Traduzione di Roberta Scarabelli- Neri Pozza Editore
Un bar nella Vienna degli anni Sessanta: i suoi avventori e le loro storie di vita, speranze, amori e illusioni.
Sinossi del libro di Robert Seethaler-Nell’estate del 1966 Robert Simon ha poco piú di trent’anni e un sogno: aprire un bar. Cresciuto in un istituto per orfani di guerra gestito dalle suore della Carità, per qualche tempo ha lavorato come aiuto cameriere e garzone nei locali all’aperto del Prater, e forse è stato proprio lí – mentre girava fra i tavoli alla luce delle lanterne colorate, alla ricerca di bicchieri vuoti e mozziconi di sigaretta – che si è acceso in lui il desiderio di stare, un giorno, dietro il bancone della propria osteria. Quando il bar all’angolo del mercato chiude i battenti, Robert capisce che la sua occasione è arrivata. Il locale, cupo e fatiscente, si trova in uno dei quartieri piú poveri e sporchi di Vienna, ma da qualche tempo spira un vento nuovo e l’aria è pervasa da uno strano fermento: sui giornali con cui i pescivendoli avvolgono i salmerini e le trote del Danubio si legge di grandi cose a venire, di un futuro radioso pronto a sorgere dal pantano del passato. Infiammato da questi cambiamenti, Robert rimette a nuovo il bar, imbiancando le pareti, verniciando i mobili e lucidando le piastre dei fornelli. Non ha molto da offrire, ma i clienti arrivano comunque, portando storie di passioni, amicizie, abbandoni e lutti. Alcuni sono in cerca di compagnia, altri desiderano ardentemente l’amore, o soltanto un luogo dove sentirsi compresi, e mentre la città diventa sempre piú affollata, anche la vita di Robert si trasforma. Combinando l’incanto di una prosa malinconica a una tenera comicità, Robert Seethaler ha scritto un romanzo animato da personaggi indimenticabili, un caleidoscopio di storie che si fa parabola dell’esistenza umana.
Andreas Heimann:«L’autore traccia un quadro non sentimentale dei suoi personaggi, ma con molta empatia. È un’arte che padroneggia alla perfezione: quella di raccontare grandi storie di piccole persone».
Brigitte:«La narrazione di Robert Seethaler è cosí toccante che si ha voglia di sedersi personalmente in questo “bar senza nome”».
Robert Seethaler
Breve biografia di Robert Seethaler – nato a Vienna nel 1966 e vive tra questa città e Berlino. Autore e sceneggiatore, nel 2007 ha ricevuto il prestigioso premio del Buddenbrookhaus per il suo romanzo d’esordio. Ha ottenuto numerose borse di studio, tra cui la Alfred Döblin dalla Akademie der Künste, e il film tratto dalla sua sceneggiatura (Die zweite Frau) ha ricevuto un importante riconoscimento al Festival del Cinema di Monaco di Baviera nel 2009. Una vita intera (Neri Pozza 2016) è stato selezionato per l’International Booker Prize e diventerà un film diretto da Hans Steinbichler, con Stefan Gorski nei panni di Andreas Egger. Presso Neri Pozza sono apparsi anche Il campo (2019) e L’ultimo movimento (2021). I libri di Seethaler sono tradotti in piú di 40 lingue.
Descizione del libro di Federici Canaccini, il Medioevo in 21 battagie. Cavalieri, fanti, arcieri e poi armi, strategie, tecniche. Questi sono gli elementi che fanno una battaglia. Ma se osserviamo con attenzione il ‘volto della guerra’ ci riconosciamo molto altro: emozioni, cultura, contesti, personalità e caratteristiche individuali. Un nuovo racconto del Medioevo in 21 momenti fatali che hanno deciso la Storia.Quando pensiamo al Medioevo, automaticamente ci vengono in mente immagini di spade, castelli e armature. Quasi ogni cosa che ricordiamo di questo periodo storico ha a che fare con battaglie, duelli o assedi. Mai come nei mille anni dell’Età di Mezzo, la guerra ha occupato uno spazio così centrale nella vita degli uomini. In queste pagine troveremo tutte le battaglie più famose, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma più volte ci stupiremo inoltrandoci in luoghi lontani, sconosciuti e affascinanti: dalle umide pianure indiane alle gole del Tagikistan, dalle acque del Giappone fino alle inesplorate valli dell’Impero azteco, dai ghiacci del Baltico fino al profondo deserto d’Arabia. Ciascuno di questi 21 ‘fatti d’arme’ diventa un prisma attraverso il quale conosciamo gli avanzamenti dell’῾arte della guerra’, ma anche uomini, culture, contesti. Un libro che piacerà a tutti gli appassionati di storia militare e che ha l’ambizione di proporre uno sguardo nuovo, capace di coinvolgere tutti coloro che amano la storia.
Federico Canaccini,
L’autore – Federico Canaccini, medievista, si occupa da anni di storia comunale italiana, con una particolare attenzione al conflitto tra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Ha insegnato Storia della guerra nel Medioevo alla Catholic University of America di Washington, Paleografia latina alla LUMSA di Roma e attualmente insegna Paleografia e Filosofia medievale alla Università Pontificia Salesiana di Roma. In qualità di ricercatore all’Università di Princeton ha intrapreso un lavoro di edizione critica di Questioni quodlibetali e di trattati astrologici inediti. È assiduo collaboratore della rivista “Medioevo”, di cui cura la rubrica d’apertura. Tra le sue pubblicazioni, Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (2007), Matteo d’Acquasparta tra Dante e Bonifacio VIII (2008) e Al cuore del primo Giubileo (2016). Per Laterza è autore di 1268. La battaglia di Tagliacozzo (2018) e 1289. La battaglia di Campaldino (2021).
Daria Menicanti è stata una Poetessa, insegnante e traduttrice italiana. In lei si mescolano il registro sarcastico e ironico e quello più sottile della malinconia. Per Lalla Romano la sua era “una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
ESTIVA
*
Ogni sera le madri dai balconi
chiamano i figli con urli soavi.
Cadono i nomi gridati nel buio
come stelle filanti. Ad uno ad uno
tornano con le bluse a quadrettini
le gonnellette alte una spanna i teneri
re,le regine.
Daria Menicanti, il “grillo” che ha cantato Milano
“Io mi sento il palloncino fuggito dal suo grappolo”
Da bambina la chiamavano grillo, un soprannome che ha conservato per tutta la vita e che a volte disegnava accanto alla sua firma. Un nomignolo profetico per chi del canto ha fatto la sua voce. Daria Menicanti è una delle poetesse italiane dimenticate da riscoprire.
A Piacenza c’è nata “per caso” in quel 6 aprile del 1914 perché sentiva di avere un destino legato al mare viste le origini livornesi e fiumane dei genitori. Il padre aveva studiato con Pascoli che nutriva speranze nel promettente poeta. Lui scelse però di studiare legge e lavorare prima come assicuratore a Trieste e poi come bancario in diverse città del Nord. In seguito fu costretto a cambiare molti lavori per le difficoltà dovute al suo antifascismo e la famiglia si spostò spesso seguendolo.
