Erik Larson-Il giardino delle bestie Berlino 1934-Neri Pozza Editore
Traduttore Raffaella Vitangeli-Neri Pozza Editore
Descrizione del libro di Erik Larson.Questo libro narra della storia vera di William E. Dodd e di sua figlia Martha, un padre e una giovane donna americani che si ritrovano improvvisamente trapiantati dalla loro accogliente casa di Chicago nel cuore della Berlino nazista del 1934. Sessantaquattro anni, snello, gli occhi grigio-azzurri e i capelli castano chiaro, nel 1933 William E. Dodd è un rispettabile professore di storia all’università di Chicago. Mentre siede alla sua scrivania all’università, Dodd riceve una telefonata da Franklin Delano Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti, che gli annuncia la sua intenzione di nominarlo a capo della rappresentanza diplomatica americana a Berlino. Ed è cosi che, al loro arrivo, William e Martha si ritrovano ad attraversare una città addobbata di immensi stendardi rossi, bianchi e neri; a sedere negli stessi caffè all’aperto frequentati dalle SS in uniforme nera; a passare davanti a case con balconi traboccanti di gerani rossi; a fare acquisti nei giganteschi empori della città, a organizzare tè, aspirare le fragranze primaverili del Tiergarten, il parco principale di Berlino; ad avere rapporti sociali con Goebbels e Göring, in compagnia dei quali cenare, danzare e divertirsi allegramente; finché, alla fine del 1934, accade un evento che smaschera la vera natura di Hitler e del potere a Berlino, la grande e nobile città che agli occhi di padre e figlia si svela per la prima volta come un immenso Tiergarten, un giardino delle bestie.
Biografia di Erik Larson-Nato a Brooklyn 1954- Collaboratore di Time, New Yorker, Atlantic Monthly, Harper’s e altre prestigiose riviste americane, ha scritto numerose opere, tra le quali si segnalano Isaac’s Storm (1999) e The Devil in the White City: Murder, Magic and Madness at the Fair That Changed America (2003), libro vincitore dell’Edgar Award in the Best Fact Crime 2004. In Italia sono già stati pubblicati Il giardino delle bestie (Neri Pozza, 2012) e Guglielmo Marconi e l’omicidio di Cora Crippen (Neri Pozza, 2014).
Nel 2015 esce Scia di morte. L’ultimo viaggio del Lusitania, ricostruzione dell’affondamento di un transatlantico americano ad opera della marina militare tedesca, avvenuto nel 1915. Nel 2016 pubblica Il diavolo e la città bianca.
Vive a Seattle con la moglie e tre figlie.
“Anima. Una pastorale selvaggia” , pubblicato da Crocetti Editore, è il quarto e ultimo volume che la scrittrice di origini bulgare Kapka Kassabova dedica alle regioni balcaniche meridionali, quelle comprese in particolare tra Macedonia e Bulgaria. Dopo avere riflettuto sul tema dei confini (in Confine), avere raccontato il versante macedone della sua famiglia (ne Il lago) ed esplorato la tradizione erboristica bulgara che ancora sopravvive nella valle formata dal fiume Mesta e racchiusa dal massiccio dei Rodopi con Elisir, qui l’autrice si concentra su un territorio più raccolto, la catena montuosa del Pirin, e su un tema in particolare, ovvero l’antico stile di vita dei pastori che lo abitano, insidiati dal capitalismo e dalla modernità. Kassabova vuole conoscere, approfondire, cercare le radici e le storie dei luoghi e di chi ci vive, perciò condivide per un certo periodo l’esistenza dei pastori e delle greggi e ne segue la transumanza, per poi descrivere l’asprezza, le difficoltà, l’isolamento, il legame quasi simbiotico tra gli uomini e i loro animali. Da tutto questo nasce un racconto profondamente empatico, più diretto e intimo rispetto ai precedenti, che mette al centro la relazione tra l’uomo e la natura, la fondamentale salvaguardia di quest’ultima e, soprattutto, l’importanza di tenere vive, non soltanto attraverso il ricordo, le antiche tradizioni popolari e culturali. In questo gran finale della sua tetralogia balcanica, straordinario ritratto della vita pastorale, Kapka Kassabova penetra più profondamente nello spirito del luogo di quanto non avesse mai fatto prima.
Traduzione: Anna Lovisolo;
Pagine: 448
Prezzo: € 22,00
ISBN: 9788883064340
Data Uscita: 03/09/2024
LA CASA EDITRICE CROCETTI
Fondata nel 1981 dal grecista e traduttore Nicola Crocetti, la casa editrice Crocetti è specializzata nella pubblicazione di opere di poesia e di letteratura neogreca, omaggio alle origini del suo fondatore.
In quasi quarant’anni di attività, la Crocetti ha pubblicato numerose opere di poeti italiani e stranieri, tra cui i Premi Nobel Ghiorgos Seferis, Odisseas Elitis, Saint-John Perse, Derek Walcott e Tomas Tranströmer. Nel catalogo figurano inoltre volumi di Emily Dickinson, Antonio Machado, Walt Whitman, Ghiannis Ritsos, Costantino Kavafis, Louis Aragon, Kahlil Gibran, Rainer Maria Rilke, Edna St. Vincent Millay, Paul Valéry, Simone Weil, Yehuda Amichai, Anne Sexton, Manolis Anaghnostakis, Adrienne Rich, Jaime Saenz, Carol Ann Duffy, Thomas Bernhard. Quasi tutti i volumi sono pubblicati con il testo originale a fronte.
Tra gli autori italiani in catalogo, troviamo Alda Merini, Franco Loi, Antonella Anedda, Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani, Antonio Porta, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Aldo Nove, Giorgio Manganelli, Mariangela Gualtieri, Maria Grazia Calandrone, Pierluigi Cappello.
Oltre alle opere di singoli autori, la Crocetti ha inoltre pubblicati alcuni volumi collettanei, come le antologie della poesia basca, svedese, russa, greca e svizzera di lingua tedesca.
Da alcuni volumi editi dalla Crocetti sono stati tratti spettacoli teatrali interpretati da importanti attori italiani. Ne sono un esempio alcuni monologhi drammatici di Ghiannis Ritsos, portati sul palcoscenico, tra gli altri, da Moni Ovadia, Paolo Rossi, Anna Bonaiuto, Elisabetta Vergani, Isabella Ragonese, Luigi Lo Cascio ed Elisabetta Pozzi.
Nel 1995 alle collane di poesia si è aggiunta la collana di narrativa neogreca “Aristea”, che ha proposto ai lettori alcuni dei romanzi greci più venduti e letterariamente più rilevanti del Ventesimo secolo, finora assolutamente sconosciuti al pubblico italiano.
Nel 2020 la Crocetti è stata acquisita dal gruppo Feltrinelli e ha inaugurato questa nuova fase cominciando a ristampare i titoli che l’hanno resa una delle più prestigiose case editrici italiane.
