Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana.
Editore Einaudi
DESCRIZIONE
Al termine della Seconda guerra mondiale molti tra i più alti vertici dell’esercito o degli apparati di forza del fascismo furono accusati di omicidi e torture, ma nessuno venne mai processato o epurato. Nessuno fu mai estradato all’estero o giudicato da un tribunale internazionale. Diversi di loro furono invece coscientemente reintegrati nei loro posti di responsabilità, dando corpo a quella «continuità dello Stato» che rappresentò una pesante ipoteca sull’Italia repubblicana. Attraverso l’analisi di una gran mole di documenti, Conti ricostruisce le vicende personali e i profili militari di alcuni dei principali funzionari del regime di Mussolini e illumina uno dei passaggi più appassionanti e controversi della nostra storia.
Questo volume adotta un approccio romanzesco e lo traspone nel mondo del vino, utilizzando i terreni vulcanici come filo conduttore per collegare una vasta gamma di uve e regioni vinicole. È arricchito da dettagliate schede dedicate a più di 300 produttori, presentati con le loro affascinanti storie e selezionati da un team di specialisti di vini vulcanici. Con oltre 400 fotografie mozzafiato, che esaltano la straordinaria bellezza dei vigneti vulcanici di tutto il mondo, e grazie alle riproduzioni delle etichette e alle numerose mappe a colori, conduce il lettore in un inedito tour visuale di questi angoli spesso remoti del globo. Un libro che punta a far emergere le caratteristiche uniche di questi vini e che rappresenta un punto di riferimento su un tema in continua evoluzione.
Come la città sopravvisse alla terribile epidemia del 1630-1631-
La peste è da sempre il paradigma con cui vengono messe a confronto le risposte alle epidemie. In questo affascinante saggio, John Henderson esamina come una grande città fu capace di combattere, reagire e infine sopravvivere all’impatto di una delle peggiori pestilenze di sempre, quella della peste bubbonica del 1630. Oltre a ricostruire il differente impatto sui ricchi e sui poveri, questo libro fornisce un resoconto delle politiche attuate dal governo cittadino, raccontando anche le contromisure adottate dai singoli e dalle famiglie, le condizioni di sovraffollamento degli ospedali e le imponenti processioni religiose. Henderson analizza la reazione di Firenze all’interno del più ampio contesto europeo, per mostrare l’effetto delle decisioni politiche sulla città, sulle sue strade e sui suoi abitanti. Con uno stile vivido e accessibile, questo libro porta alla luce le storie dimenticate di medici e amministratori che lottarono per far fronte ai malati e ai moribondi, e di coloro che sono stati gettati nel lutto e nella confusione dall’improvvisa perdita dei parenti.
L’appassionante resoconto di uno dei più difficili periodi della storia fiorentina
«Henderson raggiunge nuove e importanti conclusioni sull’efficacia e l’impatto delle misure di salute pubblica nella Firenze del Seicento.»
«In questo vivido resoconto, Henderson rievoca le tremende esperienze dei fiorentini che affrontarono una delle prime crisi sanitarie moderne.»
«Appoggiandosi a una straordinaria quantità di fonti, Henderson mostra come i cittadini, desiderosi di salvare le loro anime tanto quanto le loro vite, lottarono per sopravvivere, ognuno a modo suo.»
Piero Calamandrei- Il fascismo come regime della menzogna
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE
«Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata.»
I capitoli inediti di un’opera di Piero Calamandrei: un bilancio del ventennio all’indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un’analisi a caldo del regime.
Il regime della menzogna costituzionale
Lo Stato legalitario è uno strumento di legalità che si presta alla politica di qualsiasi partito: il meccanismo formale con cui le leggi si creano e si applicano è come uno stampo vuoto, nel quale, attraverso un procedimento tecnico fissato una volta per sempre, si può colare qualsiasi metallo. Per arrivare attraverso questo meccanismo a fare approvare una legge che abolisca la proprietà privata non si deve seguire un procedimento formalmente diverso da quello che condurrebbe ad ottenere una legge che gelosamente la conservi: qua e là, basta che si formi nel libero voto delle opinioni e degli interessi una maggioranza in un senso o in un altro, perché il metodo legalitario possa servire ugualmente a trasformare in diritto l’ideale politico di quella maggioranza. Per questo nei programmi dei partiti di opposizione che operano nell’ambito dello Stato legalitario non c’è come necessaria premessa la riforma dei meccanismi costituzionali: attraverso i quali, se se ne accetta il metodo, ogni partito può arrivare a conquistar il governo col voto ed aver tradotti in leggi i propri postulati economici e sociali.
Ma ci sono altri partiti, ai quali più propriamente si adatta l’attributo di rivoluzionari, i quali prima che i problemi di sostanza, attinenti al contenuto del diritto, si pongono i problemi di forma, attinenti al modo di formularlo: i quali ritengono, cioè, che prima di passare alla risoluzione delle concrete questioni economiche e sociali, sia necessario stabilire un “ordine nuovo”, un nuovo metodo per creare le leggi destinate a risolverle. Tra questi partiti, per i quali la questione costituzionale attinente alla forma dello Stato si presenta al primo posto come premessa necessaria di ogni altra riforma di carattere più sostanziale, fu il fascismo: il quale, sia nel suo primo tumultuoso affacciarsi alla vita politica, sia più tardi nella dottrina formatasi dopo il suo trionfo (per non sbagliare, mi riferirò sempre, nel citare i capisaldi di questa dottrina, a fonti autentiche), è stato anzitutto negazione polemica dei metodi costituzionali dello Stato liberale e proposito o velleità di costruire, in luogo di questo, un nuovo meccanismo di legalità attraverso il quale la volontà dello Stato, cioè il diritto, potesse manifestarsi in maniera più genuina e più energica che non attraverso i logori ingranaggi della libertà, del suffragio popolare e della divisione dei poteri.
La iniziale perplessità del fascismo su tutti i problemi politici sostanziali, che passavano in seconda linea di fronte all’urgenza, in cui tutte le ambizioni si trovavano fino ad allora concordi, di dar la scalata al potere, si riscontra, malamente dissimulata, anche nella successiva elaborazione teorica della dottrina; al centro della quale, in luogo di coerenti e consapevoli direttive politiche proposte all’attività pratica del governo, si trovano disquisizioni filosofiche sulla natura dello Stato, e vuote esaltazioni di esso, concepito come strumento di forza e di dominio. Essenziale per questa dottrina è l’autorità: come si conquista, come si tiene, come si impone, ma a quali scopi sociali questa autorità venga esercitata, in quali direzioni essa si adoperi in servizio della civiltà, ciò sembra secondario in quella dottrina. Quando avrò la forza in mano, sembra dire l’autore, vedrò caso per caso che cosa mi convenga fare: “Il fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica: praticamente aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione. Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto”.
Quasi sembrerebbe di sentire in questo passo un’eco dello spirito antidogmatico del liberalismo, il quale nella sua espressione più genuina non vuol farsi sostenitore di programmi organici e completi di riforme economiche, perché insegna che l’ordine e il contenuto delle soluzioni debbono essere suggeriti dalle circostanze concrete via via che esse propongono alla politica i problemi pratici da risolvere. Ma nel liberalismo questa ripugnanza ad accettare programmi aprioristici è naturale, come omaggio alla libertà che non può essere ipotecata da soluzioni anticipate e che, attraverso le forme dello Stato liberale, deve trovar aperta la via a risolvere i problemi concreti nel modo storicamente più aderente alla realtà che via via si presenta sempre nuova e imprevedibile. Viceversa, in una dottrina che nega la libertà e pone in luogo di essa l’autorità, questo confessato agnosticismo su tutto quel che riguarda la soluzione dei problemi politici concreti può esser sintomo rivelatore del profondo indifferentismo ideale di un movimento il quale, avendo come unico dogma il potere, è pronto ad adottare caso per caso qualsiasi politica che gli serva a mantenerlo.
Ma quali sono dunque i caratteri giuridici di questo nuovo strumento istituzionale che il fascismo contrappone allo Stato legalitario? Quando, dalla polemica negativa contro i difetti del metodo liberale, il fascismo passa alla ricostruzione degli organi destinati alla produzione del diritto, in che consiste la tanto vantata originalità dell’ordinamento costituzionale uscito da questa dottrina?
Prima di rispondere a questa domanda, bisogna premettere, per colui che nel lontano avvenire vorrà scrivere pacatamente la storia del fascismo, una avvertenza: guardarsi dal credere che per farsi un’idea esatta del regime fascista possa bastare il leggerne la descrizione nelle leggi da esso create. Creder che per ricostruire l’aspetto giuridico di una civiltà sia sufficiente interrogare le leggi del tempo senza occuparsi di ricercare se e come erano in fatto applicate, è sempre un errore storico, perché quasi sempre tra le leggi come sono scritte e la loro applicazione pratica vi è un certo scarto, e la legalità proclamata nei codici è temperata nella realtà sociale da una certa dose di illegalismo che l’autorità non è in grado di impedire. Ma l’errore diventerebbe particolarmente grave di fronte a un regime come quello fascista, il quale ha avuto il carattere singolarissimo, anzi unico nella storia, di appoggiare i propri ordinamenti costituzionali, quasi arco su due colonne, da una parte sulla legalità ufficiale, dall’altra sull’illegalismo ufficioso: cioè da una parte sulle leggi e dall’altra sulla violazione delle medesime adoprata anch’essa, al par delle leggi, come strumento politico di governo.
