Sergio Solmi-Opere, I – Poesie, meditazioni e ricordi
Tomo I: Poesie e versioni poetiche- A cura di Giovanni Pacchiano-
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto del libro di Sergio Solmi “Opere , Poesie e meditazioni”-Con questo volume diamo inizio alla pubblicazione delle Opere di Sergio Solmi, impresa che si propone non solo di presentare sotto un’unica veste scritti che hanno molto sofferto per la dispersione dei luoghi in cui apparivano, ma vuole soprattutto rivendicare l’opera di Solmi come una delle più alte e durature di tutta la nostra letteratura del Novecento. Questo primo volume raccoglie l’intera opera poetica, includendo una importante zona di liriche sparse o inedite e tutte le traduzioni in versi (anch’esse in parte inedite). Come scrisse Solmi stesso in un testo di autopresentazione, «la poesia di Solmi ha avuto il destino di una situazione appartata e solitaria, spesso fraintesa dalla critica per la sua difficoltà a essere classificata, di volta in volta, fra le correnti del tempo». Natura di rêveur nella più limpida accezione romantica del termine, Solmi sembra aver scelto fin dall’inizio un paradossale classicismo in equilibrio sul vuoto – essendo ormai sprofondati i grandi canoni che lo reggevano – sotto la tutela della «cara ombra» di Leopardi e insieme di alcuni grandi maestri del moderno, quali Rimbaud, Mallarmé, Valéry. E grazie a questa scelta, la cui singolarità restò forzatamente mimetizzata durante il periodo ‘rondista’, egli è riuscito col tempo ad assorbire in ugual modo, nella misura del suo verso, i mondi del fantastico (di cui è emblema, nella splendida Levania, una fantomatica reincarnazione lunare del poeta) e della quotidianità più dura (si pensi alle esperienze di carcere del «Quaderno di Mario Rossetti»). Seguendo le più ambigue linee di confine fra le apparenze, abbandonandosi senza contrarsi al «vento improvviso» che muove, talvolta, la vita, ascoltando i desideri «anonimi e diffusi come foglie», questa poesia ha trovato un timbro, una malinconica lucidità, una fluidezza del disegno, dinanzi a una persistente angoscia. Ha scoperto infine un parlare sommesso per dire cose essenziali, che emergono dalla «buca d’ombra» e sostano un attimo alla luce in parole diafane. Le novità presentate in questa edizione, sia nelle poesie giovanili sia in quelle tarde, non faranno che confermare la sconcertante coerenza di quest’opera, così discreta ma così ferma nelle sue inclinazioni e nei suoi rifiuti. «Esule disperato della vita» dicono le prime parole della prima lirica raccolta, che risale al remoto 1917, e danno subito il segno di una poesia che ha sempre un piede in qualche altro mondo. Fra quei mondi molteplici appariranno alla fine, nelle poesie inedite degli ultimi anni, la terra immaginale di Hûrqalyâ, svelata dalla mistica iranica, o i giardini di Babilonia, ma anche la pianura platonica dove l’anima sceglie quel «difficile viluppo» che sarà il suo destino. In questa visione sembra concludersi il lungo itinerario del flâneur cosmico, che si inchina alla necessità mentre contempla, attonito, «la mano che mi scrive».
Sergio Solmi
Breve Biografia di Sergio Solmi– Critico e poeta italiano (Rieti 1899 – Milano 1981); fondatore, con G. Debenedetti e altri, della rivista torinese Primo tempo (1922–23); socio corrispondente dei Lincei (1968). La sua notevole produzione saggistica ha spaziato dalla letteratura francese (Il pensiero di Alain, 1930; La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, 1942; Saggio su Rimbaud, 1974) alla paraletteratura (Della favola, del viaggio e di altre cose. Saggio sul fantastico, 1971), da Leopardi (Studi e nuovi studi leopardiani, 1975) alla letteratura contemporanea, che ha penetrato con fine intelligenza (Scrittori negli anni, 1963). È stato poeta tanto originale quanto radicato nella tradizione italiana (Fine di stagione, 1933; Poesie, 1950; Levania e altre poesie, 1956; Dal balcone, 1968; Poesie complete, 1974), nonché felice traduttore (Versioni poetiche da contemporanei, 1963; Quaderno di traduzioni, 1969; Quaderno di traduzioni II, 1977); da ricordare anche la raccolta di prose poetiche Meditazioni sullo scorpione (1972). L’edizione completa delle Opere di S. S. è stata avviata nel 1983 (il 5°vol. è uscito nel 2000).
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L’altra verità. Diario di una diversa-di ALDA MERINI
Descrizione del libro di Alda Merini-Un alternarsi di orrore e solitudine, di incapacità di comprendere e di essere compresi, in una narrazione che nonostante tutto è un inno alla vita e alla forza del “sentire”. Alda Merini ripercorre il suo ricovero decennale in manicomio: il racconto della vita nella clinica psichiatrica, tra elettroshock e autentiche torture, libera lo sguardo della poetessa su questo inferno, come un’onda che alterna la lucidità all’incanto. Un diario senza traccia di sentimentalismo o di facili condanne, in cui emerge lo “sperdimento”, ma anche la sicurezza di sé e delle proprie emozioni in una sorta di innocenza primaria che tutto osserva e trasforma, senza mai disconoscere la malattia, o la fatica del non sentire i ritmi e i bisogni altrui, in una riflessione che si fa poesia, negli interrogativi e nei dubbi che divengono rime a lacerare il torpore, l’abitudine, l’indifferenza e la paura del mondo che c’è “fuori”.
Biografia di Alda Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano da una famiglia di condizioni modeste. Dopo aver terminato il ciclo elementare frequenta i tre anni di avviamento al lavoro presso un istituto milanese e cerca, senza riuscirci (per non aver superato la prova di italiano), di essere ammessa al Liceo Manzoni. Nello stesso periodo si dedica allo studio del pianoforte.
Esordisce come autrice a soli quindici anni nell’Antologia della poesia italiana contemporanea dal 1909 al 1949. Nel 1947 Alda incontra “le prime ombre della sua mente” e viene internata per un mese in una clinica psichiatrica. Nel periodo che va dal 1950 al 1953 frequenta per lavoro e per amicizia il poeta Salvatore Quasimodo, che beneficerà di alcune poesie a lui dedicate.
La sua vita privata invece subisce un’evoluzione al termine della sua difficile relazione con il famoso scrittore, traduttore e critico letterario Giorgio Manganelli. Nel 1954 infatti sposa Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie di Milano, con il quale avrà un rapporto tormentato e burrascoso intervallato dalla nascita delle quattro figlie: Emanuela, Barbara, Flavia e Simona.
Nel 1962 inizia un difficile periodo di silenzio e di isolamento, dovuto all’internamento al «Paolo Pini» che dura fino al 1972, salvo alcuni periodi trascorsi in famiglia.
Nel 1979 ritorna a scrivere, dando il via ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza del manicomio, contenuti in quello che può essere inteso come il suo capolavoro: Terra Santa, con la quale vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale.
Ma le pene della scrittrice continuano. Nel 1981 muore il marito e la Merini, rimasta sola e ignorata dal mondo letterario, cerca inutilmente di diffondere i suoi versi. Trovandosi in difficoltà economiche affitta una stanza del proprio appartamento a un pittore. Nel frattempo inizia a comunicare telefonicamente con l’anziano poeta Michele Pierri, che sposerà nell’ottobre del 1983 trasferendosi a Taranto. Le sue condizioni peggiorano nonostante la serenità ritrovata con il secondo marito, e nel luglio del 1986 la poetessa sperimenta nuovamente gli orrori dell’ospedale psichiatrico.
Dal 1989 torna alla “ribalta poetica” grazie a numerosi collaborazioni con differenti editori, illustratori e fotografi del panorama italiano. Nel 2004 alcune sue poesie sono messe in musica e cantate da Milva. Proprio nello stesso anno, però, le sue condizioni di salute peggiorano e il 1° novembre 2009 muore all’ospedale San Paolo di Milano a causa di una affezione tumorale.
John Julius Norwich “I normanni nel Sud. 1016-1130”
Sellerio editore
Descrizione del libro di John Julius Norwich -Una storia di uomini, di armi e di bellezza: lo «stile arabo-normanno» diventa un romanzo grazie alla penna appassionata di John Julius Norwich che dopo “Breve storia della Sicilia” e “Il mare di mezzo” torna ad emozionarci con “I normanni nel Sud. 1016-1130”.
Le gesta e le imprese dei normanni, il loro lento viaggio alla conquista dell’Italia meridionale in un racconto storico divertito che scorre agile e veloce, coinvolgente come un romanzo, appassionante come una saga epica. La conquista normanna di Sicilia e dell’Italia meridionale è l’epopea più avvincente che ci giunge dal Medioevo. Un pugno di guerrieri poveri chiamati, dal villaggetto di Hauteville in Francia del Nord, a battersi, con la forza, con il coraggio e con l’astuzia, contro bizantini, longobardi, saraceni: è l’esempio chiaro di cosa volesse dire in quell’epoca essere cavaliere. E il risultato, strabiliante agli occhi di papi e imperatori, fu l’edificazione in poco più di un secolo, su terre favorite dalla natura, del regno più florido e moderno del tempo, guidato da una linea dinastica, gli Altavilla, breve e favolosa.
