Harrington Brande, console americano con ambizioni letterarie, si trasferisce con il figlio Nicholas in una piccola città spagnola della Costa Brava, San Jorge. Uomo arrogante ed elitario, tormentato e insicuro, dopo la separazione dalla moglie avvenuta qualche anno prima ha riversato sul bambino tutto il suo amore ossessivo e geloso. Ma le cose sono destinate a cambiare: l’amicizia che il fragile e malaticcio Nicholas stringerà con José, un favoloso giardiniere che lavora al servizio del padre, dischiuderà al ragazzo intimorito e minacciato da ogni inibizione il mondo della spontaneità e della salute fisica e morale. Sullo sfondo degli smaglianti cieli di Spagna e di una brughiera aspra e rigogliosa, Cronin ci racconta fin dove può condurre la possessività di un padre per il figlio e la meschinità insita nel cuore umano.
Breve biografia di Archibald Joseph Cronin nacque a Helensburgh (Dunbartonshire) nel 1896. Medico, esercitò presso i minatori del Galles, interessandosi ai loro problemi sociali. Morì a Montreux nel 1981. Il medico protagonista delle storie di Cronin è giovane, entusiasta, fondamentalmente buono. I romanzi di Cronin ebbero un notevole successo in Italia alla fine degli anni sessanta grazie alle riduzioni televisive. Presso Bompiani sono stati pubblicati La via di Shannon (1978), La canzone da sei soldi (1978), Neve incantata (1978), Uno strano amore (1978), La luce del Nord (1978), Tre amori (1979), Grazia Lindsay (1979), La valigetta del dottore (1979), Il medico dell’isola (1980), Dottor Finlay (1981), La dama dei garofani (1998), Gran Canaria (1999), La Cittadella (2000), Le chiavi del regno (2001), E le stelle stanno a guardare (2001), Anni verdi (2002), Il giardiniere spagnolo (2003), Ma il cielo non risponde (2003), Il castello del cappellaio (2004), L’albero di Giuda (2004) e Angeli della notte (2004).
Tommaso Tuppini- La caduta- Fascismo e macchina da guerra
Orthotes Editrice
DESCRIZIONE
«C’è nel fascismo un nichilismo realizzato» scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, «giacché, diversamente dallo Stato totalitario che si sforza di bloccare tutte le possibili linee di fuga, il fascismo si costruisce una linea di fuga intensa, che trasforma in linea di distruzione e di abolizione pura. È strano come sin dall’inizio i nazisti annunciassero alla Germania quel che avrebbero portato: a un tempo nozze e morte, anche la loro propria morte, e la morte dei Tedeschi».
Per quanto eterogenee e difficili da ricostruire in modo univoco, le vicende del fascismo sembrano snodarsi seguendo l’ordine di alcune tappe: il fascismo è un complesso ideologico, rituale e politico che mette capo a un dispositivo militare lanciato verso la propria distruzione. L’ideologia razzista, i rituali, le prassi policratiche di governo, diventano la premessa per la costruzione di una macchina da guerra che ha il significato di un grande esperimento suicidario. Nata per proteggere e riterritorializzare a Est il popolo-nazione tedesco, la macchina si insubordina molto presto a qualsiasi compito che non sia quello della distruzione. Il fascismo voleva produrre l’“autentico” soggetto tedesco, seminare il mondo con maestose rovine capaci di testimoniare la vittoria sulla morte, ma il vortice della sua caduta ha prodotto soltanto la polvere di una catastrofe.
Macchina da guerra e nomos
diTommaso Tuppini-insegna Filosofia all’Università di Verona. Con Orthotes ha pubblicato La caduta. Fascismo e macchina da guerra
La fuga può appartenere alle esperienze più svariate e per definizione non è anticipabile, si sottrae al perimetro di qualsiasi progetto. La fuga di solito è l’effetto prodotto da una macchina da guerra. La macchina da guerra non ha a che fare in primo luogo con azioni di belligeranza, non provoca necessariamente un conflitto, è semmai un modo peculiare di abitare lo spazio, «è nella sua essenza l’elemento costitutivo dello spazio liscio, dell’occupazione di questo spazio, dello spostamento in questo spazio e della composizione corrispondente degli uomini: è questo il suo solo e vero oggetto positivo (nomos)».[1] Il nomos della macchina da guerra definisce un certo rapporto tra lo spazio e il molteplice di qualsiasi natura (inorganico, animale, antropologico, tecnologico ecc.) che lo riempie. La comprensione deleuziana di nomos è il controcanto della definizione che ne dà Carl Schmitt in un saggio del 1953.[2] Per Schmitt nomos dice il modo in cui un gruppo umano prende possesso di uno spazio e lo organizza per la propria sussistenza. Nomos comprende tre significati fondamentali e sempre coimplicati: “conquistare” la terra (Landnahme) che sarà poi da “spartire” (Teilen) perché diventi possibile utilizzarla e cominciare “produrre” (Weiden). Un gruppo umano prende possesso di un territorio libero, una “cosa di nessuno”, oppure contende il territorio ad altri gruppi. Nel secondo momento del nomos – la spartizione – i lotti del territorio vengono distribuiti ai membri secondo i diritti di ciascuno. Il nomos, però, ha anche un altro significato: l’uso produttivo della terra che è stata conquistata e spartita. Questo terzo momento comprende ogni forma di sfruttamento economico: la pastorizia dei nomadi, ma anche il lavoro agricolo, l’artigianto, la produzione industriale, qualsiasi coltivare, utilizzare e produrre. Nomos è un gesto di colonizzazione, dunque ha un significato politico, ma ha anche un significato giuridico, perché assegna un titolo di proprietà ai membri che partecipano della spartizione, e ha infine un significato economico. Il nomos della conquista, della spartizione e dell’uso ha una funzione stabilizzatrice, scandisce le tappe di un processo che compendia le prerogative dello Stato, le cui funzioni principali sono il controllo delle norme di residenza, il disciplinamento della circolazione di uomini e merci, l’organizzazione del lavoro.[3] Le tappe del nomos sono relative a «una tribù o un seguito o un popolo che si fa stanziale»,[4] definiscono i tratti essenziali della territorializzazione e della codificazione.
Anche il nomos affermato dalla macchina da guerra dice il modo in cui un molteplice ha a che fare con lo spazio: far funzionare una macchina da guerra significa infatti «distribuirsi in uno spazio aperto, tenere lo spazio, conservare la possibilità di apparire in qualsiasi punto».[5] Le componenti della macchina da guerra sono le stesse del nomos stanziale (spazio, elementi e l’occupazione dello spazio da parte degli elementi) ma diverso è il loro incastro reciproco. La differenza fondamentale tra il nomos sedentario e il nomos della macchina da guerra è che quest’ultimo rende impossibile scandire il suo funzionamento in tappe, non distingue tra la conquista, la spartizione e la produzione. Le ultime due tappe del nomos stanziale (spartire e utilizzare) presuppongono la prima (conquistare). Invece, per la macchina da guerra, tenere uno spazio vuol dire percorrerlo senza una presa di possesso preliminare, distribuirvisi senza dividerlo o costruendo recinti. La macchina da guerra tiene uno spazio indeterminato (ovvero “liscio”) nel modo in cui tengono il pendio i massi che ci rotolano sopra oppure – è l’esempio che fa Deleuze – tengono il pascolo gli animali che si distribuiscono sul fianco di una montagna, su una distesa nei pressi di una città, comunque in uno spazio «senza frontiere e senza chiusura».[6] Per il nomos della macchina da guerra lo spazio non è un perimetro inerte da occupare e misurare perché esso è fatto della tensione fra i corpi che lo popolano: c’è spazio solo nel momento in cui un molteplice vi si distribuisce per riempirlo. Lo spazio è ciò che succede tra i corpi. Per il nomos stanziale lo spazio è già dato, esso è qualche cosa di semplicemente presente di cui appropriarsi per poi suddividerlo. Il nomos dello Stato è incapace di produrre qualche cosa di nuovo, inedito, sorprendente, perché la distribuzione e la produzione rimangono funzioni della appropriazione iniziale, la natura del proprietario e della proprietà decidono della spartizione e della produzione. Il presente e il futuro del nomos stanziale sono una conseguenza del passato. Lo spazio “liscio” della macchina da guerra, invece, nasce insieme agli elementi, è la novità della combinazione tra gli elementi: pezzi di realtà, che prima s’ignoravano, si incontrano e si combinano per produrre qualche cosa che prima non c’era. La macchina da guerra non è orientata verso il passato dell’appropriazione ma verso il futuro della produzione. Il nomos stanziale mette ordine e sfrutta il vecchio, la macchina da guerra produce il nuovo. Di questo è fatta la necessaria fragilità della macchina da guerra rispetto a qualsiasi apparato che obbedisca al nomos stanziale. Poiché la macchina da guerra produce il proprio spazio, la tenuta di quest’ultimo non è garantita da nulla se non dall’azzardo della combinazione. È uno spazio sperimentale che può sparire con la stessa facilità con la quale è nato.
