematiche complesse e argomenti controversi), ha fatto prevalere sull’elemento della conoscenza storica quello del giudizio (morale, politico, giudiziario), foriero inevitabilmente di polemiche e contrapposizioni il più delle volte sterili. La ricerca storica, nel frattempo, ha fatto passi da gigante, non solo raccogliendo una documentazione sempre più massiccia e articolata, ma contribuendo, soprattutto con studi a carattere locale, regionale, biografico, su singoli temi, a fornire narrazioni fattuali assai estese, che hanno permesso interpretazioni sempre più accorte e coerenti anche quando sono state fra loro diverse o addirittura controverse.
È in questo contesto, nell’approssimarsi del 75° anniversario della Liberazione e della fine della seconda guerra mondiale, che abbiamo deciso di proporre una narrazione globale e generale della Resistenza, che può fondarsi proprio sulla ricchezza documentaria e storiografica accumulatasi negli anni, e in particolare nell’ultimo quarto di secolo. Una narrazione che vuole al tempo stesso raccontare gli eventi e far parlare i protagonisti, suggerire nuove interpretazioni e individuare i problemi ancora aperti e gli aspetti più controversi, raccontare l’orizzonte ampio della guerra europea e le vicende singole e particolari di eventi che hanno riguardato un numero limitato di persone ma sono state il simbolo e il riassunto di una drammatica epopea collettiva.
È la guerra a creare le condizioni che permettono, sia pure non immediatamente, di rendere sempre più precario il potere di Mussolini e del fascismo. In un intervento profetico dell’ottobre 1943, Giaime Pintor – che morirà poco dopo, il 1° dicembre, dilaniato su una mina nell’attraversamento del fronte, per raggiungere Roma – scrisse:
La condotta rovinosa della nuova guerra diede il colpo definitivo a questo stato di cose, precipitando dalla parte dell’opposizione insieme a pochi fascisti delusi tutta la folla dei pigri e degli opportunisti. L’antifascismo dispose allora di una forza che non aveva mai posseduto prima; l’enorme maggioranza del popolo italiano, contrario al regime e alla guerra, si trovò schierata contro un’esigua minoranza di fascisti stretti senza più convinzione ai loro privilegi e alle loro prerogative.
Dopo aver fustigato senza attenuanti il comportamento di Badoglio e del re, ultimo segnale del fallimento completo di una classe dirigente, Pintor terminava il suo scritto con una forte affermazione:
Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione.
I protagonisti della Resistenza, e gli storici dopo di loro, hanno discusso a lungo se essa potesse essere considerata un «Secondo Risorgimento» (come sostenevano molti ufficiali inglesi che ne furono a contatto diretto). Lo fu, probabilmente, nella combattività di una minoranza capace di una «scelta inequivocabile», come proprio nel 1943 chiamò quella ottocentesca Leone Ginzburg (arrestato il 20 novembre 1943 e morto il 5 febbraio 1944 in seguito alle torture subite) in uno scritto pubblicato nell’aprile 1945.
Se era possibile apparentare gli antifascisti di lunga data o di più recente conversione ai patrioti del Risorgimento, per i giovani e giovanissimi che scelsero la via della montagna si trattava in molti casi di una scelta casuale – come scrisse Italo Calvino nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, uno dei primi romanzi sulla Resistenza pubblicato nell’ottobre 1947, scritto per «lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata» – ma anche di una «volontà di resistere», come scrisse Antonio Giolitti nella sua autobiografia: «Resistenza sì, anche alla tentazione di scappare, di andarsi a nascondere, a rifugiare in qualche asilo […]. Due concomitanti resistenze. Non subire, non sottomettersi, non fuggire. Questa secondo me è stata la moralità collettiva, unificante della Resistenza, almeno per quanto riguarda la guerra partigiana».
Abbiamo voluto raccontare la molteplicità della Resistenza, il suo essere costituita da tante spinte diverse, azioni differenti, partecipazioni ineguali ed eterogenee, ma convergenti – pur con motivazioni ideali e pratiche, individuali e collettive, dissimili – verso un unico fine, quello di riacquistare la libertà, sconfiggere il nazismo, disfarsi dell’eredità fascista che aveva oscurato per vent’anni l’Italia. Abbiamo insistito, più di quanto un coerente equilibrio avrebbe suggerito, su alcuni aspetti che hanno fornito le occasioni più numerose a polemiche e contrapposizioni (il confine orientale, la violenza partigiana e tra partigiani, i rapporti tra Resistenza e Alleati), nella speranza di contribuire a una maggiore conoscenza di realtà e fenomeni estremamente complessi e contraddittori. Abbiamo limitato, non certo con l’intento di sottovalutarne il rilievo, le pagine dedicate ai partiti, condividendo, però, la convinzione che «era stata la guerra a rompere la cappa fascista, insieme agli errori e ai fallimenti di quella classe dirigente, ma la forza dei partiti di massa fu quella di preparare con la guerra di resistenza anche questa nuova classe dirigente. E di riuscire a farlo additando nel fascismo il nemico da sconfiggere e da sostituire con una nuova classe politica antifascista e democratica». L’errore più grande, nel valutare la “politica” nel triennio 1943-1946, sarebbe quello di farlo utilizzando i criteri utili ad analizzare gli anni della guerra fredda se non addirittura quelli della “crisi” dello Stato dei partiti dagli anni Ottanta in avanti. Uno degli antifascisti che s’interrogò maggiormente sul ruolo dei partiti, Vittorio Foa – sui «Quaderni dell’Italia libera», nel marzo 1944, scrisse un lungo articolo su I partiti e la nuova realtà italiana (La politica del CLN) –, avrebbe più tardi ricordato la contraddizione di voler «riformare il vecchio stato centralistico» e doverlo «intanto difendere per non cadere nel caos», sostenendo che la crisi della Resistenza era «cominciata assai prima della Liberazione, del 25 aprile 1945».
Nel ventennale della Liberazione Norberto Bobbio, in un discorso tenuto a Vercelli, ricordava come nel resto d’Europa era esistito un movimento patriottico di guerra allo straniero, mentre solo in Italia «la Resistenza fu insieme un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno; ebbe il duplice significato di lotta di liberazione nazionale (contro i tedeschi) e politica (contro la dittatura fascista), per la conquista dell’indipendenza nazionale e della libertà politica e civile». Sulla stessa convinzione si mosse il lungo lavoro da storico che Claudio Pavone pubblicò nel 1991 – Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza – e che avrebbe segnato una data discriminante nella storia degli studi sulla Resistenza.
La nostra ispirazione, pur se aiutata dalla lunga serie di studi che da allora si sono mostrati capaci di apportare conoscenza e comprensione verso uno dei bienni più intensi della storia italiana ed europea, si muove in questa stessa direzione, inaugurata da due studiosi – uno filosofo della politica, l’altro storico – che appartenevano alla generazione, pur se con dieci anni di differenza tra loro, di chi alla Resistenza aveva partecipato direttamente. Il loro dialogo a distanza sulla Resistenza investiva anche, come ha ricordato David Bidussa, «l’immagine che ne ha la prima generazione di italiani postresistenziali (quelli che hanno vent’anni negli anni sessanta)» e che andava messa a confronto con «la memoria che ne hanno i protagonisti», proprio per accettare, «come sollecitazione a riflettere sul passato», quella «opposizione padri-figli alla fine degli anni sessanta» in cui i secondi erano «convinti che la Resistenza “celebrata” non coincida con l’evento storico».
Tra gli autori di questo libro c’è la stessa distanza di età che esisteva tra Bobbio e Pavone ma pensiamo, anche se con un’estensione cronologica dilatata, di appartenere, soprattutto per la memoria pubblica e il dibattito storiografico sulla Resistenza, a una stessa generazione: che ha vissuto gli slogan emotivi sulla “Resistenza tradita” ma ha cercato di contribuire, soprattutto con la professione di storico, a un orizzonte di conoscenza che potesse evitare di rimanere vittima di interpretazioni ideologiche che selezionavano, a proprio comodo, la realtà dei fatti. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che il nostro debito nello scrivere questo libro non va solo alla generazione dei nostri padri, di cui Bobbio e Pavone erano due straordinari esempi, ma anche a quelle più giovani che ci hanno seguito e che hanno costituito una spinta decisiva nel modernizzare, ampliare e approfondire gli studi sulla Resistenza.
Infine, un pensiero sui protagonisti di queste pagine. A differenza dei loro coetanei, ossessionati dal disvalore della morte eroica e tramutatisi in macchine da guerra di Mussolini e Hitler, hanno guardato verso un futuro libero da guerre e hanno operato conseguentemente:
Chi parla di soccombere eroicamente davanti a un’inevitabile sconfitta, fa un discorso in realtà molto poco eroico, perché non osa levare lo sguardo al futuro. Per chi è responsabile, la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi in un atteggiamento di concreta responsabilità.
Queste riflessioni, annotate nel 1942 in una prigione del Reich da un teologo destinato all’impiccagione, attestano la valenza liberatoria della lotta contro fascismo e nazismo, alla quale i resistenti italiani forniranno nel 1943-1945 un rilevante contributo, che ancora oggi vale la pena di conoscere e di considerare.
I.
La guerra fascista e i suoi avversari
La guerra aveva posto le premesse per la conquista del potere da parte del fascismo. La guerra prepara le condizioni per il suo tracollo e la sua sconfitta.
La situazione che si crea all’indomani della prima guerra mondiale – la grave crisi economica, i profondi e perduranti conflitti sociali, la volontà di partecipazione delle masse e l’incapacità del liberalismo di dare loro uno sbocco politico, il contesto di violenza diffusa che accompagna il mito della “vittoria mutilata” – costituisce il terreno su cui Mussolini riesce a prevalere sulle velleitarie ipotesi rivoluzionarie dei socialisti e a conquistare il potere con la complicità della monarchia, degli apparati statali, dei ceti imprenditoriali, e con il consenso crescente delle classi medie.
La partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale scatenata da Hitler nel settembre 1939 viene accolta con entusiasmo quando il duce dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna il 10 giugno 1940, ma già alla fine dell’anno le sconfitte in Africa e nei Balcani iniziano a creare una frattura con l’opinione pubblica che diventerà più marcata ed esibita nei due anni successivi. Dal novembre 1942 fino al marzo 1943 – mesi caratterizzati da massicci bombardamenti alleati sulle città italiane, dalla scomparsa di generi alimentari e dalla diminuzione delle razioni di pane, dalle notizie su Stalingrado e sullo sbarco americano in Nord Africa, sulla sconfitta di El Alamein e sulla disfatta dell’Armata italiana in Russia (ARMIR), dagli scioperi operai a Milano e Torino – il consenso nei confronti del fascismo crolla rapidamente e verticalmente, anticipando le manifestazioni di gioia che accompagnano la caduta di Mussolini il 25 luglio per mano del Gran Consiglio fascista e del re.
In Europa, la Resistenza era iniziata a ridosso delle vittorie militari compiute dalla Wehrmacht e della conquista nazista del continente. Hugh Dalton, il ministro dell’Economia di guerra britannico – la Gran Bretagna era rimasta sola nel combattere contro la Germania hitleriana – messo da Churchill nel luglio 1940 alla guida del SOE (Special Operations Executive), il nuovo organismo civile incaricato di favorire la ribellione e la guerra sovversiva nei paesi occupati dal nazismo, riteneva che fosse possibile avere
dalla nostra parte non soltanto gli elementi antinazisti in Germania e Austria, non solo i cechi e i polacchi, ma anche l’insieme del mondo democratico e amante della libertà in Norvegia, Danimarca, Belgio, Francia, Olanda e Italia. Inoltre, in tutti questi paesi tranne l’Italia, si farà un appello nazionalista che si può collegare agli ideali di democrazia e libertà individuale. Sono convinto che le potenzialità di questa guerra dall’interno siano davvero enormi. Si tratta oggi di una delle nostre migliori armi offensive se solo riusciremo a imparare ad usarla e costituirà una parte assolutamente essenziale di ogni controffensiva di terra che noi dovremo alla fine intraprendere.
Il rapporto tra gli Alleati e la Resistenza – che fu un problema europeo ma particolarmente complesso in Italia, un paese che per tre anni era stato in guerra insieme alla Germania – ha dato luogo negli ultimi anni a ricerche e interpretazioni che hanno messo in discussione i luoghi comuni sull’appoggio parziale e discutibile che soprattutto la Gran Bretagna avrebbe dato al movimento partigiano italiano.
La guerra parallela vagheggiata da Mussolini, da impostare con propri obiettivi e strategie, «non per la Germania, né con la Germania ma a fianco della Germania», diviene in realtà una guerra subalterna: l’ultima del fascismo, dopo le aggressioni all’Etiopia del 3 ottobre 1935, alla repubblica spagnola nell’estate 1936 e all’Albania del 7 aprile 1939. Che si tratti di guerra fascista – col suo carattere ideologico di avversione per le democrazie, propagandato da stampa, radio e cinema – lo conferma la concentrazione dei poteri nelle mani del dittatore, titolare dei ministeri dell’Interno, della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica. Mussolini si è pure attribuito il grado di Primo Maresciallo dell’Impero, ossia di ufficiale più alto in grado delle forze armate operanti.
L’antifascismo prebellico
Nel 1939 sono migliaia gli antifascisti in carcere o al confino, oppure – se liberi – strettamente controllati sotto minaccia di arresto alla minima infrazione. Vent’anni di persecuzione, ordinata dagli ispettorati regionali dell’OVRA, la polizia politica fascista, hanno distrutto le reti clandestine comuniste e gielliste, organizzate dai centri direttivi di Parigi con l’invio in patria di emissari sotto falso nome. Molti di loro vedono la sconfitta militare della Germania, dell’Italia e del Giappone (l’Asse Roma-Berlino-Tokyo) come un passaggio obbligato per il ritorno alla libertà. Questa visione antifascista globale si delinea nell’estate del 1936, come reazione al sostegno di Mussolini e Hitler alla ribellione militare franchista in Spagna. Volontari di cinquanta nazioni accorsero per entrare nelle Brigate internazionali, costituite da circa 40.000 combattenti, e tra di loro c’erano circa 3500 italiani, guidati dai repubblicani Mario Angeloni e Randolfo Pacciardi, dal giellista Carlo Rosselli, dall’anarchico Camillo Berneri, dai comunisti Luigi Longo e Palmiro Togliatti.
Tra i caduti vi è il professore triestino Piero Jacchia, cofondatore il 23 marzo 1919 dei Fasci italiani di combattimento e poi divenuto un avversario del regime. Angeloni, comandante della colonna italiana, è falciato da una mitragliatrice il 28 agosto 1936 mentre lancia una bomba a mano. Berneri viene sequestrato e ucciso a Barcellona nel maggio 1937 da agenti stalinisti, durante una delle fasi più acute delle divisioni intestine del fronte repubblicano. Gli italiani dell’esercito regio e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (che formano il Corpo truppe volontarie, cui parteciparono quasi 80.000 camicie nere) vengono sconfitti nella battaglia di Guadalajara proprio dagli italiani delle Brigate internazionali. È la prefigurazione della guerra civile, circoscritta per il momento allo scenario della penisola iberica. A Radio Barcellona, il 13 novembre 1936 Carlo Rosselli lancia lo slogan Oggi in Spagna, domani in Italia. Carlo viene assassinato, insieme al fratello Nello, in Normandia il 9 giugno 1937 da cagoulards assoldati dai servizi segreti di Mussolini; la loro morte provoca la crisi di Giustizia e Libertà.
L’unità faticosamente raggiunta dall’emigrazione politica italiana viene messa in crisi dal patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), preludio alla spartizione della Polonia tra nazisti e sovietici: le organizzazioni non comuniste respingono l’interpretazione proposta dal Komintern della guerra come scontro tra due imperialismi, egualmente nemici del proletariato, e i socialisti chiudono l’esperienza del patto di unità d’azione con il Partito comunista d’Italia (PCd’I).
Giustizia e Libertà, Partito repubblicano e Partito socialista costituiscono nell’autunno del 1939 il comitato promotore della Legione italiana, destinato – come nel 1914-1915 – a battersi contro i tedeschi in Francia e Belgio: in poco più di un mese si raccolgono 15.000 adesioni, ma il governo Daladier rifiuta di inserire reparti italiani nell’esercito, temendo ripercussioni sulla “non belligeranza”. I volontari sono così indirizzati alla Legione straniera, depoliticizzandone il reclutamento; a inizio giugno 1940, quando la situazione precipita, si liberalizzano gli arruolamenti e accorrono circa 7000 antifascisti, solidali con la Francia. Nell’aprile-giugno 1940, altre migliaia di esuli italiani si battono in Norvegia contro i tedeschi.
Tra gli antifascisti in esilio e gli oppositori del regime predomina lo sconforto. I dissidenti, al carcere e al confino, si sentono sempre più isolati. In Francia, dove è concentrato il grosso dell’emigrazione politica, socialisti e giellisti sono in piena crisi; i comunisti vengono arrestati in quanto considerati quinta colonna dell’Urss schierata con il Terzo Reich.
L’Italia in guerra e l’antifascismo
Dal 10 giugno 1940, quando Mussolini getta l’Italia in guerra contro Francia e Gran Bretagna, gli emigrati in quei paesi si ritrovano schedati e internati quali enemy aliens, ossia sudditi di nazione nemica. A Parigi, per reazione alla “pugnalata alle spalle”, assestata nel momento di massima difficoltà con i tedeschi in marcia verso Parigi, si scatena la caccia agli italiani: in un paio di mesi, se ne arrestano circa 2000. Eppure, molti di loro condannano l’avventura mussoliniana.
Il giellista Silvio Trentin considera Germania, Italia e Spagna come l’anti-Europa; prostrato dal crollo della Francia, rivive il naufragio della democrazia avvenuto nell’Italia del 1922 e si considera “un sopravvissuto”. Nonostante versi in pessime condizioni di salute, con problemi cardiaci, chiede l’arruolamento nell’esercito francese. L’anno successivo fonda a Tolosa il gruppo Libérer et Fédérer, aderente al movimento France Libre (costituitosi attorno al generale de Gaulle).
Il 22 giugno la Francia capitola e il maresciallo Pétain la subordina alla Germania. Dopo due giorni viene firmato l’armistizio con l’Italia. Agli esuli non rimane che passare in clandestinità e collegarsi alla nascente Resistenza francese, oppure riparare in Africa settentrionale o nelle Americhe. Il 5 ottobre, l’OVRA consegna alla polizia nazista lunghi elenchi di antifascisti da catturare e consegnare alla frontiera italo-francese. Nella seconda metà dell’anno, sono circa 40.000 i rimpatriati, volontari o forzati. I verbali degli interrogatori mostrano stati d’animo di cocente delusione: dopo anni di privazioni e lotte, ci si ritrova sconfitti, mentre l’Asse predomina e le masse plaudono al dittatore.
Eppure, nonostante tutto, molti partecipano alla “campagna di Francia” e poi passano nei maquis, convinti che contrastare la dominazione hitleriana in Europa significhi servire la causa della libertà italiana. Nel 1940, tuttavia, gli esiliati si ritrovano in piena crisi, con scarsi addentellati con la madrepatria. È questo, con tutta probabilità, il periodo più duro e ingrato dell’antifascismo. Gli stessi comunisti, meglio organizzati rispetto agli altri gruppi, devono dividersi e disperdersi per sfuggire alla repressione. La redazione della rivista teorica «Stato Operaio» si sposta a New York, con scarsi collegamenti con il nucleo allestito segretamente nella Francia di Vichy.
Il SOE e l’Italia
In Europa, ormai, il solo paese a resistere ai nazifascisti è il Regno Unito. Fin dal 1940 il governo Churchill cerca di dar vita, per quanto riguarda l’Italia, a un’“opposizione” indipendente e, su proposta di Hugh Dalton, acconsente nel gennaio 1941 alla creazione di un Comitato dell’Italia libera, affidato al cattolico Carlo Petrone, sconosciuto in patria e all’estero, giunto a Londra nel 1939, personaggio del tutto inadeguato, cui si contrappone nel luglio dello stesso anno un Movimento dell’Italia libera destinato ben presto anch’esso all’impotenza. L’illusione di Churchill di poter creare nella Cirenaica liberata nel gennaio 1941 dai britannici – che avevano catturato 100.000 soldati italiani – una «colonia dell’Italia libera» viene infranta dai successi di Rommel e dell’Afrikakorps che riconquistano la Cirenaica ai primi di aprile.
Si cerca, allora, di reclutare volontari tra i militari rinchiusi nei campi di prigionia in Africa settentrionale e in India; le adesioni si aggirano sul mezzo migliaio di unità, e si allestiscono due battaglioni di pionieri. Anche questa volta viene commesso un irrimediabile errore nella scelta del comandante, individuato nel generale Annibale Bergonzoli, già decorato con la medaglia d’oro nella guerra di Spagna (era comandante della 4a Divisione d’assalto “Littorio”), catturato il 7 febbraio 1941 in Africa settentrionale dopo il fallimento dell’offensiva italo-germanica in Egitto. Il generale Francis Davidson disapprova tale scelta perché Bergonzoli è «ritenuto dai bersaglieri un ciarlatano […] inadatto a diventare il capo di qualsiasi movimento dell’Italia Libera, essendo di temperamento esaltato e vagamente instabile. Ha probabilmente raggiunto il rango che ricopre sottomettendosi al Partito fascista». Il progetto, tuttavia, non prende corpo. Falliti i tentativi di costituire formazioni militari italiane da affiancare ai contingenti britannici, si ripiega su inserimenti individuali in reparti addestrati a colpi di mano e incursioni.
Per quanto riguarda l’Italia, l’attività del SOE si concentrò in gran parte sulla propaganda via radio, con le trasmissioni di Radio Italia (una costola di Radio Londra attiva fin dal 1935), inaugurata a metà novembre 1940. Le voci di Ruggero Orlando, di Umberto Calosso, di Paolo e Pietro Treves (figli dell’ex deputato socialista Claudio Treves) accennano alla presenza nel Regno Unito di esiliati politici, informano sull’attività della Resistenza sovietica, iugoslava e francese, ribadiscono – per esempio il 24 febbraio 1942, a opera del colonnello Stevens – che gli Alleati non prenderanno in considerazione l’Italia finché questa non avrà rovesciato la dittatura.
Il SOE si concentra sulla possibilità di una “guerra irregolare”, mediante incursioni dietro le linee da parte di piccole unità, con l’intento di distruggere infrastrutture civili e militari, e possibilmente collegarsi a nuclei di oppositori. Sono missioni della durata media di pochi mesi, prima dell’inevitabile cattura. Si spera, anche attraverso le operazioni speciali, di innescare ribellioni, ma è un obiettivo del tutto irrealistico per il contesto italiano, nonostante dall’agosto 1941 il Foreign Office studi possibili alternative politiche ai vertici del Regno d’Italia, per una fronda monarchico-militare o per la formazione di un governo in esilio. Un dirigente del SOE per l’Italia, il tenente colonnello Richard Hewitt, descrive una situazione deludente:
Fin dal 1940 la nostra politica mirava a proteggere e sostenere gli antifascisti in Italia e fuori. I primi contatti furono difficili: nel Paese gli elementi di opposizione comprendevano che il momento non era ancora giunto per affrontare rischi all’aperto; fuori del Paese gli antifascisti non erano ancora disposti a divenire volontariamente traditori formali della loro patria. L’opposizione in questo momento era in gran parte circoscritta entro teoria e propaganda e si limitava a sviluppare le cellule e le organizzazioni che un giorno sarebbero potute uscire all’aperto.
Il movimento maggiormente interessato alla collaborazione con gli Alleati è Giustizia e Libertà; chi più di tutti anela all’azione è Emilio Lussu, protagonista di una battagliera “diplomazia clandestina” e ideatore nella prima metà del 1942 di un piano insurrezionale che – coordinato con i progetti angloamericani di un fronte italiano – dovrebbe estendersi dalla Sardegna alla penisola. Egli si reca più volte in Corsica e riceve a Parigi emissari sardi, con i quali discute la fattibilità di un’iniziativa armata. Le trattative con gli inglesi si arenano dinanzi alle pregiudiziali di autonomia operativa e intangibilità dei confini italiani: «Faremmo un buco nell’acqua per la liberazione del nostro Paese se apparissimo venduti agl’inglesi. […] Il meno che possiamo chiedere è che all’Italia sia garantita l’integrità territoriale, metropolitana e coloniale, entro i limiti preesistenti all’avvento del fascismo».
L’opposizione inglese fa fallire anche il Congresso delle organizzazioni antifasciste delle due Americhe convocato a Montevideo il 14 agosto 1942 dalla Mazzini Society (fondata l’anno prima a New York su impulso di Gaetano Salvemini e presieduta da Max Ascoli), dove si annuncia la creazione di un organo politico diretto da Carlo Sforza e di una colonna militare che sotto il comando di Randolfo Pacciardi dovrà collaborare con gli Alleati. La pregiudiziale repubblicana non piace a Churchill, ma pesa anche lo scarso seguito che i promotori hanno presso la comunità italoamericana.
Traditori, o antesignani?
Naufragata l’intesa con le organizzazioni antifasciste, l’intelligence britannica ripiega sul coinvolgimento di singoli italiani nella guerra irregolare. Nel 1940-1943 sono decine i volontari arruolatisi nei servizi segreti angloamericani per missioni ad altissimo rischio, con l’obiettivo di costituire reti interne o per attuare sabotaggi. Sono forme di opposizione individuali alla guerra fascista, equiparate al tradimento e punite con la pena capitale. Chi prende in considerazione tale scelta è Leo Valiani, desideroso a fine 1941 di battersi «come soldato grigio e taciturno, nell’esercito sovietico o in un esercito alleato». Lascia il Messico per il Regno Unito, dove è addestrato dal SOE per l’invio ad Algeri, tappa intermedia della missione in Italia: «sapevano di mandarci allo sbaraglio; se fossimo stati arrestati, i fascisti ci avrebbero fucilati».
Tra i primi italiani inseriti nelle forze speciali del Regno Unito per missioni nella penisola, vi è il fiorentino Fortunato Picchi (Carmignano, 1896). Reduce della Grande Guerra, stabilitosi a Londra nel 1921, era divenuto vicedirettore di sala al Savoy Hotel. Schedato come antifascista all’entrata in guerra dell’Italia, Picchi viene internato sull’Isola di Man; trattato come un potenziale nemico, reagisce orgogliosamente, dichiarandosi disposto a combattere il fascismo al fianco delle forze armate britanniche. Nonostante sia quarantasettenne, il SOE gli assegna il nome di copertura di Pierre Dupont e lo include, con la mansione di traduttore, tra i 35 incursori di un commando del II Special Air Service.
È l’Operazione Colossus: partiti da Malta, gli incursori vengono paracadutati la notte del 10 febbraio 1941 sugli impervi territori dell’Avellinese. Viene fatto saltare il ponte-canale dell’Acquedotto pugliese, nei pressi di Calitri, per interrompere il rifornimento idrico alle città portuali di Bari, Brindisi e Taranto. Il SOE vuol far sentire alle popolazioni il peso della guerra, per acuire il malcontento contro Mussolini. Attuato il sabotaggio, gli incursori si dividono in tre gruppi e marciano verso la costa, dove li attende un sommergibile; individuati da alcuni cacciatori e segnalati ai carabinieri, si arrendono dopo una sparatoria, costata la vita a due persone. Dupont, imprigionato a Napoli con i suoi compagni, viene smascherato da agenti del controspionaggio e fucilato all’alba del 7 aprile in adempimento della sentenza del Tribunale speciale. Scrive alla madre: «Di morire non m’importa gran cosa, quel che mi dispiace è che io, che ho voluto sempre il bene del mio Paese, debba oggi esser considerato come un traditore».
Nel dopoguerra si accenderà una polemica giornalistica sulla figura dell’esule fiorentino e sarà il deputato inglese Ivor Thomas a criticare un articolo di Paolo Caccia Dominioni (già comandante del 31° Battaglione “Guastatori d’Africa” e poi esponente del Corpo lombardo volontari della libertà) apparso sul «Corriere d’informazione» il 16-17 aprile 1949 e intitolato Era un traditore oppure un eroe?. Thomas sosteneva infatti che «Picchi fu tra gli uomini più valorosi dell’età nostra. Amò la sua terra nativa e sacrificò la sua vita per contribuire a liberarla dalla tirannia fascista che la dominava. Credeva di esser fedele alla vera Italia nella sua stessa opposizione al regime fascista. M’inquieta vedere un Suo collaboratore bilanciare così equilibristicamente il problema se Picchi fosse un traditore o un eroe. Se Picchi fu un traditore, allora Mussolini fu un patriota». Quella di Fortunato Picchi fu una scelta estrema, presa in assoluta solitudine, dinanzi alla propria coscienza: «Fu un partigiano prima che in Italia esistessero i partigiani. Arrivò presto, forse troppo presto perché venisse riconosciuto il suo sacrificio (tanto che il governo della repubblica nata dalla Resistenza gli negò il riconoscimento postumo di combattente antifascista). Ebbe il destino degli idealisti solitari: una fossa comune, e l’oblio. Aveva fatto quello che riteneva giusto, senza chiedere il permesso a nessuno, senza porsi problemi troppo complicati».
La preparazione della campagna d’Italia
Nella prospettiva della campagna d’Italia gli Alleati inviano in Sicilia agenti segreti incaricati di raccogliere informazioni e predisporre reti d’appoggio al corpo di spedizione. Il compito, estremamente difficoltoso e a massimo rischio, è affidato a volontari reclutati tra disertori o prigionieri di guerra italiani di orientamento antifascista. Si tratta di incursioni suicide, che al più producono qualche messaggio cifrato prima dell’inevitabile cattura, determinata spesso da cittadini che segnalano ai carabinieri la presenza di estranei. Ogni missione – con base operativa a Malta – è costituita da un paio di elementi, uno dei quali specializzato nelle trasmissioni radiofoniche e l’altro con compiti operativi; quest’ultimo è originario della zona prescelta.
La spedizione che sbarca la notte del 14 ottobre 1942 sul litorale di Acireale si compone del trentaseienne catanese Emilio Zappalà e del trentunenne padovano Antonio Gallo, incaricati di raccogliere notizie sulle strutture militari nelle province di Catania e Messina: difesa costiera, aeroporti, sistemi di vigilanza, dislocazione dei reparti tedeschi ecc. Dopo una notte di marcia i due raggiungono Santa Venerina, paese natale di Zappalà, dal quale egli era partito quindici anni prima per la Libia, dove con alterne fortune aveva svolto attività commerciali, aderendo poi al movimento Libera Italia e impegnandosi nelle reti informative francesi e inglesi. Gallo, mobilitato per la campagna d’Abissinia, era rimasto in Etiopia sino al ritiro italiano, nel 1941, quando si era offerto all’Intelligence Service per missioni nel Regno: addestrato come sabotatore e marconista, deve trasmettere le notizie raccolte dal compagno. Ricostruirà così l’epilogo della missione:
Giunti finalmente alla periferia di Santa Venerina essendo già giorno fatto, lo Zappalà ad una donna che veniva dal paese disse che eravamo dei contrabbandieri e parlando in dialetto siciliano chiese se conoscesse qualcuno presso il quale potessimo lasciare in quei paraggi per poche ore le nostre valigie. La donna gli indicò un casolare poco distante dove essa era diretta e lo Zappalà la seguì, entrandovi mentre io aspettavo con le valigie al margine della strada. Essendo stata respinta l’ospitalità da lui chiesta, mi disse che sarebbe andato lui solo in paese per rivedere dei parenti e che sarebbe tornato dopo una mezz’ora. Prima di allontanarsi nascose le due bombe a mano in una buca presso di me. Rimasi nel posto da lui indicatomi ed attesi per circa mezz’ora che egli tornasse. Tornò in fatti e mi invitò a seguirlo in direzione del paese senza dirmi altro. Sennonché dopo pochi passi ci vennero incontro il maresciallo dei carabinieri con tre carabinieri ed un borghese e ci fermarono, traendoci poi in arresto.
I due prigionieri sono interrogati personalmente dal colonnello dei carabinieri Candeloro De Leo, l’ufficiale più valido del Servizio informazioni militare (SIM), che redige un resoconto con cui il Tribunale speciale motiva le due condanne a morte, eseguite il 28 novembre 1942 con il rituale della fucilazione alla schiena (il colonnello De Leo, fervente mussoliniano, comanderà i servizi segreti della RSI).
A volte i patrioti che intendono contribuire alla sconfitta militare dell’Italia per affrettare il ritorno alla democrazia cadono vittime dell’azione del controspionaggio fascista. Tra quanti aderiscono inconsapevolmente a cordate clandestine le cui fila sono tirate dal Centro controspionaggio dei carabinieri vi è la maestra trentina Clara Marchetto (nata nel 1911 a Pieve Tesino): residente in Liguria, nella primavera copia su fogli lucidi documentazione sulla corazzata Littorio e su altre navi da battaglia, per poi affidarli a una persona che dovrebbe portarli oltre confine. In realtà i carabinieri controllano l’intera organizzazione e a metà maggio 1940 ne arrestano i 15 componenti (alcuni dei quali doppiogiochisti). Il capocordata Aurelio Cocozza e il marinaio Francesco Ghezzi vengono fucilati il 22 dicembre 1940, mentre a Clara Marchetto e a suo marito Giusto Gubitta, disegnatore dei Cantieri Ansaldo, si infligge l’ergastolo. Scarcerata a Perugia nel maggio 1944 per ordine del Comando alleato, Clara Marchetto è tra i fondatori del Partito popolare trentino-tirolese, che rappresenta nel 1948 in Consiglio regionale. Fa richiesta di revisione della sentenza del Tribunale speciale ma viene accusata di tradimento dal democristiano Flaminio Piccoli: il 2 febbraio 1949 è ricondotta nel carcere di Perugia per scontare il resto della pena, in quanto «illegalmente liberata» dagli Alleati; dichiarata decaduta dal mandato elettorale, a fine anno è rilasciata, in libertà provvisoria, in attesa di un nuovo processo, che la condannerà in contumacia a 15 anni per rivelazione di segreti di Stato e complotto politico. Per non perdere nuovamente la libertà, Clara Marchetto si stabilisce dapprima in Austria, quindi in Tunisia e infine a Parigi, dove morirà settantunenne il 17 settembre 1982.
A tradire una combattente per la libertà, “partigiana” prima che nascessero i partigiani, è questa volta lo Stato repubblicano nato dalla Resistenza, incapace di promuovere una forte discontinuità (di leggi, di sentenze ma anche di valori) tra il fascismo e la democrazia. L’idea che la “patria” non vada mai tradita, nemmeno quando si lotta per ridarle una libertà conculcata, sembra una sconfessione del sacrificio che i martiri del Risorgimento patirono da parte dei tribunali austroungarici (da cui vennero condannati nella maggior parte dei casi proprio per tradimento): una contraddizione profonda proprio negli anni in cui si iniziava a parlare della Resistenza come Secondo Risorgimento, ma in un paese in cui la cultura nazionalista era ancora profondamente radicata.
La prima Resistenza nella penisola
Il 18 novembre 1940, al Gran Rapporto ai gerarchi provinciali del PNF, Mussolini aveva annunciato: «Con certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia!», mentre le truppe italiane stavano già indietreggiando di fronte alla controffensiva ellenica che costerà, due settimane dopo, le dimissioni del generale Badoglio. Nel giro di qualche mese, nell’aprile 1941, l’esercito di Mussolini torna nei Balcani al seguito della Wehrmacht che ha deciso di invadere la Iugoslavia. Partite da Zara, le truppe italiane raggiungono a metà mese Sebenico e Spalato, Ragusa e Mostar. L’armistizio firmato in fretta il 17 aprile dal generale Danilo Kalafatovi porta alla divisione del regno iugoslavo tra la Germania (in misura preponderante), l’Italia, l’Ungheria e lo Stato della Croazia, satellite tedesco sotto la guida di Ante Paveli.