LA RIVISTA “POESIA”
Nel gennaio 1988 Nicola Crocetti ha fondato “Poesia”, la rivista mensile di cultura poetica più diffusa d’Europa. Fin dal primo numero, le caratteristiche principali di “Poesia” sono state: il taglio internazionale e informativo, la distribuzione capillare nelle edicole e un apparato iconografico che finalmente consentiva ai lettori di conoscere i volti dei poeti.
La distribuzione nelle edicole ha permesso alla rivista di raggiungere un pubblico molto vasto, distribuito su tutto il territorio nazionale. La tiratura di “Poesia” ha raggiunto in passato le 50.000 copie. Molte tra le maggiori Università europee e tra le più prestigiose Università americane sono abbonate alla rivista fin dal primo numero. Nei suoi trentatré anni di vita, “Poesia” ha venduto complessivamente circa tre milioni di copie.
L’alto interesse non solo italiano nei confronti di questa rivista può essere verificato digitando la parola “poesia” sul motore di ricerca Google: su oltre cento milioni di pagine la rivista “Poesia” risulta in prima posizione tra quelle regolarmente visitate.
Del comitato di redazione di “Poesia”, garante del suo alto livello culturale, fanno o hanno fatto parte sei Premi Nobel per la Letteratura (il russo-americano Joseph Brodsky, il caraibico Derek Walcott, l’irlandese Seamus Heaney, il greco Odisseas Elitis, il polacco Czesław Miłosz e lo svedese Tomas Tranströmer), oltre a poeti di fama nazionale e internazionale, come Yves Bonnefoy, Tony Harrison, Charles Wright, Adam Zagajewski, Durs Grünbein, Paul Muldoon, Antonella Anedda, Milo De Angelis, Nicola Gardini, Franco Loi, Vivian Lamarque, Silvio Ramat.
Dopo che per i primi tre anni “Poesia”è stata diretta dai poeti Patrizia Valduga e Maurizio Cucchi, nel 1991 la direzione è stata assunta da Nicola Crocetti, e la rivista si è sempre più caratterizzata per la sua vocazione internazionale. Nei 358 numeri usciti con cadenza mensile fino all’aprile 2020 e nelle sue 30.000 pagine, la rivista ha proposto centinaia di articoli su poeti tradotti per la prima volta in italiano e di nuove traduzioni di poeti ancora sconosciuti in Italia. In totale ha pubblicato quasi 3.500 poeti, tra i maggiori a livello nazionale e internazionale, e oltre 36.000 poesie tradotte da una quarantina di lingue, quasi sempre con il testo originale a fronte.
La casa editrice Crocetti ha organizzato anche diversi festival di poesia. In collaborazione con il Comune di Parma e il Teatro Due, dal 2004 al 2012 ha curato la sezione internazionale del Festival di poesia di Parma, uno dei più prestigiosi appuntamenti culturali di quegli anni, al quale sono intervenuti alcuni dei maggiori poeti del mondo.
Nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha assegnato a “Poesia”un riconoscimento per la sua attività di diffusione della poesia in Italia, consegnato al direttore della rivista Nicola Crocetti il 12 maggio 2003 al Quirinale dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Con il passaggio al gruppo Feltrinelli, dal maggio 2020 “Poesia” ha cambiato veste grafica, periodicità (da mensile in bimestrale) e canale distributivo (dalle edicole alle librerie). Non è mutata, però, la passione con cui i suoi redattori e i collaboratori raccontano da trentaquattro anni il mondo poetico italiano e internazionale.
Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45)
Giulio Einaudi editore
Il libro di Michela Ponzani «Avevo combattuto una guerra senza bombe e senza panni militari e ciò che rimaneva di me non si leggeva su uno stato di servizio […]. La guerra aveva risparmiato le nostre vite ma cancellato l’identità, l’anima; quella di prima era sepolta per sempre».
Queste le parole che Annamaria L. ha voluto scrivere in una giornata di primavera del 1990, ormai rimasta sola e anziana, nella sua casa romana, a ricordare i terribili giorni del secondo conflitto mondiale.
Riannodando i fili della memoria sepolta per anni nell’oblio delle coscienze, il libro ricostruisce le molteplici, eterogenee e compenetranti storie di guerra di quelle donne anonime, non colte, lontane dalla partecipazione attiva nella politica, che subiscono passivamente le sofferenti ricadute della guerra totale, fatta di rastrellamenti, bombardamenti, stragi e stupri di massa.
Le pagine che seguono raccontano anche le motivazioni ideali che stanno dietro alla scelta orgogliosa, per nulla scontata e mai rinnegata, di chi volle resistere: è la «guerra privata» di donne che smettono improvvisamente di sentirsi soltanto madri o figlie, che decidono di lottare non solo contro l’occupante tedesco o i militi fascisti della Repubblica Sociale; la «loro guerra» è anzitutto un conflitto per la liberazione di se stesse, anche dal pregiudizio morale e dalla discriminazione sociale imposta dalla cultura maschile.
***
Per secoli bottino degli eserciti invasori, tra il 1940 e il 1945 le donne si ribellano alla cultura di guerra che usa lo stupro per umiliare il nemico sconfitto. Attraverso le lettere private del fondo Rai – La mia guerra e dell’Archivio della memoria delle donne di Bologna, il libro di Michela Ponzani ricostruisce la resistenza delle donne che vollero combattere la «guerra totale». Dietro la retorica del martire antifascista, la lotta armata al nazismo e al fascismo di Salò è per le partigiane un momento attraversato da tormenti interiori, da incertezze e paure. Ma è anche una guerra privata per l’emancipazione femminile, una sfida ai pregiudizi della società italiana e degli stessi compagni di banda. Oltre questo piccolo esercito che sceglie con coscienza la lotta antifascista, il libro ricostruisce le tattiche di sopravvivenza delle vittime della «guerra ai civili»: sole con i mariti inviati al fronte, dispersi o deportati, le donne rompono il muro del silenzio sugli stupri di massa, commessi dalle truppe occupanti tedesche e dai marocchini nel Basso Lazio. Ma la guerra è fatta anche di «contatti tra nemici»: molte donne s’innamorano del «tedesco invasore », da cui avranno anche dei figli. Considerate nel dopoguerra le «amanti del nemico», la loro storia sarà cancellata dalla memoria nazionale in nome del mito dell’eroina e madre, simbolo della nuova Italia democratica.
Breve biografia di Michela Ponzani –(Roma 1978) insegna Storia contemporanea all’Università degli studi di Roma «Tor Vergata». Autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è stata borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino e consulente dell’Archivio storico del Senato della Repubblica. Già Visiting Fellow presso il Remarque Institute della New York University, ha fatto parte del gruppo di ricerca della Commissione storica bilaterale italo-tedesca. Fra le sue pubblicazioni: Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-48 (Laterza 2015) e, con Massimiliano Griner, Donne di Roma. La lunga strada dell’emancipazione femminile nella città eterna (Rizzoli 2017). Per Einaudi ha pubblicato, con Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtú, (2011), Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45) (2012 e 2021) e Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022 (2023).
