Traduttore Tiziana Lo Porto-GIUNTI Editore -Firenze
Patti Smith-
Descrizione-Un viaggio in diciotto stazioni a bordo del treno della mente di un’artista leggendaria come Patti Smith. M Train parte dal Café ’Ino, il minuscolo caffè del Greenwich Village dove ogni mattina Patti Smith ordina una tazza di caffè nero, pane integrale tostato e un piattino di olio d’oliva. Seduta al solito tavolo d’angolo riflette sul mondo com’è e come è stato e ne scrive sul taccuino. Tra sogno e realtà, tra passato e presente, la sua prosa visionaria ci porta in Messico sulle tracce di Frida Kahlo, a Berlino, alla conferenza di una società di esploratori dell’Artide, a Rockaway Beach, dove Patti Smith compra una casa abbandonata in riva al mare, fino alle tombe di Genet, Plath, Rimbaud e Mishima. Fotografie scattate con l’inseparabile Polaroid scandiscono il cammino e si intrecciano con le riflessioni sul mestiere dell’artista, i ricordi degli anni in Michigan e della perdita del marito, il musicista Fred Sonic Smith. Un libro potente e toccante, fatto di storie vere, viaggi, memorie, meditazioni sulle ossessioni letterarie più profonde, la passione per il caffè e quella per i telefilm, che ci conduce dritto al cuore di un’artista unica, in una nuova edizione arricchita da una postfazione dell’autrice e fotografie inedite.
Patti Smith-
Patti Smith-È scrittrice, performer e visual artist. Ha raggiunto la fama negli anni settanta per il suo modo rivoluzionario di fondere rock e poesia. Ha pubblicato dodici album, tra cui Horses, classificato da Rolling Stone tra i cento album migliori di tutti i tempi. Nel 2007 il suo nome è entrato nella Rock and Roll Hall of Fame e nel 2010 il ministro della cultura francese l’ha insignita del titolo di Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere. Il suo memoir Just Kids ha vinto nel 2010 il National Book Award per la sezione non fiction. Di Patti Smith Bompiani ha pubblicato Mar dei Coralli (1996), I tessitori di sogni (2013), M Train (2016) Devotion (2018) e L’anno della scimmia (2020).
Originaria di Chicago, ma cresciuta a Pitman (New Jersey), Patricia Lee Smith approda a New York nel 1967. È già ragazza madre e scrive le sue prime poesie. Vive anche con cinque dollari al giorno, dormendo in metropolitana o sulle scale esterne degli edifici. Con il fotografo Robert Mapplethorpe ha un’intensa storia d’amore e di amicizia, di cui resteranno indelebili immagini in bianco e nero: i due vivono insieme, tra passioni, arte e droghe, fino al 1972, quando Mapplethorpe lascia la camera al Chelsea Hotel per andare a vivere con il gallerista Sam Wagstaff di cui si è innamorato. Attratta fin da adolescente dai grandi spiriti maledetti del rock, da Jim Morrison a Lou Reed, da Janis Joplin a Bob Dylan, Patti incontra quest’ultimo, in camerino, dopo un concerto all’Other End. E fa la spaccona. “Ci sono poeti da queste parti?”, chiede Dylan. “Non mi piace più la poesia, la poesia fa schifo”, lo gela la Smith. Ma il giorno dopo la copertina del “Village Voice” li ritrae abbracciati. E da quel giorno Patti troverà in Dylan un amico, oltre che un maestro. Per almeno otto anni, in ogni caso, è costretta a barcamenarsi come commessa in un negozio di libri, critica di una rivista musicale, drammaturga. Quindi riesce a entrare nel giro dell’intellighenzia newyorkese, conoscendo personaggi influenti come Andy Warhol e Sam Shepard e Lou Reed, oltre allo stesso Dylan. La Grande Mela la stregherà per sempre, tanto da indurla a tornarvi anche dopo la lunga parentesi di Detroit seguita al ritiro dalle scene nel 1980. “New York mi affascina – racconterà – con me è sempre stata amichevole. Ho dormito nei parchi, nelle strade, e nessuno mi ha mai fatto del male. Vivere lì è come stare in una grande comunità”.
E a New York Patti Smith fa la sua prima apparizione in pubblico nel 1969 (nei panni di un uomo) nella commedia “Femme fatale”. Poi, scrive testi per i Blue Oyster Cult del suo compagno Allen Lanier, ha una relazione con Tom Verlaine dei Television di cui si invaghisce follemente (il rapporto “a tre” con Lanier e Verlaine sarà descritto nel 1979 nel brano “We Three”) e compone le musiche per le proprie recitazioni libere, una tradizione di New York che in lei trova un’interprete suggestiva, sostenuta dalle chitarre inquietanti di Lanny Kaye. Ed è nei leggendari templi underground newyorkesi, come Cbgb’s e Other End, che Patti Smith spopola insieme ai futuri compagni di strada: Television, Talking Heads, Ramones, Blondie. Il suo primo singolo, “Hey Joe/ Piss factory”, segna l’anno zero della new wave americana. Sarà Lou Reed in persona a metterla in contatto con Clive Davis, presidente dell’Arista, che diventerà la sua etichetta storica.
Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo)-cura di Edoardo Gerlini-MARSILIO Editori-
-DESCRIZIONE-del’Antologia della Poesia giapponese – a cura di Edoardo Gerlini-Marsilio Editori–Fin dai primi contatti con l’Occidente la poesia giapponese non ha smesso di colpire l’immaginazione degli europei per via delle sue peculiari caratteristiche come la brevità dei componimenti, il costante riferimento agli elementi naturali, la particolare importanza data alla calligrafia, la sostanziale assenza di rima compensata dalla scelta di strutture ritmiche e prosodiche estremamente durature: caratteristiche queste spesso fraintese o deformate da una visione tipicamente orientalista ed eurocentrica di stampo novecentesco. Questo inedito progetto editoriale in tre volumi, corrispondenti al periodo antico (fino al 1185), periodo medievale (fino al 1868) e periodo moderno (fino alla fine del secolo scorso), si propone di selezionare e presentare sotto una nuova luce versi, canti e liriche prodotti in Giappone nell’arco di più di diciotto secoli. Un ricco apparato critico e il testo a fronte rendono questa antologia un prezioso strumento di studio e riferimento sia per l’esperto di culture dell’Asia orientale che per il semplice appassionato di poesia e letteratura mondiale.
Il primo volume dell’Antologia, Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo), raccoglie più di trecento componimenti scaturiti dal pennello di circa un centinaio tra i più rappresentativi poeti dei periodi Nara (710-794) e Heian (794-1185). Le venti sezioni che compongono il volume corrispondono alle più importanti raccolte e antologie compilate nei primi secoli della storia della letteratura giapponese, come il Man’yōshū, il Kokinshū, il Kaifūsō, ma anche opere mai tradotte in italiano come il Kudai waka o lo Honch ō monzui. Canti religiosi, struggenti poesie d’amore, elaborati giochi di parole e artifici retorici che diventeranno modello imprescindibile per tutta la successiva storia letteraria dell’arcipelago. Un’attenzione particolare è stata inoltre dedicata alla poesia in cinese composta da giapponesi, che rappresenta l’altra faccia di questa tradizione poetica, spesso sconosciuta al lettore europeo.
Edoardo Gerlini
Edoardo Gerlini -Ricercatore-Università Ca’ Foscari di Venezia
SSD-LINGUE E LETTERATURE DEL GIAPPONE E DELLA COREA [L-OR/22]
Struttura-Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea Sito web struttura: https://www.unive.it/dsaam Sede: Palazzo Vendramin-Research Institute for Digital and Cultural Heritage
-L’antica poesia giapponese ci parla quasi in italiano –
Antologia della poesia giapponese
Articolo di Daniele Abbiati
FONTE Articolo-IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
Una lingua profondamente diversa dalla nostra ma in cui ritroviamo Petrarca, Leopardi, Merini…
Articolo di Daniele Abbiati–La lingua giapponese non è soltanto figlia della lingua cinese, ne è anche allieva. Un’allieva fedele, solerte e molto, molto paziente, perché cominciò a studiare un secolo prima della nascita di Cristo e finì (anche se, come sappiamo, non si finisce mai di imparare…) al termine del XIX secolo, quando si poté dire che i giapponesi parlavano e scrivevano secondo un autentico (e autoctono e autonomo) «canone giapponese». Anche noi, qui in Europa, abbiamo dovuto sudare per costruirci l’italiano, il francese, lo spagnolo e via, appunto, discorrendo. Ma il nostro corso di studi è stato molto più accelerato, decisamente più breve di una laurea breve, in confronto a quello dei giapponesi. Per due motivi. Da un lato i maestri latini avevano già acquisito, in centinaia e centinaia di anni, il patrimonio culturale di altri maestri, quelli greci, cucinandolo da par loro. Dall’altro… ma a questo punto è meglio cedere la parola a chi ha facoltà di parlare: «mentre con un alfabeto fonetico come quello latino siamo teoricamente in grado, una volta apprese le convenzioni ortografiche e fonetiche basilari, di pronunciare correttamente anche parole di una lingua che non conosciamo, con i sinogrammi è praticamente impossibile conoscere con totale certezza la pronuncia di un carattere che non abbiamo mai visto, ed è di conseguenza molto difficile risalire esattamente al tipo di pronuncia legata a un determinato carattere in una certa area o contesto storico». Lo spiega Edoardo Gerlini, docente di Lingua giapponese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Insomma, a noi studenti europei l’alfabeto fonetico latino ha dato una grossissima mano, mentre dall’altra parte del mondo i nostri omologhi giapponesi hanno dovuto vedersela con quella sorta di rebus spaccameningi dei sinogrammi.
