Bertrand Russell :Storia della filosofia occidentale e dei suoi rapporti con le vicende politiche e sociali dall’antichità a oggi
Descrizione-
Vero e proprio capolavoro di sintesi e di chiarezza espositiva, la “Storia della filosofia occidentale”di Bertrand Russell si offre come un quadro completo dello sviluppo del pensiero filosofico, all’interno del quale i singoli pensatori sono collocati nel loro contesto storico e sociale a dimostrare che l’opera di un filosofo non sorge mai isolata, bensì riflette ed elabora le idee e i sentimenti che sono comuni alla società di cui fa parte. L’opera di Russell, priva di difficoltà terminologiche e di disquisizioni tecniche, rappresenta uno dei migliori e più conosciuti esempi di divulgazione filosofica.
Breve biografia di Bertrand Arthur William Russellnacque il 18 maggio 1872 a Ravenscroft (Galles). A causa della morte precoce dei suoi genitori venne allevato dalla nonna, scozzese e presbiteriana, sostenitrice dei diritti degli Irlandesi e contraria alla politica imperialista inglese in Africa. Ricevette la prima educazione da precettori privati agnostici, imparando perfettamente il francese e il tedesco, appassionandosi fin da subito, grazie alla ricca biblioteca del nonno, alla storia e soprattutto alla geometria di Euclide. Attraverso il pensiero del grande matematico dell’antichità, il piccolo Russell scoprì la bellezza e il rigore di quella disciplina, troppo spesso vista a torto come un’arida astrazione. La sua fanciullezza, tuttavia, non fu del tutto felice, almeno fino ai diciotto anni, quando entrò al Trinity College di Cambridge, posto magico che gli svelò “un mondo nuovo” e dove godette di “un periodo di infinita letizia”.
Fu, per un breve periodo, hegeliano e seguì la filosofia di Bradley, ma intorno al 1898 sotto l’influenza di G. E. Moore si liberò dell’idealismo e rientrò nell’empirismo, dottrina tradizionale della filosofia inglese. Molti e importanti sono i suoi contributi a questa concezione empirica e realista del pensiero, tra cui rimangono a imperitura memoria: “I problemi della filosofia” (1912), “La conoscenza del mondo esterno” (1914), “Misticismo e logica” (1918), “L’analisi della mente” (1921) e “L’analisi della materia” (1927).
Nel 1918, per aver scritto un articolo a favore del pacifismo, dovette scontare sei mesi di carcere dove scrisse la sua “Introduzione alla filosofia matematica”. Dopo la guerra fu in Russia e in Cina; dal 1938 visse e insegnò negli Stati Uniti. Nel 1940, a causa dello scandalo che le sue teorie etiche e sociali avevano suscitato, fu privato dell’incarico al City College di New York. Nel 1944 tornò a vivere in Inghilterra e ad insegnare al Trinity College dove completò una delle sue opere fondamentali: “La conoscenza umana, suo ambito e suoi limiti”. Nel 1950 Bertrand Russell ricevette il premio Nobel per la letteratura.
Spese gli ultimi anni della sua vita nella difesa dei suoi ideali etico-politici. Con grande coerenza e pagando di persona, fu sempre in prima linea contro ogni forma di sopruso. Si schierò contro le ingiustizie del capitalismo ma anche contro l’oppressione del bolscevismo, così come combattè sia l’antisemitismo che l’orrida applicazione dei crimini nazisti.
Pacifista convinto dal tempo del primo conflitto mondiale fino alla guerra del Vietnam, si batté negli anni ’50 insieme ad Albert Einstein contro gli armamenti atomici.
Strenuo difensore dei diritti umani e tenace sostenitore delle libertà dell’individuo fu ispiratore del cosiddetto Tribunale Russell istituito per denunciare le persecuzioni ideologiche e distintosi nella lotta per smascherare i crimini di guerra contro il Vietnam.
Bertrand Russell morì in Galles, nella notte di lunedì 2 febbraio 1970 presso la sua villa.
Alessandro Bencistà-La memoria di Dante nell’arte dei cantastorie-
-Edizioni Sarnus-
Descrizione-Dalla Castellana di Vergi alla dolente Pia-I cantastorie e i poeti popolari sono stati tra i più appassionati cultori e divulgatori di Dante Alighieri. È grazie a loro se le rime del Divin Poeta sono giunte fino a noi, arrivando anche a un pubblico che non aveva potuto apprendere la poesia nelle aule scolastiche e nelle accademie, “formandosi” semmai nelle botteghe delle città o dei villaggi. La tradizione orale ha raggiunto il cuore di un popolo occupato quotidianamente nel duro lavoro dei campi, nei boschi, nella solitaria custodia dei greggi e delle mandrie. Dove il libro non è mai arrivato, lo ha fatto la parola cantata e recitata: è così che le grandi storie hanno messo radici profonde.
Rieti-Il Velino si racconta: evento culturale al Palazzo della Provincia-
La Rete Porta Romana ha nel proprio ambito territoriale uno scorcio incantevole del fiume Velino, di qui l’idea di dedicare al fiume un incontro per conoscere meglio il fiume, la sua storia e la relazione con la città di Rieti. Così è nato “Il Velino si racconta” per far scoprire il fiume nei suoi elementi naturalistici e storici, un appuntamento che vuole coinvolgere persone adulte ma anche bambine e bambini per tramandare loro la memoria del fiume, in primo luogo quelli delle scuole “Luigi Minervini” e “Basilio Sisti”.
Alle ore 10.30, il Palazzo della Provincia di Rieti sarà il teatro di un evento culturale e informativo dal titolo “Il Velino si racconta”. L’iniziativa è organizzata dalla “Rete di Imprese Porta Romana” e vedrà la partecipazione di diverse competenze del territorio.
L’evento sarà presieduto da Paola Simeoni, Presidente della “Rete di Imprese Porta Romana”. Apriranno i lavori i saluti istituzionali di Claudia Chiarinelli, Assessora allo Sviluppo Economico e ai Lavori Pubblici del Comune di Rieti.
Il programma prevede gli interventi di Giancarlo Cammerini, autore del libro “Il fiume in pieno” e dell’opera “Velino identità e risorsa”, e Mara Galli, Dirigente Scolastica dell’I.C. Minervini-Sisti. I due introdurranno l’illustrazione dei lavori realizzati dagli studenti, evidenziando l’importanza educativa e formativa del progetto.