Daria era la sesta figlia, l’ultima, la più vezzeggiata, la più capricciosa, mingherlina ma con un carattere molto risoluto. I rapporti con la famiglia furono sempre burrascosi, specie col padre spesso assente. Non disse a nessuno che si laureava e nessuno invitò al suo matrimonio, pochi mesi dopo. Dopo le nozze in Comune tornò semplicemente a casa, riempì una borsa e se ne andò dicendo “stasera non vengo a casa perché mi sono sposata”, ricorda la nipote Lucia.
A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dispari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.
Daria è una persona schiva e solitaria e i primi anni li vive nella stessa “campana di vetro” di cui parla Sylvia Plath, che avrebbe poi tradotto nel 1968. È di salute cagionevole perciò non va a scuola e studia a casa seguita dalla sorella maggiore Trieste. Inizia a frequentare la scuola pubblica solo alle superiori iscrivendosi al Liceo Ginnasio Berchet di Milano. Continua gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia e ha come compagni di corso Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Enzo Paci. Si laurea in estetica con Antonio Banfi e una tesi sulla poetica di Keats. Proprio quel Banfi che creerà intorno a sé la “scuola di Milano”.
Lo sbocco naturale della sua formazione è l’insegnamento e per tutta la vita Daria Menicanti insegna nella scuola media, diventando in seguito anche preside. Ma il suo lavoro culturale è più ampio. Dagli Anni 30 in poi compone poesie, scrive sulle riviste letterarie e traduce, traduce moltissimo, specialmente dall’inglese e dal francese: John Henry Muirhead, Paul Nizan, Betty Smith, Noel Coward, Nelly Sachs, Paul Geraldy, Sylvia Plath. Le traduzioni servono da laboratorio per la definizione della lingua poetica anche se Daria ha tradotto soprattutto prosa, e specialmente filosofia. “La vita dello scriba è una manciata / di sillabe e vocali e consonanti / e di allitterazioni”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Dopo tanto silenzio
mi arriva di lontano
festante, fragorosa
una banda di rime,
di assonanze.
Le corro incontro
felice
fino sull’angolo.
L’impronta filosofica resta sempre forte nella sua scrittura. La sua poesia non si lascia andare mai al sentimentalismo ma è sempre frutto della lucida riflessione propria della filosofia. Eppure non è mai fredda, distante, anzi si interessa alla più piccola realtà, inclusi animali e piante, tanto cari alla poetessa.
È ancora capace di infanzia
il tronco ficcato sul cuore
della città. Una luce d’alba gli esce
dai rami, ai piedi gli si affolla
un subbuglio di verde.
A un vento improvviso lo zampillo
della fontana gira verso il tronco
assentendo approvando: – D’accordo,
sussurra, la vita
può essere ancora bella
“Il razionalismo per me è sempre stata una vocazione. Pensa che tempo fa mi dicevo che ero una illuminista” dice in una intervista parlando della sua poesia come dell’“irrazionale espresso razionalmente”. A radicare la sua opera creativa nel razionalismo filosofico ha contribuito l’amore per Giulio Preti, anche lui filosofo della scuola banfiana. Si sposano nel 1937 ma il matrimonio è burrascoso. Finisce nel 1954 ma restano legati da una profonda amicizia.
Poeta
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice
Le amicizie di Daria si contano sulle dita di una mano ma sono per sempre. Lalla Romano, collega a scuola, diventa la sua più cara amica e di lei dice che “aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”. Anche Vittorio Sereni è un punto di riferimento importante, sia personale che professionale. Ogni domenica la poetessa va a pranzo dai Sereni e dà alle loro figlie lezioni private di greco e latino.
Alla poesia si avvicina già negli anni dell’Università ma è ancora qualcosa che tiene per sé. È negli Anni 50, e soprattutto dopo il definitivo trasferimento a Milano, che si dedica alla poesia innestandola a fondo nella sua città.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Nel 1964 esce per Mondadori la prima raccolta, Città come, che vince il premio Carducci. Nella prestigiosa collana Lo Specchio saranno pubblicate anche Un nero d’ombra nel 1969 e Poesie per un passante nel 1978. Il direttore della collana era Sereni e nel 1982 aveva già approvato un volume in attesa di pubblicazione, Ferragosto. Ma nel 1983 l’amico muore improvvisamente e Mondadori fa un passo indietro comunicandole per lettera che non sarà più pubblicata. Uno sgarbo che Daria non digerirà mai. Da allora in avanti la poetessa affida le sue raccolte a editori più piccoli: Altri amici, un bestiario poetico dedicato agli animali da Daria tanto amati, esce nel 1986; Ferragosto, considerata dall’autrice la sua opera migliore, vede le stampe nello stesso anno; Ultimo Quarto nel 1990.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Lucciola
Fu per come esitava che l’amai
subito
e colsi quel seme di luce
stringendo le due palme.
Ma come ci guardai gelosa, buio
era tornato il bel fuoco,
ombra con ombra
pace
Dopo l’ultima raccolta continua a scrivere anche se le sue condizioni fisiche e psichiche vanno peggiorando rapidamente, fino alla morte appena 5 anni dopo. Sulle poesie inedite ha lavorato febbrilmente, correggendo e limando continuamente i versi come testimoniano i taccuini scritti a matita. Un lavorio continuo che passa al setaccio della ragione tutti i moti dell’animo e li distilla.
Di qua la vita e da quell’altra parte
la morte e in mezzo l’uomo
in stato di assedio
La sua poesia si è nutrita di minime situazioni quotidiane, di silenzi e inquietudini, piccole epifanie, di vissuto cittadino popolato da personaggi che qualche volta Daria sembra orchestrare sulla scena come una abile regista. Quando parla di se stessa si definisce un “camaleont poet” come il suo amato Keats.
Ma sono – oltre che me – sono sul guscio
d’un fiore il mite grillo
dell’estate inquilino –
o l’urlo abbandonato dell’ossesso
sul marciapiede riverso –
Nella sua opera si passa dal tratto nostalgico e struggente a quello ironico e tagliente, dalla riflessione filosofica sulla vita al ritratto dei reietti metropolitani. La città è sempre presente, se non da protagonista come sfondo attivo.
Me ne vo con un gran coltello infisso
nel petto, il manico fuori.
Me ne vado tranquilla e bianca. Un vigile
col fischio mi richiama: – Il coltello,
mi grida, il coltello! –
Par proprio che la lama
superi le misure della legge.
Così mi fermo e pago
l’ennesima contravvenzione
E spesso presente è il cuore, anche se non viene quasi mai nominato direttamente ed è sempre mediato dall’intelletto. Non c’è sentimentalismo fine a se stesso ma riflessione lucida e acuta sulle ragioni del cuore.
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
L’hanno paragonata a Umberto Saba e Sandro Penna ma a lei piaceva di più far riferimento ai poeti classici, specialmente a Orazio e Marziale, a cui si ispirano anche i suoi fulminanti epigrammi.