In verità nella legislazione fascista abbondano, come si vedrà, le leggi “costituzionali”: e grande risalto fu dato, nei primi anni del regime, alla preparazione della cosiddetta “riforma costituzionale”, lo studio della quale fu solennemente affidato ad una commissione tecnica di diciotto insigni specialisti, che popolarmente furono chiamati i “soloni” (e, dai più maligni, “i fessoloni”). Ma chi si fermasse a considerare soltanto questo corpus di leggi costituzionali che si tengono in vetrina per presentarle, vedrebbe del sistema politico fascista soltanto la facciata, cioè le istituzioni di gala, quelle che si tengono in vetrina per presentarle agli ospiti di riguardo nei giorni di cerimonia: mentre in realtà la parte più importante del sistema, era costituita dai congegni interni, appositamente predisposti nelle retrostanze, per annientare o per snaturare le leggi apparenti tenute in mostra dinanzi agli occhi del pubblico.
Era un po’ difficile, in verità, dare di un siffatto sistema una definizione in termini giuridici!
Una rivoluzione, quand’è una rivoluzione vera, sopprime una dopo l’altra le istituzioni giuridiche e con esse la legalità dell’ordinamento abbattuto; e mentre prepara le nuove leggi in cui dovrà stabilmente fissarsi la sua vittoria, apre necessariamente, tra il vecchio regime ed il nuovo, uno hyatus di illegalismo, sulla natura del quale i giuristi non trovano ardui problemi da risolvere: è l’inevitabile illegalismo di fatto che segue le rivoluzioni vittoriose, male accetto ma transitorio, che non è fine a se stesso e dura solo quanto occorre per ricostruire la nuova legalità. Né difficile è la definizione giuridica di un’altra sorta di illegalismo: quello che impera in quei regimi dove il principe apertamente si proclama legibus solutus e governa come tale. Qui si sa di che si tratta: è il tradizionale illegalismo dei tiranni, senza mezzi termini e senza maschera; e quindi ben definibile e classificabile; che almeno ha il merito della sincerità.
Ma quando ci si mette a cercare una definizione giuridica del regime fascista, in cui si incontra questo singolarissimo paradosso che è una legalità appoggiata sull’illegalismo, ovvero un illegalismo non di fatto ma di diritto, il compito di chi voglia descrivere in maniera chiara questo ibrido ordinamento diventa quanto mai arduo. Era ammirevole l’impegno con cui i professori di diritto costituzionale cercavano di sciogliere i mille indovinelli che venivano fuori da quel regime: era rivoluzione o non era? La monarchia rappresentativa c’era ancora o era stata abolita? Contava più il capo dello Stato o il capo del governo? Lo Statuto era ancora in vigore o era stato soppresso? C’era ancora l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, ovvero si era introdotta una distinzione tra iscritti che hanno tutti i diritti e non iscritti che hanno tutti i doveri? I detti interpreti aguzzavano gli espedienti della loro ermeneutica su quelle leggi; e credevano di trovare in esse la risposta a tutti quei problemi. Ma non si accorgevano, o figuravano di non accorgersi, che la soluzione, più che alle leggi, sarebbe stato necessario chiederla a quella pratica politica a cui le leggi servivano soltanto da schermo figurativo.
In verità nel regime fascista c’è stato qualcosa di più profondo, di più complicato, di più torbido dell’illegalismo: c’è stata la simulazione della legalità, la truffa, legalmente organizzata, alla legalità. A tutte le tradizionali classificazioni delle forme di governo bisognerebbe aggiungere una nuova parola che riuscisse a significare questo novissimo tipo di regime: il governo dell’indisciplina autoritaria, della legalità adulterata, dell’illegalismo legalizzato, della frode costituzionale…
In un regime siffatto le istituzioni vanno prese non per quello che è scritto nelle leggi, ma per quello che è sottinteso tra le righe di esse: e le parole non hanno più il significato registrato nel vocabolario, ma un significato diverso e assai spesso opposto a quello comune, intelligibile soltanto agli iniziati.
Come meglio si vedrà dal seguito di queste considerazioni, il carattere in cui si riassumono le singolari qualità di questo regime è quello della doppiezza: in senso proprio ed in senso traslato. Il sistema fascista risulta infatti dalla combinazione di due ordinamenti giudiziari uno dentro l’altro: quello ufficiale, che si esprime nelle leggi, e quello ufficioso, che si concreta in una pratica politica sistematicamente contraria alle leggi. A questa duplicità di ordinamento corrisponde una doppia stratificazione di organi: una burocrazia di stato e una burocrazia di partito, pagate entrambe dagli stessi contribuenti, e ricongiunte al vertice in colui che è insieme il manovratore dell’una e dall’altra, “capo del governo” e insieme “duce del fascismo”. Ma tra la burocrazia dell’illegalismo e quella della legalità non vi è antitesi, anzi vi è una segreta alleanza e una specie di reciproca vicarietà: tanto che per volersi render conto esattamente di quello che è il regime, non si deve chieder la spiegazione ad una sola di esse, ma bisogna piuttosto cercarla nel punto ove esse si incontrano, a mezza strada tra legalità e illegalismo.
La menzogna politica, che può sopravvenire in tutti i regimi come corruzione e degenerazione di essi, qui è stata sistematicamente assunta, fin da principio, come strumento normale e fisiologico di governo. Ciò apparirà in maniera evidente dall’esame di quei quattro capisaldi della dottrina fascista, che potrebbero denominarsi le sue quattro finzioni costituzionali: il totalitarismo, la rivoluzione, il consenso, la monarchia.
La finzione del totalitarismo
Totalitarismo: per vent’anni questa parola ci ha ossessionato. Era uno di quei vocaboli catapulta che quando i gerarchi li scaricavano enfiando le gote e sporgendo la quadrata mandibola, davano alla folla la sensazione quasi fisica dell’irresistibile schiacciamento. Nella maschia oratoria fascista tutto diventava totalitario: dalla dedizione al duce alle adunate dei gregari, dalla riforma scolastica alla consegna dell’olio agli ammassi. Ma i sostantivi per i quali questo attributo era stato originariamente inventato dal suo creatore (giustamente celebrato dai filologi più avvertiti come rinnovatore della lingua italiana) erano soprattutto due: “regime” e “Stato”. Regime totalitario, Stato totalitario… Quale realtà politica si nascondeva sotto questo aggettivo rintronante?
Qualunque professore di dottrine politiche (ce n’era uno per ogni cantonata) avrebbe potuto spiegarvelo in quattro parole: di fronte al frazionamento e alla disgregazione dei regimi liberaldemocratici, in cui l’unità dello Stato era perpetuamente messa in pericolo dalle lotte dei partiti e dalle tendenze anarchiche del sindacalismo, ecco finalmente, col fascismo, il regime che armonizza e unifica tutte le forze sociali, e tutte le “potenzia” senza che alcuna vada dispersa; ecco finalmente raggiunto, qui, perfetta identificazione dell’interesse privato nell’interesse pubblico, l’annientamento di ogni egoismo individuale nel sentimento di disciplina nazionale… Questo è il totalitarismo: un monumentale blocco d’acciaio, in cui tutti i cittadini si trovano finalmente fusi, emulsionati, amalgamati…
Ma sarà meglio che cerchiamo di capir per conto nostro, senza scomodar le guide autorizzate, che cosa c’era sotto queste belle immagini.
La teoria del totalitarismo è riassunta in una nota formula: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, la quale, secondo la glossa autentica, significa nella sua faccia negativa che “nulla di umano, di spirituale, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”; e nella sua faccia positiva che “lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo”.
Sotto l’aspetto negativo è chiaro, e più chiaro diventa nel commento dell’autore, che cosa la formula voglia dire. Non solo si nega, ma addirittura si dichiara “non pensabile” l’esistenza fuori dello Stato di una vita morale individuale: la libertà, la dignità spirituale, è, per il fascismo, un dono che la persona riceve dallo Stato; anzi la persona è tale solo in quanto lo Stato abbia soffiato in essa il creator suo spirito. Che nell’uomo esista per natura un pensiero che le leggi esterne non possono costringere, una volontà libera che non riconosce alcuna tirannia, una coscienza morale che vive sola padrona di sé in una quarta dimensione posta fuori dal tiro dello Stato che può colpire soltanto con armi a tre dimensioni, tutto questo è, più che negato, ignorato dal fascismo: “Nulla di umano, di spirituale esiste… fuori dello Stato”; è proprio scritto così. Anche la morale è una creazione dello Stato, è volontà dello Stato “etico”: cosicché in sostanza morale e diritto si identificano, e non può neanche sorgere il problema del contrasto tra legge giuridica e giustizia morale, dato che quello che lo Stato pone come diritto, è, per il solo fatto che chi lo pone è lo Stato, volontà morale: “Lo Stato, come volontà etica universale, è creatore del diritto”. Tutto questo è assai chiaro; ma non è altrettanto originale. Si tratta infatti, semplicemente, di una brutale caricatura della deificazione hegeliana dello Stato, che tradotta in termini politici vuol dire un esasperato assolutismo in adorazione della propria onnipotenza; lo schiacciamento della libertà sotto la religione fascista dell’autorità: “Lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo”. È una concezione non soltanto antindividualistica e antiliberale, ma anche, essenzialmente, anticristiana. Se si ricercano nel campo pratico le conseguenze giuridiche di queste premesse filosofiche, si vede che esse significano nient’altro che il ritorno ad un’autocrazia peggiore, poiché estesa anche al campo spirituale, di quelle rovesciate dalla rivoluzione francese. Aboliti quei “diritti di libertà” che lo Stato legalitario aveva posti a salvaguardia della persona umana come barriere non valicabili dalla stessa legalità, la legge torna ad essere in ogni campo onnipotente: e può anche, se così piace allo Stato, ristabilire la schiavitù. Dato che la personalità giuridica non si considera più come necessario riflesso di una preesistente personalità morale che lo Stato deve limitarsi a riconoscere, ma come creazione ex novo dello Stato che può a suo arbitrio rifiutarla e ritoglierla, niente si oppone a che, in cosiffatto regime, l’uomo sia legalmente retrocesso a cosa. Questo vuol dire dunque, sotto questo primo aspetto negativo, il totalitarismo: una specie di teocrazia senza dio, in cui lo Stato si è assunto anche il potere di creare le anime.