Tra i relatori, Maurizio Turina, Presidente di APS Acqua Pubblica Reatina SpA, interverrà sul tema “Il Velino nel ciclo delle acque”, offrendo una panoramica tecnica e ambientale sulla gestione delle risorse idriche locali. Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, Presidente del “Gruppo di Ricerca Interuniversitario GECOAGRI-LANDITALY”, discuterà il ruolo del fiume Velino nella storia e nello sviluppo della città di Rieti.
Il coordinamento dell’evento sarà affidata a Vincenza Bufacchi di Punto Impresa Srl CSA di CNA Rieti, che guiderà gli interventi e le discussioni.
L’iniziativa vedrà la partecipazione delle classi quinte della Scuola Primaria “Luigi Minervini” e delle classi prime della Scuola Secondaria di Primo grado “Basilio Sisti”, con un’esposizione dei lavori degli alunni, a testimonianza dell’impegno educativo delle scuole locali nel promuovere la consapevolezza ambientale e storica.
L’evento è finanziato ai sensi della D.D. n. G05757/2023 nell’ambito del progetto “Reti di Impresa tra Attività Economiche”, un chiaro segno dell’impegno delle istituzioni nel sostenere iniziative che valorizzino le risorse naturali e culturali del territorio.
Silvia FUOCHI :”Metti un libro in mano a un bambino “
Silvia FUOCHI Metti un libro in mano a un bambino ,Accendere il cervello, o contrastare il suo spegnimento da parte delle “armi di distrazione di massa” significa produrre pensiero critico, la capacità di interpretare la realtà e di agire e reagire a essa in modo autonomo. Un elenco ragionato di buoni motivi per avvicinare i bambini alla lettura.–
Perché leggere ai bambini? La domanda risuona nelle case e, talvolta, anche nelle scuole. La lettura sembra essere un compito da svolgere “per forza” e, come tale, poco benvisto dai nostri bambini.
È vero che, secondo le statistiche, l’italiano medio è un pessimo lettore e, di conseguenza, è normale che non sappia proporre la lettura ai più giovani. La Playstation, il Nintendo ma anche la vecchia tv sembrano essere compagni graditi, facili da attivare e quindi preferibili. Alla luce della bella società che abbiamo preparato per i nostri bambini, però, forse qualche domanda è lecito porsela. Se i mezzi audiovisivi sono così esaustivi, perché la quotidianità delle famiglie è spesso negativa? Perché i nostri figli si rifugiano dietro uno schermo pur di non entrare in contatto con la realtà?
Sorge il sospetto, magari non fondato, che l’assenza della lettura nelle loro vite possa entrarci qualcosa. Leggere è un verbo attivo, che richiede attenzione e forse proprio questo aspetto lo rende poco apprezzato. Chi vive o lavora con i bambini, però, sa che quasi tutto lo si gioca all’inizio, nei primi anni di vita. Bambini che vedano libri nella propria casa e che si abituino a guardarli, sceglierli, magari stropicciarli o anche strapparli inaugurano con essi un rapporto che difficilmente si esaurirà. È possibile che serviranno anni perché, dopo la prima infanzia, essi tornino alla lettura ma quasi senza ombra di dubbio vi torneranno. E sarà un incontro tra vecchi amici che hanno molto da dirsi e non si stancheranno di farlo; un ritrovarsi per il piacere di farlo e di raccontarsi cose sempre nuove. Come tutti i vizi, infatti, anche quello del leggere non può essere considerato mai superato: prima o poi la tentazione torna e, questa volta, sarà davvero il caso di non resistere.
Anni fa Daniel Pennac, in un saggio ormai celebre, Come un romanzo [1], ha spiegato in modo esaustivo il valore della lettura, sia dal punto di vista culturale sia da quello sociale. Si consiglia questo bel testo, peraltro piacevole e non specialistico, sia a chi abbia un momento di lontananza dai libri sia a chi è investito dal compito, famigliare o lavorativo, di educare e seguire nella crescita bambini e ragazzi. Come diceva Italo Calvino, dobbiamo porci sulle spalle dei giganti per comprendere meglio la realtà. Il barone rampante [2] sale sugli alberi, perché “chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria” e la distanza può essere rappresentata da quel meraviglioso strumento che è il libro.
Il libro è un oggetto magico, del tutto particolare, che non ha avuto uguali nella storia dell’umanità, sia per la perfezione del design che per la diffusione. Nostro dovere, in quanto educatori, genitori, nonni, amici e comunque frequentatori di bambini, è quello di mediare il rapporto tra essi e di facilitare una conoscenza che ben presto diventerà complicità.
Poiché le liste, che vanno tanto di moda, sembrano essere un buono strumento per sviluppare tesi e regionamenti, ecco un elenco ragionato (come dicono quelli che se ne intendono) di buoni motivi per cui dovremmo iniziare i nostri bambini alla lettura – perché leggere (e non guardare la tv, giocare sulle consolle, scrollare il telefono etc. o, almeno, non solo):
Il libro è un fedele testimone da passare ai nostri bambini, in grado di riportare storie e Storia e, così, costruire la cosmogonia privata del piccolo lettore. Cappuccetto rosso e Napoleone, Harry Potter e la Shoah vanno insieme a costituire l’universo di conoscenze di cui, una volta adulto, si avvarrà per interpretare e affrontare le sfide quotidiane. Per far ciò sono necessarie fiabe e miti; saggi storici e biografie. Non esiste, crediamo, un genere che non sia utile alla crescita e all’edificazione del proprio mondo valoriale.
Spesso noi adulti siamo stanchi, ammettiamolo. La sera può essere difficile, dopo giornate sfibranti, dare un contributo significativo al vissuto dei figli (perché, non dimentichiamo che per loro ogni giorno è una pietra fondante e quindi deve aggiungere un mattoncino all’edificio). Leggere un libro insieme può rappresentare un momento di condivisione e affetto che potrà chiudere in bellezza la giornata trascorsa, arricchendo entrambi e lasciando l’idea di una esclusività di rapporto gratificante e rassicurante; e se ci addormenteremo insieme a letto o sul divano, e il libro cadrà dalle nostre mani, non preoccupiamocene. La sera successiva potremo riaprirlo e insieme, ricercare il punto a cui eravamo rimasti.
“Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani” affermava don Lorenzo Milani [3] già nei lontani anni ’60. Il priore aveva capito, durante la sua esperienza educativa tra i più dimenticati, che per difendersi, affermarsi e farsi valere è necessario conoscere più parole possibile e saperle contestualizzare. Ne aveva già fatto le spese il buon Lorenzo Tramaglino, quindi niente di nuovo sotto il sole…
Dobbiamo dare parole ai più piccoli, affinché sappiano notare, qualificare e interpretare la realtà quotidiana, dando un nome a cose e persone, costruendo percorsi logici e sapendo reagire a quelli, non sempre positivi, altrui.
Netflix, così come tutte quelle che entrano nelle nostre case, è una piattaforma ricca di offerte, con contenuti continuamente aggiornati e catalogati in base al pubblico. Una biblioteca, però, è un’altra cosa. Esistono milioni, se non miliardi, di storie provenienti da ogni angolo del pianeta, scritte da ogni tipo di autore. Offrire ai più piccoli una raccolta di racconti nordamericani, slavi, scandinavi, africani, arabi etc. significa offrire loro la possibilità di vedere il mondo con gli occhi dei loro coetanei che non incontreranno mai e che spesso sono difficili da comprendere. La convivenza pacifica e l’integrazione richiedono conoscenza reciproca. Per voler bene, un bambino ha sempre bisogno di capire, di essere accolto e di accogliere. Pensiamo un attimo a che gesto rivoluzionario sarebbe iniziare ogni mattina a scuola con una breve lettura tratta da testi appartenenti alle tradizioni degli alunni: oggi un mito albanese, domani una fiaba romena o siriana, dopo un racconto italiano o francese. Ciò darebbe una struttura resistente all’edifcio della multicultura, di cui tanto si parla e in cui così pochi credono.
La curiosità accende l’intelligenza,e infatti le grandi dittature (ma anche quelle ridicole degli ultimi anni, come quella del disgraziato ventennio berlusconiano) hanno sempre fatto tutto il possibile per spegnere il nostro cervello. Il passato ha visto falò di libri sulle pubbliche piazze e roghi di autori pericolosi; oggi è più comodo creare canali televisivi dai criteri cognitivi più bassi possibile. Cambiano e si affinano i metodi ma la volontà del potere di non farci ragionare è immutata. Non importa processare Galileo, né bruciare vivo Giordano Bruno: l’azione veramente proficua è quella di impedire alle più belle intelligenze di nascere e svilupparsi. Se la memoria non ci inganna, il somaro principe, come Carlo Emilio Gadda [4] chiama Mussolini, quando intuì la forza della mente di Antonio Gramsci, diede ordine di “impedire a quel cervello di funzionare”. Spegnere il cervello, quindi. Stesso copione, seppure diversa la trama, ha seguito il potere politico contro quel cervello sovversivo che era Pier Paolo Pasolini. Il potere, però, si evolve, si perfeziona, si affina e quindi i nipotini del truce e della Democrazia Cristiana, sono andati oltre. Spegnere un cervello, infatti, può essere più difficile che non accenderlo. Ecco, quindi, i fantastici canali Mediaset, le veline, il Bagaglino: armi di distrazione di massa.
In questo contesto, quindi, fornire le nostre case di libri e metterli a disposizione dei più giovani significa escludere almeno in parte dal martellamento cui sono quotidianamente sottoposti. Accendere i loro occhi e le loro menti spegnendo contestualmente schermi e dispositivi.
Dobbiamo essere consapevoli di non poter essere sempre presenti nella vita di figli, nipoti e alunni. Ecco allora che sarà rassicurante saperli in buone mani. Così come vogliamo essere sicuri della baby sitter o del servizio cui li affidiamo, o così come tutte quelle che entrano nelle nostre case, del supplente che proseguirà il nostro lavoro, impariamo a scegliere con cura i libri da lasciare loro, per evitare momenti di noia. Guardiani delle loro ore vuote ne vengono in mente sin troppi: non saranno mai soli.
Acquistare libri insieme è un momento di straordinaria condivisione per una famiglia. Le librerie sono luoghi generalmente accoglienti, in cui il profumo della carta stampata già da solo stimola la curiosità. Giriamo tra scaffali, sediamoci con i nostri bimbi in braccio o con i nostri riottosi adolescenti accanto e lasciamoci conquistare da copertine colorate, nomi accattivanti, autori famosi o sconosciuti. Dobbiamo imparare a non imporci, a non voler prevalere. Se anche un libro ci sembra povero, banale o scontato, non neghiamolo a priori; acquistiamolo e leggiamolo insieme al bambino che l’ha scelto, senza far trapelare il nostro dissenso. Con questo metodo infallibile, io stessa mi sono liberata dei quattro volumi di Geronimo Stilton [5] (che è poverino e banale davvero) che i figli mi avevano estorto. È bastato alternarne la lettura con Pinocchio [6], La fabbrica di cioccolato [7], Il giardino segreto [8] e tanti altri. Si chiama selezione naturale, no?
Facciamo fare ad altri il lavoro sporco. Introdurre il tema della sessualità [9], per esempio, è spesso vissuto con disagio sia da genitori che da figli: lasciamo allora, come per caso, un bel volume colorato in giro per casa… e aspettiamo che se la cavi lui da solo. Ciò vale anche per temi pesanti come la morte o il disagio, che ci toccano sul vivo e quindi possono essere difficili da spiegare. Lasciamoci aiutare da chi sa farlo meglio di noi. Andiamo insieme in libreria e compriamo, come per caso, Mio nonno era un ciliegio [10] o Il pentolino di Antonino [11]. E buon lavoro a loro.
Un libro non si spegne mai: che siamo nel deserto, in cima all’Himalaia o in camera durante un blackout, basterà aprirlo e la magia ricomincerà. C’era una volta…
Fermiamoci qui, a nove comandamenti. Il decimo no, non lo si può scrivere; si trova già altrove, scritto da altro autore e stampato in altra pubblicazione e… ubi major…
Amen.
Articolo scritto da -Fonte Associazine La città futura
Note:
[1] Daniel Pennac, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1992.
[2] Italo Calvino, Il barone rampante, Torino, Einaudi, 1957.
[3] Lorenzo Comparetti Milani, Lettera ad una professoressa, Firenze, Editrice fiorentina, 1967.
[4] Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Grazanti, 1957.
[5] Elisabetta Dami, Geronimo Stilton (con all’attivo più di 120 titoli) edito prima da Dami, dal 1997 e poi Piemme.
[6] Carlo Collodi, Pinocchio, Firenze, Giunti e varie altre edizioni italiane, 1883.
