Suad Amiry- Sharon e mia suocera: Se questa è vita-
Traduttore-M. Nadotti- Feltrinelli Editore
DESCRIZIONE
Una donna palestinese, colta, intelligente e spiritosa, tiene un ‟diario di guerra”. Gli israeliani sparano ma, nella forzata reclusione fra le pareti domestiche, ‟spara” anche la madre del marito, una suocera proverbiale. In pagine scoppiettanti di humour e di lucidità politica e sentimentale, i colpi bassi di Sharon e del suo governo finiscono per fare tutt’uno con le idiosincrasie della suocera petulante, con la quale l’autrice si trova a trascorrere in un involontario tête à tête il tempo dell’assedio. Ma, come la guerra, neanche l’avventura cominciata con Sharon e mia suocera finisce ed ecco che Suad Amiry con Se questa è vita ci regala una nuova puntata del suo irresistibile diario di guerra e di vita quotidiana dai Territori occupati. Con l’indiavolato humour che la contraddistingue e sfoderando un’ormai piena e affilata sapienza narrativa, ci conduce da una stazione all’altra del calvario palestinese, facendoci piangere, ridere, sdegnare, riflettere, connettere, ricordare. Portandoci, con tono lieve e tragicomico, a scoprire i piccoli e grandi contrattempi del vivere nel devastato scenario mediorientale. Al centro del suo affresco narrativo, come sempre, l’ingombrante e svagata suocera Umm Salim, che resiste alla brutalità dell’occupazione militare con abitudini da tempi di pace, orari, buone maniere. Attorno a lei un balletto indiavolato di vicini di casa, parenti, amici, funzionari israeliani, spie e collaboratori, cani, muri in costruzione, paesaggi splendidi e violati, checkpoint e soldati.
Illustrazioni di Giulia Ananìa- Prefazione di Pino Cacucci
-Red Star Press-
DESCRIZIONE
Le vite intrecciate, la musica senza tempo e le lotte grandi come il mondo di Violeta Parra, Mercedes Sosa e Chavela Vargas
Violeta Parra, Mercedes Sosa e Chavela Vargas: tre interpreti straordinarie, tre donne che, nel loro canto, sono riuscite ad abbracciare il mondo, intonando i temi universali dell’amore e della lotta, della libertà e del desiderio, della giustizia negata e del cambiamento necessario. Lavinia Mancusi raccoglie un’eredità imponente e, scavando nello sconfinato repertorio di queste icone della musica popolare di ogni tempo e paese, torna a dare voce a vite straordinarie, nate nelle periferie della Terra, costrette a fare i conti con la repressione e l’esilio eppure sempre capaci di librarsi al di là di qualunque confine. Tre grandi classici che, in questo libro, impreziosito dalle illustrazioni di Giulia Ananìa, tornano a raccontare le storie terribili e meravigliose che le hanno rese simboli universali di bellezza e riscatto.
Red Star Press Viale di Tor Marancia 76 Roma, Italia
1001 libri da leggere nella vita. I grandi capolavori della narrativa
1001 libri da leggere nella vita è il titolo provocatorio di un libro dedicato ai capolavori della narrativa universale. Ripercorrendo secoli di scrittura e di storia, i libri selezionati rappresentano una biblioteca di base imprescindibile, una rassegna dei romanzi e degli scrittori che hanno lasciato il segno nella storia della letteratura. Un elenco di opere in cui trovano posto i capolavori e i bestseller, i romanzi popolari e la narrativa pulp, ovvero tutto ciò che definisce l’invenzione letteraria in prosa. Da sempre l’umanità avverte il bisogno di raccontare, intrecciando gli avvenimenti reali con la fantasia, le speranze e le paure che ne accompagnano il cammino. L’apparizione del romanzo così come lo conosciamo oggi ha contribuito a varcare i limiti dei generi letterari classici, imponendo un nuovo linguaggio e indirizzandosi a un nuovo pubblico di lettori. Aggiornato e impreziosito da una ricca galleria fotografica, 1001 libri da leggere nella vita spazia da Le mille e una notte a Ballando al buio, da Achebe a Zweig, dal fondo della cella del Marchese de Sade ai recessi della mente di William Burroughs, dai turbamenti di Madame Bovary al medioevo de Il nome della rosa. Uno strumento di consultazione e una lettura appassionante.