«Qui, al centro del Mediterraneo, si trovava il ponte che riuniva Nord e Sud, Est ed Ovest, latini, teutoni, cristiani e musulmani – scrive Norwich – magnifica inconfutabile testimonianza di un’era di illuminata tolleranza, ignota ovunque nell’Europa medievale e raramente eguagliata nei secoli che seguirono». Un colorato affresco che rappresenta il mescolarsi di culture e genti quale fonte di civiltà, ed è, in questi anni di migrazioni e trasferimenti, una lezione che ha tanto da insegnarci ancora oggi.
E l’autore lo dipinge da scrittore, con la freschezza, l’entusiasmo, di una scoperta che riguarda gli umani, l’ardore che deriva dal trasporto dello storico verso i luoghi di cui tratta, una scrittura elegante e carica di umo
Anjet Daanje-Il canto della cicogna e del dromedario-
Traduzione di Laura Pignatti-Neri Pozza Editore
Il romanzo di Anjet Daanje è ispirato dalla vita di Emily Brontë e dal suo capolavoro Cime tempestose, Anjet Daanje ha costruito un romanzo immenso, febbrile, che ne contiene tanti altri, in un gioco di specchi che canta l’amore, la perdita, la sorellanza, il potere eterno della letteratura.
Anjet Daanje-Il canto della cicogna e del dromedario-Neri Pozza Editore-
Il canto della cicogna e del dromedario: il primo capitolo del romanzo di Anjet Daanje
Susan Knowles-Chester (1788-1851)
Il 12 dicembre 1847 segna la vita di Susan Knowles, che allora ha già quasi sessant’anni, e quattro anni dopo muore. Nel corso della sua vita sono molti i giorni verso i quali nutre aspettative che nell’attesa, e poi quando si presentano, si riempiono di significato, mentre a posteriori non sembrano aver mantenuto le promesse. Quando arriva quel 12 dicembre, nell’anno del Signore 1847, sembra un giorno d’inverno come tanti altri, iniziati nell’oscurità e finiti nell’oscurità e nel freddo, soffia un vento da nord con neve polverosa che imbianca le strade intirizzite di Bridge Fowling al crepuscolo. Solo per poco le impronte di Susan tradiscono la direzione dei suoi passi, a destra in Church Street, su per il ripido pendio del cimitero, ma quando gira in silenzio dietro la piazzetta della canonica, nessuno distingue più dalle sue impronte verso quale anima sventurata l’emissaria della Morte si sia diretta. La gente del paese aborre il suo lavoro, dove lei va, il dolore la segue come pezzi di legno alla deriva dopo un naufragio, eppure quando quel momento arriva molti chiedono il suo aiuto, è un segreto di pubblico dominio. Proprio come tutti sanno che gran parte di loro, perfino i più credenti, non se ne va senza paura o umiliazioni fisiche, e si riempiono la bocca di come il defunto abbia accettato in pace il volere di Dio, come sia stato sereno e consolante, così in paese tutti sanno che molte donne, dopo avere accudito per settimane, a volte per anni, un familiare, non sono in grado di assumersi quell’ultimo onere, per dolore, o perché non ne hanno il coraggio, non vogliono, o non sanno cosa fare. Susan insegna loro i rispettosi rituali, i gesti pratici, e tuttavia, anche dopo avere appreso le usanze quella prima volta, preferiscono lasciare che sia lei a occuparsi di metterle in pratica. Arriva in segreto, e in segreto se ne va, sulla porta di servizio i benestanti le mettono in mano qualche scellino, i poveri un paio di penny, nessuno deve sapere, a volte neanche la famiglia, o il marito. Gliel’aveva insegnato sua madre, alla morte della sua cara, piccola Susey, che aveva appena quattro anni quando la scarlattina se l’era portata via. La parte più orribile del rituale per Susan erano i batuffoli di ovatta bagnati che aveva dovuto mettere sugli occhi della sua bambina, perché, ore dopo che Susey aveva chiuso gli occhi per l’ultima volta, Susan aveva avuto l’impressione che volesse riaprirli per cercare la sua mamma con il suo sguardo inerme castano chiaro. E anche la fascia con cui Susan aveva dovuto legarle la mascella per prevenire il rigor mortis era terribile, quasi volesse tapparle la bocca una volta per tutte. Ma la madre aveva spiegato a Susan che dovevano preparare Susey alla vita eterna nel miglior modo possibile per amore e rispetto. Le preghiere che recitavano, le abluzioni, la camicia pulita, l’acconciatura dei capelli annodati, le mani giunte, tutto doveva essere perfetto per chi voleva vederla un’ultima volta, e anche per Susey stessa, soprattutto per lei, che presto si sarebbe presentata degnamente al cospetto del suo Creatore per essere ammessa in cielo come un piccolo angelo. È come un matrimonio, così aveva detto la madre di Susan, anche per quello ti lavi le orecchie e tra le gambe, ti metti i vestiti migliori, pronunci parole solenni, e poi cominci una nuova vita. Questo Susan non se l’era mai dimenticato, un matrimonio, cercava di vederlo così, mentre altri vedevano la Morte.
Anjet Daanje-Scrittrice
Biografia di Anjet Daanje è nata a Wijster, nei Paesi Bassi, nel 1965.Con un dottorato in matematica, si è dedicata alla scrittura fin dall’età di ventun anni. È autrice di sceneggiature, racconti, romanzi. Con Il canto della cicogna e del dromedario, Daanje si è aggiudicata il Boekenbon Literatuurprijs, il Libris Literatuur Prijs (i due più importanti riconoscimenti letterari dei Paesi Bassi mai prima d’ora assegnati allo stesso libro), il Constantijn Huygensprijs, premio alla carriera, e l’Inktap, premio attribuito dagli studenti dei licei nederlandesi. Il canto della cicogna e del dromedario è in corso di traduzione in dodici lingue.
Joan Didion:“Volevo studiare gli oceani, ma scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua”.
Joan Didion sembra incarnare la divinità della letteraturaIn principio fu il viso – il numero, invece, è il 325. Ammetto, a volte vale la regola rabdomantica. La usava anche Iosif Brodskij, per altro. L’opera di uno scrittore è incisa nel suo volto. E quel volto. Mio dio. Occhi tratti dal bosco e conficcati in una donna in vetro – sembra uno spago di ferro, tenuta in piedi con qualche laccio, pronta a esplodere. Joan Didion sembra una formula magica – o una maledizione, è uguale – sullo squarcio delle labbra. Mi pareva bellissima – anni Sessanta, la Corvette, il New Journalism, che abita con devota ferocia, l’incontro con John Gregory Dunne, giornalista di fama, sceneggiatore di film importanti come Panico a Needle Park (1971; con Al Pacino) e L’assoluzione (1981; con Robert De Niro e Robert Duvall). Continuai a guardare le fotografie – l’esordio nel 1963, sulla scia dei trent’anni, con Run, River, poi quel libro mirabile, Slouching Towards Bethlehem, diceva di fondere la concisione di Hemingway allo sguardo di Henry James, alla basilica narrativa di George Eliot. Ora l’hanno mutata in icona. Accade così, negli States – i sopravvissuti diventano idoli. L’anno scorso, al numero 325, la consacrazione. La Library of America comincia a pubblicare la sua opera, 980 pagine, da Run, River a The White Album sotto la sigla “The 1960s & 70s”. In Italia è sommamente pubblicata da il Saggiatore; tra poco assaggeremo il suo ennesimo libro, Political Fictions – come Finzioni politiche, in origine uscito nel 2001 – che raccoglie, dal 1988 al 2000, i testi di Joan sulle elezioni (in particolare: Bill Clinton impantanato nel caso Lewinsky, George Bush, e poi Bush figlio vs. Al Gore). Mi pare bellissima, qualcosa che viene a torturarti – bisogna sempre dubitare di ciò che appare fragile perché, è facile, ti ferirà con millenaria minuzia.
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Joan Didion
Lo dice lei, per altro, in Why I Write (1976): “Per molti versi scrivere è il gesto di dire Io, di imporsi agli altri, di dire, ascoltami, guarda ciò che vedo, cambia idea, seguimi. È un gesto aggressivo – perfino ostile. Puoi mascherare gli aggettivi, raffinare le congiunzioni, adottare ellissi, evasioni – e accennare più che pretendere, alludere più che affermare – ma mettere parole su carta resta la tattica del bullo segreto, un’invasione, l’imposizione della legge dello scrittore nello spazio più intimo del lettore”.
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Joan Didion
Ma la violenza può voltarsi in pratica sadica. “Scrivo sola. Certo, commetto un atto aggressivo nei miei confronti, sono ostile a me stessa” (1978, alla “Paris Review”). Elusione ed eleganza: il moto del cobra, prima del tocco. Ostilità verso di sé: scrivere come estrarre spine. “La voce. Quella ti viene addosso. Non avevo mai sentito prima una voce narrativa simile. Equilibrio tra distanza e impegno, occhio acuto dell’osservatore, ma anche la percezione di guardare tutto dall’esterno. E poi, la congiunzione tra il materiale personale, confessato, e la storia comune. E poi, l’idea che la narrazione sia aperta, che si stia ancora svolgendo, una volta terminata la lettura. Ha aperto delle possibilità finora inaudite”, dichiara David L. Ulin, che cura l’opera di Joan Didion per la Library of America.