Dopo tanto odio ti ricordo infine
con animo fraterno
e ti perdono
il bene che mi hai fatto
(Le poesie e le citazioni sono tratte da Il concerto del grillo: l’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, Mimesis)
Traduzione di Paolo Dilonardo -Edizioni Nottetempo –
Descrizione del libro di Susan Sontag (1933-2004) Stili di volontà radicale –Edizioni Nottetempo–Dalla guerra in Vietnam al cinema di Bergman e Godard, dall’identità americana alla pornografia: Stili di volontà radicale è un libro che ha segnato un’epoca intellettuale. Uscito nel 1969, è la seconda raccolta di saggi pubblicata da Susan Sontag, dopo Contro l’interpretazione. Siamo alla fine degli anni Sessanta, un periodo di sovvertimenti e sperimentazioni tra i più inquieti del Novecento, in cui la critica, il pensiero, le forme artistiche e la contestazione politica si orientano verso stili radicali, come suggerisce il titolo del libro. In cui la spinta contro il mainstream capitalistico e la cultura di massa produce rivoluzioni nei linguaggi dell’arte e nella coscienza, toccando spesso soglie estreme e sondando i limiti della consapevolezza, dell’esperienza e del dicibile. Nascono da questa tensione le riflessioni di Sontag sul rapporto tra l’estetica contemporanea e il silenzio, l’acuta analisi dell’immaginazione pornografica con le sue ossessioni erotiche e la sua violazione delle norme (sessuali e letterarie), le incursioni in opere di personalità filosofiche o artistiche radicali come Bataille, Cage, Beckett, Godard. E, infine, i giudizi brucianti e la visione pessimistica dell’America contemporanea, con la sua “innocenza” e “barbarie” – entrambe “spropositate, letali” –, cui segue il resoconto del viaggio in Vietnam fatto dall’autrice nel 1968, nel pieno di una guerra spietata: ritratti feroci dell’identità statunitense, in testi che, come gli altri di questa raccolta, sono ancora capaci di parlare con accenti innovativi al nostro prese
Susan Sontag (1933-2004) Scrittrice statunitense
Nota biografica-Susan Sontag (1933-2004), tra gli intellettuali, scrittori e critici statunitensi più influenti della seconda metà del ’900, nottetempo ha pubblicato i primi due volumi dei diari, Rinata (2018, 2024) e La coscienza imbrigliata al corpo (2019), il romanzo L’amante del vulcano (2020) e i saggi Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore (2020), Davanti al dolore degli altri (2021), Contro l’interpretazione (2022) e Sotto il segno di Saturno (2023), tutti tradotti da Paolo Dilonardo.
Susan Sontag (1933-2004) Scrittrice statunitense
Susan Sontag -Stili di volontà radicale
Susan Sontag -Stili di volontà radicale
Susan Sontag -Stili di volontà radicale
Alcune pagine in anteprima-Susan Sontag –Stili di volontà radicale
L’estetica del silenzio
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Ogni epoca deve reinventarsi un progetto di “spiritualità”. (Spiritualità = propositi, terminologie, regole di comportamen- to, che mirano alla risoluzione delle dolorose contraddizioni strutturali insite nella condizione umana, al perfezionamento della coscienza, e alla trascendenza).
Nell’età moderna una delle metafore più efficaci per de- signare il progetto spirituale è quella dell’“arte”. Una volta raggruppate sotto questa denominazione generica (una mossa relativamente recente), le attività di pittori, musicisti, poeti o danzatori si sono rivelate un ambito particolarmente duttile in cui mettere in scena i drammi formali che assillano la coscien- za, poiché ogni singola opera d’arte fornisce un paradigma più o meno ingegnoso attraverso cui gestire o appianare quelle contraddizioni. Ma, com’è ovvio, tale ambito deve essere con- tinuamente rinnovato. Qualunque obiettivo l’arte si proponga, infatti, finisce per dimostrarsi restrittivo, se paragonato agli obiettivi più ampi perseguiti dalla coscienza. L’arte, che è di per sé una forma di mistificazione, subisce una serie di attac- chi demistificatori; i vecchi intenti artistici vengono contestati e ostentatamente rimpiazzati; le mappe della coscienza ormai obsolete sono ridisegnate. Ma ciò che conferisce energia a tutte queste crisi – l’energia che, per così dire, le accomuna – è pro- prio la convergenza di un insieme di attività piuttosto disparate
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in una singola classificazione. Con la nascita del concetto di “arte” ha inizio la stagione dell’arte moderna. Da quel momen- to in poi, ogni attività sussunta in quel concetto diventa un’at- tività profondamente problematica, di cui è possibile mettere in discussione i procedimenti e, in ultima analisi, lo stesso diritto di esistere.
Dalla promozione delle arti allo statuto di “arte” deriva il mito cardine dell’arte, quello dell’assolutezza dell’attività dell’artista. Nella sua prima, e più irriflessiva, versione, questo mito considerava l’arte un’espressione della coscienza umana, di una coscienza che cercava di conoscere se stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito risulta- va piuttosto facile: alcune espressioni erano più complete, più edificanti, più informative o più ricche di altre). La versione più tarda del mito postula un rapporto più complesso, e più tragico, tra arte e coscienza. Negando che l’arte sia pura e sem- plice espressione, il mito più recente la associa al bisogno o alla capacità della mente di estraniarsi da se stessa. L’arte non è più intesa come una coscienza che si esprime e, di conseguenza, afferma implicitamente se stessa. Non è la coscienza in sé e per sé, quanto, piuttosto, il suo antidoto – sviluppato dalla coscien- za stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito si è rivelato molto più difficile).
Il mito più recente, che deriva da una concezione post-psi- cologica della coscienza, trasferisce all’interno dell’attività ar- tistica molti dei paradossi connessi al raggiungimento di una condizione assoluta dell’essere, descritta dai grandi mistici re- ligiosi. Così come l’attività del mistico deve sfociare in una via negativa, in una teologia dell’assenza di Dio, in un’aspirazione a immergersi nella nube della non conoscenza che trascende la conoscenza e a coltivare un silenzio che trascende le parole, l’arte deve tendere all’anti-arte, all’eliminazione del “soggetto”
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(dell’“oggetto”, dell’“immagine”), alla sostituzione dell’inten- zione con la casualità, e al perseguimento del silenzio.
Nella prima, lineare, versione del rapporto tra arte e coscien- za si percepiva un conflitto tra l’integrità “spirituale” degli im- pulsi creativi e la fuorviante “materialità” della vita ordinaria, che dissemina un gran numero di ostacoli sul cammino verso un’autentica sublimazione. La versione più recente, in cui l’arte è parte di un’interazione dialettica con la coscienza, instaura, invece, un conflitto più profondo e frustrante. Lo “spirito” che cerca di incarnarsi nell’arte si scontra con la materialità che la caratterizza. L’arte è smascherata come un atto gratuito, e la concretezza stessa degli strumenti dell’artista (così come, so- prattutto nel caso del linguaggio, la loro storicità) si rivela una trappola. Esercitata in un mondo saturo di percezioni di secon- da mano, e particolarmente disorientata dalla natura infida del- le parole, l’attività dell’artista è tormentata dalla mediazione. L’arte diventa nemica dell’artista, perché gli nega il compimen- to – il trascendimento – a cui egli aspira.
Perciò, l’arte finisce per essere considerata qualcosa da esau- torare. Un nuovo elemento entra a far parte di ogni opera in- dividuale, divenendone una componente costitutiva: l’auspicio (tacito o dichiarato) della propria soppressione – e, in ultima analisi, della soppressione dell’arte in quanto tale.
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La scena si apre su una stanza vuota.