Songs, Film, Painting, and Sculpture in Dylan’s Universe
A cura di: Carrera Alessandro, Fantuzzi Fabio, Stefanelli Maria Anita
Bob Dylan and the Artsè un dialogo tra voci che, da prospettive transdisciplinari, si sono occupate del genio di Bob Dylan. L’opera di Dylan, che ha il suo centro nella forma della canzone, si estende dalla poesia alla performance, dalla pittura alla scultura, dalla radio al cinema. Gli artisti, critici, docenti e musicisti qui convenuti hanno esplorato, ognuno da un diverso punto di vista, l’inesauribile creatività dylaniana. Le loro indagini conducono il lettore a scoprire non solo le molte facce della sua Musa, ma anche l’influenza su Dylan di Norman Raeben, poco noto maestro di pittura newyorchese, finalmente indagato in tutta la sua rilevanza. Bob Dylan and the Arts propone un Dylan dalle molte maschere ma dall’ispirazione fortemente unitaria, un impulso al fare arte che, nelle sue molteplici sperimentazioni e declinazioni, si muove entro un processo creativo che non ammette confini.
Pagine viii-260
ISBN 9788893593977
Anno 2020
Numero in collana 35
Collana: Biblioteca di Studi Americani
Argomenti: letteratura americana
Edizioni di Storia e Letteratura
via delle Fornaci, 38
00165 Roma
tel. 06.39.67.03.07
–Romanzo Infanzia (La Trilogia di Copenaghen Vol. 1)
Fazi Editore
Fazi Editore
È da oggi nelle librerie «Infanzia» di Tove Ditlevsen, nella sua prima traduzione italiana (di Alessandro Storti), il volume che inaugura la trilogia di Copenaghen: tre romanzi autobiografici riscoperti di recente e giustamente celebrati a livello mondiale come capolavori.
La piccola Tove vive con i genitori e il fratello maggiore in un quartiere operaio di Copenaghen. Il padre, uomo schivo dalle simpatie socialiste, si barcamena passando da un impiego saltuario all’altro. La madre è distante, irascibile e piena di risentimento: non è facile prevedere i suoi stati d’animo e soddisfare i suoi desideri. A scuola Tove si tiene in disparte, dentro di sé è convinta di essere incapace di stabilire veri rapporti con i coetanei; fa però amicizia con la selvaggia Ruth, una bambina del suo quartiere che la inizia ai segreti degli adulti. Eppure anche con lei Tove indossa una maschera, non si svela né all’amica né a nessun altro. La verità è che desidera soltanto scrivere poesie: le custodisce in un album gelosamente nascosto, soprattutto da quando il padre le ha detto che le donne non possono essere scrittrici. Sempre più chiara, in Tove, è la sensazione di trovarsi fuori posto: la sua capacità di osservazione, lucida, inesorabile, ma al tempo stesso sensibilissima, le fa apparire estranea l’infanzia che sta vivendo, come se fosse stata pensata per un’altra bambina. Le sta stretta, quest’infanzia, eppure comincerà a rimpiangerla nell’attimo stesso in cui se la lascerà alle spalle.
Fazi Editore
«I tre volumi della trilogia di John Self, «New Statesman formano un tipo particolare di capolavoro, il tipo che arriva a riempire un vuoto. È un po’ come scoprire che Lila e Lenù, le eroine di Elena Ferrante, sono reali… La strada di Istedgade è pungente (e pericolosa) quanto lo stradone della Ferrante».
«The New York Times Book Review»
«Come si annuncia la grande letteratura – quella di serie A, quella con la L maiuscola? Annuncio la trilogia
di memorie di Tove Ditlevsen con l’emozione
tipica di quando ho davanti un capolavoro».
Parul Sehgal, «The New York Times»
«La trilogia è un vero tour de force. Questi libri sono sfavillanti, come mi aspettavo. Straordinariamente intensi ed eleganti».
Lucy Scholes, «The Paris Peview»
«La trilogia di Copenaghen di Tove Ditlevsen, poco ma sicuro, è uno dei più importanti eventi letterari dell’anno».
Sophie Wennerscheid, «Süddeutsche Zeitung»
«La sua evocazione della battaglia di una donna della classe operaia con padroni, guinzagli e i suoi stessi demoni ne fa un vero capolavoro».