Gerlini ha curato per Marsilio il primo volume di un progetto editoriale inedito (e non soltanto perché contiene anche testi giapponesi mai tradotti in italiano): Antologia della poesia giapponese. I. Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo). Nell’Introduzione al volume, cui ne seguiranno due, fino a giungere ai nostri giorni, Gerlini dice molte cose che noi occidentali mediamente acculturati non potremmo immaginarci, portandoci oltre le porte di Tannhäuser (guarda caso, ecco un altro poeta, per quanto tedesco) che si aprono su un lontanissimo universo linguistico. Per esempio si dice che in Giappone il bilinguismo paritetico è proseguito fino agli inizi del Novecento; che i giapponesi lentamente si affrancarono dalla dittatura dei sinogrammi dotandosi dell’alfabeto fonetico dei katakana, molto più semplice da leggere e quindi da diffondere; che fu la scrittura onnade, cioè «per mano di donna», divergendo da quella otokode, cioè «per mano di uomo», a emancipare le lettere giapponesi. Così, seguendo la lezione del prof Gerlini, il lettore/studente completamente digiuno di sinologia e rimasto fermo alla fascinazione fluttuante di qualche haiku, quindi al XVII secolo, quando la lingua giapponese già si reggeva sulle proprie gambe, un po’ si preoccupa, aspettandosi una materia oscura e impenetrabile.
E sbaglia, perché fin dalle prime pagine dell’antologia che presenta i testi in giapponese e in italiano, scopre (vale a dire: ricorda) che, al netto degli artifici retorici, pur importantissimi e caratterizzanti ogni lingua, l’anima della Poesia distillata dai traduttori parla un solo idioma in tutto il mondo. Per tutte le poesie vale la definizione che di quella giapponese diede, fra IX e X secolo, il poeta e funzionario di corte Ki no Tsurayuki: «ha come seme il cuore dell’uomo, che si tramuta, ecco, in innumerevoli foglie di parola». Prendiamo ad esempio un canto shintoista: «Dai remoti tempi/ delle auguste divinità,/ le foglie di bambù nano/ prendendo in mano, dicono,/ si cantava e si danzava». Ma questo è Platone, quando nel Fedone riporta il detto dei preposti ai Misteri: «i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi»… E prendiamo questi versi di Kasa no Iratsume dal Man’yoshu, la più antica antologia di poesia giapponese: «Come candida rugiada/ sull’erbe all’ombra della sera/ nella mia dimora/ che sembra svanire, vano/ è forse il mio rimembrarti». Non sentiamo un’aria petrarchesca, in quel «rimembrarti»? Eccola qui, Sonetto CCXXXI. «E ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora». E Mansei che scrive: «Il mondo umano/ a che cosa compararlo?/ A una nave che vogando/ lascia il porto all’alba/ senza tracce dietro di sé…» ci suona vicino al giovane e senile Leopardi come in questo Pensiero XXXIX: «Però parmi che i vecchi sieno alla condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta». E ancora qui, in queste sinestesie: «Freddo il suono delle foglie che cadono…», oppure «La fredda voce del grillo, soffiata qui dal vento…», echeggia Foscolo: «mentr’io sentia dai crin d’oro commosse/ spirar d’ambrosia l’aure innamorate». L’amore, certo, e per giunta proprio quello cortese, sbocciato dalle parti dell’imperatore di turno, l’amore che trabocca per Minamoto no Yoshi: «Un corso d’acqua montana/ tra gli alberi/ freme nascosto, impetuoso/ il mio amore,/ e più non riesco oramai ad arginarlo», parallelo a quello di Alda Merini: «Ruscello vivo è l’amore che corre/ nei giardini dei poeti/ e genera rose, e genera pioggia e pianto».
Dunque, fra raccolte imperiali, sillogi personali, collezioni che escono dalla comfort zone dei palazzi nobiliari per scendere fino a sfiorare i sentimenti del volgo, questa antologia dell’antica poesia giapponese ci conforta. Mostrandoci un’altra, eccelsa interpretazione di uno spartito che è anche il nostro.
Descrizione del libro di Giuseppe Berto- Il brigante -Nel 1951, l’anno in cui pubblica Il brigante, Berto è già uno scrittore affermato. I due libri precedenti, Il cielo è rosso e Le opere di Dio, composti nell’isolamento del campo di prigionia di Hereford e apparsi tra il 1947 e il 1948, erano stati accolti favorevolmente in Italia e all’estero, dove la stampa non aveva mancato di accostare lo scrittore ai maestri del neorealismo cinematografico italiano. Con Il brigante, Berto decide dunque di rendere aperto omaggio al romanzo al cui centro vi siano scottanti problemi sociali – dirà successivamente di aver scritto un libro «marxista» –, alla maniera dei narratori che, come mostra Gabriele Pedullà nello scritto che accompagna questa edizione, orbitano, in quella stagione letteraria, «attorno a Elio Vittorini e si riconoscono genericamente in un movimento neorealista dalle molte facce diverse». Traendo ispirazione da un fatto di cronaca, Berto narra la vicenda di Michele Renda, giovane reduce di guerra che, tornato nel villaggio natio tra i monti della Calabria, ingiustamente accusato di omicidio, si dà alla macchia e diventa un brigante. Una storia che consente all’autore del Cielo è rosso di porre in risalto «il conflitto assoluto di Bene e di Male, lo scandalo della virtú perseguitata, la riscossa delle vittime innocenti» (Gabriele Pedullà), e di comporre pagine particolarmente felici sulla vita delle campagne calabresi in un momento di radicale trasformazione. Come, tuttavia, Berto farà notare nella prefazione all’edizione del 1974, Il brigante non è un romanzo interamente ascrivibile al neorealismo, al movimento culturale, cioè, che mirava alla «rigenerazione morale del paese» e al «raggiungimento d’una decente giustizia sociale». Michele Renda, il suo protagonista, è un «sorpassato», un uomo «indissolubilmente legato al mondo arcaico dell’odio, del tradimento, della vendetta» e la comunità in cui si muove, animata da dicerie, è quanto di piú lontano dal grande mito della «comunità organica». In realtà, gli elementi psicologici propri della scrittura di Berto, quelli che troveranno la loro massima espressione nel Male oscuro, sono già presenti in questo romanzo in cui un eroe, estraneo e irriducibile al suo mondo, è mosso da un universo interiore nel quale bene e male sono divisi soltanto da un esile filo. Nel 1961, Renato Castellani trasse dal Brigante un film giudicato da Berto il migliore di tutti i film tratti dai suoi romanzi, e dalla critica odierna un capolavoro della cinematografia italiana.
Giuseppe Berto
RECENSIONI
«Uno dei piú belli e tragici romanzi che siano apparsi da anni, veramente un piccolo capolavoro». Time Magazine
«Volgendosi “in presa diretta” alla Calabria piú povera e afflitta, Il brigante ripete il gesto compiuto da Berto nei primi due romanzi, dove campeggiano le distruzioni della guerra, ma il senso dell’operazione è diverso perché questa volta Berto ambisce consapevolmente a iscriversi nella letteratura impegnata del periodo». Gabriele Pedullà
Giuseppe Berto
Breve biografia di Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto il 27 dicembre 1914. Nel 1947 pubblica presso Longanesi Il cielo è rosso, su segnalazione di Giovanni Comisso. Tra il 1955 e il 1978, anno in cui si spegne a Roma, dà alle stampe, oltre al Male oscuro (Neri Pozza, 2016), Guerra in camicia nera e Oh Serafina!. Con Neri Pozza sono stati ripubblicati La gloria (2017) e Anonimo veneziano (2018), per restituire all’apprezzamento dei lettori e della critica odierna l’opera di uno dei grandi autori del nostro Novecento.
Descrizione del libro di Ranuccio Bianchi Bandinelli -L’arte etrusca– Editori Riuniti-Biblioteca DEA SABINA-Gli scritti etruscologici di Ranuccio Bianchi Bandinelli coprono l’intero arco dei cinquant’anni della sua attività di studioso: dal 1925, quando venne pubblicata la sua tesi di laurea su Chiusi, fino al 1973, quando apparve l’ultima sua monumentale opera “Etruschi e Italici prima del dominio di Roma”. I saggi raccolti in questo volume sono disposti cronologicamente e servono a documentare il percorso critico e intellettuale di Bianchi Bandinelli, caratterizzato da un lato da una costante continuità di interesse per il fenomeno artistico etrusco-italico, dall’altro da un fondamentale e profondo rinnovamento delle sue posizioni negli anni successivi al 1960.
Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) è stato uno dei maggiori archeologi e intellettuali italiani del Novecento. Alla attività di studio, come autore di ricerche specialistiche e come docente universitario, ha sempre associato un diretto impegno civile e militante, nell’Amministrazione dei beni culturali e nella diretta partecipazione politica come esponente di spicco del partito comunista. Ha svolto opera di informazione presso il largo pubblico attraverso la direzione di enciclopedie e volumi a grande diffusione.