Verso il 25 aprile: la Resistenza delle donne, di ieri e di oggi, per continuare a essere libere-
Articolo di Michela Ponzani
Michela Ponzani, storica, autrice e conduttrice televisiva, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di “Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45)”. In questo contributo, scritto per A Parole Nostre, ci spiega perché il coraggio, il sacrificio e la lotta di quelle protagoniste della Seconda guerra siano valori ancor più attuali adesso, soprattutto per le nuove generazioni
Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Bersagli strategici dei nazisti e dei militi della Repubblica sociale, sono le donne a scontare con maggiore crudeltà una strategia terroristica fatta di stragi e rastrellamenti, di incendi a paesi e villaggi; di fucilazioni e torture sui corpi dei prigionieri politici.
Ma nella disperata lotta per la sopravvivenza, le donne decidono di non essere più vittime. E si ribellano a quella cultura di guerra che usa lo stupro come arma per umiliare il nemico sconfitto, riducendo il corpo femminile a bottino e preda degli eserciti (occupanti o liberatori).
Le memorie taciute delle donne raccontano storie di coraggio e di rivolta. E come ho ricordato in Guerra alle donne (Einaudi), ciò vale soprattutto per gli stupri di massa, compiuti dalle truppe marocchine e algerine nella primavera-estate del 1944 e le violenze subite dalle donne costrette a prostituirsi nei campi bordello, costruiti dall’esercito tedesco dietro la linea Gotica. Veri e propri tabù nella memoria nazionale e nel senso comune dell’Italia del dopoguerra.
La lotta partigiana delle donne è quindi una guerra di liberazione anzitutto contro la criminale violenza nazifascista; ma è anche una scelta di libertà. Una guerra privata, combattuta per l’emancipazione dalle discriminazioni e da ogni forma di subalternità sociale e culturale. Per le donne, la Resistenza è un atto di disobbedienza radicale; uno strappo definitivo con la società patriarcale, la liberazione dall’educazione fascista improntata al rispetto delle gerarchie fuori e dentro le mura domestiche, che le condanna ad essere la “pietra fondamentale della casa, la sposa e la madre esemplare”. Che non permette d’iscriversi alle facoltà scientifiche e considera irrazionale la mente femminile, perché “il genio è maschio”.
Ma perché oggi una ragazza dovrebbe appassionarsi a vicende che hanno più 70 anni?
Al di là di discorsi ingessati o retorico-celebrativi, forse la risposta sta nel fatto che quelle storie – con le emozioni, le paure, i tormenti che segnano la scelta partigiana, dolorosa e carica di responsabilità – continuano a parlare al nostro presente.
Perché se oggi il destino delle donne non è più quello di stare a casa e di lasciare tutto il mondo agli uomini, è grazie alle ragazze che hanno combattuto la dittatura fascista, rinunciando alla spensieratezza della gioventù.
E che nel dopoguerra hanno continuato a battersi, affrontando discriminazioni insopportabili.
“Donna partigiana, donna puttana” si sentì dire Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare, durante un dibattito alla Camera da alcuni deputati della destra postfascista, con tanto di inequivocabili gesti osceni. E Marisa Rodano (che ha da poco festeggiato i 100 anni) ha raccontato che “negli anni ’50 le carceri erano piene di adultere”. Il marito poteva spedire la moglie in galera, se questa aveva una relazione con un altro uomo.
Fortissime erano poi le disparità nella sfera domestica e professionale: le donne non potevano divorziare o interrompere una gravidanza, né diventare giudici o poliziotte perché troppo fragili.
Persino ucciderle non era così grave: la legge, concedeva le attenuanti se un uomo, per ragioni di onore, uccideva la moglie, la sorella o la figlia (il delitto d’onore sarà abrogato solo nel 1981). Altre norme permettevano di picchiare la moglie per correggerne il carattere e giustificavano lo stupro se seguito da un matrimonio riparatore (solo nel 1996 diverrà reato contro la persona e non contro la morale). Le ragazze della Resistenza lasciano dunque il testimone alle generazioni future. Non scorderò mai quella studentessa di liceo che trovò il coraggio di parlare delle violenze subite in famiglia, dopo aver letto il diario di una partigiana. Le venne il desiderio di diventare una donna libera (disse proprio così). Grazie al movimento #MeToo, abbiamo squarciato il velo d’ipocrisia sugli abusi e le molestie sessuali (non solo nel mondo dello spettacolo) e abbiamo più coraggio nel denunciare gesti e parole di offesa, urlate o allusive. E possiamo dichiarare, senza il timore di essere considerate pazze o esagerate, di non sopportare più allusioni sessuali non richieste (in ufficio, a un colloquio di lavoro o all’università), o di vederci sminuite nella nostra professione; come quando la dottoressa che ti visita in ospedale viene definita signorina.
Ma l’emergenza Covid-19, che ci ha rintanate in casa, ha visto aumentare i femminicidi. Perché quando si è fragili e abbandonate a una vita di isolamento e degrado, è proprio la famiglia a trasformarsi in un’orrenda prigione. E ci arrivano come macigni le notizie di uomini che odiano e ammazzano le donne: “buoni padri di famiglia” che uccidono per “troppo amore”; uomini “per bene” travolti da un raptus perché “lei voleva lasciarlo”. E allora festeggiamo questo 25 aprile con le parole che Marisa Ombra, staffetta nelle brigate Garibaldi ha dedicato a tutte noi. “Siate partigiane, per essere libere sempre”.
*Storica, autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45) (Einaudi, pp. 384, € 14,00)
Il nuovo romanzo di Serena McLeen- “IL PESO DELLA VERGOGNA”
Sinossi del libro di Serena McLeen. Dopo la morte dell’amata nonna Angela Bramante, Annabella viene a conoscenza dell’esistenza di Villa dei Conti Bramante, la maestosa e vecchia dimora nella quale, in un piccolo paese della bassa pianura padana, proprio la nonna ha vissuto la sua giovinezza, per poi scappare alcuni anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale lasciandosi quel passato alle spalle per sempre.Annabella dovr&agrvae; accettare quel lascito e ristrutturare la casa, oppure rinunciarvi: ad aiutarla a scegliere cosa fare sarà una lettera che la nonna le ha lasciato. Ma cosa si nasconde tra le righe di quello scritto? Quando Annabella finalmente scioglierà i propri dubbi, imbarcandosi nel compito affidatole dalla nonna, si immergerà fra le pagine del diario e fra i più dolorosi ricordi di quella parte della vita di Angela, a lei sconosciuta e legata agli anni bui del Fascismo e della guerra. In un momento di crisi artistica e professionale, Annabella troverà nuova ispirazione nella ricerca della verità e nell’incontro con Francesco, che gestisce con la madre la locanda di paese, ma allo stesso tempo scoprirà che dell’eredità della nonna fa parte anche l’inconfessabile storia della sua stessa famiglia: un capitolo torbido e pregno di segreti per colpa del quale Angela ha vissuto tutta la vita sotto il peso della vergogna.Una giovane donna in cerca di se stessa, i terribili segreti di un passato sepolto ma non morto: nel contesto storico della Seconda Guerra Mondiale, un romanzo psicologico che rivela le pieghe più oscure dell’animo umano.