[7] Roal Dahl, La fabbrica di cioccolato, Milano, Salani, 1967.
[8] Frances Hodgson Burnett, Il giardino segreto, varie edizioni italiane, 1911.
[9] AA VV, Amore, sesso & co. Per vivere al meglio la tua adolescenza, San Dorligo della Valle (Trieste), Einaudi ragazzi, 2009.
[10] Angela Nanetti, Mio nonno era un ciliegio, San Dorligo della Valle (Trieste), Einaudi ragazzi, 1998.
[11] Isabelle Carrier, Il pentolino di Antonino, Piazzola sul Brent, ed. Kite, 2015.
I testi sono indicati con l’editore italiano e l’anno di pubblicazione dell’edizione originale
Articolo di Paola Rocco-Fonte Blog Pane e Scorpioni-Sellerio Editore
Si può parlare di un libro partendo dalla copertina? Quella de La mala erba, l’ultimo romanzo di Antonio Manzini ,come sempre edito da Sellerio Editore , raffigura una ragazza seduta in una stanza, il caschetto di capelli neri che sembra dipinto sul cranio spigoloso, le occhiaie fonde, le labbra strette in una smorfia di malcontento, o di lucido e concentrato rancore. Indosso ha un camiciotto di tela bianca; accanto, una pianta grassa con un unico fiore, rosso, che si allunga di lato, perpendicolare al gambo verdastro e carnoso. Intorno, una stanza nitidamente geometrica, assediata dal buio. Dame in Weiß (Fräulein Sokal), signora in bianco, è il titolo del quadro di Sergius Pauser.Anche Samantha, protagonista de La mala erba, è fin dall’inizio una ragazza chiusa in una stanza incalzata dal buio; sua la storia raccontata in questo libro, che nelle parole dell’autore è però anche e forse soprattutto “la storia di un paese, un piccolo paese di trecento abitanti nascosto tra le montagne dell’Appennino (fra Lazio e Abruzzo, più o meno). È la storia dei suoi abitanti, che non vivono ma sopravvivono; non hanno molte speranze di futuro, soprattutto Samantha De Santis, la ragazza di diciassette anni che è un po’ la protagonista del racconto. Ho voluto raccontare la storia di questo paese per raccontare la storia di un paese più grande, il mio paese, l’Italia. È un microcosmo che somiglia tanto al macrocosmo che lo comprende”(intervista all’autore).
Forse la stanza di Samantha non ha in realtà molto in comune con quella, nitida e scabra, dell’imbronciata e bellissima Dame in bianco. Con un padre disoccupato e una mamma casalinga, quella di Samantha è inevitabilmente una casa triste e spoglia, goffamente ingentilita dalle incongrue fioriere di cemento volute da mamma Marinella in ossequio a un decoro piccolo borghese che papà Enzo sta ora pagando carissimo: con quelle rate dell’affitto scadute, e quei lavori in muratura pur tanto modesti che il padrone di casa – il ricchissimo Cicci Bellè, che possiede in pratica tutto il paese e con il quale tutto il paese è in varia misura indebitato – non mancherà di rinfacciargli (“Uno non chiede prestiti, non compra legna e soprattutto non fa dei lavori in muratura in casa se non ha una lira. Nespà?”).
L’ingrugnato castelletto di Cicci Bellè, con le sue quattro torrette appollaiate sul tetto, è il palazzo incantato e maligno che domina il borgo; una costruzione antica, affacciata su una piazza proibita ai bambini (“grida o pallonate sul muro disturbavano”): “Tutto quello che il suo sguardo assonnato abbracciava, era roba sua… Da sempre la famiglia Bellè possedeva Colle San Martino. A parte la casetta di Ida e Primo e l’ex stalla di Fulvio Ceracchi, non c’era paesano che non versasse l’affitto ogni mese che mandava Iddio. Delle case come dei campi”. E Oreste Capone è il tuttofare di Bellè, la spia, il condorchesopravvive sui cadaveri dei compaesani e che verrà appunto mandato in missione da Enzo, il padre di Samantha, per chiedere all’uomo soldi che non ha: l’inizio dell’inevitabile tragedia che vedrà però anche il riscatto finale della diciassettenne.
Protagonista di una mutazione genetica che la trasformerà in una versione per così dire contemporanea della temibile donna lupo dipinta sul poster appeso in camera sua, Samantha si renderà infatti artefice di una macroscopica rivincita (su Bellè, sul paese, sul destino stesso): una rivincita che, pur declinandosi attraverso la parziale accettazione di quella stessa logica del più forte che ha consumato e consuma l’esistenza del padre e degli altri compaesani, la consegnerà infine al futuro che s’è scelto. E che nella sua apparente, facile normalità – studiar veterinaria a Perugia – dà con icastica precisione la misura di quanto la normalità stia diventando o sia già diventata per molti un sogno irraggiungibile.
Ma al di là del riscatto di Samantha: un riscatto, ripetiamo, che in parte è una sconfitta, una trasformazione che di fatto è un’assimilazione, una resa – volontaria e lucida, sì, ma pur sempre una resa – alla logica incarnata da Bellè, con i cui metodi l’identificazione è a tratti totale (si veda la scena del bar, con la richiesta dell’ultimo Quattroruote per verificare la quotazione di mercato dell’automobile offerta in garanzia dall’ennesimo debitore in difficoltà); al di là della rivincita della ragazza, dicevamo, in questo libro a prender campo davvero è la disperata, solitaria quotidianità del nostro vivere.
Stretti l’uno all’altro, sepolti sotto un grumo di tetti gravati da un cielo incombente, i trecento abitanti di Colle San Martino (pur sapendo facilmente tutto gli uni degli altri, la prossimità fisica sostituendo l’intimità psicologica, il pettegolezzo vacuo e in fondo prudente subentrando a comprensione e compassione) non si toccano realmente mai. Come i chicchi di mercurio dei vecchi termometri, pur raccolti e imprigionati in uno spazio angusto si sfuggono, rimbalzando via l’uno dall’altro al pari di magneti dello stesso segno; nessuno scambio può dirsi reale, nulla accade tra queste anime smarrite, sradicate senza aver mai fatto un passo fuori dal paese; niente al di là, appunto, della diceria superficiale, della chiacchiera monotamente condivisa (“Aria fritta, spifferi, colpi di vento inutile” pensa Primo, uno dei protagonisti, sdraiandosi tra i teschi accatastati nella cripta sotto l’abside della vecchia chiesa).