Rimbaud è andato in Abissinia per fare fortuna con il traffico
degli schiavi. Dopo esser stato per un certo periodo maestro elementare in un villaggio, Wittgenstein ha scelto di dedicarsi all’umile mestiere di portantino in un ospedale. Duchamp si è
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dato agli scacchi. Commentando queste esemplari rinunce alla propria vocazione, ognuno di loro ha dichiarato che considera- va i traguardi raggiunti nel campo della poesia, della filosofia o dell’arte come irrilevanti, privi di importanza.
Ma la scelta del silenzio definitivo non vanifica la loro ope- ra. Al contrario, conferisce retroattivamente una forza e un’au- torevolezza aggiuntive a ciò che è stato interrotto – il ripudio dell’opera diventa una nuova garanzia di validità, un attestato di serietà incontestabile. Questa serietà consiste nel non con- siderare l’arte (o la filosofia praticata in quanto forma d’arte: Wittgenstein) come qualcosa la cui importanza duri in eterno, come un “fine” o un veicolo perenne per l’ambizione spiritua- le. Il principio realmente serio è quello che considera l’arte un “mezzo” per raggiungere un fine che forse è possibile conse- guire soltanto abbandonando l’arte stessa; secondo un giudizio più insofferente, l’arte è una falsa strada o (per dirla con l’artista dadaista Jacques Vaché) una stupidaggine.
Benché non sia più una confessione, l’arte è più che mai una liberazione, un esercizio ascetico. Per suo tramite l’artista si purifica – da se stesso e, alla fine, dalla propria arte. L’artista (se non l’arte stessa) si impegna ancora a proseguire il pro- prio cammino verso il “bene”. Ma se in passato quel bene si identificava per lui con la padronanza e la piena realizzazione della propria arte, oggi il bene supremo consiste nel giunge- re al punto in cui l’obiettivo dell’eccellenza gli appare etica- mente ed emotivamente privo di senso, ed è più gratificato dal serbare il silenzio che dal trovare la propria voce nell’arte. Inteso come punto di arrivo, il silenzio propone uno spirito di definitività antitetico a quello che pervade il modo tradizio- nale (descritto a meraviglia da Valéry e Rilke) in cui gli artisti più autoconsapevoli hanno seriamente utilizzato il silenzio: come spazio di meditazione, di preparazione alla maturazione
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spirituale, di un’ordalia che si conclude con la conquista del diritto a parlare.
Nella misura in cui è serio, l’artista prova la continua tenta- zione di recidere il dialogo che intrattiene con il pubblico. Il silenzio è la conseguenza estrema di quella riluttanza a comuni- care, di quell’ambivalenza rispetto alla creazione di un contatto con il pubblico che è una caratteristica precipua dell’arte mo- derna, instancabilmente votata al “nuovo” e/o all’“esoterico”. È il supremo gesto ultraterreno dell’artista: attraverso il silen- zio, egli si libera dal legame servile con il mondo, che assume di volta in volta le vesti di mecenate, cliente, consumatore, antago- nista, giudice o travisatore della sua opera.
Eppure, non si può fare a meno di ravvisare in questa ri- nuncia alla “società” un gesto profondamente sociale. L’artista coglie i segnali della sua futura liberazione dal bisogno di eser- citare la propria vocazione osservando i colleghi e misurando- si con loro. Può assumere una decisione esemplare di questo tipo solo dopo aver dimostrato, e autorevolmente messo in pratica, la sua genialità. Una volta che, secondo criteri di giu- dizio di cui egli stesso riconosce la validità, ha superato i pro- pri pari, al suo orgoglio resta una sola direzione da imboccare. Essere preda di un anelito al silenzio, infatti, significa rivelarsi, in un senso ancora più estremo, superiore a chiunque altro. Suggerisce che quell’artista ha avuto l’ingegno di porre più domande degli altri, e che ha nervi più saldi e parametri di eccellenza più rigorosi. (Che l’artista possa perseverare nell’in- terrogare la sua arte fino al proprio esaurimento, o a quello dell’arte stessa, non ha certo bisogno di dimostrazioni. Come ha scritto René Char, “nessun uccello è in vena di cantare in un cespuglio di domande”).
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Di rado l’artista moderno spinge la scelta del silenzio fino a un punto di semplificazione talmente estremo da indurlo al muti- smo. Più consueto è che continui a parlare, ma in modo tale che il pubblico non sia in grado di udirlo. L’arte più valida della no- stra epoca è stata recepita dagli spettatori come una mossa verso il silenzio (o l’inintelligibilità, l’invisibilità, l’inudibilità), come uno smantellamento della competenza dell’artista, della respon- sabilità con cui esercita la sua vocazione – e, di conseguenza, come un’aggressione nei loro confronti.
L’inveterata tendenza dell’arte moderna a scontentare, provoca- re o frustrare il pubblico potrebbe essere considerata una condivi- sione vicaria e limitata di quell’ideale del silenzio che nell’estetica contemporanea è assurto a modello fondamentale di “serietà”.
Ma si tratta di una forma di condivisione contraddittoria. Non solo perché l’artista continua a creare opere d’arte, ma an- che perché il distacco dell’opera dal pubblico non è mai dura- turo. Con il passare del tempo e la comparsa di opere sempre più innovative e complesse, le trasgressioni degli artisti diventa- no accattivanti e, in ultimo, legittime. Goethe accusò Kleist di scrivere drammi per un “teatro invisibile”. Ma anche il teatro invisibile finisce per diventare visibile. Il brutto, il dissonante e l’insensato divengono “belli”. La storia dell’arte è un susseguir- si di acclamate trasgressioni.
L’intento caratteristico dell’arte moderna, diventare inac- cettabile per il suo pubblico, dichiara, per converso, l’inaccet- tabilità agli occhi dell’artista della presenza stessa del pubblico – un pubblico inteso, nell’accezione moderna del termine, come un’aggregazione di spettatori voyeuristici. Almeno fin da quando Nietzsche ha affermato, nella Nascita della tragedia, che il pub- blico di spettatori così come lo intendiamo noi – una presenza
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ignorata dagli attori – era sconosciuto ai Greci, gran parte dell’ar- te contemporanea sembra animata dal desiderio di liberarsi del pubblico, un’impresa che spesso si presenta come un tentativo di eliminare del tutto l’“arte” stessa. (A favore della vita?)
Per l’artista votato all’idea che il potere dell’arte sia quello di negare, l’arma decisiva nell’incoerente guerra che combat- te contro il pubblico sta nella tensione sempre più crescente verso il silenzio. Il divario sensoriale e concettuale tra artista e spettatori, lo spazio del dialogo mancato o troncato, può anche costituire la base di un’affermazione ascetica. Beckett sogna “un’arte senza risentimenti per la propria insuperabile indigenza, e troppo orgogliosa per la farsa del dare e dell’ave- re”. Ma non c’è modo di abolire un minimo di interazione, un minimo scambio di doni – così come non esiste un ascetismo provetto e rigoroso che, quali che siano le sue intenzioni, non produca un incremento (anziché una perdita) della capacità di provare piacere.
E nessuna delle aggressioni compiute, intenzionalmente o inavvertitamente, dagli artisti moderni è riuscita ad abolire il pubblico o a trasformarlo in qualcos’altro – per esempio, in una comunità impegnata in un’attività condivisa. Non è possibile. Finché sarà concepita e apprezzata come un’attività “assoluta”, l’arte resterà separata ed elitaria. E le élite presuppongono le masse. Nella misura in cui si definisce essenzialmente in base ai suoi scopi “sacerdotali”, l’arte migliore presuppone e ratifica l’esistenza di voyeur profani, relativamente passivi e mai iniziati appieno, regolarmente convocati perché guardino, ascoltino o leggano – e subito dopo congedati.