Ranuccio Bianchi Bandinelli
INDICE
Premessa
Nota del curatore
Parte prima. Storia e problemi dell’arte etrusca
Arte etrusca
La città etrusca
La casa etrusca
La posizione dell’Etruria nell’arte dell’Italia antica
“Illusionismo” nel bassorilievo italico
Datazione e motivi dell’arte tardoetrusca
Parte seconda. Topografia
Questioni generali di topografia etrusca
Riassunto storico e delimitazione del territorio chiusino
Roselle
L’esplorazione di Roselle
Parte terza. Pittura
Necropoli di Vulci
Un “pocolom” anepigrafie del museo di Tarquinia
Le tombe tarquiniesi delle Leonesse e dei Vasi dipinti
Le pitture delle tombe arcaiche
La mostra di pittura etrusca a Firenze
Parte quarta. Scultura
I caratteri della scultura etrusca a Chiusi
Il “Bruto” capitolino scultura etrusca
Il putto cortonese del museo di Leida
Marmora Etruriae
La kourotrophos Maffei del museo di Volterra
Qualche osservazione sulle statue acroteriali di Poggio Civitate (Murlo)
Ranuccio Bianchi Bandinelli
Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) è stato uno dei maggiori archeologi e intellettuali italiani del Novecento. Alla attività di studio, come autore di ricerche specialistiche e come docente universitario, ha sempre associato un diretto impegno civile e militante, nell’Amministrazione dei beni culturali e nella diretta partecipazione politica come esponente di spicco del partito comunista. Ha svolto opera di informazione presso il largo pubblico attraverso la direzione di enciclopedie e volumi a grande diffusione.
Giulio Carlo Argan-Vi parlo di un nostro maestro. La milizia intellettuale di Ranuccio Bianchi Bandinelli [1]
in «Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, fondata da Giulio Carlo Argan», n. 17, Graffiti editore, Roma 2005, pp. 121-124.
Intitolando la sua rivista «Dialoghi di Archeologia» Bianchi Bandinelli pensava sicuramente ai suoi allievi, perché nella sua scuola tutto era dialogo, nulla sapere impartito. Amava molto la scuola, la lasciò quando si persuase che, per salvare la scuola, bisognava lasciare l’università. La lasciò, anche, per dedicarsi interamente ad una grande impresa scientifica, l’Enciclopedia dell’Antichità. Il dialogo seguitava, un’enciclopedia è un lavoro di gruppo: convoca gli studiosi da ogni parte del mondo per fare il punto dello stato di avanzamento di una disciplina, ma anche per inquadrarla in una cultura generale. Aveva il senso profondo dell’etica del lavoro scientifico; amava la ricerca, ma non ricusava i doveri che ne discendevano. La prima forma dell’intelligenza, per lui, era la generosità e quindi l’impegno, anche politico. Subito dopo la guerra accettò di fare il Direttore generale delle Belle Arti: sapeva benissimo ch’era un arido lavoro burocratico in condizioni, poi, particolarmente difficili. Ma era un dovere, verso la cultura e verso il Paese. L’Italia era ancora in rovine, molte opere d’arte italiane rubate dai nazisti erano ancora in Germania (e molte ci sono ancora) dove Siviero si dava da fare a recuperarle. Io ero alle sue dipendenze dirette e quel lavoro comune per me fu una scuola.
Era già comunista, un’altra ragione per essere intransigente quando si tratta del pubblico interesse. Lasciò la direzione generale perché non poteva fare tutto ciò che la coscienza gli imponeva: magari denunciare per collaborazionismo e truffa qualche gran signore che vendeva quadri antichi a Goering ma, conoscendone i gusti più autentici, vi aggiungeva in regalo il vino e i salumi dei suoi poderi.
Ranuccio Bianchi Bandinelli- L’arte etrusca-
Lo ammirai soprattutto perché, davanti al disastro e senza soldi in cassa, riusciva a trovarne abbastanza per finanziare qualche scavo. Pensava che soprattutto era importante mantenere vivo lo spirito della ricerca: per conservare le cose bisogna conservare la mentalità che vuole conservate le cose. L’importante era non rompere l’unità teorico-pragmatica della scienza. Il teorico deve sapere discendere alle cose se vuole che poi dalle cose si possa risalire al grande disegno storico e alla teoresi, magari alla filosofia dell’arte. Mi sovvenni di Lui e del suo impegno pratico, e della serenità e dello spirito con cui lo adempiva, quando imprevedutamente fui fatto sindaco di Roma e mi trovai travolto in una valanga di cure che non avevano niente a che fare con i miei studi. Mi accorsi che non erano poi tanto estranee, forse niente è estraneo alla cultura: cercare di tenere pulita Roma (invano, purtroppo) è come nettare un’opera d’arte imbrattata.
Oggi rifletto a molte strane coincidenze del mio destino col suo e naturalmente anche alla comune scelta politica. Nulla di casuale: tutt’e due ci eravamo formati nella tradizione della scuola viennese di storia dell’arte, dove si partiva dalla scheda per arrivare al trattato, ma senza mai perdere di vista la cosa artistica, il suo essere un manufatto soggetto ai guasti del tempo. Studiare la storia dell’arte era lo stesso che prender cura delle cose, besorgen.
Fin da quando, giovanissimo ancora, esordì brillantemente con gli studi sulla cultura etrusca di Roselle e Sovana lo tormentava il dilemma che non l’abbandonò mai più: archeologia o storia dell’arte? È il nodo di tutto il suo lavoro. Come tutti gli studiosi della sua e poi della mia generazione è stato idealista e crociano: solo al tempo della guerra, credo, ebbe l’illuminazione di Gramsci. Il disgusto della rettorica, che per la verità il Croce ha sempre alimentato negli intellettuali, portava ad una critica radicale dell’archeologia italiana: per la ritardata mentalità antiquariale, anzitutto, ma anche per l’asservimento alla megalomania fascista, per gli scempi che autorizzava a cominciare da Roma, per lo scarso rigore nella ricerca e nel restauro dei monumenti, per l’abuso di falsi concetti come quello di «romanità». Indubbiamente l’idealismo lo avviò a scelte di gusto molto severe, ma del tutto spregiudicate.
Oggi è di moda dire che il criterio di qualità implica una valutazione soggettiva, che una scienza rigorosa non ammette; e in fondo è giusto che i mediocri difendano i mediocri. Eppure è proprio con le sue scelte qualitative che Bianchi Bandinelli ha rovesciato il quadro della storia dell’arte classica. Quando uscì laStoricità dell’arte classica fu come ci cadessero le bende dagli occhi. Non era una questione di arte o non- arte. La storia dell’arte classica che ci avevano insegnato gli archeologi era in realtà la storia di una cultura figurativa aulica o ufficiale e dunque non storia dell’arte, ma storia del potere vista attraverso l’arte. Benché assai più complesso, il punto di vista di Bianchi Bandinelli riportava ai primi storici romantici come il Fauriel, che preferiva la civiltà dei conquistati a quella dei conquistatori: Bianchi Bandinelli accantonava gli artisti di palazzo, parlava di provincia invece che di metropoli, di artigiani pieni di genio o di spirito invece che di artisti laureati. E non era una veduta populista: l’analisi, come nell’ammiratissimo Riegl, era sempre scrupolosamente condotta sulle forme.
Come sempre Bianchi Bandinelli, pur così bravo nel disegnare grandiose sintesi di epoche intere, ha dedotto dalla sua teoria tutte le conseguenze d’ordine pratico: al punto che proprio da quella generale premessa critica è disceso un nuovo modo di concepire e condurre lo scavo: non più per trovare tesori o documenti sensazionali, ma il modesto tessuto di una cultura, gli strumenti della vita quotidiana, le testimonianze delle attività quotidiane. In una parola, la trama di quella che oggi chiamiamo cultura materiale e che, in verità, ci porge una quantità d’informazioni infinitamente maggiore che quelle che può dare un imponente monumento, espressione delle grandi istituzioni del tempo.
Da questa prima formulazione, almeno in Italia, di una metodologia fondamentalmente marxista degli studi di archeologia uscì anche, e fu portata avanti dai discepoli, una nuova modalità della progettazione, dell’attuazione, dell’interpretazione dello scavo: non più concepito come caccia al tesoro, ma come ricostruzione organica del tessuto della cultura. Ciò che doveva, o almeno avrebbe dovuto, essere il principio di un mutamento radicale della politica della tutela del patrimonio culturale: ancora fatta di divieti e di limiti sempre meno rispettati invece che di interventi diretti, in positivo, nello sviluppo della politica della città e del territorio. Era una prospettiva culturale e politica estremamente promettente, quella ch’egli aprì in Italia dopo la Liberazione; ma fu precipitosamente richiusa da quel provincialismo culturale che Bianchi Bandinelli odiava e che ancora non soltanto prospera, ma viene coltivato con sollecito zelo nei patrii giardini.
Forse il dialogo che questa rivista, con il suo nuovo corso, dovrà coraggiosamente portare avanti non è precisamente un dialogo tra maestri ed allievi, ma un dialogo più aperto tra civiltà antiche e civiltà moderna. Bianchi Bandinelli volle chiarire, vivendolo in proprio in tutte le sue contraddizioni, anche drammatiche, che cosa sia la civiltà moderna, ardentemente desiderando che il suo confronto con l’antico fosse il confronto tra due momenti della storia e non tra una storia e una cronaca, talvolta nera. Nessuno può vedere realizzato tutto ciò che spera. Ma certo tutto ciò che poteva essere fatto, nella sua disciplina e nella sua pratica esistenza, affinché l’epoca moderna fosse un’epoca storica, Bianchi Bandinelli lo ha fatto con un’intelligenza, un coraggio, una fermezza e una serenità da rimanere, per gli intellettuali di tutto il mondo, esemplari.
[1] L’articolo, uscito su «L’Unità» del 1° novembre 1979, è il testo dell’intervento di Argan alla cerimonia dedicata a Bianchi Bandinelli tenutasi in Campidoglio il 31 ottobre 1979 in occasione della pubblicazione della nuova serie dei «Dialoghi di Archeologia».