Per comprendere meglio la struttura di una macchina da guerra facciamo un esempio idraulico, il vortice. Il vortice è una dei primi fenomeni fisici sui quali si è esercitato il pensiero filosofico, segnatamente quello atomistico, che in esso ha scoperto una struttura intermedia tra il disordine e l’ordine, una fase di passaggio tra la pioggia verticale degli atomi e la condizione del mondo con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. La pioggia verticale di atomi è un flusso lamellare: gli strati compongono un flusso lamellare, differenti per viscosità e consistenza, procedono paralleli, senza mescolarsi e interferire. Un flusso lamellare è come una torta a strati che si disloca: è mobile rispetto all’ambiente ma al proprio interno è immobile perché la disposizione reciproca delle parti non cambia. La condizione presente, invece, è fatta di atomi aggregati in modo più o meno stabile. Tra il flusso uniforme degli atomi in caduta e la condizione presente del mondo, il vortice è la produzione attiva delle cose. La stratificazione di cui sono fatte le cose è un prodotto della vorticazione nella quale parti eterogenee di realtà si distribuiscono e si raccolgono. Il vortice dell’onda trascina con sé i detriti e separa i più grossi dai più piccoli. Questo ordine incipiente è ben rappresentato dal mulinello che si forma in certi corsi d’acqua e che già aveva attirato l’attenzione di Descartes nei Principes de la philosophie: se un torrente incontra un ostacolo (un sasso sul fondo), quest’ultimo gli rimanda indietro un controflusso il quale, combinandosi con il flusso, produce un vortice. Il vortice è una novità perché combina due cose che si ignoravano: lo scorrere del fiume e l’inerzia della pietra. Prima della formazione del vortice pietra e flusso aderivano l’una all’altro senza nessuna sfasatura. Quando il flusso inciampa nella pietra, una turbolenza dell’acqua segna la sfasatura tra i due elementi che in questo modo entrano per la prima volta in relazione.
[1] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 573. [2] C. Schmitt, Appropriazione, divisione, produzione, in Le categorie del politico, tr. it. P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312. [3] G. Sibertin-Blanc, Politique et État chez Deleuze et Guattari. Essai sur le matérialisme historico-machinique, PUF, Paris 2013, pp. 120-121. [4] C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 59 [5] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 488. [6]Ivi, p. 524.
Ciascuno dei giri di cui è fatto il vortice è fatto di un equilibrio fisico tra le spinte e le controspinte, allaccia la forza centripeta (che origina dal sasso, tendenza alla chiusura) e quella centrifuga (che origina dal fiume, tendenza all’apertura). Per mantenersi il vortice deve catturare le forze che rischiano di distruggerlo: la dispersione della corrente e l’inerzia della pietra. Il vortice si alimenta di queste forze, ma se prevale la spinta centrifuga il giro si allarga troppo e si sfascia, se invece prevale l’inerzia centripeta il giro si restringe e il vortice può chiudersi. Una combinazione dei corpi (flusso d’acqua, pietra) produce uno spazio nuovo e precario (il vortice).
Ma nel vortice riconosciamo un’altra caratteristica della macchina da guerra che fino adesso è rimasta implicita e che ci dice qualcosa di più preciso sulla natura dello spazio che la macchina allestisce: il vortice organizza la propria struttura producendo il vuoto e facendone un qualche uso. Il perno del movimento vorticoso è infatti la cavità conica che mette in comunicazione la superficie del torrente e il sasso sul fondo. Lo spazio della macchina è essenzialmente uno spazio di vuoto. Pensiamo alla ruota, dispositivo che non esiste in natura, capace di riconfigurare l’ambiente e che permette di spostarsi in modo nuovo: la ruota combina il moto di un oggetto circolare con l’immobilità del mozzo, ma funziona soltanto se tra il mozzo e il cerchio c’è un’intercapedine. A causa di questa giunzione senza saldatura la macchina rischia di saltare e guastarsi: tra la ruota e il mozzo, infatti, c’è una frizione (è una delle prime osservazioni che ha fatto la filosofia, «l’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi, in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra» dice Parmenide del carro su cui era salito). Le macchine, prima di avere un effetto distruttivo sull’ambiente o sugli altri, sono dannose per se stesse, sono coinvolte in un processo di auto-demolizione. La precarietà della struttura è il prezzo che la macchina deve pagare per la propria audacia e novità. Una macchina, quanto più è complessa e fatta di elementi eterogenei, tanto più è fragile nel suo funzionamento. È il vuoto a permettere che elementi eterogenei si combinino insieme, ma questo assemblaggio rischia sempre di cadere a pezzi. Se, a differenza del nomos di terrritorializzazione, il nomos della macchina da guerra ha un potere inventivo, non si limita a ripetere tale e quale il passato, è perché si addentra in uno spazio di vuoto. Il vuoto investito dalla macchina è uno spazio catastrofico, è il suo futuro. La macchina da guerra trasforma lo spazio in tempo: ogni combinazione, incontro, macchinazione “da guerra” si mantiene soltanto se è capace di assimilare ciò che gli può accadere, il guasto, la rovina, la caduta.
“Macchina da guerra” può essere una struttura fisica, un’invenzione tecnologica, un circuito commerciale, un’opera d’arte, tutto ciò che allestisce uno spazio plastico e metamorfico dentro il quale è impossibile codificare i rapporti una volta per tutte. Per una scienza della macchina da guerra anche gli esseri viventi sono vortici:
onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un “essere” non è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gl’innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e migrazioni d’elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.[1]
La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, essa ha portato a intersecarsi forze che precedentemente s’ignoravano: la orizzontalità terragna del movimento animale e la postura erettile della pianta che punta verso il cielo.[2] Il vortice umano nasce quando il flusso animale incontra la pianta che gli manda indietro un contro-flusso di verticalizzazione. I picchi dell’esistenza sono fatti di quel «vortice del godimento» che si eleva «nella direzione di un cielo bello come la morte, pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo cammino».[3]
Non dobbiamo però immaginare il molteplice deterritorializzato come un’entità distinta da un molteplice territorializzato, il nomos della macchina da guerra come il “contrario” del nomos sedentario. Deterritorializzazione e territorializzazione sono due condizioni differenti che riguardano lo stesso corpo o insieme di corpi. Il movimento della macchina da guerra di solito rompe una occupazione sedentaria dello spazio e sedimenta in un’altra occupazione stanziale: i massi prima o poi avranno finito di rotolare. Le bestie si saranno distribuite sul fianco della montagna e il pastore le terrà sott’occhio disegnando con il pensiero un perimetro dal quale i singoli capi non devono uscire. Il vortice idraulico proviene da un flusso lamellare nel quale dopo un certo tempo si ritrasformerà. La deterritorializzazione della macchina da guerra va verso un’ulteriore territorializzazione. La macchina da guerra, dunque, è sempre orientata in due direzioni contemporaneamente: la novità della produzione in atto e lo stato di cose nel quale la novità si è ritradotta. Lo stato di cose è la novità fatta abitudine, l’invenzione diventata “scuola”. La macchina da guerra trova il proprio limite nella riterritorializzazione alla quale mette capo. Quest’ultima ne è il limite perché le assegna una figura riconoscibile, per certi versi ne è la continuazione sotto un’altra forma. Rispetto alla macchina da guerra e alla linea molare, la linea molecolare è una condizione di mezzo. La linea molecolare è una specie di compromesso[4] tra il nomos della macchina da guerra e la territorializzazione. La segmentarietà molecolare, fatta di sconfinamenti ed equivoci, può sconcatenarsi fino a diventare macchina da guerra, oppure può perdere la propria flessibilità, irrigidirsi e territorializzare il proprio molteplice. L’equivoco consiste nell’assolutizzare l’una condizione rispetto alle altre, non comprendere che la linea di fuga è il processo genealogico di cui la molarità è il risultato. L’equivoco fascista è proprio questo: il culto di una molarità auto-sufficiente, priva di genealogia (la razza), e il desiderio di costruire una macchina da guerra capace di un movimento continuo (la Panzerwaffe).
[1] G. Bataille, L’experiènce interieure, in Œuvres complètes, vol. V, Gallimard, Paris 1973, p. 111. [2] Id., Dossier de l’œil pinéal, in Œuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1970, p. 26. [3]Ibidem. [4] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 295.