Il massimo che l’artista possa fare è modificare i termini della relazione che si instaura tra lui e il pubblico. Analizzare il concetto di silenzio nell’arte vuol dire analizzare le alternative che si pon- gono all’interno di questa situazione sostanzialmente inalterabile.
Susan Sontag (1933-2004) Scrittrice statunitense
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Indice
Parte i
L’estetica del silenzio 13 L’immaginazione pornografica 51 Pensare contro se stessi. Riflessioni su Cioran 97
Parte ii
Teatro e cinema 123 Persona di Bergman 151 Godard 179
Parte iii
Cosa sta succedendo in America? 231 Viaggio a Hanoi 245
Ringraziamenti 327
Appendice bibliografica
di Paolo Dilonardo 329
Edizioni Nottetempo –
Chi siamo
nottetempo, fondata nel 2002 da Ginevra Bompiani, Roberta Einaudi e Andrea Gessner, è una casa editrice indipendente che pubblica saggi, opere di narrativa e poesia, e in tutti gli ambiti orienta la propria ricerca verso gli spazi critici proponendosi di dare voce a testimoni e interpreti che della nostra società esplorino la complessità e le contraddizioni.
Fin dall’inizio, la casa editrice ha intrattenuto un dialogo costante con la scena editoriale internazionale, sia nella scoperta di autori da tradurre sia attraverso la promozione dei nostri autori in altri paesi, perché solo in uno scambio culturale continuo possono verificarsi le condizioni per esercitare la nostra attività.
Le collane:
La collana di narrativa accoglie quindi autori italiani e stranieri, esordi e conferme, testi classici e nuove proposte.
Alla saggistica sono dedicate le cronache, libri documentari ma molto narrativi; i ritratti, biografie o diari di artisti e pensatori colti nella loro intimità creativa; le figure, saggi limpidi intensi e contemporanei sulle figure del pensiero e dell’arte; animalìa, collana di monografie agili, divulgative dedicate al mondo animale; e la più giovane collana terra che ha come campo d’indagine le possibili relazioni alternative tra viventi per un nuovo pensiero ecologico che superi la visione antropocentrica. Infine Semi, una collana di ebook gratuiti che contengono idee e proposte di filosofi e pensatori interpreti del presente; piccoli libri che mettiamo a disposizione della riflessione attorno a quello che sta accadendo e come possiamo immaginare il mondo a venire.
Le collane di piccolo formato da portare con sé e leggere agilmente nei momenti di attesa sono gli ormai classici sassi e i gransassi, in cui trovano spazio testi veloci e incisivi di saggistica, pamphlet e pensieri.
Alla poesia è dedicata una collana diretta da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio.
“Canto è [R]Esistenza”, il nuovo libro di Gerardo Magliacano
Il titolo dell’opera di Gerardo Magliacano è ispirato a un verso de I sonetti a Orfeo di R. M. Rilke, «Gesang ist Dasein», canto è esistenza, canto è “esser-ci”, l’essere-noi-qui-ora, una corale polifonica, senza voci soliste o fuori dal coro, intonate e in accordo, a cantare la nostra R-Esistenza, d’individui e di popoli. Inoltre, prende spunto da un passo de La Nascita della Tragedia di F. Nietzsche: “Cantando e danzando, l’uomo si mostra come membro d’una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando [e cantando].” Il titolo, pertanto, traduce l’intento di ritrarre figure salvifiche, una sorta di ‘oltre-umanità’, e non di superuomini, disciplinata e incorruttibile che possa rappresentare l’alternativa al totalitarismo massificante d’ ‘0 Sistema.
Attraverso le voci di dissenso della nostra epoca, Magliacano compone, canto dopo canto, il manifesto di una nuova Resistenza, che si è ‘rifatta carne’, carne del mondo, cui i neopartigiani, con le loro gesta, hanno dato gambe e fiato; hanno dato un volto e un’anima. Pagina dopo pagina, si delinea l’immagine di una Resistenza che è rivoluzione costante; è lotta indefessa, senza tregua e senza indugio; è sopravvivenza; è il sacrificio di un’intera esistenza, consacrata alla libertà, alla giustizia e alla verità. È memoria e coscienza.
L’opera passa in rassegna una schiera di vite, di (r)esistenze esemplari: dai “Vivi” – canti dedicati ad attivisti combattenti, che ancora lottano per difendere una terra, un’ideologia, un’etnia, un principio – ai “Morti” – biografie in versi di eroi e martiri della contemporaneità, tra i meno celebrati –, passando per le grandi incognite della vita – idee per cui lottare, per cui morire –, fino ai partigiani in quarantena. Il testo, un insieme d’instant book, si apre con l’eroica provocazione di “Ammazzateci tutti” e si chiude con un congedo sussurrato ad libitum. Inoltre, l’autore, dalle pagine del libro, scaglia le sue filippiche contro mafiosi e imprenditori collusi che hanno ridotto il Bel Paese in ‘poderi’, in appezzamenti di terre dei fuochi; accusa, denuncia i mali pandemici del nostro tempo, mentre ha già definito figure salvifiche, ha già testato l’antidoto, l’antivirale.
Ciro Corona, simbolo della lotta alla camorra di Scampia, consiglia, nella prefazione: “Lasciatevi accompagnare dallo scrittore Magliacano […] in un percorso catartico, forse unico e senza precedenti, fino a scoprire che questi ‘canti di Resistenza’ sono, nella loro dirompente portata rivoluzionaria […] «un libro per spiriti liberi»”. Canto è [R]Esistenza: il diritto di esistere, il dovere di resistere!
La maggior parte dei canti può essere definita una sorta di autobiografie in versi, una sorta di poema cavalleresco contemporaneo, che ha come protagonisti eroi, eroine e martiri, in cui il “vero storico”, la cronaca, si intreccia con il “vero poetico”, tipico tratto delle odi risorgimentali. L’idea di fondo è proprio quella di inaugurare un nuovo Risorgimento, partendo da alcune vite esemplari: dai Borsellino agli Impastato; da Falcone a Gratteri; dal Valore civile ai testimoni di Giustizia; dai giornalisti ammazzati a quelli sotto scorta; dalla favela della Franco alla Cecenia della Politkovskaja; dalla fotogenia curda al murale palestinese; dalle Lettere luterane di Pasolini a La rivolta nera della Davis; dai braccianti di Dolci ai tupamaro di Mujica; dalla Terra degli uomini integri al Villaggio Globale, da Yako a Riace; dalle praterie di Toro Seduto al deserto di Sawadogo; dall’empate dei seringueiri alle tuerredda dei pastori sardi; dalle Roverelle valsusine agli Ulivi salentini; dai beni confiscati ai comitati cittadini; dalle terre dei fuochi all’Amazzonia; dai campi profughi alle Shoah; Da Dachau a Sabra e Shatila; da Nanchino a Soweto; dai Briganti ai Partigiani; dalle pandemie all’antivirale. Un’istantanea, una foto di gruppo per ritrarre l’Inferno in cui viviamo, i demoni che lo governano, e i santi che ancora r-esistono, i martiri di una nuova Resistenza, affinché non siano lasciati soli nella lotta comune.