-Editori Riuniti-
Via di Fioranello n.56, 00134, Roma (RM)
Contattaci
Email: info@editoririuniti.it
Tel. casa editrice: 06 79340534
Tel. disponibilità titoli e stato ordini: 011 0341897
Carteggi con Buzzati, Gadda, Montale e Parise-Neri Pozza Editore
Sinossi del libro di Neri Pozza -Saranno idee d’arte e di poesia-Neri Pozza Editore-Il 4 aprile del 1956, in una lettera a Goffredo Parise in cui rimprovera allo scrittore vicentino di aver smarrito, nel suo ultimo racconto Il fidanzamento, l’esuberanza patetica e piena di forza della sua opera prima Il ragazzo morto e le comete, Neri Pozza scrive: «Non ti dolere di questo parere negativo, io sono un vecchio provinciale con idee estremamente chiare anche se sbagliate (per te). Saranno idee d’arte e di poesia, che fanno pochi soldi, ma sono le sole capaci di sedurmi e interessarmi. Il resto, per me, è buio e vanità». La fede ostinata nel carattere d’arte e di poesia del lavoro editoriale attraversa da cima a fondo questi carteggi, che qui pubblichiamo per la prima volta nella loro completezza, tra l’editore vicentino e gli scrittori con cui ebbe un rapporto privilegiato di amicizia e di collaborazione: Dino Buzzati, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale e Goffredo Parise. Dal 1946, quando Neri Pozza fondò la sua casa editrice, fino al 1988, l’anno della sua morte, l’editore intrattenne rapporti epistolari con le figure di spicco della cultura italiana del Novecento: da Giuseppe Prezzolini a Emilio Cecchi, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi, da Camillo Sbarbaro a Corrado Govoni, da Carlo Diano a Concetto Marchesi, da Elémire Zolla a Amedeo Maiuri. È nelle lettere a Buzzati, Gadda, Montale e Parise, tuttavia, che emerge davvero la figura di Neri Pozza editore. Come ha scritto Fernando Bandini, Pozza «aveva già in mente per suo conto dei libri che pensava mancassero, e li proponeva agli autori che gli sembravano i più adatti a scriverli. Se avesse potuto li avrebbe scritti tutti lui di suo pugno». È Neri Pozza che, nel 1950, sedotto dall’idea di un’opera di Buzzati indica all’autore del Deserto dei Tartari la via per «un libro serio, vivo, necessario alla sua storia di scrittore». È Neri Pozza che, contro il parere dei critici che lo consideravano oscuro, pubblica Gadda e il suo Primo libro delle Favole, un titolo non compreso o addirittura sbeffeggiato quando apparve. È Neri Pozza che stampa coraggiosamente l’esordio in prosa di Montale, quella Farfalla di Dinard che esce nel 1956, con copertina rosso mattone, in un’edizione fuori commercio di 450 esemplari, con allegata un’incisione di Giorgio Morandi. È l’editore vicentino, infine, che non esita, in nome della chiarezza dell’arte e della poesia, a indicare «orrori» ed «errori» a Goffredo Parise, diventando, come ha scritto Silvio Perrella, oltre che il suo editore anche «il suo primo critico». A sessant’anni dalla nascita della casa editrice che reca il suo nome, con la pubblicazione di questi carteggi e della monografia Neri Pozza, la vita, le immagini, appare sempre più evidente il posto di rilievo che spetta all’editore vicentino nell’editoria e nella cultura del Novecento.
Cenni biografici di Neri Pozza
Neri Pozza-
Neri Pozza nacque a Vicenza il 5 agosto 1912. Iniziò la propria attività come scultore nel 1933 seguendo l’esempio del padre, Ugo Pozza. Nell’ampia produzione è forte il richiamo di Arturo Martini e di Marino Marini. Espose alla Biennale di Venezia nel 1952 e nel 1958, alla Quadriennale di Roma e ancora alla Biennale veneziana della grafica. Nell’attività letteraria Pozza si distinse con volumi quali Processo per eresia (1970), Premio selezione Campiello, Comedia familiare (1975), Tiziano (1976), Le storie veneziane (1977), Una città per la vita (1979), Vita di Antonio, il santo di Padova e alcuni scritti sulle memorie della Resistenza come Barricata nel Carcere. Morì a Vicenza il 6 novembre 1988. Tra le opere pubblicate dalla casa editrice che porta il suo nome figurano: Neri Pozza, la vita, le immagini (a cura di Pasquale di Palmo, Neri Pozza, 2005); Saranno idee d’arte e di poesia (Neri Pozza, 2006); Opere complete (Neri Pozza, 2011).
-Donne africane nella narrativa imperialista. Fascismo e romanzi-
Descrizione del libro di
Massimo Boddi
-Carne da maschi-Donne africane nella narrativa imperialista. Fascismo e romanzi-Africa, terra d’elezione del piacere; donne africane, “carne da maschi” alla mercé del conquistatore. Il saggio analizza i dispositivi lessicali e metaforici del mito imperiale fascista, espressi in una dozzina di romanzi coloniali scelti con cura, per poi focalizzare l’attenzione sulla rappresentazione letteraria dei corpi femminili colonizzati e sul loro rapporto di sudditanza verso militari e coloni di stanza in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia. Romanzi in cui abbondano i richiami sessuali e che offrono una casistica completa di comportamenti, ripetitivi ma con sfumature diverse. Aprendo a nuove prospettive di studio testuale e stilistico, il saggio è uno spaccato insieme storico e letterario, documento sia della retorica parodistica che della smaniosa velleità imperialista del regime fascista.
–Aracne editrice internazionale S.r.l. P. IVA 12925531001
via Quarto Negroni, 15
00072 Ariccia
A proposito di colonialismo italiano in Africa, rimosso dalle istituzioni e da tanta parte degli italiani, cade a fagiolo questo saggio che è la riedizione di Letteratura dell’impero e romanzi coloniali (1922-1935), pubblicato nel 2012.
L’autore, freelance nel settore della comunicazione e nell’editoria, analizza i dispositivi lessicali e metaforici del mito imperiale fascista espressi in 13 romanzi coloniali da 6 autori: Arnaldo Cipolla, Luciano Zuccoli, Enrico Cappellina, Guido Milanesi, Mario Dei Gaslini, Gino Mitrano Sani, Vittorio Tedesco Zammarano.
E focalizza l’attenzione sulla rappresentazione letteraria dei corpi femminili colonizzati e sul loro rapporto di sudditanza verso militari e coloni lanciati nelle campagne coloniali in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia. Boddi: «La metafora sessuale delle penetrazione espansionistica, della conquista e del dominio richiama l’immagine dell’aggressione maschile nei confronti della donna indigena, intesa come bottino di guerra o come “sprone” all’avventura del soldato e del colono».
In questo immaginario diffuso, spiega l’autore, l’africana subsahariana era dipinta come una vera e propria “bestia” carnale, mentre la donna nordafricana, legata all’iconografia del velo e dell’harem, era ritenuta più sensuale e seducente. Entrambe private della storia e dell’appartenenza culturale, dunque destituite di soggettività.
Gabriele Formenti-GEORG PHILIPP TELEMANN Vita e Opera del più prolifico compositore del barocco tedesco
Zecchini Editore-Varese
Descrizione del libro di Gabriele Formenti-GEORG PHILIPP TELEMANN-Nato a Magdeburgo nel 1681 e attivo in varie città tedesche quali Lipsia, Eisenach, Francoforte ed infine Amburgo, Telemann è oggi considerato uno dei maggiori compositori dell’epoca barocca. A fronte di un catalogo che conta migliaia di composizioni si segnala però un interesse tardivo da parte della musicologia nell’indagare la sua opera. Solamente negli ultimi anni si è portata avanti una ricerca che ha potuto svelare alcuni dettagli significativi della sua biografia, come ad esempio il suo rapporto con Johann Sebastian Bach, mentre sul versante delle opere ha evidenziato il costante richiamarsi agli stili allora in voga in Italia e Francia, capaci di guidare il compositore verso la definizione di un ideale “stile misto” che influenzerà tutta la sua produzione. Questo volume rappresenta la prima monografia in Italiano sull’autore e si prefigge di approfondire non solamente gli aspetti più noti riguardo la sua figura, ma anche quelli meno conosciuti, capaci di restituirci, in tutta la sua grandezza, la figura di un musicista straordinario, enciclopedico, fra i più ammirati e conosciuti all’epoca. A corredo del volume il catalogo completo di tutte le sue opere vocali e strumentali e una playlist selezionata dall’autore, ascoltabile gratuitamente online.
Il sentiero dei nidi di ragnoè il primo romanzo di Italo Calvino. Pubblicato nel 1947 da Einaudi, è ambientato in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana. Nonostante una certa propensione per la dimensione fantastica, determinata dal fatto che gli eventi vengono narrati attraverso il punto di vista di un bambino, può ascriversi, assieme alla raccolta Ultimo viene il corvo (1949), alla corrente neorealista.