Ma il totalitarismo, si è visto, non ha soltanto questa portata negativa, di annullamento dell’individuo nello Stato; nell’altra faccia, quella positiva, esso si presenta come esaltazione dei valori individuali, dei quali lo Stato fascista sarebbe “sintesi ed unità”: ogni individuo, “in quanto esso coincida con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica”, trova nello Stato il suo “potenziamento”: fuori dello Stato è nulla, dentro lo Stato esso diventa tutto: e nel sottoporsi all’autorità dello Stato trova in questa soggezione “la sola libertà che possa essere una cosa seria”, cioè la libertà dell’individuo nello Stato”.
Messo di fronte a queste formule per lui misteriose, il giurista che poco si intende di filosofia cerca di tradurle in proposizioni che abbiano un senso pratico chiaramente intelligibile alla sua tecnica. Egli vede nello Stato uomini che comandano e uomini che ubbidiscono, nel diritto regole formulate da uomini a cui altri uomini sono chiamati ad ubbidire; egli chiama libertà individuale quella zona di attività esterna nei limiti della quale, stabiliti dalla legge, l’individuo può comportarsi come meglio crede senza essere soggetto ad alcuno; e vede nella soggezione il contrario della libertà. E il suo spirito semplificatore lo porta a ricercare i meccanismi pratici che si annidano sotto il fumo del linguaggio filosofico: come son ripartite, nello Stato totalitario, le funzioni del comandare e dell’ubbidire? Chi sono i governanti e chi i governati? Quali persone concorrono effettivamente, colla loro volontà, a creare quei comandi che poi devono valere come volontà dello Stato, cioè a creare il diritto?
Si legge che il totalitarismo è la sintesi e la messa in valore della vita di tutto il popolo: guardiamo dunque attraverso quali sistemi pratici tutto il popolo concorre nello Stato fascista alla creazione del diritto.
Il fascismo respinge energicamente “l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico”. Esso “nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere la società umana; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini; che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco, com’è il suffragio universale…”. Lo Stato “…non è numero, come somma di individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggiore numero, abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia, se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi; anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti”.
Si può innanzitutto osservare che in questa polemica contro il sistema elettorale dei regimi liberali e democratici, si cerca a bella posta, con superficiale espediente giornalistico, di far confusione tra l’uguaglianza di fatto e la uguaglianza giuridica. Lo Stato legalitario non è in alcun modo basato sull’assurda credenza, smentita dalla natura, che tutti gli uomini siano di fatto qualitativamente uguali, né pretende che tutti i cittadini possano di fatto concorrere al governo in misura uguale, come unità aritmeticamente equivalenti; ma crede che per far affiorare le direttive politiche corrispondenti alle forze sociali più vive e per trovar gli uomini meglio adatti a governare in conformità di esse, non esista metodo più perfetto (o meno imperfetto) di quello che dà a tutti i cittadini in ugual misura la libertà giuridica di esprimer pubblicamente le proprie idee, di raggrupparsi secondo esse in partiti, e di concorrere col voto alla elezione di coloro che dovranno tradurle in leggi. Non dunque equivalenza quantitativa di tutti i cittadini: ma libertà giuridica data ugualmente a ciascuno di immettere nella lotta politica le proprie qualità personali, in modo che, nelle idee e negli uomini, le qualità migliori possano affermarsi e prevalere. È un sistema, dunque, che vede nella libertà il miglior filtro dei valori umani. Si potrà sostenere che questo sistema ha dei difetti, si potranno suggerire, se ci sono, sistemi migliori; ma non è lecito, se non si vuol cambiare le carte in tavola, far apparire come un sistema indirizzato a soffocare la qualità sotto la quantità livellatrice quello che è, viceversa, essenzialmente un metodo per allargare sulla totalità del popolo la ricerca e la educazione della qualità, per dare a tutte le idee e a tutti gli uomini che valgano, in qualunque ceto sociale, la possibilità di rivelarsi e di farsi valere.
Ma guardiamo qual è, in contrapposto a questo che si afferma superato, il metodo di selezione delle idee e degli uomini proposto dal totalitarismo fascista.
Prima di tutto, abolizione dei partiti: un partito solo, che esclude ed annienta tutti gli altri e che pretende di coincidere, esso solo con lo Stato. “Un partito che governa totalitariamente una nazione è un fatto nuovo nella storia” sentenzia gravemente l’inventore della dottrina; in questo ha perfettamente ragione, perché i partiti finora avevano avuto storicamente un senso, solo in quanto fossero più d’uno e in contrasto tra loro: cioè porzioni o frazioni della vita politica dello Stato, che rappresentava il tutto di cui essi, anche etimologicamente, erano le “parti” contrapposte. Ma quando, com’è avvenuto col fascismo, i partiti si riducono ad uno e quest’uno si dilata fino ad abbracciare in sé la totalità della vita politica (sicché si è potuto parlare del fascismo come di un partito-Stato e di uno Stato-partito), allora l’idea stessa di partito dovrebbe dissolversi; e la stessa espressione di “partito totalitario” dovrebbe apparire come una contraddizione in termini, come quella di chi dicesse che l’intero è parte di sé medesimo. E in verità, durante questi vent’anni coloro che guardavano con superficiale buon senso l’evoluzione della vita pubblica italiana, non riuscivano a spiegarsi il fenomeno indubbiamente nuovo nella storia di questo partito che dopo aver sgominato tutti gli altri partiti ed esser rimasto padrone unico e incontrastato del campo, continuava tuttavia, pur governando lo Stato senza opposizioni, a stare in armi contro le opposizioni che non c’erano, come un duellante che dopo aver steso in terra l’avversario continuasse a rimanere in guardia, puntando la spada contro il vento; e i pacifici cittadini, nel veder questa gente vestita di nero che dopo dieci o quindici anni dal trionfo continuava ad aggirarsi per le piazze con aria truce e con tanto di pugnale alla cintola, si domandavano: “Ma con chi l’hanno?”.
Non capivano, questi loici pieni di ingenuità, che la sopravvivenza paradossale di questo partito totalitario colle sue gerarchie armate costituenti dal centro alla periferia un duplicato apparentemente inutile della burocrazia dello Stato, era (come meglio si vedrà tra poco) uno strumento necessario della “rivoluzione continua” coltivato a bella posta per mantenere gli spiriti in stato di perpetua mobilitazione per conservare al regime quel certo tono eccitante di illegalismo che giustificava il continuar delle sopraffazioni e delle ruberie.
Prima conseguenza di questo tipico carattere del totalitarismo, che è la soppressione di tutti i partiti fuor che di quello al potere, è stata la esclusione dalla vita pubblica (e qui, come si è visto, vita pubblica voleva dire molte volte vita professionale) di tutti i cittadini che non fossero iscritti al partito fascista. Abolita la libertà di stampa e di associazione, tolta a tutti la possibilità di manifestare in forma legale opinioni che dissentissero da quelle del partito dominante, la gran maggioranza dei cittadini fu condannata al perpetuum silentium ed all’ozio politico: esser fuori dal partito voleva dire, politicamente, esser fuori dallo Stato. E questa fu, nonostante che potesse superficialmente apparire come una prova di forza, la fatale debolezza del fascismo: quella che doveva togliergli inesorabilmente ogni possibilità di avvenire. Mentre si proclamava a parole la espressione totalitaria di tutte le forze vive della nazione, si metteva al bando la grandissima maggioranza dei cittadini, e così, col rinunciare a cercare in mezzo ad essi un contributo di uomini e di idee, a ridurre la vita politica dello Stato, la sintesi universale di tutto un popolo, a sfogo partigiano di una sola minoranza faziosa. A ben guardare, se per Stato totalitario si deve intendere quello che apre la strada alle qualità dei migliori, ricercandole e ridestandole in mezzo al popolo senza distinzioni di tendenza o di ceti, questa denominazione si addice ai regimi liberali e democratici, assai meglio che a quello fascista; perché solo in quelli, attraverso la dialettica dei partiti, non c’è voce che vada perduta, e la vita pubblica dello Stato riesce veramente, attraverso la libertà di opposizione che è anch’essa una forma di collaborazione, ad essere la sintesi di tutto un popolo. Anche nel campo spirituale, la libertà è ricchezza: dove c’è libertà non vi è frazione sia pur minima della nazione che sfugga a questa gara di qualità, attraverso la quale la vita pubblica perpetuamente si ossigena e si rinnovella; mentre una dittatura di partito finisce con l’impoverire anche spiritualmente lo Stato, perché si condanna da sé a trarre uomini ed idee da quel suo piccolo campo chiuso che ogni giorno diventa più sterile e più maligno, mentre al di là della siepe fertili distese rimangono incolte. Ma si può dire almeno che dentro a questo angusto recinto il fascismo abbia saputo introdurre ed attuare un metodo di selezione delle qualità migliore di quello praticato nello Stato legalitario? Si potrebbe infatti pensare che quella feconda opposizione delle idee che non era più permessa come distinzione e opposizione di partiti fosse però ammessa nell’interno del partito unico, in modo che i vantaggi del metodo liberale fossero messi a profitto entro questa più limitata cerchia: e che dentro di essa fosse tollerato e magari incoraggiato il formarsi di diverse tendenze, e consentita la critica reciproca, e concesso ai fascisti di raggrupparsi intorno ad esse e di scegliere da sé, in ciascun gruppo, i propri capi.