Una parte della Slovenia diventa così l’italiana provincia di Lubiana, mentre si amplia la provincia di Fiume e si crea il governatorato della Dalmazia. Già nel 1940 erano stati smantellati dall’OVRA diversi gruppi di antifascisti sloveni, sia comunisti sia nazionalisti e rivoluzionari. I brutali interrogatori, nei quali si distinse il commissario Gennaro Perla, condussero a centinaia di arresti: vennero denunciati in 73 al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, poi ridotti di una decina, inizialmente divisi tra comunisti e irredentisti ma poi riuniti tutti come terroristi. Due di loro – Ivan Marija ok e Danilo Zelen – riescono a fuggire anche se quest’ultimo viene ucciso il 13 maggio 1941 dai carabinieri vicino a Ribnica, nel primo scontro armato avvenuto nella nuova provincia di Lubiana tra forze italiane di occupazione e antifascisti sloveni.
Il 2 dicembre 1941 inizia al Palazzo di giustizia di Trieste il processo a 60 imputati, arrestati quasi tutti in seguito a delazioni di loro ex compagni di lotta, sottoposti a estenuanti torture. A presiedere il Tribunale speciale è il generale Antonino Tringali Casanuova, che sarà successivamente ministro di Grazia e Giustizia della RSI e morirà per cause naturali ricoprendo quella carica. Gli imputati sono divisi in tre gruppi: comunisti, intellettuali e terroristi, sono tutti italiani anche se uno non è nato in Venezia Giulia, e tra loro vi è una sola donna, Marija Urbani. Il 14 dicembre vengono pronunciate nove condanne a morte di cui quattro – contro gli “intellettuali”, che lo stesso Alto commissario civile della provincia di Lubiana chiede di salvare per opportunità politica – commutate in ergastolo. L’indomani, al poligono di Opicina, ha luogo l’esecuzione dei “terroristi” Pino Tommasi (Toma�i), Vittorio Bobek, Giovanni Ivancich (Ivani), Giovanni Vadnal, Simone Kos. Dalle carte del processo – ha scritto Marta Verginella – emerge «come la sottrazione dei diritti nazionali, la decapitazione del ceto medio sloveno con la sua esclusione dalle istituzioni statali e dall’amministrazione locale e il suo allontanamento dalla sfera pubblica abbiano prodotto nei superstiti il bisogno di una risposta forte e coerente all’ideologia dello Stato-nazione. Di fronte allo Stato italiano e alla sua politica di assimilazione e snazionalizzazione la rappresentanza politica slovena, non soltanto nella sua composizione liberal-nazionale, ma anche in quella cattolica e comunista, individuava nella comune azione di tutte le forze politiche slovene una scelta di sopravvivenza».
Il 24 ottobre 1942 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato aveva decretato la condanna a morte per Antonio Grzina e i suoi collaboratori Vincenzo Hrvatin, Giuseppe Roi, Francesco Vci e Giuseppe Zefrin, immediatamente eseguita a Trieste. Il “Gruppo Grzina”, composto da una decina di contadini e artigiani coordinati da un meccanico fiumano, annotava ubicazioni e caratteristiche di aeroporti, caserme e infrastrutture belliche, ma la sua attività era stata stroncata il 10 ottobre 1941 da una raffica di arresti.
Tra i casi più significativi di opposizione all’oppressione fascista, identificata con la dominazione italiana, vi è il tragico destino dei fratelli Amauri ed Egone Zaccaria (nati a Fiume nel 1913 e nel 1917), appartenenti a una famiglia di sinistra: la madre Maria Soucek a inizio 1941 viene internata nel campo di prigionia di Montefusco, mentre il padre Alessandro, organizzatore partigiano, sarà catturato nell’ottobre 1942 da poliziotti triestini, imprigionato nel Lager di San Sabba e fucilato dai tedeschi il 22 giugno 1944. Arruolati in un “battaglione allogeni”, costituito con reclute considerate infide, disertano e si recano avventurosamente al Cairo, per offrirsi all’Intelligence Service quali volontari per missioni in Italia. Dopo un sommario addestramento, la notte del 9 ottobre 1942 un sommergibile li sbarca al largo della costa campana, nei pressi di Licola, muniti di cifrari, radio ricetrasmittente e una grossa somma di denaro.
Avvistati dalla guardia costiera, sono catturati nel giro di poche ore. Dopo un mese vengono condannati «alla pena di morte con degradazione mediante fucilazione alla schiena». Sentenza eseguita il 10 novembre nella capitale, nel poligono di Forte Bravetta, da un plotone d’esecuzione di camicie nere. Vengono sepolti al cimitero del Verano, nel “riquadro dei traditori”, con false indicazioni nominative.
L’opposizione al regime spinge alcuni irredentisti slavi a raccogliere informazioni per lo spionaggio iugoslavo. Qui entra in gioco un fattore decisivo e innovativo rispetto alle adesioni individuali ai servizi segreti del Regno Unito: la dimensione collettiva, legata a un progetto politico condiviso.
Il 26 aprile 1941, intanto, era sorto l’Osvobodilna Fronta (Fronte di liberazione del popolo sloveno, OF), cui aderiscono tutte le forze che intendono combattere l’occupazione italiana, e che vede una progressiva egemonia del Partito comunista sloveno. La Resistenza cresce man mano che la violenza dell’occupazione fascista si manifesta con tutta la sua ferocia: uccisioni, arresti, massacri di civili, incendi di villaggi, migliaia di prigionieri. Il 1° marzo 1942 il generale Roatta, dopo aver assunto il comando della 2a Armata da cui dipendevano le unita dislocate nei territori ex iugoslavi annessi nella primavera del 1941 e in quelli appartenenti al nuovo regno di Croazia, emana la famigerata circolare n. 3 C, in cui sottolinea che tutti gli abitanti dei territori occupati devono essere ritenuti nemici, che si deve evitare di fare prigionieri, che non devono essere risparmiati i sospetti di favoreggiamento e le loro case. È in quel periodo che entrano in funzione i campi di concentramento di Gonars (costruito nell’autunno precedente nella prospettiva di mettervi i prigionieri russi), operativo dalla primavera, e di Arbe, creato in luglio, dove migliaia di arrestati conoscono condizioni di vita terribili, violenze continue e una forte mortalità.
Ai partigiani sloveni si aggiungono presto anche numerosi antifascisti italiani, delle province di Trieste e Udine. Uno di loro è Vincenzo Marcon, arrestato nel 1937 e inviato poi al confino alle Isole Tremiti, nel carcere di Lucera, sull’Isola di Ponza, nel carcere di Cerchiara in provincia di Cosenza, a Corigliano Calabro e infine a Castrovillari, dove gli viene concessa la libertà provvisoria il 22 dicembre 1941. Nell’aprile 1942 Marcon è a Trieste e insieme a Giovanni Zol si dedica a riorganizzare il Partito comunista e ad avviare una collaborazione con i partigiani sloveni. Con il nome di battaglia di Davilla partecipa a incontri nel maggio e luglio 1942 per collegare le iniziative di lotta tra italiani e sloveni, e reperire e costruire armi. Ondina Peteani, considerata la “prima” staffetta partigiana, così lo ricorderà:
Nella primavera del 1942, al ritorno dal confino, Davilla si mise in contatto con Vinicio Fontanot, abitante in quel periodo a Ronchi. A quei tempi io pure abitavo a Ronchi e avevo continui rapporti con la resistenza. Portavo di frequente materiale propagandistico a Trieste. In uno di questi passaggi incontrai Davilla ed ebbi subito un’impressione molto positiva di lui; essendo io appena diciottenne, Davilla mi pareva, ed ebbi più tardi conferma, un organizzatore indiscusso con una personalità molto forte. Era assai radicato nel suo lavoro politico. Con Vinicio Fontanot e altri compagni del cantiere di Monfalcone andava d’accordo sulle varie decisioni politiche e di lavoro in genere.
A fine dicembre 1942 sono attivi a Trieste una trentina di Comitati rionali sloveni e italiani impegnati nel sostegno alle formazioni combattenti, come risultato degli accordi raggiunti da Drago Maruši, Giuseppe Udovi, Agostino Trobec (in rappresentanza del partito sloveno e dell’OF) e Davilla, Rinaldo Rinaldi, Cesare Gorian (organizzatori della Federazione triestina del PCd’I).
Mentre numerosi comunisti italiani scelgono nel corso del 1942 in modo spesso spontaneo e individuale di aderire alla Resistenza slovena, l’attività dei partigiani sulle alture del Collio e nella Slavia veneta (Beneija) spinge la Federazione comunista di Udine, nell’estate del 1942, a riflettere sull’opportunità di una partecipazione alla lotta armata. La prima richiesta alla direzione del PCd’I viene fatta da Mario Lizzero (Lima), con la proposta di costituire un movimento armato, pronto a partecipare alla lotta assieme ai partigiani iugoslavi, definiti alleati. Il primo incontro tra Lizzero e Mirko Braii, comandante del Briško Beneški Odred (BBO) ha luogo a fine ottobre 1942. «In concomitanza o in conseguenza di questi incontri si verificò un sensibile afflusso di italiani e sloveni nelle formazioni partigiane, tanto che Lizzero si incontrò ancora con gli sloveni all’inizio del 1943, chiedendo che fosse facilitata la riunione in un unico reparto di tutti quei partigiani italiani che erano presenti nelle formazioni slovene: ciò avrebbe permesso di far affluire altri combattenti italiani».
Dal sabotaggio alla Resistenza
Come per tutti gli antifascisti in esilio, in prigione o al confino prima del conflitto, con lo scoppio della guerra chiunque collabori alla sconfitta dell’esercito fascista e per mettere in crisi il governo di Mussolini viene considerato un traditore della patria. «La figura del traditore, in un’epoca contrassegnata dalla guerra, tende a sovrapporsi e a coincidere con quella della spia, anche perché gli apparati di intelligence si sviluppano […] evidenziando una frattura fra lealtà alla nazione e allo stato e fedeltà verso i propri valori e i propri principi». Dallo scoppio della guerra e fino al settembre 1943, l’assenza di referenti nel territorio del Regno rende estremamente rischiose le missioni e, tranne un paio di eccezioni, i loro protagonisti vengono rapidamente individuati e neutralizzati. Traditori o precursori? Nel secondo dopoguerra un velo di silenzio avvolge gli italiani condannati – e in diversi casi fucilati – per spionaggio, ignorando il retroterra politico di scelte esistenziali arrischiate.
La continuità dell’azione antifascista dal 1940 al 1945, in sinergia con il SOE, attraverso le differenti fasi politico-militari della seconda guerra mondiale, è ben rappresentata da Giacomino Sarfatti e da Max Salvadori.
Dopo le leggi antiebraiche Giacomino Sarfatti (Firenze, 1920-Siena, 1985) emigra in Inghilterra e si iscrive alla facoltà di Agraria dell’Università di Reading. All’entrata italiana in guerra viene internato in quanto “straniero nemico” e nel novembre 1940 si arruola come volontario nelle forze armate britanniche. Addestrato nel SOE come operatore radio, è considerato un idealista, dotato di coraggio e autocontrollo, sebbene con qualche inibizione morale: «Come ebreo, è antifascista e non ha nulla in contrario ad attaccare qualsiasi bersaglio militare o fascista, ma ha grandi remore sulla possibilità di provocare la morte di altri italiani». Munito di falsi documenti, opera dapprima a Malta; nel dicembre 1942 entra in Italia dalla Svizzera, per stabilirsi a Milano e trasmettere notizie a John McCaffery, che da Berna dirige i servizi segreti inglesi. Prima della missione, Sarfatti redige il testamento e lascia oggetti personali da consegnare in caso di morte alla famiglia, che a Firenze ne ignora l’affiliazione militare. McCaffery ha affidato l’agente a Eligio Klein, un triestino che in realtà è assoldato dai servizi segreti italiani: per questo motivo Sarfatti sarà controllato passo passo e lasciato operare per l’interesse del SIM a conoscere codici e comunicazioni del SOE. Ritorna brevemente in Svizzera nell’ottobre 1943 per poi riprendere servizio in Italia settentrionale, stavolta a diretto contatto con i partigiani delle Fiamme Verdi operanti nelle valli bresciane. Ha potuto evitare l’arresto e la fucilazione, in realtà, soltanto perché lo si era ritenuto di maggiore utilità in libertà, nell’orbita del doppiogiochista Klein.
Cresciuto a Firenze, Max Salvadori (Londra, 1908-Northampton, 1982) completa gli studi in Svizzera, a causa dei frequenti scontri con squadristi che perseguitano anche suo padre, docente di filosofia morale. Rimpatriato nel 1929, conduce un’esistenza semiclandestina per organizzare il movimento Giustizia e Libertà. Arrestato nel 1932, torna libero dopo un anno grazie a un “rinsavimento” politico simulato, espatria e riprende l’agitazione antifascista. Nel 1938 svolge missioni antinaziste nel Mare del Nord, per conto dei servizi segreti inglesi; dopo aver vanamente proposto al SOE di essere inviato in Italia, recluta in Messico esuli antifascisti disposti a tornare in Europa per battersi nella guerra segreta contro l’Asse. Il 19 gennaio 1943 è accolto nell’esercito britannico, per fungere da elemento di punta nell’imminente campagna d’Italia. Il 25 luglio 1943 sbarca in Sicilia con una missione aggregata alla 7a Armata, effettua una puntata dietro le linee italo-tedesche, agevola l’arruolamento di antifascisti che si batteranno nella guerra di liberazione (tra gli altri: Alberto Cianca, Aldo Garosci, Leo Valiani, Alberto Tarchiani e Giaime Pintor). Partecipa agli sbarchi di Salerno e di Anzio, e svolgerà un ruolo decisivo nel rapporto tra Alleati e Resistenza.
Probabilmente, Max Salvadori è – nel periodo precedente all’armistizio dell’8 settembre 1943 – il solo membro italiano del SOE a non essere individuato, controllato o catturato dal SIM. Ciò è dipeso soprattutto dalla brevità del suo lavoro sul territorio del Regno e dalla decisione dei suoi superiori di non “bruciarlo” in missioni impossibili, come invece accade agli altri antifascisti tornati clandestinamente nella penisola per il desiderio di contribuire alla lotta contro la dittatura di Mussolini.
Testimonianza su Fortunato Picchi
Fu aggregato alla nostra unità nel Regno Unito alla vigilia della partenza per l’Operazione Colossus.
Effettuò i lanci previsti, sia di giorno che di notte, col minimo della preparazione, il che, tenuto conto della sua età, non fu cosa da poco.
Quando vennero impartite le istruzioni per l’Op., mostrò il massimo interesse, e si mostrò senz’altro pronto ad andare ovunque ed a fare qualunque cosa gli si richiedesse. Mezz’ora prima di lasciare la Base avanzata, i soldati coinvolti, incluso Picchi, seppero che l’obiettivo era in realtà in Italia e non, come si pensava, nelle colonie italiane in Africa. Picchi non mostrò apprensione nell’apprenderlo, il che non ci sorprese, perché durante la nostra breve conoscenza eravamo rimasti molto colpiti dalla sua sincera determinazione nel fare ogni sforzo necessario a rovesciare il fascismo.
Durante lo svolgimento dell’Op. in territorio italiano, agì con freddezza e abilità quando fronteggiò vari tipi di italiani, e tutti gli ordini impartitigli – sia che riguardassero il suo compito di traduttore sia che riguardassero l’azione – furono da lui eseguiti meticolosamente. Dopo che l’unità ebbe raggiunto il suo obiettivo, e mentre stava recandosi all’appuntamento prefissato, Picchi mi avvicinò e chiese di essere lasciato indietro, perché non poteva tenere il passo con gli altri e temeva così di mettere a repentaglio le loro possibilità di salvezza. Sapeva perfettamente quale sarebbe stato il suo destino se i fascisti l’avessero catturato. Comunque si decise che egli restasse con noi, e dimostrò rinnovato vigore quando seppe che la sua richiesta, pur essendo stata debitamente accettata, non era stata accolta.
Mantenne poi il morale sempre altissimo nel corso dei noti eventi che portarono alla nostra cattura e, quando lo vedemmo per l’ultima volta a Napoli, prima che subisse da parte degli ufficiali fascisti un interrogatorio simile a quello degli altri membri dell’unità, non mostrò segni di apprensione per le possibilità di sopravvivenza.
Secondo noi era un uomo estremamente coraggioso, animato da un gran bisogno di contribuire alla caduta del fascismo. Questo spirito bastò ad indurlo a tornare in Italia in un modo tanto rischioso, pur sapendo perfettamente cosa avrebbe significato per lui non riuscire a rientrare dalla missione.
Ten. col. Trevor Pritchard, 24 ottobre 1946
Documento presso The National Archives, Kew (London)
II.
Dal complotto monarchico alla fuga del re
(25 luglio-9 settembre 1943)
La seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943, e il conseguente arresto del duce, sostituito alla guida del governo dal generale Pietro Badoglio, testimoniano la debolezza del regime fascista dopo tre anni di guerra. Lo stesso Mussolini, del resto, «narrando l’incontro con Hitler a Feltre del 19 luglio, attribuiva esplicitamente la crisi del regime alle disfatte militari subite dall’Italia». Ed era ormai rassegnato, «fin dal colloquio col re, a considerare la sua destituzione da capo del governo come la fine del regime fascista».
Dalla crisi militare alla crisi politica
Il 1943 segna effettivamente una svolta decisiva nel conflitto: l’esercito tedesco è ormai sulla difensiva, la sua avanzata all’apparenza senza ostacoli è terminata. La radicalizzazione della guerra iniziata con l’aggressione all’Unione Sovietica (le deportazioni, lo sfruttamento economico dei civili oltre che dei prigionieri, l’annientamento degli ebrei) apre la fase della “guerra totale”, che prosegue inesorabilmente anche quando l’iniziativa è passata agli eserciti alleati. La battaglia di Kursk cominciata ai primi di luglio – il più grande scontro di mezzi corazzati mai avvenuto – e terminata dopo dieci giorni con la vittoria sovietica, accentua la nuova direzione del conflitto, già chiara con la vittoria britannica a El Alamein (ottobre-novembre 1942) e la sconfitta tedesca a Stalingrado (fine gennaio 1943).
L’Italia, considerata tra il 1941 e il 1942 dagli Alleati un mero satellite della Germania, da punire e ridimensionare, è oggetto di particolare attenzione alla conferenza di Casablanca del gennaio 1943, dove Roosevelt e Churchill, alla presenza dei generali francesi de Gaulle e Giraud, pianificano la “campagna d’Italia” e sperano di poter infliggere una resa senza condizioni alle potenze fasciste entro l’anno. Al disastro militare in Russia, con il dramma della ritirata, si accompagna l’intensificazione dei bombardamenti sulla penisola, soprattutto nel Meridione, preludio allo sbarco in Sicilia che le forze britanniche e statunitensi, sotto il comando unificato del generale Dwight Eisenhower, hanno messo a punto con l’Operazione Husky, programmata – in una riunione di inizio maggio ad Algeri – per il 10 luglio.
La campagna di Russia – mistificata nel dopoguerra come un’operazione umanitaria, quando invece fu una tipica invasione – si conclude con una “catastrofe”, come ricorderanno tutti i sopravvissuti. Le lettere scritte dai soldati alle famiglie non contengono alcuna «eco significativa dei presupposti ideologici della spedizione e della retorica bellicista di Mussolini», ma trasudano un familismo quasi infantile, e non sono del tutto immuni dalla propaganda fascista ma neppure coerentemente aderenti al regime. Le prime, in ordine di tempo, sono improntate all’ottimismo e a una certa spavalderia nei confronti del nemico: «Presto caro Papà anche la bella Stalingrado fa la morte del sorcio, se sapesti e vedesti quanti bombardieri ci volano sopra scaricando quintali di esplosivo che fanno tremare tutto il suolo russo, oh sì anche per Stalin è fatta non è tanto lontano il giorno che marceremo su Mosca». Quelle successive sprigionano nostalgia e pessimismo.
Sulla ritirata di Russia disponiamo di testimonianze letterarie che sono diventate ormai dei classici. Mario Rigoni Stern, sergente degli alpini mandato a combattere con il Battaglione “Vestone” della Divisione “Tridentina”, ricorda la battaglia di Nikolaevka del 26 gennaio 1943, mentre è in corso la ritirata, con i russi trincerati tra le case del paese. Entrato in un’isba affamato, vi trova soldati dell’Armata Rossa e una donna che gli dà da mangiare: «In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini». Nuto Revelli, ufficiale della “Tridentina” lui pure coinvolto nella battaglia di Nikolaevka, nella prefazione a La strada del davai, volume in cui ha raccolto le testimonianze di molti reduci, ricorda che essi «ignoravano tutto del fascismo. Nei tempi facili non appartenevano alla “gioventù del littorio”: vivevano liberi, lontano dai grandi fatti nazionali. Non avevano nemmeno la camicia nera; a malapena conoscevano poche frasi fatte, i miracoli di Mussolini e basta».
All’inizio del marzo 1943 l’Armir ha perduto il 97% dell’artiglieria, l’80% dei quadrupedi e il 70% degli automezzi, su 230.000 uomini sono caduti o dispersi in 85.000, 27.000 sono stati feriti o congelati, 70.000 fatti prigionieri, e di questi quasi un quarto morirà prima di giungere nei campi di prigionia e la metà nel corso della detenzione in Urss. Il giudizio di Revelli riassume un sentimento diffuso, non solo tra i sopravvissuti di quella tragica esperienza: «La colpa peggiore del fascismo non è di aver tradito la generazione del littorio, di aver tradito noi che abbiamo gridato “viva la guerra, viva il duce”. È di aver tradito questi poveri cristi, a cui la guerra è caduta sulle spalle come una epidemia».
Dall’inizio del 1942 si scatenano bombardamenti a vasto raggio sulle principali città italiane, per provocarne il “collasso morale” secondo l’obiettivo dello strategic bombing: in ottobre furono colpite Genova e Milano, in dicembre Napoli e Torino, mentre il 19 luglio 1943 sarà la volta di Roma, un evento destinato ad accelerare la crisi del regime e dei suoi rapporti con la monarchia. Accanto ai massicci bombardamenti è la situazione alimentare a modificare progressivamente e profondamente l’opinione pubblica, preda adesso di sconforto, paura, delusione e rabbia, sentimenti che accompagnano la caduta verticale del mito del duce.
Che effetto hanno i bombardamenti sulla popolazione? La scelta di compiere bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile, e non solo su impianti militari o obiettivi strategici, sembra produrre soprattutto depressione e paura, rassegnazione e fatalità, anziché spinta alla ribellione come era nelle intenzioni dei comandi alleati.
Le tessere alimentari si sono ormai ridotte a fornire 920 calorie, il livello più basso tra le potenze in guerra: una decina di milioni di italiani è costretta a vivere con una dieta “inferiore al minimo fisiologico”, come documentato da uno dei maggiori statistici, incaricato dal ministero dell’Agricoltura e foreste di uno studio sul problema del razionamento e dei prezzi.
Gli scioperi iniziati nel marzo 1943 alla Fiat costituiscono la prima manifestazione pubblica eclatante di frattura tra regime e popolo: «il primo atto di resistenza di massa di un popolo assoggettato a un regime fascista autoctono». Le autorità fasciste, spaventate dalla compattezza della mobilitazione e sconcertate dalla partecipazione di operai vicini al regime, non possono soffocare la protesta né reprimerla con violenza. Nella memoria successiva, e anche nelle prime ricostruzioni storiche, agli scioperi del marzo 1943 è stato attribuito un significato politico rilevante, giudicandoli con l’ottica dell’anno successivo o per enfatizzare la presenza e il ruolo dei quadri comunisti e alimentare il mito di una Resistenza operaia che si imporrà nei primi anni della guerra fredda.
In realtà (come lo stesso dirigente del PCd’I Umberto Massola rileverà nel 1973), il 5 marzo succede ben poco e il vero sciopero inizierà la settimana seguente. Come ben raccontato da Tim Mason, gli scioperi iniziati l’8 marzo alla Fiat si estendono rapidamente a tutto il Piemonte e in aprile coinvolgono numerose aziende di Milano e di varie città della Lombardia. Essi segnano una grave caduta nel consenso al regime già indebolito dalla guerra, ma tra le cause di questa non si può dimenticare l’impatto profondo dei bombardamenti, che avevano spinto a cercar riparo fuori Torino decine di migliaia di persone e tra loro molti operai, cui era stata concessa a febbraio un’indennità pari a 192 ore di lavoro proprio per questo motivo, e che con lo sciopero si intendeva estendere a tutti, non solo ai lavoratori evacuati. «Gli scioperi alla Fiat non furono la prima protesta contro il dominio fascista a Torino. Piuttosto, gli scioperanti riguadagnarono la fiducia nell’agire a causa di una rottura nello stato fascista e perché furono sostenuti da un movimento molto più diffuso di disordini popolari che si svolse dal novembre 1942. Prima di diventare politiche, le proteste erano “esistenziali”: in risposta a un regime che chiedeva sacrifici per vincere la guerra, i lavoratori cominciarono invece a sostenere che era necessario abbandonare del tutto la guerra».
L’occupazione della Sicilia e la “guerra totale”
È soprattutto nelle regioni vicine alla linea del fuoco, sottoposte a una crescente militarizzazione e a una forte presenza tedesca, che la crisi di consenso al regime si fa più evidente. La Sicilia ne è l’esempio più chiaro: l’attesa dell’arrivo angloamericano – e l’accoglienza delle truppe che il 10 luglio 1943 sbarcano tra Gela e Licata (quelle americane) e tra Pozzallo e Avola (quelle inglesi) – suscita speranze ed entusiasmo. La Sicilia, cioè la «parte più arretrata del Paese si è trovata a dover sostenere l’urto della guerra, dapprima come retrovia del fronte mediterraneo nella guerra “parallela”, poi come zona di guerra con l’intensificarsi della militarizzazione del territorio, delle privazioni, delle distruzioni dovute ai bombardamenti aerei, e infine con l’invasione». L’accoglienza largamente favorevole riservata agli “invasori” alleati si spiega con elementi prevalentemente sentimentali: l’angoscia della guerra, il terrore dei bombardamenti e delle violenze (nel gennaio 1943 erano sfollate da Palermo oltre 60.000 persone), la speranza che l’arrivo angloamericano ponesse fine a quella tragica realtà. I 150.000 uomini sbarcati in Sicilia furono una forza inferiore solo a quella che di lì a poco avrebbe invaso la Normandia.
All’indomani dello sbarco i fascisti attribuiscono la sconfitta alla dissoluzione dell’esercito, imputata ai militari. In realtà i soldati italiani «combatterono certamente meglio e di più di quanto ricordato», anche se questo «non vuol dire che non si registrarono sbandamenti gravissimi. L’episodio della resa della fortezza di Augusta-Siracusa, che tanto sconcertò l’opinione pubblica, al pari dell’elevato numero di prigionieri, specie siciliani, sta lì a ricordarci che vi fu un drastico mutamento di atteggiamento dei soldati italiani». Sulla base di un entusiasmo reale si è costruita successivamente una narrazione tesa a diminuire e ridimensionare il consenso degli italiani per il regime fascista, ma le ricerche più recenti hanno riproposto anche una posizione critica presente nei giorni successivi all’invasione. Non solo quella di fascisti convinti, o di persone danneggiate nelle distruzioni prive di scopi militari, ma di una popolazione che vede con timore la presenza di soldati di colore e racconta – paura o realtà è difficile dirlo, ma gli eventi successivi non possono escludere alcuna ipotesi – di violenze nei confronti delle donne rimaste sole dopo la partenza dei loro uomini per la guerra: «questi racconti ci confermano che l’immagine della “liberazione festosa” non è riuscita a cancellare del tutto le memorie meno concilianti con gli Alleati, che ora riemergono prepotentemente».
Insistere sul quadro della “guerra totale”, che ha preso piede anche per gli italiani nel 1943, permette di cogliere le fasi di passaggio, a volte molto rapide, tra una resistenza “istintiva” scaturita in quel contesto e le forme meno spontanee e più organizzate di una consapevolezza antitedesca e antifascista che crescerà nel tempo. L’attenzione recente per le stragi commesse in Sicilia dall’esercito americano contro soldati prigionieri o civili – quelle presso gli aeroporti di Biscari e Comiso o quella di Gela, quelle di Acate e Piano Stella – permette un confronto con le stragi tedesche che avvennero soprattutto nella prima metà di agosto nella zona etnea, nel momento dell’abbandono della Sicilia da parte dei tedeschi. Le prime portarono anche a condanne dei responsabili e alla critica dell’operato del generale George S. Patton, «propugnatore di una linea dura, in contrasto con le raccomandazioni dello stesso Roosevelt di adottare atteggiamenti amichevoli verso la popolazione», e contribuiscono a «definire meglio la politica da adottare nei confronti della popolazione italiana (oltre che a tentare di contenere comportamenti simili)»; le seconde – rimaste generalmente impunite, per ragioni legate alla guerra fredda – ci mostrano i primi segnali, in Italia, di una dinamica già sperimentata altrove e che porterà lutti e tragedie crescenti dal 1943 al 1945 in tutta la penisola.
Sullo sbarco in Sicilia ha pesato a lungo il mito della “liberazione mafiosa” dell’isola, oggetto di presunti accordi tra autorità americane e mafia siciliana negli Stati Uniti; un mito duro a morire, anche perché rilanciato da libri, articoli di giornale, film e addirittura da una relazione della Commissione antimafia del 1993. Eppure, la ricerca storica ha dimostrato l’inesistenza di un «progetto di collaborazione tra mafia e autorità militari statunitensi per agevolare lo sbarco in Sicilia grazie ad un’opera di spionaggio effettuato da mafiosi siculo-americani».
L’entusiasmo che accompagna la caduta e l’arresto di Mussolini in molte città italiane, soprattutto di chi si sente pienamente ostile al regime – «la gioia grande per aver potuto finalmente passare da una posizione teorica a una posizione pratica» –, è accompagnato da una maggiore prudenza in chi auspicava che la caduta del fascismo non avvenisse per congiura interna. Gaetano Salvemini già nel febbraio 1942, in una lettera a Max Ascoli, era giunto «alla conclusione, dopo molto dispiacere, che esiste un accordo preciso tra il Ministero degli esteri britannico e lo State Department sull’idea che l’Italia debba essere ceduta a fascisti moderati controllati dal Duca d’Aosta, da Papa Pio XII, da Grandi, Badoglio e altri simili mascalzoni».
La caduta di Mussolini non è il risultato di un piano alleato, e infatti Gran Bretagna e Stati Uniti ne sono colti di sorpresa, tanto che nell’incontro di Québec della seconda metà di agosto Churchill e Roosevelt assumono «l’impegno di un trattamento comprensivo verso il popolo italiano», pur senza sconfessare la richiesta di resa incondizionata. Anche se si era trattato di un fatto tutto interno al regime e al suo rapporto con la monarchia, l’antifascismo italiano vorrebbe approfittare della situazione per legittimare ed estendere la propria presenza politica, pur con una cautela maggiore di quello che le manifestazioni popolari di giubilo potevano far intendere. Da crisi militare ed economica, il 25 luglio trasforma l’emergenza – in atto ormai da diversi mesi – in irreversibile crisi politica, in cui prende presto il sopravvento la violenza nei confronti della popolazione.
In agosto, infatti, riprendono con forza i bombardamenti alleati, che ispirano a Salvatore Quasimodo – in riferimento ai raid aerei tra l’8 e il 16 su Milano – una poesia indimenticabile:
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
Già il 26 luglio il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Mario Roatta, dirama una circolare in cui ammonisce che «qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce tradimento» e pertanto ordina di sparare ad altezza d’uomo contro i manifestanti, senza preavviso: «siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani quali i cordoni gli squilli, le intimazioni e la persuasione. […] Contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento». Roatta, insieme a Badoglio, di cui è braccio destro, impersona il continuismo del potere: assunta nel 1934 la guida del Servizio informazioni militare, due anni dopo comanda i legionari fascisti nella campagna di Spagna, nel 1939 diviene addetto militare a Berlino e nel 1942 comanda l’esercito italiano nella provincia di Lubiana e poi guida la 2a Armata in Croazia, con il pugno di ferro contro partigiani e civili: «Non occhio per occhio e dente per dente! Piuttosto, una testa per ogni dente!».
In tre giorni le indicazioni di Roatta provocano diverse decine di vittime, quasi trecento feriti e oltre mille arresti. A Bari e a Reggio Emilia avvengono gli episodi più sanguinosi. Nel capoluogo pugliese l’esercito spara su pacifici dimostranti che, sotto le finestre della Federazione del Fascio, chiedono la rimozione dei simboli del regime: i feriti sono 60 e i morti 23 (incluso il figlio sedicenne del meridionalista Tommaso Fiore, detenuto per antifascismo nel carcere cittadino). A Reggio Emilia gli operai delle Reggiane, scesi in strada per chiedere la pace, sono mitragliati dai bersaglieri in servizio di ordine pubblico e da guardie giurate della fabbrica: i morti sono nove e decine i feriti. Manifestanti cadono anche a La Spezia, Volterra, Sesto Fiorentino, e rimangono feriti in moltissimi altri luoghi. Nelle stesse ore il generale Quirino Armellini, comandante della Milizia fascista inserita da Badoglio nell’esercito regio, deplora in un’altra circolare le manifestazioni “inconsulte” della “plebaglia”: «alcuni dei temi che saranno propri della propaganda della Repubblica sociale sono anticipati in questa circolare, mescolati ad altri che troveranno ospitalità nella stampa monarchica e reazionaria del sud» (Armellini diverrà elemento di spicco del fronte militare clandestino romano d’ispirazione badogliana).
L’armistizio e il crollo delle istituzioni
Le vicende che portano all’armistizio dell’8 settembre 1943 sono state ampiamente ricostruite e interpretate: Elena Aga Rossi ha parlato di «inganno reciproco» nelle trattative tra gli Alleati e il re e Badoglio, mentre Gabriele Ranzato ha intitolato «Il disonore e l’onore» il paragrafo in cui ne riassume le vicende. La posizione italiana è caratterizzata da titubanze, contraddizioni e comportamenti diversificati da parte dei principali responsabili, nell’assoluta incertezza su come trattare i tedeschi. La ridicola pretesa di Badoglio di porre condizioni agli Alleati (su luogo e tempo dello sbarco a Salerno, nonché sul numero delle divisioni) viene ovviamente respinta e il 3 settembre il generale Giuseppe Castellano e il generale Walter Bedell Smith firmano l’armistizio “corto”, mentre le clausole più draconiane di quello “lungo”, consegnato in quell’occasione, sono sottoscritte il 29 settembre da Badoglio e dal generale Eisenhower. Gli Alleati non rivelano i loro piani operativi, convinti «della poca serietà dei loro interlocutori e della scarsa o nulla volontà dell’Italia badogliana di affrontare i tedeschi».
Badoglio vorrebbe, al mattino dell’8 settembre, rinviare l’«accettazione dell’armistizio», ma alle 18,30 esso è annunciato dal Comando alleato e alle 19,45 Badoglio legge il comunicato radio che, ripetutamente trasmesso, è ascoltato con gioia e preoccupazione in tutta Italia. Alle 5 del mattino successivo il re, Badoglio, i generali Ambrosio e Roatta e diversi ministri e membri dello Stato Maggiore lasciano la capitale per l’Abruzzo e poi si imbarcano a Ortona su una corvetta che l’indomani approderà a Brindisi, sotto protezione alleata.