Traduzione di Franca Pece, Anna Raffetto A cura di Anna Raffetto-Editore Adelphi
SINOSSI-Il romanzo più perfetto di Vladimir Vladimirovič Nabokov «Fuoco pallido è una scatola magica, una gemma di Fabergé, un giocattolo a orologeria, un problema di scacchi, una macchina infernale, una trappola per i critici, un gioco del gatto col topo, un romanzo fai da te. È costituito da un poema di 999 versi divisi in quattro canti in distici eroici, con tanto di prefazione dell’editore, note, indice e correzioni redazionali. Quando le diverse parti vengono assemblate seguendo le indicazioni dell’artefice, e incastrate con l’aiuto di indizi e riferimenti incrociati che devono essere scovati come in una caccia al tesoro, si rivela un romanzo a più livelli, e questi “livelli” non sono i consueti “livelli di significato” della critica modernista, ma piani in uno spazio fittizio, come quelle stanze della memoria nella mnemotecnica medioevale dove parole, fatti e numeri venivano immagazzinati in varie camere e soffitte fino a che non se ne aveva bisogno, o come le case astrologiche in cui erano divisi i cieli».
Benché universalmente noto per il suo Lolita (1955), scritto in inglese e base per l’omonimo film del 1962 di Stanley Kubrick, Nabokov vanta anche una considerevole produzione in russo; la sua narrativa spazia su varie tematiche, quali la frammentazione sociale, l’ossessione del sesso e la distopia, mentre in ambito saggistico scrisse di entomologia e di scacchi, dei quali era teorico prima ancora che giocatore.
Figlio di Vladimir Dmitrievič Nabokov, noto politico che finì assassinato da Sergey Taboritsky durante un attentato contro Pavel Milyukov, ed Elena Ivanovna Rukavišnikova, nacque da una nobile famiglia russa a San Pietroburgo, dove trascorse l’infanzia e la giovinezza in una casa che ora ospita un museo dedicato allo scrittore. Poiché in famiglia si parlavano correntemente sia il russo sia l’inglese sia il francese, fin dalla sua più tenera età Nabokov fu in grado di comprendere e parlare queste lingue, come narra nella sua autobiografiaParla, ricordo. I Nabokov lasciarono la Russia dopo la rivoluzione del 1917 per recarsi in una tenuta di alcuni amici in Crimea, dove rimasero per un anno e mezzo. A seguito della disfatta dell’Armata Bianca in Crimea, abbandonarono definitivamente la Russia e si trasferirono in Occidente, in Gran Bretagna.
Nel 1922 completò gli studi di slavo e di lingue romanze al Trinity College dell’Università di Cambridge. Si trasferì quindi a Berlino, dove il padre venne assassinato il 28 di marzo, e poi a Parigi, acquistando una sempre maggiore notorietà nell’ambiente dei russi emigrati, grazie ai suoi primi scritti in russo, pubblicati sotto lo pseudonimo di Sirin. Nel 1925 sposò Vera Slonim, dalla quale ebbe nel 1934 un bambino di nome Dmitri. Nabokov era sinestesico, caratteristica di cui descrive i diversi aspetti in molte sue opere. Nella sua raccolta di interviste e saggi Strong Opinions (Intransigenze), egli nota che anche la moglie e il figlio erano sinesteti, poiché associavano colori particolari a determinate lettere.
Nel 1940 si trasferì negli Stati Uniti e nel 1945 prese la cittadinanza statunitense. Da quel momento egli scrisse in inglese e tradusse in questa lingua alcune delle sue opere precedenti. Insegnò letteratura russa per undici anni presso l’Università Cornell di Ithaca, dove tenne anche un corso di scrittura creativa (seguito nel 1959 da Thomas Pynchon) e negli ultimi anni visse in Svizzera, a Montreux, dove alternò la sua attività letteraria con quella delle appassionate ricerche di entomologo. Morì a Montreux in Svizzera nel 1977.
I romanzi di vita statunitense
posa come un pugile, fotografia di Giuseppe Pino per Mondadori (anni 1960), archivio Getty Images
Nel 1955 venne pubblicato con grande successo il romanzo Lolita che fece conoscere Nabokov ad un pubblico mondiale, offrendo una perfetta immagine “interna” degli USA, con i suoi miti e le sue ossessioni, soprattutto il sesso.
Il romanzo ebbe molta influenza sugli stessi narratori statunitensi della nuova generazione e, in modo particolare, su John Barth. Riguardo alla genesi del libro, alle critiche e alle censure intentate al romanzo per il suo tema scabroso, nel 1956 Nabokov scrisse una postfazione intitolandola Note su un libro chiamato Lolita, da allora allegata a ogni edizione del romanzo nella quale spiega la genesi del libro, le vicissitudini occorse per stamparlo; l’autore conclude riferendosi alla propria madrelingua abbandonata nel 1940, quando emigrò negli Stati Uniti. La prima versione in russo fu tradotta dallo stesso Nabokov: apparve da Phaedra a New York nel 1967; l’autore vi inserì un poscritto in cui indaga ulteriormente il rapporto con la lingua russa.
Nabokov afferma nello scritto del 1956 di aver realizzato il romanzo secondo i canoni dell’arte pura o “arte per l’arte“, uniformando quindi la propria poetica ai canoni dell’estetismo[2]:
«Nessuno scrittore, in un paese libero, dovrebbe essere costretto a preoccuparsi dell’esatta linea di demarcazione tra il sensuale e l’erotico; è una cosa assurda; io posso solo ammirare, ma non emulare, l’occhio di chi mette in posa le belle, giovani mammifere che compaiono sulle riviste, scollate quanto basta per far contento l’intenditore, e accollate quanto basta per non scontentare il censore. Immagino che certi lettori trovino eccitante lo sfoggio di frasi murali di quei romanzi irrimediabilmente banali ed enormi, battuti a macchina con due dita da persone tese e mediocri, e definiti dai pennivendoli “vigorosi” e “incisivi”. Ci sono anime miti che giudicherebbero Lolita insignificante perché non insegna loro nulla. Io non sono né un lettore di narrativa didattica, e, a dispetto delle affermazioni di John Ray[3], Lolita non si porta dietro nessuna morale. Per me un’opera narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma. Gli altri sono pattume d’attualità o ciò che alcuni chiamano la Letteratura delle Idee, la quale consta molto spesso di scempiaggini di circostanza che vengono amorosamente trasmesse di epoca in epoca in grandi blocchi di gesso finché qualcuno non dà una bella martellata a Balzac, a Gorkij, a Mann.»
(Vladimir Nabokov, Postfazione a Lolita, presente nell’edizione Adelphi)
Dopo Pnin del 1957, che esplorava in modo ironico la realtà dei college statunitensi, lo scrittore riprende il tema producendo, nel 1962, una delle sue opere formalmente più mature, Fuoco pallido (Pale fire).
Segue, nel 1969, Ada o ardore (Ada or ardor: A family chronicle) che offre una suggestiva sintesi dell’arte di Nabokov. Ritornano in questo romanzo, stravolti da una scrittura ironica, tutti i temi dello scrittore: l’ambigua duplicità della realtà, la passione del gioco, del puzzle, l’ossessione del sesso.