Liz Jensen, «The Guardian»
«Ciò che autrici come Annie Ernaux stanno facendo oggi, Tove Ditlevsen l’ha fatto più di cinquant’anni fa. Scrittura autobiografica a cui inchinarsi. Finalmente, finalmente!».
Emilia von Senger, «She Said»
«Vado dritto al punto: questi sono i migliori libri che ho letto quest’anno. Infanzia ha le frasi chiare e semplici di Natalia Ginzburg ma anche l’orrore pervasivo di una bella favola».
John Self, «New Statesman»
La vicenda del Campo profughi di Laterina (AR), è stata solo accennata nei libri di argomento storico generale. Questo libro è una novità. Dal 1941 al 1943, sotto il fascismo, è un Campo di concentramento per prigionieri inglesi, sudafricani e canadesi. Sottoalimentazione e scarsa igiene nelle baracche provocano nei 2.500-3.000 prigionieri varie malattie debilitanti, come dissenteria e tifo. Poi per un anno il Campo è stato un reclusorio sotto la sorveglianza nazista. Dopo la liberazione, avvenuta nel 1944, a cura della VIII Armata britannica, si trasforma fino al 1946 in un campo di concentramento per tedeschi e repubblicani della RSI catturati al Nord. Dal 1946 al 1963, per ben diciassette anni, funziona come Campo profughi per italiani in fuga dall’Istria, Fiume e Dalmazia (per oltre 10mila persone), terre assegnate alla Jugoslavia col trattato di pace del 10 febbraio 1947. Sono italiani della patria perduta. Patiscono il freddo e la fame. Tra i più anziani di loro ci fu un alto tasso di suicidi. A Laterina giungono pure alcuni sfollati dalle ex colonie italiane. Non c’è un libro che tratti in modo specifico questi anni di vita quotidiana e di incontro-scontro con la popolazione locale, fino alla completa integrazione sociale, mediante qualche matrimonio misto (di solito: marito toscano e moglie istro-dalmata) e, soprattutto, col lavoro e con l’assegnazione delle case popolari ai profughi.
L’Autore-
Elio Varutti (Udine 1953) è laureato in Sociologia all’Università di Trento nel 1977. Ha collaborato con l’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (1980). Ha conseguito all’Università di Udine il diploma di perfezionamento in Storia (1998) e il diploma di Metodologia e linguistica delle lingue minoritarie (2006). Ha insegnato discipline economiche aziendali nelle scuole superiori in Friuli dal 1978 al 2016, anno della quiescenza. Giornalista pubblicista (1980-2020), ha collaborato per la redazione di Udine de «Il Gazzettino», 1977-1991 e con altre testate locali. È consigliere della Società Filologica Friulana dal 1995. Nel 2012 è stato nominato consigliere onorario del Comitato Provinciale di Udine dell’ANVGD e, dal 2017 al 2021, vice-presidente del
medesimo organismo. Dal 2017 collabora col Gruppo culturale “Alfredo Orzan” della Parrocchia di S. Pio X, Udine. Dal 2017 tiene il corso di “Sociologia del Ricordo. Esodo giuliano dalmata” all’Università della Terza Età (UTE) di Udine. Ha pubblicato vari saggi, come: Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia esuli in Friuli 1943-1960. Testimonianze di profughi giuliano dalmati a Udine e dintorni, Provincia di Udine, 2017.
Aska Edizioni
Aska edizioni viene fondata, nel 2001, dall’incontro di diverse esperienze nel settore dell’editoria, con l’obiettivo di fornire consulenza e servizi destinati ad imprese, organizzazioni ed enti locali.
Attraverso la società Inprogress Srl, l’attività spazia dai progetti editoriali a quelli multimediali, dal marketing territoriale e la comunicazione, alla distribuzione.
Aska è uno, cento percorsi, mille itinerari alla ricerca di radici e tradizioni di una cultura millenaria che mai come oggi, in un mondo sempre più globalizzato ed uguale, possono aiutare a valorizzare l’unicità dei nostri territori facendone scoprire i tesori forse meno conosciuti, ma certamente non meno belli e affascinanti di quelli più noti al turismo di massa. Una struttura, dinamica e flessibile, capace di ascoltare le esigenze dei propri clienti, garantendo loro un supporto concreto e qualificato nell’orientare le idee strategicamente. La casa editrice svolge un ruolo di documentazione e di valorizzazione del patrimonio culturale e territoriale sul piano nazionale e in particolare di una Toscana lontana dai “luoghi comuni”, realizzando volumi di gran pregio che hanno anche il grande merito di recuperare e tutelare una memoria collettiva, quasi delle microstorie che, altrimenti, rischierebbero di andare perdute.