Le reazioni alla notizia dell’armistizio sono contraddittorie e spesso contrastanti, ma accomunate dalla consapevolezza che si è aperta una fase nuova, e nulla può più essere come prima. Confusione e sbandamento tra i soldati sono testimoniati da una straordinaria pagina di Beppe Fenoglio, con un animato dibattito attorno a un lacerante interrogativo: «Farsi ammazzare per chi?» (trascrizione al termine di questo capitolo).
Atteso e temuto, esso è accolto festosamente da soldati e cittadini come fine della guerra, ma anche con rabbia, umiliazione e paura per essere stati abbandonati da ogni autorità e dover fare da soli nel momento del “tutti a casa”. È questo secondo sentimento a prevalere, anche perché la rapidità con cui i tedeschi occupano e controllano il territorio spinge a scelte drammatiche e impreviste, che comportano – spesso per la prima volta – una presa di consapevolezza individuale.
Che cosa è successo, in sintesi, l’8 settembre 1943? Davvero si può ipotizzare che quel giorno sia avvenuta la “morte della patria”, espressione coniata dal giurista Salvatore Satta, che è sembrata a qualcuno l’espressione «più adatta per definire la profondità, la ricchezza d’implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dell’idea di nazione in conseguenza della guerra mondiale»? Quella data segna senza dubbio «la profondità del baratro in cui la nazione era precipitata», un baratro che era il risultato del fallimento del fascismo, della sua criminale alleanza con Hitler e dell’illusione di vincere la guerra, dell’opportunismo della monarchia e dei comandi militari, della loro vigliaccheria e incapacità di accettare la mano tesa degli Alleati con la proposta di armistizio, del loro rifiuto di incamminare il paese sulla strada della democrazia. Ma un baratro, anche, da cui nel giro di poche settimane il paese – o almeno una parte importante di esso – si risolleva, con la Resistenza.
Non si può dimenticare, comunque, quanto risulti difficile, soprattutto per gli alti ufficiali che hanno fatto carriera nell’esercito fascista, comprendere il ribaltamento di alleanza sancito dall’armistizio e comportarsi conseguentemente. C’è infatti chi mantiene – o addirittura intensifica – le pratiche autoritarie del passato, come mostra l’eccidio di Acquappesa, in provincia di Cosenza, avvenuto proprio l’8 settembre. Gli Alleati, sbarcati a Reggio Calabria, stanno risalendo la penisola quando, il 5 settembre, una ventina di soldati del 76° Battaglione di Fanteria costiera, di stanza ad Acquappesa, abbandonano la caserma per raggiungere le famiglie. Sono, in certo modo, sbandati in anticipo. Cinque di loro, tutti di Gioia Tauro, vengono arrestati il giorno dopo da una pattuglia italiana. Il colonnello Ambrogi propone al suo superiore, il generale Luigi Chatrian, comandante della 227a Divisione, di fucilarli senza processo per diserzione, e lo trova concorde sull’esecuzione capitale. Poi, grazie all’intercessione del cappellano, il provvedimento viene rinviato, finché un assembramento minaccioso di folla circonda la caserma ed esige la liberazione dei condannati. Alle ore 15 dell’8 settembre Chatrian rinnova l’ordine di fucilazione «entro 24 ore», e Ambrogi fa individuare il luogo adatto e preparare le bare. A fine pomeriggio, la radio del reggimento trasmette il messaggio di Badoglio sull’armistizio. «L’esultanza dei militari è enorme: soldati ed ufficiali urlano e saltano per la gioia, si abbracciano felici; i cittadini di Acquappesa scendono in strada e il parroco del paese fa suonare le campane a distesa. Tutti pensano che la fucilazione dei cinque commilitoni verrà definitivamente sospesa». L’ordine, invece, sarà eseguito dopo la mezzanotte, raggelando gli entusiasmi per quella che, nella regione, sembra davvero la fine della guerra. Il generale Chatrian diventerà sottosegretario alla Guerra (e poi alla Difesa) nei governi Bonomi, Parri e De Gasperi, venendo eletto all’Assemblea Costituente per la Democrazia cristiana. «La nascita del Regno del Sud preparata dalla fuga dei governanti, ha come viatico la fucilazione di cinque soldati-contadini».
Per molti antifascisti, militari ed ebrei la Svizzera rappresenta una possibilità di salvezza e una terra d’asilo. Quando a metà settembre Mussolini preannunzia da Radio Monaco la formazione di un governo collaborazionista, oltre 10.000 soldati e ufficiali varcano il confine italo-elvetico; nella metà dei casi, vengono respinti. Si presentano in divisa, con armi ed equipaggiamento personale.
A fine mese, giungono in Svizzera 22.000 militari e circa 4000 civili (1300 dei quali ebrei). In ottobre, giungono altri 3000 profughi. Gli immigrati vengono internati e godono di una relativa libertà. Tra di essi figurano l’economista Luigi Einaudi, il docente universitario Amintore Fanfani, il giornalista Indro Montanelli.
È un luogo comune, confortato da numerosi avvenimenti, ritenere che la Resistenza sia nata con l’8 settembre, quando anche l’Italia si trovò, sia pure in modo contraddittorio e controverso, occupata dalle truppe naziste, come era accaduto all’intera Europa nei tre anni precedenti, quando il nostro esercito aveva affiancato le truppe del Reich nel mettere il continente a ferro e fuoco. Rispetto alle altre nazioni, in Italia la Resistenza inizia più tardi e abbraccia gli ideali di libertà e democrazia con una spinta dal basso, dopo che per tre anni dall’alto i militari italiani avevano impedito, anche con violenza e ferocia inaudita, quella libertà nelle terre di Francia, di Grecia, di Iugoslavia, per non parlare del Nord Africa dove il fascismo costruì l’effimero impero che Vittorio Emanuele III – fuggitosene precipitosamente da Roma a Brindisi all’alba del 9 settembre – si era fino a quel momento intestato.
Anche se episodi di lotta e resistenza contro l’occupazione tedesca e italiana si erano già avuti, come si è visto, soprattutto sul confine orientale (nel Friuli Venezia Giulia e nella provincia di Lubiana), è dopo l’8 settembre che si moltiplicano e si diffondono comportamenti che assumono nel loro insieme un senso compiuto di Resistenza all’occupante tedesco e, successivamente, anche al nuovo regime collaborazionista – la Repubblica sociale italiana – creato al Nord da Mussolini dopo essere stato liberato dai tedeschi il 12 settembre.
È ormai largamente condivisa la convinzione che la Resistenza non fu solamente la lotta armata delle formazioni partigiane in montagna o dei nuclei guerriglieri nelle città, che ne costituirono la parte più evidente e combattiva, ma anche le molteplici “resistenze” che contribuirono alla vittoriosa avanzata alleata e al successo e all’estensione del movimento partigiano: quella dei militari combattenti, degli internati militari e politici, degli ebrei oggetto della persecuzione razziale, degli ex prigionieri alleati rimasti a combattere per la liberazione dell’Italia, di donne e famiglie più o meno attivamente impegnate nelle campagne e nelle città a ostacolare gli obiettivi dell’esercito occupante e delle milizie e istituzioni fasciste. Un’esperienza collettiva in cui una minoranza coinvolse, con consapevolezze diverse, strati sempre più ampi della popolazione abbandonata l’8 settembre dai governanti e dai vertici militari allo sbandamento e al disorientamento. L’ambiguità della formulazione usata da Badoglio nel radiomessaggio di annuncio dell’armistizio – «Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» – e la mancanza di ordini chiari consentono a ogni comando militare territoriale di decidere come agire.
I giorni attorno all’armistizio, e soprattutto quelli successivi, favoriscono la crescita e la diffusione di valori nuovi, simili a quelli rivendicati dai resistenti della Francia e della Grecia, oppure della Iugoslavia: che fino ad allora l’esercito del fascismo aveva indicato come banditi e sovversivi e che la circolare n. 3 C emanata nel marzo 1942 dal generale Roatta imponeva di distruggere ed estirpare.
Resistere o collaborare: l’occupazione tedesca
Nella maggioranza dei casi i comandanti decidono di cedere le armi ai tedeschi, vuoi per convinzione e per un frainteso senso dell’onore, vuoi per evitare uno scontro ritenuto già perso in partenza, ma soprattutto perché incapaci di assumersi qualsiasi responsabilità di fronte al silenzio e all’abbandono in cui erano stati lasciati dal re e da Badoglio. Già nelle prime ore di questa situazione si poteva intravedere in nuce la guerra civile che sarà innescata dalla formazione della Repubblica sociale italiana. A Torino, per esempio, il generale Enrico Adami Rossi rifiuta di incontrare gli esponenti dei partiti antifascisti e di distribuire armi alla popolazione per difendersi dai tedeschi, con cui sta già trattando la resa e con i quali continuerà a combattere nei ranghi della RSI. La mancanza di collaborazione, in questo caso, prefigura la collocazione in campi avversi dell’ufficiale collaborazionista e degli antifascisti (tra di essi Franco Antonicelli e Aurelio Peccei) che lo avevano sfidato a scegliere la democrazia. A Milano, il generale Vittorio Ruggero dialoga con gli antifascisti promotori della Guardia nazionale (Gasparotto, Li Causi, Grilli e Pizzoni) e tergiversa fino al 10 settembre, quando si accorda con i tedeschi e l’indomani scioglie la Guardia nazionale (viene peraltro internato in Polonia).
Grazie all’indecisione e alla codardia della monarchia e dei comandi militari – in molte realtà il numero dei soldati italiani era preponderante rispetto ai tedeschi – gli ufficiali superiori rifiutano di armare il popolo e permettono che l’esercito si decomponga e si sciolga in quarantott’ore. A morire non è la patria, ma le istituzioni che formalmente la rappresentano e che sono sempre più lontane ed estranee al paese reale, alla patria che cerca di svegliarsi e ricostituirsi. Anche se sono in minoranza, infatti, non manca chi intende portare alle estreme conseguenze quello che avrebbe dovuto essere per tutti – compresi il re e Badoglio – il senso dell’armistizio: combattere a fianco degli Alleati e accelerare la sconfitta della Germania.
È quanto accade a Roma dopo la precipitosa fuga di Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali Ambrosio e Roatta, disonorevole «perché essi avevano deciso, come risultava già dal testo letto da Badoglio alla radio, di rinunciare a qualsiasi organica operazione militare contro i tedeschi e di abbandonare a se stesse tutte le unità». Quella che dovrebbe essere una resa senza condizioni alle forze alleate, diviene in realtà una disfatta nei rapporti con l’ex alleato. Se per i soldati il “tutti a casa” significa ricercare, individualmente o in gruppo, il modo di sopravvivere e la responsabilità di porsi nella nuova condizione di occupati, ufficiali e sottufficiali in diversi casi guidano le proprie unità a resistere alla reazione tedesca.
A Roma le divisioni italiane – la motorizzata “Piave”, le corazzate “Ariete” e “Centauro”, quelle di fanteria “Piacenza” e “Granatieri di Sardegna” – hanno una superiorità numerica imponente ma i generali Roatta e Carboni decidono di non difendere la capitale, spingendo di fatto per una trattativa e per accogliere l’ultimatum tedesco, malgrado alcuni reparti abbiano già iniziato a difendersi dall’attacco germanico tra l’8 sera e il 9 mattina. «Roma, sebbene potesse contare per la sua difesa su un esercito con un numero di effettivi doppio – o quasi triplo secondo alcune fonti – rispetto a quello tedesco, certamente molto meglio armato, fu abbandonata al nemico senza che questo fosse costretto ad affrontare alcun combattimento contro forze veramente capaci di contrastarlo».
Reparti dei “Granatieri” e del reggimento dei “Lancieri di Montebello”, della “Sassari” e dei Carabinieri combattono con gruppi di civili attorno a Porta San Paolo e alla Piramide. «Sparano», ricorda Paolo Monelli, «questa gente nostra che nessuno ha pensato a inquadrare e a dirigere, con armi raccattate dai soldati in fuga, o distribuite da qualche sperduto gruppo di partiti; sparano da dietro gli alberi, stesi a terra, al riparo dei carri abbandonati, con una luce di febbre negli occhi, con manovre elementari e istintive».
Anche se ancora disorganizzato, caoticamente spontaneo, questo è l’inizio della Resistenza. E una delle sue prime vittime ne è, a suo modo, un simbolo. Insegnante di storia dell’arte, poi ufficiale dei granatieri, ferito e congedato, nel 1942 il ventisettenne Raffaele Persichetti aderisce al Partito d’Azione e all’annunzio dell’armistizio decide di agire. Il 10 settembre anima la Resistenza a Porta San Paolo; così lo ha ricordato Ruggero Zangrandi: «Giunse, con un gruppo di civili armati, all’altezza della Piramide di Caio Cestio (sarà stato mezzogiorno) e qui incontrò il comandante del suo reggimento, colonnello Mario Di Pierro, che dirigeva i combattimenti. Tolse a un soldato morto le giberne e le armi e così, vestito come un garibaldino o un brigante, prese il comando di un plotone di granatieri». Ferito a una spalla, continua a sparare contro i tedeschi, finché viene colpito a morte nel primo pomeriggio.
Si sentono patrioti gli ufficiali e soldati che cercano in situazioni spesso impossibili di contrastare l’occupazione tedesca e il disarmo delle truppe italiane, malgrado la mancanza di indicazioni chiare in tal senso. Ha scritto Zangrandi: «È strano: la storia d’Italia tra l’8 settembre ’43 e l’inizio della Resistenza organizzata, è ricca di fatti d’arme, rivolte popolari, casi minori, e non per questo meno eroici, di reazione alla prepotenza tedesca; tutti spontanei e quasi tutti poco noti». A Nepi (Viterbo) un carro armato ferma una colonna tedesca e provoca 40 vittime; a Valenza (Alessandria) artiglieri italiani impediscono ai tedeschi – che arrestano a decine – di passare il Po; a Barletta ha luogo una battaglia di ore, con la colonna motorizzata tedesca respinta; il porto di Bari viene difeso dalle truppe del generale Nicola Bellomo, che impediscono ai tedeschi di impadronirsene e lo consegnano intatto all’esercito alleato; a Luino (Varese) un tenente colonnello dei bersaglieri raccoglie attorno a sé quasi mille uomini: «Quando i tedeschi decisero di sbarazzarsi di quel nucleo di resistenza, impiegarono aerei, pezzi di artiglieria, lanciafiamme combattendo tre giorni. Ebbero 240 morti e un migliaio di feriti. Gli italiani persero 145 uomini, di cui 63 ancora sconosciuti; gli altri o furono catturati o riuscirono a raggiungere la Svizzera attraverso Ponte Tresa». Uno scontro ha luogo a Terracina, un combattimento all’Isola della Maddalena, un conflitto a fuoco davanti alla prefettura di Reggio Emilia anche se il comandante del presidio aveva consegnato le truppe in caserma, mentre il presidio di Piacenza, guidato dal generale Rosario Assanti, combatte per ore e si arrende solo per la minaccia di bombardamento della città e per le notizie che giungevano dal comando di piazza di Milano sull’intesa tra il generale Ruggero e i tedeschi.
È tutto il Meridione, e non solo la Sicilia, a essere coinvolto in ripetute ribellioni di civili e rappresaglie tedesche all’indomani dell’8 settembre, che segnalano come la vicinanza del fronte e il suo permanere costituiscano inevitabili premesse nella costruzione di azioni di resistenza. Qui, più che altrove, è vero che «la Resistenza non la organizza l’antifascismo: vi partecipa, la orienta e ne assume la direzione politica, ma lungo il percorso». Il rifiuto dell’occupazione e l’indisponibilità a collaborare con l’occupante costituiscono il contesto in cui hanno luogo gli eventi più disparati di quel terribile settembre. Anche qui vi sono occupazioni di terre che anticipano quelle degli anni seguenti, e che individuano un’unica battaglia: contro i tedeschi, i fascisti e i proprietari.
Ancor prima dell’armistizio vi sono episodi di resistenza vera e propria, come quello di Mascalucia, alle pendici dell’Etna, dove il 3 agosto 1943 il paese insorge contro le ruberie e angherie dei tedeschi, con l’aiuto di soldati italiani: un evento giudicato «l’unico episodio di resistenza armata di massa verificatosi in Italia prima dell’8 settembre» e che si imprime nella memoria cittadina come “le quattro ore di Mascalucia”.
Con l’armistizio avvengono episodi analoghi nel resto d’Italia. In Sardegna, per esempio, mentre alla Maddalena tra il 9 e il 13 settembre vi sono scontri tra militari tedeschi e italiani, che subiscono le perdite maggiori, e nelle acque al nord dell’isola il 9 viene affondata dalla Luftwaffe la corazzata Roma, provocando la morte di 1352 militari, il 10 vi è il tentativo del colonnello Alberto Bechi Luserna (già comandante del 187° Reggimento della Divisione “Folgore” a El Alamein e ora alla testa della Divisione paracadutisti “Nembo”) di bloccare due compagnie che hanno deciso di passare ai tedeschi, e che per questo viene ucciso a Macomer da un paracadutista insieme a uno dei due carabinieri della sua scorta.
Dopo l’8 settembre per le popolazioni della Sicilia e del Mezzogiorno si fa più confusa la percezione di quale sia l’esercito amico e quale quello nemico, della propria posizione nella tenaglia degli eserciti occupanti, con bombardamenti da una parte e dall’altra, che rendono improbabile la fine imminente della violenza. Molto presto ha luogo un’aggregazione di militari sbandati che avviene in forme spontanee o attorno a nuclei di ufficiali o di combattenti antifascisti – alcuni reduci della guerra di Spagna – i quali hanno deciso di entrare in azione. L’11 settembre a Rionero in Vulture (Potenza), patria di Giustino Fortunato, soldati tedeschi appoggiati dai fascisti locali occupano il paese e sparano il 16 contro la folla accorsa presso i magazzini viveri della 7a Armata, che i tedeschi sembravano intenzionati a distruggere prima della ritirata, uccidendo e ferendo numerose persone. Il 21 è la volta di Matera che si ribella e insorge contro il saccheggio e le violenze commesse dalle truppe germaniche: si tratta di una rivolta che «ebbe la configurazione di un moto spontaneo […]. Ma non va dimenticato che in città, e un po’ in tutta la regione, era rimasta memoria delle violenze dello squadrismo fascista».
A Moschito, un piccolo centro in provincia di Potenza, il protagonismo popolare porta alla deposizione del podestà fascista e all’instaurazione di una repubblica, che per tre settimane, dal 15 settembre al 5 ottobre, cercherà di promuovere misure democratiche – dalla equa tassazione alla distribuzione dei viveri – finché le nuove autorità badogliane non arresteranno gli organizzatori (in seguito tutti assolti).
Al confine opposto dell’Italia, in provincia di Cuneo, negli stessi giorni ha luogo quella che sarà spesso ricordata come la prima strage nazista dopo l’8 settembre (anche se violenze di tipo stragista c’erano già state soprattutto nel Mezzogiorno): quella di Boves. Sui monti che sovrastano la piccola cittadina si è formata una banda, guidata da un ex sottotenente della Guardia di frontiera, Ignazio Vian. Il 16 settembre il maggiore Joachim Peiper, al comando di un battaglione della Panzer Division Leibstandarte delle SS (la stessa che aveva occupato Milano), minaccia rappresaglie contro chiunque aiuti i militari italiani fuggiaschi. Il 19 due tedeschi vengono casualmente intercettati e catturati a Boves e in un successivo scontro a fuoco muoiono un partigiano e un milite tedesco. Peiper, giunto con il grosso del reparto, pretende che gli vengano riconsegnati i prigionieri, pena la distruzione del paese. Il parroco don Giuseppe Bernardi e l’ingegnere Antonio Vassallo, dopo l’impegno da parte del maggiore a non procedere a rappresaglie, negoziano con i partigiani la consegna del prigioniero e del corpo del tedesco morto. «Ottenuto il rilascio, le SS iniziano l’azione di rappresaglia: mentre i carri armati aprono il fuoco verso la collina contro le presunte basi dei resistenti, il paese viene dato alle fiamme e raffiche di mitra sparate a caso colpiscono gli abitanti. In poche ore vengono massacrati ventitré civili, tra cui gli stessi mediatori».
Le azioni con cui soldati italiani e civili resistono all’occupazione tedesca attorno all’8 settembre avvengono in ogni parte d’Italia, in forme largamente spontanee anche quando sono organizzate da ufficiali o da antifascisti di vecchia data tornati da poco in libertà. La maggior parte dei protagonisti di quelle giornate agisce d’impulso, anche se in molti casi consapevolmente e in modo calcolato. La Resistenza sta per nascere, per molti aspetti si può dire che sia già sorta, benché al momento nessuno sappia bene che cosa potrà essere e diventare. Probabilmente non lo sa nemmeno il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che si costituisce il 9 settembre sulle ceneri del Comitato delle opposizioni creato a Roma all’indomani del crollo del regime fascista e che chiama gli italiani «alla lotta e alla resistenza». Presieduto anch’esso da Ivanoe Bonomi, è costituito da rappresentanti del Partito democratico del lavoro (Meuccio Ruini), del Partito liberale (Alessandro Casati), della Democrazia cristiana (Alcide De Gasperi), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), del Partito socialista (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola).
Farsi ammazzare per chi?
Gridò: – Venti tedeschi hanno fatto arrendere una caserma con dentro tremila di noi! – Era un meridionale tarchiato e irsuto, una canottiera smagliata sui calzoni d’accatto e scarpe lampantemente militari.
– E gli ufficiali?
Esplosero tutti insieme: – Chiamali ufficiali. Non mi si parli mai più di ufficiali. Scapparono i primi, i bellimbusti, avevano il vestito borghese bello pronto e stirato nelle pensioni. […]
– Il comando non ci ha avvisati dell’armistizio, si sono completamente dimenticati di noi.
– Vedi lì i signori ufficiali. E che aspettate a mollar tutto e puntare a casa vostra?
– Ma ai tedeschi non potevate proprio resistere? Questo non comprendiamo. Se erano venti, hai detto?
– Farsi ammazzare per chi? Per il Re, o per il Principe o per Badoglio? Dovunque stiano, meglio di noi poveri cristi stanno. E poi, nemmeno l’ordine hanno saputo darci. D’ordini ne è arrivato un fottìo, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparate sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidete i tedeschi – auto disarmarsi – non cedere le armi. Tutti ci serravamo la testa tra i pugni, perché non ci scoppiasse. La truppa non ha tardato ad annusare il quarantotto completo, ha pensato alla pelle e a casa sua e ha mandato l’esercito a fare in culo. Voltavi gli occhi e di cento ne ritrovavi settanta, poi cinquanta, gli ufficiali rimasti allargavano le braccia o piangevano come bambini, i soldati saltavano il muro come tanti ranocchi. Io l’ho vista sì la bellezza di resistere ai tedeschi, ma mi son detto «Debbo crepare proprio io per le migliaia che già corrono verso casa? A casa, a casa! Se la sbrighino gli altri, finisca come vuole», e mi sono lanciato dalla finestra giusto mentre il carro armato tedesco svoltava nel viale della caserma. Io sto a Capua e non sogno altro che casa mia.
– Ce la farai?
– Dovrei, Dio benedetto. Tenendo sempre la campagna, viaggiando di notte e stando fermo e nascosto di giorno pieno. Questi cornuti tedeschi non saranno dappertutto. Son quattro gatti! […]
– Qui si finisce al muro. Abbandono di posto, di deposito munizioni, scherziamo?
– Alle conseguenze io nemmeno ci penso. Come ha detto il soldato, questo è il quarantotto completo. Non ci sarà mai più un esercito in Italia. Pallottola in canna, si rientra a Montesacro. Se arrivando troviamo il battaglione a ramengo, ciascuno se ne va alla sua ventura.
Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, a cura di Walter Pedullà, Einaudi, Torino 2015
III.
Resistenza e guerra civile
Diversamente dalla prima guerra mondiale, quando la difesa della patria risulta prevalente su ogni altra identità che possa venire rivendicata, nel secondo conflitto le cose mutano. La vittoria dei totalitarismi – la Russia comunista, l’Italia fascista, la Germania nazionalsocialista – crea un nuovo problema di fedeltà: Stato, nazione e patria non sempre si identificano e pongono a chi combatte i totalitarismi problemi di coscienza. «Alcuni tedeschi antinazisti hanno desiderato la sconfitta della propria patria e hanno perfino lavorato per favorire questa sconfitta fin quando non si è verificata. Erano traditori? Nei confronti dei nazionalsocialisti di sicuro. Nei confronti della loro coscienza certamente no. Nei confronti della classica nozione di patria forse, ma questa stessa nozione è messa in dubbio nell’epoca delle religioni politiche».
Chi tradisce chi: battaglia e strage di Cefalonia
Una discussione ancora più accesa di quella che ha segnato la “morte della patria” – rimasta per lo più nell’ambito accademico e storiografico – è quella sul presunto tradimento dell’Italia nel momento in cui, l’8 settembre 1943, ribalta le proprie alleanze di guerra.
«Gli italiani, per la loro infedeltà e il loro tradimento, hanno perduto qualsiasi diritto a uno stato nazionale di tipo moderno. Devono essere puniti severissimamente, come impongono le leggi della storia». Queste parole sono di Goebbels anche se presto la propaganda nazista accusa prevalentemente la monarchia, Badoglio e i gerarchi della congiura del 25 luglio, per cercare di riconquistare un consenso che in realtà solo gli aderenti convinti della Repubblica sociale potranno condividere. Claudio Pavone, che ha dedicato un intero paragrafo di Una guerra civile al tradimento, ricordava che «nella situazione italiana seguita l’8 settembre 1943 le contrapposte accuse di tradimento rimbalzavano, si intrecciavano e si contaminavano in vario modo perché tutte, o quasi, avevano in sé qualche frammento di verità». Anche un antifascista integerrimo come Salvemini, ad esempio, aveva dichiarato che «un malfattore non diventa un galantuomo quando tradisce un altro malfattore», ma si trattava di un giudizio morale che serviva a rimarcare la propria opposizione all’esperienza Badoglio nel suo insieme.
Il giuramento al re permette, soprattutto agli ufficiali e ai militari, di resistere con dignità alla prigionia e all’internamento, ma è certo che i conflitti di fedeltà si complicheranno quando la RSI e spesso anche le bande partigiane richiederanno fedeltà a una popolazione che fatica a scegliere la propria collocazione. La rivendicazione di non essere traditori, accusando i nemici di esserlo, non è un sintomo di “morte della patria” ma di quella frantumazione istituzionale in cui – in Italia, come già da tempo in Europa – le uniche identità forti sono costituite da valori politici e morali, primo fra tutti la libertà, che dividono inevitabilmente l’insieme della nazione. Dalla primavera del 1940, come testimonia l’articolo Quislings Everywhere pubblicato sul quotidiano londinese «The Times», esiste ormai anche un neologismo per connotare il tradimento:
Il maggiore Quisling ha aggiunto una nuova parola alla lingua inglese. Per gli scrittori la parola Quisling è un dono degli dei. Se fosse stato loro chiesto di inventare una nuova parola per traditore […] avrebbero difficilmente escogitato una combinazione di lettere più brillante. All’ascolto riesce a suggerire qualcosa al tempo stesso viscido e tortuoso.
Fondatore del partito fascista norvegese e primo ministro dal febbraio 1942, Vidkun Quisling è il prototipo del “collaborazionista” (sarà giustiziato a Oslo il 24 ottobre 1945).
In Italia – a seconda dell’angolo visuale – sono traditori Badoglio e il re, Mussolini e i gerarchi che l’hanno sfiduciato, gli ufficiali che combattono le truppe tedesche e quelli che si alleano con l’invasore tedesco. Molti antifascisti considerano traditori al tempo stesso Mussolini e Badoglio, anche se pochissimi tra loro hanno scelto dall’inizio della guerra di collaborare con gli Alleati in nome della libertà.
Da Monaco, Mussolini il 18 settembre annuncia il rientro sulla scena e la rinascita del suo movimento. Cinque giorni dopo, il primo Consiglio dei ministri del costituendo Stato si riunisce all’ambasciata tedesca, a Roma, dove il segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, rende omaggio al «Capo Supremo della nuova Germania nazionale Socialista, Adolfo Hitler». Una genesi rivelatrice dell’estensione collaborazionista della Repubblica sociale italiana, denominazione assunta a inizio dicembre, quando il governo si è insediato sulla sponda bresciana del lago di Garda, tra Salò e Gargnano, residenza del duce.
Goebbels riporta nel suo diario le impressioni di Hitler dopo il suo incontro con Mussolini liberato:
Il Führer si aspettava che, per prima cosa, il Duce si preoccupasse di vendicarsi ampiamente su chi l’aveva tradito. Ma Mussolini non ha mai dato a vedere di voler far nulla di simile, e con ciò ha dimostrato quali sono i suoi limiti oltre i quali non saprà mai andare. Non è un rivoluzionario come il Führer o Stalin. È così legato alla sua italianità che gli mancano le qualità del rivoluzionario e del sovvertitore mondiale.
Praticamente negli stessi giorni, il 17 settembre, Hitler ordinava alle truppe del maggiore von Hirschfeld, giunto il giorno prima a Cefalonia, di non fare prigionieri tra i soldati della Divisione italiana “Acqui”, considerato il suo «comportamento improntato al tradimento e alla perfidia». Nell’isola greca, occupata dal 1941, sono presenti più di 10.000 soldati e 500 ufficiali italiani, cui si sono aggiunti nell’agosto 1943 circa 1800 tedeschi. Nella primavera di quell’anno i comandi germanici hanno preparato il piano Alarich, che prevede l’occupazione dell’Italia in caso di rottura dell’alleanza, e nell’estate il piano Achse, che stabilisce il disarmo e la deportazione delle truppe italiane che non intendono continuare a combattere con la Germania.
Anche nella penisola i primi tentativi di resistenza sono condotti dai comandi inferiori, mentre quelli superiori si danno alla fuga o collaborano apertamente con i nazisti. In molti casi i tedeschi uccidono in modo illegittimo e vendicativo gli ufficiali che osano prendere alla lettera gli ordini di un governo in fuga derivati dall’armistizio. Soprattutto fra le unità militari fuori d’Italia muoiono «in stragi “sistematiche” uomini con gradi elevati ed elevate responsabilità e giovanissimi sottotenenti di complemento, militari di professione e soldati di guerra, a Kos, Leros, Spalato, Krujë, Kuç, Corfù e Cefalonia e in altri luoghi, la maggior parte dei quali mai entrati nella memoria collettiva del paese. A Cefalonia e non altrove, però, oltre all’eccidio metodico e organizzato degli ufficiali, accadde qualcosa in più, cioè la strage indiscriminata dei soldati che man mano si arrendevano durante i giorni della battaglia».
Sui combattimenti e sulla strage di Cefalonia non esiste ancora una narrazione storica pienamente condivisa, anche per le lunghe e complesse vicende giudiziarie che ne hanno accompagnato la memoria pubblica e per le testimonianze discordanti rilasciate dai sopravvissuti. Già il 10 settembre, comunque, l’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), l’alto comando delle forze armate tedesche, aveva dato l’ordine di fucilare gli ufficiali italiani che avessero resistito, considerandoli franchi tiratori, e l’11 e poi di nuovo il 15 settembre esso era stato trasmesso a tutti i reparti. A prevalere, tra i soldati e gli ufficiali italiani, era certamente «la volontà di tornare in patria con sicurezza, con le armi e con il proprio onore», ma la difficoltà di ottenere questo risultato «avrebbe trasformato il punto di svolta rappresentato dall’armistizio in una scelta di lotta».
L’11 settembre, lo stesso giorno in cui dal “Regno del Sud” si ordinava al generale Antonio Gandin di resistere alle forze tedesche, i reparti italiani si ritirano dall’altura di Kardakata, probabilmente per il calcolo dello stesso comandante Gandin di mostrare ai tedeschi la buona volontà di un’intesa: una decisione gravida di conseguenze, poiché «Kardakata avrebbe rappresentato il cuore strategico della battaglia di Cefalonia, e quindi della vittoria tedesca, insieme, ovviamente, al “monopolio” dell’arma aerea da parte delle forze del Reich». Due giorni dopo giunge a Cefalonia il comandante della 22a Armata tedesca, il generale Humbert Kanz, che impone a Gandin la consegna di tutte le armi. A propendere per la resa (in base a una valutazione militare di lunga prospettiva) sono il comandante e la maggior parte del comando di divisione; a volersi battere (sulla base della preponderanza numerica) i comandi di Marina, Artiglieria, Carabinieri e gli ufficiali inferiori. Questo è il motivo della consultazione tra i reparti, passato alla storia come un “referendum” tra i soldati, in ogni modo un «gesto irrituale da parte di un comandante, sensibile verso i sentimenti della truppa in una situazione eccezionale».
La risposta di Gandin, come risulta in quasi tutte le opere a carattere memorialistico e storico, è perentoria: «Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione “Acqui” non cede le armi». Ma questa risposta costituisce, ancora oggi, un interrogativo irrisolto sulle vicende di Cefalonia. Nell’unico documento disponibile, che è di parte tedesca (il Diario di guerra del 22° Corpo d’armata da montagna), la risposta sarebbe stata meno categorica e assai più articolata: «La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di radunarsi nella zona di Sami, poiché teme di essere disarmata contro tutte le promesse tedesche. La Divisione intende restare sulle sue posizioni fino a quando non otterrà assicurazione […] che essa possa mantenere le sue armi e che solo al momento dell’imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La Divisione assicurerebbe, sul suo nome, che non impiegherebbe le armi contro i tedeschi. Se ciò non accadrà la Divisione preferirà combattere piuttosto che subire l’onta della cessione delle armi ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia Divisione».
La sostanza, in ogni modo, è una risposta negativa all’ultimatum tedesco, anche se si tratta di una “comunicazione neutra” in cui il generale spiega «le ragioni del no alle condizioni tedesche e ribadendo le richieste italiane, ma il tono lasciava ancora aperta la possibilità di continuare le trattative». All’alba del 15 settembre, con un attacco aereo tedesco, inizia la battaglia. La prima fase sembra arridere agli italiani ma presto giungono sull’isola cospicui rinforzi, inclusi il 98° e il 724° Reggimento che, impegnati nella guerra antipartigiana in Iugoslavia e Grecia, avevano massacrato civili nell’ottobre 1941 (a Kragujevac, con centinaia di vittime) e nell’agosto 1943 (villaggio di Kommeno). Il 17-18 settembre inizia la seconda fase della battaglia, durante la quale centinaia di soldati fatti prigionieri vengono uccisi. Nell’ultimo attacco, il 21-22 settembre, massacri ed eccidi avvengono in circa quaranta località dell’isola: la Divisione “Acqui” si arrende e termina la prima fase della strage di Cefalonia. La seconda, quella più nota, è costituita dalla condanna a morte e dall’esecuzione degli ufficiali, in una «rappresaglia “canonica”, simile cioè alle tante che, in quel periodo, riguardarono gli ufficiali italiani ritenuti dai tedeschi colpevoli di avere loro resistito, e quindi traditori».
La tragica fine dei soldati italiani è strettamente connessa alla situazione confusa, sul piano militare come su quello diplomatico, che è conseguenza della gestione dell’armistizio da parte del governo, della monarchia e degli alti comandi militari.
Non è soltanto un episodio isolato, esso rientra nella più complessa e articolata dimensione europea della guerra condotta dal Terzo Reich alla quale non partecipano solo alcuni corpi speciali, ma anche la Wehrmacht, l’esercito tedesco […]. Le stragi, le rappresaglie, i paesi minati, non saranno soltanto l’espressione di una strategia bellica basata, da una parte, sul rallentare la marcia dell’esercito angloamericano e, dall’altra, sul fare terra bruciata attorno ai partigiani sterminando la popolazione civile che li sosteneva; le stragi sono soprattutto la conseguenza prioritaria dell’ideologia razzista del regime nazista e della sua applicazione sul piano militare.