La sua carriera di entomologo fu altrettanto notevole. Nel 1940 gli fu affidato l’incarico di organizzare la collezione di farfalle al Museo di Zoologia Comparata dell’università di Harvard. I suoi scritti in questo campo sono molto tecnici. Questa tecnicità, combinata al fatto che la sua specializzazione era la tribù dei Polyommatini della famiglia Lycaenidae, relativamente poco attraente, ha comportato che questo lato della sua vita sia rimasto poco esplorato dagli ammiratori delle sue opere letterarie.
Il paleontologo e saggistaStephen Jay Gould ha discusso l’entomologia di Nabokov in un saggio ristampato nel libro I Have Landed. Gould rileva che Nabokov è stato occasionalmente uno scienziato ‘retrogrado’, non accettando mai, ad esempio, che la genetica o il numero di cromosomi potesse essere un valido modo per distinguere le varie specie di insetti. Alcuni ammiratori di Nabokov hanno provato a riconoscere un valore letterario a tali lavori scientifici, rileva ancora Gould. Altri hanno sostenuto che la sua opera scientifica ha dato un contributo fondamentale alla sua opera letteraria. Gould afferma invece che entrambe traggono origine dall’amore di Nabokov per i dettagli, l’osservazione e la simmetria.
Per una storia dell’amicizia tra Baldassarre Castiglione e Raffaello-
Viella Libreria Editrice-ROMA
In copertina: Herman Posthumus, Tempus edax rerum, 1536. Vienna, Museo Liechtenstein.
Sinossi-Nell’anno delle celebrazioni del quinto centenario della morte di Raffaello (1483-1520) le mostre e gli studi hanno ampiamente illustrato anche la rete delle sue relazioni culturali, in particolare negli anni romani. In questo contesto ha assunto grande importanza l’amicizia con Baldassarre Castiglione, sia per il ritratto ora al Louvre che ne è supremo documento, sia per la Lettera a Leone X, che sempre più gli studi storico-artistici tendono ad attribuire a Raffaello.
Questo libro, dopo avere ricostruito tempi e modi del lungo e intenso rapporto di amicizia, nel nome di Urbino, tra il letterato e il pittore, propone una serrata indagine filologica e documentaria, fondata sul primo manoscritto della Lettera, tutto di mano del solo Castiglione. Dimostra che l’autore fu unicamente il letterato, che la elaborò e scrisse, come allora era in uso, “in persona” di Raffaello (cioè, a suo nome e per suo conto), e ovviamente con la sua diretta collaborazione soprattutto per le notizie sugli aspetti propriamente tecnici del grande progetto che il pittore aveva sperimentalmente avviato, interrotto però dalla sua prematura morte: eseguire con nuove procedure e nuovi strumenti il rilievo architettonico delle ruine dei monumenti antichi di Roma.
INDICE-
Premessa
1. Tra amici, un letterato e un pittore
1. Per la storia di un’amicizia
2. Chi è nelle vesti di Zoroastro nella Scuola di Atene?
3. Ancora per la storia di un’amicizia
4. Castiglione, le arti e Raffaello pittore
5. Qualcosa su Giovanni Santi
6. Per conformità culturale: nel nome della grazia
7. Il ritratto di Castiglione dipinto da Raffaello
8. La morte di Raffaello
9. Raffaello nelle lettere di Castiglione
10. Castiglione e
11. Castiglione di nuovo negli affreschi vaticani?
12. Raffaello nel ricordo di Castiglione
2. La Lettera di Castiglione a Leone X
1. I dati di fatto: la Lettera scomparsa (per più di due secoli)
2. La Congettura di Daniele Francesconi
3. I dati di fatto: l’autografo ritrovato
4. I dati di fatto: i testimoni
5. Il testimone interpolante
6. I quattro testimoni in prima collazione
7. Come lavorava Castiglione?
8. Quando è stata scritta la Lettera?
9. Pubblicare la Lettera a Leone X
10. Da chi e come è stata scritta la Lettera?
11. I due amici e le due parti della Lettera
12. In persona di, a nome e per conto di: tipologie epistolari classicistiche
13. Raffaello semicolto, illetterato, o cosa?
14. Roma ai tempi della Lettera a Leone X
3. Un manifesto del Classicismo: la Lettera a Leone X
1. La prima parte: in forma di oratio ed exhortatio a Leone X
2. La prima parte: un compendio di storia delle forme architettoniche
3. La seconda parte: la descriptio di come Raffaello esegue il suo progetto
4. La lettera sulla villa del cardinale Giulio de’ Medici
Premio Nobel Isaac Bashevis Singer- “La famiglia Moskat” : ironia e guerra, morte e religione-
Longanesi Editore
“Alla mia destra è Michele. Alla mia sinistra è Raffaele. Davanti a me è Uriel.
Dietro di me è Gabriele. E sul mio capo la divina presenza di Dio.” Così accompagnata, la famiglia del vecchio patriarca Meshulam Moskat attraversa gli anni che dall’inizio del Novecento scendono fino alla seconda guerra mondiale e alla “soluzione finale” messa in atto dal regime nazista.
Ma il vero protagonista di questo possente romanzo è l’Ostjudentum, la società ebraico-orientale ? e in particolare quella di Varsavia ? con la sua complessa e densa cultura. Nel racconto di Singer le storie della decadenza parallela di una grande famiglia borghese e del suo mondo si tingono e si complicano delle particolarissime caratteristiche che una simile vicenda assume all’interno di una società “diversa”, che assiste al crollo della propria tradizione e della propria identità storica.
Breve biografia di Isaac Bashevis Singer nasce nel 1904 in un paese polacco che la guerra ha cancellato.PFiglio di un rabbino, comincia a scrivere a sedici anni in yiddish, un misto di antico ebraico e di lingue europee, e sempre in yiddish scrive i suoi romanzi, che un gruppo di fedeli collaboratori ha poi tradotto in inglese. Per sfuggire alle persecuzioni contro gli Ebrei, nel 1940 si è trasferito negli Stati Uniti dove muore nel 1991. Ha scritto una quantità di libri per i quali ha ricevuto il premio Nobel, e ha raccontato ai bambini di tutto il mondo le semplici, poetiche e umoristiche storie dei vecchi ghetti, conducendoli in un universo di favolosa saggezza
Con un articolo e un discorso di Claudio Treves,a cura di Giovanni Scirocco
BIBLION EDIZIONI
Dalla Presentazione di Paolo Bagnoli: «È passato un secolo dal discorso che Filippo Turati tenne alla Camera il 26 giugno 1920, comunemente conosciuto con il titolo Rifare l’Italia!. Di esso, nel corso degli anni, sono state riproposte diverse edizioni. Si tratta di un intervento rilevante, praticamente un vero e proprio saggio sulla situazione dell’Italia a meno di due anni dalla fine della guerra; un testo che Turati aveva a lungo meditato e che espose alla Camera confermando di essere un grande oratore […]. Spicca il richiamo che Turati fa alla funzione nazionale del socialismo. Esso, ora, viene concepito non solo quale forza di difesa e di organizzazione del proletariato, della sua lotta per l’emancipazione dei ceti più deboli e per il loro riscatto civile e sociale, ma quale forza di governo».