Nell’apparente serenità del paesotto sui monti intanto si consuma la disperazione altrui: una disperazione fatta di soldi, naturalmente. La disperazione dei trecento abitanti di Colle San Martino (provincia di Rieti, Lazio, Italia, mondo, universo) è fatta di debiti, disoccupazione, trecento euro sul conto, fra un po’ ci tagliano luce e telefono, carne una volta al mese, maglioni rosa così lisi che avrebbero dovuto riposare da anni tra gli stracci per spolverare, cinghiali cui dar la caccia per poi venderne la carne al macellaio della frazione vicina, vecchie macchine da offrire in garanzia, poveri cristi da minacciare, case da perdere, affitti da onorare, straniere da sfrattare, padri di cui vergognarsi, misere fioriere di cui inorgoglirsi (un po’, appena un po’), gravidanze da cui fuggire (perché si è troppo giovani, certo, e prima ci sarebbero tante altre cose, ma anche perché a un’altra bocca da sfamare non si può nemmeno pensare).
A Colle San Martino, paese d’invenzione – dove a lavorare in un ufficio a stipendio fisso erano in tre, gli altri dovevano campare sulle proprie forze – chi da tempo non lavora e quindi non ha soldi da spendere è di fatto un uomo morto, e meglio sarebbe se la facesse finita con le proprie mani perché il resto del mondo lo strangolerà, inesorabile e tenace come la mala erba del titolo (che però attenzione, a forza di soffocare tutto e tutti resterà da sola e a sua volta morirà, come Marinella urlerà in lacrime a Bellè). A Colle San Martino, paese immaginario che, come l’ambiguo e reazionario padre Graziano tuonerà dall’altare in una delle consuete, vacue omelie, prende il nome dal ricco che divise il mantello col povero, preferendo patire un po’ di freddo piuttosto che girar le spalle alla miseria altrui…
A Colle San Martino sono i soldi a far sparare una fucilata in pieno viso, quasi a cancellare quel viso dalla faccia dalla terra; i soldi, o meglio ovviamente la loro assenza, dovuta all’assenza del lavoro, a spegnere le speranze, cancellare la dignità, polverizzare esistenze e legami.
“Io avevo il mio solco, e ne sono uscito” spiegherà anche il piccolo impiegato Leonard Bast, ridotto alla fame da una scelta improvvida che ne ha causato il licenziamento, alle compassionevoli e generose – ma inevitabilmente miopi e un po’ viziate – sorelle Schlegel, le facoltose protagoniste di CasaHoward, apologo dei primi del secolo scorso firmato da E. M. Forster. Chi non ha soldi deve morire, e Leonard morirà; morire o cambiare, subire cioè quella stessa mutazione che trasformerà la disordinata e vulnerabile Samantha de La mala erba in una spietata e lungimirante donna lupo (“C’era stato un mutamento ineluttabile. L’involucro di Samantha De Santis era sempre quello, ma il suo cuore, il suo cervello, avevano subito un cambiamento rapidissimo e frenetico”).
La mancanza di soldi stigmatizza e contiene il morto di fame, il poveraccio, il fallito: “Sono una morta di fame” urla la De Santis a Stefano, il bello e ricco di turno, che ne è un po’ innamorato ma non abbastanza da vederla davvero (e che fugge a gambe levate non appena uno scampolo della reale quotidianità della ragazza gli si svela per dir così di rimbalzo). E i poveracci finiscono a vivere a Colle San Martino: “Bè, c’è una pace lì, no?”, commenta incoraggiante Alfredo, l’amico cui Enzo s’è rivolto per un lavoro (Enzo fece una smorfia. Alfredo lo guardò negli occhi).
Non è un caso che, alla fine, tra i pochi a poter dormire il tradizionale sonno tranquillo, per giunta tenendosi per mano, ci siano Ida e Primo, i due vecchi coniugi che ascoltano la pioggia cadere sul tetto della loro casa, che era loro e che nessuno avrebbe potuto togliergli, perché se l’erano sudata, anno dopo anno. E non c’era Bellè, preti o Stato che potesse bussare a quella porta e dire: fuori di qui! Questa non è più casa vostra! Loro due, Samantha e i lupi: che sono arrivati in paese ma in quest’ultima notte, fra il rumore della pioggia e del vento, nessuno li sente. “Erano in tre, nascosti fra gli alberi e i rovi, coi loro occhi gialli e i denti a sciabola, bianchi e taglienti vicino alla vecchia chiesa. Avevano fatto la tana proprio lì sotto, fra le macerie di una cripta piena di ossa”.
Articolo di Paola Rocco
Paola Rocco è nata e vive a Roma. Dopo gli studi classici si laurea in Lettere Moderne alla Sapienza (con una tesi su Giovan Battista Giraldi Cinthio, un drammaturgo del Cinquecento che prima scriveva le sue novelle e poi le trasformava in testi teatrali, un genere di cose che tuttora la appassiona) e inizia a scrivere articoli, collaborando con diverse testate e con l’agenzia di stampa Adnkronos e specializzandosi in critica teatrale, cinematografica e letteraria.Nel 2017 pubblica il romanzo giallo La carezza del ragno per Il Ciliegio Edizioni, che si svolge a Roma alla fine dell’estate 1956 e vede il commissario Giovanni Leoncavallo, pronipote del compositore, indagare sulla morte di una ragazza precipitata dall’abbaino di un palazzo disabitato a due passi dal Ghetto.Scrive di gialli ma non solo, occupandosi in particolare, per La Bottega del Giallo e Sherlock Magazine, dei romanzi di Agatha Christie e delle loro trasposizioni cinematografiche e teatrali.Che cose emozionanti accadono in campagna! per Echos Edizioni è il suo ultimo libro, un saggio dedicato alla Christie (e a chi altri?)
Estranei alla terra. Testo portoghese a fronte. Ediz. bilingue: Il volume presenta al lettore italiano due dei libri più importanti di Tolentino de Mendonça José, poeta tra i più influenti nella letteratura contemporanea di lingua portoghese. Ad accomunare “Strada bianca” (2005) e “Teoria della frontiera” (2017) è la testimonianza di un autore che riconosce nella poesia “una forma di apostasia” rispetto ad appartenenze e credenze altrimenti date per scontate. Più che vedere, questo “poeta fuggiasco” intravede la realtà sotto forme sempre nuove e in apparenza contraddittorie, appellandosi a una genealogia all’interno della quale godono del medesimo diritto di cittadinanza Simone Weil, Pier Paolo Pasolini e santa Teresa d’Avila, che in questi versi ci viene incontro fra i topi e le prostitute. È un dettato che procede di sbieco, in controluce, transitoriamente ma irreversibilmente, perché è proprio come contingenza che l’eternità si fa carne. In questo modo, il dolore diventa la “strada bianca” che attraversa la “frontiera”, luogo di una “teoria” che si capovolge subito in esperienza e condivisione, lasciando crescere uno sguardo che, come in ogni resoconto mistico, è profondamente e profeticamente politico.