Tratto da Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes 2019
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Nel 1983 Natalia Ginzburg entrava in Parlamento, dove sarebbe rimasta per due legislature. I suoi interventi in aula furono accomunati da quella ricerca di una società più umana e più mite che permeò la sua opera e la sua vita: dal prezzo del pane al disarmo nucleare, dalle misure contro la violenza sulle donne alla valorizzazione dell’ambiente rurale. Raccolti per la prima volta in volume insieme a una scelta di articoli e interviste dello stesso periodo, questi discorsi ci mostrano una Natalia Ginzburg immediatamente riconoscibile nella fedeltà a quei valori di chiarezza e semplicità che tutti abbiamo amato nelle sue opere.
Brevi cenni biografici di Natalia Ginzburg nata Levi (Palermo 1916-Roma 1991), crebbe a Torino in una famiglia e in un ambiente antifascista. Sposò in prime nozze Leone Ginzburg, che seguì al confino in Abruzzo e al quale rimase accanto sino alla morte di lui, avvenuta nel 1944 nel carcere di Regina Coeli. Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini. Esordì nel 1942, pubblicando il romanzo La strada che va in città. Entrata all’Einaudi, casa editrice per la quale lavorò per decenni, si affermò come una tra le scrittrici più significative nel panorama letterario italiano. Nel 1963 vinse il Premio Strega per il romanzo autobiografico Lessico famigliare. Dal 1983 sino alla morte fu deputata della Sinistra indipendente.
L’Autrice-Michela Monferrini- nata a Roma 1986 ha pubblicato il romanzo Chiamami anche se è notte (2014, finalista Premio Calvino 2012 e Zocca 2015), Muri maestri (2018) e Dalla parte di Alba (2023), romanzo biografico su Alba de Céspedes. È inoltre autrice di una guida letteraria dedicata al Portogallo di Antonio Tabucchi (Cercando Tabucchi, 2016) e del ritratto Grazia Cherchi (2015). Ha pubblicato due libri per ragazzi. Nel 2017 le è stato conferito in Campidoglio il Premio Simpatia per l’impegno nel sociale.
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Cronache e protagonisti del primo antifascismo (1920-1923)
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DESCRIZIONE
Fra il 1920 e il 1923 anche le strade di Livorno videro l’inizio di una lunga guerra civile in cui le differenze ideali tra quanti si affrontarono furono nette e l’ostilità profonda, anticipando quella combattuta un ventennio dopo. In quegli anni, il fascismo livornese incontrò infatti nei quartieri popolari una decisa opposizione, così come emerge dall’impressionante cronologia dei conflitti avvenuti. Oltre a quella degli Arditi del popolo, fu una quotidiana resistenza, nel segno dell’appartenenza di classe e dello storico sovversivismo, di persone disposte a impugnare le armi per contrastare lo squadrismo e la reazione padronale, in difesa delle libertà sociali. Soltanto nell’agosto 1922, grazie all’intervento dell’esercito e con lo stato d’assedio disposto dal governo, i fascisti e i nazionalisti poterono imporre le dimissioni del sindaco Mondolfi e dell’amministrazione “rossa”, democraticamente eletta. Il marchese Dino Perrone Compagni che assieme a Costanzo Ciano aveva guidato le squadre fasciste toscane, seminando morte e devastazione, nel comunicare la “caduta” di Livorno al segretario del Partito fascista, ammise che: «Fra le mie battaglie questa più faticosa».
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La Biblioteca Franco Serantini è un centro di documentazione sulla storia politica e sociale del 19. e 20. secolo nato nel 1979 in ricordo di Franco Serantini, un giovane anarchico di origine sarda, morto a Pisa nel 1972 nel carcere del Don Bosco, dopo essere stato percosso e fermato dalla polizia mentre partecipava ad una manifestazione antifascista.
Scopo principale del centro è quello della conservazione e della valorizzazione della memoria del movimento anarchico, operaio e sindacalista dalla nascita ai giorni nostri; delle “eresie politiche” della sinistra; delle organizzazioni di base, dei gruppi antimilitaristi, femministi e dei movimenti studenteschi sorti in Italia dalla fine degli anni ’60 in poi. Dal 1995, inoltre, è attivo un progetto speciale dedicato a reperire e conservare i documenti e le testimonianze riguardanti l’antifascismo, la Resistenza e la lotta di liberazione a Pisa e provincia.
La Biblioteca F. Serantini è gestita dall’omonimo circolo culturale, associazione di promozione sociale regolarmente iscritta nel nuovo Albo regionale, articolazione provinciale di Pisa (det. n. 4628/4654 del 17.11.2003), che si occupa di mantenere aperto il Centro, offrire i servizi al pubblico, promuovere studi e ricerche su argomenti di storia sociale e contemporanea, conservare e valorizzare il patrimonio posseduto attraverso iniziative culturali di vario genere (mostre, convegni, seminari, pubblicazioni scientifiche), mantenere relazioni con altre associazioni, enti e istituti ugualmente dedicati o interessati alla memoria storica.
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Il mondo interiore di Marcel Proust – la sua sensibilità, le sue passioni e le sue idiosincrasie – è ben noto; meno note sono invece le tematiche che fanno della Recherche anche un’opera di sociologia, di geografia e di storia. Spesso descritto a torto come il nostalgico cantore di un mondo ormai tramontato, nelle pagine di questo libro, a firma di uno dei massimi studiosi dello scrittore francese, Proust si rivela un uomo immerso nella sua epoca. Osservatore attento dell’attualità, interviene senza esitazione nei principali dibattiti – il genocidio armeno, l’affaire Dreyfus, la separazione tra Stato e Chiesa – e dimostra grande interesse per i progressi tecnici. D’altro canto, la vita di Proust ha coinciso con il periodo d’oro della Terza Repubblica – la cosiddetta Belle Époque – e con le scaturigini del mondo contemporaneo, consentendogli di assistere al passaggio da una società di corte a una dominata dalle élite, mentre sullo sfondo rimaneva perlopiù immutato un popolo, quello francese, carico di una storia millenaria. Proprio come sulla facciata gotica della chiesa immaginaria di Saint-André-des-Champs sono raffigurate tutte le classi sociali del Medioevo, nella Recherche ci viene offerto uno spaccato della società francese a cavallo tra Otto e Novecento, osservata con le lenti del sociologo e trasfigurata con gli occhi del poeta.
L’Autore Jean-Yves Tadié-Professore emerito di Letteratura francese alla Sorbona, ha diretto la nuova edizione critica della Recherche per la “Bibliothèque de la Pléiade” (Gallimard, 1987-89). A Proust ha dedicato un’importante biografia (Gallimard, 1996; trad. it. Mondadori, 2° ed. 2022) e numerosi saggi.
Ma se esiste un potere del corpo, i suoi movimenti possono scrollarsi di dosso il peso di automatismi inveterati, sottomessi a sintassi prescritte, e confrontarsi con gli eventi in modo da trasformarli in occasioni (insisteremo su questo termine), attraverso astuzie e trovate ingegnose, capacità di manovra, tiri mancini, estro dell’intelligenza, un vasto insieme di tattiche che gli antichi Greci raggruppavano sotto il termine μῆτις. Detto in termini diversi, è necessario allentare il giogo dei gesti finalizzati allo scopo, perché è tra di essi che s’infiltrano e si nascondono facilmente le strategie del potere funzionali alla sua riproduzione; bisogna cioè sottrarre spazio ai gesti del fare, per donarlo ai gesti dell’agire.
Risvolto
Vi sono parole antiche, enigmatiche e dall’incerta etimologia, che risultano difficilmente traducibili. Una di queste è καιρός, parola greca che nel corso della sua lunga storia ha attraversato svariati campi del sapere e della conoscenza, caricandosi di valori sempre diversi e talora anche opposti. In molti ne hanno tessuto l’elogio: per Esiodo «il καιρός è in tutto la qualità suprema»; Sofocle lo considera «la migliore delle guide in ogni impresa umana»; Polibio riconosce che esso «comanda tutte le opere dell’uomo», e Callistrato, alla fine del basso impero, ci ricorda che «non vi è altro artigiano della bellezza che il καιρός». Ma quali sono i suoi significati, tali da meritargli il riconoscimento di tanta importanza? Per rispondere a questo interrogativo, il libro si propone di ordinare la pluralità di gesti che caratterizzano il fare e l’agire dell’uomo in base a una triplice partizione, corrispondente a tre dimensioni fondamentali del καιρός: tempestività, temporeggiamento e temperie. Queste dimensioni trovano la loro rappresentazione paradigmatica in altrettante scene che il poema omerico dell’Odissea ha reso eterne. La freccia scoccata da Odisseo, capace di trapassare con assoluta precisione gli anelli di dodici scuri; il lenzuolo che Penelope tesse all’infinito, in attesa di ricongiungersi allo sposo; la tempesta, nata dalla mescolanza di condizioni climatiche e atmosferiche diverse, che impedisce il ritorno dell’eroe. In forme, modi e contesti anche molto distanti, i tre modelli del καιρός si ripetono nel tempo, e fanno ad esempio la loro apparizione nel lavoro di Fernand Deligny, nel pensiero di Aby Warburg, nella fotografia di Cartier-Bresson, nel cinema di Andy Warhol o nella musica di Iannis Xenakis, come pure nell’incessante pioggia di atomi epicurea dalla quale è nato e si evolve di continuo il mondo che abitiamo.