Gerardo Magliacano è docente di Storia e Letteratura, ed Esteta. Laureato presso l’Università di Salerno in Lettere e Filosofia, ha insegnato e insegna discipline umanistiche. Nato e formatosi a Salerno, classe 1974, ha lavorato per più di un decennio in Lombardia, dove ha insegnato e pubblicato le sue prime opere. A partire dal 2014 ha deciso di trasferirsi in Campania per “faticare” per la sua Terra Felix, dove tuttora insegna, con la promessa di pubblicare solo con editori meridionali e di devolvere parte del ricavato ad associazioni che promuovono il territorio.
In veste di scrittore e saggista, Magliacano ha pubblicato: due saggi di filosofia della canzone – Vasco. L’ultimo poeta male-detto, (Milano 2006), Generazione di Suonati. La Cultura gira in-formato mp3 (Milano 2008) – e un’inchiesta romanzata d’impianto storico dal titolo Santa Escort. La ‘Matria’ degli italiani, (Milano 2011). Nel 2010 ha curato, in collaborazione con AMREF, una raccolta di scritti adolescenziali dal titolo Il mondo salvato dall’Adolesce(ME)nza (Milano 2010): con il ricavato è stato costruito un pozzo in Tanzania. Ultimi lavori: “TERRO(M)NIA. Ritorno alla (mia) terra” (Napoli 2014), il ricavato è stato destinato al progetto “Melo aDotto”, che si propone la riforestazione di tutte quelle terre mortificate dalle mafie. Nel 2016 esce “Una Nea-Polis sospesa”, che gli vale il Premio “Gelsomina Verde” per essersi contraddistinto “con impegno e passione ed esempio di vita, nella lotta alle mafie e nell’affermazione delle verità storiche e del sentimento di giustizia”. Del 2018 è “SERVI della GLEBA”(Napoli 2018), prefazione di Ciro Corona e postfazione di Don Aniello Manganiello.
Fonte-sito web IlSaltodellaQuaglia.com-ANGELO BARRACO Giornalista
Poesie scelte di Mario Luzi |Da Le Poesie– Garzanti Editore-
-L’Altrove Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-
Mario Luzi nasce a Castello, vicino a Firenze, nel 1914. Nel 1932 si iscrive alla facoltà di Lettere all’università di Firenze, dove stringe amicizia con Carlo Bo e altri giovani, che si ritrovano al caffè San Marco e che costituiscono il nucleo originario della rivista “Il Frontespizio”, voce del movimento ermetico. Entra, inoltre, in contatto con i letterati della rivista “Solaria”, tra i quali si trovano Montale, Vittorini, Gadda e Bilenchi. L’esordio letterario di Mario Luzi risale proprio a quegli anni; nel 1935, infatti, pubblica la sua prima raccolta poetica, La barca. Luzi, dopo la laurea in letteratura francese, inizia a insegnare in un istituto magistrale di Parma, ma poco tempo dopo si trasferisce a Roma, dove lavora alla rassegna bibliografica per conto dei ministeri dell’Educazione e della Cultura. Dal ’43 fino alla fine della Seconda guerra mondiale si sposta con la moglie Elena, sposata un anno prima, in Val d’Arno, interrompendo momentaneamente la sua attività lavorativa. Pubblica nel 1940 la raccolta Avvento notturno, che presenta le poesie composte tra 1936 e 1939, profondamente influenzate dal Simbolismo francese di Mallarmé, Rimbaud e Paul Éluard. Nel 1945 torna a Firenze e negli anni successivi pubblica le raccolte poetiche che lo consacreranno artisticamente in Italia e all’estero: Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Dal fondo delle campagne (1956), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978). Negli anni Ottanta Luzi riceve diversi premi e riconoscimenti: nel 1985 gli viene conferito il Premio Montale, e nel 1987 gli viene consegnato il Premio Feltrinelli per la poesia all’Accademia dei Lincei a Roma. Nel 1989 esce la raccolta dei suoi saggi, Scritti. Negli anni ‘90 pubblica Frasi incise di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999). Nel 2004 al suo novantesimo compleanno viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi; pubblica nello stesso anno la raccolta Dottrina dell’estremo principiante. Nel 2005 muore a Firenze, dove viene seppelito nella Basilica di Santa Croce. Nel 2008 viene pubblicata postuma la raccolta Lasciami non trattenermi.La poetica di Mario Luzi può essere suddivisa in tre fasi: la prima comprende la produzione degli anni ‘30-’40, quindi dalla prima raccolta La barca fino al Quaderno gotico, si tratta di poesia ermetica influenzata dal Simbolismo francese, anche se nella raccolta del 1947 si trovano già le premesse per la seconda fase. Questa comprende tre raccolte Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), e Dal fondo delle campagne (1965) e quella del 1971 Su fondamenti invisibili; aumenta l’inquietudine e l’amarezza dei testi, in cui vengono descritti paesaggi angosciosi e tetri, in cui il poeta sembra aggirarsi nella ricerca vana del senso della vita; nell’ultima fase Luzi adotta uno stile più prosastico nei suoi componimenti e si concentra in particolare sul ricordo nostalgico della giovinezza.
Di chi è mancanza questa mancanza
Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno? di che? Rotta la diga t’inonda e ti sommerge la piena della tua indigenza… Viene, forse viene, da oltre te un richiamo che ora perché agonizzi non ascolti. Ma c’è, ne custodisce forza e canto la musica perpetua… ritornerà. Sii calmo
Mario Luzi
La notte viene col canto
La notte viene col canto prolungato dell’assiuolo, semina le sue luci nella conca, sale per le pendici umide, trema un poco. La forza in lunghi anni acquistata a soffrire viene meno e la piccola scienza si disarma, il sorriso virile non ha più la sua calma.
Tu chi sei che aspettavi invisibile, appostata a una svolta dell’età finché fosse la tua ora? Ti devo questo tempo di gratitudine e d’altrettanto dolore.
Ed ora l’inquietudine s’insinua, penetra queste prime notti estive, invade il muro ancora caldo, segue il volo delle lucciole sulle aie, s’inselva nelle viottole ove a un tratto nell’abbaglio dei fari la lepre saetta.
Cara, come ho potuto non intendere? La vita era sospesa tutta come questa veglia. C’è da piangere a pensare come ho sciupato questa lunga attesa con tante parole inadeguate, con tanti atti inconsulti, irreparabili, e ora ferito dico non importa purché il supplizio abbia fine.
«La salvezza sperata così non si conviene né a te, né ad altri come te. La pace, se verrà, ti verrà per altre vie più lucide di questa, più sofferte; quando soffrire non ti parrà vano ché anche la pena esiste e deve vivere e trasformarsi in bene tuo ed altrui. La fede è in te, la fede è una persona».
Questa canzone non ha più parole.
Mario Luzi
Vola alta, parola
Vola alta, parola, cresci in profondità, tocca nadir e zenith della tua significazione, giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami nel buio della mente – però non separarti da me, non arrivare, ti prego, a quel celestiale appuntamento da sola, senza il caldo di me o almeno il mio ricordo, sii luce, non disabitata trasparenza…
La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?