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Joan Didion
Estratta a se stessa, Joan Didion sembra incarnare la divinità della letteratura. L’efficacia della spada si misura da levigatezza e disciplina: addestramento che coincide con un destino. Non è mai facile scrivere, si scrive come si costruisce una sedia, di cui il lettore valuterà il censo. Qui si traduce una intervista a Joan Didion, a cura di Sheila Heti per “The Believer”, era il 2012. La scrittura è ciò che porti in superficie dopo un lungo inabissamento; le parole, in effetti, sono di legno. (d.b.)
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Da bambina voleva fare l’attrice.
Vero.
D’altronde anche la scrittura è performance: interpreti un personaggio.
Non proprio. Costruisci uno spettacolo intero. Ma, è vero, la scrittura mi è sempre sembrata una sorta di performance.
Qual è la natura di questa performance?
A volte un attore interpreta un personaggio, a volte si esibisce e basta. Con la scrittura non reciti un personaggio. Lo crei. Lo doni al pubblico. Non interpreti nessuno, ostenti le tue idee. “Guardami, eccomi”: dici questo.
Ma questo “io” è stabile o instabile, che distanza c’è, intendo, tra il ruolo dello scrittore e…
…e la persona reale. Non lo so. La persona reale diventa il ruolo che hai scelto di darle.
Si esibisce per sé o per gli altri?
Per me. Ma anche, è ovvio, per chi sceglie di essere coinvolto. Voglio dire, il lettore è il pubblico.
Quanto del suo lavoro è stato creato in risposta o in collaborazione con il pubblico?
Molto. Ho creato uno spettacolo su L’anno del pensiero magico e sono rimasta sorpresa dal modo in cui il pubblico è diventato parte dello spettacolo. Penso che ciò accada anche quando si scrive.
Nel caso della scrittura è diverso, però.
Certo. Ma non riesco a immaginare di scrivere senza l’idea di un lettore. Non più di quanto un attore penserebbe di recitare in assenza di pubblico. Non esiste il vuoto, quando scrivi. Se non hai la percezione di un lettore, nuoti nel vuoto.
Quando ha iniziato a scrivere?
Da bambina. Avevo quattro o cinque anni, mia madre mi dà una grossa lavagna nera, perché mi lamentavo, mi annoiavo. “Scrivi qualcosa, poi me lo leggi”, mi disse. Avevo appena imparato a leggere. Fu un momento emozionante. Scrivere qualcosa per leggerlo!
Le piaceva leggere ciò che scriveva?
Negli anni, sì. Non sempre.
Non sempre…
Il mio primo romanzo. Non mi ha coinvolto perché, molto banalmente, non sono riuscita a fare ciò che avevo in mente. Volevo confinare la cronologia didascalica, volevo confondere i piani. Non avevo esperienza, ho seguito i suggerimenti del mio editor, e ho scritto un libro convenzionale. E questa non è una bella cosa.
Pubblicare non è facile: devi avere fiducia nel tuo pensiero, nel tuo sguardo sulla realtà.
Si impara lavorando, la fiducia. Devi essere certo di ciò che fai, anche se pare ridicolo. Il mio personale punto di fiducia credo di averlo conquistato con Prendila così. Il mio terzo libro. Mio marito mi diceva, ricordo, “Questo libro non ce la farà, non ce la farà, non ce la farà”. La pensavo come lui. Ma ce l’ho fatta. Da quel momento, ho avuto fiducia.
Perché pensavate di non farcela?
Perché era il mio terzo libro. Voglio dire: non credi immediatamente di farcela. Pensi di avere un talento stabile, che si farà ascoltare nel tempo. Se non comunichi subito con un pubblico non sai quando questo potrà accadere.
Qual è stato il primo segnale che la ha convinta di avercela fatta?
Non ricordo esattamente. Ricordo che all’improvviso si parlava del mio libro. La gente ne parlava. Era una cosa che non avevo mai sperimentato prima.
Il successo ha cambiato la sua relazione con quel libro?
Ero felice. Mi ha fatto sentire più in sintonia con quel libro. Ero molto triste mentre lo scrivevo perché era un libro difficile da scrivere per me, soltanto dopo ho realizzato quanto scriverlo mi abbia prostrato. Poi l’ho finito, e improvvisamente è come se un peso si fosse tolto dalla testa. Ero felice.
Forse è difficile trovare un libro ‘facile’ da scrivere.
Già. I libri ti portano sempre dove non vorresti andare.
Negli anni Settanta lei scrive un brillante articolo sui film di Woody Allen – tra cui “Io e Annie” e “Manhattan” – pubblicato dalla “New York Review of Books” dove la parola “relazioni” è sempre messa tra virgolette…
Non mi pareva abbastanza onesto il modo in cui Woody Allen ragionava di relazioni. Film dove gente parla delle proprie relazioni e questa è la sola cosa che capita. Per me non funzionava.
In “The White Album” lei scrive: “Sono entrata nella vita adulta dotata di un’etica essenzialmente romantica; credevo che la salvezza si trovasse negli oneri estremi, nelle vite segnate”. Riguardo a matrimonio e maternità…
Oneri estremi e vite segnate, appunto. Non parlo per esperienza vissuta, ma per ciò che ho visto. Matrimonio e maternità sono una specie di condanna – e una salvezza.
Salvezza da cosa?
Dalla solitudine, dalle estremità della solitudine.
Perché la relazione è intima o per il matrimonio in sé?
Il solo fatto di avere un’altra persona – di rispondere a un’altra persona. Per me è stato molto. Era una specie di romanzo, qualcosa che nel tempo si è rivelato grande.
Penso a “Blue Nights” e a “Verso Betlemme” e mi chiedo se si diventi davvero più frammentati, atomizzati quando si è lontani dalla propria famiglia, senza punti di riferimento.
È così. Poi, bisogna imparare a gestire le proprie rovine. Quei libri sono personali non tanto perché parlano della mia personalità o di ciò che mi è accaduto, ma perché narrano il mio smarrimento, l’incapacità di trovare un filo narrativo.
Scrivere qualcosa di frammentario anziché narrativo invoca un altro tipo di pensiero…
Un modo assolutamente diverso di pensare, sì. Di solito cerchi il tono narrativo, un orientamento. Per molti anni la ricerca della narrazione è stata il mio compito. Poi ho cambiato. Blue Nights nasce dall’idea che la narrativa non sia importante, che narrare non sia il punto fondamentale.
È questa una verità più profonda del narrare?
Così mi si è rivelata. Scrivere, per me, è sempre un modo per giungere a una comprensione che altrimenti resterebbe irraggiungibile. La scrittura ti costringe a pensare. Ti costringe a risolvere dei problemi. Niente viene a noi con facilità. Quindi, se vuoi capire cosa stai pensando devi in qualche modo elaborarlo. E per me scrivere è la sola forma di elaborazione che conosco.
Quando scrive, di solito?
Quando trovo il ritmo del libro.
Ci sono momenti in cui scrive e vorrebbe evitarlo?
Accade. Devono esserci dei momenti in cui scrivi anche se non vorresti.
Che natura ha questa evasione, questo evitare la scrittura?
Non pensare. Non penare pensando.
Se non fosse diventata una scrittrice…
Volevo diventare un oceanografo. Quando vivevo a New York e lavoravo per una rivista, la mia intenzione era diventare oceanografo. Non potevo. Mi sono informata presso la Scripps Institution of Oceanography. Mi hanno detto che mi mancavano dei corsi di scienze. Non avevo seguito quei corsi che mi avrebbero permesso di seguirne altri e di seguirne altri ancora. Quindi, ho abbandonato l’idea di diventare un oceanografo.
Le sarebbe piaciuto…
Scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua.
Fonte-Pangea • Rivista avventuriera di cultura & idee è un progetto di Associazione Culturale Pangea- Direttore editoriale: Davide Brullo.
Articolo diVenceslav Soroczynski– Libro di Franz Kafka “Il Processo”·Sognando un tribunale internazionale contro i crimini di guerra che agisca prima che sulle strade di mezzo mondo si asciughi il sangue degli innocenti, mi rigiro fra le mani questo imponente libretto di 170 pagine. Thomas Bernhard, in Estinzione, dice che uno dei pochi autori di lingua tedesca che non scrive come un impiegato è Kafka (che, guarda un po’, faceva proprio l’impiegato). E che il suo libro migliore è questo. Bernhard aveva ragione o no? Non posso rispondere, perché autori tedeschi non ne ho letti molti – però La morte a Venezia non sembra proprio scritto da un impiegato – ma una cosa la posso affermare: se è tanto che non avete un incubo e volete procurarvene uno bello definito, articolato, insistente, di quelli che la mattina dopo non si dimenticano, leggete “Il processo”.
Franz Kafka, “Il processo”, 1925-
Il processo è una metafora di quella frustrazione e di quell’angoscia connaturate agli uomini che devono vivere in una civiltà nella quale il singolo non conosce il suo nemico, non conosce il suo destino né chi l’ha ordito e non ha strumenti per esercitare i propri diritti e per difendersi. E, forse, non conosce nemmeno la propria psiche, dunque è vittima di tutto ciò che va oltre la propria coscienza. Nello sfondo – che si pure si fa protagonista – del romanzo, ogni elemento è ostile al protagonista: ogni relazione, ogni evento, ogni istituzione, ogni collega, ogni sottoscala.