Niente di tutto questo. Ogni tanto, specialmente tra i fascisti universitari, affioravano correnti eterodosse che invocavano la libertà di critica e di discussione politica: non per tutti i cittadini, si intende, ma almeno per gli iscritti al partito. Pareva, sul primo momento, che a queste correnti giovanili si volesse consentire libero sfogo: si lasciavano fondare giornaletti che parevano destinati a rimettere in onore l’intelligenza, a riportare nella gioventù l’abitudine
Breve biografia di Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana.Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
Thriller, fantareligione, inchieste, ricerche, esoterismo, horror, viaggi nel tempo, c’è di tutto in questo romanzo che raccoglie 60 anni di vita di un professore texano con la passione dell’archeologia. Lo vediamo nel 1925 negli scavi a Megiddo per scoprire le scuderie del Re Salomone, nel 1945 a Napoli alla fine del secondo conflitto mondiale, nel 1965 in Messico in una sorta di ricerca sull’archeologia dell’esistenza. Per finire, l’ultimo racconto vede protagonista Kate, una sua ex allieva e ora professoressa nella sua stessa scuola di El Paso, che deve sconfiggere la maledizione della nipote di Belzebù. Nelson Bentham Mill, è un personaggio inventato che rispecchia la tradizione biblista dei ricercatori statunitensi, racconta in prima persona la sua vita nei primi tre racconti; la sua è una religione dei primordi, legata al mondo del mistero, calata dentro una realtà densa di sentimenti di amicizia, amore, passione, paura e sofferenze. Ma vi sono risvolti della camorra a Napoli e del narcotraffico in Messico, come fenomeni di contorno che entrano con la loro prepotenza e arroganza nelle storie.
Quarta di copertina
Il personaggio di Nelson, presente in questo romanzo, è realmente esistito: Nelson Glueck vissuto dal 1900 al 1970, il quale per tutta la vita si è speso per trovare conferme e prove archeologiche a conferma della Bibbia.
Ispirandosi al filone dell’archeologia americana, l’autore inventa un nuovo Nelson, stavolta Bentham Mills, del quale si racconta la vita nel periodo dal 1925 al 1965 attraverso viaggi avventurosi e fantastici, dall’esodo biblico, passando dall’esoterismo nazista durante il 1945, per finire alla ricerca di un gesuita scomparso nelle montagne nel 1965. Avventura, suspense, mistero, viaggi nel tempo, soprannaturale vissuto senza eccedere, cammino della fede, indagini, e altro in un romanzo originale che inserisce una vera “saga del personaggio” che il lettore segue nella sua vita in tre avventure psico-religiose.
Con molti risvolti di contorno, la fede religiosa, tratti semplici di teologia, il paesaggio sociale, la realtà autentica come la camorra a Napoli o il narcotraffico in Messico
Si tratta quindi di romanzo che racconta tutta la vita del personaggio con un titolo inequivocabile. L‘autore, sin dall’inizio si pone le stesse domande del lettore, rispetto agli avvenimenti fantastici vissuti. Una lettura che non ha riscontri violenti che mantiene il giusto pathos che serve a raccontare e vivere le vicende, i cambi di scena con l’arcano che domina sempre. L’archeologia descritta parte dal Dio biblico punitivo dei primordi per arrivare al Dio che si fa amare, come indagine fondamentale dove si capisce il senso archeologico della vera religiosità.
La sua è un archeologia dei primordi, più ancestrale, più legata al mondo del mistero. Un racconto che però divulga, assume informazioni reali, come reali sono gli scavi, i reperti, come reale è la società di contorno, i paesaggi aspri e meno contorti, i riferimenti biblici, le persone che si incontrano, i sentimenti e le passioni, le paure e le sofferenze.
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Antonio, il protagonista de “La cosa buffa” di Giuseppe Berto è convinto che il dubitare delle donne sia il modo migliore per vivere i sentimenti.
Nello scenario di una Venezia minore, lontana dai flussi turistici e autentica, Berto racconta gli amori del protagonista, consegnandoci un personaggio difficile da dimenticare, un antieroe leggero e tormentato, ostinato e volubile; e indaga magistralmente, con ferocia e ironia, le contraddizioni dell’animo umano.
“La cosa buffa” di Giuseppe Berto è in libreria e in eBook.
Biografia
Nasce da Ernesto, maresciallo dei Carabinieri in congedo, e Nerina Peschiutta, sua compagna d’infanzia. Il padre, abbandonata l’Arma per amore della moglie, aveva aperto un negozio di cappelli e ombrelli e, con il suo aiuto, s’improvvisava venditore ambulante nei mercatini dei dintorni. La cappelleria era anche sede della locale ricevitoria del Lotto Regio e delle riunioni di ex Carabinieri organizzate da Ernesto.
Nonostante le modeste condizioni economiche della famiglia, il giovane Berto, primo maschio di cinque figli, venne iscritto a frequentare il ginnasio nel Collegio salesiano Astori di Mogliano, dove studiò con grande diligenza soffrendo al pensiero dei sacrifici economici sostenuti dalla famiglia per mantenerlo agli studi. Frequentò successivamente il liceo Antonio Canova a Treviso e lo portò a termine nonostante lo scarso impegno, aiutato dalla fortuna, e da quanto aveva imparato al ginnasio.
Scoraggiato dallo scarso profitto del figlio, il padre lo avvertì che non avrebbe provveduto a mantenerlo all’università. È questo un episodio emblematico del tormentato rapporto col padre, mai risolto, nodo cruciale della sofferta esperienza personale e letteraria di Berto.
Scoppiata nel 1935 la guerra d’Abissinia, Berto partì volontario per l’Africa orientale, combattendo per quattro anni come sottotenente in un battaglione di ascari, prima di rimanere ferito al piede destro, e, per il suo eroico comportamento in battaglia, fu insignito di una medaglia d’argento e una di bronzo al valor militare; “un vero affare, poiché ancor oggi – scriveva egli stesso nel 1965 – riscuotevo il relativo assegno“. Il sentimento patriottico contraddistinse l’intera giovinezza di Berto come conseguenza dell’educazione fascista.
Tornato in Italia nel 1939, cercò di riprendere gli studi in un clima però poco favorevole, a causa dell’imminente scoppio della seconda guerra mondiale nella quale l’Italia entrò nel 1940. Rivestita allora la divisa, terminò gli esami che ancora gli mancavano e si laureò nel 1940 con una tesi in Storia dell’arte. Sempre nello stesso anno, in autunno, pubblicò sul Gazzettino sera di Venezia in quattro puntate il racconto lungo La colonna Feletti, una sorta di reportage su un episodio realmente accadutogli e dedicato alla memoria di quattro compagni coraggiosamente caduti in Africa orientale uno dei quali, Edgardo Feletti, viene citato nel titolo. Il racconto rivela una notevole vocazione narrativa, di tono giornalistico. Esso si “distacca dalla letteratura acclamata in quegli anni“, come scriverà lo stesso Berto.
Si ritrovò così nel settembre 1942 nel VI Battaglione Camicie Nere a Misurata. Spedito urgentemente al fronte dopo il disastro di El Alamein, il VI Battaglione partecipò all’affannosa ritirata dalla Cirenaica alla Tunisia affrontando sul Mareth una colossale battaglia e uscendone quasi interamente annientato, sebbene si fosse battuto con coraggio e valore. Su questa vicenda lo scrittore si atterrà, molti anni dopo per la stesura del volume-diario Guerra in camicia nera (Garzanti, Milano1955). Berto, addetto al rifornimento viveri se la cavò fuggendo e, fallito un tentativo di rientrare in Italia, venne spedito a rinforzare il X Battaglione Camicie Nere “M”, i fedelissimi di Mussolini. Con questa unità, in cui era finito per caso, passò gli ultimi giorni della guerra africana rintanato in una buca per scampare alle cannonate degli inglesi, lottando contro i pidocchi e la malinconia, cadendo infine prigioniero al termine della campagna di Tunisia il 13 maggio 1943.
La prigionia
Trasferito negli Stati Uniti, passando da un campo di prigionia all’altro, finì al Campo di concentramento di Hereford, nel Texas, dove dopo l’8 settembre 1943, optò per la “non cooperazione” subendo violenze e patimenti di ogni genere e dove ebbe come compagni di prigionia Gaetano Tumiati, Dante Troisi, Ervardo Fioravanti e Alberto Burri. Questa esperienza fu molto importante perché fece rinascere in Berto il desiderio di scrivere, passione inconscia e frustrata della sua giovinezza.
Alcuni compagni fondarono una rivista intitolata Argomenti che veniva letta a turno nell’unica copia manoscritta. Nella ricerca di collaboratori, essi si rivolsero anche a Berto, per il solo fatto che risultava laureato in lettere. Messo per la prima volta davanti a un compito di scrittore e non più di giornalista, elaborò un pezzo di prosaritmica, dannunziana da cima a fondo, dove esaltava la vicenda delle stagioni al suo paese.
Sempre nell’ambiente della prigionia entrò in contatto con la letteratura americana: Furore di Steinbeck e qualche racconto di Hemingway. In prigionia, Berto scrisse numerosi racconti, i primi brevi e scherzosi, i successivi sempre più lunghi e impegnati, tre dei quali rielaborati successivamente entrarono a far parte del volume Un po’ di successo (Longanesi, Milano, 1963), con i titoli Economia di candele, Gli eucaliptus, Il seme tra le spine. Più importanti i romanzi, anch’essi del ’44: Le opere di Dio, il primo scritto da Berto, e soprattutto La perduta gente, di pochi mesi posteriore.
Il rientro nel dopoguerra
Tornato a casa nel febbraio del 1946, tentò senza successo di attirare l’attenzione degli editori sui manoscritti che aveva riportato dalla prigionia. La fortuna gli fece incontrare Leo Longanesi, il quale fiutò l’affare. Il romanzo (La perduta gente) uscì tra il Natale del 1946 e il Capodanno del 1947: «soltanto quando lo vide nelle vetrine dei librai Berto seppe che Longanesi l’aveva intitolato Il cielo è rosso, era un titolo bellissimo e astuto, che magari aveva poco a che fare col testo ma restava immediatamente impresso in chi lo vedeva. Berto sa che una parte non piccola del successo del romanzo è dovuta a quel titolo», scriverà lo stesso autore ne L’inconsapevole approccio.