Gerusalemme è una città dilaniata da millenni di guerre, scontri tra religioni, conflitti tra politiche contrapposte, che ne hanno fatto di volta in volta un simbolo, un avamposto strategico, un luogo da conquistare e controllare all’interno di un mercato di territori e popolazioni. Paola Caridi ha vissuto per dieci anni a Gerusalemme. Le sue pagine ci restituiscono una città vissuta intimamente, indimenticabile per la bellezza delle mura antiche, delle pietre bianchissime, della sua umanità dolente. Ma ci restituiscono anche una città crudele, dove israeliani e palestinesi fanno talvolta la spesa negli stessi supermercati, per poi rinchiudersi nei confini dei rispettivi quartieri, invisibili gli uni agli altri. Una città costellata di posti di blocco che controllano gli spostamenti di donne e uomini, merci e idee, nemici e potenziali attentatori. Una città densa di segni e memorie antiche e recenti, in cui ogni stagione politica porta con sé nuovi vincitori, nuove versioni della storia passata, nuove ripartizioni degli spazi urbani, nuove abitudini di vita. Gerusalemme si è aperta per un breve periodo alla modernità, per poi rinchiudersi dentro i propri muri. Rimane comunque un laboratorio, in cui si scontrano politica e vivere quotidiano. Sopravvive la speranza: che Gerusalemme, una e condivisa da tutti, torni a essere una città per gli uomini e le donne che lì vivono.
Harrington Brande, console americano con ambizioni letterarie, si trasferisce con il figlio Nicholas in una piccola città spagnola della Costa Brava, San Jorge. Uomo arrogante ed elitario, tormentato e insicuro, dopo la separazione dalla moglie avvenuta qualche anno prima ha riversato sul bambino tutto il suo amore ossessivo e geloso. Ma le cose sono destinate a cambiare: l’amicizia che il fragile e malaticcio Nicholas stringerà con José, un favoloso giardiniere che lavora al servizio del padre, dischiuderà al ragazzo intimorito e minacciato da ogni inibizione il mondo della spontaneità e della salute fisica e morale. Sullo sfondo degli smaglianti cieli di Spagna e di una brughiera aspra e rigogliosa, Cronin ci racconta fin dove può condurre la possessività di un padre per il figlio e la meschinità insita nel cuore umano.
Breve biografia di Archibald Joseph Cronin nacque a Helensburgh (Dunbartonshire) nel 1896. Medico, esercitò presso i minatori del Galles, interessandosi ai loro problemi sociali. Morì a Montreux nel 1981. Il medico protagonista delle storie di Cronin è giovane, entusiasta, fondamentalmente buono. I romanzi di Cronin ebbero un notevole successo in Italia alla fine degli anni sessanta grazie alle riduzioni televisive. Presso Bompiani sono stati pubblicati La via di Shannon (1978), La canzone da sei soldi (1978), Neve incantata (1978), Uno strano amore (1978), La luce del Nord (1978), Tre amori (1979), Grazia Lindsay (1979), La valigetta del dottore (1979), Il medico dell’isola (1980), Dottor Finlay (1981), La dama dei garofani (1998), Gran Canaria (1999), La Cittadella (2000), Le chiavi del regno (2001), E le stelle stanno a guardare (2001), Anni verdi (2002), Il giardiniere spagnolo (2003), Ma il cielo non risponde (2003), Il castello del cappellaio (2004), L’albero di Giuda (2004) e Angeli della notte (2004).
Tommaso Tuppini- La caduta- Fascismo e macchina da guerra
Orthotes Editrice
DESCRIZIONE
«C’è nel fascismo un nichilismo realizzato» scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, «giacché, diversamente dallo Stato totalitario che si sforza di bloccare tutte le possibili linee di fuga, il fascismo si costruisce una linea di fuga intensa, che trasforma in linea di distruzione e di abolizione pura. È strano come sin dall’inizio i nazisti annunciassero alla Germania quel che avrebbero portato: a un tempo nozze e morte, anche la loro propria morte, e la morte dei Tedeschi».