Frank Dikötter-La Cina dopo Mao-Nascita di una superpotenza- Marsilio Editori Venezia
DESCRIZIONE
«Per decenni ci hanno raccontato che la Cina ha imboccato la strada che la porterà a diventare addirittura una democrazia compiuta, che le riforme politiche seguiranno quelle economiche». Crescita in declino, esplosione del debito, crisi del mercato immobiliare, per non parlare della politica «zero Covid», raccontano invece un’altra storia.Forte di una conoscenza diretta fondata su decenni di studi e grazie all’accesso a una sterminata mole di documenti provenienti da archivi interni e ai diari segreti di un dissidente per anni a stretto contatto con i vertici del Partito, Frank Dikötter offre un resoconto dettagliato del corso irregolare e talvolta caotico delle strategie economiche e sociali nella Repubblica Popolare. Descrive le brusche svolte da una crescita frenetica al ridimensionamento, dalle riforme dei primi anni ottanta alla feroce repressione, fino alle tante contraddizioni di un paese in cui «l’economia oggi si basa tutta sulla speculazione», con i rischi che questo comporta per il precario equilibrio internazionale. Esaminando il fallimento di scelte come la politica del figlio unico e il ruolo della Cina nel crollo finanziario del 2008, l’autore passa al vaglio le tante manifestazioni di una dittatura sempre più radicata, con appelli alla popolazione a respingere le «idee occidentali» di Stato di diritto e separazione dei poteri, un apparato di sorveglianza tentacolare e il sistema di controllo sui media più sofisticato al mondo. Una sfida non da poco, scrive Dikötter, «attende il Partito comunista: affrontare i problemi strutturali di lunga data, che lui stesso ha creato, senza cedere il monopolio del potere e il controllo dei mezzi di produzione. Somiglia molto a un vicolo cieco».
Nota sull’Autore-Frank Dikötter ha insegnato Storia moderna della Cina presso la School of Oriental and African Studies della University of London e, dal 2006, è professore di Discipline umanistiche all’Università di Hong Kong. Autore di numerosi saggi tradotti in tutto il mondo, i suoi volumi hanno rivoluzionato lo studio della Cina moderna, in particolare la «Trilogia del popolo» in cui documenta l’impatto del comunismo sulla vita della gente. Il primo volume della trilogia ha vinto nel 2011il Samuel Johnson Prize for Non-Fiction, il più prestigioso premio per la saggistica britannica; nel 2014il secondo è stato selezionato per il Premio Orwell e l’ultimo, nel 2017, per il penHessell-Tiltman Prize.
Poesie di Giorgio Piovano –(Torino, 27 marzo 1920 – Pavia, 31 luglio 2008) è stato un senatore del P.C.I- politico, scrittore e partigiano italiano.
Sottopongo alla vostra attenzione alcuni versi di Giorgio Piovano (1920-2008) . Mi sembra straordinaria la capacità mostrata dall’autore di trasformare in poesia la vita di milioni di uomini cancellati e dimenticati dalla storia.
Proemio
Questo è il poema degli uomini senza storia
Che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico
E vengono a galla solo quando si compilano
Le statistiche dei cataclismi :
il poema degli uomini che non hanno mai
avuto una bandiera
e si sono sempre trovati
accodati a quelle degli altri.
Questo è un poema anonimo e materiale
Fatto solo di cose usuali
E di facce senza niente di speciale;
poema cosi povero e rozzo
che per spiegarsi non ha
se non parole di tutti i giorni
e di tutto il campionario
delle gioie e dei dolori
che la Vita mette in vetrina
sa commuoversi solo di quelli
che si possono chiamare
con nome e cognome.
E questo è il suo proemio
messo avanti per avvertire
le schive Anime Nobili
che qui non è aria per loro.
[…]
Ultimo canto
[…]
Io non sono che uno
della mia generazione, uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti la porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellerosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravano viandanti inquieti
tormentandosi per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustre
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e la guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
[…].
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
[…]
Quanto ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
[…]
Io non ho che la mia vita
e la sapienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno, lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Giorgio Piovano, Poema di noi, Effigie edizioni,Milano 2007.
Il “Poema di noi” (premio Viareggio opera prima nel 1950) è stato scritto negli anni Quaranta. Giorgio Piovano si richiamava a quel filone del “realismo socialista” che allora ispirava molta della letteratura di sinistra. Di fronte all’evolversi degli avvenimenti, al modificarsi dello stesso “modo di far politica”, potrebbe apparire anacronistico riproporre oggi – almeno nei termini in cui lo viveva allora l’autore – quel “bisogno di verità e coraggio” di cui ha parlato Davide Lajolo nella prefazione a “Il fuoco e la cenere”. In realtà, esiste un tenace filo conduttore tra le attese di ieri e quelle di oggi, come d’altra parte, senza quelle speranze, appare arduo capire la delusione e il disincanto che oggi sembrano serpeggiare in una parte della sinistra italiana ed europea. Sarebbe tuttavia riduttiva una lettura di questi versi condotta solo in chiave politica e nostalgica. La poesia di Piovano è soprattutto emozione, come scrive nell’introduzione un altro poeta civile, Alberto Bellocchio: “Poesia? Quella di Piovano è qualcosa di più. È spettacolo, è rappresentazione drammatica, è un torrente in piena, un affresco a tinte forti che ci sloggia dalle nostre plastificate certezze e catafratte abitudini e ci trascina in strada”. Se n’era accorto, fra gli altri, Giancarlo Majorino, che aveva incluso alcune liriche di Piovano nell’antologia “Poesie e realtà”, dedicata alla poesia civile italiana del Novecento.
«Ma il mio paese, il paese del mio cuore,
è là nelle piane lombarde, in Lomellina,
il paese delle nebbie e delle placide acque
che per diecimila canali si ritrovano in Po.
Al tempo dei risi, quando le mondine
calano a reggimenti dalle loro tradotte
e scaricano i sacchi e le casse
sui marciapiedi delle stazioni
allora è da vedere la Lomellina
come si canta per le strade a braccetto
piemontesi bresciane e bergamasche
e più brave di tutte, coi baschi rossi, le emiliane!»
(da: Giorgio Piovano, Il fuoco e la cenere, Editrice Edinform, Pavia 1984)
di Luca Ariano
È scomparso nella notte del 1 agosto 2008 all’età di 88 anni. Nato a Torino nel 1920 partecipò alla lotta partigiana prima a Pisa e poi a Lovere; così in un’intervista rilasciata sul web (http://solleviamoci.wordpress.com): “Sono stato avanguardista, come tutti. Odiavo le divise, ma non per politica. È che mi facevano fare brutta figura con le ragazze. A Pisa trovai qualcuno che mi aprì gli occhi: in pochi anni mi trovai antifascista. Nel ’43 entrai nel Partito d’Azione: alla prima manifestazione eravamo in tre. Il giorno dopo facemmo un comizio: a quella data risale la prima di molte denunce. Il discorso patriottico che tenni venne usato contro di me anni dopo, in tribunale, come prova che ero un sovversivo”. Il trasferimento poi a Pavia e la sua attività politica (Senatore del PCI per tre legislature e Presidente della Provincia di Pavia) nel dopoguerra: “Ero professore, cercavo una sede universitaria. Problemi di salute mi tennero lontano dalla guerra: da Pisa, dove ho studiato, mi spostai a Lovere. Poi mi venne offerto di insegnare all’Istituto Bordoni, e a Pavia sono rimasto fino ad oggi: le mie piccole radici sono qui”. Ricordo l’intervista filmata che gli feci con l’amico e poeta Tito Truglia, ricordo la sua schiettezza, la lucidità e la sua forza e voglia di combattere per un mondo migliore, per i giovani (uno dei pochi di quella generazione a capire la piaga del lavoro precario) perché alle sue idee credeva ancora fermamente e non si vergognava certo di essere stato comunista, di aver fatto la Resistenza. Ho scoperto prima il Piovano poeta leggendo estratti delle sue poesie nell’antologia Poesie e realtà 1945-2000Poema di noi (Premio Viareggio opera prima 1950) che amo molto: (Tropea, 2000) curata da Giancarlo Majorino; solo in seguito, dopo averlo conosciuto, ebbi la fortuna di avere in dono la sua opera omnia poetica. Così descriveva il suo rapporto con la poesia: “Era la mia ambizione, che sto rivivendo ora in tarda età.