Aprile-Amore
Il pensiero della morte m’accompagna tra i due muri di questa via che sale e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo di primavera irrita i coloni, stranisce l’erba, il glicine, fa aspra la selce; sotto cappe ed impermeabili punge le mani secche, mette un brivido.
Tempo che soffre e fa soffrire, tempo che in un turbine chiaro porta fiori misti e crudeli apparizioni, e ognuna mentre ti chiedi che cos’è sparisce rapida nella polvere e nel vento.
Il cammino è per luoghi noti se non che fatti irreali prefigurano l’esilio e la morte. Tu che sei, io che sono divenuto che m’aggiro in così ventoso spazio, uomo dietro una traccia fine e debole!
E’ incredibile ch’io ti cerchi in questo o in altro luogo della terra dove è molto se possiamo riconoscerci. Ma è ancora un’età, la mia, che s’aspetta dagli altri quello che è in noi oppure non esiste.
L’amore aiuta a vivere, a durare, l’amore annulla e dà principio. E quando chi soffre o langue spera, se anche spera, che un soccorso s’annunci di lontano, e in lui, un soffio basta a suscitarlo. Questo ho imparato e dimenticato mille volte, ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità.
La mia pena è durare oltre quest’attimo.
Questa felicità
Questa felicità promessa o data m’è dolore, dolore senza causa o la causa se esiste è questo brivido che sommuove il molteplice nell’unico come il liquido scosso nella sfera di vetro che interpreta il fachiro. Eppure dico: salva anche per oggi. Torno torno le fanno guerra cose e immagini su cui cala o si leva o la notte o la neve uniforme del ricordo.
Mario Luzi
-L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-
La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” a cura di Simonetta Losi
Betti Editrice
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Dall’Introduzione del libro di Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata”:«Il mio incontro con Vittoria Gazzei Barbetti, nata a Siena il 25 ottobre 1892 e morta il 30 marzo 1934, ha quella non casuale casualità che ha contraddistinto spesso le mie scoperte in biblioteca e negli archivi. Sembra che a un certo punto dalle carte si levi un fumo sottile, azzurrino, che ricompone i pensieri che hanno mosso la scrittura, la calligrafia, il manoscritto. Ogni inedito è un una sorta di messaggio in bottiglia nel mare dell’oblio, che cerca la terraferma di una rivisitazione, di una riscoperta, di un affettuoso entusiasmo. È così che si inizia a dialogare con l’autore, è così che si ascolta la sua storia o, come in questo caso, la storia che ci ha voluto narrare. L’dea di pubblicare il romanzo inedito di Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” nasce dall’interesse per questa sfortunata figura di donna che ha origine da un articolo pubblicato sulla rivista “Il Carroccio”. Studi successivi hanno portato alla pubblicazione di un contributo sulla rivista dell’Accademia dei Rozzi. In occasione di queste ricerche è avvenuta la scoperta, all’interno del Fondo Barbetti custodito dalla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, del romanzo dattiloscritto che oggi, dopo quasi un secolo, vede la luce».
Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata”
A cura di Simonetta Losi
Simonetta Losi
Simonetta Losi è nata a Siena il 18 febbraio 1963.E’ laureata in Lettere e lavora come collaboratore ed esperto linguistico all’Università per Stranieri di Siena. All’attività di insegnamento accompagna quella di aggiornamento e formazione professionale per docenti di italiano all’estero. E’ giornalista pubblicista e collabora a varie testate.
Betti Editrice
La Betti Editrice nasce nel 1992 con un taglio prevalentemente locale con una particolare attenzione alla storia, cultura e turismo a Siena. Negli anni ha allargato il suo raggio d’azione a generi diversi (narrativa, edizioni per bambini,..) con uno sguardo che spazia all’intero territorio Toscano e a tematiche di interesse nazionale. Una produzione differenziata per argomenti e generi è elemento distintivo della Betti Editrice che opera nel mondo editoriale cercando di far convivere e tenere in equilibrio il rispetto della storia e delle tradizioni con la curiosità per l’innovazione e i linguaggi contemporanei. Dal 2017 organizza il premio di narrativa dedicato alle storie di viaggio lungo la Via Francigena.
Sinossi del libro di Cauvain Henry-L’investigatore Maximilien Heller-Un ricchissimo banchiere parigino viene ucciso. La polizia, il procuratore del re, il giudice istruttore accusano senza esitare un poveraccio, Guérin, servitore del banchiere. Avrebbe ucciso il padrone per un pugno di denaro, usando l’arsenico, il classico veleno per topi. La fortuna di Guérin è di essere il vicino di casa, o meglio: di soffitta, di Maximilien Heller, un giovane avvocato che ha lasciato anzitempo la professione, misantropo e geniale. Sospetta subito che il servitore sia accusato ingiustamente, perché i segni che ha potuto osservare sul cadavere non confermano la presenza della sostanza tossica. Così, con il suo attivismo, un po’ alacre un po’ pigro, che scopre tracce, ricostruisce fatti e deduce conclusioni, trova la verità. E, grazie ad astute dissimulazioni, sventa un complotto. Colpisce quante cose in comune con Sherlock Holmes (nato nel 1887) abbia Maximilien Heller che lo precede di sedici anni (1871). Compreso il medico narratore e amico protettivo, e tranne il fatto che l’investigatore di Cauvain vanta una cultura pressoché illimitata, mentre Sherlock cancella sistematicamente tutte le nozioni che non gli sono utili. Tanto che si può sospettare che sia lui il modello per l’allampanato eroe di Conan Doyle. Il francese ha forse una maggiore sensibilità sociale. Comunque sia, Maximilien Heller è evidentemente uno dei prototipi originari di tutti gli investigatori deduttivi. Ama i gatti come Baudelaire, conduce vita bohémienne e si muove tra languori decadenti e orgoglio positivista.
Articolo di Venceslav Soroczynski-RAI-Cultura-Letteratura
Articolo di Venceslav Soroczynski -Il libro di Albert Camus “Lo straniero” Bompiani Editore-C’è qualcosa che mi dice vai a cercarlo, perché ha cose da dirti. E io, di solito sordo alle chiamate dell’intuizione e cieco a quelle della coscienza, mi avvicino al secondo scaffale, quarto ripiano dall’alto. Lo trovo, subito: sarà uno dei pochi libri che leggo per la seconda volta. Ma devo andare dal medico e, fra malati immaginari e sani bisognosi di una carezza, mi aspetta un’attesa lunga, quindi mi serve un libretto breve, che mi stia nella tasca e nella testa.
Albert Camus
Invece, i doloranti sono pochi e sembrano avere dolori epidermici, quindi sfilano in fretta e non riesco ad arrivare alla fine del romanzo. Eppure già sento il bisogno di aprire la porta e raccontare qualcosa. Sapete, io vivo in campagna: anche se spalanco le finestre e parlo ad alta voce del libro, mi sentono al massimo le monache di clausura della Comunità di Gesù di Nazareth – che poi non mi dispiacerebbe intervistarne una, non dico la badessa, che quella ne parlerebbe bene come il promotore dei fermenti lattici al supermercato. Piuttosto, una monachella, l’ultima arrivata, o la più anziana.