La Resistenza degli internati militari
Quasi 700.000 soldati italiani, che si trovano nei Balcani e nel mar Egeo, all’indomani dall’8 settembre cambiano di stato, passando da militari occupanti a esercito sconfitto. La decisione, presa dal re, da Badoglio e dagli alti gradi militari, di non avvisare le divisioni di stanza all’estero dell’armistizio imminente e la scelta di non accordarsi con gli angloamericani per organizzarne la resistenza con un passaggio nel fronte di guerra ebbero come effetto prevalente la resa senza combattere di fronte all’occupazione da parte dei tedeschi dei territori dove essi fino a quel momento erano stati alleati degli italiani. Se si escludono poche eccezioni – di cui la più rilevante è Cefalonia – nelle regioni in cui il regio esercito era forza di occupazione non fu possibile, o fu impedita, la strada del combattimento e della resistenza contro l’esercito tedesco. Per molti soldati la scelta divenne quella tra la resa e l’internamento in Germania, la collaborazione con i tedeschi proseguendo l’alleanza e sconfessando la scelta del re e del governo, il passaggio tra le file dei partigiani locali (greci e iugoslavi) combattuti fino a quel momento con determinazione. In Montenegro, ad esempio, prevarrà la decisione di collaborare con i partigiani locali creando la Divisione Garibaldi che combatterà fino al 1945, come unità del regio esercito, nel 2° Korpus dell’Esercito popolare di liberazione iugoslavo.
È una sorte analoga a quella dei soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre, che in minoranza combattono o fuggono sui monti per creare le prime bande, in maggioranza cercano di nascondersi e in parte vengono disarmati e arrestati dall’esercito tedesco. L’accusa di tradimento mossa immediatamente da Hitler nei confronti degli italiani, la liberazione di Mussolini e la creazione della Repubblica sociale italiana si accompagnano – già dal 20 settembre 1943 – alla decisione di trasformare i prigionieri di guerra in “internati militari” (ItalianischeMilitärinternierten): una definizione priva di senso giuridico, che peserà profondamente sul loro destino.
Il numero complessivo dei militari italiani che si arresero fu di circa 400.000 nell’Italia centro-settentrionale, mentre altri 100.000 vennero catturati nella zona di Roma e nell’Italia meridionale. In Francia i soldati disarmati furono circa 60.000 e in Iugoslavia e Albania furono fatti prigionieri 165.000 militari mentre in Grecia e nelle isole dell’Egeo si arresero circa 265.000 uomini. In totale, quindi, nelle giornate successive all’8 settembre, furono complessivamente un milione circa i militari catturati dai tedeschi. Di questi, solo 190.000 decideranno di continuare a combattere con la Germania.
Tra gli internati vi sono noti intellettuali quali il giornalista Giovannino Guareschi, ufficiale d’artiglieria di sentimenti monarchici, e il vignettista Giuseppe Novello.
Un ufficiale del regio esercito deportato nel settembre 1943 è l’insegnante Paride Piasenti, che svolge nel Lager una funzione di coordinamento (nel dopoguerra fonderà l’Associazione nazionale ex internati e diverrà parlamentare democristiano).
Già all’indomani dell’8 settembre il comando della Wehrmacht, l’OKW, aveva emanato direttive lesive del diritto internazionale ispirando vendette e rappresaglie per il “tradimento” italiano che condussero in numerose località, nella penisola, in Grecia e nei Balcani, a stragi e violenze contrarie al diritto di guerra. Del milione di soldati italiani disarmati sono 650.000 i prigionieri rapidamente condotti nel Reich o nei campi del Governatorato generale che, per il governo nazista, costituiscono l’occasione per far fronte a una forte carenza di manodopera. Circa 100.000, invece, rimarranno nei Balcani e in Francia a lavorare per la Wehrmacht in fabbriche locali. Lo Stato Maggiore tedesco concorda con il ministro degli Armamenti Albert Speer l’utilizzo degli italiani rimasti fedeli all’alleanza non in unità militari, ma al massimo come ausiliari o lavoratori volontari. Il trattamento degli altri dipende dalla volontà di rappresaglia o di sfruttamento da parte dei tedeschi, che intendono far loro pagare il tradimento, senza considerarli prigionieri per sottrarsi agli obblighi che altrimenti avrebbero – sulla base delle convenzioni internazionali – nei loro confronti. La parvenza di un’alleanza rifondata con il nuovo governo mussoliniano legittima l’occupazione militare nel Centro-Nord e pone a tutti gli “internati” la scelta tra l’adesione alla RSI e il lavoro coatto nel Reich. Fino al marzo 1944 si reitera la proposta di scegliere l’alleanza fascista-nazista e sfuggire, così, alle terribili condizioni dei campi di prigionia e lavoro.
Gli internati militari italiani (IMI), sottratti al ruolo naturale di prigionieri di guerra, non erano più garantiti dal rispetto della convenzione di Ginevra e dal controllo della Croce Rossa. Le condizioni cui dovettero sottostare – mancanza di igiene, alimentazione scarsissima (tra 700 e 1000 calorie al giorno), lavoro duro per almeno dodici ore giornaliere, angherie e violenze di ogni genere, sovraffollamento nelle baracche, freddo eccessivo nei mesi invernali, mancanza di informazioni e contatti – dipendevano al tempo stesso dalla volontà di punire e dal suggerimento di cedere da parte dei tedeschi, ma la reazione largamente maggioritaria fu, invece, quella di una resistenza tenace e coerente. Si è calcolato che soltanto tra il 10% e il 20% dei soldati e degli ufficiali accolse l’invito a collaborare con la Wehrmacht o la RSI, mentre la maggioranza rimase fedele al giuramento fatto al re. Dalle tantissime testimonianze accumulate nel tempo emerge come il senso dell’onore patriottico abbia rappresentato la molla più significativa, almeno esplicitamente; insieme, però, a un deciso e crescente rifiuto del fascismo e della guerra che solo per una minoranza si manifestava con una scelta consapevole di antifascismo. Per tutti, comunque, può valere la sintesi lasciata da uno di essi, Giovannino Guareschi (uno degli scrittori più letti del dopoguerra):
Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire. Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, diecine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato.
Le ragioni del rifiuto a sottostare alle pressioni e alle minacce tedesche, estrapolate dalle memorie e testimonianze disponibili, sono state riassunte in una classificazione che vede prevalere (30%) le giustificazioni militari, seguite da quelle etiche (26%) e ideologiche (24%), cui si aggiungono per ultimi motivi legati all’antigermanesimo, alla diffidenza verso le promesse, al fatalismo. Il sentimento di onore militare e di rispetto del giuramento fatto al re risulta al primo posto, come è stato sempre ricordato, ma l’insieme di spinte etiche e ideologiche raggiungono complessivamente la metà delle motivazioni, contribuendo a dare un’immagine più complessa e compiuta della scelta antitedesca degli IMI. Motivi etici e ideologici certamente molto differenziati, ma che possono riassumersi in un ritrovato senso di autostima che la partecipazione alla guerra fascista aveva fatto perdere e che si intuiva dover essere recuperato con un comportamento coerente: «Esamino me stesso e constato che – più di altri – ho conservato, nonostante la fame, un fondo di dignità».
L’inserimento a tutti gli effetti degli IMI nell’ambito della Resistenza, cioè di chi in vario modo si oppose all’occupazione tedesca e fascista dopo l’8 settembre e si adoperò per la liberazione dell’Italia, è stato colpevolmente ignorato per alcuni decenni dopo la fine della guerra, a livello politico come sul piano storiografico. Il caso clamoroso delle memorie di Alessandro Natta – il quale aveva combattuto ed era stato ferito a Rodi e poi catturato e inviato in Germania nei Lager di Küstrin, Sandbostel e Wietzendorf – che nel 1954 vennero rifiutate per la pubblicazione da Rinascita, la casa editrice del Pci (di cui Natta era tra i principali dirigenti), indica come la mitologia della Resistenza “armata” nei confini italiani sia stata a lungo l’unica ammissibile all’interno del discorso pubblico; tant’è vero che solo nel 1998 verrà concessa dallo Stato italiano la medaglia d’oro all’“Internato ignoto” perché «per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera».
Basta pensare a cosa avrebbe potuto costituire l’oltre mezzo milione di internati che resistettero alle promesse e alle minacce tedesche, se avessero accettato di tornare in Italia inquadrati in reparti per proseguire la guerra dalla parte nazifascista. La resistenza degli internati bloccò, in un modo per loro foriero di sofferenze a lungo dimenticate, la possibilità che tanti italiani si schierassero dalla parte sbagliata. In modo analogo, in condizioni diverse, si comportarono coloro che evitarono di presentarsi ai bandi di arruolamento della RSI e che costituirono la larga maggioranza delle classi giovanili richiamate. Si trattò di una resistenza militare e politica al tempo stesso.
E se il no del primo periodo della prigionia aveva avuto soprattutto un significato e un sapore antitedesco, quello dell’inverno 1943-44 si configurò come una netta e vigorosa presa di posizione antifascista, come uno scacco dato al nemico “politico”. In questo mutare della prospettiva e dell’obiettivo principale si può misurare il cammino percorso dalla resistenza, il suo politicizzarsi, perché le ragioni iniziali non avrebbero mantenuto così saldo e compatto il fronte degli internati se esse non fossero state convalidate e inverate da più profondi e seri motivi politici.
È soprattutto tra questi uomini, militari legati a un senso dell’onore diverso da quello che aveva cercato di inculcare in loro il fascismo, che motivazioni ed esperienze differenti finirono per dar luogo a una comportamento condiviso che permise un comune atteggiamento di resistenza accanto ai tanti che, nello stesso periodo, maturavano e si manifestavano in Italia.
Ma a dare vigore e maturità alla resistenza nei lager, facendone un episodio vero e proprio della lotta di Liberazione, contribuì soprattutto l’opera di chiarificazione e di educazione politica e culturale che venne svolta tra gli internati, in particolare nei campi ufficiali. Un ricordo personale mi consente di mettere in luce l’origine e il senso di un’attività che acquistò, a partire dal primo inverno, un rilievo e un’importanza notevoli. La sera in cui il mio gruppo giunse a Mühlberg sull’Elba, dopo l’interminabile viaggio, il colonnello Imbriani mi pregò di fare una conferenza per “tenere su il morale” dei compagni di prigionia. Nella fredda baracca del nostro primo lager dissi tutto ciò che ricordavo di Carlo Cattaneo, delle 5 Giornate, del glorioso ’48. Ascoltarono quasi tutti e in tutti vi fu interesse e commozione.
La Resistenza nel confine orientale: la battaglia di Gorizia
Il problema della patria e del tradimento si pone – su un piano diverso – anche dove la Resistenza è iniziata precedentemente, nella zona della provincia di Lubiana, conquistata con la guerra, e in Istria e Venezia Giulia dove il fascismo ha oppresso per un ventennio con estrema spietatezza le minoranze slave. In entrambe le regioni, sia pure in modo differente, la lotta partigiana si manifesta già nel 1942. Tra il maggio e il dicembre si risponde con il metodo del terrore, rivendicato dal generale Taddeo Orlando, comandante della 21a Divisione fanteria “Granatieri di Sardegna” (successivamente sottosegretario e ministro della Guerra nei governi Badoglio e comandante generale dell’Arma dei carabinieri dal luglio 1944): «Dobbiamo ripristinare la supremazia e l’onore degli italiani, anche se per ciò dovessero scomparire tutti gli sloveni e la Slovenia fosse distrutta».
In Venezia Giulia il clima di “guerra totale”, divenuto dopo l’8 settembre esteso e permanente, imperversava da almeno un anno, a opera dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza, gestito con pugno di ferro da Giuseppe Gueli (che sarà in seguito al 25 luglio il responsabile della prigionia di Mussolini sul Gran Sasso) contro l’attività antifascista in genere e i partigiani slavi in particolare. Nello stesso periodo, la nuova provincia italiana di Lubiana è controllata da quasi 300.000 soldati; altrettanta violenza viene esercitata in Dalmazia, con eccidi e torture: a Podhum, che segna il culmine di una serie di crimini di guerra, in attuazione delle direttive del generale Roatta, vengono uccisi nel luglio 1942 tutti i maschi (circa 200) tra i 16 e i 55 anni, e il paese viene dato alle fiamme; nei campi di concentramento – tra i quali spicca quello dell’isola croata di Arbe, con 10.000 prigionieri in un anno e un tasso di mortalità del 15% – sono stipati oltre 30.000 deportati. Come ammetterà il generale Quirino Armellini, comandante delle truppe in Dalmazia, si era commesso «un grossolano errore» con la fascistizzazione e l’italianizzazione coatta e violenta, ottenendo invece «l’esasperazione degli animi, il rinfocolare dell’odio, il desiderio di rivolta».
Dopo il 25 luglio la Wehrmacht già assorbe nelle regioni balcaniche i reparti italiani, preparando il successo del piano Achse e il disarmo del regio esercito dopo l’8 settembre. L’occupazione dei grandi centri – Trieste, Monfalcone, Lubiana – è rapida e completa, con l’esclusione di Gorizia dove ha luogo tra l’11 e il 26 settembre uno dei primi e più importanti fatti d’arme legati all’armistizio, una battaglia che vede partigiani sloveni e italiani contrapposti alle forze armate germaniche. Alla vigilia dell’armistizio esisteva già il “Distaccamento Garibaldi” con circa una trentina di uomini, comandato dall’operaio di Muggia Piero Mercandel e con commissario politico Mario Karis, condannato dal Tribunale speciale nel 1930, che all’inizio del 1943 aveva creato nel Collio una base di aiuto per gli antifascisti italiani ricercati e di informazioni per i partigiani sloveni.
Si tratta del primo, ancora numericamente modesto, volontarismo partigiano della zona. È un pionierismo che stenta ancora ad incidere sull’opinione pubblica locale ma che ha un significato politico preciso. Con esso si apre una fase nuova per l’antifascismo italiano […]. La realtà partigiana slovena stimola la presa di coscienza della necessità di una lotta armata che ha i suoi precursori italiani sia nella Venezia Giulia che oltre confine.
Un’esperienza analoga, iniziata sul terreno logistico (invio di armi, aiuti, contatti, propaganda, reclutamento), è quella di Vinicio Fontanot, di Ronchi, che per sottrarsi all’arresto aveva raggiunto un reparto partigiano sloveno vicino a Ranziano e contribuito con Mario Lizzero alla creazione delle prime bande nel Friuli e nella Venezia Giulia. Il destino della famiglia Fontanot (il padre Giovanni morto a Dachau, due fratelli di Vinicio, Licio e Armido, morti nel corso della Resistenza nel 1944, due zii e un cugino morti tra i maquis francesi: una brigata del 7° Korpus sloveno nella provincia di Lubiana viene denominata “Fratelli Fontanot”) mostra l’importanza, soprattutto nella fase iniziale, dei legami familiari e amicali nello spingere i giovani a scelte politiche e militari consapevoli.
Dai cantieri di Monfalcone centinaia di giovani – alcune testimonianze parlano di quasi 2000 uomini – vanno a ingrossare le file degli insorti. Complessivamente
si calcolano a 3-4000 i volontari civili (tra cui numerosi ex detenuti politici sia italiani che sloveni, liberati dalle carceri a Trieste sotto la pressione popolare) che si uniscono alle formazioni partigiane in Istria, nel Triestino e nel Goriziano. La maggior parte di questi volontari costituisce gruppi autonomi o si aggrega alle formazioni italiane come la brigata Trieste e i gruppi “gappisti” di Muggia […]. Di queste formazioni non sono più rimasti neanche i nomi. La più celebre delle unità di quel periodo fu senza dubbio la brigata “Triestina”, cioè la “Proletaria”. Il nome di “Triestina” data alla “Proletaria” si spiega con la decisione di attuare una riorganizzazione generale dei reparti italiani e sloveni disposta dal comando sloveno alla vigilia del grande attacco tedesco del 25 settembre.
Alla costituzione della Brigata “Proletaria” partecipa Ondina Peteani – che aveva iniziato la militanza antifascista ai cantieri navali, dove faceva l’operaia, in contatto con il gruppo dell’Università di Padova guidato da Eugenio Curiel –, considerata la prima “staffetta” della Resistenza, poi arrestata e rinchiusa ad Auschwitz e Ravensbrück da dove riuscirà a fuggire nell’aprile 1945.
La “Proletaria”, comandata da Ferdinando Marega, è organizzata in tre battaglioni: alla loro testa ci sono lo sloveno Dušan Faganel, l’ufficiale Giuseppe Petroni e Vinicio Fontanot, che hanno come commissari politici Camillo Donda, Giovanni Calligaris e Valerio Bergamasco. Cerca di raggiungere, senza riuscirci, Gorizia prima dell’arrivo dell’esercito tedesco, secondo il piano preparato dal comando sloveno. Occupa allora la stazione della città e l’aeroporto militare e si posiziona dove riesce a interrompere i collegamenti tedeschi tra Gorizia e Trieste, facendo saltare alcuni ponti sul Vipacco, affluente dell’Isonzo. Anche soldati dispersi dell’esercito italiano si aggregano alla battaglia, che sul fronte goriziano coinvolge circa 5000 combattenti, 700 dei quali appartenenti alla “Proletaria”. Il generale Licurgo Zannini, comandante del 24° Corpo d’armata di stanza a Udine, mentre i partigiani tentano di difendere Gorizia raggiunge un accordo con i tedeschi permettendo loro di attraversare le zone controllate dai suoi uomini e riprendere così il controllo della città. Gli uomini della Divisione “Torino”, che per due giorni si sono opposti ai tedeschi, adesso sono divisi, non sanno se raggiungere i partigiani (alcuni lo hanno già fatto) o obbedire al nuovo comandante dopo che il generale Bruno Malaguti è stato destituito da Zannini perché ostile ai tedeschi. Malaguti riuscirà, prima di venire arrestato dai tedeschi e deportato in Polonia, a liberare i prigionieri politici e i detenuti nei campi di concentramento. Morirà nel dicembre 1945 per gli effetti delle privazioni patite in prigionia.
L’ingresso dei reparti germanici in città avviene tra applausi e lanci di fiori: «Era il segno di quel collasso politico e morale che le vicende armistiziali, la tradizionale ostilità e paura degli slavi, e l’identità fra italianità e fascismo predicata per anni, avevano provocato in alcuni strati della piccola e media borghesia urbana».
La battaglia presso la stazione ferroviaria di Gorizia rappresenta, probabilmente, il primo episodio di guerra civile tra italiani, alcuni dei quali, su versanti contrapposti, appartenenti fino a pochi giorni prima alla stessa divisione. Proprio alla stazione, infatti, che era occupata dal secondo battaglione della “Proletaria”, «in ottemperanza agli ordini di Zannini i carabinieri e la guardia di finanza si erano posizionati, in armi, con l’intento di attaccarla e liberarla dai ribelli». Un primo attacco condotto da tedeschi con l’ausilio italiano è respinto e per ben tre volte i partigiani prevalgono sugli assalitori. Poi, di fronte alla soverchiante forza nemica, decidono di ritirarsi, senza venire inseguiti perché ritenuti numerosi, bene addestrati e armati. La mattina del 14 settembre la bandiera tedesca sventola a Gorizia, anche se il circondario è ancora in mano ai ribelli e anche se vicino a Merna e a Peci, sul fiume Vipacco, i restanti battaglioni della “Proletaria” bloccano i tedeschi in arrivo da Trieste e Monfalcone.
Mentre iniziano le deportazioni di soldati e ufficiali della Divisione “Torino” (che resiste ai tedeschi sino all’11 settembre, ma deve poi cedere per ordine del comando della 24a Armata di Udine), tra il 12 e il 16 i combattimenti proseguono senza segnare la vittoria di uno dei contendenti; la “Proletaria” cerca di sabotare l’aeroporto riconquistato dai tedeschi e respinge gli attacchi lungo il Carso vicino a Merna. Tra il 18 e il 20 settembre la pressione tedesca aumenta, dopo l’ordine del Führer – registrato dal Diario dell’OKW alla data del 15 settembre – di combattere “le bande italiane” nell’Italia settentrionale, con chiaro riferimento ai partigiani operanti nella Adriatisches Küstenland, la zona di operazioni che include Venezia Giulia, Friuli e le province di Lubiana, Gorizia e Fiume, sotto il diretto controllo germanico.
La battaglia di Gorizia, tra circa 10-15.000 partigiani e 45-50.000 soldati tedeschi, termina il 26 settembre con la vittoria tedesca, ed è considerata «un episodio-chiave del ciclo operativo germanico nell’Italia del nord e la prima fase di una serie di operazioni predisposte da Rommel e collegate agli importanti settori sloveno e croato». Un rapporto dell’OF (Osvobodilna Fronta, Fronte di liberazione del popolo sloveno) afferma che la ritirata si è svolta in ordine e con scarse perdite; a fronte delle rappresaglie e degli eccidi di truppe tedesche e reparti fascisti contro i villaggi e le popolazioni locali, piccoli gruppi partigiani si mimetizzano in luoghi fuori mano, alcuni si sbandano e altri ancora occultano le armi per disseppellirle all’occasione propizia: «L’esperienza fatta, la forte coscienza antifascista, la presenza di unità partigiane sul Carso, sulle Prealpi Giulie, il germinare di gruppi “gappisti” quasi sempre di estrazione operaia, nel Monfalconese e nella Bassa friulana, indussero centinaia di uomini a riprendere la lotta». A fronte del centinaio di morti della Brigata “Proletaria” nei combattimenti contro i tedeschi, vi sono, in quella stessa zona, migliaia di soldati e ufficiali italiani arresisi e internati nei campi di prigionia e di lavoro della Germania.
Sul terreno militare si era trattato certamente di una sconfitta, ma i tedeschi avevano dovuto riconoscere – scrivendolo con preoccupazione sul proprio bollettino militare – che le bande nei dintorni di Gorizia erano numerose e agivano con determinazione. Considerando che prima dell’armistizio, tranne diversi casi individuali e piccoli gruppi, gli italiani non avevano mai accolto l’invito fatto loro dagli sloveni fin dal 1941 a imbracciare le armi, pur contribuendo in molte occasioni ad aiutare i partigiani dell’esercito di liberazione iugoslavo, si poteva sostenere che «la battaglia di Gorizia era stata un turning point della lotta antifascista nella regione, gli operai italiani avevano imbracciato le armi per la prima volta ma non sarebbe certo stata l’ultima».
Le foibe istriane del 1943
Mentre infuria la battaglia di Gorizia, in Istria il Comitato popolare di liberazione (CPL) proclama, il 13 settembre, l’annessione alla Croazia, confermata nelle settimane successive dal Consiglio antifascista di liberazione nazionale iugoslavo (AVNOJ), anche se questa notizia suscita una reazione negativa da parte di Tito. In una parte del territorio istriano, già prima dell’8 settembre privo di controllo, con l’armistizio si vive un vuoto di potere che favorisce l’emergere del potere partigiano e di rivolte rurali contro i possidenti. In questo clima e in questa situazione, mentre l’esercito tedesco procede a riconquistare quella che è diventata la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (OZAK), hanno luogo violenze contro i civili che coinvolgono il movimento partigiano: le “foibe istriane” del settembre-ottobre 1943. Il presidente del CPL istriano, Joakim Rakovac, aveva assicurato i comunisti italiani che dopo l’insurrezione i fascisti sarebbero stati sottoposti a processo impedendo vendette e procedimenti sommari.
L’insurrezione, accreditata poi come tale dalla storiografia ufficiale iugoslava, è in realtà un movimento spontaneo e poco coordinato che, in una prima fase, crea organismi provvisori di potere che solo in seguito – con il controllo militare e politico del Movimento popolare di liberazione iugoslavo e l’arrivo in Istria di quadri dirigenti del Partito comunista croato – troveranno una sia pur estremamente provvisoria sistemazione.
Sulla base della documentazione e dei contributi che storici croati, italiani e sloveni hanno prodotto nell’ultimo ventennio, si può sintetizzare il massacro delle foibe istriane in questi termini. Nella situazione di vuoto di potere si assiste parallelamente all’occupazione di cittadine e villaggi da parte dei partigiani iugoslavi, con rivolte popolari caratterizzate da violenze contadine contro i proprietari terrieri. L’anelito a lungo compresso alla libertà e il desiderio di vendetta per le sofferenze e i soprusi patiti da una popolazione che nell’entroterra è a maggioranza slava favoriscono l’intreccio tra spinte nazionalistiche e tendenze rivoluzionarie, tra il desiderio di cacciare gli invasori italiani e la volontà di eliminare la borghesia e far trionfare un progetto socialista.
La violenza si manifesta, inizialmente, contro gerarchi e funzionari civili e militari del governo fascista, ma anche contro possidenti e notabili che rappresentano, agli occhi degli insorti, gli elementi della minoranza nazionale italiana che hanno collaborato a opprimere la maggioranza croata e slovena della popolazione. A uomini del Partito fascista si affiancano soldati e ufficiali della Milizia, funzionari statali di vario grado, proprietari terrieri, farmacisti, insegnanti, commercianti. Le vittime di queste prime foibe sono – per quanto sia difficile fare un computo preciso – tra 500 e 700. Ad agire, in molti casi, sono “giustizieri improvvisati”, tra i quali figurano anche italiani, che si presentano come “guardie della rivoluzione” e danno un carattere al tempo stesso politico e sociale alla propria aggressività: «scene di violenza si ripetevano un po’ dappertutto a opera delle forze popolari improvvisate che s’impossessarono tra il 9 e l’11 settembre dell’intera penisola, a parte Pola, Dignano (Vodnjan), le isole Broni, Capodistria e Isola».
Il numero degli insorti si aggira attorno ai 12.000 uomini, guidati prevalentemente da quadri comunisti, anche se non sempre è così. Le direttive politiche di non procedere a esecuzioni sommarie sono spesso ignorate, anche per il carattere fluido dell’occupazione e la presenza di persone che, per ideologia politica o motivi personali, intendono procedere come “vendicatori” di un ventennio di angherie e persecuzioni. La 13a Divisione del NOVJ, dopo aver sconfitto un battaglione di alpini, tra l’11 e il 12 settembre occupa Pisino, quasi al centro dell’Istria, e istituisce nel castello di Montecuccoli un tribunale rivoluzionario, capeggiato da Ivan Matka, presidente della Commissione regionale del Fronte di liberazione nazionale per l’Istria.
Anni più tardi un esponente del Partito comunista della Croazia in Istria, Bo�o Kali, si vantò pubblicamente di avere “liquidato” 82 fascisti per vendicare le 82 vittime “cadute all’incrocio di Tina” (località dove si verificò uno scontro tra partigiani e tedeschi). Le prime esecuzioni ordinate dal Tribunale di Pisino furono eseguite il 19 settembre alle cave di bauxite locali; dato però che uno dei condannati riuscì a fuggire, si decise che in futuro le fucilazioni sarebbero avvenute nelle vicinanze di “foibe” dove seppellirli.
La giustificazione, data sin da allora, di «fenomeni marginali, dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili» o al carattere spontaneo di una reazione popolare alla lunga oppressione fascista, o alla presenza di «elementi estremisti e facinorosi o anche psicopatici» è accettabile solo in minima parte, sebbene vi fossero eventi ascrivibili a simili cause. Al di là delle uccisioni maggiormente “spontanee”, quelle stabilite dal Tribunale rivoluzionario giudicarono e giustiziarono gli arrestati sulla base del loro essere “nemici del popolo”, una categoria abbastanza ampia in cui far confluire non solo fascisti e collaboratori del regime ma chiunque non si schierasse apertamente con l’esercito partigiano. Una categoria, non va dimenticato, che aveva avuto soprattutto negli anni Trenta una sua grande rilevanza nella tradizione comunista sovietica, e che sarà ampiamente ripresa negli anni successivi alla fine della guerra.
A testimoniare la gravità delle violenze perpetrate nelle foibe istriane non vi è solo la ferocia ingiustificata e del tutto illegale di quelle azioni, ma la stessa riflessione che, poco più di un mese dopo, avviene all’interno del movimento partigiano croato e italiano. Il 6 novembre Zvonko Babi-�ulje relaziona al comando dell’Armata di liberazione popolare di Croazia: «La lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in modo diseguale, che in alcune località si è rivelata del tutto inadeguata e in altre è stata invece radicale. È sintomatico a riguardo il fatto che in molti luoghi gli istriani non volevano eseguire le esecuzioni […]. Non è stato costruito nessun campo di lavoro e i nemici nazionali sono stati puniti con la morte, fra loro anche alcuni sacerdoti».
La confessione di Anton Gregorovich, giudice istruttore presso il comando partigiano di Pisino, arrestato il 15 ottobre a Pola dai tedeschi, rievoca «lo stato di caos in cui versava il Movimento di Liberazione, l’improvvisazione e il potere arbitrario dei singoli, assetati di vendetta, ma anche la loro adesione al modello della “violenza rivoluzionaria” bolscevica, oppure a quella mussoliniana della “violenza militare”. In fin dei conti, questi erano gli unici due modelli cui potevano fare riferimento». Nella conferenza dei comunisti istriani tenutasi nel dicembre 1943, dopo che il Partito comunista italiano aveva espresso una protesta ufficiale, il dirigente di Rovigno Giuseppe Budicin, condannato due volte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato (e che sarà ucciso dai fascisti nell’aprile 1944), «rivolse un aperto rimprovero ai dirigenti del PCC in merito alle responsabilità sui fatti delle foibe e ad altri incidenti di stampo nazionalista verificatisi durante l’insurrezione, rinfacciando loro di avere mancato alla parola data: fatto che, a suo dire, stava causando un certo disorientamento tra l’elemento italiano e non pochi danni al Movimento di liberazione».
Tra le motivazioni della violenza, tanto nelle testimonianze quanto nella riflessione storica, permangono contrapposti, quasi si dovesse scegliere tra l’uno o l’altro, motivi di classe e di comportamento rivoluzionario, tipici della tradizione comunista dell’epoca che aveva alle spalle la vicina esperienza della guerra civile spagnola, e scelte di carattere nazionalistico ed etnico, tentativo di escludere, nella guerra di liberazione, la convivenza con chi aveva assunto complessivamente l’immagine e l’identità del nemico: «le azioni di polizia contro i “nemici del popolo” decise dal Comando di Pisino sono un’indicazione di percorso nella quale s’inseriscono le rabbie popolari, aprendo spazi di discrezionalità dove trovano posto le esecuzioni politiche mirate, ma anche gli odi personali e gli atti di criminalità comune». Non si può negare che la violenza, come accadde spesso e ovunque, «esercitava su molti combattenti una sua seduzione, anche se a posteriori venne giustificata come atto necessario, come risposta alla violenza altrui. L’esercizio della violenza diventava anche per numerosi combattenti una sorta di sfogo della pressione a lungo accumulata».
Le quattro giornate di Napoli
L’8 settembre nel Mezzogiorno è accompagnato da un elemento contrastante in modo palese con l’atteggiamento pavido, ambiguo o addirittura codardo mostrato dal re e da Badoglio in fuga proprio verso il Sud dell’Italia. Si è già visto come la resistenza mostrata a Barletta e a Bari, a Rionero in Vulture e poi a Matera, per non parlare della piccola “repubblica” di Maschito, costituissero momenti diversi di un fenomeno comune: la difesa contro la violenza dell’occupazione che le forze naziste stanno rapidamente imponendo in tutto il paese. «In Campania il lungo settembre del ’43 è scandito da eccidi, scontri a fuoco, rappresaglie, insorgenze popolari e assalti ai municipi».
La storia ha sempre ricordato quasi esclusivamente Napoli – e le sue “quattro giornate” – come centro di un episodio significativo di resistenza al Sud, di cui si è voluto spesso rimarcare la diversità e l’alterità rispetto alla Resistenza che avrebbe preso piede, negli stessi giorni, nel Centro-Nord della penisola. L’11 settembre a Castellammare di Stabia vengono giustiziati ufficiali e civili ribelli, incendiate le industrie della zona (Cirio, Voiello) e rastrellate migliaia di persone da deportare in Germania. La stessa violenza si manifesta a Napoli dopo la morte di sette tedeschi in una prima protesta popolare, mentre prefetto e commissario prefettizio collaborano con il comando germanico, e i generali Riccardo Pentimalli ed Ettore Del Tetto, dopo aver rifiutato di armare il popolo come richiesto dal Comitato dei partiti antifascisti, fuggono lasciando l’ordine di sparare sugli assembramenti di civili.
Il 12 settembre, debellata la resistenza di gruppi di militari e carabinieri, i tedeschi accerchiano e poi incendiano l’università: «Un’offesa certamente premeditata data la presenza, attestata da più testimoni oculari, di una macchina cinematografica montata su un camioncino parcheggiato dinnanzi all’ingresso dell’Ateneo». È da questo momento che le angherie e le violenze si susseguono e si moltiplicano: il 13 è affissa la proclamazione dello stato d’assedio e qualche giorno dopo si ordina lo sgombero della fascia costiera per trecento metri, lasciando senza casa 35.000 famiglie; vengono saccheggiati depositi militari e distrutti impianti industriali; si mettono a fuoco l’Ilva di Bagnoli ma anche i grandi alberghi del centro in via Partenope (Excelsior, Santa Lucia, Vesuvio, Royal, Vittoria). Le “quattro giornate” di Napoli, quindi, sono un evento assai più esteso cronologicamente: gli scontri dureranno tutto il mese.
Oggi si riconosce quasi unanimemente che, con questo evento, «si è in presenza di un episodio di lotta armata da inscrivere nella guerra partigiana. L’antifascismo propriamente inteso arriva dopo».
È naturalmente la guerra a catalizzare la ribellione, che coinvolge tutto il popolo, donne e uomini, ragazzi e anziani, impiegati e studenti, lavoratori e intellettuali, soldati e ufficiali. Le agitazioni si diffondono nei quartieri di antica tradizione antifascista e nei rioni borghesi. Già il 22 settembre al Vomero gruppi di civili si impadroniscono delle armi abbandonate dal regio esercito, e l’indomani solo 150 persone si presentano al servizio di lavoro obbligatorio imposto dal colonnello Walter Scholl con la minaccia di fucilare i 30.000 renitenti; il 26 sono le donne ad assaltare i camion che dovrebbero trasportare i rastrellati. Il terrore della deportazione forzata spinge all’insurrezione generalizzata.
Si insorge perché stanchi delle angherie dei tedeschi – dal 23 al 24 settembre oltre 200.000 napoletani si ritrovano senza casa per l’evacuazione forzata di alcuni quartieri –, ci si batte per impedire l’invio di migliaia di “schiavi” nelle officine belliche del Terzo Reich, per scongiurare la riduzione della città a “fango e cenere”, ma anche sotto la spinta di imperativi civili e politici, che ispirano la scelta di affrontare a viso aperto i “moderni unni meccanizzati” nonché i “cainifascisti”, sulla cui presenza – ci si riferisce soprattutto al ruolo dei cecchini – spesso è caduto il silenzio.
Sono 17 i gruppi rionali armati che si formano in quei giorni e tra essi ci sono oltre 700 militari e una cinquantina di ufficiali e sottufficiali. Si combatte dappertutto: al Vomero come a piazza Garibaldi, a piazza Trieste e Trento come a Capodimonte e nei sobborghi, a Ponticelli come a Piscinola, a Barra come a Soccavo. I cittadini coinvolti sono oltre 2000, in molti casi adottano tecniche di guerriglia che prendono alla sprovvista i tedeschi e li costringono alla ritirata; è la prima città europea a liberarsi da sola. Le quattro giornate di Napoli «nacquero come moto spontaneo ma svilupparono processi di organizzazione, nacquero come rivolta spontanea di resistenza civile e raggiunsero l’obiettivo di impedire la deportazione degli oltre ottomila napoletani rastrellati. Nel corso degli eventi acquisirono la configurazione di rivolta armata».