Per quanto eterogenee e difficili da ricostruire in modo univoco, le vicende del fascismo sembrano snodarsi seguendo l’ordine di alcune tappe: il fascismo è un complesso ideologico, rituale e politico che mette capo a un dispositivo militare lanciato verso la propria distruzione. L’ideologia razzista, i rituali, le prassi policratiche di governo, diventano la premessa per la costruzione di una macchina da guerra che ha il significato di un grande esperimento suicidario. Nata per proteggere e riterritorializzare a Est il popolo-nazione tedesco, la macchina si insubordina molto presto a qualsiasi compito che non sia quello della distruzione. Il fascismo voleva produrre l’“autentico” soggetto tedesco, seminare il mondo con maestose rovine capaci di testimoniare la vittoria sulla morte, ma il vortice della sua caduta ha prodotto soltanto la polvere di una catastrofe.
Macchina da guerra e nomos
diTommaso Tuppini-insegna Filosofia all’Università di Verona. Con Orthotes ha pubblicato La caduta. Fascismo e macchina da guerra
La fuga può appartenere alle esperienze più svariate e per definizione non è anticipabile, si sottrae al perimetro di qualsiasi progetto. La fuga di solito è l’effetto prodotto da una macchina da guerra. La macchina da guerra non ha a che fare in primo luogo con azioni di belligeranza, non provoca necessariamente un conflitto, è semmai un modo peculiare di abitare lo spazio, «è nella sua essenza l’elemento costitutivo dello spazio liscio, dell’occupazione di questo spazio, dello spostamento in questo spazio e della composizione corrispondente degli uomini: è questo il suo solo e vero oggetto positivo (nomos)».[1] Il nomos della macchina da guerra definisce un certo rapporto tra lo spazio e il molteplice di qualsiasi natura (inorganico, animale, antropologico, tecnologico ecc.) che lo riempie. La comprensione deleuziana di nomos è il controcanto della definizione che ne dà Carl Schmitt in un saggio del 1953.[2] Per Schmitt nomos dice il modo in cui un gruppo umano prende possesso di uno spazio e lo organizza per la propria sussistenza. Nomos comprende tre significati fondamentali e sempre coimplicati: “conquistare” la terra (Landnahme) che sarà poi da “spartire” (Teilen) perché diventi possibile utilizzarla e cominciare “produrre” (Weiden). Un gruppo umano prende possesso di un territorio libero, una “cosa di nessuno”, oppure contende il territorio ad altri gruppi. Nel secondo momento del nomos – la spartizione – i lotti del territorio vengono distribuiti ai membri secondo i diritti di ciascuno. Il nomos, però, ha anche un altro significato: l’uso produttivo della terra che è stata conquistata e spartita. Questo terzo momento comprende ogni forma di sfruttamento economico: la pastorizia dei nomadi, ma anche il lavoro agricolo, l’artigianto, la produzione industriale, qualsiasi coltivare, utilizzare e produrre. Nomos è un gesto di colonizzazione, dunque ha un significato politico, ma ha anche un significato giuridico, perché assegna un titolo di proprietà ai membri che partecipano della spartizione, e ha infine un significato economico. Il nomos della conquista, della spartizione e dell’uso ha una funzione stabilizzatrice, scandisce le tappe di un processo che compendia le prerogative dello Stato, le cui funzioni principali sono il controllo delle norme di residenza, il disciplinamento della circolazione di uomini e merci, l’organizzazione del lavoro.[3] Le tappe del nomos sono relative a «una tribù o un seguito o un popolo che si fa stanziale»,[4] definiscono i tratti essenziali della territorializzazione e della codificazione.