La metafora è costruita raccontando tutto ciò che non funziona nella giustizia, nelle sue procedure ufficiali, nelle prassi, nei locali in cui si celebra, negli uomini che la subiscono e in quelli che la esercitano. Naturalmente, tutto è un po’ esagerato – e, infatti, pare che l’Autore e i suoi amici ridessero mentre il primo leggeva ad alta voce ai secondi il testo – ma non troppo, se siete stati ascoltatori di Radio Radicale negli anni Ottanta e, ahinoi, anche dopo. Io non riesco proprio a ridere in nessuna pagina: ho anzi i brividi mentre il signor K. è costretto a vivere esperienze assurde, frustranti e schiaccianti, che facilmente possiamo figurarci nel nostro mondo contemporaneo, di cui le fantasie di Kafka paiono soltanto un’approssimazione per eccesso.
Il protagonista, che peraltro non è uno spacciatore dei giardinetti, ma il procuratore di una banca, viene arrestato a casa sua da due persone che non sono nemmeno poliziotti. Le quali, mentre aspettano che lui si vesta, gli mangiano la colazione e non gli dicono neppure perché sono andati a prenderlo. L’accusa, inoltre, non viene mai dichiarata, quindi il sospettato si dibatte come un pesce in fin di vita, che non ha neanche capito se il pescatore aveva veramente fame o lo sta suppliziando per mero sadismo. Ogni tanto, qualcuno gli chiede se è innocente e lui risponde sì, ma naturalmente anche questa risposta può essere sbagliata, visto che non si sa di cosa è accusato e… chi può dire di essere innocente di qualsivoglia reato?
E non è tutto, visto che non è individuato neanche il pubblico ministero e tantomeno il giudice, e che il tribunale è insediato in un luogo indegno e plurimo, che assume in ogni sede un aspetto diverso e sempre meno solenne. I brani in cui il povero K. visita i palazzi di giustizia sono davvero un brutto sogno e non è neanche il peggiore, ché le ultime pagine sono ancora più oscure e penose. Tanto per darvi un’idea, io le ho lette con 31 gradi centigradi eppure sentivo addosso quel freddo brutto che si sente solo quando si ha davvero paura – ché ne ho letti di libri horror da ragazzo, ma pochi erano spaventosi come questo. Dracula, L’esorcista e Shining, al confronto, sono storielle per spaventare i bambini, poiché se pochi di noi hanno visto vampiri demoni e morti viventi, tutti hanno visto tribunali in centro città, pubblici ministeri in televisione e raccomandate di colore verde nelle mani del postino.
Citiamo solo di passaggio l’avvocato di K., che non si capisce bene riceva i clienti dal suo letto, perché maltratti i suoi assistiti, perché non riferisca esattamente lo stato del processo e perché pare non avere alcuna strategia difensiva. In più pare che tenga a servizio una ragazza che si innamora così facilmente dei clienti. Il sospetto è che lo stesso avvocato non capisca molto di quello che sta facendo, né di ciò che sta facendo il tribunale. Merita invece d’essere studiato attentamente il complesso delle reazioni e relazioni del povero K., spaventato dalla propria vicenda, incapace di reagire freddamente, tardo nelle contromisure di contenuto logico. Sembra che egli, da un lato, prenda di petto la sua disgrazia per sciogliere subito i dubbi che causano la sua incriminazione e, dall’altro, si muova troppo di lato, faccia giri troppo larghi, sbagliando completamente strategia.
Sembra che tutti ne sappiano più di lui sul mondo, sugli uomini, sulle regole che governano ogni meccanismo, sul suo stesso processo. E che egli vaghi sempre nel corridoio sbagliato, che varchi sempre il cancello proibito, che si affidi solo a personaggi di dubbio peso. Le emozioni che questa lettura suscita si situano in un punto equidistante fra l’inquietudine e l’oppressione psicologica. Quindi, questa volta, non so se consigliarvi la lettura, non vi conosco abbastanza e non me la sento. Fate voi. Ma, se avete deciso di cominciare, vi consiglio di attendere la prossima stagione calda: se non sarà ancora finita la guerra permanente che pare mossa dalla necessità del caos e della distruzione, invece di scegliere fra la pace e il condizionatore, avrete Il processo come terza opzione.
Pierre Antonetti-La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante-
Editore Rizzoli-Articolo di Giovanni Teresi
Descrizione del libro– di Pierre Antonetti –La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante -Articolo di Giovanni Teresi:Innanzitutto, non era la Firenze della Cupola del Brunelleschi, di Palazzo Pitti, del Campanile diGiotto o di Palazzo Strozzi. Era una delle città più popolose d’Italia (nel 1280 contava già tra i quarantamila e i cinquantamila abitanti),ma non aveva ancora dei monumenti architettonici imponenti; il centro cittadino era un complesso intrico di viuzze, case addossate le une sulle altre, botteghe, fondaci e botteghe, dominate dall’alto dalle case torri delle famiglie più importanti della città, costruite soprattutto per difendersi dai frequenti attacchi delle famiglie rivali.
La città ovviamente era piena di chiese,che tuttavia non avevano le dimensioni delle successive costruzioni. Tra le tante, ce ne sono tre molto legate a Dante: la prima è ovviamente il Battistero di San Giovanni, la chiesa cittadina per antonomasia, dove Dante era stato battezzato e dove, come racconta lui stesso nella Divina Commedia, aveva salvato un bambino rompendo una fonte battesimale (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XIX,vv. 16-21: “Non mi parean men ampi né maggiori/ che que’ che son nel mio bel San Giovanni,/ fatti per loco d’i battezzatori; / l’un de li quali, ancor non è molt’anni,/ rupp’io per un che dentro v’annegava:/e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.” ).
Dante Alighieri
La seconda è la Badia fiorentina, una delle chiese più vecchie di Firenze, dove Dante andava spesso a messa, la quale viene citata nel XV Canto del Paradiso da Cacciaguida, l’avo di Dante, come la chiesa vicina alle vecchie mura della città, dal cu campanile si odono ancora i battiti delle ore canoniche ( Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, C. XV,vv. 97-99: “Fiorenza dentro da la cerchia antica,/ ond’ella toglie ancora e terza e nona,/ si stava in pace, sobria e pudica.”).
La terza e ultima chiesa è la chiesa di Santa Margherita,una piccola chiesetta vicino la (presunta) casa di Dante, dove la leggenda vuole che sia la chiesa in cui il Poeta abbia incontrato per la prima volta Beatrice, che andava di solito lì a pregare.
“Se mai continga che ‘l poema sacro/
al quale ha posto mano e cielo e terra,/
sì che m’ha fatto per molti anni macro,/
vinca la crudeltà che fuor mi serra/
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,/
nimico ai lupi che li danno guerra;/
con altra voce omai, con altro vello/
ritornerò poeta, e in sul fonte/
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
Con questi versi, nei quali il poeta spera un giorno di poter tornare nella sua Firenze e ricevere la corona d’alloro nel suo “bel San Giovanni”, ha inizio il XXV Canto del Paradiso, una delle tre Cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri.
In questo capolavoro della letteratura mondiale, tra i tanti argomenti di cui si tratta, si parla molto spesso di Firenze, la patria ingrata del Poeta, da cui nel 1301, con la falsa accusa di baratteria, venne esiliato a vita.
Nonostante la rabbia di Dante verso quel popolo ingrato che l’aveva ingiustamente cacciato, Dante rammenta spesso la sua città natale, sia rimpiangendola, sia più spesso criticandola, per le sue continue lotte intestine e per la corruzione del governo e del popolo fiorentino, avido, invidioso e lussurioso; basti pensare, per esempio, a tutte le discussioni che Dante ha con i vari fiorentini incontrati durante il viaggio ultraterreno (Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Forese Donati,Ciacco), dove tutte le imperfezioni dei fiorentini vengono chiaramente fuori, e alla celebre invettiva del XXVI Canto dell’Inferno, nel quale il poeta inveisce contro Firenze, diventata famosa anche all’Inferno per la presenza di cinque suoi cittadini nella VII Bolgia del VIII Cerchio,dove sono puniti i ladri (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XXVI,vv. 1-3: “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,/ che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande!”).
Oltre ai guelfi e ai ghibellini, nelle strade di Firenze c’erano donne che calzavano zoccoli in legno altissimi su strade trafficate e fangose, banchi di cambiatori, sarti, rigattieri, medici, barbieri e ciarlatani che vendevano droghe miracolose. L’autore Pierre Antonetti, nel suo testo, ci racconta diffusamente la tipica giornata del contadino. Si entra nei meccanismi delle magistrature, nei segreti delle corporazioni di artigiani, e si scopre come venivano combinati fidanzamenti e matrimoni. Proprio in questo periodo ha inizio il grande sviluppo artistico di Firenze, che oltre alle rime di Dante si concretizza con gli affreschi di Giotto e i primi disegni per il progetto del Duomo.
Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo
un comunista tra la guerra civile spagnola e la resistenza antifascista europea (1895-1973)
Editore- Red Star Press -Roma
Descrizione del libro di Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo-Non esiste avventura più grande, né romanzo in grado di eguagliare la forza di una vita vissuta dalla parte della classe operaia. Una vita come quella di Enrico Russo, metalmeccanico. Già protagonista del «biennio rosso» e ultimo segretario della Camera del Lavoro di Napoli, fu costretto dal fascismo alla clandestinità, non certo all’inazione. Non è certo un caso, dunque, se troveremo Russo in seno ai gruppi comunisti di lingua italiana in Francia e, in Spagna, al comando della Columna Internacional Lenin, in prima linea sul fronte di Aragona. Internato in un campo di concentramento in Francia, quindi destinato al confino in Italia, riguadagnerà la libertà nel 1943, quando svolgerà un ruolo determinante nella rifondazione della Confederazione Generale del Lavoro, la celebre «CGL rossa»: una pagina di storia fondamentale per il sindacalismo italiano che, grazie al lavoro di Francesco Giliani, si fa materia viva, carne e sangue del proletariato italiano nel cuore di una stagione di riscatto a cui, senza sconti per gli opportunisti e i rinnegati, si diede il nome di «rivoluzione».
«Probabilmente, le sconfitte dei movimenti rivoluzionari nei quali si era battuto in prima fila nella Spagna del 1936-1937 e nella Napoli del 19431945 esaurirono la sua forza. Ma non del tutto. Non gli mancò, infatti, la forza per non integrarsi in nessuna burocrazia politica, stalinista o socialdemocratica, contro le quali aveva combattuto negli anni più tempestosi e ardenti della sua vita. Avvisati dai dipendenti del cronicario del decesso del proprio parente, il figlio Alberto e il nipote Enrico curarono il funerale di Enrico Russo. Il nipote, mosso da affetto, cercò nelle bancherelle del quartiere una copia de Il Capitale di Karl Marx da porre nella bara del nonno come omaggio. Questo lavoro, al di là dei suoi aspetti scientifici, vorrebbe essere anche una ripresa di quel gesto»
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
Roma, Italia
CAP 00147
Traduzione di Monica Pareschi- titolo originale: The Mountain Lion
-In copertina-Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
Descrizione del libro di Jean Stafford-Qualcosa di morboso e strisciante, che è del paesaggio, delle presenze che lo animano, degli interni di case occasionalmente trasformate in camere ardenti, accoglie il lettore di questo paradossale romanzo di formazione, in cui all’impossibilità di abbandonare l’infanzia si accompagna quella di rimanere bambini. Ralph e Molly, fratelli malaticci e simbiotici, alleati contro l’universo stereotipato degli adulti – l’ottusa routine scolastica e quotidiana, una madre perbenista e due affettate sorelle maggiori, il fronte compatto delle autorità –, dividono il loro tempo tra la casa di famiglia nei sobborghi di Los Angeles e un ranch in Colorado appartenente al fratellastro della madre. Qui ogni estate i piccoli vengono in contatto con un mondo selvaggio e brutale, che contrasta con l’inautentico ordine della vita suburbana. Ma se dapprima la rudezza e la libertà dell’Ovest affascinano entrambi, poi è solo Ralph a entrare nell’orbita in cui lo attirano lo zio e la sua cerchia, e ad accettare i riti di passaggio necessari a trasformarlo in giovane uomo. E mentre il fratello si sposta sempre più verso un immaginario virile fatto di battute di caccia e di grandi bevute, e vive di pari passo l’inevitabile risveglio della sessualità, Molly, bambina puntuta e sarcastica che anticipa alcuni personaggi di Shirley Jackson, si aggrappa disperatamente al mondo surreale dell’infanzia. L’apparizione nei dintorni del ranch di un puma femmina – animale elusivo e archetipico, nel segno della tradizione letteraria americana – sancirà la scissione definitiva del legame fraterno, precipitando la storia verso un impensabile epilogo.
Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
CAPITOLO PRIMO
Ralph aveva dieci anni e Molly ne aveva otto quando si ammalarono di scarlattina. La malattia aveva lasciato a entrambi una specie di disfunzione ghiandolare che, pur non essendo maligna, provocava in loro uno stato di intossicazione quasi perenne, dando spesso origine a e- pistassi così copiose che dovevano mandarli a casa da scuola. In genere succedeva a tutti e due contemporanea mente. Ralph si precipitava nel corridoio sanguinando a profusione dal naso e trovava Molly che usciva proprio in quel momento dalla terza, con un fazzoletto appallot- tolato e fradicio premuto sulla faccia. La madre non sop- portava la vista del sangue e la sua angoscia, nel vederli arrivare l’uno dopo l’altra sul vialetto d’accesso, non si attenuò mai, nemmeno quando quei ritorni a casa nel bel mezzo della giornata diventarono una consuetudi- ne. Ogni volta li implorava di telefonarle in modo da po- ter mandare Miguel, il factotum, a prenderli con la mac- china. Ma loro non lo facevano mai, perché si divertiva- no a tornare a casa a piedi, e per tutto il tragitto provava- no un piacevole senso di rivalsa nei confronti delle sorel- le, Leah e Rachel, ancora rinchiuse a scuola senz’altro da fare che masticare paraf$na di nascosto.
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Nel settembre successivo alla malattia, il giorno in cui era previsto l’arrivo del nonno Kenyon, il patrigno della madre, per la sua visita annuale, si ritrovarono fuori dal- l’aula di educazione artistica con il sangue che usciva a $otti dal naso, e vedendo oltre la porta socchiusa
la signorina Holihan alle prese con la taglierina e un fascio di carta manila, si misero a camminare in punta di piedi soffocando le risate $nché, giunti alle scale, comincia- rono a correre. Una volta fuori, nel cortile deserto, si congratularono l’uno con l’altra: Molly non sarebbe sta- ta costretta a disegnare una mela sul foglio della signori- na Holihan e Ralph si sarebbe risparmiato non solo cal- ligra$a, ma anche canto. In realtà non ci avrebbero gua- dagnato niente a rientrare qualche ora prima del pul- mino della scuola, visto che il nonno non sarebbe arri- vato alla stazione di Los Angeles prima di metà pome- riggio e Miguel ci avrebbe messo un’altra ora a portarlo a casa con la Willys-Knight. E così cincischiarono più del solito, per nulla sicuri che a casa avrebbero trovato qual- cosa di interessante da fare, ma sicurissimi, d’altra par- te, che la madre, oltre ad agitarsi e a non star zitta un momento come faceva ogni volta che aspettava visite, vedendoli sarebbe montata su tutte le furie.
Era una strada di campagna stretta e tortuosa quella che facevano per tornare. Su entrambi i lati correva un piccolo fosso d’acqua limpida, che biascicava come una bocca. Di tanto in tanto si fermavano a tuffarci i fazzolet- ti e si ripulivano il sangue dalle mani e dalle braccia. Sulla destra c’era un aranceto da cui, in ogni stagione dell’anno, arrivava un profumo opprimente, e dove qualche volta vedevano stormi di uccelli così strani e va- riopinti che dovevano arrivare dai mari del Sud o dal Giappone. Alcuni degli alberelli piramidali erano sem- pre $oriti e altri erano sempre carichi di frutti. Quel giorno nell’aranceto c’era un uomo arrampicato su una scala, che si girò sentendoli arrivare. Si levò il cappello asciugandosi la fronte con la manica della camicia nera e gridò: « Ciao, ragazzi », ma dato che era messicano lo-
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ro non risposero e anzi allungarono il passo, atterriti, $nché non sentirono più la sua risata di scherno.
Poi passarono davanti al grande casei$cio immacola- to del signor Vogelman. Il signor Vogelman era un tede- sco grasso che indossava una tuta bianca e che una volta era stato preso a sassate da un gruppo di scolari di se- conda quando avevano saputo cosa avevano fatto i cruc- chi ai belgi. Le madri, nel timore che potesse vendicarsi esponendo il latte ai bacilli della tubercolosi, gli aveva- no scritto per scusarsi, ma visto che l’episodio era suc- cesso a Halloween, il signor Vogelman aveva frainteso tutto senza capire il senso di quella lettera. Allevava mucche di razza Guernsey col manto che al sole emana- va un luccichio metallico, non proprio giallo banana e nemmeno della sfumatura azzurrina del latte, ma una via di mezzo. Quel giorno vicino alla staccionata c’era un vitello appena nato e, quando vide i piccoli umani che lo $ssavano, il suo muso di cerbiatto prese un’e- spressione di malinconico stupore. La madre muggì stizzita, con le enormi froge nere dilatate, e loro corsero via perché avevano paura delle mucche, anche se non si sarebbero mai sognati di ammetterlo. Conoscevano una barzelletta su un vitello che avevano letto su « The Amer- ican Boy » e, quando furono a distanza di sicurezza dal pascolo, la recitarono come se fosse un dialogo:
ralph: Sono di vitello le tue scarpe| molly: Come no, è pelle conciata. ralph: Lo conciano male|
molly: Per le feste! Col pugnale!
Risero tanto che dovettero sedersi per terra e tenersi la pancia; per via delle risate il sangue usciva molto più in fretta, e allora, torcendosi dal dolore, si tamponavano disperatamente il naso, urlando: «Ahi! Ahi!». In$ne, quando si furono un po’ calmati, Ralph disse: « Mi sa che questa la racconto al nonno» e Molly disse: «Anch’io». Negli ultimi tempi, lei ogni tanto gli dava sui nervi: spes-
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so, quando Ralph aveva $nito di raccontare una barzel- letta o una storia, lei immediatamente la ripeteva pari pari, senza dare agli altri il tempo di scoppiare a ridere o di rimanere sorpresi. Non solo, innumerevoli volte aveva raccontato i sogni del fratello $ngendo che fossero i suoi. Ralph non voleva che la barzelletta sul vitello si rive- lasse un $asco e così, dopo un attimo di tentennamento, accettò di recitarla insieme alla sorella come avevano ap- pena fatto. Non era lunga come una di quelle storielle sui negri che raccontavano Leah e Rachel, ma era molto più divertente, ed erano sicuri che il nonno non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare in quella sua risatona fragorosa, dandosi una manata sul ginocchio mentre e- sclamava: « Perbacco, buona questa! ».
