Tradotto da: Gianluca Coci- Beat Edizioni- Neri Pozza Editore
Descrizione del libro di Natsuo Kirino-Grotesque–Due prostitute di Tokio, Yoriko e Kazue – la prima, figlia di madre giapponese e di padre svizzero, dotata di una bellezza quasi sovrannaturale, le seconda, invece, forte di una caparbia determinazione – sono assassinate in modo feroce, e la loro morte lascia una serie di domande senza risposta. Chi erano queste due brave ragazze che si sono trasformate in donne “grottesche”, mostri di perversione ed eccessi, di irriducibile quanto tragica volontà di indipendenza? Quali eventi hanno condotto la loro vita verso un esito così tremendo, dove si annida l’enigma di una perdizione che nulla sembra poter arrestare? Al loro tragico destino si unisce quello di un contadino cinese immigrato in Giappone, cresciuto con la famiglia in condizioni di estrema povertà, che viene accusato degli omicidi. Ammetterà di aver commesso il primo, di aver ucciso la bellissima Yuriko, ma non è stato l’artefice del secondo, seppure le due violenze siano così simili, e le coincidenze così schiaccianti.More
Gramsci Antonio Jr.– La storia di una famiglia rivoluzionaria.
Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia.
ANTONIO GRAMSCI
Introduzione di Raul Mordenti-Non si può non concordare con Antonio Gramsci jr. quando afferma a proposito del suo libro: «Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé», cioè non solo come fonte per aspetti poco illuminati della vicenda biografica del massimo pensatore politico del Novecento italiano, suo nonno Antonio Gramsci.Questo giudizio dell’Autore sarà condiviso da qualsiasi lettore di questo libro, che è davvero più romanzesco di qualsiasi romanzo nel narrarci una storia familiare, cioè un concerto di tante storie personali intrecciate vitalmente fra loro sullo sfondo del «mondo grande e terribile, e complicato», (per usare le parole che il nonno del nostro Autore scrisse più volte a sua moglie).
Dall’introduzione di Raul Mordenti
[…] Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé. È la storia di quella parte dell’intelligencija russa di estrazione nobiliare che in nome della Rivoluzione rifiutò il proprio ceto di appartenenza e, prendendo le distanze dai «preconcetti» di classe, tentò di inserirsi nel nuovo sistema di valori. Ci sono stati casi simili nella storia russa, ma quasi tutti con esiti tragici. In questo senso, la storia della famiglia Schucht, sopravvissuta felicemente alle varie terribili fasi dell’epoca sovietica, costituisce un esempio unico. […]
Nonostante il libro tratti la storia della famiglia Schucht, al centro della narrazione, anche se a volte non manifestamente, c’è sempre la figura di mio nonno, Antonio Gramsci. Sono fermamente convinto che lo studio della sua opera e della sua vita, come del resto di altri grandi classici del marxismo, non è affatto anacronistico, anzi, penso che sia molto attuale e necessario proprio ora, quando sembra che i pilastri della civiltà occidentale stiano per crollare e quando dobbiamo ricevere risposte alle domande essenziali: chi siamo, in quale direzione ci muoviamo e per quali ideali viviamo.
(Dalla prefazione dell’autore)
Antonio Gramsci jr., è nato a Mosca nel 1965 da Giuliano, secondogenito di Antonio Gramsci, e Zinaida Brykova. Laureato in biologia, ha insegnato Morfologia, sistematica e ecologia delle piante presso l’Università pedagogica di Mosca. Ha ricevuto anche una formazione musicale: inizialmente dal padre – noto musicista e pedagogo, uno dei primi promotori della musica antica in Unione Sovietica – successivamente ai corsi di musica antica nell’istituto mu- sicale «Carta Melone» e percussioni etniche. Insegna alla scuola italiana a Mosca e partecipa a varie attività musicali suonando gli strumenti antichi a fiato e percussioni etniche in varie formazioni di Mosca: «Volkonsky consort», «La Campanella», «La Spiritata», «Al-Mental» e altri. Dirige la scuola di percussioni etniche, «UniverDrums» presso l’Università Statale di Mosca e presso il laboratorio di musica elettronico-acustica del Conservatorio di Mosca, effettua ricerche sugli aspetti matematici del ritmo.
In collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci ha effettuato ricerche sulla storia del Pci negli anni Venti e sulla famiglia del nonno. Nell’Archivio del Comintern e in quello della famiglia Schucht ha rinvenuto molti documenti importanti che hanno contribuito a colmare lacune sia nella storia del Pci, sia nella biografia di Antonio Gramsci.