Anche il nomos affermato dalla macchina da guerra dice il modo in cui un molteplice ha a che fare con lo spazio: far funzionare una macchina da guerra significa infatti «distribuirsi in uno spazio aperto, tenere lo spazio, conservare la possibilità di apparire in qualsiasi punto».[5] Le componenti della macchina da guerra sono le stesse del nomos stanziale (spazio, elementi e l’occupazione dello spazio da parte degli elementi) ma diverso è il loro incastro reciproco. La differenza fondamentale tra il nomos sedentario e il nomos della macchina da guerra è che quest’ultimo rende impossibile scandire il suo funzionamento in tappe, non distingue tra la conquista, la spartizione e la produzione. Le ultime due tappe del nomos stanziale (spartire e utilizzare) presuppongono la prima (conquistare). Invece, per la macchina da guerra, tenere uno spazio vuol dire percorrerlo senza una presa di possesso preliminare, distribuirvisi senza dividerlo o costruendo recinti. La macchina da guerra tiene uno spazio indeterminato (ovvero “liscio”) nel modo in cui tengono il pendio i massi che ci rotolano sopra oppure – è l’esempio che fa Deleuze – tengono il pascolo gli animali che si distribuiscono sul fianco di una montagna, su una distesa nei pressi di una città, comunque in uno spazio «senza frontiere e senza chiusura».[6] Per il nomos della macchina da guerra lo spazio non è un perimetro inerte da occupare e misurare perché esso è fatto della tensione fra i corpi che lo popolano: c’è spazio solo nel momento in cui un molteplice vi si distribuisce per riempirlo. Lo spazio è ciò che succede tra i corpi. Per il nomos stanziale lo spazio è già dato, esso è qualche cosa di semplicemente presente di cui appropriarsi per poi suddividerlo. Il nomos dello Stato è incapace di produrre qualche cosa di nuovo, inedito, sorprendente, perché la distribuzione e la produzione rimangono funzioni della appropriazione iniziale, la natura del proprietario e della proprietà decidono della spartizione e della produzione. Il presente e il futuro del nomos stanziale sono una conseguenza del passato. Lo spazio “liscio” della macchina da guerra, invece, nasce insieme agli elementi, è la novità della combinazione tra gli elementi: pezzi di realtà, che prima s’ignoravano, si incontrano e si combinano per produrre qualche cosa che prima non c’era. La macchina da guerra non è orientata verso il passato dell’appropriazione ma verso il futuro della produzione. Il nomos stanziale mette ordine e sfrutta il vecchio, la macchina da guerra produce il nuovo. Di questo è fatta la necessaria fragilità della macchina da guerra rispetto a qualsiasi apparato che obbedisca al nomos stanziale. Poiché la macchina da guerra produce il proprio spazio, la tenuta di quest’ultimo non è garantita da nulla se non dall’azzardo della combinazione. È uno spazio sperimentale che può sparire con la stessa facilità con la quale è nato.
Per comprendere meglio la struttura di una macchina da guerra facciamo un esempio idraulico, il vortice. Il vortice è una dei primi fenomeni fisici sui quali si è esercitato il pensiero filosofico, segnatamente quello atomistico, che in esso ha scoperto una struttura intermedia tra il disordine e l’ordine, una fase di passaggio tra la pioggia verticale degli atomi e la condizione del mondo con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. La pioggia verticale di atomi è un flusso lamellare: gli strati compongono un flusso lamellare, differenti per viscosità e consistenza, procedono paralleli, senza mescolarsi e interferire. Un flusso lamellare è come una torta a strati che si disloca: è mobile rispetto all’ambiente ma al proprio interno è immobile perché la disposizione reciproca delle parti non cambia. La condizione presente, invece, è fatta di atomi aggregati in modo più o meno stabile. Tra il flusso uniforme degli atomi in caduta e la condizione presente del mondo, il vortice è la produzione attiva delle cose. La stratificazione di cui sono fatte le cose è un prodotto della vorticazione nella quale parti eterogenee di realtà si distribuiscono e si raccolgono. Il vortice dell’onda trascina con sé i detriti e separa i più grossi dai più piccoli. Questo ordine incipiente è ben rappresentato dal mulinello che si forma in certi corsi d’acqua e che già aveva attirato l’attenzione di Descartes nei Principes de la philosophie: se un torrente incontra un ostacolo (un sasso sul fondo), quest’ultimo gli rimanda indietro un controflusso il quale, combinandosi con il flusso, produce un vortice. Il vortice è una novità perché combina due cose che si ignoravano: lo scorrere del fiume e l’inerzia della pietra. Prima della formazione del vortice pietra e flusso aderivano l’una all’altro senza nessuna sfasatura. Quando il flusso inciampa nella pietra, una turbolenza dell’acqua segna la sfasatura tra i due elementi che in questo modo entrano per la prima volta in relazione.