Proseguirono pensando al nonno, strascicando alle- gramente i piedi nella polvere della strada $no a im- biancarsi completamente le scarpe, stringhe comprese. Vicino al casei$cio c’era un arroyo profondo e del tutto prosciugato, che da quelle parti chiamavano « Rio ». Era il risultato di un’inondazione che aveva avuto luogo nel- la primavera in cui Leah aveva tre anni, ma Ralph e Mol- ly avevano sentito raccontare così spesso i particolari del- la catastrofe da esser certi che le loro impressioni derivas- sero dal ricordo, e non dai discorsi della madre e dei suoi amici quando non avevano niente di nuovo da dire ed e- rano costretti a rintuzzare le emozioni del passato. Du- rante l’alluvione il signor Fawcett aveva attraversato un torrente in piena su un cavallo di nome Babe, ormai mor- to da tempo, per soccorrere un’anziana la cui casa era stata spazzata via subito dopo. Si era caricato la donna in sella come un sacco di mangime e le aveva fatto la respira- zione arti$ciale sul pavimento della cucina. Dalla pioggia scrosciante erano sbucati migliaia e migliaia di fringuelli, che si erano posati sulla veranda; erano così tanti che sembrava di essere in una riserva, aveva detto il papà; Fus chia stava preparando una crostata di ciliegie e lui le ave- va chiesto se per caso non voleva aggiungerci anche due dozzine di fringuelli. Dal vialetto d’accesso era arrivato
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galleggiando un albero di pompelmo, con le radici e tut- to, e il papà l’aveva piantato in giardino accanto al collet- tore solare. Ogni anno dava un unico frutto, più piccolo di una pallina da golf e quasi altrettanto duro.
Sul letto del Rio Ralph e Molly trovavano sassi colora- ti, rosa, verdi, gialli e azzurri. A volte, nelle pozze che si formavano dopo un acquazzone, si vedeva luccicare l’o- ro degli stolti. Le sponde ripide erano tutte ricoperte di strani $ori ispidi dalle radici poco profonde e da mac- chie di malva che stillava un latte amaro. C’era un punto in cui il fango si seccava sbriciolandosi come pastafrolla e da piccola Molly era convinta che con quello si prepa- rassero i biscotti del gelato. Tutto ciò che di misterioso e malvagio c’era al mondo veniva dal Rio. Quei sassi lisci e colorati erano in realtà gioielli rubati e il ladro era uno Skalawag nero come il carbone che di giorno dormiva nel deposito del mais del signor Vogelman, ma la notte rimaneva sveglio. Ralph e Molly non si azzardavano a scendere nel Rio col naso sanguinante, perché lo Skala- wag sentiva l’odore del sangue a qualunque distanza e di sicuro avrebbe dato loro la caccia. E così passavano veloci, guardando il Rio con la coda dell’occhio. L’au- tunno precedente, quando ci avevano portato il nonno Kenyon, lui aveva detto: « Ah, ecco, così si ragiona. C’è troppo verde in quest’accidente di California, per la mi- seria. Ma quel $umiciattolo secco lì, quello sì che è un posto come Dio comanda ». Aveva fatto correre gli oc- chi neri sul paesaggio respirando appena, come se la fragranza dei $ori d’arancio lo offendesse, e aveva det- to: «Ma pensa tu, neanche l’inverno avete, da queste parti! Diamine, meglio andarsene in carretta all’inferno che perdersi i primi $occhi di neve che cade ». I bambi- ni erano un po’ indignati e un po’ intimiditi; rendendo- sene conto, lui aveva spiegato – anche se loro non ci ave- vano capito niente – che lì la natura non rappresentava nessuna s$da per l’uomo. « Prendete il mio ranch nel Panhandle. Non c’è posto al mondo dove la natura sia bizzosa come da quelle parti, ma ogni volta che si arrab-
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bia è uno schianto di ragazza, eh! ». Quando aveva com- prato il terreno, su ventimila ettari non c’era una sola goccia d’acqua, nemmeno un ruscello, uno stagno. Da- vanti alla sua intenzione di acquistarlo, gli avevano dato tutti del babbeo. Ma lui era andato avanti per la sua stra- da e l’aveva comprato lo stesso, poi aveva preso una ver- ghetta biforcuta di agrifoglio e aveva scelto un punto su un’altura subito a ovest di dove intendeva costruire la casa. Era rimasto fermo lì con la sua bacchetta di agrifo- glio, tenendo la forcella con entrambe le mani. Dopo un po’, la verga si era piegata verso il basso: nella dire- zione indicata c’era una sorgente profonda di acqua po- tabile che non si era mai prosciugata.
Da quel momento il Rio aveva assunto un nuovo signi$cato per Ralph e Molly, e si erano convinti che lo Skalawag fosse così circospetto perché temeva che potes- se arrivare qualcuno con una bacchetta divinatoria, e a quel punto l’acqua avrebbe trascinato via tutti i suoi gio- ielli. Anche adesso, ogni volta che passavano davanti all’arroyo, pensavano al ranch del nonno nel Panhandle e Ralph, sospirando, diceva: « Accipicchia, come mi pia- cerebbe andare nell’Ovest ». Perché credeva al nonno Kenyon quando gli diceva che la California non era l’O- vest ma una cosa a sé, come la Florida o Washington D.C.
Per esempio, nell’Ovest non si trovavano mica tutte quelle carabattole che piacevano tanto alla signorina Runyon. La signorina Runyon abitava vicino al Rio in una casetta bianca con le persiane verdi e begonie a tut- te le $nestre, che a Molly piaceva tanto prima che il non- no la de$nisse « una roba che non sta né in cielo né in terra ». Il giardino arrivava $no alla strada e tra le aiuole di phlox, $ordalisi e acetosella c’erano strane creature d’ogni sorta: una rana verde gigante, tre nanetti, una papera con quattro paperette, due uccellini azzurri grossi come gatti, un’olandesina con la sua cuf$etta e un palo totemico. Sulla porta di casa c’era un’insegna che diceva « Locanda Passapure ». Accanto alla casa c’e- ra la cuccia del cane, costruita esattamente come la lo-
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canda Passapure, e sopra l’apertura c’era scritto « Il rifu- gio del pastorello », perché la signorina Runyon aveva un pastore tedesco di nome Rover. Sotto la grondaia, sulla veranda, c’era una casetta per gli uccelli costruita come le altre due, ma il nome era meno evocativo: si chiamava semplicemente « Casa degli scriccioli ».
La signorina Runyon era la direttrice dell’uf$cio po- stale e a detta di tutti era proprio un personaggio. Gui- dava da sola un’automobile che chiamava «Mac», ab- breviazione di « macchina », anche se lei per ridere l’a- veva soprannominata « Macchiappa ». Non mangiava né carne né spezie, perché era una seguace del dottor Kel- logg. Di tanto in tanto invitava i Fawcett a un picnic sera- le nel suo giardino e serviva hamburger fatti con i cerea- li della colazione tenuti insieme da una $nta gelatina di piedini di vitello. La domenica pomeriggio andava sem- pre a casa loro a leggere il giornale e non faceva mistero del fatto che, come a tutti i bambini, le piacesse la pagi- na dei fumetti. Li leggeva con la stessa serietà e la stessa concentrazione di Ralph, Molly, Leah e Rachel. Una volta aveva detto che era stufa marcia di Elmer Tuggle e del suo eterno guantone da baseball; il suo preferito era Happy Hooligan. A dispetto di quell’aggressiva bono- mia, era molto paurosa e non se la sentiva di dormire in casa da sola, perciò aveva invitato a stare da lei una don- nina giapponese, la signora Haisan. Se per caso la signo- ra Haisan doveva assentarsi, andavano a dormire da lei Leah e Rachel, che tuttavia lo facevano malvolentieri perché, la prima volta che si erano fermate a casa sua, lei nel bel mezzo della serata aveva alzato improvvisa- mente gli occhi dalla rivista femminile che stava leggen- do e aveva detto in tono nervoso: « Avete sentito| Qual- cuno ha inghiottito qualcosa! ». Secondo Ralph e Molly era stato lo Skalawag, e le cose che poteva aver inghiotti- to erano così numerose e terri$canti che bastava la sola parola a farli tremare come foglie.
La signora Follansbee, la moglie del pastore, aveva a- vanzato scherzosamente l’ipotesi che la signorina Run-
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yon avesse messo gli occhi sul signor Kenyon, e in parte la supposizione si basava sul fatto che i loro cognomi fa- cevano rima; è vero che in diverse occasioni, durante le visite del nonno, lei li aveva invitati ad andare a casa sua «accontentandosi di quel che passa il convento», ma loro non ci erano mai andati, perché, come disse la si- gnora Fawcett nel segreto familiare, « non oso pensare a cosa farebbe una buona forchetta come il signor Ken- yon se gli servissero cereali per cena, per quanto abil- mente camuffati ».