Tra i gruppi che partecipano alla battaglia si distingue il Fronte unico rivoluzionario – che ha sede nei locali del Liceo Sannazzaro – costituito dal professor Antonio Tarsia in Curia, ma tra i tanti protagonisti merita una speciale menzione Maddalena “Lenuccia” Cerasuolo, protagonista degli scontri armati al quartiere Materdei e in difesa del Ponte della Sanità – dove opera anche suo padre, sotto la guida del tenente colonnello Ermete Bonomi – e che da ottobre collaborerà con i servizi britannici del SOE partecipando a diverse missioni fino al febbraio del 1944. L’insurrezione del rione Materdei viene ricordata per lo scontro decisivo sul ponte, minato dai tedeschi, costretti a ritirarsi senza poter farlo esplodere, per i tram rovesciati a impedire l’avanzata dei carri Tigre che scendevano da Capodimonte, per il dodicenne Gennaro Capuozzo, ucciso dopo aver aiutato a sparare con un mitragliatore da un terrazzo, cugino di Lenuccia e medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
L’ultima rappresaglia tedesca viene attuata il 1° ottobre, con un fuoco di artiglieria da Capodimonte accompagnato da azioni isolate di nuclei fascisti. Con la ritirata germanica, la violenza si sposta altrove, mentre nello stesso giorno, nel primo pomeriggio, entrano a Napoli i reparti corazzati della 5a Armata, accolti da una folla in festa che aveva già reso onore ai propri caduti per la libertà.
Anche in una zona limitrofa, quella di Salerno, vi furono scontri, morti e feriti. Qui, accanto all’opera instancabile in aiuto di soldati sbandati e prigionieri alleati fuggiti (mentre soccorre un ferito, viene uccisa la crocerossina Filomena Galdieri), scoppiano rivolte contadine culminate nella proclamazione della Repubblica di Sanza, il 10 ottobre. «Un anziano contadino antifascista, Tommaso Ciorciari, fu nominato sindaco; i dipendenti comunali ritenuti responsabili di aver vessato i contadini vennero licenziati in tronco, mentre le terre del latifondista locale venivano occupate». Un mese dopo l’avventura finisce, e il sindaco e trenta braccianti verranno condannati dalla giustizia del Regno del Sud.
Negli stessi giorni dell’insurrezione di Napoli, in Abruzzo avviene uno scontro armato poi ricordato da Parri come il primo conflitto «nostro in campo aperto» contro i tedeschi. Ha luogo a Bosco Martese, a 1400 metri d’altezza e a 40 chilometri da Teramo, dove si sono radunati dopo l’8 settembre centinaia di giovani: «ci sono carabinieri, soldati, civili italiani, ex prigionieri alleati, slavi, apolidi, ex internati politici, comunisti, socialisti, monarchici, azionisti, borghesi, contadini, artigiani, intellettuali, operai. Uno spaccato di varia umanità accomunata dalla consapevolezza che il tedesco è il nemico di tutti». Il comando di questo insieme eterogeneo di gruppi è affidato al capitano dei carabinieri di Teramo, Ettore Bianco. Il 25 settembre, su segnalazione di una spia (linciata dalla folla senza che intervengano i tedeschi), una colonna motorizzata tedesca, che ferma alcuni patrioti incontrati casualmente, viene attaccata dai partigiani che distruggono venti autoblindo e catturano il maggiore Rhodas Hartmann, comandante della Wehrmacht. Le azioni di rastrellamento e rappresaglia, in seguito alle quali Hartmann verrà giustiziato, provocano alcuni morti, ma il grosso dei combattenti, divisi in gruppi, continuerà la lotta fino alla liberazione di Teramo nel giugno 1944.
Anche solo a scorrere nomi, luoghi, partecipanti e dinamiche delle azioni di lotta e di contrasto all’occupazione tedesca avvenute nel mese di settembre – e di cui qui se ne sono ricordate pochissime tra le più importanti – si può concludere con quella che oggi sembra una constatazione ampiamente condivisa: la Resistenza è stata molteplice, articolata, sfaccettata, è stata l’insieme di scelte e comportamenti differenti che si sono intrecciati e sommati in un arco di tempo molto compresso (venti mesi). Anche solo nel primo caotico mese essa ha avuto tappe e tipologie diverse, che si sono accavallate nel tempo con grande rapidità e che hanno mostrato la versatilità e l’ampiezza delle possibilità di lotta e di solidarietà nella battaglia contro il nazifascismo. Nei mesi successivi prevarranno tipologie più marcate e definite, che diventeranno più facilmente il simbolo – anche visivo, anche nell’immaginario – di tutta la Resistenza.
L’ampiezza e la diversità che si manifestano in questo primo mese, di reazione all’occupazione tedesca ma anche al ritorno in forma di regime collaborazionista di Mussolini e dei fascisti, e di lontananza, ostilità e disagio per il comportamento della monarchia e dei comandi militari, rimarranno comunque un segno distintivo che la Resistenza si porterà dietro in tutti i venti mesi che condurranno alla Liberazione. Ogni partigiano, patriota, armato o disarmato che sia, soprattutto in queste prime settimane, ha una propria idea di cosa significhi «resistere» al nazifascismo, all’occupazione, al disonore, alla vigliaccheria. Ma tutti hanno in comune un obiettivo semplice e chiaro: la riconquista della libertà, la fine dell’incubo totalitario in cui è precipitata l’Europa intera tra il 1939 e il 1943.
Esumazione e distruzione delle salme degli ufficiali trucidati a Cefalonia
Io sottoscritto Sabattini Alberto, dichiaro di aver personalmente assistito al trasporto di oltre 200 salme da San Teodoro al porto di Argostoli, e questo avvenne come segue:
La sera del 27 settembre 1943, verso le ore 21, fui chiamato da alcuni graduati tedeschi per seguire da vicino, con la mia automobile, una loro macchina; nei pressi di San Teodoro ci siamo fermati e subito dopo la macchina che mi precedeva partiva, mentre io fui trattenuto.
Davanti a me, un po’ a destra, da un’incavatura naturale abbastanza profonda, perveniva un grandissimo fetore. Nelle immediate vicinanze si trovavano un autotreno con un autista italiano, attorno al quale lavoravano in silenzio alcuni marinai italiani, mentre 7 o 8 tedeschi assistevano imperterriti, con le pistole in pugno, a quel macabro andirivieni.
Il mio compito – disse un ufficiale tedesco – era di proiettare la luce dei fari della mia auto carretta nell’interno delle buche e che scegliessi il posto migliore per tale scopo. Quando il posto fu illuminato, ciò che vidi mi impressionò talmente che mi imposi di non guardare mai più da quella parte. Ma involontariamente l’occhio scrutava: corpi inanimati, deformi ed irriconoscibili, giacevano senza ordine, senza posa, senza cura uno sopra l’altro, imbevuti nel sangue. Erano gli ufficiali italiani fucilati in precedenza.
I marinai, muniti di barelle, portavano i cadaveri dalla buca all’autotreno. Quando l’autotreno fu carico, venne fatto partire, accompagnato da due tedeschi. Ma un altro autotreno arrivava con la stessa missione, partito il secondo, arrivò di nuovo il primo e seppe dall’autista quanto segue: le salme dei nostri ufficiali venivano trasportate dal luogo della fucilazione al porto di Argostoli per essere caricate su uno zatterone tedesco; ogni autocarro ne trasportava 32-33. I marinai che lavoravano nella buca facevano parte della batteria marina costiera di Faraò. Quando il quarto autotreno fu ultimato, il lavoro fu cessato e con l’autocarretta io trasportai italiani e tedeschi alla casetta rossa, dove noi italiani siamo stati piantonati da due guardie tedesche: erano le 4 del nascente 28 settembre. […] I marinai rimasero al porto e da allora nessuno li ha più visti.
NB – Posso aggiungere che le fosse di San Teodoro contenevano 18 salme di marinai, esumate il 25 ottobre 1944 alla mia presenza. Ciò potrebbe spiegare perché quei marinai di cui parla il Sabattini non furono più visti.
24 ottobre 1944 Il cappellano militare p. Luigi Ghilardini
Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, Mursia, Milano 1968
IV.
Il tempo delle scelte
Gli sconvolgimenti dell’autunno 1943 pongono l’imperativo delle scelte, ossia la necessità di prendere posizione dinanzi all’occupazione tedesca, alla ripresa del fascismo in forma repubblicana, alle prime manifestazioni di resistenza. Fattori ambientali, appartenenze familiari, frequentazioni amicali, retroterra personali si intrecciano e si sovrappongono nel determinare atteggiamenti e coinvolgimenti nella fase di incubazione della guerra civile, sotto la pressione di circostanze imprevedibili e spiazzanti.
Tra quanti sciolgono pubblicamente questo nodo, vi è il magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova, Concetto Marchesi, che il 9 novembre 1943, nella cerimonia d’apertura dell’anno accademico, tiene un discorso ambiguo apprezzato anche dalle autorità della RSI, per poi passare alla clandestinità e rivolgere un fiero appello antifascista alla gioventù italiana (trascritto in chiusura del capitolo).
I due principali filoni alla base della Resistenza sono quello dell’antifascismo storico, sconfitto nella prima metà degli anni Venti e sopravvissuto – con qualche innesto – tra carcere, confino ed esilio, e quello di una parte della gioventù, indottrinata nel ventennio mussoliniano e gettata al macello nella seconda guerra mondiale, che passa risolutamente all’opposizione, sentendosi ingannata dal duce. La guerra disillude anche molti fascisti, alcuni dei quali – soprattutto quelli legati idealmente alla dimensione rivoluzionaria – passano dalla fronda al dissenso e infine alla contrapposizione.
Ernesto Rossi, resistente di lungo corso
Ernesto Rossi (1897-1967), prima di diventare un personaggio tra i più rappresentativi dell’antifascismo non comunista, vive e attraversa le contraddizioni di tanti giovani maturati anzitempo nelle tragedie della trincea, segnati nel corpo dalle ferite e nello spirito dalla morte di tanti amici. Partecipa volontario diciannovenne alla Grande Guerra, infervorato da idealità democratiche coniugate con le aspirazioni al completamento dell’unità nazionale, viene ridotto in fin di vita e rimane mutilato. Nell’immediato dopoguerra pubblica articoli di natura economico-finanziaria su «Il Popolo d’Italia», «l’Unità» e «La Rivoluzione Liberale». Si avvicina nel 1919 al nascente movimento dei Fasci italiani di combattimento, staccandosene però prima della marcia su Roma. Nel 1923 fonda con i fratelli Rosselli il Circolo di cultura di Firenze, la cui sede viene distrutta l’anno successivo dalle camicie nere. Svolge attività clandestina nel movimento Italia Libera e anima nel 1925 con Gaetano Salvemini il giornale murale «Non Mollare», stroncato dalla polizia dopo diversi mesi di indagini. Docente di economia in un istituto superiore di Bergamo, conduce una doppia vita e nel 1928 costituisce a Milano un gruppo clandestino repubblicano con Riccardo Bauer, Vincenzo Calace, Umberto Ceva, Ferruccio Parri, Dino Roberto e altri intellettuali di estrazione borghese. I cospiratori, legati al centro parigino di Giustizia e Libertà, da cui ricevono opuscoli e materiale propagandistico, estendono la loro rete in varie città centro-settentrionali, finché il 30 ottobre 1930 il tradimento dell’avvocato Carlo Del Re (che vende i compagni al capo della polizia, in cambio di grosse sovvenzioni) determina decine di arresti e lo sradicamento del Centro interno giellista. Imprigionato a Regina Coeli, Rossi rivendica la propria opposizione:
Sono nettamente e decisamente antifascista; gli stessi principi democratici liberali che già mi condussero a fare la guerra quale volontario nella ferma idea di combattere la Germania, nella quale vedevo una forma di oppressione anti-liberale, e che mi condussero ad oppormi al bolscevismo nel periodo immediatamente dopo la guerra, gli stessi principi demo-liberali, ripeto, mi hanno portato dalla marcia su Roma in poi ad assumere una posizione nettamente contraria al fascismo.
Condannato a vent’anni, subisce una carcerazione durissima, con periodi di isolamento e riduzione del vitto per l’irriducibilità alle soperchierie carcerarie. Assegnato nel novembre 1939 al confino quale “elemento socialmente pericoloso”, nell’isola di Ventotene approfondisce con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli l’analisi della situazione europea, scrivendo nel 1941 l’appello ai resistenti «Per un’Europa libera e unita», poi divenuto noto come Manifesto di Ventotene.
Nel 1942 anche sua moglie Ada, docente di matematica a Bergamo, finisce al confino. A inizio luglio 1943 viene ricondotto da Ventotene a Regina Coeli in regime di isolamento con Riccardo Bauer e Vincenzo Calace, nell’ambito di una montatura per attribuire ai giellisti la strage della Fiera campionaria di Milano del 12 aprile 1928. Crollato il regime, il 30 luglio torna libero e si reca nell’abitazione della madre di Altiero Spinelli, dove trova Colorni e altri federalisti, che redigono il secondo numero del giornale «l’Unità Europea», critico del governo Badoglio e della prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti: Rossi vi pubblica uno scritto intitolato Le tendenze federaliste. Viene poi preparato un volantino con la richiesta di abdicazione del re e l’appello alla mobilitazione antitedesca: è il primo documento pubblico distribuito in Italia evocante la Resistenza. In serata Rossi viene imprigionato con due compagni per la distribuzione di questo volantino, ma, dopo averne verificato la recentissima scarcerazione, lo si libera per la seconda volta nel giro di poche ore.
I quaranta giorni del governo Badoglio sono vissuti in un vorticoso susseguirsi di riunioni private e di attività pubbliche tra Roma, Firenze, Torino e Milano, per recuperare i 12 anni di segregazione inflittigli dal regime. Dopo alcune titubanze aderisce al Partito d’Azione, sostenendovi la linea di incompatibilità con il Partito comunista, nell’ottica di una coalizione democratico-socialista-repubblicana che respinga l’egemonia comunista sull’antifascismo, con un programma che coniughi in una prospettiva federalista l’opposizione al nazifascismo. Trova affinità, tra gli altri, con Enzo Enriques Agnoletti, Piero Calamandrei, Eugenio Colorni, Leone Ginzburg, Ada Gobetti, Mario Alberto Rollier. Riprende i contatti epistolari con Altiero Spinelli, liberato a inizio agosto 1943. Condivide il progetto di Colorni, entrato nel Partito socialista per condizionarlo in senso federalista. È invece distante da altri azionisti, per esempio Ugo La Malfa, critici della priorità federalista, concepita da Rossi quale piattaforma su cui fondare il nuovo assetto continentale, in un’Europa pacificata e senza nazionalismi. A metà agosto organizza una riunione a Monte Oriolo, in una casa di parenti, sulle colline di Firenze, per discutere della fondazione del movimento federalista; vi partecipano anche Colorni e Rollier, che il 28 agosto sono a Milano, con Altiero Spinelli e una ventina di altri militanti.
A inizio settembre Rossi partecipa a Firenze al congresso costitutivo del Partito d’Azione, poi si reca a Bergamo, dove incontra un gruppo di giovani sensibilizzati al federalismo da Ada Rossi.
La sera dell’8 settembre, pur febbricitante e afflitto da esaurimento psicofisico per il peso degli anni di prigionia e confino, e per l’intenso impegno profuso nelle settimane trascorse in libertà, è l’oratore al raduno popolare tenutosi alla Torre dei Caduti alla notizia dell’armistizio. Invita alla lotta antinazista in corso in tutta Europa e addita quale obiettivo politico la formazione degli Stati Uniti d’Europa. Rielabora quel discorso – intitolato Guerra al nazismo – per la pubblicazione sul terzo numero dell’«Unità Europea», edito clandestinamente a Bergamo.
L’esposizione pubblica pregiudica la sua permanenza a Bergamo, dove è in testa alla lista degli antifascisti da arrestare. Recatosi a Milano per collegarsi ai primi nuclei di resistenti, si ritrova isolato e ripara in Svizzera, per riprendere le fila dell’azione federalista. Il 17 settembre partecipa a Lugano al primo incontro tra emissari della Resistenza italiana e Alleati, alla presenza dei direttori dello Special Operations Service (SOE) John McCaffery e dell’Office of Strategic Services (OSS) Allen W. Dulles. Al secondo appuntamento, il 3 novembre, intervengono anche Ferruccio Parri e Leo Valiani; in quell’occasione viene distribuito agli angloamericani un memoriale elaborato da Rossi, ispirato alle posizioni azioniste e con riferimenti alla visione postbellica di «un nuovo ordine europeo che consenta il pacifico sviluppo dei diversi Paesi del continente entro le direttive generali espresse dalla carta Atlantica».
In ottobre si stabilisce con la moglie a Lugano e nel marzo 1944 a Ginevra. Insieme a Spinelli svolge un’intensa opera propagandistica e organizzativa federalista, con interlocutori quali Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Ignazio Silone e Umberto Terracini. Scambia con Gaetano Salvemini – in esilio negli Stati Uniti – lunghe lettere e densi memoriali sulla situazione politica. Nell’estate 1944 cura per «l’Unità Europea» la Dichiarazione federalista internazionale dei movimenti della Resistenza Europea. Lavora intensamente tra Lugano e Ginevra, a contatto con la delegazione elvetica del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI), finché il 19 aprile 1945 rimpatria e si stabilisce a Milano, collegandosi al partigianato azionista. Il suo sguardo si spinge costantemente ai futuribili assetti del dopoguerra, che vorrebbe fondati sui valori della pace e della collaborazione tra i popoli, cui dedica L’Europe de demain (revisione e traduzione di Gli Stati Uniti d’Europa, saggio apparso qualche mese prima in italiano). Si rende peraltro conto della divaricazione esistente tra gli ideali federalisti e le logiche di potenza sottese ai rapporti politico-militari tra gli stessi Alleati. Nonostante comprenda che la rivoluzione democratica da lui auspicata sia lungi dal realizzarsi, è tra i promotori a Ginevra di organismi quali il Comité provisoire pour la Fédération Européenne (giugno 1944) e il Centre d’action pour la Fédération Européenne (dicembre 1944) che, nati dopo gli incontri ginevrini tra i movimenti della Resistenza europea, consentono di mantenere vive le relazioni con i federalisti elvetici e gli emissari del maquis francese, in preparazione del primo Congresso federalista internazionale, svoltosi nel marzo 1945 nella Francia liberata, a Parigi, presso la Maison de la Chimie.
Il socialismo come redenzione: l’architetto Giuseppe Pagano
Vi sono personaggi essenziali per comprendere le contraddizioni e le ricchezze, le varie fasi sperimentate in una vita, nell’Italia tra la prima e la seconda guerra mondiale. Uno di essi è sicuramente l’architetto Giuseppe Pagano Pogatschnig (Parenzo, 1896-Melk, 1945), la cui esistenza, straordinariamente avventurosa e significativa, si dipana dalla Grande Guerra al fascismo, dalla campagna di Grecia alla guerriglia partigiana, dal carcere alla deportazione, con un eccezionale lavoro nei campi dell’architettura e dell’urbanistica, segnato da linearità e discontinuità, da compromessi anche dolorosi – in particolare il rapporto con Marcello Piacentini –, atteggiamenti in parte connaturati al suo temperamento irruente e in parte condizionati dai processi storici. Il rapporto con il fascismo passa dall’adesione giovanile all’impegno politico durante gli anni Trenta in battaglie culturali coniugate con una forte sensibilità sociale; alla disillusione segue – quale logica conseguenza – la lotta aperta.
Originario dell’Istria, si batte per il compimento dell’unità nazionale, nella posizione di “traditore” vissuta da Cesare Battisti e da altri intellettuali di nazionalità austroungarica. A inizio 1915 varca illegalmente il confine per arruolarsi nell’esercito italiano; in quella circostanza cambia il cognome da Pogatschnig in Pagano. Ferito in combattimento, viene catturato due volte e per due volte fugge dai campi d’internamento. Nel dopoguerra è tra i fondatori del fascio del suo paese natale, Parenzo; partecipa all’occupazione dannunziana di Fiume.
Laureatosi nel 1924 al Politecnico di Torino, intraprende un’attività professionale che dal 1927 – con la nomina a capo dell’Ufficio tecnico dell’Esposizione internazionale di Torino – lo vede impegnato a promuovere un’architettura razionale. Un’attività che, affiancata alla collaborazione alla rivista «La Casa Bella» (di cui è redattore dal 1930, direttore dal 1939), lo schiera contro monumentalismo e accademia, per un’architettura aperta alla tradizione modernista europea e al servizio delle esigenze sociali, per il miglioramento della qualità della vita. Individua in Mussolini l’artefice del rinnovamento nazionale ed è direttore artistico della Scuola di mistica fascista.
Secondo il suo collega Ernesto Nathan Rogers: «La fede nell’architettura spinse e guidò Pagano nella pericolosa strada del collaboratore prima, del dissidente poi e infine dell’avversario del fascismo». Il distacco avviene anzitutto sul terreno dell’architettura, con il rifiuto del concetto di romanità esaltato dal duce e il sequestro della rivista «Costruzioni-Casabella» per scritti politicamente scorretti.
Pagano partecipa come volontario alla campagna di Grecia. Richiamato alle armi nel 1942 con il grado di colonnello, esce dal Partito nazionale fascista e dalla Scuola di mistica fascista. È la formalizzazione della fine del lungo viaggio dentro il fascismo. Inadatto a mediazioni e mezze misure, diviene un risoluto oppositore, con il risentimento accumulato in anni di frustrazioni. Nel periodo badogliano diffonde il giornale clandestino «Avanti!» e svolge azione propagandistica nell’esercito. Su «Costruzioni-Casabella» dell’agosto 1943 invita gli artisti italiani
a quell’azione pratica e personale che si svolgerà in circostanze certamente eccezionali e che richiederà ad ognuno di noi un impegno morale elevatissimo, un’obbedienza assoluta alla voce della coscienza, una coerenza rigorosa con la missione che ognuno di noi si è prescelta, impegnando tutta la nostra vita e la nostra arte a quel bel modo di pagar di persona che i nostri uomini del risorgimento, da Cattaneo e Pisacane, ci hanno opportunamente insegnato.
L’8 settembre 1943, quando la divulgazione dell’armistizio senza direttive chiare getta le forze armate italiane nel caos, Pagano si trova a Milano e propugna l’azione armata contro i tedeschi. L’esperienza si dimostra poco produttiva, in quanto il comandante della Piazza, generale Vittorio Ruggero, promette agli antifascisti la distribuzione delle armi ma poi le consegna ai tedeschi. Dopo aver organizzato in Lombardia i primi nuclei delle Brigate Matteotti, Pagano ritorna a Carrara, dove aveva prestato servizio militare, per allestire una rete clandestina nelle caserme; la sera del 9 novembre viene catturato all’esterno di una postazione della Milizia, armato di pistola. Deferito al Tribunale speciale, nell’attesa del processo è trasferito al carcere di Brescia, dove rimane otto mesi. Il curriculum combattentistico e la trascorsa militanza fascista potrebbero fargli ottenere la liberazione, al prezzo di un adattamento opportunistico, tanto più che qualche gerarca – segnatamente l’ex segretario fascista Scorza – vorrebbe giovargli in nome della vecchia amicizia, ma Pagano scarta questa strada: «Non posso né voglio assolutamente nessuna soluzione di compromesso. Preferisco prendermi i miei trent’anni di galera piuttosto che dichiararmi pentito o magari filofascista. Ormai Basta! con queste porcherie!». Durante la prigionia studia un sistema di prefabbricazione della casa, documenta con tre rullini fotografici la condizione carceraria e commenta nel suo diario il tentativo di legittimare il fascismo di Salò con l’appello ai programmi socialistoidi del 1919:
Chi comanda ha confusa la responsabilità morale del potere con la libidine di un arbitrio assurdo, pazzescamente illusi di essere investiti da un destino grottesco di dominio su tutti e su tutto, come se non bastasse l’evidente sfiducia di tutta la maggioranza degli italiani per questo regime di volta-gabbane che si trasforma adesso in un grande stato socialista e repubblicano, copiando come gli scolaretti testoni quel che non vollero capire in tempo utile.
Durante un bombardamento notturno, alle tre di mattina del 13 luglio 1944, evade con circa duecento detenuti. Riacquistata la libertà, torna a Milano, dove prende la direzione delle Brigate Matteotti. Nei primi giorni di vita clandestina si fa fotografare in posa sarcastica, con un gesto di sfregio per i suoi ex carcerieri.
Scrive per la stampa clandestina Reazione artistica in berretto frigio, contro Ugo Ojetti (vicepresidente dell’Accademia d’Italia) e gli intellettuali collaborazionisti, suggellato da una frase emblematica: «Ormai tutto è chiaro: da una parte il nazismo con la sua corte di sguatteri nostrani; dall’altra la gente che non vende la propria coscienza e che lavora e sogna e opera “come ditta dentro”». Un breve e intenso interludio di libertà. La sera del 5 settembre partecipa a una riunione del Partito socialista e concorda per l’indomani mattina un appuntamento cospirativo, ma tre traditori informano la Banda Koch – formazione di polizia speciale al servizio dei nazisti – che lo cattura. Imprigionato nella cella n. 4 della palazzina di via Paolo Uccello n. 17-19 (Villa Triste), viene ripetutamente torturato. Rilasciato a fine mese sulla parola con Eugenio Dugoni (futuro deputato socialista alla Costituente e sindaco di Mantova) e Alessandro Nardini, per trattare con i dirigenti socialisti milanesi la liberazione di alcuni prigionieri in cambio dell’incolumità per Pietro Koch, quando l’iniziativa si rivela infruttuosa rientra nella prigione, per evitare rappresaglie sui suoi compagni (differentemente da Dugoni e Nardini, che scelgono la libertà).
L’atmosfera di terrore respirata a Villa Triste è descritta nel memoriale elaborato da Pagano nell’autunno 1944, appena uscito da quell’esperienza:
Lo sgomento che afferrava immediatamente ogni detenuto, era lo stato d’animo che regnava nei sotterranei: disperazione di non potersi difendere; inutilità di ogni tentativo di sincerità; panico continuo per ogni rumore e per ogni passo che rimbombava sulle nostre teste; disagi continui di chi doveva dormire sul cemento, a mucchi, con un solo materasso ogni 8 prigionieri. E per di più i lamenti dei feriti febbricitanti, parecchi con costole rotte; allucinanti angosce dei più terrorizzati e disperate paure per le probabili future torture che si sarebbero svolte nella notte. Era difatti la notte che si raggiungeva il colmo delle nostre sofferenze. Non si poteva dormire: sopra di noi, al piano rialzato, si svolgevano gli “interrogatori”: si sentivano i colpi delle cadute, l’urto dei corpi sollevati e buttati a terra; rimbombavano nel sotterraneo gli urli e le minacce, e ognuno di noi viveva le stesse sofferenze del compagno che era “di sopra”.
Durante la carcerazione, anima il collettivo dei detenuti con utopiche descrizioni della città del futuro, in conversazioni che si sviluppano con il contributo dei compagni di pena, molti dei quali avvocati e insegnanti di fede socialista. L’ex deputato bresciano Guglielmo Ghislandi descriverà quei momenti di vita comune, sospesi tra l’incertezza del presente e la fiducia nell’avvenire:
L’architetto amava portare la conversazione sulla sua arte e descrivere a se stesso e a noi la visione di un’Italia nuova e rinnovata anche nelle sue esigenze edilizie ed urbanistiche. Ci parlava di un suo progetto di città-giardino, a immagine e somiglianza di quanto egli aveva visto ed ammirato nei suoi viaggi nei più progrediti paesi di Europa, specialmente in Svezia: case ampie, chiare di pitture esterne ed interne, con locali razionalmente disposti, secondo la tecnica più moderna, accoppiata a opportuni ma non ristretti criteri di economia, finestre amplissime da cui entrasse il beneficio dell’aria purificata dal verde tutt’attorno e dove la luce, la luce, la luce dominasse risanatrice sovrana.
Pagano aveva chiamato quel suo progetto Città Verde; qualcuno di noi disse: «Meglio forse Città Luce, perché, ancora più del verde, pur tanto necessario ed augurabile, la luce costituirebbe la caratteristica più significativa in quelle case e città di un’Italia futura, finalmente libera e redenta». «Luce» aggiunse altri «che non sarà dunque soltanto di sole, ma di nuova civiltà e di nuova storia». «Luce» concludemmo quindi, tutti o quasi tutti, «di socialismo, perché soltanto in una società socialista sarebbero possibili iniziative tanto grandiose e concrete di rinnovamento della nostra terra e della nostra gente».
Ed ecco Città Luce significare per noi, dopo di allora, qualche cosa di assai più vasto che non il geniale, ma limitato, progetto di un architetto urbanista, e cioè la visione non di una sola città-modello, ma di tutta una nazione risorta sulle vie del più luminoso progresso e benessere civile e sociale; la realizzazione concreta di un ideale e, in definitiva, l’ideale stesso della nostra fede, della nostra lotta, del nostro sacrificio. Insomma: Città Luce = Socialismo.
Pagano prepara un piano di fuga, fallito a causa del trasferimento dei prigionieri a San Vittore. Il 9 novembre viene internato nel campo di Gries, alla periferia di Bolzano, e il 22 novembre è deportato a Mauthausen. Dopo un paio di settimane è assegnato al sottocampo di Melk, vicino a Linz. Il lavoro coatto nelle miniere è inasprito dalle percosse di un guardiano, che gli provocano broncopolmonite traumatica e febbre alta.
Ricoverato nell’infermeria in condizioni disperate, scrive un testamento morale sui due lati di un foglietto, ricoperto con grafia fitta e irregolare, affidato a Alessandro Nardini (al termine della guerra, lo consegnerà ai familiari). «Non piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa. Pago di persona», scrive alla moglie Paola, sintetizzando le contraddizioni del proprio itinerario esistenziale. «Ricordatemi bene uomo vivo e pieno di volontà. Sono stato stroncato di violenza», confida al fratello Zanetto, mentre il suo tempo si consuma: «Non posso né voglio scrivere di più». All’architetto Palanti affida la propria eredità spirituale. Le righe finali, leggibili solo a tratti, ribadiscono la fede socialista e la propria dignità: «Ho dato la vita per il Partito e ne sono fierissimo. Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A Voi continuare bene e meglio. Addio». Si spegne il 22 aprile 1945. In un altro sottocampo di Mauthausen, Gusen, erano morti due suoi amici e collaboratori: in gennaio il critico Raffaello Giolli, a inizio aprile l’architetto Gian Luigi Banfi.
Teresio Olivelli, da littore della razza a Fiamma Verde
Negli anni Trenta, gli ecclesiastici sono un vettore di consenso al regime. Dal rettore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, Agostino Gemelli, all’influente gesuita Pietro Tacchi Venturi, dall’arcivescovo di Milano cardinale Schuster al più umile parroco di campagna, il clero italiano omaggia “l’uomo della Provvidenza”, che ha riconciliato Chiesa e Stato con il Concordato del 1929 e schierato l’Italia nella crociata antibolscevica in terra di Spagna. Il clerico-fascismo è un tratto distintivo della pedagogia del regime, che condiziona profondamente la gioventù.
Teresio Olivelli, nato nel 1916 a Bellagio (Como) in una famiglia di commercianti, dispiega un notevole attivismo nelle organizzazioni cattoliche e in quelle di regime. Crede che nell’Italia di Mussolini si costruisca una nuova civiltà rispettosa dei valori comunitari cristiani, alternativa a quella basata sui precetti dell’individualismo liberale e pure al modello collettivista sovietico.
Laureatosi in Giurisprudenza a Pavia nel 1938, attivista della Gioventù universitaria fascista (GUF), l’anno successivo vince con una dissertazione sul razzismo il concorso di Dottrina del Fascismo ai Littoriali della cultura. La sua concezione della “razza italiana” si richiama alla Roma imperiale e alla tradizione della Chiesa cattolica.
Nel maggio 1940 diviene segretario dell’Ufficio studi e legislazione del Partito nazionale fascista, nonché delegato del PNF nel Consiglio superiore della demografia e della razza presso il ministero dell’Interno. Quell’estate frequenta a Berlino il corso di politica nazionalsocialista per stranieri. In ottobre, quando l’Italia combatte al fianco della Germania, è relatore al primo Convegno interuniversitario italo-tedesco di studi politici. Nel febbraio 1941 torna a Berlino per un nuovo corso di politica nazionalsocialista.
Alberto Caracciolo, suo primo biografo, crede che il fascismo di Olivelli non si possa spiegare come un tentativo di influenzare il regime in senso cattolico:
Bisogna anche dire che questo sforzo egli non [lo] compì dall’esterno, che il tentativo di modificare segue a una reale immedesimazione in quel mondo: in altre parole, mentre tenta di trasformare il fascismo, egli ne assorbe le idee, lo spirito, lo stile stesso. Sarebbe errato pensare il suo fascismo come una posizione puramente strumentale rispetto al suo cristianesimo.
L’esigenza etica di coniugare idee e comportamenti concreti lo spinge a presentarsi volontario di guerra, per il fronte russo, dove entra in azione nel luglio 1942, rimpatriando il 20 marzo 1943.
Torna dalla guerra profondamente disilluso e ora valuta il fascismo come un’infausta dittatura, i cui danni vede rispecchiati nelle città semidistrutte dai bombardamenti e nel dilagante deficit morale.
Inviato in licenza da aprile a luglio, ottiene dal ministro Bottai l’incarico di rettore del Collegio “Ghislieri” di Pavia.
Tornato al suo reparto, dislocato a Vipiteno, in Sud Tirolo, a metà settembre è catturato e internato nei pressi di Salisburgo. Evade il 20 ottobre 1943 e l’11 novembre giunge a Brescia, dove contatta alcuni intellettuali cattolici promotori del movimento delle Fiamme Verdi e dopo una decina di giorni si trasferisce a Milano presso l’ingegner Carlo Bianchi (titolare di un’azienda cartografica), accanto al quale esplica un rilevante lavoro organizzativo in Lombardia. Con Bianchi – figura chiave della Resistenza cattolica lombarda, ancorché trascurato dalla storiografia – nel febbraio 1944 promuove il giornale clandestino «il Ribelle», distribuito clandestinamente a inizio marzo e che sul numero d’esordio riporta il motto «Insorgere per risorgere». Sul secondo numero Olivelli spiega il programma dei ribelli («così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo»), chiarendo che l’8 settembre 1943 è nata l’autentica Patria, aperta all’umanità decisa a strappare le catene delle dittature:
L’8 settembre è uno spartiacque: di qui rampolla e dirompe la vita nuova della nazione che ci divampa nello spirito, s’illumina di verità, freme nell’azione. Per chi non ne sente il flusso suggestivo e possente e lo disperde nei fondigli dell’animo o nell’impotente pettegolezzo, per i complici, i titubanti, i frigidi, non c’è posto. […] Uno è il dato di partenza nella sua crudezza veritiera: niente più c’è da salvare. La parola d’ordine è ricostruire, scartando le ambigue esitazioni. […] Lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non ci sono “liberatori”. Solo uomini che si liberano. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti e del lavoro, nei popoli e fra i popoli, anche quando le scadenze paiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti, anche se il successo immediato non conforta il teatro degli uomini, perché siano consapevoli che la vitalità d’Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di resurrezione, di combattimento, nel nostro amore.
Al giornale è allegata la Preghiera del ribelle, nella quale traspare l’ispirazione cristiana che sorregge Bianchi e Olivelli:
Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa, a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita, dà la forza della ribellione. […]
Tu che dicesti: «Io sono la resurrezione e la vita» rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie!
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.