Era il tempo di grandi arrabbiature poetiche, della lotta all’ermetismo e agli strascichi dannunziani. Per parafrasare un celebre verso di Montale, questo noi volevamo dire: chi siamo, cosa vogliamo”. Se n’è andato uno degli ultimi comunisti, di quelli che hanno lottato a viso aperto mettendoci la faccia, coraggio, passione ed impegno. Non voglio dilungarmi oltre per non scadere nella retorica o in patinate celebrazioni che so avrebbe odiato, ma voglio ricordarlo qui con una sua poesia tratta da
ULTIMO
Avrei voluto avere il verso lungo e profondo
come il rullo dell’Internazionale
sui tamburi delle divisioni
che sfilano in parata
sotto la porta del Brandemburgo;
avrei voluto potermi fare ascoltare
per amore o per forza come gli altoparlanti
installati tra i reticolati a Madrid
che giorno e notte spiegavano
ai mercenari franchisti
da che parte fosse la Patria vera.
Altro ebbi: come quando le cornamuse
calano dai monti alle città di provincia
accompagnando la fisarmonica
dalla voce sbiadita che tenta
maldestra su povere note
i ballabili più comuni.
Pure molti si fermano ad ascoltare,
il lattaio che gira in bicicletta
col suo bidone, la sposa
appena uscita per la spesa, l’oste
che apre allora… Dalla loggia
del vecchio casamento gentilizio
la fantesca in piedi sul davanzale
a pulire la vetrata, si sporge
col cencio in mano a salutare
i suonatori compaesani.
Poi quando l’allegra nenia è dileguata
oltre i mercati, ancora dura il canto
corale delle lavandaie
lungo la roggia e l’a solo
nei passaggi difficili, della voce
più giovane.
Io non sono che uno
della mia generazione,
uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti alla porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellirosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravamo viandanti inquieti
tormentandoci per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustrate
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e al guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
e dalla veranda del sanatorio
il respiro della risacca e la curva lunghissima
sotto la luna della linea delle spume
a perdita d’occhio nel golfo…
(«Rivedrete le sere che s’incendiano
i cieli, e i monti non hanno più peso
e nel fiume scorrono rivoli d’oro.
Salutatele per me
sperduto nelle valli profonde
donde muovono le ombre
che guidano il carro della Notte»).
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
Ascoltate l’allarme
delle volontà scatenate
come spari mirati al cuore.
Quando ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
Da continente a continente
le radio impazzite
invocano S.O.S.
Io non ho che la mia vita
e la pazienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Ma milioni come me
fanno il Partito
i vagoni di libri spediti
nei villaggi chirghisi
l’Eurasia fasciata
da una rete di canali
il grano al circolo polare
il razionale Discorso
messo insieme lettera per lettera
pazientemente coscienziosamente
come negli stampi il piombo fuso
sotto il tasto del linotipista:
le parole dei miei fratelli
e con loro le mie
che si danno la mano ed abbracciano
il pianeta col giro dei paralleli!
Milioni come me
e le generazioni martellano
nei bronzi della posterità
l’epopea della Classe Operaia
che mugghiava apocalittica
e si ergeva e colpiva
a mazzate di mille tonnellate
nelle grandi ondate dei popoli
che deragliavano la storia!
I nostri pensieri gridati
con gli altoparlanti nei refettori da cinquemila posti
pesati dagli uomini a veglia
nella stalla attorno al lume a petrolio
con lo stoppino abbassato perché durasse di più
le donne macilente e forsennate
a valanga contro i cordoni
le serpi nelle occhiaie
delle case bruciate per rappresaglia
l’offerta del disoccupato alla sottoscrizione
Montanari che sputava sangue nel fazzoletto
e contava i comizi che gli restavano
fino alla fine della campagna elettorale
Daccò che ha smesso di bere
per non essere espulso
la cooperativa di San Salvatore
costruita di notte e di domenica
Brasi fotografo che adesso
scopa la sua bottega
e indosso ha la giacca a vento
di quando comandava una divisione
le croci di legno sotto i larici a Monte Giglio
con la stella rossa e la scritta
NON PIANGETE
e il compagno senza nome che alla festa
rimase a guardia delle biciclette
al posteggio, e neanche si ricordarono
di mandargli un bicchiere di vino
e la musica della moto tra le mia gambe
sugli stradali nei tramonti estivi
nel pieno dello sciopero, e nel vento
della corsa, i colpi di spillo
dei moscerini sul viso
ed anche la faccia paonazza del Vicequestore
quando si accorse che né bonomia né cipiglio
non attaccavano, anche il pretoccolo
velenoso messo nel sacco
in pubblico contradditorio
e anche il pedatone che ruzzolò
dalle scale l’avvocatuccio
che tirava a diventare onorevole
e le bandiere rosse sulle locomotive
e le metropoli dove prima c’erano le paludi
e i congressi coi delegati di sei continenti
i nostri pensieri sul mondo
a stormo
perdio imparate posteri
in questo mondo si può essere giovani
imparate perdio in questo mondo
si può anche morire
a pieno cuore
come al termine di un’ardita giornata
di maggio, combattuta instancabile
a rincorse volanti e agguati
e subitanei parapiglia
lungo i sentieri dei pioppi
nel giallo del ravizzone
quando torniamo alla cascina
cantando – tutti stanati
i crumiri sotto il naso
dei campari con la doppietta imbracciata!
Pedaliamo a festa
nel fortore dei fieni
sotto le prime stelle,
e da lontano ci saluta
agitando il suo fanale
il compagno che batte la risaia
a caccia di rane
nell’acqua fino a mezza gamba.
(tratta da: Il fuoco e la cenere, Prefazione di Davide Lajolo, Pavia: Editrice Edinform, 1984.)
Biografia di Giorgio Piovano (Torino 1920 – Pavia 2008). Nato da famiglia operaia, frequenta, negli anni ’40, la Scuola Normale di Pisa, della quale diventerà in seguito, per un anno, docente di letteratura dantesca. Partecipa alla lotta antifascista a Pisa e a Lovere, militando nel Partito d’Azione. Con l’avvento della Repubblica, lega il suo destino al Partito comunista, del quale è stato componente della Federazione pavese. Nel 1950 vinse il premio “Viareggio” con l’opera “ Poema di noi”, un componimento che parla «degli uomini senza storia, che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico». Professore e preside. Uomo schietto, lucido, vicino ai giovani, uno dei pochi della vecchia generazione a capire la piaga del lavoro precario.
Biografia-
Giorgio Piovano (Torino, 27 marzo 1920 – Pavia, 31 luglio 2008) è stato un politico, scrittore e partigiano italiano.
Nasce in una famiglia operaia torinese e negli anni quaranta si trasferisce a Pisa dove frequenta la Scuola Normale Superiore. Iscrittosi al Partito d’Azione partecipa alla lotta partigiana nella zona della provincia di Pisa.[1]
Terminato il conflitto si iscrive al Partito Comunista, venendo nominato Presidente della provincia di Pavia, dove si era trasferito in quegli anni, ed eletto sindaco della città di Casteggio.[1]
Nel 1950 vince il Premio Viareggio per la migliore opera prima con Poema di noi.
Senatore della Repubblica Italiana
Legislature
IV, V, VI
Gruppo
parlamentare
comunista
Incarichi parlamentari
IV legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 3 marzo 1964 al 4 giugno 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 3 luglio 1963 al 4 luglio 1963, Segretario dal 5 luglio 1963 al 4 giugno 1968
V legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 5 giugno 1968 all’11 novembre 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 5 luglio 1968 al 17 luglio 1968, Vicepresidente dal 18 luglio 1968 al 24 maggio 1972
VI legislatura
7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica): Membro dal 4 luglio 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per il parere al Governo sulle norme delegate in materia di stato giuridico del personale della scuola: Membro dal 13 dicembre 1973 al 19 giugno 1976
Uno scrittore algerino immagina il contraltare del celebre romanzo-
Articolo di Alberto Corsani-
Un arabo uccide un francese, apparentemente senza motivo, pochi giorni o poche settimane dopo l’indipendenza ottenuta dagli algerini nei confronti della Francia. È il ribaltamento della situazione che innescava, nel 1942, Lo straniero di Albert Camus, dove, nelle prime pagine, un francese d’Algeria sparava a un arabo sulla spiaggia, apparentemente senza motivo. Ma il libro iniziava in maniera inattesa, secca, brutale: «Oggi la mamma è morta…». E la madre è assolutamente centrale, sia pure in termini diversi, anche nel romanzo, ora uscito anche in Italia, dello scrittore-giornalista Kamel Daoud*, che davvero prosegue, rovesciandola, l’«inchiesta» legata allo Straniero e al suo protagonista Meursault(Meursault: contre-enquête è il titolo originale).