ITALO CALVINO
Trama
Italia, periodo della Resistenza, dopo l’8 settembre 1943. In una cittadina ligure della Riviera di Ponente, Sanremo, tra valli, boschi e luoghi impervi dove la lotta partigiana è più forte, Pin è un bambino ligure di circa dieci anni, orfano di madre e con il padre marinaio irreperibile, abbandonato a se stesso e in perenne ricerca di amicizie tra gli adulti del vicolo dove vive, e dell’osteria che frequenta dove viene preso in giro da tutti: Pin è canzonato a causa delle relazioni sessuali che la sorella prostituta ,che si intrattiene coi militari tedeschi; provocato dagli adulti a provare la sua fedeltà, Pin sottrae a Frick, un marinaio tedesco amante della donna, la pistola di servizio, una P38, e la sotterra in campagna, nel luogo, sconosciuto a tutti, in cui è solito rifugiarsi, dove i ragni fanno il nido. Il furto sarà poi causa del suo arresto e dell’internamento in prigione. Qui entra a contatto con la durezza della vita di carcerato e con la violenza perpetrata da uomini su altri uomini. In prigione incontra Pietromagro, il ciabattino di cui era garzone, ma specialmente Lupo Rosso, un giovane e coraggioso partigiano, che in prigione subiva interrogatori e violenze da parte dei fascisti. Lupo Rosso aiuta Pin ad evadere dal carcere, ma una volta fuori, per cause indipendenti dalla sua volontà abbandona Pin a se stesso, a girovagare nel bosco da solo, finché non incontra Cugino, un partigiano solitario alto, grosso e dall’aria mite. Questi lo condurrà sulle montagne, al gruppo segreto di militanti partigiani a cui appartiene, il distaccamento del Dritto. Qui Pin entra in contatto con una folta casistica umana di antifascisti, dalla dubbia eroicità e caratterizzati dai più comuni difetti umani: Dritto il comandante, Pelle, Carabiniere, Mancino il cuciniere, Giglia la moglie di Mancino, Zena il lungo detto Berretta-di-Legno o Labbra di Bue e così si sistema presso di loro.
Una sera Dritto appicca inavvertitamente il fuoco all’accampamento perché avvinto in un gioco di sguardi con Giglia, la moglie di Mancino; questa sua imprudenza costringe i compagni partigiani a fuggire e ad insediarsi in un vecchio casolare dal tetto sfondato. Un litigio col capo brigata irrita Pelle a tal punto da spingerlo al tradimento dei suoi compagni: parte per il villaggio e rivela ai tedeschi l’insediamento partigiano. In seguito la Resistenza provvederà a freddarlo in un gap. Il giorno seguente i comandanti partigiani, Kim e Ferriera, fanno sopralluogo nel distaccamento del Dritto e gli impartiscono le istruzioni per l’imminente battaglia. Al momento di partire però il Dritto, ormai ridotto all’ombra di se stesso, si rifiuta di scendere in battaglia e decide di restare con Giglia. Con loro resterà solo Pin che sin dall’incendio aveva compreso l’interesse dei due e li sorprenderà, una volta partiti tutti, a consumare il loro sesso adulterino. Il Dritto d’altronde sa di aver segnato il suo destino.
La battaglia si risolve con una ritirata strategica. Il bilancio è di un solo morto e di un ferito. Poiché l’accampamento non è più sicuro come prima, i partigiani si mettono in cammino e raggiungono la postazione di altre brigate partigiane. Presto la discussione si accende quando Pin comincia a rivelare la tresca amorosa tra il Dritto e la Giglia scoperta il mattino: il Dritto tenta allora di zittire il bambino, malmenandolo, tanto che Pin gli morde la mano. Con quel gesto rabbioso esce dal casolare e scappa via di corsa. Incontra di tanto in tanto dei tedeschi e dopo alcuni giorni di marcia, arriva al suo paesino o almeno quello che ne resta dopo il rastrellamento dei nazisti. Ancora una volta si rifugia nel suo luogo segreto, ma vi trova tutta la terra rimossa e la pistola scomparsa: è quasi sicuro che sia stato Pelle.
Sconvolto, si reca dalla sorella, ormai in combutta con i tedeschi ma suo unico contatto con il mondo, la quale è molto sorpresa di vederlo. Mentre conversa, viene a sapere che lei possiede una pistola datale da un giovane delle brigate nere, sempre raffreddato. Pin capisce che si tratta di Pelle e che la pistola è proprio la P38 che lui aveva sottratto al tedesco e che aveva sotterrato al sentiero dei nidi di ragno. Se la riprende con rabbia e, gridando contro la sorella, va via di casa. Si sente ancora più solo, fugge verso il sentiero dei nidi di ragno, dove incontra nuovamente Cugino. Durante la conversazione che intrattengono, Pin si rende conto che proprio Cugino è l’unico vero amico, un adulto che si interessa persino ai nidi di ragno scoperti da Pin. Ma Cugino dice a Pin che vorrebbe andare con una donna, dopo tanti mesi passati in montagna. Pin rimane male, proprio Cugino che era sempre stato così ferocemente critico verso le donne. Anche lui, pensa Pin, è come tutti gli altri adulti. Parlano della sorella prostituta, Cugino è interessato e si fa indicare la sua abitazione. Si allontana lasciando a Pin il suo mitra e portandosi dietro proprio la pistola del bambino, dicendo che aveva paura di incontrare dei tedeschi. Dopo pochi minuti Pin sente degli spari venire dalla città vecchia. Ma ecco, invece, che ricompare Cugino: troppo presto rispetto a quello che aveva detto di voler fare con la prostituta. Il bambino è felice: Cugino gli dice che ci ha ripensato, che non ha voglia di andare con una donna, che le donne gli fanno schifo. È probabile che abbia provveduto ad uccidere la sorella di Pin perché complice delle truppe tedesche, ma questo fatto rimane incerto, non detto, e Pin non collega gli spari sentiti alla rapidità del ritorno di Cugino. Nessuna consapevolezza o sospetto c’è da parte di Pin: è felice di aver ritrovato una figura di adulto che lo protegga e lo capisca. I due si tengono per mano e si allontanano, di notte, in mezzo alle lucciole.
ITALO CALVINO
Luoghi
Il romanzo è ambientato nei comuni montuosi dell’Estremo Ponente ligure, specie la parte collinare di Sanremo – città natale della famiglia dell’autore – dove esiste ancora oggi, nel centro storico detto “la Pigna”, un viottolo chiamato “Carruggio Lungo”, vicolo stretto ma carrabile: stradicciola tipica dei centri storici liguri, massime quello ben noto della città di Genova. Le azioni narrate sono proprio quelle, brulicanti di tedeschi, prima come alleati dell’Italia poi come nemici inferociti dall’armistizio di Cassibile (8 settembre ’43), dove si svolsero sanguinosissimi combattimenti tra partigiani e nazifascisti.
Qui si svolge la prima parte del libro, in cui Pin si trova ancora dalla sorella: la locanda degli adulti del vicolo, la casa di Pin, il luogo in cui lavora e le abitazioni di tutti gli altri personaggi del romanzo. Alla carcerazione del protagonista, la scena si sposta fuori dal “Carruggio Lungo”, così dalla prigione, fino al distaccamento del Dritto, insediato tra i boschi delle montagne liguri; tra i luoghi citati in questa parte c’è lo storico Passo della Mezzaluna[2]. Se il paese natale di Pin è sinonimo di consuetudine all’esclusione, ma punto di riferimento per il piccolo, il bosco e il distaccamento partigiano significherà disorientamento e precarietà. Esiste un ulteriore luogo, di decisiva rilevanza all’interno della trama, ovvero il sentiero dei nidi di ragno, uno spazio quasi surreale, dove la natura è complice di Pin, custode e sicura. Per il protagonista rappresenta l’Arcadia, l’ambiente quasi idilliaco e immaginifico dove Pin esprime unico la sua puerilità. Essendo questo posto anche conosciuto dal solo Pin, lo spinge ad escludere chiunque dal godimento di tal luogo, se non all’amico vero che lui per tutto il romanzo cerca velatamente.
Lessico e stile
Questo primo libro di Italo Calvino, scritto subito dopo la fine della guerra, è molto scorrevole, i dialoghi, scritti con un linguaggio quotidiano spesso scurrile, si alternano a descrizioni minuziose dell’animo dei personaggi principali (come quello di Lupo Rosso, o come il ritratto di Kim nel IX capitolo, infatti questo capitolo si distacca dal tono degli altri perché attraverso Kim il narratore può esprimere i suoi giudizi) e dei luoghi dove si svolgono le azioni di guerra.
Il narratore del libro è esterno e il libro è narrato in terza persona. Calvino sceglie di raccontare e descrivere i fatti e le paure di una guerra visti dal “basso”, da chi non può nulla nei conflitti eppure è costretto a farvi parte: l’ottica è quella di un bambino. Dietro lo sguardo un po’ spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, giovane universitario di estrazione borghese, lascia gli studi ed entra nella Resistenza, in clandestinità vive a contatto di operai, gente semplice, condividendo la vita partigiana ma facendo parte inesorabilmente di un altro mondo.
Nel testo sono riportati alcuni termini militari e partigiani che affascinano il protagonista come del resto tutto il mondo dei grandi, ad esempio gap che indica un’organizzazione partigiana, come un’altra parola “misteriosa” sim. Alcune parole di uso tipicamente militare sono sten e P38, che sono rispettivamente la pistola mitragliatrice di fabbricazione Inglese in uso durante la Seconda guerra mondiale e la pistola semiautomatica di fabbricazione tedesca in dotazione all’esercito nazista.
È frequente l’uso di figure retoriche da parte di Italo Calvino, come le similitudini per rendere il testo di più facile comprensione al lettore (es.con ansia un po’ voluta: a toccare la fondina ha un senso di commozione dolce, come da piccolo a un giocattolo sotto il guanciale.). I termini usati sono facili e non si presentano quasi arcaismi, solo qualche termine come “chetare” invece che calmare, oggi più usato.