Il cielo è rosso
Il romanzo[1], che divenne immediatamente un successo internazionale, narra le difficili vicende di un gruppo di ragazzi che la guerra ha abbandonato al loro destino e che tra violenze e orrori ritrovano solidarietà e umanità.
Inconsapevolmente Berto si trovò “intruppato in quella schiera di artisti chiamati neorealisti“, racconterà in seguito lo stesso autore in un articolo apparso su Il Resto del Carlino il 1º giugno 1965. Sull’onda del successo de Il cielo è rosso, per altro non confermato dalle Opere di Dio, Berto scrisse Il brigante, uscito presso Einaudi nel 1951, da cui furono tratti un film di Renato Castellani e una riduzione radiofonica.
La sua uscita non risollevò le sorti dell’autore e il libro fu stroncato da Emilio Cecchi. Come nei suoi romanzi precedenti fuori da precisi riferimenti si riflette nel Brigante una congerie sincera e spesso poeticamente patetica di rivendicazione sociale e di umana fratellanza, vale a dire di marxismo e di cristianesimo, come l’autore li sperimentava nel clima egualitario e rinnovatore suscitato dalla guerra.
Trasferitosi a Roma, tornò a Mogliano a causa dell’aggravarsi delle condizioni di salute del padre, che di lì a poco morirà per un cancro. A Roma conobbe e sposò Manuela Perroni, da cui ebbe una figlia, Antonia, nata il 9 novembre 1954. Gli insuccessi ottenuti aprono la strada di una lunga malattia che verrà diagnosticata come nevrosi da angoscia, che lo affliggerà per quasi un decennio impedendogli di lavorare con continuità.
Prima che la malattia raggiungesse il culmine, Berto ricostruì e ordinò in un diario, edito da Garzanti nel 1955 col titolo Guerra in camicia nera, gli avvenimenti che aveva annotato prima di essere fatto prigioniero. Il romanzo-diario testimonia la dolorosa e lenta evoluzione dal neorealismo ad uno psicologismo a sfondo umoristico. Dal 1955 al 1964 tentò di uscire dalla nevrosi passando da una cura all’altra, si occupò di giornalismo e scrisse sceneggiature cinematografiche. Il racconto La Luna è nostra del 1957 lo vede nei panni di sé stesso, giornalista, alle prese con Febo Còrtore, uno strano e misterioso meccanico. Nel 1963 rimase famoso nelle cronache lo scontro, a cui seguì una vertenza giudiziaria, con Alberto Moravia, che non apprezzava l’opera di Berto, in occasione dell’assegnazione del premio Formentor alla giovane autrice Dacia Maraini per il suo secondo romanzo L’età del malessere.[3]
Finalmente Berto trovò sollievo per le sue condizioni psichiche approdando ad una terapiapsicoanalitica presso l’abruzzese Nicola Perrotti[4], esperienza questa per lui determinante.
Il male oscuro
Il 1964 è probabilmente l’anno fondamentale della carriera letteraria di Berto; esce infatti Il male oscuro che, in precedenza rifiutato da più di un editore, si aggiudicò in una sola settimana i due premi letterari Viareggio[5] e Campiello.[6] Autentico caso letterario, il romanzo ripercorre autobiograficamente la vita dell’autore alla ricerca delle radici della sua sofferenza; frutto del percorso psicoanalitico, opera una dissoluzione delle strutture narrative in modo nuovo e personalissimo, in un contesto di generale rinnovamento.
Contraendo un debito, frattanto, Berto aveva acquistato un terreno a Capo Vaticano, in Calabria, dove, bonificata la sterpaglia, edificò una villa destinata a diventare il suo rifugio per gran parte dell’anno “l’isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un piccolo tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho coraggio, (…) e del resto non tutti coloro che volevano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione, e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia, di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi (…) ecco qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte” (Il male oscuro, cit.).
Nel biennio successivo al grande successo del Male oscuro pubblica altri due romanzi: La fantarca e La cosa buffa.
Gli ultimi anni
Nella produzione successiva, libri d’impegno si alternano a pagine occasionali, e Berto sciupa quasi coscientemente e con rabbia il suo talento. Lontano da circoli o accademie letterarie, non si associa ad alcun partito, non vota ed è politicamente incerto. «A destra lo ritengono di sinistra, i comunisti pensano che sia fascista, e i fascisti lo giudicano un traditore. Egli, per conto suo, è convinto d’essere pressappoco un anarchico»[7].
Dopo anni di silenzio collabora a sceneggiature cinematografiche, tra le quali spicca quella del film del 1970Anonimo veneziano di Enrico Maria Salerno. Nel 1971 pubblica per i tipi della Rizzoli un curioso pamphlet dal titolo Modesta proposta per prevenire, che suscitò un certo dibattito politico letterario, ottenendo il plauso di Armando Plebe allora responsabile culturale del MSI, facendolo divenire ancor più un autore scomodo. Rispondendo alle polemiche che lo vogliono intruppare in questo o in quello schieramento politico, nel saggio egli non si definisce fascista o antifascista, ma “afascista”. Alfredo Cattabiani approfittò dell’ostracismo che la cultura dominante gli riservava per portarlo alla Rusconi, di cui era direttore editoriale.[8] Nel 1972 gli viene assegnato presso la “tavola” mestrina di Dino Boscarato il prestigioso premio “Amelia”.[9]
Scritto in soli sei mesi il suo ultimo libro, La gloria (Arnoldo Mondadori Editore, 1978) è una riabilitazione di Giuda Iscariota, contraddittoria ed eretica autodifesa in cui Giuda parla di sé stesso come di uno strumento necessario al compiersi di un “evento già scritto”.
Dopo un lungo soggiorno in una clinica di Innsbruck e una parimenti lunga convalescenza a Capo Vaticano, durante la quale trovò il tempo per comporre una breve apologia, Intorno alla Calabria, dedicata agli amici, Berto morì di cancro a Roma il 1º novembre 1978; la salma è tumulata a Ricadi, nel cimitero di San Nicolò.
Alla sua memoria sono intitolati i licei di Mogliano Veneto e di Vibo Valentia. Inoltre, per divulgarne l’opera, è stata costituita l’associazione “Amici di Giuseppe Berto” con sedi a Ricadi e Mogliano, comuni gemellati ormai da anni. Compito dell’associazione è anche quello scegliere il vincitore del Premio Giuseppe Berto che si svolge alternativamente ogni anno nei due comuni.
Anonimo veneziano (romanzo), Rizzoli, Milano 1976; con una presentazione inedita dell’Autore, BUR, Milano 2005;
Intorno alla Calabria. Scritti diversi di autori diversi che si pubblicano in occasione della mostra di oggetti e sculture di civiltà contadina organizzata a Capo Vaticano nell’osteria Angiolone da Giuseppe Berto, agosto 1977, Vibo Valentia, Grafica Meridionale, 1977; Lamezia Terme, Settecolori, 2018. ISBN 978-88-96986-30-1.
Elogio della vanità. Ovvero vediamo un po’ come siamo combinati malamente. Studio psicologico sul successo da esibizionismo, Vibo Valentia, Monteleone, 2007. ISBN 88-8027-106-7; Lamezia Terme, Settecolori, 2013. ISBN 978-88-96986-09-7.
Soprappensieri. Tutti gli articoli (1962-1971), a cura di Luigi Fontanella, Torino, Aragno, 2010. ISBN 978-88-8419-433-6
«Ufficiale addetto al comando della colonna, in aspro combattimento, con sprezzo del pericolo, si portava più volte nelle primissime linee per trasmettere ordini. Mentre, di propria iniziativa, dirigeva il fuoco di una mitragliatrice su forti gruppi di nemici che tentavano di avvicinarsi alla linea, colpito da un proiettile al piede sinistro, non cessava di incoraggiare gli ascari alla resistenza.»
— Gumarà (A.O.I.), 2 luglio 1938
Alberto Raffaelli-La comparseria. Luigi Pirandello accademico d’Italia
Franco Cesati Editore-Firenze
Descrizione
Il presente volume affronta, sulla base di documentazione archivistica, l’esperienza di Luigi Pirandello accademico d’Italia. Occupando gli ultimi otto anni dell’esistenza dello scrittore (1929-1936), tale carica ne emblematizza l’intera parabola umana e artistica, in tutte le sue contraddizioni. A cominciare da quella della fedeltà al fascismo, la cui nota problematicità viene ulteriormente suffragata dal rapporto con la massima istituzione culturale del regime, nei cui confronti egli fu certo insofferente pur però senza mancare di adoperarsi in diverse occasioni, se non altro allo scopo di vedere coronate talune aspirazioni: su tutte, la vittoria del premio Nobel per la letteratura nel 1934. Il ritratto delineato è quello di una personalità che nell’incarico di accademico vedeva messo alla prova un irrisolto contrasto tra anarchismo del grande artista e necessità di ossequiare le regole indispensabili all’assecondamento dei propri obiettivi: ne scaturisce il profilo di un compromesso difficoltoso, emblematico di una vicenda che come poche altre nel Novecento culturale italiano ha sperimentato i privilegi ma anche i tormenti dell’uomo pubblico.
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L’innato fascino dell’amore per la scrittura: Alberto Raffaelli da scrittore a presentatore dei libri altrui sulla pagina Facebook “Segnalazioni letterarie”
L’amore per la scrittura è un’esperienza che molti autori, scrittori emergenti e appassionati di letteratura condivisa fanno. Tu cosa puoi dirci a riguardo?
È una passione che va ben oltre il semplice atto di mettere parole su carta; è un legame profondo con le parole stesse, con la creatività e con l’espressione.
Perché l’amore per la scrittura è così affascinante e come può arricchire la vita di chiunque si avventuri nel mondo delle parole?
La scrittura è una forma di espressione unica e potente. Attraverso le parole, possiamo condividere idee, emozioni, storie e pensieri con gli altri. L’amore per la scrittura è spesso alimentato dalla gioia di comunicare, di connettersi con il mondo e condividere parti di se stessi. Scrivere consente di tradurre il mondo interiore in un formato tangibile che può essere condiviso con gli altri.