La vicenda dello Straniero è stata conosciuta da molti anche sui banchi di scuola: forse Meursault, abbacinato dal sole, ha visto l’arabo avvicinarsi minaccioso, forse era comparsa la lama di un coltello. Dunque, il delitto. E poi tutto quel che ne segue: il protagonista-assassino (che è anche il narratore) non si difende, anzi il suo comportamento sarà alla base della sua condanna a morte. Era defunta la madre, in un ospizio, e lui non se ne era occupato, anzi era andato con una donna. Tutto gli sembrava assurdo, Meursault si «lascia vivere addosso»: non gli resta che farsi condannare, sperando che tanta gente assista, odiandolo, alla sua esecuzione.
Daoud rifiuta questa impostazione, perché essa non rende giustizia alla vittima: vestendo i panni del fratellino dell’arabo ucciso, l’autore lamenta che nel romanzo di Camus la vittima esca di scena senza neppure aver avuto la dignità di un nome. Poteva essere stato ucciso chiunque altro, ciò che interessa lo scrittore francese è solo il disagio interiore, il rovello metafisico, il mal de vivre del sig. Meursault. Un lusso (il disagio esistenziale) che i poveracci non si possono permettere, dovendosi piuttosto arrabattare per tirare avanti e crescere nei vicoli andando a scuola quando capita.
Sembrerebbe una polemica rivendicativa e dettata dall’identità di un popolo liberatosi dal dominio coloniale, che ora volesse liberarsi anche della cappa culturale impostagli dalla Francia. Ma ci sono anche elementi più sottili. Intanto il romanzo di Daoud è tutto pervaso dai libri di Camus, di cui l’autore dimostra una grande conoscenza. Non solo per alcune frasi che ricalcano Lo straniero (per analogia o per via contraria, quasi parodistica). Se nello Straniero il protagonista tiene un atteggiamento di totale insensibilità nei confronti del suo delitto e della sua vittima, qui è tutta la società che assolve l’assassino-narratore: il suo crimine viene considerato un colpo di coda della guerra anticoloniale.
Ma poi c’è anche lo stile – altra operazione interessante: Daoud non si limita a usare frasi brevi ed essenziali come Camus, il suo tono quasi dimesso e una certa brevità del racconto; in un buon terzo del libro scrive rivolgendosi direttamente a un interlocutore, con stile oratorio e dimostrativo, che riecheggia quello di una successiva, complessa opera di Camus come è La caduta. Chi si addentra a questi livelli nello stile del predecessore non può che averlo ammirato.
Inoltre è centrale e molto evocativa la figura della madre. Camus parlò sempre di sua madre come di un modello (povera, di scarsissima istruzione, ma maestra di umanità); per il giovane protagonista invece la mamma è tutto (è già orfano di padre quando gli viene ucciso il fratello), ma è anche una cappa che gli impedisce di crescere, finché l’incontro con una ragazza alle prese con una tesi di laurea sul delitto non lo farà svincolare dalle sue ali protettive.
Un’opera complessa, dunque, che rimanda inevitabilmente all’opera complessiva di Camus, al suo umanesimo che non fu toccato direttamente dalla grazia della fede, ma che ne fu intrigato. Durante la guerra mondiale, nella Francia occupata, lo scrittore entrò in contatto con il mondo protestante. La morte in un incidente d’auto (assurdo, questo sì), quindici anni dopo, ha impedito questo ulteriore, eventuale sviluppo di una vita e carriera dedicate a promuovere la causa dell’umanità: contro ogni oppressione, contro la povertà, la pena di morte, contro la solitudine, e anche contro l’arroganza umana che pretende di creare autonomamente l’uomo nuovo.
*K. Daoud, Il caso Meursault, Milano, Bompiani, 2015, pp. 130, euro 16,00.
-Giovanni COMISSO romanzo Storia di un patrimonio Editore Treves Milano 1933-
Articolo di Giansiro Ferrara scritto per la Rivista PAN n°5 del 1934-
-Biografia di Giovanni Comisso-
Autori: Luigi Urettini e Nicola De Cilia-
Associazione Amici di Giovanni Comisso
Giovanni Comisso nasce a Treviso il 3 ottobre 1895, figlio secondogenito di Antonio e Claudia Salsa. Il padre è uno stimato commerciante di prodotti agricoli. La madre appartiene alla buona borghesia cittadina. È sorella di due personaggi molto noti in città: l’avvocato Giovanni e il generale Tommaso Salsa, eroe della guerra di Libia, che morirà a Treviso il 21 luglio 1913.
Studente, Soldato a Caporetto e sul Grappa, Legionario a Fiume
Nel 1913 è studente al liceo classico “A. Canova”. In quell’anno Comisso conosce lo scultore Arturo Martini, di sei anni più vecchio. L’amicizia con il giovane artista proletario e bohémien è molto importante per la sua formazione. Per la prima volta ha esperienza di un mondo diverso da quello borghese nel quale era stato educato. «Egli allora mi parlava di infinito, della nostra vita umana nel limite del tempo, della necessità di arrivare alle grandi creazioni per sfidare le stelle e la nostra morte. Alle sue parole mi commuovevo fino al pianto e veramente per me egli era il Maestro, il fratello maggiore, il compagno più esperto che dissipava le grandi nebbie che ancora mi avvolgevano nella mia timida giovinezza». Nel 1914, bocciato agli esami di maturità, Comisso si arruola volontario per un anno al corso Genio telegrafisti di Firenze, con l’intenzione di riprendere gli studi al termine del servizio militare. Lo scoppio della Grande Guerra vanificherà i suoi progetti. Nel 1915, all’inizio della guerra, viene trasferito con il suo reparto prima a Cormons, poi a San Giovanni di Manzano. È impiegato come centralinista telefonico: il lavoro principale del reggimento, in quell’inizio di estate e di guerra, consiste principalmente nello stendere il filo telefonico, posandolo sui rami degli alberi lungo la strada. Nella primavera del 1916, esce a Treviso un esile libretto presso la Stamperia Zoppelli dal titolo ‘”Poesie”, curato da Arturo Martini che ha anche eseguito il ritratto di Comisso per la copertina. Secondo lo scultore, sono poesie di «spasimante sensibilità, nate sotto il segno di un’impeccabile purezza però vestite di ingenuità». I genitori di Comisso sono disorientati e imbarazzati, al punto da far ritirare l’edizione perché considerata “disdicevole” del buon nome della famiglia Nell’aprile del 1917 segue a Dolegnano prima, a Udine poi, un corso per diventare ufficiale del Genio telegrafisti. In settembre, nominato sottotenente, viene inviato nell’Alto Isonzo, presso Saga, vicino a Caporetto. In ottobre viene coinvolto nella ritirata. Riesce fortunosamente a fuggire insieme ai suoi soldati. Ripara con il suo reparto a Treviso, dove si era rifugiato il Comando di Divisione, e subito spedito sull’Asolone, zona Grappa. Nella primavera del 1918 è inviato sul Montello, e lì si troverà durante la Battaglia del Solstizio. A Paderno del Grappa, Comisso riceve il telegramma che annuncia l’armistizio, con i soldati impazziti per la gioia : «Da per tutto nella campagna si accendevano fuochi. Sull’alto dei monti, come la notizia si diffondeva, si vedevano razzi innalzarsi nel cielo e grandi fiammate come se gli artiglieri bruciassero la balestite e dalla pianura i riflettori tagliavano pazzamente la notte». Nel 1919 Comisso viene trasferito aFiume, con la compagnia del Genio telegrafisti. Nel febbraio, si iscrive alla facoltà di legge a Padova e frequenta a Roma (con poco profitto) un corso speciale per studenti ex combattenti. Conosce il poeta Arturo Onofri che aveva ammirato le sue poesie, e, suo tramite, entra negli ambienti intellettuali della capitale. Stringe amicizia con Filippo De Pisis, instaurando un sodalizio che durerà tutta la vita. «Dopo la mia amicizia con lo scultore Arturo Martini, questa era un’altra grande amicizia che veniva a deliziarmi e a legarmi alla mia passione per l’arte. Quel tempo era per me come per gli uccelli emigratori, quello che precede la grande trasvolata e in cui si cercano i compagni per vincere le difficoltà della rotta». In agosto ritorna a Fiume, presso il suo reparto, per disertare e unirsi alle truppe ribelli di d’Annunzio in settembre. Conosce Guido Keller, un aviatore, già della squadriglia di Francesco Baracca, ora “segretario d’azione” del “Comandante”: un bizzarro avventuriero, sempre alla ricerca di nuove emozioni con cui nascerà una profonda amicizia, destinata a segnare profondamente la vita di Comisso. «Lo riconoscevo superiore a me e capace di imprimermi un nuovo senso della vita. Moltissima mia infantilità e moltissima mia tendenza borghese, quasi superate colle mie esperienze di guerra, nella mia giornaliera vicinanza a quest’uomo audacissimo, si staccarono definitivamente da me». Durante l’estate del 1920, assieme a Guido Keller, naviga in barca a vela tra le isole del Quarnaro, provando emozioni che ispireranno le pagine più incantate de “Il porto dell’amore”. Assieme ad altri legionari, fonda il Movimento Yoga, anarcoide e con accenti antimodernisti, e l’omonima rivista. Sulla testata campeggia una croce uncinata (simbolo del sole) e la scritta: “Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione”. Settimanale, ne usciranno quattro numeri. Nel primo numero, si dichiara la necessità di introdurre «strane forme di vitalità in ogni movimento, in ogni ambiente, ecco il nostro programma. […] Amare i nostri vizi come le nostre virtù, come ci consiglia Nietzsche. Muoversi. Vivere. Distruggere. Creare. Come scopo. Non per un ideale, ma per esser ciò l’ideale».