[1] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 573. [2] C. Schmitt, Appropriazione, divisione, produzione, in Le categorie del politico, tr. it. P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312. [3] G. Sibertin-Blanc, Politique et État chez Deleuze et Guattari. Essai sur le matérialisme historico-machinique, PUF, Paris 2013, pp. 120-121. [4] C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 59 [5] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 488. [6]Ivi, p. 524.
Ciascuno dei giri di cui è fatto il vortice è fatto di un equilibrio fisico tra le spinte e le controspinte, allaccia la forza centripeta (che origina dal sasso, tendenza alla chiusura) e quella centrifuga (che origina dal fiume, tendenza all’apertura). Per mantenersi il vortice deve catturare le forze che rischiano di distruggerlo: la dispersione della corrente e l’inerzia della pietra. Il vortice si alimenta di queste forze, ma se prevale la spinta centrifuga il giro si allarga troppo e si sfascia, se invece prevale l’inerzia centripeta il giro si restringe e il vortice può chiudersi. Una combinazione dei corpi (flusso d’acqua, pietra) produce uno spazio nuovo e precario (il vortice).
Ma nel vortice riconosciamo un’altra caratteristica della macchina da guerra che fino adesso è rimasta implicita e che ci dice qualcosa di più preciso sulla natura dello spazio che la macchina allestisce: il vortice organizza la propria struttura producendo il vuoto e facendone un qualche uso. Il perno del movimento vorticoso è infatti la cavità conica che mette in comunicazione la superficie del torrente e il sasso sul fondo. Lo spazio della macchina è essenzialmente uno spazio di vuoto. Pensiamo alla ruota, dispositivo che non esiste in natura, capace di riconfigurare l’ambiente e che permette di spostarsi in modo nuovo: la ruota combina il moto di un oggetto circolare con l’immobilità del mozzo, ma funziona soltanto se tra il mozzo e il cerchio c’è un’intercapedine. A causa di questa giunzione senza saldatura la macchina rischia di saltare e guastarsi: tra la ruota e il mozzo, infatti, c’è una frizione (è una delle prime osservazioni che ha fatto la filosofia, «l’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi, in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra» dice Parmenide del carro su cui era salito). Le macchine, prima di avere un effetto distruttivo sull’ambiente o sugli altri, sono dannose per se stesse, sono coinvolte in un processo di auto-demolizione. La precarietà della struttura è il prezzo che la macchina deve pagare per la propria audacia e novità. Una macchina, quanto più è complessa e fatta di elementi eterogenei, tanto più è fragile nel suo funzionamento. È il vuoto a permettere che elementi eterogenei si combinino insieme, ma questo assemblaggio rischia sempre di cadere a pezzi. Se, a differenza del nomos di terrritorializzazione, il nomos della macchina da guerra ha un potere inventivo, non si limita a ripetere tale e quale il passato, è perché si addentra in uno spazio di vuoto. Il vuoto investito dalla macchina è uno spazio catastrofico, è il suo futuro. La macchina da guerra trasforma lo spazio in tempo: ogni combinazione, incontro, macchinazione “da guerra” si mantiene soltanto se è capace di assimilare ciò che gli può accadere, il guasto, la rovina, la caduta.