Ralph pensò che forse avrebbe potuto raccontare al nonno una storiella sulla signorina Runyon, una storia inventata ma usando il suo nome, e rimase lì a ponzare appoggiato alla palizzata, lasciando gocciolare il naso sulle assi, $nché due non assunsero l’aspetto di lance andate a segno. O forse avrebbe potuto raccontarne una sulla signora Haisan. La signora Haisan aveva due $gli più o meno della stessa età sua e di Molly, e i bambini vivevano con la zia Hana, un donnino minuscolo che la- vorava dalla signora Fawcett come lavandaia. Si chiama- vano Maisol e Maisako e uno era nato il 4 luglio, l’altro il 1° aprile. C’era stato un episodio terribile quando erano venuti a casa loro con Hana e avevano costretto Ralph e Molly a seguirli nel campo di cocomeri, e non solo aveva- no tagliato un cocomero acerbo con una spatola per lo stucco, ma avevano detto e insinuato cose così orribili che Ralph e Molly erano stati costretti a picchiarli. Natu- ralmente avevano vinto in quattro e quattr’otto, perché i musi gialli erano molto meno robusti di loro.
Ralph non riuscì a farsi venire in mente nessun’altra storiella a parte la barzelletta sul vitello. Allora, facendo marameo alla casa della signorina Runyon, cantilenò: « Postina beduina babbuina truffaldina, non mi fai nien- te, faccia di serpente, non mi fai male, faccia di maia- le!». E poi, prendendo per mano la sorella, si mise a correre veloce come il vento perché la signora Haisan e Rover erano comparsi simultaneamente sulla porta dei rispettivi alloggi e, sebbene Rover fosse innocuo come
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una coccinella e con ogni probabilità la signora Haisan volesse solo offrire loro un kumquat candito, era più di- vertente pensare che fossero inferociti come lo Skala- wag. Appena la casa non fu più visibile, Ralph si inginoc- chiò a terra, accostò l’orecchio alla strada e balzò in pie- di esclamando: «Ehi! Arrivano!». A quel punto, non smisero più di correre $nché non ebbero imboccato la via di casa.
Dopo un centinaio di passi videro le palme che deli- mitavano la loro proprietà. In quell’ultimo tratto, per un motivo o per l’altro, Molly pensava sempre a Redon- do Beach, dove avevano trascorso qualche settimana alla $ne dell’estate. Alzando gli occhi verso il cielo az- zurro e vuoto, aveva ancora la sensazione di essere a pie- di nudi nella sabbia rovente, a caccia di stelle marine e ricci, e di sentire le urla terrorizzate delle madri e quel- le petulanti dei $gli che, avanzando nell’acqua, rispon- devano che le onde non erano poi così alte. Pensare al- la spiaggia la rendeva irrequieta e nostalgica, e di tanto in tanto le strappava un gemito sommesso, perché ogni volta le tornava in mente lo strano fremito d’orrore mi- sto a piacere provato quando un gabbiano le aveva striz- zato l’occhio e lei si era accorta che muoveva solo la pal- pebra inferiore, mentre l’altra rimaneva immobile. Quel giorno però non pianse: Ralph era troppo allegro – lo sapeva – per consolarla, e quando Molly piangeva l’uni- co piacere era proprio farsi abbracciare da lui, inalare il suo odore pungente di serge e bretelle di cuoio, e senti- re, rabbrividendo, le sue mani piene di verruche che le s$oravano la faccia. Molly poteva sempre imporsi di pensare con tristezza non al mare bensì a suo padre, che era morto; di lui non aveva ricordi, ma sapeva che era in cielo con Gesù e l’avrebbe miracolosamente rico- nosciuta quando lei lo avesse raggiunto, anche se al mo- mento della sua morte non era ancora nata. Era il pen- siero più elettrizzante che avesse mai avuto in vita sua, e la mandava in visibilio dal giorno in cui lei e Ralph ave- vano concordato di non morire $nché lui non avesse a-
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vuto novantanove anni e lei novantasette: in quel modo al loro arrivo in cielo sarebbero apparsi molto più vec- chi del padre, che invece era morto all’età di trentasei anni.
Appena imboccarono il vialetto d’accesso, Ralph attac- cò con le tabelline: « Sei per tre| ». « Diciotto » rispose Mol- ly. E Ralph: «Asino cotto». Continuarono: «Otto per ot- to|». «Sessantaquattro». «A Sophia è morto il gatto». «Due per dieci|». «Venti». «Ho perso tutti i denti», e a quel punto Molly strillò, sbellicandosi dalle risa: « Mam- maaa! Ralph ha perso tutti i denti! ». Ma la mamma non era seduta sulla veranda come al solito, e Ralph e Molly rimasero a guardarsi come due ebeti, pieni di imbarazzo.
Avrebbero dovuto saperlo che era in cucina, indaffa- rata con i preparativi per l’arrivo del nonno. La sentiro- no accorrere alla porta nelle sue pantofoline col tacco, gridando, in previsione della scena che si sarebbe trova- ta davanti: « Oh, non ditemi che è successo di nuovo! ». Poi si fermò al di là della zanzariera, le mani sui $anchi, il vitino da vespa nella gonna grigio perla, incerta se ar- rabbiarsi o preoccuparsi, per un attimo troppo sconvol- ta anche solo per aprire bocca. I bambini rimasero in attesa sul primo gradino come cani perfettamente adde- strati e la madre, vedendoli così umiliati, decise di angu- stiarsi e corse loro incontro, abbracciandoli ma allo stes- so tempo facendo attenzione a non macchiarsi la cami- cetta bianca. Profumava di giaggiolo e pan di zenzero, e i bambini, annusandola, ebbero la netta sensazione che l’ospite sarebbe arrivato di lì a poco, una sensazione an- cor più netta di quella che avevano provato al mattino, quando avevano visto Miguel uscire in macchina per an- dare alla stazione. Era partito presto per acquistare ogni sorta di prelibatezze ai mercati di Los Angeles: tra le al- tre cose, avrebbero mangiato amarene e lokum.
«Oh, poveri pulcini!» esclamò la signora Fawcett, e gli occhi azzurri le si riempirono prontamente di lacri- me. « Oh, cari, perché non avete telefonato| Perché dovete sempre far arrabbiare la mamma| ».
Marian Drăghici-“Illimitato – De necuprins” Giuliano Ladolfi editore
Nota di Sonia Elvirenau, traduzione di Giuliano Ladolfi-
Rivista Atelier
Descrizione del libro di Marian Drăghici si distingue nella lirica contemporanea per l’audace tentativo di scrivere il “Libro della sua vita”, sempre rivisto, levigato, per cogliere nel poema l’illuminazione, come Brâncuși, il volo dell’uccello nelle sue sculture, seguendo così l’esortazione di Stéphane Mallarmé: «Vincere significherebbe comporre, finalmente, l’Opera, il Libro – l’unico –, trionfare, quindi, sulle fatalità e le leggi del mondo, su tutto ciò che il pensiero non può sottomettere al suo impero, sul Destino». [Lettera a Verlaine (1885), citata da J. Royère nel suo libro Mallarmé]
Nel 2022 è apparsa in Italia la sua raccolta bilingue italo-romena illimitato/ de necuprins, tradotta dal poeta, critico e traduttore Giuliano Ladolfi in un’armoniosa composizione poetica che comprende la maggior parte delle poesie della raccolta leggero, lentamente (2013), un minimo di versi del volume păhăruțul (2019), poesie nuove, pubblicate su riviste e inedite. Eccellente critico letterario, Giuliano Ladolfi intuisce nella creazione di Marian Drăghici una radicale trasformazione della sua coscienza attraverso l’arte e il suo dramma esistenziale, accogliendo il libro come «testimonianza di una graduale “metanoia”».
La struttura del libro rivela il percorso seguito dal poeta, dal sacro estetico al religioso, dall’amore per la poesia all’amore per Dio, dall’intuizione della presenza divina nell’uomo all’attivazione dell’archetipo della divinità nella mente e nel cuore, dalla poesia che salverà il mondo alla fede che salverà l’uomo attraverso la sua rinascita nello spirito, nella divinità, nel cammino ascetico da uomo a santo.
La poesia e l’amore sono per Marian Drăghici forme per sperimentare l’illuminazione, passi verso la “metanoia” annunciata dal titolo stesso della precedente raccolta, luce, lentamente. L’esperienza esicasta, per mezzo della grazia acquisita con la preghiera, sulle orme dei Santi Padri, della tranquillità interiore attraverso la comunione con Cristo, è testimoniata nella poesia Il gatto faustiano, un racconto invernale incompiuto.
La raccolta illimitato/ de necuprins si apre con la poesia, che richiama le parole del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Il poeta cerca la parola illuminata attraverso la quale si rivela la divinità, la traccia del “seme degli angeli” nell’uomo, il legame con Dio.
Tutta la sua esistenza poetica è giustificata dalla ricerca incessante dello «sfolgorio di Dio» nell’uomo. Poiché la grazia poetica è di essenza divina, il poeta assume questo dono come una sorta di apostolato, rivelando fin dall’inizio il suo percorso spirituale verso la scoperta della divinità e il legame con il sacro religioso:
Ora, questo libro è il luogo illimitato/indefinito
dove l’angelo entra nell’uomo, per suonare l’armonica rossa,
quando ancora lo stava visitando.