«Filippo Turati», come scrive un suo biografo, «è stato l’uomo politico che ha maggiormente inciso sulla storia del Partito socialista italiano. Il ruolo di maggior leader del socialismo nel nostro Paese è infatti indiscutibile sino al 1911; controverso ma comunque notevolissimo, sino al 1918; sempre molto importante sino al 1922; rilevante, soprattutto da un punto di vista intellettuale morale, prima ancora che politico, dal 1922 al 1932» (Franco Livorsi).
Dal moderatismo al radicalismo
Nato in un piccolo paese della Brianza dalla gentildonna Adele di Giovanni e da Pietro Turati, commissario distrettuale legato alla Destra storica, Filippo deve seguire il padre nei vari trasferimenti ai quali è costretto dalla carriera burocratica, da Mantova a San Remo, Forlì, Napoli, Pavia, Siracusa e Cremona dove diventa prefetto a partire dal 1873, senza che questo vagabondaggio gli impedisca di frequentare con profitto un regolare corso di studi. Dall’educazione familiare deriva un profondo legame con la tradizione risorgimentale e una certa impronta moderata da lui stesso sottolineata: «Io sono figlio di un prefetto, e probabilmente un certo lievito burocratico mi è rimasto nel sangue».
Determinanti, nell’orientarlo verso posizioni democratiche, sono le amicizie scolastiche, prima con Leonida Bissolati (1857-1920), compagno di liceo insieme al quale si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Pavia e si trasferisce dopo il biennio a Bologna; poi con Achille Loria (1857 – 1943) e con Enrico Ferri (18561929), incontrati all’ateneo bolognese. Qui si laurea a pieni voti nel 1877 con una tesi di economia politica; agli studi affianca la passione per la poesia; comporrà opere (Disordine, Il Mago, Credo) che saranno pubblicate nel 1878 su varie riviste.
Nello stesso periodo matura il graduale trapasso da un vago teismo spiritualista al positivismo, anche per l’influenza di Arcangelo Ghisieri (1855- 1938), cui si avvicina nel 1878 diventando presto redattore dei due fogli radicali da lui diretti («Preludio» e «Rivista repubblicana») mentre collabora con la rivista scapigliata milanese «La farfalla» e approfondisce lo studio del positivismo aderendo alla tesi del filosofo Roberto Ardigò (1828-1920) e del criminologo determinista Cesare Lombroso (1835-1909). A un crescente interesse per l’impegno sociale si alternano in questa fase una costante attrazione per la produzione poetica e la traduzione di canti popolari (Fiori del Nord, Fiori del Sud), e una preponderante attenzione al proprio privato, aggravata anche da una forma di nevrosi che lo porta alla depressione e lo spinge talora a coltivare idee di suicidio.
Solo nel 1882-83, Turati, che in questi anni gira l’Europa per cercare psichiatri in grado di curarlo, supera la propria crisi personale intensificando l’impegno politico, preannunciato alla fine del 1882 sul settimanale socialista «La Plebe» dal saggio Il delittoe la questione sociale, nel quale Turati difende le tesi lombrosiane contro i sostenitori del libero arbitrio, definito «una fola da donnicciole», e mette l’accento sui condizionamenti sociali (e non solo biologici) del comportamento criminale. Ciò segna anche il congedo ufficiale dalla poesia, sancito dalla raccolta in volume delle poesie giovanili e da un ultimo volume di traduzioni (Canti popolari slavi, greci e napoletani 1883), benché Turati continui a scrivere versi ancora per diversi anni, componendo fra l’altro, nel 1886, il Canto dei lavoratori, Inno delPartito Operaio Italiano.
L’adesione al socialismo
In questi anni, tuttavia, Turati non si discosta dalle posizioni radicali e democratiche, pur manifestandosi aperto alle idee del nascente movimento socialista italiano. Solo il deludente comportamento della Sinistra e l’immobilismo dell’Associazione democratica cui aderisce, lo spingono nel 1886 a caldeggiare un’alleanza elettorale col Partito operaio italiano di cui assume la difesa legale dopo lo scioglimento deciso da Depretis (1886) e favoriscono una sua graduale evoluzione verso posizioni socialiste e marxiste. A questa maturazione concorre in larga misura la socialista russa Anna Kuliscioff, da tempo attiva in Italia che diventa nel 1885 fedele compagna di Turati e lo mette in relazione con la socialdemocrazia europea.
Il socialismo e il marxismo di Turati hanno d’altra parte una forte impronta riformista, che resterà una costante della sua politica portandolo ad avversare l’anarchismo e il socialismo rivoluzionario e a ricercare invece sempre l’alleanza con le forze democratico-borghesi. Lo confermano nel 1889, la sua elezione a consigliere comunale di Milano con l’appoggio dei radicali e il programma della Lega socialista, da lui costituita nello stesso anno e rappresentata tramite Andrea Costa al congresso di fondazione della II Internazionale.
Si deve anzi a Turati, al suo infaticabile impegno organizzativo e alla sua notevole influenza culturale, l’instaurarsi in Italia di una tradizione socialista che, pur riferendosi al marxismo, deriva dal positivismo* una visione evolutiva e gradualista dei processi politiche e sociali. Al diffondersi di questa ideologia Turati contribuisce soprattutto con la sua rivista «Cuore e critica», rilevata da Arcangelo Ghisleri nel 1890, trasformata nel 1891 in «Critica sociale» e che presto diventerà, «per opera sua e della Kuliscioff, il centro di raccolta e di organizzazione della nuova cultura socialista e rimarrà il più autorevole organo teorico e politico del movimento socialista italiano» (Gaetano Arfé).
La scelta riformista
Nel 1892 Turati, che ha già una posizione politica di rilievo, collabora alla stesura del programma su cui nasce a Genova il Partito socialista italiano* ed è fra i più decisi sostenitori della rottura con gli anarchici in polemica con quanti coltivano «l’illusione del partito grande, che accolga un po’ tutti». In questa fase, segnata da una profonda crisi politica e sociale, dall’inasprirsi dei conflitti di classe e dalla repressione del movimento operaio, egli sembra assumere un atteggiamento più intransigente verso la borghesia, giudicata nel suo insieme «massa reazionaria», attacca aspramente Crispi e insiste sulla necessaria autonomia politica del nuovo partito facendo prevalere nel Congresso di Reggio Emilia (1893) il rifiuto di ogni alleanza elettorale coi radicali.
Ma dopo la sconfitta dei Fasci siciliani e lo scioglimento del Partito socialista torna in evidenza e riceve anzi più precisa formulazione il sostanziale riformismo di Turati che, nel 1894, aderisce coi socialisti milanesi alla «Lega per la difesa della libertà» creata dal radicale Felice Cavallotti (1842-98) e scrive il saggio I sobillatori, teorizzando il passaggio al socialismo come processo realizzabile solo grazie all’azione di una élite intellettuale. Alla sfiducia nell’azione di massa si associa la persuasione che i socialisti debbano stabilire una intesa organica con le forze borghesi disponibili a una politica di riforme democratiche.