Quando si ama scrivere, si apre la porta ad un mondo di creatività infinita. Sei d’accordo?
Sì. È proprio così. Ogni parola, ogni frase, ogni storia può essere un’opera d’arte in sé. Non ci sono confini né regole fisse nella scrittura creativa, ciò che permette ai talenti di esprimersi liberamente e di sperimentare. La scrittura offre l’opportunità di creare mondi fantastici, personaggi indimenticabili e situazioni straordinarie.
Scrivere non è solo un mezzo per comunicare con gli altri, ma anche un modo per esplorare il proprio mondo interiore. Giusto?
L’amore per la scrittura può diventare una forma di autoriflessione e scoperta personale. Tenere un diario, scrivere poesie o creare storie permette di esplorare le emozioni, i pensieri e le esperienze personali in modo profondo.
Le storie sono un elemento fondamentale della scrittura… Quale il loro potere?
Attraverso le storie, possiamo intrattenere, ispirare, educare e persino trasformare il mondo. Scrivere storie è un modo potente per connettersi con gli altri e condividere messaggi significativi. L’amore per la scrittura spinge gli scrittori a creare narrazioni che possono lasciare un’impronta duratura nella vita di chi le legge.
In conclusione, l’amore per la scrittura è un’esperienza unica che arricchisce la vita di chi la abbraccia?
Assolutamente sì. È un’arte di espressione, un veicolo per la creatività, un mezzo di autoriflessione e un potente strumento per condividere storie significative. L’amore per la scrittura può essere coltivato da chiunque, indipendentemente dall’età o dall’esperienza. Quindi, se non lo hai già fatto, concediti il piacere di esplorare il meraviglioso mondo della scrittura e scoprire l’inebriante bellezza di questa passione senza tempo.
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Edizione con testo a fronte a cura di Luigi Reitani-Con una Nota di Hans Höller
ADELPHI EDIZIONI-MILANO
Risvolto
Nell’agosto 1956, in vista della pubblicazione di questa raccolta poetica, destinata a diventare celebre, Ingeborg Bachmann scriveva al redattore che si stava occupando del volume: «Sarei grata se nel risvolto non si desse la possibilità ai critici di “inchiodarmi” a un’interpretazione anticipata o simili». Le preoccupazioni dell’autrice non erano infondate, e difatti non mancò chi cercò di ricondurre Invocazione all’Orsa Maggiore agli schemi della critica letteraria dell’epoca. Tentativi peregrini, perché davvero nessuna categoria poteva attagliarsi alla poesia di quella giovane austriaca che già con la precedente raccolta si era imposta, nelle parole dello «Spiegel», come «la più importante poetessa tedesca del dopoguerra». Una poesia multiforme, cangiante, dove classico e moderno si fondono in versi ora audaci e spigolosi ora di chiara musicalità, e lo sguardo della Bachmann si mostra attento a cogliere la violenza della realtà e il dolore, in particolare nei paesaggi italiani, luminosi e arcaici, feriti e vitali, lontanissimi dai cliché della tradizione classico-romantica: «Nel mio paese primogenito, nel sud / mi assalì la vipera / e nella luce l’orrore». Un dolore che dev’essere accettato, reso concreto, se vogliamo superare i confini che ci vengono imposti e tendere all’impossibile, all’irraggiungibile, «sia esso l’amore, la libertà o qualsiasi entità pura». Se vogliamo diventare vedenti, sensibili al vero, il che implica smascherare le parole della frode, gli abusi di cui sono portatrici, affidandoci al linguaggio salvifico della poesia: «Vieni, grazia di suono e di fiato, / fortifica questa bocca, / quando la sua debolezza / ci atterrisce e frena. // Vieni e non ti negare, / poiché noi siamo in lotta con tanto male».
DAS SPIEL IST AUS
Mein lieber Bruder, wann bauen wir uns ein Floß und fahren den Himmel hinunter|
Mein lieber Bruder, bald ist die Fracht zu groß und wir gehen unter.
5
Mein lieber Bruder, dann will ich an den Pfahl 10 gebunden sein und schreien.
Doch du reitest schon aus dem Totental und wir fliehen zu zweien.
Wach im Zigeunerlager und wach im Wüstenzelt, es rinnt uns der Sand aus den Haaren,
dein und mein Alter und das Alter der Welt
mißt man nicht mit den Jahren.
Laß dich von listigen Raben, von klebriger Spinnenhand und der Feder im Strauch nicht betrügen,
14
Mein lieber Bruder, wir zeichnen aufs Papier viele Länder und Schienen.
Gib acht, vor den schwarzen Linien hier fliegst du hoch mit den Minen.
IL GIOCO È FINITO
Mio caro fratello, quando costruiremo una zattera per scendere giù lungo il cielo|
Mio caro fratello, presto sarà il carico immenso
e noi affonderemo.
Mio caro fratello, sul foglio tracciamo molti paesi e binari.
Sta’ attento, su quelle linee nere
con le mine potresti saltare.
Mio caro fratello, poi voglio gridare legata stretta al palo.
Ma tu già cavalchi dalla valle dei morti e insieme fuggiamo.
Desti nel campo di zingari e desti in tenda nel deserto, scorre sabbia dai nostri capelli,
la tua, la mia età e l’età della terra
non si misura con gli anni.
Non lasciarti ingannare dall’astuzia dei corvi,
da una zampa vischiosa di ragno, dalla penna nel rovo,
15
iß und trink auch nicht im Schlaraffenland,
20 es schäumt Schein in den Pfannen und Krügen.
Nur wer an der goldenen Brücke für die Karfunkelfee das Wort noch weiß, hat gewonnen.
Ich muß dir sagen, es ist mit dem letzten Schnee
im Garten zerronnen.
25 Von vielen, vielen Steinen sind unsre Füße so wund. Einer heilt. Mit dem wollen wir springen,
bis der Kinderkönig, mit dem Schlüssel zu seinem Reich
uns holt, und wir werden singen:
im Mund,
Es ist eine schöne Zeit, wenn der Dattelkern keimt! 30 Jeder, der fällt, hat Flügel.
Roter Fingerhut ist’s, der den Armen das Leichentuch säumt, und dein Herzblatt sinkt auf mein Siegel.
Wir müssen schlafen gehn, Liebster, das Spiel ist aus. Auf Zehenspitzen. Die weißen Hemden bauschen. Vater und Mutter sagen, es geistert im Haus,
wenn wir den Atem tauschen.
35
16
nel paese di cuccagna non mangiare e non bere, schiuma apparenza da padelle e bicchieri.
Solo chi al ponte d’oro, per la fata rubino la parola sa ancora, ha vinto.
Devo dirti che con l’ultima neve
si è sciolta in giardino.
Han piaghe i nostri piedi per molte e molte pietre.
Uno è sano. Con lui salteremo,
$nché il re dei fanciulli con in bocca la chiave del regno non ci prenda con sé e noi canteremo:
È una bella stagione, quando il dattero è in $ore! Chi cade ha le ali.
Purpurea digitale orla il sudario dei poveri,
e il tuo tesoro sul mio sigillo come foglia cala.
Si va a dormire, caro, il gioco è $nito.
In punta di piedi. Si gon$ano le camicie bianche. Papà e mamma dicono che ci sono i fantasmi quando scambiamo il respiro.
17
VON EINEM LAND, EINEM FLUSS UND DEN SEEN
I
Von einem, der das Fürchten lernen wollte
und fortging aus dem Land, von Fluß und Seen, zähl ich die Spuren und des Atems Wolken, denn, so Gott will, wird sie der Wind verwehn!
5
Er fühlte seine Welle ausgeschrieben,
10 eh sie ihn wegtrug und ihm Leid geschah;
sie sprang im See auf und sie schwang die Wiege, in die sein Sternbild durch die Schleier sah.
Er schüttelte und trat die tauben Nüsse,
den Hummeln schlug er schärfre Töne vor, 15 und Sonntag war ihm mehr als Glockensüße –
Sonntag war jeder Tag, den er verlor.
Er zog den Karren aus verweichten Gleisen, von keinem leichten Rädergang verführt,
18
Zähl und halt ein – sie werden vielen gleichen. Die Lose ähneln sich, die Odysseen.
Doch er erfuhr, daß, wo die Lämmer weiden, schon Wölfe mit den Fixsternblicken stehn.
DI UNA TERRA, UN FIUME E DEI LAGHI
I
Di uno che il temere volle apprendere,
la terra abbandonando, il $ume e i laghi, conto le tracce e le nubi del respiro, giacché (se vuole Iddio) li sperde il vento!
Conta e poi smetti – a molte sono uguali. Somigliano i destini, le odissee.
Ma egli apprese che ai pascoli d’agnelli già stanno lupi, con $ssi occhi di stelle.
Ancora prima che lo sollevasse, sentì che la sua onda si annunciava: balzava nel lago scuotendo la culla da cui traspariva la sua stella.
Scuoteva e calpestava vuote zucche,
ai grilli suggeriva toni aspri,
e più che un dolce suono di campane, domenica era ogni giorno che perdeva.
Smosse il carretto dai binari storti, ignorando ogni facile sentiero,
19
beim Aufschrei, den die Wasser weiterreichten 20 an Seen, vom ersten Steinschlag aufgerührt.
Doch sieben Steine wurden sieben Brote,
als er im Zweifel in die Nacht entwich;
er tauchte durch den Duft und streute Krumen im Gehn für den Verlornen hinter sich.
25 Erinnre dich! Du weißt jetzt allerlanden: wer treu ist, wird im Frühlicht heimgeführt. O Zeit gestundet, Zeit uns überlassen!
Was ich vergaß, hat glänzend mich berührt.
II
Im Frühlicht rücken Brunnen in die Mitte, der Pfarrer, das Brevier, der Sonntagsstaat, die kalten Pfeifen und die schwarzen Hüte, Leib, Ehr und Gut vor allerhöchsten Rat.