Più precisamente, una fotografia sfocata, una mappa imperfetta di questo luogo.
«Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro…».
Logicamente, la traccia rimasta in quel luogo battuto dall’uomo,
dopo la partenza intempestiva dell’angelo,
è la poesia.
Il mio lavoro di una vita: fare la fotografia, la grande fotografia –
In realtà, preservare un bagliore di angelità
prima che si cancelli completamente dalla memoria di questo luogo
la traccia del guizzo di Dio nell’uomo.
(All’inizio)
Su questo filo si costruisce la sua nuova raccolta tra l’amore per la poesia e l’amore per Dio, fondendo in essa il dramma di se stesso, dell’essere umano. Il poeta confessa infine la sua conversione, rinunciando alla vanità mondana:
ormai, il solo premio che riceverò con gioia
(ma che possa darlo proprio a me!)
è di essere in vecchiaia pazzo per Cristo
come ero in gioventù pazzo per la poesia».
(prezzo)
Marian Drăghici trasforma la sua poesia in una forma di conoscenza ontica e metafisica, giustificando così la sua esistenza di poeta. Dal rifiuto della parola di posarsi sulla pagina bianca alla vertigine delle sue visioni, le parole scorrono in poesia sulla poesia, l’amore, la sofferenza, la morte, la divinità, la rinascita, nel gioco raffinato dell’immaginario poetico passato attraverso sottili stratificazioni esistenziali e libresche. Si aprono così finestre successive sulle profondità non illuminate della conoscenza, sulle molteplici iniziazioni acquisite dal poeta attraverso la sperimentazione e la lettura.
La lucida confessione conserva l’essenza delle sue esperienze drammatiche: il male terrificante proiettato dal subconscio nell’onirico, la morte della giovane moglie dopo atroci sofferenze, la solitudine, la desolazione dell’anima, l’alcolismo, la messa in discussione della divinità, la scoperta del senso della sofferenza, l’invocazione della divinità, l’aspirazione ad accedere alla Gerusalemme celeste, la conversione.
Il poeta sopravvive alle molteplici forme di morte credendo nell’arte e nella divinità. La memoria affettiva si intreccia con la memoria culturale, substrato leggero della lirica di Marian Drăghici, formata spiritualmente alla fonte della grande letteratura universale e romena. Le sue letture si irradiano nel palinsesto del testo poetico. I riferimenti letterari, mitologici, religiosi, pittorici, psicanalitici sono precisi, diluiti o fusi nel testo. L’autenticità della vita, dell’esperienza personale, prevale nelle sue poesie, la cui espressione si diversifica metaforicamente e visionariamente.
Il lettore è contemporaneamente invitato a scoprire la complessità di una poesia in cui l’orizzonte si estende dall’interiorità del poeta all’esteriorità sociale, dalla realtà fisica a quella metafisica, dall’esperienza individuale a quella collettiva, dal conscio all’inconscio. Un poema elegiaco, mistico, salmico, ermetico, di strana bellezza, con un evidente taglio sarcastico quando si parla di sociale.
Il poeta scrive una vita all’interno delle stesse ossessioni, racchiudendosi nel suo mito personale. La sua poesia gravita a spirale intorno a un nucleo orfico, in variazioni di motivi ricorrenti. Apparentemente, la lirica di Marian Drăghici si chiude sulla sua esperienza, in una ripresa dei nuclei tematici, con un doppio ruolo. Da un lato, crea un modo specifico di lavorare in poesia, assunto con lucidità; dall’altro, permette di sfumare, aprendosi a una sfera più ampia di conoscenza e autoconsapevolezza: dal sé all’altro, dal profano al sacro, dal reale al metafisico.
Le metafore ricorrenti, che rivelano le sue ossessioni, operano all’interno delle poesie come un segno poetico riconoscibile, come la firma di un pittore su un quadro. Si riconosce così il poeta nelle varianti delle sue opere e contemporaneamente si ha la strana sensazione di conoscere la sua poesia ma di non averla decifrata, di essere ancora un enigma, di trovarsi di nuovo, come al primo contatto con la sua poesia, nello stesso stadio iniziatico. I versi non hanno perso la loro freschezza, come se il vecchio si rigenerasse incessantemente assorbito in una nuova forma. È come trovarsi di fronte a una casa con due ingressi, uno ti porta in uno spazio familiare, l’altro ti porta fuori da esso, in una zona crepuscolare in cui non riconosci più le cose.
Il nucleo della creazione di Marian Drăghici è orfico, generato dalla morte della giovane e amata moglie dopo una lunga sofferenza. Sono le poesie d’amore più belle e autentiche, che sublimano il sentimento e possono sempre stare accanto a quelle della lirica universale:
forse esiste
qualcosa di più reale del nulla, signor Beckett,
l’amore di una donna che non esiste più
(la morte non ci ha separati né l’oblio)
e che improvvisamente ti viene voglia di rivedere a tal punto che
vorresti lasciare la terra
vorresti lasciare la terra
ma non è ancora il momento.
basta dire che presto forse rivedrò il tuo volto, mia amata,
come tante volte ho guardato la morte in faccia
o probabilmente di profilo
nei giorni tumultuosi della rivolta vagando per le strade
nella speranza di ritrovarti,
sì, ti troverò
da qualche parte lontano la sera dopo la morte
vicino a un piccolo fuoco di ramoscelli presso la sorgente,
assolutamente al sicuro dagli uomini,
assolutamente al sicuro dalle belve
al solo luccichio delle stelle del cielo e nei tuoi movimenti
con la grazia della nudità originaria
(qualcosa di più reale del nulla).
Il poeta reprime il suo dolore, rivelando il vuoto dell’anima causato dall’assenza dell’amata, rappresentata figurativamente da un albero che continua a crescere dal suo cuore verso il cielo, una scala verso l’Aldilà:
senza amore sono veramente capace
di far crescere in me l’assenza
un lussureggiante albero, soffice, fino al cielo.
– come dal cuore dei morti?
– come dal cuore dei morti! Lassù,
sul ramo dell’apice ti culli nuda
tra le tue braccia l’uovo primordiale appena deposto
dall’uccello di Char, spirituale.
(ramo inclinato sul mare)
Lo shock della morte è così intenso che la voce del poeta tace per un po’, sostituita dalla voce stellare e dalla luminosa evanescenza dell’amata. Quando poi la ritrova, l’ispirazione, il tono lirico, la struttura, il linguaggio e l’atteggiamento cambiano. Da elegiaco, il poeta diventa parodia, ironia, sarcasmo, anche nelle poesie incentrate sull’atto della creazione poetica, sui metapoemi, sulla vera arte poetica.
La poesia autentica, infatti, è di natura sacra, la scrittura non è che una trascrizione imperfetta della poesia nascosta, invisibile, rivelata in sogno, un’arte povera nella concezione del poeta. Da qui lo stato di veglia per cogliere il momento di grazia e l’incapacità di creare la poesia sognata in uno spasmo letale. Ogni poesia scritta è percepita come una morte simbolica per la sopravvivenza della parola che dovrebbe essere illuminazione e salvezza.
L’esperienza della morte nelle sue molteplici forme (malattia, sofferenza, morte, guerra, alcool) è il filone su cui si costruisce la poesia di Marian Drăghici e giustifica la sua solitudine e la sensazione di esilio permanente, il suo vivere “con gli esiliati e i morti”. Ma il brivido tanatologico è superato dalla rinascita in una nuova luce, dalla graduale rivelazione di Dio non solo come ispirazione poetica, amore per l’altro (la moglie), ma soprattutto come esperienza religiosa: ” è tempo di avere un cristallo nel pensiero – / è così che io vedo Cristo – / un’assenza piena di lacrime / che non cadono a terra. // è tempo di avere un cristallo nel cuore – / è così che io sento Gesù – / un’assenza piena di lacrime / che salgono in alto” (luce, dolcemente, ultima variante).
Per Jung, la scoperta di Dio equivale alla riattivazione della funzione religiosa che esiste come archetipo nell’uomo, quindi alla connessione con il divino, alla riscoperta dell’angelo nell’essere umano. Il percorso di sopravvivenza del poeta è quello spirituale invocato nella poesia Gerusalemme, un percorso drammatico, perché passa attraverso la morte, la rivolta, l’incomprensione, l’interrogazione, la decadenza, la ricerca, l’esperienza mistica per la resurrezione nello spirito santo, l’esperienza esicasta, la comunione con la Divinità. Dal bambino affascinato dal cielo riflesso nell’acqua dello stagno, all’adolescente terrorizzato da uno spirito maligno, al fumatore malinconico e solitario, dall’ Harrum solitario e alienato al poeta oltraggiato dal declino della società, dallo scriba mortificato dall’impotenza al mistico illuminato, c’è il cammino dell’ascesa spirituale, del graduale avvicinamento a Dio, della rinascita attraverso la fede autentica. La tragedia dell’esistenza umana viene superata dalla rinascita nello spirito, grazie alla grazia acquisita con la preghiera costante, realizzando così la “metanoia” del poeta. L’edizione bilingue illimitato/ denecumpris rappresenta il risultato più elevato della lirica di Marian Drăghici, la traduzione nella lingua di Dante la impone nel circuito universale. Il testo in lingua rumena è pubblicato sul sito della rivista letteraria «Apostrof» https://www.revista-apostrof.ro/arhiva/an2023/n3/a13/
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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