Frequenti sono i riferimenti lessicali al dialetto, riconoscibili sulla bocca di alcuni personaggi, in altre opere più mature quest’esigenza di una lingua viva troverà sbocco nella vivacità di una lingua italiana nutrita di linfa anche dialettale e popolare. Il tempo della narrazione è il presente. Questa scelta stilistica dà al testo un ritmo veloce, rendendo il testo moderno e “nervoso”.
Tutto il racconto sottende una dimensione fiabesca, come notò per primo Cesare Pavese,[3] anticipando uno dei grandi temi della riflessione e della successiva produzione di Italo Calvino.
ITALO CALVINO
Personaggi
Pin
È il protagonista del racconto. È un bambino di bassa estrazione sociale, spesso maleducato, ribelle, pagliaccio e menefreghista. I suoi genitori sono scomparsi quando lui era ancora piccolo. Fin da allora ha cercato spazio nel mondo dei grandi pur non comprendendo il loro strano modo di ragionare, infatti durante la giornata cerca clienti per sua sorella, una prostituta conosciuta in tutto il paese come la Nera di Carrugio Lungo. Non gioca con i suoi coetanei, ma al contrario ha sempre cercato la stima degli adulti, che cercava di far ridere cantando canzoni su cose volgari e da grandi, per le quali manca di consapevolezza (come il sesso, la guerra e la prigione).
Nonostante la sua tenera età, Pin ha vissuto esperienze da adulto: lavorava in una bottega come calzolaio per il padrone Pietromagro e faceva “pubblicità” alla sorella, ma questo non ha cambiato il suo modo di ragionare e di sognare, tipico di un bambino, tanto che non riesce a distinguere il bene dal male a causa della superficialità con cui supera le difficoltà. Frequenta un’osteria dove si ritrovano gli adulti che con lui parlano molto, ma lo usano per calmare i momenti di tensione con le filastrocche cantate o per scopi personali, come quando gli ordinano di prendere una pistola.
Pin non ripone fiducia in quelle persone così diverse da lui, infatti non rivela a nessuno di loro il suo posto magico e segreto, il sentiero dove fanno il nido i ragni. È un personaggio sospeso tra il mondo dei grandi, nel quale cerca di entrare, e il mondo al quale appartiene, ma nel quale non ha mai voluto identificarsi. Pensa che nel mondo dei grandi lui possa trovare un grande amico sincero al quale confidare il suo segreto.
In questa strana ricerca Pin si fa più saggio, perché vive nuove esperienze con la guerra, ma le idee che si farà lo porteranno ad essere ancora più solo. Diventa crudele con la natura forse per sfogarsi, forse per vedere cosa provano gli uomini quando vogliono uccidere loro simili, così si chiede che cosa succederebbe a sparare ad una rana, infilza ragni, seppellisce freddamente il falchetto morto.
Alla fine del romanzo Pin rincontrerà Cugino e capirà di aver trovato un vero amico, a cui possa svelare dove si celano i nidi dei ragni.
ITALO CALVINO
Cugino
Il personaggio è descritto come di stazza imponente, un omone possente che assomiglia ad un orco, con baffi spioventi e rossicci, alto, curvo su sé stesso e vestito sempre con una mantellina e un berretto di lana. Il carattere si rivela però buono e caloroso. In seguito ai ripetuti tradimenti della moglie durante la sua missione di guerra, e una faccenda avvenuta con una sua amante poco prima, sviluppa una profonda avversione per le donne, che lo porterà a maturare la concezione che la causa delle tragedie accadute e della guerra siano proprio le donne.
Cugino fa la conoscenza di Pin dopo l’evasione dal carcere, proprio lui lo accompagna al distaccamento del Dritto, il gruppo dei partigiani di cui faceva parte, anche se solitamente preferisce agire da solo. Qui i due approfondiscono la loro conoscenza e Pin inizia a provare un sentimento di amicizia nei suoi confronti. Quest’uomo possente infatti nasconde in sé una dolcezza e una semplicità di sentimenti che lo portano ad essere un grande-piccolo, ma fermo negli ideali, proprio la persona che Pin il “bambino-vecchio”, stava cercando. Infatti Cugino pare non voler fare parte del mondo dei grandi con donne e guerra ma sembra interessato a discorsi infantili, ma in qualche modo ricchi di speranza, come quelli riguardanti i nidi di ragno.
Kim
È il dedicatario dell’opera, oltre ad essere il personaggio di spicco per un intero capitolo, in cui la storia principale resta per un po’ da parte. Il suo ritratto caratteriale rispecchia subito fedelmente la sua storia biografica: come studente universitario in medicina e futuro psichiatra, è un rigoroso e scrupoloso ricercatore di certezze. Da questa peculiarità nasce il discorso serio sulla ragione del furore dell’uomo. Sul rapporto tra storia e senso della storia. Nella trama il personaggio si dimostra profondamente convinto del suo importante ruolo di comandante delle truppe partigiane. Appare tardi sulla scena, infatti arriva la notte prima della battaglia e porta dentro la freddezza della guerra il bisogno di riflettere sulle motivazioni profonde che animano partigiani e repubblichini. Egli riconosce che entrambi gli schieramenti credono di essere nel giusto, ma che solo i partigiani lo sono. Sa che c’è bisogno di certezze, ma non può rinunciare alle domande, soprattutto a quelli più radicali.
Il personaggio di Kim (il nome di battaglia deriva dal Kim del romanzo di Rudyard Kipling) è ispirato al capo partigiano Ivar Oddone (che sarà un famoso medico del lavoro nel dopoguerra) conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza, e le sue argomentazioni nel suo discorso con Ferriera (che non lo capisce) e nel successivo monologo sono un sunto dei ragionamenti che Calvino e lui facevano fra loro, in quanto unici intellettuali in una brigata composta per lo più di operai e contadini.[4]
Alberto Asor Rosa riconosce in Kim Calvino stesso, che affida al suo alter ego l’unico momento di riflessione teorica presente nel romanzo.[5]
Ferriera
Egli entra in scena nel libro quando deve annunciare la battaglia insieme al commissario Kim. I due partigiani, come ci viene descritto nel capitolo IX, “sono di poche parole: Ferriera è tarchiato con la barbetta bionda e il cappello alpino, ha due grandi occhi chiari e freddi che alza sempre a mezzo guardando di sottecchi…”. Ferriera è un operaio nato in montagna e per questo il suo modo di fare è sempre schietto e limpido, a volte un po’ freddo come quello di tutti i montanari. È sempre disposto ad ascoltare tutti, ma dietro al suo sorriso di convenienza si nascondono le sue vere intenzioni e decisioni: come dovrà schierarsi la brigata, quando dovranno entrare in azione… Avendo sempre lavorato per anni in una fabbrica, è convinto che tutto debba muoversi con perfezione e regolarità, come in una macchina. Ecco perché la sua visione della guerra partigiana è perfetta come una macchina; è l’aspirazione rivoluzionaria cresciutagli nelle officine. A differenza del commissario Kim, il comandante Ferriera sostiene che nello squadrone del Dritto siano stati raggruppati gli uomini che valgono meno e per questo vorrebbe dividerlo. Durante la narrazione, il comandante ci spiega che non bisogna aspettarsi nulla dagli eserciti alleati, sostenendo l’idea che i partigiani da soli riusciranno a tener testa ai nemici. Dopo la scoperta del tradimento di Pelle e il dialogo avuto con il Dritto, Kim e Ferriera si allontanano, ma durante la camminata i due si confrontano. Secondo il comandante, l’idea di Kim era sbagliata, “È stata un’idea sbagliata la tua, di fare un distaccamento tutto di uomini poco fidati, con un comandante meno fidato ancora. Vedi quello che rendono. Se li dividevamo un po’ qua un po’ là in mezzo ai buoni era più facile che rigirassero dritti”. Ma Kim non è dello stesso parere. Secondo lui infatti, quel distaccamento era uno dei migliori, uno dei quali era più contento. Questa opinione suscita in Ferriera una reazione scontrosa. Emerge particolarmente in questo passaggio la diversa formazione educativa dei due personaggi: da una parte abbiamo Kim, studioso e logico; dall’altro Ferriera particolarmente pragmatico. “Non è un laboratorio d’esperimenti” afferma Ferriera, “capisco che avrai le tue soddisfazioni scientifiche a controllare le reazioni di questi uomini, tutti in ordine come li hai voluti mettere, proletario da una parte, contadini dall’altra (…). Il lavoro politico che dovresti fare, mi sembra, sarebbe di metterli tutti mischiati e dare coscienza di classe a chi non l’ha e raggiungere questa benedetta unità… senza contare il rendimento militare poi.” Kim si trova in difficoltà di fronte ai discorsi di Ferriera, ma in un secondo momento afferma che tutti gli uomini combattono nello stesso modo, ognuno con il proprio furore. Nell’analizzare le situazioni Kim è terribilmente chiaro e dialettico, nel parlare schietto e diretto “c’è da farsi venire le vertigini”! Al contrario il suo comandante vede le cose molto più chiaramente.