5 Untätig steht der Fluß, die Weiden baden, die Königskerzen leuchten bis ins Haus, das schwere Essen ist schon aufgetragen, und alle Sprüche gehn auf Amen aus.
Die Nachmittage, hell und ungeheuer –
10 die Nadel springt im Strumpf, Gewöll zerreißt,
und das Geschirr der Pferde wird gescheuert, bis eins erklirrt, mit dem Fallada reist.
Die Alten liegen in den dumpfen Stuben,
das Testament im Arm, im zweiten Schlaf, 15 und ihre Söhne zeugen wortlos Söhne
mit Mägden, die der Gott als Regen traf.
Gestillte Lippen und gestillte Augen –
die Raupen hängen eingepuppt im Schrein,
20
nel grido portato dalle acque
nei laghi, mossi dalla prima pietra.
Ma sette pietre furon sette pani, quando nel dubbio fuggì nella notte; si immerse nell’aroma e sparse briciole andando per i perduti alle sue spalle.
Ricorda! Ormai hai saputo in ogni terra:
chi è fedele è condotto a casa all’alba.
O tempo dato in proroga, tempo a noi af$dato! Ciò che scordai radioso mi ha toccato.
II
Si fanno al centro le fontane all’alba,
il breviario il prete il vestito a festa,
le pipe fredde ed i cappelli neri, persona onore e beni al gran consiglio.
Fermo sta il $ume, i salici si bagnano, la luce dei verbaschi giunge in casa, il pingue pasto è già portato in tavola e ogni versetto termina con l’amen.
I pomeriggi, luminosi e immani –
le calze e l’ago, si lacera la borra,
si lustrano le briglie dei cavalli,
$nché una scricchiola e Fallada parte.
Giacciono i vecchi nelle cupe stanze,
il Testamento in mano, nella siesta,
e i $gli procreano taciti altri $gli,
con serve, su cui il Dio posò qual pioggia.
Placate labbra e placati occhi – pendono i bruchi, crisalidi, in armadio,
21
und Dunggeruch steigt mit den Fliegentrauben 20 bei früher Dämmrung durch die Fenster ein.
Am Abend Stimmenauflauf an den Zäunen, Andacht und Rosen werden laut zerpflückt, die Katzen scheuchen auf aus ihren Träumen, und rote Mieder hat der Wind verrückt.
25 Die Zöpfe lösen sich, die Schattenpaare
im Nebel auf, vom nahen Hügel rollt
der unfruchtbare Mond, besetzt die Äcker und nimmt das Land für eine Nacht in Sold.
III
Dem Hügelzug ist eine Burg geblieben, vom Berg geschützt, der Felsen um sie stellt, den Geier ausschickt mit dem Krallensiegel, dem Königswappen, eh sie ganz verfällt.
5
Der stiftet Brand, dem sie zu dritt befehlen,
10 der mordet, den ein schwarzes Haar umschlingt,
und wer den Stein aufhebt, wird selber sterben, noch diesen Abend, eh die Amsel singt.
Die unbeschuhten Geister auf den Zinnen,
der unbewehrte Leichnam im Verließ,
15 im Gästebuch die Namen der Beschauer –
die Nacht vertuscht sie, die uns kommen hieß.
Sie schlägt den Erdplan auf, verschweigt die Ziele; sie trägt die Zeit als eine Eiszeit ein,
22
Es sind drei Tote hinterm Wall verborgen;
von einem weht vom Wachtturm noch das Haar, von einem heißt es, daß er Steine schleudert, von einem, daß er doppelköp$g war.
e odore di concime con le mosche, quand’è tramonto dalle $nestre entra.
Voci serali si affollano ai recinti, preghiere e rose vengono sfogliate, la gatta si risveglia spaventata, corsetti rossi ha scomposto il vento.
Si sciolgono le trecce, in nebbia coppie ombrose, dal vicino colle rotola
la luna sterile e occupa i poderi,
per una notte assolda la campagna.
III
Ancora i monti in vetta hanno un castello, protetto dalle rocce strette intorno,
dagli avvoltoi, con artigli a sigillo
e il real stemma, prima che rovini.
Tre morti son celati dal bastione;
di uno ondeggia la chioma dalla torre, di un si dice che scaraventi massi,
di un si narra che due teste avesse.
Incendio appicca, colui che in tre comandano, è un assassino, colui che nere chiome stringono, e chi solleva il masso morirà,
già questa sera, prima che il tordo canti.
Gli spiriti sui merli a piedi nudi, nella segreta la salma senza armi, degli ospiti i nomi nel registro – cela la notte che ci invitò a venire.
La notte apre le mappe, tacendo le mete; registra l’era come era glaciale,
23
die Schotterstege über die Moränen,
20 den Weg zu Grauwack und zu Kreidestein.
Die Drachenzeichnung lobt sie und die Festung, vom Faltenwurf der frühen Welt umwallt,
wo oben unten war und unten oben.
Die Scholle tanzt noch überm blauen Spalt.
25 Ins Schwemmland führt die Nacht. Es schwemmt uns wieder ins Kellerland der kalten neuen Zeit.
So such im Höhlenbild den Traum vom Menschen!
Die Schneehuhnfeder steck dir an das Kleid.
IV
In andren Hüllen gingen wir vorzeiten,
du gingst im Fuchspelz, ich im Iltiskleid; noch früher waren wir die Marmelblumen, in einer tiefen Tibetschlucht verschneit.
5
10
15
Wir standen zeitlos, lichtlos in Kristallen und schmolzen in der ersten Stunde hin, uns überrann der Schauer alles Lebens, wir blühten auf, bestäubt vom ersten Sinn.
Wir wanderten im Wunder und wir streiften die alten Kleider ab und neue an.
Wir sogen Kraft aus jedem neuen Boden und hielten nie mehr unsren Atem an.
Wir waren leicht als Vögel, schwer als Bäume, kühn als Delphin und still als Vogelei.
Wir waren tot, lebendig, bald ein Wesen
und bald ein Ding. (Wir werden niemals frei!)
Wir konnten uns nicht halten und wir zogen in jeden Körper voller Freude ein.
24
le scie di ghiaia lungo le morene, la via al grovacco, al sasso di creta.
Loda il disegno del drago e la rocca
cinta dai drappi del mondo di ieri,
quando l’alto era il basso e il basso l’alto.
La zolla danza ancora sul crepaccio azzurro.
Terra in diluvio destina a noi la notte. Ci trascina nella cantina del nuovo glacial tempo.
Nel dipinto della caverna cerca il sogno dell’uomo! In$lati sull’abito la penna del lagopo.
IV
Sotto altre spoglie andavamo un tempo, tu in volpe, io in abito da puzzola; fummo ancor prima $ori di marmo, nevosi in una gola tibetana.
Cristalli senza luce e senza tempo
ci liquefammo nella prima ora,
ci avvolse il brivido della vita intera, $orimmo nel polline del primo senso.
Viandanti nel miracolo lasciammo
i vecchi panni per indossarne nuovi. Succhiammo forza da ogni nuovo suolo e mai più il nostro respiro s’arrestava.
Leggeri uccelli fummo e gravi alberi, del$ni audaci e mute uova d’uccello. Morti e poi vivi, un essere eravamo,
e poi una cosa. (Mai saremo liberi!)
Senza poter fermarci migravamo in ogni corpo pieni di gran gioia.
25
(Und niemand sag ich, was du mir bedeutest – 20 die sanfte Taube einem rauhen Stein!)
Du liebtest mich. Ich liebte deine Schleier,
die lichten Stoffe, die den Stoff umwehn,
und ohne Neugier hielt ich dich in Nächten. (Wenn du nur liebst! Ich will dich ja nicht sehn!)
25 Wir kamen in das Land mit seinen Quellen. Urkunden fanden wir. Das ganze Land,
so grenzenlos und so geliebt, war unser.
Es hatte Platz in deiner Muschelhand.
V
Wer weiß, wann sie dem Land die Grenzen zogen und um die Kiefern Stacheldrahtverhau|
Der Wildbach hat die Zündschnur ausgetreten, der Fuchs vertrieb den Sprengstoff aus dem Bau.
5
Wo anders sinkt der Schlagbaum auf den Pässen; 10 hier wird ein Gruß getauscht, ein Brot geteilt.
Die Handvoll Himmel und ein Tuch voll Erde bringt jeder mit, damit die Grenze heilt.
Wenn sich in Babel auch die Welt verwirrte,
man deine Zunge dehnte, meine bog –
15 die Hauch- und Lippenlaute, die uns narren,
sprach auch der Geist, der durch Judäa zog.
Seit uns die Namen in die Dinge wiegen, wir Zeichen geben, uns ein Zeichen kommt,
26
Wer weiß, was sie auf Grat und Gipfel suchten| Ein Wort| Wir haben’s gut im Mund verwahrt; es spricht sich schöner aus in beiden Sprachen und wird, wenn wir verstummen, noch gepaart.
(E tacerò cosa per me tu sia –
mite colomba per la pietra scabra!)
Mi amavi. Io amavo i veli tuoi,
le lievi stoffe che la stoffa librano,
e discreta la notte ti stringevo.
(Se solo ami! Vederti non pretendo!)
Giungemmo nel paese delle fonti. Trovammo gli atti. Il paese intero, così amato, scon$nato, ora era nostro. Trovava posto nella tua mano a conca.
V
Chissà quando tracciarono i con$ni, e intorno ai pini un $lo spinato|
Il torrente ha sommerso la miccia, la volpe tolse l’esplosivo dalla tana.
Chissà cosa cercarono su in cima|
Una parola| In bocca la serbiamo;
più bella suona in tutte e due le lingue, e, noi muti, sarà appaiata ancora.
Cala una sbarra altrove sopra i passi; qui ci si scambia il pane ed un saluto. Un lembo di terra e un pugno di cielo ognuno porta, perché il con$ne sani.