Ma sto divagando (a scuola mi accusavano di andare fuori tema. È il tema che non è in tema, avrei dovuto rispondere, ma da ragazzino non avevo la battuta pronta – mentre adesso non sono pronti quelli che dovrebbero capirla). Lo straniero è uno di quei romanzi che pensi essere uno dei dieci libri che andrebbe assolutamente letto. Poi ti rendi conto che l’hai già detto di altri venti e ti scopri essere un esaltato e perdi credibilità anche di fronte a te stesso (figuriamoci davanti alle monache).
Perché leggerlo? Perché lo straniero del 1942 è un corpo morto senza il certificato di morte che somiglia al corpo sociale del terzo millennio (sovviene immediata la battuta di Kraus: “La condizione in cui viviamo è la vera fine del mondo: quella cronica.”). È un uomo che non vive, si lascia vivere. Non gli si può attribuire il concetto heideggeriano: “Noi non parliamo un linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio” soltanto perché egli, quasi, non parla. “Non aprivo la bocca per non dir nulla”, pensa, infatti, mentre gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa durante il suo processo. Vive per inerzia, come un’auto lanciata in folle in una discesa sull’autostrada. E, infatti, la sua vita è una discesa e, proprio perché non si aggrappa a nulla, scivola nel suo destino come un dito in un vasetto di miele.
Albert Camus- “Lo straniero”
Ma è miele di fiori amari, poiché il nostro uomo non pare provare dolore nelle cose brutte (“Mi ha chiesto se avevo sofferto [della morte della madre] e ho risposto che tanto io che la mamma non ci aspettavamo più nulla l’uno dall’altro e del resto neppure dal prossimo e che ci eravamo abituati tutt’e due alle nostre nuove vite”), né felicità nelle cose belle (“La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha chiesto se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla.“Perché sposarmi, allora?” mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto “no”. È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta da un’altra donna cui fossi stato legato allo stesso modo. Io ho detto: “naturalmente”. Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi”).
Mersault è del tutto singolare, ma assolutamente credibile. Per amicizia, o solo per non turbare un rapporto, continua a frequentare un uomo che ha picchiato la propria compagna per non essergli stata fedele.E quando gli chiedono com’è Parigi, risponde solo: “È sporco. Ci sono dei piccioni e dei cortili bui. La gente ha la pelle bianca”. Camus stende il suo personaggio su un giaciglio di indifferenza che perfino m’innervosisce come lettore. Ma quella indifferenza è la sua condanna, poiché, in un paio d’ore, il Pubblico Ministero nel processo in cui è imputato la trasforma agli occhi dei giurati in insensibilità e poi, con la retorica dell’accusatore che tanto solletica chi gode della disgrazia altrui, converte quella insensibilità in condotta criminale. Immediatamente, mi ritorna la scena di un bel film in cui l’avvocato dice: “Tutti sono fatti da una certa porzione di fango. Tutti hanno la fogna dentro. Per questo bisogna cercare nella vita delle persone. L’indagine è come un temporale: acqua, acqua, acqua, acqua, acqua finché si intasano i tombini, le fognature scoppiano e esce tutta la merda che c’è sotto.”
Questo fa il tribunale allo Straniero. Processa una vita, non un atto. Un uomo, non un’azione (triangolazione disonesta e violenta, che attraversa il subconscio per titillare le corde dei deboli. E che si vede tutti i giorni – i nostri inclusi). Quanto c’è del nostro mondo del nostro tempo e del nostro io, ne Lo straniero! Straniero sono anche io per il luogo dove sono nato, poiché da esso sono andato via molto tempo fa. E lo sono nel luogo in cui ora vivo, poiché vengo da altrove. E sono straniero anche in casa mia, poiché i miei quattro nonni vengono da quattro posti diversi d’Italia e d’Europa. E sono straniero in me, poiché mi vedo ogni giorno di più come un terzo, un testimone, dall’alto muovermi come un animale da abitudine, o dal basso come un uomo alla ricerca dell’estintore dell’inquietudine. Mi osservo, cerco la distanza ma, per non impazzire e per convenienza, trasporto la mia duplicità in un pezzo unico senza apparenti fessure, che so essere cucito male e rapidamente deperibile.
Straniero è già pirandellianamente l’uomo in quanto, agli occhi degli altri, è diverso da come appare ai propri. Mentre, però, l’uomo di Uno, nessuno e centomila, pensa, decide, reagisce, sovverte, rivoluziona, quello di Camus subisce, come fosse addormentato. Come se aspettasse che qualcuno lo salvi dall’alto. O come se non gli importasse neppure di questo. Che disonore, l’evoluzione, se penso che, più di trecento anni prima, Amleto, a Guildestern, che vorrebbe manovrarlo, aveva risposto: “Qualunque strumento io sia, anche se puoi strimpellarmi, non mi puoi suonare!”). Ma è inutile rimpiangere le età degli imperi: viviamo il nostro esistenzialismo puntando a qualcosa che sta a metà fra il desistenzialismo e l’assistenzialismo: ci guardiamo esistere. La vita fuga dalla vita. Il piano B pensato prima del piano A. Eppure, abbiamo avuto decenni per approfondire il declino. Scuola per tutti, università per tutti, medicina per tutti, reddito di cittadinanza per tutti – ma è scuola, non educazione; è università, non conoscenza; è medicina, non sanità; è reddito, non cittadinanza. Quindi, è un ripiego continuo. Siamo peggiori dell’uomo di Camus, il quale, almeno, esiste fortemente, con distacco e noia, senza finzione, poiché è se stesso dalla prima all’ultima riga del romanzo. Dal bagno in mare alla prigione, non ha mentito una sola volta. Non ha pronunciato, in sua propria difesa, un solo verbo che si discostasse dalla verità. La verità è che ha premuto il grilletto contro un uomo che ha guardato in faccia: lo straniero è un assassino. Ma lui stesso non ha compreso il perché. Quando articola una proposizione per spiegare i fatti, l’aula intera ride, ma egli ha detto esattamente il vero. Non sa spiegare le cose al giudice, né al suo avvocato. Eppure, è proprio vero che la causa è stata il sole troppo forte, il caldo, il fuoco che precipitava dal cielo, lo stordimento di un paese troppo caldo, troppo lontano, troppo straniero anch’esso. Ma Mersault apre la bocca solo per dire cose che abbiano importanza. E forse quelle non ne avrebbero.
Eppure, non si riesce a odiarlo: è come un bambino che ha fatto del male per qualcosa che è un po’ più dell’istinto e un po’ meno della necessità, sotto un sole troppo forte. È limpido come l’acqua di un lago in cui è vietata la balneazione per non inquinarlo, per non svegliarlo. Quindi, nessuno può entrare. E io non sono neanche arrivato alla riva. Sto leggendo, come si dice nel poker, mentre Mersault non ha ancora lasciato l’aula, il processo non è terminato e io, per fortuna, non ricordo com’è andata a finire. Mi sono fermato a queste parole, lette le quali ho chiuso gli occhi: “Dalla strada, attraverso tutte le sale e le aule, mentre il mio avvocato continuava a parlare, ha risuonato fino a me la trombetta di un venditore di panna. Mi hanno assalito i ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il riso e gli abiti di Maria. Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto di farla finita presto e di ritrovare la mia cella e il sonno.”
«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
La corazzata Potëmkin
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Sergey Michajlovic Ejzenstejn
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
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