Il Cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, è nato a Funchal, nell’isola di Madeira, il 15 dicembre 1965. Ha iniziato a frequentare nel 1986 l’UCP nella capitale, dove nel 1989 ha conseguito la licenza in Teologia.
Ordinato sacerdote per la diocesi natale il 28 luglio 1990, nello stesso anno si è iscritto al Pontificio Istituto Biblico a Roma, ottenendo nel 1992 la licenza in Scienze bibliche. Nel 2004, di nuovo presso l’UCP di Lisbona, ha completato la formazione con il dottorato summa cum laude in Teologia biblica su un testo del vangelo di Luca (7, 36-50, la scena dell’incontro tra Gesù e la peccatrice in casa di Simone, il fariseo),relatore l’esegeta gesuita Jean-Noël Aletti. Successivamente (2011-2012) ha anche svolto attività di ricerca allo Straus Institute for the Advanced Study of Law & Justice di New York.
A Funchal ha continuato a vivere nei primi tre anni di ministero presbiterale, insegnando presso il seminario diocesano e collaborando con la parrocchia di Nossa Senhora do Livramento. Nel 1995 si è trasferito nella capitale del Portogallo, svolgendo per un quinquennio la missione di cappellano dell’Università cattolica. Nel 2001 è stato inviato a Roma come rettore, per due anni, del Pontificio collegio portoghese e dopo il dottorato è divenuto professore di Nuovo Testamento ed Estetica Teologica nella facoltà di Teologia dell’UCP a Lisbona (2004-2018). Nel frattempo ha diretto la rivista di studi teologici “Didaskalia” (2005-2012) e il Centro per studi di religioni e culture (2012-2017) dell’Ateneo, ed è stato Rettore della cappella di Nossa Senhora da Bonança (2010-2018).
Nominato nel 2011 Consultore del Pontificio Consiglio della Cultura, l’anno successivo è divenuto Vicerettore dell’UCP, svolgendo anche attività di docente invitato in Brasile presso le università cattoliche di Pernambuco e Rio de Janeiro e presso la facoltà di Filosofia e Teologia dei gesuiti a Belo Horizonte.
Ha pubblicato numerosi volumi e articoli in ambito teologico ed esegetico, oltre a varie opere poetiche, attingendo anche al linguaggio letterario e filosofico. Esperto del rapporto tra letteratura e teologia, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata mondiale della Poesia e sul giornale “Expresso” cura da anni una rubrica settimanale dal titolo “Che cosa sono le nuvole”.
Nel 2018 Papa Francesco dapprima lo ha scelto per predicare, dal 18 al 23 febbraio, gli esercizi spirituali per la Curia romana ad Ariccia sul tema «Elogio della sete»; e poi, il 26 giugno, lo ha nominato Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, elevandolo in pari tempo alla Sede titolare di Suava, con dignità di Arcivescovo.
Ricevuta il 28 luglio 2018 l’ordinazione episcopale a Lisbona, per le mani del Cardinale Patriarca Manuel Clemente – conconsacranti il Cardinale António Augusto dos Santos Marto, Ordinario di Leiria-Fátima, e il Vescovo emerito di Funchal, Teodoro de Faría – ha scelto come motto Considerate lilia agri, “Osservate i gigli del campo”, tratto dal discorso della montagna (Matteo 6, 28).
Il 1° settembre 2018 ha iniziato il nuovo incarico e il 4 dicembre ha accolto il Pontefice in visita alla Biblioteca Apostolica e all’Archivio Apostolico Vaticano. Il Cardinale José Tolentino de Mendonça è stato Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa fino al 26 settembre 2022.
Il 26 settembre 2022 Il Santo Padre ha nominato il Cardinale José Tolentino de Mendonça Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione.
Da Papa Francesco creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 5 ottobre 2019, della Diaconia dei Santi Domenico e Sisto.
È Membro:
dei Dicasteri: per i Vescovi; per l’Evangelizzazione, Sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione del mondo; delle Cause dei Santi.
Traduzione di Gianni Pannofino-ADELPHI EDIZIONI SPA
SINOSSI
Raymond Chandler –L’aria di Pasadena è «immobile, rovente e profumata» quando Marlowe, sigaretta spenta fra le labbra e cappello calcato sulla fronte, fa il suo ingresso nella sontuosa residenza di Mrs. Elizabeth Murdock. L’incarico che la donna gli prospetta dalla sua chaise-longue di vimini, mentre si scola un bicchiere di porto dopo l’altro, non si direbbe dei più difficili, né dei più pericolosi: ritrovare un’antica e rarissima moneta d’oro – il prezioso doblone Brasher – sottratta alla collezione del defunto marito, probabilmente dalla nuora scomparsa. Ma non appena Marlowe fiuta una pista promettente e sente a portata di mano la soluzione del caso, una serie di omicidi indecifrabili fa calare sull’indagine una fitta coltre di mistero. Per vederci chiaro dovrà spingersi a Bunker Hill – «città vecchia, perduta, fatiscente e piena di balordi» – e frugare palazzi popolati da inquilini sfuggenti, portieri che «sono sempre un po’ cani da guardia e un po’ ruffiani», «uomini anziani dai volti che sembrano battaglie perse». Niente, comunque, che un detective del suo calibro, armato come sempre di laconico cinismo e un’aria imperturbabile da eroe romantico, non possa affrontare, e come sempre nella sua inimitabile maniera, attraversando la nera notte di Los Angeles fra ricatti, night club, pinte di whisky e segreti celati dal tempo.