Il personaggio di Ferriera è ispirato al partigiano Giuseppe Vittorio Guglielmo conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza[6]
Lupo Rosso
È un sedicenne grande e grosso, con la faccia livida e i capelli rasi sotto un cappello a visiera alla russa. Ha scelto il suo nome durante un discorso con il commissario politico della Brigata. Dice di volersi chiamare come un animale forte (precedentemente era noto come Ghepeù fra gli operai suoi colleghi di lavoro, a causa delle sue continue citazioni di Lenin e della sua ammirazione per l’Unione sovietica, ma il nome non è stato considerato adatto), quindi il commissario gli ha suggerito di chiamarsi Lupo. Lupo Rosso sostiene che Lupo è un animale considerato fascista quindi aggiungono la parola rosso al fine di dare al suo nome di battaglia una sfumatura comunista. Dichiaratamente leninista e dal carattere impetuoso e deciso, è un grande appassionato di armi da fuoco, con cui ha preso particolare confidenza lavorando come meccanico alla Organizzazione Todt. Fa conoscenza con Pin in carcere, avvicinando per la prima volta il bambino alla Resistenza. È tisico, sputa spesso sangue in seguito alle percosse ricevute con frequenza disumana dalle squadracce. Da qui alcuni disturbi legati all’alimentazione, in quanto afferma che non può mangiare e dà a Pin la sua porzione di minestra. Possiede molta fama fra i partigiani e sono tanti a stimarlo per le sue azioni di guerra. Scappa dalla prigione con Pin per vedere con lui il posto magico del bambino e prendere la pistola P.38, ma durante il tragitto si perdono e si separano, a causa dei tedeschi. L’abbandono per Pin significa una dura delusione, Pin infatti vede Lupo Rosso come uno dei pochi esempi di coerenza e di fermezza, uno dei pochi disinteressati alle donne. Pin lo rivede poco tempo dopo, durante un incontro del distaccamento del Dritto con quello del Biondo, del quale Lupo Rosso fa parte. Successivamente Lupo Rosso partecipa all’azione punitiva contro i fascisti e contro Pelle, il partigiano traditore, e recupera molte delle armi collezionate da quest’ultimo.
Il personaggio di Lupo Rosso è ispirato al partigiano Sergio Grignolio (nome di battaglia Ghepeù), conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza.[6]
Il Dritto
È il comandante del gruppo partigiano a cui appartiene Cugino. Per tutta la durata del libro rimane un comandante forte, che sa guidare i suoi uomini in battaglia e sa farsi rispettare da loro, fino a quando per via dell’amore che prova per la Giglia, la moglie di Mancino, si distrae e lascia bruciare il capanno in cui risiedeva tutta la brigata. Quel gesto di incapacità attira i tedeschi nel luogo in cui erano nascoste tutte le brigate e lo porterà ad essere fucilato alla fine del libro. Il commissario Kim gli fa capire che se andrà in battaglia in prima linea contro i tedeschi potrà riscattarsi e salvarsi, ma lui non va per stare con Giglia (mentre tutti gli altri sono in combattimento), e alla fine – poco dopo la fuga di Pin – viene così arrestato da due partigiani mandati dal comando, per essere fucilato per insubordinazione, mentre il distaccamento verrà sciolto e gli uomini divisi in altri gruppi.
Pelle
Pelle è poco più di un ragazzo, sempre raffreddato e molto irascibile. Infatti, durante una lite col Dritto, si infuria al tal punto da tradire i partigiani. Pelle si occupa di procurare l’armamento ai partigiani (rubandolo) e per esso nutre una vera passione. Dopo una scommessa fatta con Pin, va in cerca della P38 che il ragazzino aveva nascosto nel sentiero dei nidi di ragno, la trova e la lascia in regalo alla sorella di Pin, perché resti in famiglia. Verso la fine del romanzo Lupo Rosso racconta la fucilazione di Pelle e la confisca di tutte le sue armi, tra cui, per l’appunto, si trova un’immensa varietà di fucili e pistole, ma non una P38.
ITALO CALVINO
Altri personaggi
Miscel il Francese, Gian l’Autista, Giraffa: uomini che si ritrovano con Pin all’osteria; finiranno a combattere chi con le brigate nere, chi con i partigiani.
Rina detta la Nera di Carrugio Lungo: sorella di Pin, prostituta che frequenta tedeschi e fascisti
Frick: marinaio tedesco, amante della sorella di Pin, a cui il ragazzino ruba la pistola; viene descritto come non molto sveglio e nostalgico della sua famiglia ad Amburgo
Mancino: cuoco del distaccamento del Dritto, comunista convinto e considerato estremista anche da Lupo Rosso, anche se evita spesso di andare in battaglia con varie scuse; ha un falchetto chiamato Babeuf, ma poi lo uccide su insistenza degli altri perché starnazzando attira i nazisti all’accampamento
Giglia: moglie di Mancino, amante del Dritto
Zena il Lungo detto Berretta-di-legno: partigiano genovese, non è comunista anche se sta con i garibaldini
Carabiniere: un carabiniere che ha disertato per combattere i fascisti
Duca, Conte, Marchese, Barone: quattro cognati calabresi
Pietromagro: ciabattino e piccolo truffatore, padrone della bottega dove lavora Pin
La Prefazione del 1964
Nel giugno del 1964 l’editore Einaudi propone una nuova edizione del “Il sentiero dei nidi di ragno”, riveduta e corretta, a cui Calvino scrive una lunga prefazione. La Prefazione o Presentazione diverrà subito un testo fondamentale, in cui Calvino esprime delle riflessioni sulla propria opera.[7] Calvino descrive le ragioni che l’hanno portato a scrivere il libro e parla della responsabilità che ha avvertito, come testimone e protagonista della Resistenza, a perpetuarne la memoria.[8] Avvertendo il tema come troppo impegnativo e solenne, decide di affrontarlo di scorcio, trattandolo cogli occhi di un bambino[3] e per andar contro la «rispettabilità ben pensante», sceglie non di rappresentare i migliori partigiani, ma i peggiori possibili. Ciononostante – dice – loro sono stati uomini migliori di coloro che sono rimasti al sicuro nelle città e nelle campagne, perché spinti da un’elementare voglia di riscatto sono diventati forze storiche attive.[3] Questa idea è riportata nel romanzo per bocca di Kim, il commissario politico.
Tuttavia esprime un senso di delusione: il suo libro, a suo dire, non è riuscito a rappresentare la Resistenza in modo pieno, cosa riuscita soltanto a Beppe Fenoglio in Una questione privata, capace di serbare per tanti anni limpidamente la memoria fedele e a rappresentarne i valori.[3] Scrivere Il Sentiero dei nidi di ragno conclude ha bruciato la sua memoria, ha cancellato i ricordi di
«quell’esperienza che custodita per gli anni della vita […] sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non […] è bastata che a scrivere il primo»
(Italo Calvino, 1964.)
Premi e riconoscimenti
Nel 1947 il libro presentato al Premio Mondadori viene scartato. Lo stesso anno vince la prima edizione del Premio Riccione.
Influenza culturale
Il contenuto del libro è stato ripreso nel 2005 dai Modena City Ramblers nella canzone Il Sentiero contenuta nell’album Appunti Partigiani.[9]
Edizioni
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana I Coralli n.11, Torino, Einaudi, ottobre 1947.
Il sentiero dei nidi di ragno, Nota introduttiva dell’Autore, Collana Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria n.63, Torino, Einaudi, 1954. [edizione con testo modificato]
Il sentiero dei nidi di ragno, Con una prefazione dell’Autore, Collana I Coralli, Torino, Einaudi, 1964. [edizione definitiva con testo ancora riveduto, appare in anticipo presso il Club degli Editori]
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Nuovi Coralli n.16, Torino, Einaudi, 1972-1991. – Collana Einaudi Tascabili, 2002.
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Gli elefanti, Milano, Garzanti, 1987-1992.
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Oscar Opere di Italo Calvino, Milano, Mondadori, settembre 1993. – Con uno scritto di Cesare Pavese, Collana Oscar, Mondadori, 2011; Collana Oscar Moderni n.55, Mondadori, 2016-2019.
Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45)
Giulio Einaudi editore
Il libro di Michela Ponzani «Avevo combattuto una guerra senza bombe e senza panni militari e ciò che rimaneva di me non si leggeva su uno stato di servizio […]. La guerra aveva risparmiato le nostre vite ma cancellato l’identità, l’anima; quella di prima era sepolta per sempre».
Queste le parole che Annamaria L. ha voluto scrivere in una giornata di primavera del 1990, ormai rimasta sola e anziana, nella sua casa romana, a ricordare i terribili giorni del secondo conflitto mondiale.
Riannodando i fili della memoria sepolta per anni nell’oblio delle coscienze, il libro ricostruisce le molteplici, eterogenee e compenetranti storie di guerra di quelle donne anonime, non colte, lontane dalla partecipazione attiva nella politica, che subiscono passivamente le sofferenti ricadute della guerra totale, fatta di rastrellamenti, bombardamenti, stragi e stupri di massa.
Le pagine che seguono raccontano anche le motivazioni ideali che stanno dietro alla scelta orgogliosa, per nulla scontata e mai rinnegata, di chi volle resistere: è la «guerra privata» di donne che smettono improvvisamente di sentirsi soltanto madri o figlie, che decidono di lottare non solo contro l’occupante tedesco o i militi fascisti della Repubblica Sociale; la «loro guerra» è anzitutto un conflitto per la liberazione di se stesse, anche dal pregiudizio morale e dalla discriminazione sociale imposta dalla cultura maschile.
***
Per secoli bottino degli eserciti invasori, tra il 1940 e il 1945 le donne si ribellano alla cultura di guerra che usa lo stupro per umiliare il nemico sconfitto. Attraverso le lettere private del fondo Rai – La mia guerra e dell’Archivio della memoria delle donne di Bologna, il libro di Michela Ponzani ricostruisce la resistenza delle donne che vollero combattere la «guerra totale». Dietro la retorica del martire antifascista, la lotta armata al nazismo e al fascismo di Salò è per le partigiane un momento attraversato da tormenti interiori, da incertezze e paure. Ma è anche una guerra privata per l’emancipazione femminile, una sfida ai pregiudizi della società italiana e degli stessi compagni di banda. Oltre questo piccolo esercito che sceglie con coscienza la lotta antifascista, il libro ricostruisce le tattiche di sopravvivenza delle vittime della «guerra ai civili»: sole con i mariti inviati al fronte, dispersi o deportati, le donne rompono il muro del silenzio sugli stupri di massa, commessi dalle truppe occupanti tedesche e dai marocchini nel Basso Lazio. Ma la guerra è fatta anche di «contatti tra nemici»: molte donne s’innamorano del «tedesco invasore », da cui avranno anche dei figli. Considerate nel dopoguerra le «amanti del nemico», la loro storia sarà cancellata dalla memoria nazionale in nome del mito dell’eroina e madre, simbolo della nuova Italia democratica.