Questa tesi, minoritaria al congresso clandestino di Parma del 1895, è all’origine della rottura con lo stesso Engels e porta all’isolamento politico di Turati, nuovamente battuto al congresso di Firenze del 1896, quando il P.S.I. torna alla legalità. Ma le elezioni dello stesso anno lo vedono per la prima volta deputato e il suo nome appare spesso sull’«Avanti!» diretto da Leonida Bissolati, che è su posizioni ancora più decisamente riformiste. Al congresso di Bologna del 1897, Turati è messo in minoranza per soli sei voti e la sua linea ispira di fatto il comportamento del partito come testimoniano i tumulti del 1898 a Milano contro il carovita.
Il P.S.I. vi reagisce esortando alla calma, cercando di dissuadere i manifestanti dalle dimostrazioni di protesta e adottando la turatiana «propaganda contro l’insurrezione» anche dopo il sanguinoso intervento dell’esercito, l’arresto dei dirigenti socialisti e lo scioglimento del partito e della C.G.L., tornati alla legalità solo nel 1900. Turati, pur essendosi adoperato per sedare i tumulti, viene arrestato, condannato a dodici anni e liberato dopo un anno solo grazie all’indulto; egli attribuisce la strage «più alle autorità di Milano che al governo di Rudinì, forse nel tentativo di trovare un compromesso con lo stesso di Rudinì nell’ora della massima repressione antisocialista» (Livorsi). Dai fatti di Milano trae anzi motivo per ribadire la necessità di «rivoluzioni lente e pacifiche» e di un’intesa con i liberali democratici facenti capo a Giolitti.
Tale intesa si realizza già nel 1899 quando Turati, rieletto nel collegio di Milano, e gli altri deputati socialisti, conducono insieme ai giolittiani una dura battaglia ostruzionistica contro il nuovo regolamento parlamentare autoritario imposto dal governo Pelloux e contribuiscono poi alla sua caduta (giugno 1900), che apre la strada ai ministeri di Saracco (1901) Zanardelli (1901-03), e Giolitti (1903-14). Poco dopo Turati conferma «il contrasto ormai insanabile tra socialismo evolutivo e linea della violenza rivoluzionaria, oltre che tra socialismo e anarchismo» (Livorsi), deplorando nel discorso alla camera l’uccisione di Umberto I* a opera dell’anarchico Gaetano Bresci e rifiutando di assumere perfino la sua difesa legale per non ingenerare equivoci.
Al prevalere delle posizioni di Turati contribuisce intanto il diffondersi in seno al socialismo europeo del revisionismo del tedesco Eduard Bernstein (1850-1932), che ritiene una utopia sprovvista di ogni fondamento l’idea marxista di una trasformazione integrale della società e riduce la battaglia socialista a una lotta per le riforme, da condurre per via democratica e parlamentare. È questa anche l’opinione di Turati benché egli si prefigga come obiettivo finale, contrariamente a Bernstein o a Bissolati il socialismo. «Noi siamo sicuri colla via legale di acquistare i pubblici poteri», egli aveva detto già nel 1898 condannando le rivolte come «rovina del partito e della causa del proletariato».
Dalla vittoria alla crisi del riformismo
Il congresso di Roma del settembre 1900 sancisce la vittoria di Turati e della Kuliscioff; essi conquistano alle tesi riformiste la grande maggioranza del P.S.I. con l’appoggio di Claudio Treves (1869-1933), Giuseppe Modigliani (1872 – 1947) e molti altri dirigenti socialisti, sconfiggendo la sinistra, da tempo rappresentata dall’amico di gioventù di Turati, Enrico Ferri, e da Costantino Lazzari (18571927). Anche il settimanale «Lotta di classe», diretto da quest’ultimo, passa sotto il controllo dei turatiani col nome di «Azione socialista». Diventa così possibile trasformare il P.S.I. in un interlocutore privilegiato di Giolitti, che da parte sua mira a rafforzare lo stato liberale integrando nel sistema di governo i socialisti riformisti e i cattolici liberali, in cambio del riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori o di un’attenuazione del vecchio anticlericalismo.
Secondo Turati «il liberalismo giolittiano, espressione di una moderna borghesia al passo con l’evoluzione dei tempi, poteva favorire, in dialettico civile antagonismo con il movimento operaio» (Arfé) una trasformazione democratica della società, dando sempre maggiori spazi al movimento di classe e conducendo gradualmente al socialismo. Questa visione e questa pratica collaborativa, impostesi nel P.S.I. non senza forti resistenze della sinistra, entrano però in crisi di fronte alla politica coloniale di Giolitti e alla guerra contro la Libia, intrapresa nel 1912. L’impresa, palesemente contrastante con la linea pacifista e antimperialista del P.S.I, è condannata dallo stesso Turati ma trova il consenso della frazione di destra guidata da Bissolati, che viene espulsa. Ciò indebolisce i riformisti anche perché la vicenda sembra confermare la tesi della sinistra, secondo cui non è possibile una collaborazione con i partiti borghesi.
Nel congresso di Reggio Emilia del 1912 Turati è nuovamente posto in minoranza e la sua posizione si indebolisce ancor più durante la Prima Guerra mondiale, benché tale avvenimento laceri profondamente anche la sinistra del partito, dalle cui file provengono il direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini e altri esponenti del più acceso interventismo nazionalista. Essi vengono espulsi e l’unità del partito si ricompone sulla parola d’ordine «né aderire né sabotare» condivisa anche da Turati. Ma coi procedere della guerra egli inclina sempre più verso la solidarietà con la nazione in guerra («anche la nostra patria è sul Grappa») in contrasto con quanti condividono la tesi di Lenin secondo cui occorre sfruttare la guerra imperialista per innescare il processo rivoluzionario. Anche la recisa condanna del «terrore rivoluzionario» e del leninismo espressa da Turati e dalla Kuliscioff contribuisce a far declinare l’influenza del riformismo, posto seccamente in minoranza dai massimalisti nel congresso di Roma del 1918. Turati evita a stento una condanna e l’espulsione per i suoi discorsi «patriottici».
La nascita del P.C.I. e del P.S.U.
Nell’immediato dopoguerra l’acuirsi dei conflitti di classe, la tendenza della borghesia a rispondere con la repressione alle richieste operaie senza più tentare la strada del riformismo giolittiano, e l’esito della rivoluzione bolscevica, che offre l’esempio di un’insurrezione vittoriosa, rafforzano le tendenze di sinistra del P.S.I. Nel congresso di Bologna del 1919 Turati si trova ormai a capeggiare una minoranza piuttosto esigua benché influente in parlamento, nel campo dell’opinione e nel movimento sindacale. Proprio questa influenza dei riformisti, che si oppongono nel 1920 al movimento di occupazione delle fabbriche e restano legati alla II Internazionale di indirizzo antileninista, fa sì che sembri necessaria a molti la loro espulsione dal partito, richiesta da Lenin come condizione per accogliere il P.S.I. nella III Internazionale. Da principio tuttavia questa domanda non viene accolta e provoca anzi una scissione da sinistra nel congresso di Livorno del 1921, con la nascita del Partito comunista d’Italia d’obbedienza leninista.