“Macchina da guerra” può essere una struttura fisica, un’invenzione tecnologica, un circuito commerciale, un’opera d’arte, tutto ciò che allestisce uno spazio plastico e metamorfico dentro il quale è impossibile codificare i rapporti una volta per tutte. Per una scienza della macchina da guerra anche gli esseri viventi sono vortici:
onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un “essere” non è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gl’innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e migrazioni d’elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.[1]
La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, essa ha portato a intersecarsi forze che precedentemente s’ignoravano: la orizzontalità terragna del movimento animale e la postura erettile della pianta che punta verso il cielo.[2] Il vortice umano nasce quando il flusso animale incontra la pianta che gli manda indietro un contro-flusso di verticalizzazione. I picchi dell’esistenza sono fatti di quel «vortice del godimento» che si eleva «nella direzione di un cielo bello come la morte, pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo cammino».[3]
Non dobbiamo però immaginare il molteplice deterritorializzato come un’entità distinta da un molteplice territorializzato, il nomos della macchina da guerra come il “contrario” del nomos sedentario. Deterritorializzazione e territorializzazione sono due condizioni differenti che riguardano lo stesso corpo o insieme di corpi. Il movimento della macchina da guerra di solito rompe una occupazione sedentaria dello spazio e sedimenta in un’altra occupazione stanziale: i massi prima o poi avranno finito di rotolare. Le bestie si saranno distribuite sul fianco della montagna e il pastore le terrà sott’occhio disegnando con il pensiero un perimetro dal quale i singoli capi non devono uscire. Il vortice idraulico proviene da un flusso lamellare nel quale dopo un certo tempo si ritrasformerà. La deterritorializzazione della macchina da guerra va verso un’ulteriore territorializzazione. La macchina da guerra, dunque, è sempre orientata in due direzioni contemporaneamente: la novità della produzione in atto e lo stato di cose nel quale la novità si è ritradotta. Lo stato di cose è la novità fatta abitudine, l’invenzione diventata “scuola”. La macchina da guerra trova il proprio limite nella riterritorializzazione alla quale mette capo. Quest’ultima ne è il limite perché le assegna una figura riconoscibile, per certi versi ne è la continuazione sotto un’altra forma. Rispetto alla macchina da guerra e alla linea molare, la linea molecolare è una condizione di mezzo. La linea molecolare è una specie di compromesso[4] tra il nomos della macchina da guerra e la territorializzazione. La segmentarietà molecolare, fatta di sconfinamenti ed equivoci, può sconcatenarsi fino a diventare macchina da guerra, oppure può perdere la propria flessibilità, irrigidirsi e territorializzare il proprio molteplice. L’equivoco consiste nell’assolutizzare l’una condizione rispetto alle altre, non comprendere che la linea di fuga è il processo genealogico di cui la molarità è il risultato. L’equivoco fascista è proprio questo: il culto di una molarità auto-sufficiente, priva di genealogia (la razza), e il desiderio di costruire una macchina da guerra capace di un movimento continuo (la Panzerwaffe).
[1] G. Bataille, L’experiènce interieure, in Œuvres complètes, vol. V, Gallimard, Paris 1973, p. 111. [2] Id., Dossier de l’œil pinéal, in Œuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1970, p. 26. [3]Ibidem. [4] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 295.
Tratto da Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes 2019
Orthotes Editrice
Via Saverio Costantino Amato 16 84014 – Nocera Inferiore (SA)
Nel 1983 Natalia Ginzburg entrava in Parlamento, dove sarebbe rimasta per due legislature. I suoi interventi in aula furono accomunati da quella ricerca di una società più umana e più mite che permeò la sua opera e la sua vita: dal prezzo del pane al disarmo nucleare, dalle misure contro la violenza sulle donne alla valorizzazione dell’ambiente rurale. Raccolti per la prima volta in volume insieme a una scelta di articoli e interviste dello stesso periodo, questi discorsi ci mostrano una Natalia Ginzburg immediatamente riconoscibile nella fedeltà a quei valori di chiarezza e semplicità che tutti abbiamo amato nelle sue opere.
Brevi cenni biografici di Natalia Ginzburg nata Levi (Palermo 1916-Roma 1991), crebbe a Torino in una famiglia e in un ambiente antifascista. Sposò in prime nozze Leone Ginzburg, che seguì al confino in Abruzzo e al quale rimase accanto sino alla morte di lui, avvenuta nel 1944 nel carcere di Regina Coeli. Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini. Esordì nel 1942, pubblicando il romanzo La strada che va in città. Entrata all’Einaudi, casa editrice per la quale lavorò per decenni, si affermò come una tra le scrittrici più significative nel panorama letterario italiano. Nel 1963 vinse il Premio Strega per il romanzo autobiografico Lessico famigliare. Dal 1983 sino alla morte fu deputata della Sinistra indipendente.
L’Autrice-Michela Monferrini- nata a Roma 1986 ha pubblicato il romanzo Chiamami anche se è notte (2014, finalista Premio Calvino 2012 e Zocca 2015), Muri maestri (2018) e Dalla parte di Alba (2023), romanzo biografico su Alba de Céspedes. È inoltre autrice di una guida letteraria dedicata al Portogallo di Antonio Tabucchi (Cercando Tabucchi, 2016) e del ritratto Grazia Cherchi (2015). Ha pubblicato due libri per ragazzi. Nel 2017 le è stato conferito in Campidoglio il Premio Simpatia per l’impegno nel sociale.
Edizioni di Storia e Letteratura
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tel. 06.39.67.03.07
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