Negli anni venti conobbe colei che diventò l’amore della sua vita, Cissy Pascal, moglie di un pianista, di 18 anni più grande di lui; per lui divorziò dal marito, ma solo nel 1924, alla morte della madre di Chandler, contraria a quest’unione, Raymond e Cissy si sposeranno. Iniziò un periodo di relativa tranquillità per i due, fino al 1931 circa, Chandler fece carriera in una serie di aziende petrolifere e non scriveva più, nemmeno come giornalista. In una lettera di anni dopo confessò di aver odiato quel lavoro per cui, nonostante il successo, ai primi degli anni trenta entrò in crisi profonda: il matrimonio non funzionava, iniziò ad avere rapporti extra-coniugali con le sue segretarie, ma soprattutto iniziò a bere, avendo problemi al lavoro (come il suo personaggio alter-ego, Philip Marlowe).
Nel 1932 il licenziamento portò Chandler a una crisi esistenziale ed economica, ma fu grazie a questa crisi che trovò una sorta di “disperazione rabbiosa e speranzosa” che gli fece dire: “io sono vivo, attraverso la pagina, attraverso il racconto”. Iniziò quindi a scrivere pulp fiction per guadagnarsi da vivere e pubblicò il suo primo racconto “I ricattatori non sparano” nel 1933, all’età di quarantacinque anni, sulla rivista Black Mask, una rivista che pubblicava racconti di vita vissuta, di indagini della strada, pieni di azione, con inseguimenti e casi risolti con “pugni e pistole”. Chandler era un fervente ammiratore di Dashiell Hammett che, a suo dire, aveva restituito il delitto alla gente, perché “se la gente ammazza qualcuno lo fa per un motivo”. Pur non guadagnando molto, Chandler era soddisfatto, e il rapporto con la moglie tornò sereno.
Nel 1939 pubblicò il suo primo romanzo, Il grande sonno, dove compare per la prima volta il detective Philip Marlowe, che si muove nella Los Angeles bella e corrotta del decennio degli anni trenta. Il libro ebbe un discreto successo, ma solo nel 1942, quando fu scoperto da Hollywood, il successo gli arrise davvero, sia come romanziere che come sceneggiatore, per cui firmò un contratto con la Paramount nel 1943. Scrisse una trentina di racconti nonché otto romanzi e un racconto incompiuto, tutti e nove con il detective Marlowe come protagonista, dal 1939 al 1953, alcuni dei quali sono capolavori, non solo del genere Noir. Come sceneggiatore per Hollywood, Chandler traspose per il cinema molti dei suoi romanzi, con Robert Mitchum ed Humphrey Bogart considerati i migliori interpreti del suo rude detective dal cuore d’oro. Il suo lavoro ad Hollywood incluse anche sceneggiature per altri noir e polizieschi, le più importanti sono quelle de La fiamma del peccato (di Billy Wilder, 1944), Il fantasma (di Lewis Allen, 1945), La dalia azzurra (di George Marshall, 1946) e L’altro uomo (di Alfred Hitchcock, 1951).
Precipitò nuovamente nel tunnel dell’alcolismo e tentò una sorta di suicidio nel 1955, un anno dopo la morte dell’adorata moglie Cissy. Prima di aver ultimato l’ottavo romanzo della saga di Marlowe, morì di polmonite a La Jolla nel 1959. Nel 1988, per il centenario della nascita dello scrittore, venne dato il compito di terminare l’ultima opera di Chandler al giallista Robert B. Parker.
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All’inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C’erano solo pochi dati sicuri: l’edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato. Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all’ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l’editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l’edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l’epiteto irrazionale implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni irrazionale non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l’etichetta di quell’incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche una vasta parte dell’essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all’editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l’irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l’idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L’altra parte di Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi – posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno –, evidentemente accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa.
“Le rose di Ester” -Una madre racconta il genocidio armeno
Romanzo di Margaret A. Ahnert – Tradotto da I. Aguilar -Editore Rizzoli
Descrizione-Margaret Ahnert-Ester è solo una ragazzina quando l’impero ottomano decide di cancellare il popolo a cui lei appartiene: gli armeni. Scacciata dal suo villaggio, intraprende una lunga marcia durante la quale vede morire gran parte della sua famiglia. Costretta a sposare un turco che la tratta come una schiava, per scappare da lui non le resta che abbandonare la sua terra e trasferirsi in America. Ora, a 98 anni, non può permettere che la sua esperienza si spenga con lei e all’amata figlia Margaret affida il tesoro della sua storia. Giorno per giorno, il dipanarsi dei ricordi dischiude l’incanto di un mondo lontano e mai dimenticato, il dolore lancinante della perdita e la rabbia di fronte all’odio più brutale e ingiustificato. Ma emerge anche il ritratto di una piccola donna coraggiosa e tenace, sopravvissuta all’orrore senza mai perdere la sua ironia e la profonda umanità.
L’Autrice Margaret Ahnertscrittrice di successo ha realizzato un romanzo di forte impatto emotivo. Nelle rose di Ester ripercorre le tappe principali della vita della madre ormai ultra novantenne che vive in una casa di riposo negli Stati Uniti gestita e frequentata solo da ospiti armeni. La madre di origini armene ha assistito impotente al genocidio della sua razza perpetrato dai turchi in Armenia. Lei viveva ad Amasia una città fiorente di traffici¸ di commerci. alla figlia racconta la sua infanzia¸ i riti e le usanze e le abitudini della sua gente. Ricorda come nella cittadina al sabato le vie profumavano di pane appena sfornato e gli abitanti si recavano alle terme per il bagno turco. Poi arrivarono i turchi e le cose cambiarono. Ester viene costretta con la famiglia a lasciare in fretta e furia la casa¸ il padre a lasciare la sua attività di macellaio. Durante la marcia di evacuazione soffre stenti e fame¸ incontra gente abominevole e perde uno ad uno i suoi familiari più stretti fino a restare completamente sola. Perde il padre¸ la matrigna¸ la nonna che le trasmette dei doni¸ il fratello più piccolo. Dopo tanti anni riesce a recuperare solo un fratello. viene costretta per sopravvivere a un matrimonio forzato con un turco da cui fugge e poi a rinegare la sua lingua e la sua religione. Dopo molte avventure e peripezie di ogni tipo riesce a imbarcarsi per l’America non senza difficoltà e sacrificio. Viene fatta espatriare con un passaporto falso con il nome di Margaret e sarà questo il nome che imporrà alla figlia. In America riesce a trovare un lavoro e a sposarsi con un uomo sincero e onesto. Ester però non dimentica le sofferenze del suo popolo¸ le umiliazioni¸ le persecuzioni. nel romanzo si descrivono le atrocità a cui furono sottoposti gli armeni in nome della pulizia etnica e razziale. restano solo i vividi ricordi anche perché il mondo moderno sembra aver perso la memoria di quel genocidio. Ester lascia le sue memorie in eredità alla figlia che vuole divulgarle per farle sapere al mondo intero.