Il 26 aprile 1944 l’arresto di un collaboratore della rete partigiana cattolica, il medico Giuseppe Jannello, da parte dell’Ufficio speciale di polizia, organizzato da Luca Osteria sotto protezione tedesca, si rivela gravido di conseguenze. Il prigioniero cede al ricatto di ritorsioni contro sua madre e – lusingato dalla prospettiva della liberazione – attira con una telefonata Bianchi e Olivelli a un appuntamento, nel quale l’indomani saranno entrambi catturati. Le prove raccolte dagli investigatori contro i dirigenti del «Ribelle» convince don Giuseppe Bicchierai, elemento di raccordo tra l’arcivescovado e il comando germanico, a raccomandare al cardinale Schuster la massima prudenza, cioè a evitare un forte intervento in favore degli arrestati, rinchiusi nel frattempo a San Vittore (tra di essi figurano i tipografi Luigi Monti e Franco Rovida, e l’ex militare Rolando Petrini che – come Bianchi e Olivelli – verranno uccisi dai nazisti).
Dopo pochi giorni Olivelli invia di nascosto a Claudio Sartori (nuovo direttore del «Ribelle») un messaggio a tratti ironico e allusivo delle torture subite, indicandogli come limitare i danni inflitti dalla polizia alla rete partigiana.
Il 9 giugno è trasferito nel campo di Fossoli; l’11 luglio, selezionato per la fucilazione con una settantina di compagni, si nasconde arrampicandosi sulle travi del capannone; grazie alla copertura di alcuni internati si sottrae alle ricerche, ma viene scoperto durante la smobilitazione del campo. Il 5 agosto è trasferito a Bolzano e un mese più tardi deportato al sottocampo di Hersbruck. Oltre a lavorare nello scavo e nella sistemazione delle fognature del Lager, svolge mansioni di interprete e scrivano del blocco degli italiani. Muore il 17 gennaio 1945, per le conseguenze delle percosse inflittegli da un kapò polacco, irritato da un gesto di solidarietà verso un prigioniero ebreo. Il cadavere viene cremato e le ceneri disperse.
Come ha rilevato uno studioso della gioventù italiana tra dittatura e democrazia, «non solo la maturazione di una nuova coscienza critica, ma, soprattutto, la tragica e altruistica fine del giovane intellettuale cattolico valevano indubbiamente a riscattare gli errori e le ingenuità degli anni precedenti». Secondo la tradizione cattolica, molti biografi hanno evitato di confrontarsi con il problema della continuità esistenziale, contrapponendo la prima e la seconda vita di Olivelli, nel segno della conversione e del martirologio. E, per meglio esaltarne la figura, hanno sminuito se non ignorato il ruolo dell’altro artefice del «Ribelle», Carlo Bianchi, di cui Olivelli fu intimo collaboratore. Decorato con medaglia d’oro al valor militare alla memoria, il 3 febbraio 2018 Teresio Olivelli è stato proclamato beato ed è attualmente in corso il processo di santificazione.
La dimensione solidarista: Maria e Delfina Borgato
Nelle giornate caotiche seguite all’armistizio, quando ancora non si è delineata un’organizzazione resistenziale e sembra non esservi alternativa al predominio tedesco, vi sono migliaia e migliaia di persone solidali che, ognuna nel proprio ambiente, spesso in modo volontaristico e non coordinato, soccorrono i soldati fuggiaschi, li riforniscono di abiti borghesi e li ospitano, esponendosi in tal modo a forti rischi. Nella stragrande maggioranza si tratta di donne, spesso a loro volta madri, mogli o sorelle di soldati disseminati su fronti lontani dalla patria. Sono interventi spontanei, immediati e prepolitici, prestati per un senso di umanità a chi è braccato e ricerca vie di fuga. L’ambiente è costituito solitamente dalle vallate montane e dalla dimensione urbana, dove le caserme si svuotano l’8 settembre in una fuga generalizzata o divengono una trappola per chi vi si ferma. Non di rado le catene solidaristiche sono prestate da gruppi familiari di tradizione contadina.
Forme consimili di solidarietà, con grande esposizione a rischi, si attuano a favore degli Alleati prigionieri di guerra, fuggiti a migliaia dai campi di internamento, nelle giornate caotiche del post-armistizio.
Tra i tanti nuclei parentali espostisi in iniziative solidaristiche vi è la famiglia Borgato, residente nella borgata agricola di Saonara (una ventina di chilometri a est di Padova), dove è affittuaria di alcuni campi.
L’esistenza di Maria Borgato, nata nel 1898, prima di quattro figli, è segnata da una malformazione alla gamba destra, che la rende zoppicante e le impedisce di realizzare il sogno della sua vita: divenire suora. La sua tensione religiosa la porta tra le figlie di Sant’Angela Merici, come suora laica. Per mantenersi, ricama corredi e tovaglie, aiutando come può i familiari nei lavori campestri.
Nella temperie del settembre 1943, trova un’intesa operativa con il fratello Giovanni e con sua figlia Delfina, sedicenne cresciuta nei valori evangelici. L’abitazione dei Borgato si trasforma in ospitale rifugio per ex prigionieri alleati e soldati italiani sbandati. Zia e nipote li accompagnano nottetempo a Padova, da padre Placido Cortese, direttore del «Messaggero di Sant’Antonio», che alla Basilica del Santo produce documenti falsi e affida i fuggiaschi alla rete clandestina Fra-Ma per il trasferimento verso il confine elvetico, in contatto con i professori Ezio Franceschini dell’Università Cattolica di Milano e Concetto Marchesi dell’Università di Padova.
Dai Borgato, passano prevalentemente ex prigionieri inglesi, australiani e neozelandesi, che in numero di 2000 erano stati internati in provincia di Padova per essere impiegati in lavori agricoli: c’è chi chiede asilo per una notte e chi si ferma più a lungo per essere affidato alla rete Fra-Ma. Anche qualche ebreo usufruisce di analogo sostegno, con il fattivo aiuto delle studentesse universitarie Teresa e Liliana Martini, due sorelle antifasciste, allertate da Maria Borgato che dal posto telefonico pubblico le informa: «Sono pronti due o tre polli». Varie altre famiglie padovane forniscono punti d’appoggio, nonostante dall’ottobre 1943 il comando germanico alterni punizioni a lusinghe, prevedendo l’incendio delle case ospitali con i ricercati, e promettendo 1800 lire o il rilascio di un parente internato nel Reich a chi denunci il nascondiglio di un ex prigioniero.
Alla cognata (madre di dieci figli), che la sconsiglia di esporre la famiglia ai rischi della ritorsione tedesca, risponde: «Un giorno anche i tuoi figli andranno per il mondo, e non sai che sorte avranno: saresti contenta che fosse fatto per loro quello che si fa ora per questi poveretti». Grazie alla famiglia Borgato, oltre 200 persone sfuggono alle ricerche dei nazifascisti.
La notte del 13 marzo 1944 le SS – informate da un altoatesino presentatosi ai Borgato come disertore – catturano Maria, il fratello Giovanni e la nipote Delfina, devastando abitazione, stalle e fienili. Le due donne vengono picchiate dinanzi ai familiari attoniti. La retata include anche le sorelle Martini.
Anche padre Cortese è catturato: trasferito nella sede della Gestapo di Trieste, sarà ucciso verso la fine del 1944, dopo prolungate sevizie.
I tre Borgato vengono condotti nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore; al momento della separazione, Maria dice al fratello: «Ho una sola preoccupazione: la sorte tua e di Delfina, perciò ti scongiuro di accusare me, di’ che sono stata io!». Rinchiusi in rigido isolamento per una quarantina di giorni, i tre prigionieri sono percossi per far loro confessare i complici e distruggere l’intera organizzazione clandestina.
Maria si assume ogni responsabilità per le azioni illegali e il fratello riacquista la libertà. Delfina rivede la zia a metà luglio 1944 in occasione del loro trasferimento nel Lager di Bolzano e la trova patita, smagrita. Maria invia ai parenti quattro lettere, improntate a spirito di sacrificio e profonda religiosità.
Il 5 agosto Delfina (di cui si riproduce la fotografia nel documento d’identità fornitole dai nazisti) è deportata a Mauthausen. La zia vorrebbe lei pure essere inserita nel numero dei partenti, ma la menomazione fisica la fa giudicare inadatta al lavoro coatto.
Tre giorni più tardi, scrive ai familiari: «iò fatto il posibile per seguirla mamie stato respinta ma con molta bontà dal Comando Tedesco per letà e per lemie condizione fisiche che voi gia micomprendete». La sua insistenza per condividere il destino della nipote le vale, dopo un paio di settimane, l’invio a Ravensbrück, nel blocco 17, dove però non ritrova Delfina, deportata a Mauthausen. Una compagna di deportazione ha ricordato che ogni mattina alle 4 Maria si alzava e, inginocchiata accanto al pagliericcio, recitava la Messa; durante il giorno rammendava le uniformi delle compagne, lieta di poter servire il prossimo; in una sola occasione si mostrò addolorata: «Un giorno fu detto alle prigioniere di spogliarsi perché dovevano passare una visita medica; Maria, con le altre, si spogliò; poi, una alla volta, in fila, attraversammo un corridoio per recarci alla visita. Maria veniva avanti lentamente, zoppicando, con le braccia incrociate sul petto, per coprirsi, mentre lunghe lacrime le rigavano il volto: fu l’unica volta che la vidi piangere». Maria porta sulla casacca il triangolo rosso dei politici, ed è munita di un cartellino rosa per indicarne l’inabilità al lavoro a causa dell’handicap fisico.
Destinata all’eliminazione, viene inviata nella camera a gas in data imprecisata. A casa, ci si aggrappa a un filo di speranza e si continua a tenere in ordine la sua stanza, nel miraggio della sua ricomparsa. Un giorno l’anziana madre confida alla nipote Delfina (rimpatriata il 29 giugno 1945): «È meglio che sia tornata tu che lei…». Alla fine, ci si deve arrendere all’evidenza e viene compilato l’atto di morte presunta.
Ludovico Ticchioni, patriota diciassettenne
Nella Resistenza confluisce con impeto una parte della gioventù, risoluta a battersi per la liberazione della patria da tedeschi e fascisti. Al fattore ideale si somma per molti la volontà di sottrarsi all’arruolamento nelle costituende forze armate fasciste. L’impatto con guerra civile e occupazione straniera è condizionato da fattori amicali e dall’inserimento in gruppi ove elementi più attempati ed esperti esercitano un richiamo su personalità ancora in formazione. Le prime difficoltà consistono nello stabilire un rapporto continuativo con nuclei mobili, i cui organici si espandono o restringono a seconda dei fattori ambientali e delle fasi della lotta. Laddove precarietà e labilità delle bande espongono a rischi imprevisti (violente repressioni, o soprassalti di conflittualità interpartigiana), sono i più giovani a pagare il prezzo maggiore, a causa dell’inesperienza e dell’idealismo.
La sorte del liceale ferrarese Ludovico Ticchioni (Mestre, 1927-Codigoro, 1945) è rivelatrice di slanci, impegno, delusioni e tragedie di chi, adolescente, si gettò nella temperie del 1943-1945 animato da amor patrio.
Figlio di un colonnello del regio esercito, Ludovico assorbe dal padre idealità liberal-democratiche, l’attaccamento ai Savoia e la convinzione che il maresciallo Badoglio sia l’uomo giusto per risollevare il paese dal baratro in cui lo aveva spinto Mussolini. Gli bruciano le modalità dell’armistizio, aggravate dalla contestuale fuga da Roma del re e dei ministri militari: «Questa guerra ha dato una dolorosa smentita a quella che era sempre stata la mia illusione, la mia fierezza di essere Italiano. Ma il massimo di questa delusione si è manifestata per me dopo l’8 settembre, durante il periodo della repubblica», annota nel suo diario, che sulla prima pagina riporta la frase di Metastasio «La patria è un nume a cui sacrificar tutto è concesso».
Al giovane studente – che vive a Ferrara con madre e sorelle – pesa l’inazione. Vorrebbe attraversare le linee e combattere nell’esercito monarchico insieme al padre, comandante del Raggruppamento speciale “Granatieri di Sardegna”, formazione scontratasi con i tedeschi nei giorni successivi all’armistizio, e successivamente inquadrata nel Gruppo di combattimento “Friuli”, a fianco degli Alleati nella campagna d’Italia. Compie per suo conto arrischiate iniziative propagandistiche come scritte murali e compilazione di volantini. Iniziative minime, ma che lo segnalano ai fascisti, i quali a metà dicembre 1943 lo includono tra i predestinati alla fucilazione per rappresaglia in seguito all’uccisione del segretario federale Ghisellini; a salvarlo è il vicequestore Poli, amico di famiglia, che confida alla signora Ticchioni: «Io ho fatto tutto il possibile; ora dica a suo figlio di stare attento».
Al termine dell’anno scolastico 1943-1944 Ludovico rompe gli indugi: «Finalmente il mio sogno di poter fare qualcosa per la cacciata del tedesco dall’Italia, si è avverato! […] Chi comanda qui è un sergente maggiore, un ragazzo sulla trentina, molto in gamba e pieno di entusiasmo giovanile. Lui è del Comitato Nazionale di Liberazione e riceve ordini direttamente da un capitano che a sua volta è comandato dalla Romagna» (annotazione diaristica del 30 agosto). Vede la militanza partigiana come preludio alla carriera militare che vuol intraprendere nel dopoguerra, anche se mette in conto la possibilità di una fine tragica: «Per quanto son giovane non temo la morte: è l’incoscienza della gioventù che mi fa dire questo. Se devo morire, pazienza! Fatto sta che mi dispiacerebbe finire tutto adesso a soli 17 anni di vita!».
Appartiene al “Gruppo del Gatto”, nucleo garibaldino aggregatosi nella zona di Serravalle attorno all’operaio ventitreenne Olao Pivari (nome di battaglia “Gatto”), già sergente di un reparto costiero, cui i fascisti avevano bruciato l’abitazione per punirne la diserzione. I suoi uomini disseminano chiodi a tre punte prima del passaggio di colonne nemiche e disarmano qualche milite della RSI poco propenso al combattimento. Ticchioni sceglie come nome di batta
Descrizione-Le loro esperienze di vita e di scrittura erano molto diverse: Charlotte Brontë riservata, solitaria e anticonformista; Elizabeth Gaskell estroversa, ambiziosa e politicamente impegnata. Eppure, le due scrittrici vittoriane furono grandi amiche. Dopo la morte di Charlotte Brontë, avvenuta nel 1855, suo padre, il pastore Patrick Brontë, affidò proprio alla Gaskell il compito di scrivere una biografia veritiera sulla figlia, troppo spesso vittima di maldicenze e pregiudizi. Elizabeth Gaskell partì così sulle tracce della popolare scrittrice, componendo un’opera notevole per quantità e qualità, attingendo a lettere, intervistando quanti l’ave – vano conosciuta e arrivando fino a Bruxelles, dove nel 1842 Charlotte si era recata insieme alla sorella Emily per studiare la lingua francese. Ne emerge il ritratto di una donna che, andando controcorrente rispetto all’epoca vittoriana, seppe trovare le parole per dare voce alla propria esperienza, anche a costo di apparire «poco femminile» agli occhi dei contemporanei. Orfana di madre e con un padre «eccentrico», Charlotte crebbe in un villaggio sperduto tra le brughiere dello Yorkshire, in una casa di pietra grigia circondata dalle lapidi di un cimitero. Fin da piccola, grazie a un padre colto e all’avanguardia, assieme alle sorelle e al fratello fu avviata agli studi e incoraggiata a pensare con la propria testa. Un’educazione che un giorno l’avrebbe spronata a mettere mano alla penna per dare vita ad alcuni dei grandi capolavori della letteratura inglese, tra cui Jane Eyre, immediato successo all’epoca della sua pubblicazione e ormai classico intramontabile, che firmò con lo pseudonimo Currer Bell. Storia di una donna volitiva, ribelle e passionale, che fece della letteratura una ragione di vita, l’opera di Elizabeth Gaskell ha il pregio raro di una biografia di Charlotte Brontë composta da una scrittrice che occupa un posto di rilievo nel pantheon delle lettere inglesi.More
Aaron Edward Hotchner -Papà Hemingway. Racconti personali
– Pgreco editore-
Sinossi-“Aaron Edward Hotchner non è solo autore di Papà Hemingway, la più accreditata biografia dell’autore americano, ma è stato anche tra i suoi più cari amici.” Susanna Nirenstein, “la Repubblica”
Nel 1948 Aaron Edward Hotchner va all’Avana per chiedere a Ernest Hemingway di scrivere un articolo per la rivista “Cosmopolitan”. L’articolo non si materializza, ma da quel primo incontro fino alla morte di Hemingway, nel 1961, Hotchner e l’autore vincitore del premio Nobel sviluppano una profonda e duratura amicizia. Fanno baldoria a New York e a Roma, corrono con i tori a Pamplona, cacciano in Idaho e pescano nelle acque di Cuba. Ogni volta che si incontrano, Hemingway parla di una sorprendente varietà di argomenti, dall’arte del daiquiri perfetto alla Parigi degli anni ’20 fino alla sua infanzia a Oak Park, Illinois. E, fortunatamente, Hotchner prende nota di tutto. In questo libro, dunque, egli ci racconta dettagli affascinanti sulla vita quotidiana di Hemingway e documenta i suoi ricordi di Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Martha Gellhorn, Marlene Dietrich e molti dei più importanti artisti e delle celebrità del Ventesimo secolo. Negli ultimi anni, quando la cattiva salute dello scrittore comincia a influenzare il suo lavoro, Hotchner ritrae teneramente e onestamente i valorosi tentativi di Hemingway di sconfiggere la depressione che lo porterà a togliersi la vita. Profondamente compassionevole e molto divertente, questa biografia “fa vivere Hemingway come nessun’altra”.
Aaron Edward Hotchner (1917-2020) è stato un editore, romanziere, drammaturgo e biografo statunitense. Ha scritto molte sceneggiature televisive, oltre alle note biografie di Doris Day ed Ernest Hemingway.
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Breve biografia di Ernest Hemingway ,Scrittore statunitense (n. Oak Park, Illinois, 1899 – m. Sun Valley, Idaho, 1961). Romanziere tra i più celebri del Novecento, tema ricorrente di tutta la sua opera è la sfida alla morte, carattere distintivo anche di un percorso di vita singolare, conclusosi con il suicidio. In posizione polemica contro ogni abbandono emotivo, con i suoi laconici dialoghi e il tono verbale sempre un po’ al disotto della situazione, volontariamente implicante più di quanto dice (understatement), H. inaugurò quella narrativa sconcertante (hard–boiled) che ha avuto tanti seguaci e imitatori. Autore del più importante romanzo sulla prima guerra mondiale, A farewell to arms (1929), tra le sue opere principali occorre citare anche For whom the bell tolls (1940) e The old man and the sea (1952), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Vita e opere
Figlio di un medico, iniziò, non ancora ventenne, a collaborare con un giornale di Kansas City. Durante la prima guerra mondiale combatté sul fronte italiano e rimase ferito, guadagnandosi la medaglia d’argento al valor militare. Fu a Parigi (1921-26) col gruppo degli espatriati americani e subì l’influenza dello stile di G. Stein (Three stories and ten poems, 1923; In our time, 1925); i ricordi del soggiorno francese sono stati pubblicati postumi in A moveable feast (1964). I primi libri che inaugurarono quel dialogo laconico e quel tono verbale sempre un poco al di sotto della situazione, implicante più di quanto dice (understatement), e quel conseguente carattere sconcertante della narrativa (cosiddetta hard- boiled), che in lui nascevano da una polemica contro ogni abbandono emotivo, furono The sun also rises (1926) e A farewell to arms (1929). Con Death in the afternoon (1932), e Green hills of Africa (1935) diede incremento a tutta la contemporanea narrativa anglosassone di reportage. Al centro del suo mondo interiore sta l’esigenza di una norma individuale, di un personale codice d’azione come unico valore riconosciuto. Così anche nelle sue novelle, raccolte insieme con una commedia (The fifth column and the first forty-nine stories, 1938). Al principio di monotonia che tale situazione interiore sembra determinare non si sottraggono neanche, nonostante maggiori contatti umani, i personaggi delle opere successive: To have and have not (1937), For whom the bell tolls (1940). Sono anche da ricordare: The torrents of spring (1926), Across the river and into the trees (1950), e uno dei suoi più felici racconti: The old man and the sea (1952).
Descrizione -Prefazione-Quando incontrai per la prima volta Zygmunt Bauman a casa sua, la cosa che mi colpì soprattutto fu lo stridente contrasto fra la persona che mi trovai davanti e la sua opera. Il più autorevole sociologo d’Europa, che in ogni riga dei suoi scritti lascia trasparire l’irritazione per le situazioni di vita e le società esistenti, incantava col suo spirito arguto, col suo charme disarmante e con la sua contagiosa gioia di vivere.
Dopo aver lasciato per raggiunti limiti di età la cattedra all’Università di Leeds nel 1990, Zygmunt Bauman pubblicò in successione un libro dopo l’altro, a una velocità davvero prodigiosa, su un ampio ventaglio di argomenti che andavano dalla vita intima alla globalizzazione, dalla tv dei reality all’Olocausto, dal consumismo al cyberspazio. Letto in tutti i continenti, lo studioso indicato come «capo dei nemici della globalizzazione», «guida del movimento Occupy» e «profeta del postmoderno», ha rappresentato un fenomeno straordinario nel mondo delle scienze dello spirito. Animato dalla curiosità insaziabile di un uomo del Rinascimento, egli ignorò la frammentazione del sapere in specializzazioni nettamente definite e accanitamente difese. Nelle sue riflessioni, il politico e il personale non sono separati; i motivi per cui stiamo disimparando ad amare o per cui non ce la caviamo agevolmente con i giudizi morali, sono questioni che Zygmunt Bauman scandaglia con pari profondità tanto nei loro aspetti sociali quanto in quelli individuali. I suoi risultati non sono affatto tranquillizzanti come non lo è l’ammonimento che lo sterminio di massa attuato con metodo industriale non è una barbarie relegata in un passato che non può tornare.
Fu la visione epica del mondo che mi affascinò, quando cominciai a leggere i suoi libri. Quello che Zygmunt Bauman scrive non lascia mai indifferenti, anche se il lettore non concorda con lui su questo o quel punto o addirittura dissente del tutto con la sua visione. Chi si confronta con la sua opera, è indotto a vedere il mondo e sé stesso in maniera diversa da prima. Per lui, questo appunto era il suo compito: di rendere non familiare ciò che è familiare, e familiare ciò che è non familiare; che è poi, secondo Bauman, il compito della sociologia in generale.
E questo lo può fare solo chi si preoccupa di avere davanti agli occhi tutto l’uomo, di guardare al di là della propria specializzazione, ha conoscenza di filosofia e psicologia, di antropologia e storia, di arte e letteratura. Zygmunt Bauman non è uomo dei dettagli minuti, delle analisi e inchieste statistiche, delle cifre, dei nudi dati e dei sondaggi. Egli dipinge con pennellate larghe su ampia tela, propone asserzioni, lancia tesi nel dibattito e provoca discussioni. Nella famosa distinzione stabilita da Isaiah Berlin ispirata a un antico detto del poeta greco Archiloco tra due categorie di pensatori e scrittori – «La volpe sa molte cose, ma il riccio sa una grande cosa» –, Zygmunt Bauman è insieme riccio e volpe. Egli ha coniato l’espressione «modernità liquida», che con una rapidità finora sconosciuta muta tutti i rapporti di vita – amore, amicizia, lavoro, libertà, famiglia, comunità, società, religione, politica e potere. «La mia vita», dichiarò una volta, «consiste nel riciclare l’informazione». È una dichiarazione che suona modesta, non appena ci si rende conto di quale portata siano le trasformazioni in gioco.
In un tempo di paura e incertezza, in cui tanti si lasciano abbagliare dalla panacea del populismo, l’analisi critica dei problemi e delle contraddizioni della nostra società e del mondo è più che mai necessaria. È il presupposto perché si possa pensare ad alternative, anche se magari al momento sono fuori della nostra portata. Nonostante tutte le speranze deluse, Zygmunt Bauman, da buon comunista, non ha mai rinunciato a credere nella possibilità di una società migliore. Il suo interesse era concentrato non sui vincitori ma sui perdenti, sugli sradicati e su quelli spogliati di diritti, sul numero crescente di sottoprivilegiati, di cui fanno parte ormai non più solo povere persone di colore di terre lontane, ma anche molti lavoratori occidentali. La paura di vedersi sfuggire da sotto i piedi il terreno, che nei prosperi anni del dopoguerra appariva di solida roccia, è oggi un fenomeno di massa a raggio mondiale: nemmeno il ceto medio ne è risparmiato. In un clima che richiede di fare i conti con la realtà e di accettare questo mondo come il migliore dei mondi possibili nel senso di Leibniz, Bauman difende l’utopia. Non come manuale per la costruzione di un castello in aria del futuro, ma come stimolo al miglioramento delle condizioni in cui viviamo qui e ora.
Zygmunt Bauman mi ricevette per quattro lunghe conversazioni sull’opera complessiva della sua vita nella casa di Leeds, in Inghilterra. Un piccolo giardino incantato davanti all’edificio, con sedili sovrastati dal muschio e il tavolo ingoiato dagli arbusti, separa l’abitazione da una strada molto trafficata, quasi a indicare plasticamente che solo il contrasto mette nel giusto risalto le cose. Fisico asciutto, alto, coi suoi novant’anni Bauman era vivacissimo e lucidissimo; con ampi movimenti delle mani disegnava nell’aria le sue considerazioni, come se dirigesse un’orchestra, o picchiava col pugno sul bracciolo della poltrona, per dare forza a una affermazione. Quando ogni tanto parlava della morte vicina, lo faceva con la serenità di uno che, soldato nella Seconda guerra mondiale, ebreo polacco profugo in Unione Sovietica e vittima della «pulizia etnica» antisemitica della Polonia nel 1968, ha sperimentato sulla propria carne il lato oscuro della «modernità liquida», di cui è diventato il teorico.
Il tavolino era sempre ingombro di vassoi con croissant e fette biscottate, pasticcini e dolcetti alla frutta, tartine e crema di scampi, accompagnati da bevande calde e fredde e succhi di frutta come il «kompot» polacco, e il padrone di casa conduceva il suo ospite lungo il percorso dei suoi pensieri, senza dimenticare di sollecitarlo ripetutamente a servirsi e assaggiare un po’ di tutte quelle prelibatezze che aveva preparato.
Bauman parlò della vita, dei tentativi di costruirla continuamente frustrati dal destino, e dello sforzo di rimanere ciononostante un uomo che può guardarsi negli occhi. Alla fine delle nostre conversazioni, a mo’ di congedo, tenendo strette le mie mani nelle sue, mi disse che mi augurava di vivere a lungo come lui, ma che comunque ogni età, pur con tutte le difficoltà, ha i suoi lati belli.
Zygmunt Bauman è morto il 9 gennaio di quest’anno nella sua casa di Leeds.
Questi ultimi colloqui che io ho avuto con lui vogliono essere un invito alle lettrici e ai lettori, a proseguirli dove e con chi meglio credono.
gennaio 2017
Peter Haffner
Amore e sesso
Scelta del partner: perché stiamo disimparando ad amare
Peter Haffner Cominciamo con la cosa più importante: l’amore. Lei afferma che stiamo disimparando ad amare. Come è arrivato a questa conclusione?
Zygmunt Bauman Dopo la tendenza a fare shopping su internet, è venuta subito la tendenza a cercarvi un partner. Anche io personalmente non amo girare per negozi, e compro la maggior parte delle cose online – libri, film, vestiti. Se vuoi una giacca nuova, ecco il sito del commercio online che ti propone un catalogo. Se cerchi un partner, ecco ugualmente il sito di incontri online che ti offre un catalogo. Il modello dei rapporti fra clienti e merci diventa il modello delle relazioni fra gli uomini.
P.H. Che differenza c’è rispetto a prima, quando uno conosceva la propria futura compagna di vita a una festa del villaggio o a un ballo in città? Non si facevano anche in quel caso delle scelte secondo le proprie preferenze?
Z.B. Per le persone timide, internet può essere di certo un aiuto. Qui infatti non sono costrette a doversi fare forza per trovare il coraggio di rivolgere la parola a una ragazza, non hanno timore di arrossire. Sono agevolate nell’allacciare un legame, non si sentono troppo bloccate. Certo, nei siti di incontri c’è da fare lo sforzo di indicare le qualità del partner che corrispondono ai propri desideri e alle proprie aspettative. Lo si sceglie per colore dei capelli e della pelle, per statura, aspetto, dimensioni del seno, età, interessi e hobby, propensioni e avversioni. Dietro tutto questo c’è l’idea che si possa comporre l’oggetto d’amore come un puzzle con un certo numero di qualità fisiche e sociali misurabili. Così si perde di vista l’elemento essenziale: la persona umana.
P.H. Ma anche quando uno si costruisce a questa maniera il tipo corrispondente alle proprie fantasie, le cose cambiano non appena incontra la persona in carne e ossa. Che è sempre molto più della somma di quei tratti esteriori.
Z.B. Il pericolo è che in questo modo il modello dei rapporti assuma i connotati della relazione con un oggetto d’uso. A una sedia non si giura fedeltà. Perché mai dovrei giurare che siederò su questa sedia fino alla morte? Quando non mi piace più, ne compro un’altra nuova. Non si tratta di un processo cosciente, ma diventa la modalità in cui impariamo a vedere il mondo e gli uomini. Che succede quando incontriamo qualcuno che ci colpisce e attrae? È come con la bambola Barbie. Arriva sul mercato una nuova versione, e cambiamo la vecchia con la nuova.
P.H. Intende dire che ci si separa in maniera precipitosa?
Z.B. Intraprendiamo una relazione perché ci ripromettiamo una soddisfazione. Se ho l’impressione che un altro partner può darmi di più, tronco la relazione in corso e ne avvio una nuova. Per far nascere una relazione, serve l’accordo di due persone. Per spezzarla, basta una sola. Il che significa che i due partner vivono nella paura costante di essere lasciati. Di essere buttati via come una giacca passata di moda.
P.H. Ma questo è nella natura di ogni accordo.
Z.B. Certo, ma in passato era difficile spezzare un legame, anche quando non dava più soddisfazione. La separazione era complicata, era l’alternativa a un matrimonio – diciamo così – inesistente. Si soffriva, ma si rimaneva insieme.
P.H. E allora la libertà di potersi lasciare è peggio della costrizione a vivere insieme in uno stato di infelicità?
Z.B. Si guadagna qualcosa, ma si perde anche qualcosa. Uno è più libero, ma purtroppo deve subire il fatto che anche il partner è più libero. E questo porta a una vita in cui le relazioni e le unioni vengono formate secondo il modello del leasing. Chi può sciogliersi dai legami, lo farà subito senza fare alcuno sforzo per mantenerli. Le persone contano solo fin tanto che producono soddisfazione. Dietro di questo c’è la convinzione che i legami duraturi siano in contrasto con la ricerca della felicità.
P.H. E sarebbe un errore, come Lei scrive in Amore liquido, il Suo libro sull’amicizia e i legami affettivi.
Z.B. È il problema dell’amore liquido. In tempi turbolenti ognuno ha bisogno di amici e partner che non lo abbandonino. Che siano presenti nel momento del bisogno. I 16 miliardi di dollari nelle casse di Facebook non fanno che capitalizzare questa esigenza di non essere soli. D’altronde, tutti sentiamo l’urgenza di affidarci a qualcuno e di legarci. Temiamo di perdere qualcosa. Cerchiamo un porto sicuro, ma allo stesso tempo vogliamo avere le mani libere.
P.H. Lei è stato sposato con Janina Lewinson, deceduta nel 2009, per 61 anni. Dal momento del vostro primo incontro – scrive Sua moglie nelle sue memorie Un sogno di appartenenza – Lei non si staccò mai dal suo fianco. Ogni volta che la chiamava al telefono, «guarda caso!», Lei aveva un impegno che La portava proprio là dove Sua moglie voleva andare. E quando Janina Le comunicò che era incinta, Lei si mise a ballare per strada e la baciò, nonostante fosse in uniforme da capitano dell’esercito polacco, cosa che fece scalpore. Ancora decenni dopo il matrimonio, scrive Janina, Lei continuava a mandarle lettere d’amore. In che consiste il vero amore?
Z.B. Quando incontrai Janina, capii subito che non avevo bisogno di cercare ancora. Fu amore a prima vista. Nel giro di nove giorni le feci la proposta di matrimonio. Il vero amore è quel piacere – difficile da capire, ma travolgente – dell’«io e tu», dell’esserci l’uno-per-l’altro, del diventare uno. Il godimento che trovo in qualcosa che non è importante solo per me. Essere usato o diventare addirittura insostituibile è un sentimento che dà felicità! Arrivarci non è facile. Diventa irraggiungibile se uno continua a rimanere nella solitudine dell’egoista, interessato solo a sé stesso.
P.H. L’amore, dunque, impone un sacrificio.
Z.B. Se l’essenza dell’amore sta nell’attitudine a prendersi cura dell’oggetto d’amore in tutto e per tutto, vuol dire che colui che ama deve essere pronto a mettere in secondo piano la preoccupazione per sé stesso rispetto a quella per la persona amata. Dev’essere disposto a trattare la propria felicità come secondaria, come un effetto collaterale della felicità della persona amata. Per essa, colui che ama – per dirla col poeta greco Luciano – «ipoteca il suo destino». In una relazione d’amore, altruismo ed egoismo non sono, come si pensa di solito, in antinomia inconciliabile. Si legano, invece, si mescolano tanto che alla fine non si possono più distinguere fra loro o essere separati.
P.H. L’americana Colette Dowling ha chiamato la paura delle donne davanti all’indipendenza «complesso di Cenerentola». La voglia di sicurezza, di calore e di sentirsi accudita è un’«emozione pericolosa», afferma Dowling e ammonisce le donne a non rubarsi da sole la loro libertà. Che cosa non la convince in questo ammonimento?
Z.B. Dowling metteva in guardia dalla spinta a preoccuparsi degli altri col rischio di perdere la possibilità di balzare a piacimento su un nuovo carro. È tipico delle utopie private di ragazzi e ragazze dell’età consumistica rivendicare per sé enormi spazi di libertà. Si ritengono l’ombelico del mondo e pensano di poter giocare sempre da solisti. E non ne hanno mai abbastanza.
P.H. La Svizzera, in cui sono cresciuto, non era una democrazia. Fino al 1971 le donne, cioè la metà della popolazione, non avevano il diritto di voto. A tutt’oggi continua a non esserci uguaglianza retributiva a parità di lavoro, e ai livelli dirigenziali delle imprese le donne sono sottorappresentate. Non hanno dunque le donne tutti i motivi per affrancarsi dalle dipendenze?
Z.B. La parità negli ambiti citati è importante. Ma nel femminismo vanno distinte due correnti. Una, è quella che vuole rendere le donne indistinguibili dagli uomini. E così le donne vogliono essere arruolate nell’esercito e partecipare alle guerre, e si domandano: perché non ci è permesso di uccidere persone, come è consentito fare agli uomini? L’altra corrente mira a rendere il mondo più femminile. La vita militare, la politica, tutti gli organismi istituzionali che sono stati creati, sono stati fatti da uomini per uomini. Se molte cose oggi vanno male, è conseguenza di questo fatto. Uguali diritti, certo. Ma è proprio necessario che le donne seguano anche valori che sono stati creati da uomini?
P.H. In una democrazia, non si dovrebbe forse lasciare questa decisione alle stesse donne?
Z.B. In ogni caso, non credo proprio di potermi aspettare che il mondo migliori di molto, se le donne ricalcano pari pari quello che hanno fatto e fanno tuttora gli uomini.
P.H. Nei primi anni del Suo matrimonio Lei fu un casalingo ante litteram. Cucinava, accudiva i due figli piccoli, mentre Sua moglie lavorava in ufficio. Era piuttosto insolito per la Polonia di allora, non è vero?