Breve biografia di Michela Ponzani –(Roma 1978) insegna Storia contemporanea all’Università degli studi di Roma «Tor Vergata». Autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è stata borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino e consulente dell’Archivio storico del Senato della Repubblica. Già Visiting Fellow presso il Remarque Institute della New York University, ha fatto parte del gruppo di ricerca della Commissione storica bilaterale italo-tedesca. Fra le sue pubblicazioni: Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-48 (Laterza 2015) e, con Massimiliano Griner, Donne di Roma. La lunga strada dell’emancipazione femminile nella città eterna (Rizzoli 2017). Per Einaudi ha pubblicato, con Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtú, (2011), Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45) (2012 e 2021) e Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022 (2023).
Michela Ponzani
Verso il 25 aprile: la Resistenza delle donne, di ieri e di oggi, per continuare a essere libere-
Articolo di Michela Ponzani
Michela Ponzani, storica, autrice e conduttrice televisiva, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di “Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45)”. In questo contributo, scritto per A Parole Nostre, ci spiega perché il coraggio, il sacrificio e la lotta di quelle protagoniste della Seconda guerra siano valori ancor più attuali adesso, soprattutto per le nuove generazioni
Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Bersagli strategici dei nazisti e dei militi della Repubblica sociale, sono le donne a scontare con maggiore crudeltà una strategia terroristica fatta di stragi e rastrellamenti, di incendi a paesi e villaggi; di fucilazioni e torture sui corpi dei prigionieri politici.
Ma nella disperata lotta per la sopravvivenza, le donne decidono di non essere più vittime. E si ribellano a quella cultura di guerra che usa lo stupro come arma per umiliare il nemico sconfitto, riducendo il corpo femminile a bottino e preda degli eserciti (occupanti o liberatori).
Le memorie taciute delle donne raccontano storie di coraggio e di rivolta. E come ho ricordato in Guerra alle donne (Einaudi), ciò vale soprattutto per gli stupri di massa, compiuti dalle truppe marocchine e algerine nella primavera-estate del 1944 e le violenze subite dalle donne costrette a prostituirsi nei campi bordello, costruiti dall’esercito tedesco dietro la linea Gotica. Veri e propri tabù nella memoria nazionale e nel senso comune dell’Italia del dopoguerra.
La lotta partigiana delle donne è quindi una guerra di liberazione anzitutto contro la criminale violenza nazifascista; ma è anche una scelta di libertà. Una guerra privata, combattuta per l’emancipazione dalle discriminazioni e da ogni forma di subalternità sociale e culturale. Per le donne, la Resistenza è un atto di disobbedienza radicale; uno strappo definitivo con la società patriarcale, la liberazione dall’educazione fascista improntata al rispetto delle gerarchie fuori e dentro le mura domestiche, che le condanna ad essere la “pietra fondamentale della casa, la sposa e la madre esemplare”. Che non permette d’iscriversi alle facoltà scientifiche e considera irrazionale la mente femminile, perché “il genio è maschio”.
Ma perché oggi una ragazza dovrebbe appassionarsi a vicende che hanno più 70 anni?
Al di là di discorsi ingessati o retorico-celebrativi, forse la risposta sta nel fatto che quelle storie – con le emozioni, le paure, i tormenti che segnano la scelta partigiana, dolorosa e carica di responsabilità – continuano a parlare al nostro presente.
Perché se oggi il destino delle donne non è più quello di stare a casa e di lasciare tutto il mondo agli uomini, è grazie alle ragazze che hanno combattuto la dittatura fascista, rinunciando alla spensieratezza della gioventù.
E che nel dopoguerra hanno continuato a battersi, affrontando discriminazioni insopportabili.
“Donna partigiana, donna puttana” si sentì dire Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare, durante un dibattito alla Camera da alcuni deputati della destra postfascista, con tanto di inequivocabili gesti osceni. E Marisa Rodano (che ha da poco festeggiato i 100 anni) ha raccontato che “negli anni ’50 le carceri erano piene di adultere”. Il marito poteva spedire la moglie in galera, se questa aveva una relazione con un altro uomo.
Fortissime erano poi le disparità nella sfera domestica e professionale: le donne non potevano divorziare o interrompere una gravidanza, né diventare giudici o poliziotte perché troppo fragili.
Persino ucciderle non era così grave: la legge, concedeva le attenuanti se un uomo, per ragioni di onore, uccideva la moglie, la sorella o la figlia (il delitto d’onore sarà abrogato solo nel 1981). Altre norme permettevano di picchiare la moglie per correggerne il carattere e giustificavano lo stupro se seguito da un matrimonio riparatore (solo nel 1996 diverrà reato contro la persona e non contro la morale). Le ragazze della Resistenza lasciano dunque il testimone alle generazioni future. Non scorderò mai quella studentessa di liceo che trovò il coraggio di parlare delle violenze subite in famiglia, dopo aver letto il diario di una partigiana. Le venne il desiderio di diventare una donna libera (disse proprio così). Grazie al movimento #MeToo, abbiamo squarciato il velo d’ipocrisia sugli abusi e le molestie sessuali (non solo nel mondo dello spettacolo) e abbiamo più coraggio nel denunciare gesti e parole di offesa, urlate o allusive. E possiamo dichiarare, senza il timore di essere considerate pazze o esagerate, di non sopportare più allusioni sessuali non richieste (in ufficio, a un colloquio di lavoro o all’università), o di vederci sminuite nella nostra professione; come quando la dottoressa che ti visita in ospedale viene definita signorina.
Ma l’emergenza Covid-19, che ci ha rintanate in casa, ha visto aumentare i femminicidi. Perché quando si è fragili e abbandonate a una vita di isolamento e degrado, è proprio la famiglia a trasformarsi in un’orrenda prigione. E ci arrivano come macigni le notizie di uomini che odiano e ammazzano le donne: “buoni padri di famiglia” che uccidono per “troppo amore”; uomini “per bene” travolti da un raptus perché “lei voleva lasciarlo”. E allora festeggiamo questo 25 aprile con le parole che Marisa Ombra, staffetta nelle brigate Garibaldi ha dedicato a tutte noi. “Siate partigiane, per essere libere sempre”.
*Storica, autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45) (Einaudi, pp. 384, € 14,00)
traduzione di Eleonora Tomassini-L’Orma editore srl
Irmgard Keun
Irmgard Keun «Ero convinta di aver scritto il miglior romanzo di tutti i tempi… Non badavo affatto alla mia età, d’altronde sono sempre stata vecchissima, fin da piccola.»Irmgard Keun Una scrittrice un tempo famosissima vive, fuma e beve in un piccolo appartamento alla periferia di Colonia. I suoi libri sono abitati da ragazze troppo libere e affamate di felicità per non spaventare un regime di maschi eternamente in divisa. Non a caso sono stati bruciati dai nazisti e mai più ristampati. Alla fine degli anni Settanta, però, i tempi sono maturi: Irmgard Keun viene riscoperta e un’intera nazione riprende a leggerla. Allora giornali, radio e televisioni cominciano a contendersela, chiedendole di raccontare la sua incredibile vita: i caffè letterari della Berlino degli anni Venti, l’immenso successo internazionale arriso ai suoi due primi romanzi, la persecuzione politica, le scorribande dell’esilio con il compagno Joseph Roth fino all’avventuroso ritorno in Germania sotto le bombe, dopo che si era diffusa la falsa notizia del suo suicidio. Non sono mai stata il mio tipo, pubblicato in patria nel 2022, racconta in nove interviste inedite la straordinaria storia di Irmgard Keun. Alternando modestia e sfacciataggine, nostalgia e gratitudine, questa originalissima e ironica autrice tedesca ripercorre l’avventura della propria esistenza con il ritmo incalzante di una mai sopita voglia di meravigliarsi.
Irmgard Keun
Irmgard Keun
Breve Biografia di Irmgard Keun (1905-1982) è stata una delle scrittrici più originali del suo tempo ed è al centro ormai da anni di una riscoperta da parte di critica e pubblico. Compagna di Joseph Roth, fu spinta alla scrittura da Alfred Döblin che ne ammirava la vivace intelligenza e l’umorismo fulminante. È autrice di sceneggiature, reportage e una dozzina di romanzi in cui ha raccontato le contraddizioni della società europea prima e durante la Seconda guerra mondiale, concentrandosi in particolare sulla condizione della donna. Le sue opere furono proibite dai nazisti; per tutta risposta l’autrice fece causa allo Stato per danni. All’inizio degli anni Trenta, i suoi Gilgi, una di noi (1931) e Doris, la ragazza misto seta (1932) trasformarono Keun in un caso letterario e la resero una celebrità internazionale. In esilio dopo la censura subita scrisse Una bambina da non frequentare (1936), Dopo mezzanotte (1937) e Kully, figlia di tutti i Paesi (1938).
L’orma editore srl via Annia 58 – 00184 Roma tel. +39 06 87777326 e-mail info@lormaeditore.it
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.