Gli anni ’20 fra Chioggia e Parigi
Nel gennaio 1921, dopo il “Natale di sangue” Comisso abbandona Fiume e rientra a Treviso, incapace tuttavia di adattarsi alla vita piccolo-borghese. A febbraio si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Genova, senza alcun profitto. Frequenta il letterato Mario Maria Martini, amico di Guido Keller, contro il quale proverà una profonda antipatia. Questa esperienza gli ispira il romanzo Il delitto di Fausto Diamante (1933). A Treviso, siamo nel 1922, conosce Giulio Pacher, con cui stringerà un’amicizia – che presto diventa passione. Con lui, va a Chioggia in cerca dei marinai del Gioiello conosciuti a Fiume. Non li trova, ma passa insieme a Giulio una meravigliosa giornata. Tornerà in giugno, e verrà invitato a bordo del veliero dal capitano Gamba: iniziano i suoi viaggi “al vento dell’Adriatico”, da cui trarrà i racconti per il suo libro Gente di mare (1928). Comincia a fine anno a collaborare al quotidiano “Camicia Nera”, diretto dal suo amico, Pietro Pedrazza. Scrive articoli di letteratura, arte e politica. Nel 1923 si iscrive all’Università di Siena per portare finalmente a termine i suoi studi di giurisprudenza. Otterrà la laurea l’anno successivo 1924, con una tesi sui diritti d’autore. In estate percorre di nuovo l’alto Adriatico, le coste istriane e liburniche, le isole di Veglia, Arbe, Cherso, a bordo del bragozzo del capitano Gamba. Esce “Il porto dell’amore” (1924), in cui racconta la sua esperienza fiumana. Pubblicato da una tipografia trevigiana con i soldi ricavati dalla vendita di un impermeabile, ottiene i pareri favorevoli della critica. «Libretto carnale e febbrile, che avvampa e trascolora, è appena un libro ed è ancora una malattia. Arte legata al corso delle stagioni e alle temperie», si legge in una recensione di Eugenio Montale che lo farà conoscere nel mondo letterario. Continua la sua collaborazione con il quotidiano trevigiano che ora si chiama “L’eco del Piave”. Naviga durante l’estate con il bragozzo dei suoi amici pescatori chioggiotti tra le coste e le isole della Dalmazia, pubblicando alcuni racconti. Oramai si veste come un marinaio, lavora con loro e li aiuta nel contrabbando di vestiti e berretti. Nel 1926, grazie all’interesse suscitato da “Il porto dell’amore”, Comisso viene invitato da Enrico Somarè a lavorare a Milano, presso la Galleria d’arte “L’Esame” e l’annessa libreria. Qui ha l’occasione di conoscere gran parte degli intellettuali della metropoli lombarda, tra i quali Eugenio Montale, Giuseppe Antonio Borgese, Carlo Emilio Gadda. L’anno successivo va a Parigi, attratto dalla promessa del critico letterario fr: Valéry Larbaud di far tradurre il suo “Porto dell’amore. Il progetto non si realizza, ma rimane affascinato dalla città. Vi ritrova Filippo De Pisis, vive un tempo «di ebbri istinti». Con Filippo De Pisis frequenta i locali più ambigui, la gente più balzana. «Niente ci tratteneva, Parigi conservava ancora tutto l’aspetto caotico impresso dal dopoguerra, accentrando gente folle di ogni parte del mondo, che si sovrapponeva alla sua plebe già di per sé stravagante e miserabile. Frequentavamo le bettole più luride e vi conoscemmo un’umanità pietosamente macerata»’. Nel 1928, muore suo padre. Con i soldi dell’eredità ritorna a Parigi dove conduce vita «disordinata e frenetica», assieme a Filippo De Pisis. In ottobre, viene invitato dal quotidiano torinese “La Gazzetta del Popolo” a scrivere dei reportages sulla vita parigina. Pubblica una serie di articoli che verranno in seguito raccolti nel volume “Questa è Parigi” (1931). A fine anno esce “Gente di mare”, in cui sono raccolti i racconti ambientati a Chioggia, sul mare, sulle coste istriane e dalmate. Scrive Ugo Ojetti: «La freschezza primitiva, il silenzio del mare e delle coste deserte, gli odori e i sapori e i rari suoni che sotto l’altissimo cielo le porta il vento, la novità nella nostra letteratura di questi temi e di questi incanti: tutto mi piace e mi convince…»
I grandi viaggi in Nord Africa e in Estremo Oriente. La Casa di Campagna
E’ il 1929 quando ottiene il Premio Bagutta con “Gente di mare”. Sempre per “La Gazzetta del Popolo” compie viaggi in Nord Africa e nell’Europa del Nord. In dicembre come inviato speciale del “Corriere della Sera”, compie il Grand Tour in Estremo Oriente. Visita la Cina, il Giappone, la Siberia e la Russia, sino a Mosca. Il viaggio in Estremo Oriente dura sino a giugno del 1930. «Frequentavo loschi balli notturni e bische e postriboli e sempre col mio passo sicuro me ne uscivo a notte inoltrata senza neanche pensare di rasentare il minimo pericolo. Non credo fosse coraggio, ma un’incoscienza datami dall’accanita volontà di vedere». Nelle lettere che scrive alla madre esprime però anche la stanchezza per i lunghi viaggi e il desiderio di stabilirsi nella campagna veneta, per dedicarsi con tranquillità alla scrittura. In agosto pubblica “Giorni di Guerra”, che gli provoca qualche noia con la censura fascista. «Temperamento pieno, espansivo, disposto a godere di tutto e di tutti, comprensivo, avido e giocondo… libro di guerra così ricco, stipato di fatti visivi e trascritti, di impressioni, di sensazioni urgenti, improvvise, traboccanti», scrive Giuseppe Raimondi. In autunno, compera una casa e dei campi a Zero Branco, un paese nel trevigiano. Dopo tanto vagabondare vuole mettere radici nella campagna veneta. A Cortina ha anche conosciuto una giovane ragazza, Rachele, «la purezza e la semplicità, come se le nevi e l’aria di quel luogo si fossero trasfuse in lei», che vagheggia di sposare. Nel 1931 intensifica la sua collaborazione a “L’Italiano” di Leo Longanesi: i suoi articoli spaziano dal cinema sovietico alla “vitalità” e “sanità morale” dei contadini veneti. Esce “Questa è Parigi”. Negli anni successivi, usciranno altri libri: nel 1932 “Cina – Giappone” che raccoglie gli articoli del “Corriere della sera” e nel 1933 “Storia di un patrimonio”, romanzo ambientato a Onigo, tra i colli e il Piave. Nel 1934 ospita nella sua casa di campagna Bruno, un ragazzo figlio di pescatori chioggiotti, un’amicizia intensa e appassionata, che si concluderà non senza amarezze. Gli ispirerà il romanzo “Un inganno d’amore” (1942). L’anno successivo esce “Avventure terrene”, raccolta di racconti che in seguito confluirà nel Volume V delle opere col titolo “Il grande ozio”. Pubblica il romanzo “I due compagni”” (1936): dietro le vicende di uno dei due protagonisti, si nascondono le tragiche vicende del pittore Gino Rossi, ma nei personaggi del romanzo è possibile ravvisare i tratti di Arturo Martini, Nino Springolo e dello stesso Comisso. Nella primavera del 1937 viaggia lungo l’Italia, per più di ventimila chilometri per conto della “Gazzetta del Popolo”, in quella che definisce «una scoperta dell’Italia recondita». Viene inviato da “[èLa Gazzetta del Popolo]]” in Africa Orientale per documentare la nascita del nuovo Impero fascista. «Sono paesi disperati, scrive alla madre, dove gli italiani lavorano come cani. Asmara è una città squinternata, senza capo né coda, oscura come la mia campagna, con strade pessime, dove nessuno sa niente degli altri». Sempre su incarico de “La Gazzetta del Popolo”, nel 1939, si reca in Libia a visitare le colonie agricole fondate da contadini veneti, inviati dal fascismo per dissodare il deserto. Gli articoli, però, non soddisfano il governatore, perché ritenuti poco conformi al linguaggio giornalistico in voga.