Z.B. Non era tanto insolito, anche se la Polonia era di stampo conservatore. Sotto questo aspetto i comunisti erano rivoluzionari, nel senso che consideravano uomini e donne come lavoratori senza distinzione. La novità nella Polonia comunista fu che erano moltissime le donne che andavano in fabbrica o in ufficio. Per portare avanti una famiglia c’era bisogno all’epoca di due salari.
P.H. Ciò ebbe come conseguenza un cambiamento della posizione della donna e quindi un cambiamento nel rapporto fra i sessi.
Z.B. Fu un fenomeno interessante. Le donne cominciarono a guardare a sé stesse come fattore economico. Nella vecchia Polonia il marito era l’unico ad assicurare il sostentamento, responsabile dell’intera famiglia. Ma in realtà il contributo delle donne all’economia era enorme. Le donne svolgevano tutta una serie di lavori, che però non venivano considerati e non erano valutati in termini economici di mercato. Un esempio: quando in Polonia fu aperta la prima lavanderia pubblica, divenne possibile portarvi la propria biancheria sporca per farla lavare, cosa che ovviamente significava un enorme risparmio di tempo. Mi ricordo che mia madre passava due giorni a settimana per lavare, asciugare e stirare la biancheria per la famiglia. Ma le donne erano restie a fare uso della nuova possibilità. I giornalisti si chiedevano perché, e dicevano alle donne che far lavare la biancheria costava loro molto meno che lavarla personalmente. «Non è possibile!?», gridavano le donne, e facevano i conti davanti ai giornalisti: i costi dei detersivi, del sapone e del combustibile per la stufa per far bollire l’acqua sommati insieme erano inferiori a quanto pagavano per far lavare la biancheria dalla lavatrice della lavanderia. Non mettevano minimamente in conto il loro lavoro. Non veniva loro in mente che esso pure ha un prezzo.
P.H. In Occidente le cose non andavano diversamente.
Z.B. Ci vollero parecchi anni perché la società si abituasse al dato di realtà che anche le prestazioni delle donne nelle attività casalinghe hanno l’etichetta con un prezzo. Ma dal momento in cui questo fatto entrò nella coscienza, ben presto in Polonia diventarono pochissime le famiglie con donne casalinghe tradizionali.
P.H. Nelle sue memorie Janina scrive che Lei si occupò di tutto quando, dopo la nascita delle due gemelline, lei fu colpita da febbre puerperale. Si alzava di notte, quando le due bambine Lydia e Irena strillavano, dava loro le poppate, cambiava le fasce, che poi lavava al mattino nella vasca da bagno e appendeva ad asciugare dietro la stufa. Portava Anna, la primogenita, all’asilo, andava a riprenderla e faceva la fila pazientemente davanti ai negozi per fare le compere. Tutto ciò, mentre al contempo svolgeva tutti i Suoi compiti di docente, seguiva i Suoi studenti, scriveva la Sua tesi di dottorato, e partecipava agli incontri politici. Come è riuscito a star dietro a tutti questi impegni?
Z.B. Com’era consuetudine nella vita accademica dell’epoca, avevo ampia possibilità di organizzarmi da solo il mio tempo. Andavo all’università, quando dovevo tenere un seminario o una lezione. A parte questo, ero totalmente libero. Potevo rimanere nella mia stanza, andarmene a casa, a passeggiare, a ballare o a fare quel che volevo. Janina invece lavorava in un ufficio. Doveva valutare copioni, fare traduzioni e redazioni presso la società cinematografica statale polacca. Era tenuta a timbrare il cartellino, ed era quindi necessario che io rimanessi a badare ai bambini e a fare le faccende domestiche, quando lei era in ufficio o ammalata. Era una cosa ovvia… Non ci furono conflitti di sorta.
P.H. Janina e Lei siete cresciuti in contesti differenti. Janina proveniva dalla famiglia benestante di un medico, mentre in quella che era la Sua famiglia, quella in cui è nato, il denaro era sempre scarso. Probabilmente Janina non era preparata a fare la donna di casa, a cucinare, fare le pulizie, sbrigare tutte le faccende alle quali nella casa dei genitori provvedevano dei collaboratori familiari.
Z.B. Io sono cresciuto in cucina: cucinare per me era una attività normale. Janina pure cucinava, ma solo quando era necessario. Lei cucinava secondo le ricette, tenendo un libro di cucina davanti agli occhi, una cosa terribilmente noiosa. Per questo non le piaceva nemmeno, farlo. Io invece avevo osservato giorno dopo giorno mia madre, in che modo faceva miracoli ai fornelli, creava manicaretti con niente. Non avevamo molto denaro, ma lei, partendo da prodotti alimentari molto scadenti, riusciva a preparare piatti gustosi. Così ho assorbito l’abilità in cucina in modo naturale. Non è un talento, e non mi è stato nemmeno insegnato. Semplicemente avevo osservato come si facevano le cose.
P.H. Janina diceva di Lei che era una perfetta «madre ebrea». Ancor oggi Lei ama cucinare, anche se non dovrebbe più mettersi ai fornelli.
Z.B. Mi piace farlo, perché la cucina è creatività. Mi sono reso conto che quello che si fa in cucina assomiglia molto a quello che si fa davanti al computer, quando si scrive: si crea qualcosa. È un lavoro creativo, interessante, nient’affatto noioso. D’altronde: una buona coppia non è la combinazione di due persone identiche. Una buona coppia è quella in cui i due partner si completano a vicenda. Quello che manca a uno, ce l’ha l’altro. Janina e io eravamo così. Lei non amava cucinare, io sì, e così ci completavamo reciprocamente.
Esperienza e memoria
Destino: come facciamo la storia, da cui siamo fatti
Peter Haffner Lei aderì al Partito del Lavoro polacco PPK, il partito comunista della Polonia, nel 1946, un anno prima di Leszek Koakowski, il filosofo deceduto nel 2009, che una volta espatriato si era dedicato alla ricerca presso l’All Souls College di Oxford. Lei uscì dal partito nel 1968, lui ne era stato espulso due anni prima. A differenza di Lei, Koakowski fu in seguito un dichiarato antimarxista.
Zygmunt Bauman Koakowski e io non abbiamo concordato fra noi la nostra adesione al partito comunista. All’epoca, non sapevamo nulla l’uno dell’altro, non ci conoscevamo. Quando, in seguito, cercammo di richiamare alla memoria retrospettivamente i nostri sentimenti di allora, prima in Polonia poi in esilio e infine dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, ci trovammo d’accordo su un punto: entrambi avevamo creduto che il programma dei comunisti polacchi del 1944-45 fosse l’unico in grado di tenere viva la speranza di far uscire il nostro paese dall’arretratezza d’anteguerra e dalla devastazione della guerra. L’unico programma che potesse portare la nazione fuori dalla distruzione morale, dall’analfabetismo, dalla povertà e dall’ingiustizia sociale. I comunisti volevano distribuire la terra ai contadini impoveriti, volevano migliorare le condizioni di vita dei lavoratori nelle fabbriche, nazionalizzare le industrie. Volevano occuparsi di assicurare l’istruzione per il più ampio numero di persone possibile, e questa promessa in effetti l’hanno mantenuta. Ci fu una rivoluzione nel campo della formazione, la cultura fiorì, nonostante i favoritismi; il cinema polacco, il teatro, la letteratura raggiunsero vette altissime. Tutto questo oggi non c’è più in Polonia. Nel mio volumetto L’arte della vita…
P.H. …un libro stupendo, il mio preferito fra quelli da Lei scritti…
Z.B. …in questo libro, dunque, discutevo l’idea che il cammino della vita umana poggia su due fattori che interagiscono fra loro. Uno è il destino. Il destino è l’etichetta sintetica con la quale indichiamo tutto ciò che è al di là del nostro controllo. L’altro fattore è costituito dalle opzioni realistiche, che il destino consente. Una ragazza di New York nata a Harlem ha un destino diverso da quello di una ragazza nata a Central Park. Perché il set di opzioni disponibili per ciascuna di esse è diverso.
P.H. Entrambe, comunque, hanno un set di opzioni, hanno da scegliere. Che cosa decide, dunque, quale delle loro possibilità ciascuna di esse cercherà di realizzare?
Z.B. Il carattere. Il fascio delle opzioni realistiche, offerte a ognuno dal destino, non può essere superato. Ma persone diverse opereranno una scelta diversa, e questa è questione di carattere. C’è quindi motivo allo stesso tempo per il pessimismo e per l’ottimismo. Per il pessimismo, perché ci sono limiti insuperabili alle possibilità che ci vengono offerte, e questo è ciò che chiamiamo destino. Per l’ottimismo, perché ciascuno può lavorare sul proprio carattere, cosa che non può fare sul destino. Per il mio destino io non porto alcuna responsabilità, è decisione di Dio, se vogliamo. Porto invece la responsabilità per il mio carattere, perché questo è qualcosa che può essere formato, purificato e migliorato.
P.H. Come questi due elementi hanno giocato nella Sua vita personale?
Z.B. Anche il mio cammino, come quello di chiunque altro, è stato una combinazione di destino e carattere. Contro il destino non potevo fare nulla. Quanto a quello che chiamiamo carattere: non pretendo che sia perfetto, ma io mi assumo la responsabilità di ogni decisione che ho preso. Tutto questo è irreversibile. Ho fatto quello che ho fatto, e il destino da solo non può spiegarlo.
P.H. Guardando indietro alla Sua vita, che cosa avrebbe fatto diversamente?
Z.B. Che cosa avrei fatto di diverso? Oh no, a questo tipo di domande non rispondo.
P.H. D’accordo.
Z.B. Che cosa avrei fatto di diverso? Da giovanissimo, anzi ancora ragazzo, scrissi un romanzo, una biografia dell’imperatore romano Adriano. Nel corso della ricerca preparatoria mi imbattei in una frase che non ho più dimenticato. Parlava di quanto fosse insensato riflettere su interrogativi come questo, che cosa avresti fatto in maniera diversa. La frase è questa: «Se il cavallo di Troia avesse figliato, il sostentamento dei cavalli sarebbe costato pochissimo».
P.H. Potenza e impotenza della parolina «se».
Z.B. Il punto, naturalmente, è che il cavallo di Troia non poteva avere figli, perché era fatto di legno. Questa è la risposta alla domanda, che cosa avrei fatto di diverso. Come si sarebbe sviluppata la storia successiva, se avessi fatto scelte differenti? Non attribuisco alle mie decisioni una particolare importanza. Seguirono la logica del momento. Svolte molto importanti nella mia vita si verificarono senza che io avessi fatto nulla, non furono frutto della mia iniziativa. Che io fuggissi da Pozna, che fossi costretto ad abbandonare la Polonia quando arrivarono i nazisti, non fu mio desiderio né mia volontà. Da solo ho deciso, dopo la guerra, di aderire al partito comunista. Nelle circostanze date e dopo l’esperienza che avevo fatto questa era la cosa migliore che potessi immaginare e fare. In questa convinzione non ero solo: molti di quelli che più tardi sarebbero diventati accesi anticomunisti, fecero la mia stessa scelta, ad esempio Leszek Koakowski.
P.H. Janina, che sotto la Sua influenza aderì al partito comunista, descrive l’orrore da cui Lei fu colto quando si rese conto che le informazioni su una collega che aveva dato a un compagno, avevano portato alla destituzione di quella collega. A Janina Lei spiegò in quella occasione che il partito era purtroppo «ancora pieno di individui che non meritavano fiducia, di carrieristi senza scrupoli e gente immatura», ma che esso era tuttavia «la più potente forza motrice della giustizia sociale». In seguito, Koakowski e Lei non avete voluto mai più trincerarvi dietro giustificazioni del genere.
Z.B. I nostri processi individuali di disinganno, di presa di coscienza – lenta, e tuttavia inarrestabile – dell’abisso che separa la teoria dalla prassi, di conoscenza dei deleteri effetti morali dell’ipocrisia che vi era connessa, andarono avanti più o meno in parallelo. Fino a un punto: l’illusione che il partito potesse pur sempre essere riportato sulla retta via, da cui si era allontanato, che i suoi grandi errori potessero essere corretti dall’interno, durò in me uno o due anni più a lungo che in Leszek, e di ciò continuo a vergognarmi. In seguito, in esilio, i nostri percorsi si divaricarono ampiamente. A differenza di Leszek, io non feci mai nessun passo verso la controparte politica, e ancor meno mostrai mai alcun entusiasmo per essa. Io rimango ancor oggi un socialista.
P.H. Lei militò come soldato nella divisione polacca dell’Armata Rossa e, dopo la guerra, come ufficiale nel Korpus Bezpieczestwa Wewntrznego (KBW), il corpo della Sicurezza interna. Vi erano previsti, accanto all’addestramento militare, anche corsi di formazione politica o, come sarebbe meglio dire, di indottrinamento?
Z.B. Finché la nostra guerra fu contro gli occupanti tedeschi, non ci fu molto di tutto ciò. L’unico obiettivo era mettere fine all’occupazione, mentre il pensiero di come la Polonia dovesse essere organizzata dopo la guerra, rimaneva in secondo piano. Le cose cambiarono quando le operazioni militari finirono. I soldati del KBW rappresentavano una sezione trasversale della popolazione. I modi di vedere e le preferenze erano quindi diversi, uno specchio delle tensioni esistenti all’interno della società polacca. L’argomento principale dell’istruzione politica affiancata alle consuete virtù militari era la questione sempre aperta: «di quale Polonia i polacchi hanno bisogno con la massima urgenza?». Il «marxismo-leninismo» contro la «filosofia borghese» era forse il tema principale nel mondo accademico. Ma coi soldati io discutevo di interrogativi come: «A chi appartengono le fabbriche?», «A chi appartiene la terra coltivabile?».
P.H. Nel 2007 lo storico tedesco-polacco Bogdan Musia La attaccò per il fatto che Lei aveva lavorato per il KBW. Ma Musia non trovò alcuna prova che Lei avesse avuto a che fare con gli assassinii, le torture e lo spionaggio di partigiani anticomunisti, che vengono rimproverati al KBW.
Z.B. Quel che è vero nell’articolo di Musia pubblicato dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» non era nuovo. Tutti sapevano che ero stato comunista, e precisamente dal 1946 al 1967, e anche che avevo prestato servizio per diversi anni nella cosiddetta «Armata Interna». Quel che c’era di nuovo in quell’articolo era semplicemente che avevo lavorato anche per il servizio di spionaggio militare. All’epoca avevo 19 anni, e vi rimasi solo tre anni. Non ho mai reso pubblico questo fatto perché avevo sottoscritto un impegno a tenere il segreto.
P.H. E qual era il compito che vi svolgeva?
Z.B. Niente di particolare, banale lavoro d’ufficio. Facevo parte della sezione per la propaganda e l’agitazione. Dovevo preparare il materiale per la formazione teorica e politica degli arruolati al servizio militare di leva, compilare pamphlet ideologici. Per mia fortuna, finì presto.
P.H. In un documento, citato da Musia, si parla dell’«informatore Semjon», che era il Suo nome di copertura: «Le sue informazioni sono preziose. Data la sua origine semitica, non può essere impiegato in ruoli operativi». Il Suo compito era di raccogliere informazioni sui nemici del regime?
Z.B. Era, con ogni probabilità, quello che si aspettavano da me, ma non ricordo assolutamente di aver mai fornito materiale del genere. Io stavo nell’ufficio e scrivevo, non proprio il luogo più adatto per raccogliere simili informazioni. Quello che Musia non dice è che ho lavorato è vero per tre anni nei servizi segreti militari, ma io stesso sono stato perseguitato per quindici anni dai servizi segreti. Fui spiato, furono compilati rapporti su di me, fu intercettato il mio telefono, furono installate cimici nella mia abitazione ecc. Poiché ero un critico del regime, fui prima espulso dall’esercito e poi dall’università e quindi dalla Polonia.
P.H. Dal tempo della rivoluzione ungherese del 1956 Lei fu inserito nella categoria dei ribelli del partito. Janina racconta al riguardo come Lei e la Sua famiglia foste incalzati con varie molestie. Per sposarsi, doveva avere l’autorizzazione del Suo superiore militare, il colonnello Zdzisaw Bibrowski. Che era come Lei comunista, ma anche lui chiaramente non troppo fedele alla linea del partito.
Z.B. Da Bibrowski imparai a distinguere le parti sane della società dalle formazioni cancerose. Mi aprì gli occhi davanti all’abisso che si apriva fra l’idea socialista, cui aderivo con tutto il cuore, e il «socialismo reale», che facevo non poca fatica ad accettare, già molto prima che il dissidente tedesco-orientale Rudolf Bahro nel 1977 coniasse l’espressione. E molto prima che fossi costretto ad abbandonare la Polonia. Bibrowski mi mostrò che la fedeltà all’idea del socialismo richiede che si lotti con le mani e con i piedi contro il suo annacquamento e la sua corruzione. Una volta imparata questa lezione, non l’ho più dimenticata.
P.H. Janina scrive che Bibrowski nel 1952 fu allontanato dal suo incarico perché ebreo.
Z.B. Credo che, considerate le sue opinioni, prima o poi se ne sarebbe andato via comunque. Era un intellettuale di altissimo livello, un uomo di spirito aperto e critico, che aveva raccolto intorno a sé ufficiali con analoghe qualità e li aveva protetti dalle «epurazioni». Fu giudicato inadattto a realizzare la rapida professionalizzazione della Sicurezza dello Stato. Bibrowski non era anticomunista, al contrario. In nome della propria fede, in nome del comunismo, si ribellava al cattivo uso che di esso si faceva, al suo screditamento e alla sua perversione. Era un uomo che voleva servire il regime ma insieme conservare la sua umanità, per proteggere l’umanità degli altri. Ma per l’appunto: Amicus Plato, sed magis amica veritas, come recita il detto attribuito ad Aristotele. Amo Platone, ma ancora di più amo la verità. Bibrowski ritornò alla sua professione di ingegnere. Di lì a poco il piccolo gruppo, che aveva sotto le sue ali, ne seguì l’esempio, e con esso anch’io che ne facevo parte.
P.H. Lei pure non lo fece spontaneamente. Nel gennaio 1953 fu congedato dall’esercito come politicamente inaffidabile. Due mesi dopo morì Josif Stalin, allora ammirato anche in Occidente come «grand’uomo», il quale, come Janina ricorda, «con pugno di ferro [aveva] sfracellato la mostruosità del fascismo». Come visse Lei la morte di Stalin?
Z.B. Lo choc fu forte. In fondo, per 13 anni avevo vissuto, e con me molti altri ben più intelligenti di me avevano vissuto, all’ombra gigantesca di quest’uomo, totalmente fiduciosi nella sua saggezza e abbandonati al suo giudizio. Ancor oggi faccio fatica a comprendere appieno come sia stato possibile accettare quel vero e proprio soffocamento spirituale, nonostante tutte le conoscenze che nel frattempo ho acquisito sulla psicologia del totalitarismo. Sono stati scritti volumi sul culto di Stalin e di Hitler. Il fenomeno è stato descritto con acume, ma continua ad essere riconosciuto come disperatamente inafferrabile. Chi voglia farsi una chiara idea dell’esperienza di questo culto della personalità, non può far di meglio che leggere il libro Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksievi, premio Nobel per la letteratura. Anche se non è in grado di spiegarlo, l’autrice si avvicina il più possibile al fenomeno. Illumina il mistero e consente a chi non ha vissuto personalmente quell’esperienza di percepirne la complessità. Al momento presente, peraltro, mi perseguita l’incubo che un simile culto possa tornare in auge in un futuro forse non troppo lontano.
P.H. Quanto La attirava il marxismo come teoria, come edificio concettuale intellettualmente impegnativo?
Z.B. Non credo che una qualsiasi riflessione sui rapporti di produzione e le forze produttive, sulla legge del valore o sulla emancipazione della classe operaia e cose simili abbia avuto un’importanza decisiva nell’orientarmi verso il comunismo. Non vi entrai attraverso le porte della filosofia o dell’economia politica. Fu piuttosto il frutto di un esame della situazione esistente, unito a una concezione romantica, ribellistica, della storia, e del ruolo che noi giovani dovevamo giocare nella realizzazione di quella concezione. Come scrisse splendidamente nel 1956 Leszek nel suo saggio La morte degli dei, ci affascinava il «mito di un mondo migliore», il sogno di un «regno di uguaglianza e libertà», il sentimento di essere «fratelli dei comunardi parigini, dei lavoratori della Rivoluzione russa, dei soldati della guerra civile spagnola».
P.H. Dopo che fu congedato dall’esercito, ci risulta dalle memorie di Janina che la contraddizione fra le parole e i fatti del «socialismo reale» La portò a concepire l’idea che anche la teoria marxista avesse bisogno di essere reinterpretata, a cent’anni di distanza della sua formulazione. Come la pensa oggi, che cosa rimane valido di Marx?
Z.B. La sua analisi dei meccanismi economici, naturalmente, è superata. Marx scriveva nella metà del XIX secolo, in una situazione del tutto diversa. E tuttavia ci sono osservazioni molto importanti da lui enunciate, che mi guidano ancora oggi nel mio lavoro. Una di esse, quella che è la mia preferita, è la giustificazione che egli dava della sociologia, l’individuazione di quel che era la sua vera ragion d’essere. Marx afferma: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». In questa considerazione trova il suo fondamento l’esistenza della sociologia come scienza. Uno può passare tutta una vita ad approfondire questo fondamento. Le situazioni sono date, non le abbiamo scelte noi. La domanda è: come sono nate e a che cosa ci costringono, come ci confrontiamo con esse e come possiamo cambiarle. Come possiamo noi, sotto la pressione delle condizioni esistenti e con la conoscenza che ne abbiamo, fare storia in maniera consapevole? Qui è il segreto della nostra esistenza.
P.H. Che cosa significa questo per la Sua sociologia in particolare?
Z.B. Mi ha ispirato soprattutto il modo in cui Antonio Gramsci, filosofo, marxista e fondatore del Partito comunista italiano, ha utilizzato questo pensiero di Marx. Lo seguo nella forma che io chiamo «ermeneutica sociologica», da non confondere con la sociologia ermeneutica, che è una scuola della sociologia. Si tratta di ragionare sulle idee di fondo che le persone adottano, le linee guida che seguono. L’ermeneutica sociologica riflette su quelle che sono le condizioni, le circostanze e la concezione della società. Noi siamo una specie all’interno della Natura, quella di Homo sapiens, condannata a pensare, noi facciamo esperienza di qualcosa (erfahren) e la viviamo (erleben) non soltanto a livello fisico. Le esperienze (Erfahrungen) sono pezzettini di informazione e disinformazione, da cui noi cerchiamo di ricavare un senso, di concepire idee, di elaborare piani. L’ermeneutica classica invece fa derivare le idee attuali da idee precedenti, le interpreta sulla base del loro passato, mette in luce come si moltiplicano, producono nuovi germogli, si prostituiscono. Ma secondo me le cose non funzionano così. Dalle idee che dominano lo spirito umano, che vanno a impattare sul corpo della società, dobbiamo cercare di capire come si legano il primo con la seconda. È qui il problema: perché ci dividiamo in campi politici, partiti, appartenenze e lealtà differenti? Per la semplice ragione che interpretiamo in maniera diversa la medesima esperienza. La concezione di Gramsci era quella della filosofia egemonica, comunemente chiamata buon senso. La filosofia egemonica non è filosofia nel senso della critica filosofica: nessuna discussione su Kant, Leibniz ……
Autore-Zygmunt Bauman è stato uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Ha insegnato Sociologia presso l’Università di Leeds. Laterza ha pubblicato quasi tutti i suoi libri, tra cui: Voglia di comunità; Modernità liquida; Amore liquido; Vita liquida; Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido; Paura liquida; Capitalismo parassitario; “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. Falso!; Danni collaterali; Babel (con E. Mauro); Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi; Stranieri alle porte; Retrotopia; L’ultima lezione (con W. Goldkorn); Il disagio della postmodernità; Cecità morale (con L. Donskis); A tutto campo. L’amore, il destino, la memoria e altre umanità (con P. Haffner); Male liquido (con L. Donskis); Un mondo fuori asse.
L’ultima intervista a uno dei più grandi intellettuali del Novecento.
Un estratto da “A tutto campo”, l’ultima intervista a Zygmunt Bauman
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Modernità: della costrizione a non essere nessuno, o a diventare un altro
Peter Haffner Fra gli autori che L’hanno influenzata in maniera significativa, ce ne sono due che non provengono dal recinto della Sua specializzazione, cioè dalla sociologia: lo scrittore Franz Kafka e lo psicologo Sigmund Freud. Che cosa hanno da dirci sulla conditio humana del presente, sulla nostra vita?
Zygmunt Bauman È difficile rispondere a questa domanda. Come si può indicare a dito quello che ci insegnano oggi? Il pensiero del presente è un prodotto collettivo di autori come loro. Una volta che un’idea diventa di dominio comune, è morta, perché nessuno si ricorda più da dove viene. Appartiene ormai alla classe delle cose autoevidenti. Kafka fu assolutamente rivoluzionario, e Freud fu assolutamente rivoluzionario. Ma quando noi oggi riflettiamo su di loro, ci appaiono semplicemente ortodossi. Le idee cominciano la loro vita come eresie, la proseguono fino a diventare ortodossia, e la finiscono come superstizioni. Questo è il destino di ogni idea nella storia. Kafka e Freud sono già uniti nella «doxa», nel senso della filosofia greca, cioè come opinione universalmente riconosciuta.
P.H. Che cosa c’era, dunque, di rivoluzionario in Kafka?
Z.B. La sua analisi del potere e della colpa. Il processo e Il castello sono due documenti fondamentali della modernità. A mio avviso, nessuno dopo Kafka è riuscito a migliorare l’analisi del potere. Prendiamo Il processo. Un tale viene accusato. Egli vorrebbe sapere di che cosa è accusato, ma non ha modo di scoprirlo. Vorrebbe giustificarsi, ma non sa per che cosa. È pieno di buona volontà e deciso a pellegrinare presso tutte le istituzioni che possano dargli informazioni al riguardo. Cerca inutilmente di arrivare al processo. Alla fine, viene giustiziato senza sapere in che cosa consista la sua colpa. La sua colpa consiste nel fatto di essere stato accusato.
P.H. Il principio base della procedura penale di uno Stato di diritto è la presunzione di innocenza: fin tanto che la colpa non è provata, chiunque va considerato innocente.
Z.B. Kafka mostra che le cose vanno in maniera diversa. Poiché gli innocenti non sono accusati, chi è accusato dev’essere colpevole. Il fatto di essere ritenuto colpevole rende Josef K., il protagonista del romanzo, criminale. È lui che deve dimostrare la sua innocenza. Ma per poterlo fare, deve sapere di che cosa viene incolpato. Ma non lo sa, e nessuno glielo dice. È una situazione tragica.
P.H. E nel Castello?
Z.B. L’eroe del romanzo, un certo K., presume che delle persone molto in alto nel castello siano esseri razionali. Certo, non ha confidenza con loro né loro ne hanno con lui; tutto è misterioso, non trasparente e inavvicinabile. Egli lotta inutilmente per ottenere il riconoscimento della propria esistenza professionale e privata. Ma K. crede comunque che i funzionari del castello si comporteranno in maniera razionale, e che lui potrà parlare con loro del motivo, della causa della sua sconfitta. Kafka ci dice poco su questo K., ma dal testo si capisce che è presumibilmente una persona colta. È un uomo razionale, uno che, come dice Max Weber, sceglie i mezzi giusti per i suoi obiettivi dando per presupposto che gli altri pure operino in maniera razionale. Ma le cose non stanno così, e questo è il suo errore peggiore. Poiché il potere degli abitanti del castello consiste proprio nel fatto che si comportano in modo irrazionale. Se si comportassero in maniera razionale, si potrebbe trattare con loro, li si potrebbe probabilmente convincere o si potrebbe combattere contro di loro e forse vincere. Ma se sono irrazionali, se il loro potere consiste nella irrazionalità, è impossibile farlo.
[…]
P.H. Che cosa significa Sigmund Freud per Lei?
Z.B. Freud, come Kafka, è diventato parte del nostro pensiero. Un bene comune, per così dire. Per noi, oggi, concetti come inconscio, «Es» e «Io» e «Super-io», sono familiari. Il filosofo, sociologo e psicologo americano George Herbert Mead, che ha fornito un contributo essenziale alla questione della identità, non usa questi termini, ma intende sostanzialmente la stessa cosa quando parla di I e Me, di «Io» e «Me». «Io» sono quello che viene dal mio pensiero, quello che sono veramente, quello che è autentico. Ma io sono diviso in due, perché a questo «Io» che viene dall’interno si aggiunge dall’esterno il «Me», quello che le persone intorno a me pensano di me, come mi vedono, come credono che io sia in realtà. La nostra vita è una lotta per la coesistenza amichevole fra l’«Io» e il «Me». Questo è un altro modo di raccontare la storia raccontata da Sigmund Freud.
P.H. Mead diceva che l’individuo riceve la sua identità tramite l’interazione con altri individui. Ci sono più «Me» diversi, e compito dell’«Io» è di sintetizzarli in una immagine unitaria di sé. L’identità nella modernità «liquida» o «fuggevole» di oggi ha qualcosa a che fare con questa interazione, ma è molto più complessa. Ognuno ha ora non più solo tanti «Me» ma anche tanti «Io». Di questo Lei si è occupato soprattutto.
Z.B.L’identità è oggi una questione di negoziazione. È, in effetti, liquida: noi non siamo nati con una identità data una volta per tutte, che non cambia mai. Di più: possiamo avere diverse identità contemporaneamente. In una conversazione su Facebook Lei può scegliere una identità, nella successiva conversazione un’altra. Può cambiare di volta in volta la Sua identità, ci sono identità che vanno di moda. Questo gioco combinato di «Io» e «Super-io» o di «I» e «Me» è parte del nostro compito quotidiano. Freud preparò il terreno per questo gioco.
[…]
P.H. L’identità, oggi – dice il sociologo francese François de Singly –, non ha più radici. Alla metafora delle radici, egli preferisce quella dell’àncora. Diversamente dall’abbandono delle proprie radici, che è rinuncia alle tutele sociali, il levar l’àncora non ha niente di irrevocabile o definitivo. Che cosa non La convince in questa impostazione?
Z.B. Può diventare un altro solo chi cessa di essere chi era. Egli deve rigettare continuamente quello che è stato il suo Io fino ad allora. Di fronte alle continue nuove possibilità quel suo Io gli appare ben presto come non moderno, inappropriato e insoddisfacente.
P.H. Non ha qualcosa di liberatorio, il fatto che uno possa cambiare? In America, nel Nuovo Mondo, il mantra era ed è: scopriti di nuovo!
Z.B. Per la verità, non è una strategia nuova quella di darsela a gambe quando la situazione diventa scabrosa. È quello che sempre hanno cercato di fare gli uomini. Ma è nuovo il desiderio di sottrarsi assegnandosi un nuovo Sé scelto dal catalogo. E quello che all’inizio poteva essere stato l’approdo consapevole su nuove sponde, si trasforma rapidamente in una ossessiva routine. Il liberatorio «puoi diventare un altro» diventa il costrittivo «devi diventare un altro». Questo «devi» ha poco a che fare con l’agognata libertà, e molti vi si ribellano proprio per questo motivo.
P.H. Che significa, allora, essere libero?
Z.B. Essere liberi vuol dire poter perseguire i propri desideri e obiettivi. L’arte di vivere orientata al consumo, che è tipica della modernità liquida, promette certo questa libertà, ma non realizza quel che promette.
[…]
P.H. Quali altri autori oltre a Kafka, Freud e Simmel citerebbe, fra quelli che L’hanno influenzata in maniera particolare?
Z.B. Molti hanno avuto un ruolo nel mio pensiero, ognuno col suo stile, la sua peculiarità. Antonio Gramsci l’ho già ricordato: non potrò mai sottolineare abbastanza quanto io gli sia debitore. Egli mi ha permesso una onorevole presa di distanza dal marxismo. Solo grazie a lui riuscii a cessare di essere un marxista ortodosso senza diventare un antimarxista. Il mio amico Leszek Kołakowski non poté farlo. Egli riuscì a prendere congedo dal marxismo solo diventando antimarxista. Probabilmente non aveva letto Gramsci, non so. Antonio Gramsci è uno dei filosofi più brillanti, umani, che io conosca.
P.H. E fra i pensatori più recenti?
Z.B. Fra questi ultimi, mi è particolarmente vicino Claude Lévi-Strauss, che va considerato come il fondatore dello strutturalismo etnologico. C’è stato un tempo della mia vita, alla fine degli anni Sessanta, in cui ero completamente preso, incantato da Lévi-Strauss. Che cosa ho preso da lui? Devo precisare che io sono molto eclettico, attingo dovunque trovi qualcosa di eccitante, che si innesta bene nel mio pensiero, ma non mi sento obbligato ad accettare il pensatore in sé. Da Lévi-Strauss ho preso l’abolizione dell’idea di cultura come corpo unitario. Anziché riflettere sulle culture, sulla loro diversità, egli parlava di modalità di approccio universali. Non usava la parola «cultura», ma la parola «struttura». È entrato nella storia come strutturalista. Ma in realtà egli ha rinunciato all’idea di una struttura, di un’organizzazione data, di un assetto fisso delle cose. Insisteva sulla universalità dello strutturarsi. La struttura è per lui un’attività. Non un corpo, ma un’attività in un certo senso incerta, che non finisce mai. Nulla è costituito una volta per tutte, le strutture non sono fossilizzate, pietrificate, immutabili. E proprio così io cerco di descrivere la realtà, le realtà sociali, la loro dinamica. La cultura sta al centro delle mie ricerche come un processo dinamico, che non è mai compiuto.
Descrizione-poesie di Idea Vilariño «Non so cosa sia per me la poesia. È un modo di essere, del mio essere. Tutto il resto della mia vita è fatto di casualità. La poesia non è stata casuale. La mia poesia sono io.»
«Una celebrazione simultanea dell’ebrezza e della disgrazia, senza compiacimenti, senza vie di mezzo, con una capacità di illuminazione e brivido che probabilmente non si può raggiungere senza rinunciare alla vergogna, e che forse si trova allo stato puro soltanto in alcune forme di canzone popolare, nel bolero e nel tango. È questo il mondo in cui si resta intrappolati come in una tagliola leggendo le poesie di Idea Vilariño» – Antonio Muñoz Molina
Una poesia di vibrante sensualità commista a toni di dolente pessimismo, intima e notturna: sono questi i termini entro i quali si dispiega l’opera poetica di Idea Vilariño. Uruguaiana, fu parte integrante di quel gruppo di intellettuali denominato Generación del 45, assieme a Mario Benedetti, Ida Vitale e Juan Carlos Onetti, una delle principali esperienze letterarie novecentesche dell’America Latina. Molta della sua poesia ha come temi l’amore – in particolare quello tormentato con lo stesso Onetti, probabilmente la più famosa relazione della letteratura sudamericana –, la solitudine e soprattutto la morte, lucidamente contemplati a partire da una disincantata consapevolezza dell’insensatezza del vivere.
Vederti ridere toccarti con le mani
vivere con te un giorno un anno tre settimane
dividere vita seria vita quieta con te
trovarti nel letto
nella stanza che ti vesti
che sai di vino che fumi
d’estate che sudi
o nell’amore quando chiudi
gli occhi assenti.
I
A Manuel Claps
Ciò che provo per te è così difficile.
Non è di rose che si aprono nell’aria,
è di rose che si aprono nell’acqua.
Ciò che provo per te. Che prende slancio
o si spezza con tanti tuoi gesti
o con le tue parole fatte a pezzi
e che poi riprendi in un gesto
e mi invade nelle ore gialle
e mi lascia una sete dolce e domata.