Ad Erevan la capitale della Armenia nel 1966 è stato realizzato un memoriale per le vittime del genocidio del 1915 e inaugurato nel 1967 in granito e basalto. la commemorazione dei defunti avviene ogni anno il 24 aprile. Vi è una fiamma votiva sempre accesa e una pietra con tutti i nomi delle città distrutte. C’è pure un parco della memoria con piante dedicate ai defunti e un museo che raccoglie documenti e fotografie.
Fino alla metà del XX secolo, dipinti, sculture, libri, illustrazioni hanno creato un immaginario collettivo trasmettendo un unico messaggio: la preistoria è una questione di uomini. Ma non ci sono prove che gli uomini primitivi fossero cacciatori, creatori di armi e utensili, nonché artisti di dipinti rupestri mentre le donne si occupassero solo dei figli e di tenere in ordine la grotta. L’archeologia è una scienza giovane, che risale al XIX secolo, ed è stata sviluppata da studiosi di genere maschile che erano inclini a proiettare gli stereotipi di quel tempo sul loro oggetto di studio, costruendo un modello di famiglia preistorica che imita quello della famiglia occidentale dell’Ottocento: nucleare, monogama e patriarcale, con l’idea che le donne non abbiano avuto alcun ruolo nell’evoluzione tecnica e culturale dell’umanità. Escludendo metà della popolazione, la visione del comportamento nelle società preistoriche è stata distorta per più di un secolo e mezzo. Nell’ultimo decennio, però, lo sviluppo dell’archeologia di genere, delle nuove tecniche di analisi dei reperti e le recenti scoperte di fossili umani ci hanno permesso di sfidare i numerosi pregiudizi sulle donne preistoriche, che erano in realtà meno sottomesse e più inventive di quanto si è creduto fino a oggi. Con La preistoria è donna, Marylène Patou-Mathis decostruisce i paradigmi all’origine di questo ostracismo e ci permette di aprire nuove prospettive nell’approccio scientifico verso lo studio delle società preistoriche. Pone inoltre le basi per una diversa storia delle donne, libera da stereotipi, non più dominata e scritta solo da uomini.
L’Autore- Marylène Patou-Mathisè una storica francese specializzata nel comportamento dei Neanderthal. Direttrice del Centro Nazionale di Ricerca Scientifica, lavora nel dipartimento Uomo e Ambiente del Museo di Storia Naturale. Nota a livello internazionale per le sue ricerche, ha scritto numerosi libri di saggistica. La preistoria è donna è il suo primo libro a essere pubblicato in Italia, in corso di traduzione in 7 Paesi.
Andrea Zanzotto racconta la poesia di Beppe Salvia. Fazi Editore-
In occasione della giornata mondiale della poesia, vi presentiamo un documento inedito di Andrea Zanzotto , tratto dalla “Pagina Culturale” della Radio Della Svizzera Italiana del 16 giugno 1988, in cui Andrea Zanzotto si sofferma sul volume postumo di Beppe Salvia, Cuore, che ha per sottotitolo Cieli celesti.
È di straordinario interesse la collezione che si è inaugurata a Roma con l’editore Rotundo, perché ci presenta i migliori poeti giovani – veramente giovani anche per il salto qualitativo che fanno verso nuove forme – che hanno trovato il loro primo punto di incontro nelle riviste semi-clandestine “Braci” e “Prato pagano”, che si pubblicano a Roma.
Si è parlato di “scuola romana” di poesia: direi che questi autori ne rappresentino una frazione abbastanza inquietante e lontana da quella che era la classificazione della scuola romana, gravitante, mettiamo, intorno a nomi come Dario Bellezza o simili. Certo la ricchezza e l’intensità dell’esperienza in questi autori è innegabile ed anche la straordinaria profondità dell’impegno poetico.
Di Beppe Salvia bisogna dire che purtroppo ha scelto, scelto è una parola sciocca, si è tolto la vita insomma, a 31 anni. È stato un grande dolore per tutti quando si è saputo che era scomparso. In questo libricino viene data la sintesi della poesia di Beppe Salvia che si è fatta subito notare per una straordinaria limpidezza dello spalancarsi di una potenza e di un’unità lirica. Tutto resta preso come in un abbraccio di una sconcertante luce che da una parte sorregge e dall’altra però crea un inquietante sfondo di allontanamento.
II titolo data a questa sua raccolta, “Cuore”, è volutamente provocatorio, in un certo senso. Non so se sia stato dato dai redattori che hanno curato questa pubblicazione postuma, o se Salvia avesse già ordinato queste carte con un titolo simile.
Il fatto è che la sua poesia, che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di riprendere contatto con il “cuore” del mondo. Un tema che si potrebbe dire romantico in fondo, ma non è così perché si potrebbe avvicinare la poesia di Salvia persino alle tormentate e oltranzistiche indicazioni dell’ermetismo di Calogero, il grande poeta scomparso parecchi anni fa, anch’egli in modo tragico.
C’è comunque nella poesia di Salvia una ricchezza anche di momenti veramente liberatori come in questa poesia:
Viva le lunghe ore della scuola il banco celeste come il cielo serviva a non guardare la lavagna. Viva le povere ore di malinconia viva quel tuo mugugno viva la veste bianca e le bugie viva la deserta tutta di occhi bioccoli lanugine di giugno
Ma la parte realmente preponderante, che è quella con una forte tensione tragica, viene data in componimenti più lunghi che spesso hanno la caratteristica di sonetti o pseudo-sonetti, e poi hanno delle variazioni numerose interno agli stessi temi: una specie di ribuii, una specie di tumulto di variazioni.
La mia cultura è poca e la mente fioca non ho conosciuto regole e leggi e nessuno dell’ordine dell’universo m’ha insegnato ad amare la sua natura grande e umile. Ho offeso con la mia stupidità la legge della vita, l’infinita innocenza della sua crudeltà. Adesso ho un cuore nobile ma la mia carne è pietra
Così, con poesie tutte di livello molto alto, di una piena consapevolezza del valore della parola lirica e direi al di là della lirica stessa sullo sfondo della tragicità, si caratterizza l’opera del compianto Beppe Salvia, sui quale certamente ci si augura che si debba puntare l’attenzione dei critici.
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