Gli anni della seconda Guerra Mondiale e della crisi esistenziale
Nel 1940 comincia a collaborare a “Primato” la rivista culturale voluta da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale. Nei suoi articoli traspare l’angoscia per il tempo che scorre e l’avvicinarsi della vecchiaia, che lo portano alla “scoperta dei sentimenti”. Lo scoppio della guerra trova Comisso nella sua casa di Zero Branco, alle prese con un nuovo amore, il sedicenne Guido Bottegal, un irrequieto ragazzo trevigiano con velleità di poeta che verrà soprannominato “il fuggitivo” per le sue fughe improvvise. Pubblica i racconti di Felicità dopo la noia. La Mondadori pubblica Un inganno d’amore (1942), il romanzo sulla “scoperta dei sentimenti” al quale Comisso teneva particolarmente. La critica lo accoglie con molte perplessità. Ad aggravare la crisi psicologica dello scrittore contribuisce la sua passione per Guido, con esplosioni di gelosia, a causa di un personaggio inquietante come Sandro Pozzi, ex legionario fiumano, ora agente dei servizi segreti fascisti. Nel dicembre 1943, Comisso ritorna a collaborare con il “Corriere della Sera”, divenuto il più importante quotidiano della Repubblica Sociale. A dirigerlo viene chiamato Ermanno Amicucci, già direttore de “La Gazzetta del Popolo”. Nel 1944 Guido Bottegal, arruolato nella Marina Repubblicana, diserta dopo aver scritto una lettera in cui accusa il fascismo di aver tradito i giovani. Viene arrestato e portato nelle carceri di Venezia. Comisso cerca raccomandazioni per farlo scarcerare. Guido viene liberato, dopo aver fatto domanda, su consiglio di Pozzi, di entrare in un reparto combattente della R.S.I. e riprende i rapporti con Comisso. Nel bombardamento di Treviso del 7 aprile, la casa di famiglia in piazza Fiumicelli viene distrutta. La madre e la fedele governante Giovanna erano sfollate a Zero Branco e si salvano. Nel febbraio del 1945, Guido diserta e si rifugia sull’Altipiano di Asiago, a lavorare per i tedeschi nella Todt. Finirà fucilato dai partigiani dell’Altipiano che lo credono una spia. Comisso narrerà questi tragici avvenimenti in Gioventù che muore (1949). «E non cerco più amicizie dopo l’ultima per Guido che mi à così massacrato, illuso, deluso e stroncato». Comisso vive una crisi esistenziale, causata dalla tragica morte dell’amico e dalla sensazione, con l’affermarsi del neorealismo, di essere ormai superato come scrittore. Va spesso a Venezia, a trovare Filippo De Pisis. Collabora con Mario Pannunzio al “Risorgimento liberale” e con altri giornali. Scopre Giuseppe Berto, da poco rientrato dalla prigionia in Texas: è proprio Comisso a indirizzarlo a Longanesi con il manoscritto de Il cielo è rosso (1947), uno dei primi bestseller del dopoguerra. Nel 1947 pubblica con la Mondadori Capriccio e illusione: al centro del romanzo, il travagliato rapporto con Guido. Muore l’amico Arturo Martini e si propone di scriverne la biografia e raccogliere l’epistolario. Il romanzo Gioventù che muore, sulla tragica fine di Guido, viene pubblicato dalle edizioni del quotidiano “Milano-Sera” (1949) dopo essere stato rifiutato da ben tre editori.
Gli anni cinquanta e sessanta
Nel 1951 pubblica Le mie stagioni per le “Edizioni di Treviso”. L’anno successivo ottiene il premio Viareggio con il libro di racconti Capricci italiani. Nel 1953 Comincia la lunga collaborazione con “Il Mondo” di Mario Pannunzio, dove pubblicherà, l’anno successivo, in tre puntate, Il mio sodalizio con De Pisis, racconto di un’amicizia intensa e rafforzata dall’arte. Filippo De Pisis è ormai ricoverato in una clinica psichiatrica dove morirà il 2 aprile 1956 1954. Muore la madre a maggio. In estate, Comisso decide di mettere in vendita la casa e la campagna di Zero Branco e torna a vivere in città, in un appartamento in affitto. Al Convegno di S. Pellegrino Terme, Romanzo e poesia di ieri e di oggi – Incontro di due generazioni, Comisso presenta il giovane Goffredo Parise. Sarà l’inizio di una nuova amicizia; l’ultima veramente importante per lo scrittore trevisano. Nel 1955, il libro di racconti Un gatto attraversa la strada vince il Premio Strega. Si trasferisce in una nuova casa di proprietà, a Santa Maria del Rovere, prima periferia di Treviso. Annota nel diario: «Finalmente sono venuto ad abitare nella mia nuova casa… Vi trovo ancora il senso della campagna, della mia vita di Zero, pure essendo vicino alla città… Ecco un nuovo punto di partenza per la mia vita». Nel 1958 pubblica La mia casa di campagna. Scrive Guido Piovene: Il venetismo in lui… è un fatto di natura, paesaggio esterno ed interiore rappresentazione. Comisso ha dentro di sé gli assilli del Veneto come li ha il Veneto, che tende a evaderne in belle forme, armonie di colore; li contiene visceralmente, non ne fa oggetto di discorso intellettuale». Esce la raccolta di racconti Satire italiane (1960): un’osservazione puntigliosa di malesseri, ha scritto Nico Naldini, delusioni, ansie e antipatie tra tante descrizioni ironiche che diventano amare sulla natura tradita dall’uomo. «La nostra vita oggi è ridotta a questi estremi dai quali sono escluse serenità, bellezza e armonia». Esce presso Longanesi La donna del lago (1962), che si sviluppa intorno ai “delitti di Alleghe”, una serie di omicidi avvenuti tra il 1933 e il 1946. «Bisogna accettare questo mio libro come una semplice autobiografia, una delle tante biografie lunghe e brevi che fanno il complesso della mia opera narrativa». Sarà uno dei suoi maggiori successi editoriali e Mario Soldati cercherà di farne un film. E’ il 1964 quando esce Cribol per Longanesi, una storia scabrosa ambientata ancora tra il Piave e Onigo, un atto d’amore per la natura e le sue “leggi supreme”. In questi ultimi anni è tormentato da fastidi alla vista, ma scrive ancora, mentre è in corso di pubblicazione presso Longanesi l’opera omnia. Nel 1968 esce Attraverso il tempo, ultimo libro di racconti, lui vivo. «Sono un poco stufo di scrivere, ma è il mio respiro». In maggio, viene organizzato a Treviso un convegno su Comisso, con la presenza, tra gli altri, di Montale, Piovene, Parise e Pasolini. Qualche giorno prima, il critico Gianfranco Contini è passato a casa sua per rendergli omaggio. Il 21 gennaio 1969 Giovanni Comisso muore nell’ospedale della sua città.
Bibliografia essenziale
Al sud, Neri Pozza, 1996, a cura di Nico Naldini.
Amori d’oriente, Milano, Longanesi, 1947.
Approdo in Grecia, Bari, Leonardo Da Vinci, 1954.
Avventure terrene, Milano, Treves, 1935 .
Capricci italiani, Firenze, Vallecchi, 1952.
Capriccio e illusione, Milano, Mondadori, 1947.
Cina-Giappone, Milano, Treves, 1932.
Cribol, Milano, Longanesi, 1964.
Felicità dopo la noia, Milano, Mondadori, 1940.
Gente di mare, Milano, Treves, 1929.
Giorni di guerra, Milano, Mondadori, 1930.
Gioventù che muore, Milano, Milano-Sera, 1949.
I due compagni, Milano, Mondadori, 1936.
I sentimenti nell’arte, Venezia, Il Tridente, 1945.
Il delitto di Fausto Diamante, Milano, Ceschina, 1933.
Il porto dell’amore, Treviso, Vianello, 1924.
L’italiano errante per l’Italia, Firenze, Parenti, 1937.
La donna del lago, Milano, Longanesi, 1962.
La mia casa di campagna, Milano, Longanesi, 1958.
La Sicilia, Ginevra, Cailler, 1953.
Le mie stagioni, Treviso, ed. di Treviso, 1951
Mio sodalizio con De Pisis, Milano, Garzanti, 1954.
Opere, Mondadori, 2002 a cura di Rolando Damiani e Nico Naldini.
Poesie, Treviso, Longo e Zoppelli, 1916.
Questa è Parigi, Milano, Ceschina, 1931.
Satire italiane, Milano Longanesi, 1960
Storia di un patrimonio, Milano, Treves, 1933.
Un gatto attraversa la strada, Milano, Mondadori, 1954.
Un inganno d’amore, Milano, Mondadori, 1942.
Veneto felice, Longanesi 1984, a cura di Nico Naldini.
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