Ciò che provo per te, così doloroso
come la povera luce delle stelle
che ci arriva dolorante, affaticata.
Ciò che provo per te, che a volte tuttavia
fa tanta strada senza poi sfiorarti.
1942
—
L’OBLIO
Quando una dolce bocca bacia una bocca addormentata
come se ne morisse,
a volte, quando giunge oltre le labbra
e le palpebre si chiudono colme di desiderio
silenziosamente quanto lo permette l’aria,
la pelle col suo tepore setoso chiede notti
e anche la bocca baciata
nel suo indicibile piacere chiede notti.
Ah, notti silenziose, di lune dolci e oscure,
notti lunghe, sontuose, attraversate da colombe,
in un’aria che si fa mani, amore, tenerezza data,
notti come navi…
È allora, nella passione profonda, quando colui che bacia
sa ah, troppo, senza tregua, e vede che ormai
il mondo diventa per un lui un lontano miracolo,
che le labbra gli aprono ancora più fonde estati,
che la sua coscienza abdica,
e infine anche di se stesso si dimentica nel bacio
e un vento appassionato gli denuda le tempie,
è allora, nel bacio, che le palpebre si chiudono,
e trema l’aria con un sapore di vita
e insieme trema
tutto ciò che non è aria, il fascio ardente dei capelli,
il velluto ora della voce, e, a volte,
l’illusione già piena di morti in sospeso.
1944
—
TORNARE
Vorrei essere a casa
con i miei libri
la mia aria le mie pareti le mie finestre
i miei vecchi tappeti
le mie tende mezze rotte
mangiare sul tavolinetto di bronzo
ascoltare la radio
dormire tra le mie lenzuola.
Vorrei stare addormentata nella terra
no non addormentata
morta e senza parole
no non morta
non essere
ecco cosa vorrei
ancor più che arrivare a casa.
Ancor più che arrivare a casa
e vedere la mia lampada
e il mio letto e la mia sedia e il mio armadio
con l’odore dei miei vestiti
e dormire sotto il peso familiare
delle mie vecchie coperte.
Più che arrivare a casa uno di questi giorni
e dormire nel mio letto.
1954
—
DI NUOVO
Di nuovo la morte
mi gira intorno e come prima
scrupolosamente
mi toglie ogni sostegno
mi vuole fedele e libera
mi separa dagli altri
mi segna
mi definisce
per cancellarmi meglio.
1950
—
POVERO MONDO
Lo distruggeranno
salterà in aria
alla fine scoppierà come una bolla
o esploderà glorioso
come una santabarbara
o più semplicemente
verrà cancellato come
se una spugna bagnata
cancellasse il suo posto nello spazio.
Forse non ci riusciranno
forse lo ripuliranno.
Gli cadrà la vita di dosso come i capelli
e continuerà a girare
come una sfera pura
sterile e mortale
o meno bellamente
vagherà per i cieli
marcendo lentamente
tutto una ferita
come un morto.
Las Toscas, 1962
EPPURE
*
Prendo il tuo amore
eppure
ti do il mio amore
eppure
avremo sere notti
ebbrezze
estati
tutto il piacere
la felicità
la tenerezza.
Eppure.
Ci mancherà sempre
l’infinita bugia
il sempre.
1961
[Traduzione di Laura Pugno]
Breve Biografia di Idea Vilariñonacque a Montevideo nel 1920, dove morì nel 2009. Proveniente da una colta famiglia borghese, cominciò a scrivere poesie prima dei vent’anni, esordendo nel 1945. Professoressa di letteratura fino al colpo di stato del 1973 e poi di nuovo a partire dal 1985, fu anche apprezzata traduttrice. Figura centrale del panorama letterario sudamericano, ricevette nel 1987 il Premio Municipal de Literatura, il più prestigioso riconoscimento del suo paese, e nel 2004 il Premio Konex mercosur a las Letras dell’argentina Konex Foundation.
Romana Bogliaccino-Scuola negata-Le leggi razziali 1938-Come e perché nel 1938 anche nel migliore liceo della Capitale 58 studenti e un’insegnante furono espulsi solo perché ebreiIl caso del liceo “Ennio Quirino Visconti” di Roma assume caratteristiche paradigmatiche nel quadro generale dell’impatto delle “leggi razziali” sulla scuola italiana. Frequentato fin dalla sua fondazione nel 1870 da molti ebrei della comunità romana, finalmente emancipati, il liceo registrò nel 1938 un numero molto elevato di studenti espulsi, ben 58, oltre a una docente. Il libro ricostruisce tutto ciò, attraverso uno studio approfondito di numerosi archivi, per primo quello del liceo “Visconti”, intrecciato con le testimonianze delle famiglie, con le storie degli espulsi, e permette di capire, nel vero senso della parola, cosa sia stato il fascismo e cosa sia stata la persecuzione degli ebrei a Roma dal 1938 al 1944. Perché al di là dei numeri, delle statistiche, dei meri dati, sono le vite delle persone che raccontano la storia, la vera storia del fascismo e delle sue vittime.
Romana Bogliaccino ha insegnato Storia e Filosofia presso il Liceo Classico Statale “Ennio Quirino Visconti” di Roma per più di vent’anni. Impegnata in studi e iniziative didattiche sulla memoria della Shoah, ha ideato e diretto dal 2013 il progetto L’Archivio del Visconti e la Storia, nell’ambito del quale ha promosso la Rete Scuola e Memoria – Gli Archivi scolastici italiani. Ha conseguito il Master Internazionale in Didattica della Shoah presso l’Università Roma Tre ed è tra i soci fondatori dell’associazione ETNHOS (European Teachers Network on Holocaust Studies).
GHIANNIS RITSOS: POETA DELLA RESISTENZA E DELL’IMPEGNO SOCIALE
Poesie da:”Molto tardi nella notte”-
traduzione italiana di Nicola Crocetti, Crocetti, 2020. Selezione a cura di Dario Bertini.
Ghiannis Ritsos, Poeta greco (Monemvasìa 1909 – Atene 1990). La sua vita, segnata da lutti e da miserie, fu animata da un’incrollabile fede negli ideali marxisti, oltre che nelle virtù catartiche della poesia. La sofferta visione decadente caratterizza costantemente la sua poetica, articolandosi di volta in volta su temi quali la memoria, il fascino delle opere e delle cose, la rivoluzione etica e sociale.
Ghiannis Ritsos-dieci poesie
Da Molto tardi nella notte, traduzione italiana di Nicola Crocetti, Crocetti, 2020. Selezione a cura di Dario Bertini.
Insuccesso
Vecchi giornali gettati in cortile. Sempre le stesse cose.
Malversazioni, delitti, guerre. Che cosa leggere?
Cade la sera rugginosa. Luci gialle.
E quelli che un tempo avevano creduto nell’eterno sono invecchiati.
Dalla stanza vicina giunge il vapore del silenzio. Le lumache
salgono sul muro. Scarafaggi zampettano
nelle scatole quadrate di latta dei biscotti.
Si ode il rombo del vuoto. E una grossa mano deforme
tappa la bocca triste e gentile di quell’Uomo
che ancora una volta provava a dire: fiore.
Karlòvasi, 4.VII.87
Senza riscontro
Grandi camion stracarichi, coperti di tele cerate,
attraversano le strade tutta la notte. Il rumore delle acque
luride
si ode nelle fogne oscure, misteriose
sotto il sonno dei prigionieri. Non è venuto nessuno.
Invano aspettammo tanti anni. La strada punteggiata
di stazioni di servizio e alberelli stenti. Nel cortile della prigione
ciotole vuote di yogurt e certe piume di uccelli. La prima
stella
gridò: “Coraggio, Ghiorghis”, poi tacque. E Petros,
irriducibile sempre, disse: “In materia di musica
prendi esempio dalla diligenza delle piccole rondini”.
Karlòvasi, 5.VII.87
All’ospedale
Pomeriggio tranquillo. Una ciminiera, i tetti, la linea del
colle,
una nube minuscola. Con quanto amore
guardi dalla finestra aperta il cielo
come se gli dicessi addio. E anch’esso ti guarda. Davvero,
che cos’hai preso? che cos’hai donato? Non hai tempo di
calcolare.
La tua prima parola e l’ultima
l’hanno detta l’amore e la rivoluzione.
Tutto il tuo silenzio l’ha detto la poesia. Come si spetalano
in fretta
le rose. Perciò partirai anche tu
in compagnia della piccola orsa ritta
che tiene una grande rosa di plastica tra le zampe anteriori.
Karlòvasi, 5.VII.87
Elusione
Parlava. Parlava molto. Non tralasciava niente
senza che la sua voce lo soppesasse. Quante e quante notti
in bianco
ad ascoltare i treni, le navi o le stelle,
a calcolare la materia e il colore di un suono,
a dare nomi a ombre e nubi. Ora,
quest’uomo cordiale e loquace sta in silenzio,
forse perché sul fondo ha intravisto i fanali spenti, e si rifiuta
di articolare la parola unica ed estrema: “nero”.
Karlòvasi, 7.VII.87
Questo solo
È un uomo ostinato. A dispetto del tempo afferma:
“amore, poesia, luce”. Costruisce su un fiammifero
una città con case, alberi, statue, piazze,
con belle vetrine, con balconi, sedie, chitarre,
con abitanti veri e vigili gentili. I treni
arrivano in orario. L’ultimo scarica
tavolini di marmo per un locale in riva al mare
dove rematori sudati con belle ragazze
bevono limonate diacce guardando le navi.
Questo solo ho voluto dire, se non mi credono fa niente.
Karlòvasi, 7.VII.87
Ricerca vana
La bella donna dai capelli malinconici e i braccialetti nascosti
ora dorme nella stanza di sopra. Non conosce
i nostri vecchi sospetti (benché una volta confessati)
né il nostro attuale oblio. Io scenderò nel seminterrato,
accenderò una candela per cercare qualcosa
che mi avevano tenuto nascosto a lungo. Poi
salirò di sopra e cercherò di svegliare la donna,
quella dai capelli malinconici. Non spegnerò la candela.
Karlòvasi, 18.VII.87
Imbarazzo
Uno salì la scala ansimando. L’altro
uscì in corridoio indifferente. Il terzo
non sa come reggere questo fiore. Ha paura
che lo vedano, che gli chiedano spiegazioni. Perciò
se ne sta alla finestra col pretesto di ascoltare le cicale,
butta via il fiore di nascosto e si accende una sigaretta.
Così, nessuno può essermi d’impiccio.
Karlòvasi, 21.VII.87
Lentezza
Mezzanotte passata. Dove vuoi andare a quest’ora?
I bar del porto sono chiusi. I marinai
si sono tolti le divise bianche. Forse dormiranno. Alcune
chiatte,
pesanti come fossero gravide, cariche di legname,
navigano lente sull’acqua scura con i vetri rotti
della povera luna. L’una e mezzo, le due, le tre e un quarto.
Le ore si trascinano,
e l’odore del legno appena tagliato, umido,
non cancella l’enorme ombra che sta in agguato davanti
alla dogana,
là dove, appena ieri, bei giovani pescatori subacquei
sbattevano sugli scogli i robusti polpi
tra un liquido bianco denso come sperma.
Karlòvasi, 16.VIII.87
Si è fatta notte
La festa di stasera rimandata.
E non sapevamo affatto
cosa avrebbero pianto o festeggiato.
A un tratto le luci si accesero e si spensero.
Dalla finestra vedemmo i musicanti;
attraversarono il viale in silenzio
con in spalla
enormi strumenti di rame.
Rimani qui, dunque,
fuma la sigaretta
in questa grande quiete,
in questo miracolo-niente.
Le statue sordomute.
Anche le poesie sordomute. Si è fatta notte.
Atene, 1.I.88
Qualcosa resta
Dopo tanti bombardamenti a tappeto
rimase intatto soltanto un muro della grande chiesa
con l’alta finestra; intatta anche
la bella vetrata della finestra
con colori viola, arancioni, azzurri, rossi
e raffigurazioni di fiori, uccelli e santi.
Perciò confido ancora nella poesia.
Atene, 2.II.88
GHIANNIS RITSOS: POETA DELLA RESISTENZA E DELL’IMPEGNO SOCIALE
Oggi parliamo di uno dei più grandi poeti greci del ’900, impegnato anche politicamente e socialmente.
La sua vita – ricordiamo la sua nascita a Monemvasia nel Peloponneso il 1º maggio 1909 e la sua morte ad Atene nel 1990- ha attraversato tutte le guerre e i drammi del secolo scorso.
Ma non l’ha fatto certamente da “neutrale”: come ricorda la biografia della Treccani “entrato nelle file della sinistra dopo un’infanzia e una prima giovinezza segnate da gravi lutti familiari e dalla malattia, partecipò alla lotta di resistenza contro i nazisti e poi alla guerra civile, e subì le persecuzioni dei governi dittatoriali o reazionari succedutisi in Grecia tra il 1936 e il 1970”.
La Grecia dei colonnelli
In particolare vogliamo ricordare ai più giovani lettori il fatto che, nella Grecia “culla della democrazia”, il 21 aprile del 1967 un gruppo di ufficiali dell’esercito greco guidò un colpo di stato contro il governo greco democraticamente eletto. Nella notte, carri armati e soldati occuparono tutti i luoghi più importanti della capitale Atene, arrestarono il comandante in capo delle forze armate e tutti i più importanti politici del paese; poi costrinsero il re ad appoggiare il golpe e diedero iniziò a un regime brutale che sarebbe durato per gli otto anni successivi.
Il golpe fu organizzato da una serie di ufficiali di grado intermedio, anche contro le esitazioni dei comandanti in capo, che anzi furono arrestati nelle prime ore del golpe. Per questa ragione il colpo di stato fu soprannominato “dei colonnelli”, e la giunta militare venne ribattezzata “regime dei colonnelli” (“kathestós ton Syntagmatarchón”).
La resistenza “intellettuale”
Appena insediata, la giunta dichiarò decaduti gli articoli della Costituzione che proteggevano la libertà di espressione e quella personale. Tutti i partiti politici furono sciolti e migliaia di politici, attivisti e intellettuali di sinistra furono arrestati e centinaia furono torturati nelle carceri speciali della polizia militare. L’ideologia del regime era basata sul nazionalismo, su un duro anticomunismo e sull’idea che tutte le forze di sinistra, comprese le più moderate, fossero in realtà sostenitrici di una cospirazione comunista. Tra gli intellettuali arrestati, oltre a Ghiannis Ritsos, ricordiamo anche il compositore Mikis Theodorakis, autore di famose colonne sonore come quella del film Zorba il Greco e Z – L’orgia del potere, di Costa-Gavras, in cui viene raccontata la nascita del regime greco (Theodorakis, anche per pressioni internazionali, fu scarcerato e fuggì dalla Grecia, non ritornando fino al termine della dittatura).
La poesia di Ritsos
Per introdurre i lettori alla poesia di Ghiannis Ritsos utilizzeremo un suo libro – Pietre, Ripetizioni, Sbarre, Feltrinelli, 1978 -Edizione italiana tradotta e curata da Nicola Crocetti-.
Le poesie furono scritte negli anni ‘68/’69, durante il periodo del suo internamento. Faremo precedere la nostra proposta di lettura da una introduzione preparata, per una successiva ediziona italiana, da Nicola Crocetti, che non fu solo un suo traduttore ed editore, ma anche amico fraterno, tra i pochi cui riuscì di superare le “sbarre” per andarlo a trovare in prigionia.
L’introduzione di Crocetti
Le poesie di Pietre Ripetizioni Sbarre sono state composte tra il 1968 e il 1969, negli anni in cui Ghiannis Ritsos era confinato nei campi di concentramento sulle isole di Ghiaros e Leros, e poi soggetto a domicilio coatto a Karlòvasi, sull’isola di Samo. Nel suo consueto dialogo con il mito e con la storia, Ritsos racconta la memoria che resiste e che parla attraverso le pietre delle statue e delle colonne spezzate, anche quando gli eroi sono ormai “passati di moda”.
Nei gesti che si ripetono da sempre, incessantemente, gli echi del tempo che è stato diventano immagini di un presente fatto di sbarre, di ricerca della libertà vissuta come un’“immensa, estatica orfanezza”. Nella sua solitudine, destino di tutti gli eroi, il poeta conserva integra la sua dignità e la speranza nell’uomo, e afferma la sua fede nella rinascita e nel potere di redenzione della poesia.
Nel 1969 Ritsos riesce a eludere la censura e a inviare il manoscritto di Pietre Ripetizioni Sbarre a Parigi, dove la raccolta viene pubblicata due anni dopo da Gallimard. Nella prefazione, Louis Aragon definisce Ritsos “il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro”.
Nicola Crocetti
Da “Pietre ripetizioni sbarre”
Dissoluzione
Forme mobili, dissolute; – l’inquietudine molteplice
e la fluidità insidiosa – udire il rumore dell’acqua tutt’intorno
imponderabile, profondo, incontrollabile; e tu stesso incontrollabile,
quasi libero.
Donne stupite giunsero poco dopo
assieme a certi vecchi, con brocche, pentole, bidoni,
attinsero acqua per le necessità domestiche. L’acqua prese forma.
Il fiume tacque come se si fosse svuotato. Faceva notte. Si chiusero le porte.
Solo una donna, senza brocca, rimase fuori, nel giardino,
diafana, liquida al chiar di luna, con un fiore nei capelli.
15 maggio 1968
A posteriori
Da come sono andate le cose, nessuno, secondo noi, ha colpa. Uno è partito
l’altro è stato ucciso; gli altri – ma è inutile rivangare adesso.
Le stagioni si alternano regolarmente. Fioriscono gli oleandri.
L’ombra fa il giro intorno all’albero. La brocca immobile,
rimasta sotto il sole, è asciutta; l’acqua è finita. Eppure
potevamo, dice, spostare più in qua o più in là la brocca
a seconda dell’ora e dell’ombra, intorno all’albero,
girando fino a trovare il ritmo, ballando, dimenticando
la brocca, l’acqua, la sete – senza avere più sete, ballando.
20 maggio 1968
Mezzanotte
Leggera, vestita di nero, – non s’udì affatto il suo passo.
Attraversò la galleria. Il semaforo spento. Mentre saliva
la scala di pietra le gridarono “Alt”. Il suo volto
vaporava bianchissimo nel buio. Sotto il grembiule
teneva nascosto il violino. “Chi va là?”- Non rispose.
Rimase immobile; le mani in alto; tenendo stretto
Il violino tra le ginocchia. Sorrideva.
15 giugno 1968
Notte
Alto eucalipto e ampia luna.
Una stella trasale nell’acqua.
Cielo bianco, argentato.
Pietre, pietre scorticate fino in cima.
Accanto, nel basso fondale, s’udì
il secondo, il terzo salto d’un pesce.
Immensa, estatica orfanezza – libertà.
21 ottobre 1968 Campo dei deportati politici di Partheni, isola di Leros
Rinascita
Da anni più nessuno si è occupato del giardino.
Eppure
quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo,
è divampato tutto fino all’inferriata – mille rose,
mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi –
viola, arancione, verde, rosso e giallo,
colori… tanto che la donna uscì
di nuovo
a dare l’acqua col suo vecchio annaffiatoio
di nuovo bella,
serena, con una convinzione indefinibile.
E il giardino
la nascose fino alle spalle, l’abbracciò,
la conquistò tutta;
la sollevò tra le sue braccia. E allora, a mezzogiorno
in punto, vedemmo
il giardino e la donna con l’annaffiatoio
ascendere al cielo
e mentre guardavamo in alto, alcune gocce
dell’annaffiatoio
ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento,
sulle labbra.
Fonte –Blog di Antonio Vargiu
Di che colore è l’amore?
Il tuo corpo tagliato da una lama di luce – per metà carne, per metà ricordo.
Illuminazione obliqua, il grande letto intero, il tepore lontano, e la coperta rossa.
Chiudo la porta, chiudo le finestre. Vento con vento. Unione inespugnabile.
Con la bocca piena di un boccone di notte. Ahi, l’amore.
Ghiannis Ritsos, da AA.VV. Nuove poesie d’amore, Crocetti Editore, traduzione di Nicola Crocetti
La poesia qui sotto mi trasmette, ogni volta che la leggo, una dolcezza infinita
(forse più di tre bignè al cioccolato… che dici, sto esagerando?)
Le poesie che ho vissuto tacendo sul tuo corpo mi chiederanno la loro voce un giorno, quando te ne andrai. Ma io non avrò più voce per ridirle, allora. Perché tu eri solita camminare scalza per le stanze, e poi ti rannicchiavi sul letto, gomitolo di piume, seta e fiamma selvaggia. Incrociavi le mani sulle ginocchia, mettendo in mostra provocante i piedi rosa impolverati. Devi ricordarmi così – dicevi; ricordarmi così, coi piedi sporchi; coi capelli che mi coprono gli occhi – perché così ti vedo più profondamente. Dunque, come potrò più avere voce. La Poesia non ha mai camminato così sotto i bianchissimi meli in fiore di nessun Paradiso.
Ghiannis Ritsos, da Erotica, Crocetti, 2008, traduzione di Nicola Crocetti
Biografia di Ghiannis Ritsos
(in greco: Γιάννης Ρίτσος; Monemvasia, 1º maggio 1909 – Atene, 11 novembre 1990)
Ghiannis Ritsos, Poeta greco (Monemvasìa 1909 – Atene 1990). La sua vita, segnata da lutti e da miserie, fu animata da un’incrollabile fede negli ideali marxisti, oltre che nelle virtù catartiche della poesia. La sofferta visione decadente caratterizza costantemente la sua poetica, articolandosi di volta in volta su temi quali la memoria, il fascino delle opere e delle cose, la rivoluzione etica e sociale.
Vita
Entrato nelle file della sinistra dopo un’infanzia e una prima giovinezza segnate da gravi lutti familiari e dalla malattia, partecipò alla lotta di resistenza contro i nazisti e poi alla guerra civile, e subì le persecuzioni dei governi dittatoriali o reazionari succedutisi in Grecia tra il 1936 e il 1970.
Opere
Dopo le prime raccolte (Τρακτέρ “Trattore”, 1934; Πυραμίδες “Piramidi”, 1935), influenzate dal crepuscolarismo di K. Karyotakis, s’ispirò alla tradizione demotica nei decapentasillabi rimati di ῾Επιτάϕιος (“Epitaffio”, 1936), compianto di una madre per il figlio ucciso dalla polizia durante uno sciopero, cui seguì Τὸ τραγούδι τῆς ἀδελϕῆς μου (“La canzone di mia sorella”, 1937), di schietta intonazione elegiaca. Ma già nelle tre poesie pubblicate con lo pseudonimo di K. Eleftheríu sulla rivista Τὰ νέα γράμματα (“Lettere nuove”) nel 1936, si avverte il tentativo di aderire alla lirica pura, mentre un esito delle ricerche precedenti è rappresentato dalla raccolta Δοκιμασία (“Prova”, 1943), che incorse nella censura tedesca. Nel caso di ῾Αγρύπνια (“Veglia, 1954), pubblicata dopo l’esperienza della deportazione nelle isole dell’Egeo, è invece la fiducia nella vita che rinasce ad essere cantata. Le prove poetiche successive, numerosissime, inclinano talvolta all’enfasi e fanno posto a simbolismi non privi di fumosità: fra queste, anche la celebre Σονάτα τοῦ σεληνόϕωτος (“Sonata al chiaro di luna”, 1956), che inaugurò la serie dei monologhi drammatici nella quale figurano alcuni poemetti ispirati a personaggi mitici assunti a prototipo dell’umanità sofferente (Φιλοκτήτης “Filottete”, ῾Ορέστης “Oreste”, ῾Ελένη “Elena”, Χρυσόϑεμις “Crisotemi”, compresi, insieme con altri, nel vol. Τέταρτη διάσταση “Quarta dimensione”, 1985). Più persuasive, sul piano concettuale e stilistico, opere come ᾿Ανυπόταχτη πολιτεία (“Indomabile città”, 1958), Μαρτυρίες (“Testimonianze”, 1963 e 1966), Δεκαοχτὼ λιανοτράγουδα τῆς πικρῆς πατρίδας (“Diciotto canzonette della patria amara”, 1973), Χάρτινα (“Carta”, 1974), ῾Ιταλικὸ τρίπτυχο (“Trittico italiano”, 1982). Traduttore di poeti stranieri, studioso di Majakovskij, R. ha scritto anche opere drammatiche (Μιὰ γυναίκα πλάϊ στὴ ϑάλασσα “Una donna accanto al mare”, 1959), e si è cimentato con la prosa e con il romanzo (il ciclo Εἰκονοστάσιο ᾿Ανωνύμων ῾Αγίων “Iconostasi di Santi Anonimi”, 1982-86; ῎Οχι μονάχα γιὰ σένα “Non soltanto per te”, 1985). La sua opera poetica, riunita in Ποιήματα (“Poesie”, 10 voll., 1961-89), è stata tradotta in italiano e in altre lingue.
Un classico da rileggere : “Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Non solo memoria, letteratura. Sembra paradossale, eppure la scrittura di Se questo è un uomo ci dice di Primo Levi quanto e più del suo contenuto. Accade perché è una scrittura a togliere, resa scarna dallo sforzo di tenere a bada il dolore, la tentazione dell’astio, per lasciar emergere un racconto nudo, tanto più potente quanto più depurato del giudizio. Uno sforzo, riuscito, il cui prezzo doveva essere inversamente proporzionale alla distanza. Si pensi che i primi appunti erano nati già dentro il lager, che la prima edizione era già pronta nel 1947, neanche due anni dopo la Liberazione. Primo Levi, mentre scriveva il capolavoro, che esce in edicola e in parrocchia con Famiglia Cristiana, in vista della Giornata della memoria, aveva tra i 26 e i 28 anni. Oggi lo diremmo ragazzo.
Abbiamo chiesto a Giovanni Tesio, fino a pochi mesi fa docente di Letteratura italiana all’Università del Piemonte orientale, che ha avuto modo di conoscere a fondo Primo Levi di persona oltreché da studioso dei suoi scritti, di aiutarci a tracciare un bilancio, a trent’anni dalla morte di Levi e a settanta dalla prima edizione, di Se questo è un uomo.
«Un autore imprescindibile, un classico del Novecento, che ha preso quota sia a livello europeo sia nazionale per la consistenza dei contenuti e per la ricchezza, la forza, la precisione del linguaggio. L’esperienza del lager ha fatto di Primo Levi inizialmente un testimone della Shoah, ma la sua testimonianza sulla ferita del nostro Novecento era tanto più forte per la parola che la comunicava. Primo Levi credeva nella chiarezza della scrittura,nella letteratura come comunicazione, capace di rendere accessibile a tutti anche il più tragico dei contenuti».
Il Levi che ha conosciuto corrispondeva all’idea che ne esce in Se questo è un uomo?
«Nel caso di Primo Levi la maschera è il volto, ma questo non deve sminuirne lo spessore, anzi. Da un lato c’è quasi l’identità tra lo scrittore e l’uomo, dall’altro c’è la complessità: se non ci fosse non ci sarebbero neppure la resistenza di Levi e la sua importanza. D’altro canto, non escluderei che la pretesa che la ragione potesse guidare ogni aspetto interpretativo abbia agito su di lui, un po’ come se la compressione dell’inconscio avesse poi generato una ribellione dell’istinto che lui pure diceva di avere (Primo Levi è morto l’11 aprile 1987 cadendo nella tromba delle scale della sua casa torinese, ancora si discute se sia stato suicidio, ndr)».
Trent’anni fa Primo Levi, nel 2016 Elie Wiesel: che cosa perdiamo quando muore un testimone?
«Un pezzo della nostra stessa vita, la parte che ci costringe a fare i conti con il saper fare, con le impurità che la vita comporta. La conoscenza vera non è mai solo intellettuale, implica un mischiarsi con le cose, un sapere delle mani. Al tempo di Internet diventiamo da un lato più ricchi di possibilità, dall’altro rischiamo di essere sempre più dei conoscenti in difetto, privi del dato dell’esperienza».
Nel 1947 Se questo è un uomo uscì per De Silva: come si spiega il rifiuto di Einaudi, che poi ci ripensò nel 1958?
«Einaudi stava andando in una direzione diversa, per scelte editoriali. Da un lato si era in un momento storico in cui determinate esperienze chiedevano di essere non testimoniate ma in qualche modo tenute a bada, dall’altro non dobbiamo dimenticare che Primo Levi era un esordiente. Oggi potremmo dire che ci sarebbe voluta maggiore tempestività, ma sarebbe ingrato, con il senno di poi, gettare la croce addosso a chi non la merita. Da studioso posso dire che l’edizione Einaudi del 1958, in tempi più maturi, ha consentito a Levi di lavorare ancora a un testo che sentiva urgente ma imperfetto: ha potuto aggiungere il capitolo Iniziazione, fondamentale, e alcuni dei ritratti più commoventi di Se questo è un uomo: la bambina Emilia, l’amico Alberto. Ha anche ripulito il testo dalle tracce dell’offesa recente, dimostrando un desiderio di precisione che è segno di un senso forte della scrittura che si salda con un contenuto che urge, che rugge direi. Credo che anche con questo ruggito controllato dalla scrittura si spieghi la fortuna mondiale di Levi, certo favorita da un editore come Einaudi e dalla traduzione in tedesco di Heinz Riedt, ma aiutata dalla capacità di raccontare senza astio una ferita ancora fresca».
Ogni volta che parliamo di “zona grigia” citiamo Levi: oltre a citarlo lo abbiamo letto abbastanza?
«Non lo abbiamo letto abbastanza, citiamo spesso per pigrizia. La citazione vera è lettura e rilettura. Primo Levi va riletto come si rileggono i classici. In lui la “zona grigia” era la zona di quel collaborazionismo che mette in guardia dai giudizi inappellabili. È chiaro che il sistema che porta al lager nazista vale la condanna inappellabile, ma dentro questo giudizio ci sono variabili che coinvolgono l’idea stessa di uomo. È l’idea manzoniana che se Renzo commette una violenza è perché qualcuno lo ha indotto a farlo, che non sempre chi commette un gesto nefando è colpevole quanto colui che lo induce a farlo».
Possiamo chiederle di suggerire negli scritti di Levi un percorso utile alla comprensione del nostro mondo scosso dai conflitti, tentato dalle intolleranze, disorientato nel lavoro?
«Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati sul tema del lager visto in chiave originale. La chiave a stella, sul tema del lavoro ben fatto, che è tema potenzialmente ambiguo perché anche Stangl, il carnefice di Treblinka, pensava di fare un lavoro ben fatto. Per questo diventa lettura necessaria la storia del montatore Faussone che incarna un’idea morale del lavoro che non è mai disgiunta dalla responsabilità: la chiave dei mestieri che deve agire sulla formazione stessa dell’uomo. Poi non dimenticherei Storie naturali, l’aspetto dell’umorismo di Primo Levi, la dimensione di gioco della sua fantascienza domestica. Escludendolo, dimenticheremmo la personalità multipla di Levi facendone un autore in una sola direzione. Vorrei concludere con La ricerca delle radici, con le righe che premette all’ultimo capitolo, Siamo soli, in cui a me sembra di vedere un invito a sperare».
Un anno fa lei ha finalmente pubblicato Io che vi parlo, l’esito degli incontri che avrebbero dovuto diventare, se ce ne fosse stato il tempo, una biografia autorizzata di Primo Levi: che cosa le ha lasciato di personale l’incontro con Primo, a parte il libro?
«Un incontro fondamentale, ma non dirò mai che sono stato amico di Primo Levi, semmai ne sono stato un indegno allievo. Era una persona
controllatissima ma capace di affettività e avevamo messo insieme una consuetudine che andava oltre le mie ricerche. Mi ha lasciato la lezione della parola che non deve mai essere “avventurata” ma sempre pensata. Mi colpiva nel suo parlare l’arrivare direttamente all’esattezza, senza bisogno dei “per così dire” cui ci appoggiamo tutti noi. Poteva farlo anche grazie al bagaglio di odori e di colori in più che gli dava la sua esperienza di chimico».
(comprese le Poesie incompiute mai edite in italiano)
Editore Bompiani è un marchio Giunti Editore
-Poesie e prose-Per la prima volta vengono pubblicate tutte le poesie di Konstantinos Kavafis (comprese le Poesie incompiute, mai edite in italiano) assieme alle sue prose più significative. Un volume – con il testo greco a fronte, corredato di ampi commenti, indici e una sezione iconografica – che permetterà di cogliere i molteplici aspetti di una straordinaria esperienza letteraria. Kavafis non volle mai raccogliere le sue poesie tutte assieme – ora annotate e tradotte da Renata Lavagnini, internazionalmente riconosciuta come una delle più importanti studiose del poeta greco – preferendo diffonderle di volta in volta in fogli volanti, su cui poteva intervenire con correzioni e varianti. Solo dopo la sua morte (quando ormai aveva acquisito, non senza contrasti, fama e riconoscimenti nell’ambiente letterario alessandrino e ad Atene) le 154 poesie edite furono riunite in volume nel 1935. Ma la sua opera è assai più vasta. Se le poesie giovanili, apparse su riviste e almanacchi tra il 1886 e 1898, vennero messe da parte e implicitamente rinnegate (Poesie rifiutate), altre furono portate avanti nel tempo ma abbandonate nel cassetto (Poesie nascoste, 1884-1923). Su altre ancora continuò a lavorare fino alla fine, lasciandole in stato di abbozzo (Poesie incompiute, 1918-1932). Kavafis parla direttamente al lettore di oggi. E anche in quelle poesie in cui sono più presenti i riferimenti colti (specialmente quelli storici, attinti al mondo greco, ellenistico e bizantino al quale consapevolmente apparteneva come epigono) è possibile cogliere messaggi di grande attualità. Nelle sue Prose – finalmente raccolte, per i lettori italiani, con accurata competenza dallo specialista Cristiano Luciani – si delinea una figura di intellettuale ed erudito, sempre in dialogo con gli autori e i temi più presenti del suo tempo: riflessioni che costituiscono la premessa e lo sfondo necessari per comprendere ciò che l’opera poetica lascia spesso solo intuire
Biografia di Konstantinos Kavafis
Konstantinos Kavafis è nato il 29 aprile 1863 ad Alessandria d’Egitto da una famiglia originaria di Costantinopoli. Nel 1872 ultimo di nove figli, dopo la morte del padre, autorevole membro della ricca colonia greca di Alessandria attivo nel commercio del cotone, si trasferisce con la madre in Inghilterra dove riceve la prima formazione in lingua inglese frequentando le scuole a Liverpool e a Londra. Rientrato in Egitto, è allievo, negli anni 1881-1882, del Liceo Ermìs, un liceo commerciale della comunità greca di Alessandria. Tra il luglio 1882 e l’ottobre 1885 il giovane Kavafis con la madre e i fratelli si rifugia a Costantinopoli, presso i nonni materni, per sottrarsi ai bombardamenti inglesi rivolti a sedare la ribellione di ‘Ora¯bı¯ Pascià. A Costantinopoli, allora capitale dell’Impero ottomano, dove ancora erano presenti le memorie del passato bizantino, Kavafis intreccia amicizie ed esordisce in poesia. Tornato nel 1885 ad Alessandria, dopo aver fatto il giornalista e il mediatore in Borsa, dal 1896 è impiegato all’Ufficio delle Irrigazioni presso il Ministero dei Lavori Pubblici. Vi resta fino al 1922, quando va volontariamente in pensione. Pochi i viaggi: nel 1897 a Parigi e Londra con il fratello John; ad Atene nel 1901, 1903, 1905 dove ha contatti con il mondo letterario della capitale greca; un ultimo viaggio, sempre ad Atene, nel 1932, qualche mese prima della morte, avvenuta ad Alessandria il 29 aprile 1933.
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