Ciò peraltro non attenua i contrasti interni che paralizzano il partito, proprio mentre va dilagando lo squadrismo fascista e appare più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizza il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto con la direzione del P.S.I. che punta su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. Si arriva così al congresso di Bologna del 1922, che rende definitiva la rottura espellendo Turati e la sua corrente. Essi danno vita al Partito socialista unitario (P.S.U.), di cui è eletto segretario Giacomo Matteotti* e che si ispira al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari.
L’esilio
Negli anni successivi, coerente con la sua fede democratica e nei limiti di un’azione solo parlamentare, Turati conduce una energica battaglia contro gli aspetti illegali e illiberali del fascismo, pur nutrendo al pari di Giolitti e di altri esponenti borghesi l’illusione di una sua evoluzione. Egli oscilla «tra l’estrema opposizione e la speranza di democratizzazione del fascismo» (Livorsi), del quale fa un’analisi molto riduttiva ritenendolo causa di precapitalismo, arretratezza, reazione. Solo dopo il delitto Matteotti (1924), Turati accentua la sua opposizione al regime, sforzandosi di consolidare l’unità fra i partiti raccoltisi nell’Aventino e soprattutto tra riformisti e popolari.
Ma anche in questa circostanza rifiuta la proposta di uno sciopero generale contro il «governo degli assassini», avanzata dal P.C.I. e ribadisce il proposito di mantenere la lotta entro i binari della legalità, anche per non compromettere l’unità con gli antifascisti più moderati. Questo legalitarismo si risolve però in uno sterile attendismo e favorisce il definitivo affermarsi della dittatura che, con le leggi speciali (1925-26), liquida le opposizioni incarcerando o costringendo all’esilio i dirigenti antifascisti. Nel dicembre 1926 anche Turati, ormai quasi settantenne e senza l’appoggio di Anna Kuliscioff, scomparsa l’anno precedente, espatria clandestinamente grazie all’aiuto di alcuni giovani antifascisti fra cui Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini raggiungendo Parigi.
Qui ricostituisce il P. S. U . col nome di Partito socialista unitario dei lavoratori italiani (P.S.U.L.I.) e continua la sua infaticabile attività politica. I suoi obiettivi di fondo restano l’unità dei partiti democratici, realizzata nel 1927 dando vita alla Concentrazione antifascista e assumendo la direzione del periodico «La libertà» e la riunificazione dei socialisti, raggiunta nel 1930 mediante la fusione del P.S.U.L.I. con il P.S.I. diretto da Pietro Nenni, due anni prima della morte. Nell’esilio Turati rivede inoltre la sua precedente analisi del fascismo, che vede adesso non come tipica manifestazione di situazioni arretrate ma come degenerazione sempre possibile del capitalismo, funzionale al suo dominio di classe.
Red Star Press -La Biblioteca della Resistenza-ROMA
DESCRIZIONE
Bologna, 9 agosto 1944. I partigiani liberano dal carcere di San Giovanni in Monte i compagni prigionieri. E per creare confusione aprono le celle anche ai detenuti comuni. Paolo, un ragazzo finito in galera per un piccolo furto, si ritrova libero e finisce sull’Appennino bolognese tra i partigiani della Stella Rossa. Entra a far parte della Brigata: conosce il Vecchio, si azzuffa con Gallo, destinato in realtà a diventare il suo migliore amico, assaggia la disciplina imposta dal mitico comandante Lupo e, soprattutto, incontra Elena, la ragazza di cui si innamorerà. Ed è a partire dalla storia d’amore tra Paolo ed Elena che Claudio Bolognini scrive Stella Rossa: un omaggio all’incredibile ma vera storia di una banda partigiana capace di tener testa all’esercito nazista e ai suoi sgherri fascisti. Ma anche destinata a subire l’eccidio di Monte Sole: 770 morti, tra cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne. Il massacro, conosciuto come strage di Marzabotto, perpetrato dai nazisti in 115 luoghi diversi nel territorio degli attuali comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi, che resta uno dei crimini più efferati di tutta la Seconda guerra mondiale commesso ai danni della popolazione civile.
Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara nel 1863 ed è stato uno scrittore, un poeta, Gabriele D’Annunzio un drammaturgo ma anche un militare e politico italiano.
Fu l’inventore della frase “vivere inimitabile” ed è proprio questo il modo in cui ha cercato di vivere la propria vita fin dalla più giovane età. Fin da subito mostrò un grande interesse per la letteratura, tanto da pubblicare la sua prima raccolta di poesie negli anni in cui frequentava il collegio. Questa raccolta prende il nome di Primo Vere e ne affronteremo una poesia nei paragrafi successivi.
Quando pubblicò quest’opera aveva soltanto sedici anni e questa potremmo dire che segnò il suo avvenire nel mondo letterario di quegli anni. Si iscrisse poi alla facoltà di Lettere a Roma, anche se non porterà mai a termine i suoi studi.
Quel periodo trascorso nella grande città, però, gli fu comunque utile per approfondire i suoi interessi nel giornalismo e per la frequentazione di vari salotti letterari che lo avviarono alla vita mondana. Cominciarono in quegli anni le sue storie d’amore e le sue storie di vita sregolata, tutte con l’obiettivo di vivere una vita degna di essere vissuta al massimo.
Proprio per questo è considerato il padre dell’Estetismo: la sua dottrina del vivere inimitabile si diffonde non soltanto al suo modo di vivere la sua vita, ma anche nelle opere che scrive in quel periodo. Pubblicò Il Piacere, che divenne il simbolo dell’estetismo stesso che, appunto, si impone non soltanto come un vero e proprio movimento letterario ma anche come un modo di vivere la vita.
La sua vita sregolata e dedita al piacere a Roma comporta lo sviluppo di diversi debiti, per fuggire dai quali si trasferì a Venezia dove conobbe il suo grande amore, Eleonora Duse, che diventerà la sua musa ispiratrice.
In questo periodo entrò in contatto con la dottrina di Nietzsche del superuomo, che appare del tutto in linea con la sua dottrina dell’estetismo: si tratta di un uomo che rifiuta le convenzioni sociali, che è uno spirito libero e che non accetta alcun tipo di costrizione data dalla società.
Fu un aperto sostenitore della Prima Guerra Mondiale e si batté affinché il paese vi prendesse parte. Infatti, lui stesso partecipò alle battaglie, anche se perse la vista da un occhio a causa delle ferite riportate. In questo periodo scrisse un’opera intitolata Il Notturno, che racconta proprio della perdita della vista e del periodo di guarigione successivo.
Dopo la guerra, con l’arrivo in Italia della politica mussoliniana, si ritirò dalla vita politica e passò gli ultimi anni in ritiro, all’interno di quello che successivamente diventerà Il Vittoriale degli Italiani, costruito a partire dal 1921 da lui stesso con l’aiuto dell’architetto Gian Carlo Maroni.
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