E se a Babele il mondo si confuse,
fu gon$a la tua lingua e la mia curva – le beffarde aspirate e le labiali,
parlò lo Spirito lungo la Giudea.
Da quando i nomi ci cullan nelle cose, facciamo un segno e ci risponde un segno,
27
ist Schnee nicht nur die weiße Fracht von oben, 20 ist Schnee auch Stille, die uns überkommt.
Daß uns nichts trennt, muß jeder Trennung fühlen; in gleicher Luft spürt er den gleichen Schnitt.
Nur grüne Grenzen und der Lüfte Grenzen vernarben unter jedem Nachtwindschritt.
25 Wir aber wollen über Grenzen sprechen,
und gehn auch Grenzen noch durch jedes Wort: wir werden sie vor Heimweh überschreiten
und dann im Einklang stehn mit jedem Ort.
VI
Der Schlachttag naht mit hellem Messerwirbel, die matten Klingen schleift der Morgenwind, und aus der Brise gehn gestärkt die Schürzen der Männer, die ums Vieh versammelt sind.
5
Es wollen hier die Toten leichter wiegen, 10 denn das Lebendige, dem Blut nicht fehlt,
– und mehr als Leben wehrt sich auf der Waage! – gibt hier den Ausschlag, den kein Zeiger zählt.
Drum meid die Hunde mit den heißen Lefzen
und den Gemeinen, der mit rohem Blut 15 sich volltrinkt, bis es Schatten übersetzen
in schwarzer Lachen herrenloses Gut.
Und einen Blutsturz später: Wangenflecken –
die erste Scham, weil Schmerz und Schuld bestehn
28
Die Stricke werden fester angezogen,
die Mäuler schäumen, und die Zunge schwimmt; der Nachbar sorgt für Salz und Pfefferkörner, und das Gewicht der Opfer wird bestimmt.
la neve non è solo un bianco carico, è neve anche la quiete che ci assale.
Perché nulla ci separi, è d’obbligo il distacco; nell’aria uguale si sente il taglio uguale. Dell’aria son solo i con$ni,
di notte il vento a passi li rimargina.
Ma noi vogliam parlare di con$ni,
e siano i con$ni pur in ogni parola: per nostalgia li attraverseremo
e saremo in armonia con ogni luogo.
VI
In un lucente gorgo di coltelli, il giorno del macello s’avvicina, le lame opache il vento del mattino af$na
e per la brezza vanno inamidati
grembiali d’uomini, che attorniano il bestiame.
Più stretto si fa il cappio intorno al collo, schiumano i musi e la lingua annaspa; procura il vicino sale e pepe,
e il peso della vittima è $ssato.
Qui i morti peseranno meno,
giacché la vita, a cui sangue non manca, – e più che vita arranca alla bilancia! – segna quel tanto, che l’ago non registra.
Evita dunque ardenti labbra di cani
e il per$do, che nel crudo sangue s’abbevera, $nché ombre il sangue menano in un bene di pozze nere abbandonato.
Sbocca altro sangue: chiazze sulle guance – la prima vergogna, per dolore e colpa
29
und Eingeweide ausgenommner Tiere 20 in Zeichen erster Zukunft übergehn;
weil süßem Fleisch und markgefüllten Knochen ein Atem ausbleibt, wo der deine geht.
Den Ahnenrock am abgestellten Rocken
hat unversehens Spinnweb überweht.
25
Die Augen gehen über. Jahre sinken.
Die junge Braue fühlt den weißen Stift. Und die Gerippe steigen aus dem Anger, die Kreuze mit der dürren Blumenschrift.
VII
Zum Fest sind alle Seelen rein gewaschen, der Bretterboden wird gelaugt vorm Tanz, die Kinder hauchen gläubig in das Wasser, am Halm erscheint der schöne Seifenglanz.
5
10
holt er vorm Anlauf, vor dem neuen Mond; 15 die Samen und die Funken gehn zu Sternen,
und sie erfahren, was im Himmel lohnt.
Die Schüsse überfliegen Tannenzüge.
Ein Schuß fällt immer, der im Fleisch verhallt.
30
Der Maskenzug biegt um die Häuserzeile, Strohpuppen torkeln an die Weizenwand, die Reiter sprengen über Blumenbarren, und die Musik zieht in das Sommerland.
Maultrommeln klagen zu den Flötenstimmen. Die Axt der Nacht fällt in das morsche Licht. Der Krüppel reicht den Buckel zum Be$ngern. Der Idiot entdeckt sein Traumgesicht.
Der Holzstoß flammt: die Werke und die Tage
e gli intestini di bestie sventrate trapassano qual segni del futuro;
poiché alla carne dolce e alle ossa piene manca il respiro, là dove il tuo si muove. La ragnatela coprì all’improvviso l’abito avito sulla conocchia smessa.
Gli occhi traboccano. Anni si inabissano.
Il sopracciglio giovane avverte la matita bianca. E dal sagrato salgono gli scheletri,
le croci scritte con $ori disseccati.
VII
Ogni anima è lustra per la festa,
prima del ballo liscivia sterge il palco, fanciulli in acqua pie preghiere mormorano, e sapone scintilla sull’orlo della canna.
Il corteo di maschere gira tra le case,
i fantocci oscillano sul muro di grano, i cavalieri saltano barriere di $ori,
e va la musica nel paese estivo.
Scacciapensieri insieme a flauti piangono. La scure della notte cala sulla luce fradicia. Lo storpio offre la gobba da toccare. L’idiota scopre il suo viso ideale.
S’in$amma la catasta: opere e giorni
si porta via, prima dell’inizio e della luna nuova; semi e scintille si levano alle stelle
e imparano quel che ripaga in cielo.
Gli spari sorvolano le $le degli abeti. Uno si spegne sempre nella carne.
31
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
Il romanzo di una generazione di intellettuali nella Parigi esistenzialista del secondo dopoguerra.
In appendice Simone de Beauvoir di Simone de Beauvoir, Simone de Beauvoir vista da Sartre.
Il libro
Nel quadro dell’intera produzione di Simone de Beauvoir, I Mandarini, insieme all’autobiografia – Memorie d’una ragazza perbene, L’età forte, La forza delle cose, A conti fatti -, è il romanzo piú significativo ed emblematico. Nessuno meglio di Beauvoir avrebbe potuto raccontare la tumultuosa stagione di questo dopoguerra, in cui gli intellettuali francesi, i Mandarini appunto, erano gli indiscussi protagonisti della vita culturale e politica (basti pensare a Sartre e a Camus). Le vicende di Henri, Nadine, Anne, Dubreuilh, dei giovani «esistenzialisti » e delle ragazze che girano a vuoto, riflettono le lacerazioni di un mondo che non sa trovare il suo equilibrio, sospeso com’è tra speranze, ideali e il duro confronto con la realtà.
Breve biografia di Simone de Beauvoir
Simone de Beauvoir (Parigi 1908 – 1986)compí i suoi studi letterari e filosofici alla Sorbona. L’incontro con Sartre, che le sarà compagno per tutta la vita, è del luglio 1929. Gli anni della guerra e del dopoguerra furono fervidi di battaglie politiche, incontri e esperienze, come l’esordio della rivista «Les Temps Modernes» e l’amicizia con Camus, Leiris, Giacometti, Genet, Vian, Nelson Algren. Di Simone de Beauvoir Einaudi ha pubblicato I mandarini (Prix Goncourt 1954), Memorie di una ragazza perbene, L’età forte, La terza età, La forza delle cose, A conti fatti, Una morte dolcissima, Le belle immagini, Lo spirituale un tempo, Quando tutte le donne del mondo…, Una donna spezzata e La cerimonia degli addii.
Chiara Colombini-Storia passionale della guerra partigiana-
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE
A partire dall’8 settembre 1943 fino all’aprile del 1945 migliaia di giovani e meno giovani abbandonarono la loro vita abituale, presero le armi e si gettarono in un’avventura che stravolte la loro esistenza.
Perché lo fecero? Quali furono i sentimenti e le passioni che li spinsero ad un passo del genere e li sostennero in quei venti mesi?
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prospettiche che inducono a giudicare le scelte di allora con il metro del nostro presente.
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della Resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prodotte dal passare del tempo.
Le passioni e i sentimenti, lo sappiamo, hanno un ruolo fondamentale nelle nostre vite. Ci fanno compiere scelte improvvise, ci fanno gioire e soffrire. Alimentano un fuoco che non può essere spento. Passioni e sentimenti certamente mossero le donne e gli uomini che scelsero la strada della ribellione e della Resistenza durante la guerra. Possiamo comprenderle davvero noi che viviamo un altro tempo e un’altra storia? È quanto prova a fare Chiara Colombini, cogliendo, attraverso diari, lettere e carteggi, queste passioni ‘in diretta’, nel loro erompere durante quei venti mesi, tenendo sullo sfondo ciò che solo lo svolgersi della storia ha permesso di razionalizzare. In un tempo condizionato dall’eccezionalità che deriva dall’intreccio tra guerra totale, occupazione e guerra civile, i partigiani si innamorano, coltivano ambizioni, si accendono di entusiasmo o si arrovellano nell’insoddisfazione. Una condizione in cui, oltre alla vita, è in gioco ciò che si è scelto di essere. E, a quasi ottant’anni di distanza, emerge intatto il fascino di quell’esperienza così centrale per la storia di questo paese, la sua dimensione di profonda umanità, il prezzo pagato da uomini e donne direttamente nelle loro esistenze, il loro lascito.
L’Autrice
Chiara Colombini, storica, è ricercatrice presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”.Ha curato, tra l’altro, Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria (con Aldo Agosti, Edizioni SEB27 2012) e gli Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947) di Vittorio Foa (con Andrea Ricciardi, Bollati Boringhieri 2010) ed è autrice di Giustizia e Libertà in Langa. La Resistenza della III e della X Divisione GL (Eataly Editore 2015).
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