Nel 2007-2008 ha collaborato a l’Unità. Ha scritto La Russia di mio nonno. L’album familiare degli Schucht, pubblicata dall’Unità nel 2008 e nel 2010 è uscito presso Il Riformista il libro I miei nonni nella rivoluzione. Gli Schucht e Gramsci.
Editori Riuniti -Roma
La storia di una famiglia rivoluzionaria. Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia
Autore: Gramsci Antonio Jr.
ISBN13: 9788864731278
Anno pubblicazione: 2014
€18.90 €19.90
Antonio Gramsci nacque ad Ales il 22 gennaio 1891 da Francesco Gramsci (1860-1937), i cui avi erano di origine arbëreshë, e da Giuseppina Marcias (1861-1932), di lontana ascendenza ispanica. I due si conobbero a Ghilarza, si sposarono nel 1883 e dopo un anno nacque il primogenito Gennaro; poi la famiglia si trasferì ad Ales dove Giuseppina Marcias diede alla luce Grazietta (1887-1962), Emma (1889-1920) e Antonio. Nell’autunno del 1891 il padre divenne responsabile dell’Ufficio del Registro di Sòrgono e i Gramsci traslocarono nel paese che era centro amministrativo della Barbagia Mandrolisai;[3] qui nacquero altri tre figli: Mario (1893-1945), Teresina (1895-1976) e Carlo (1897-1968).[4] Infine la famiglia rientrò a Ghilarza nel 1898 e lì fissò la dimora definitiva.[5]
Il piccolo Antonio aveva solo diciotto mesi quando sulla sua schiena si manifestarono i segnali del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che causa il cedimento della spina dorsale e la comparsa della gobba. Ma la famiglia scelse di rifugiarsi nella superstizione, rifiutando di affidarsi alla medicina che, con una diagnosi tempestiva e un intervento chirurgico, avrebbe evitato che gli effetti della malattia provocassero danni permanenti allo scheletro e a tutto l’organismo.[6] All’età di quattro anni, Antonio per tre giorni di seguito soffrì di emorragie associate a convulsioni; secondo i medici tali avvisaglie avrebbero portato a un esito fatale, tanto che vennero comperati una piccola cassa da morto e un abito per la sepoltura.[7]
Descrizione del libro di Luca Randazzo-Siamo sui monti di Aune, il paese sopra Feltre bruciato dai tedeschi l’11 agosto del 1944, base di appoggio della brigata partigiana Gramsci.Giacomo, undici anni, è stato mandato in alpeggio a lavorare in una malga durante l’estate. Il suo padrone si chiama Bepi, un uomo rude che gli incute timore. E poi ci sono Sergio, sempre ingrugnito anche lui, e Alpina, la nipote di Bepi. È taciturna, Alpina, e vestita da maschiaccio.L’estate di Giacomo comincia così, tra la nostalgia di casa, l’odore delle vacche e la fascinazione per i famosi partigiani, che circolano da quelle parti ma lui non ne ha ancora mai visto uno.Poi un giorno, insieme all’amica Rachele, trova in una casèra abbandonata un plico di volantini. È roba segreta, roba che scotta, lo capiscono subito, ma è anche la via d’accesso a quel mondo di combattenti che tanto li affascina.E intanto, mentre le giornate trascorrono veloci tra il lavoro e l’avventura, qualcosa di inquietante e difficile da capire fino in fondo turba le notti di Giacomo, ponendo fine per sempre alla sua innocenza di bambino.In bilico tra realtà e finzione, un romanzo crudo che racconta la Liberazione e l’Italia ferita di quegli anni ma anche la fatica di conoscere gli adulti e le loro feroci contraddizioni.
Luca Randazzo – L’estate di Giacomo-
Recensione
L’ESTATE DI GIACOMO. LA GUERRA E UN PARTIGIANO DI UNDICI ANNI di Luca Randazzo
Estate 1944.Giacomo, undici anni, viene mandato in alpeggio a lavorare in un malga, insieme ad Alpina, ragazzina ribelle e selvatica, Sergio, il pastore, e Bepi, scontroso casaro con il vizio dell’alcol. Giacomo, tra un pascolo e l’altro, sogna di incontrare i partigiani che proprie su quelle montagne trovano riparo, e quando scopre un plico di volantini nascosti in una casèra abbandonata, viene a conoscenza di un segreto scottante. Un segreto che decide di condividere con l’amica Rachele, in visita sulle montagne, senza rendersi conto che quella scelta finirà per cambiare per sempre la sua vita e quella di altre persone…
Luca Randazzo – L’estate di Giacomo-
L’estate di Giacomo di Luca Randazzo ricorda per alcuni aspetti Il sentiero dei nidi di ragno, opera prima nonché uno dei capolavori di Italo Calvino. La figura di Giacomo, con le dovute differenze, non può non far pensare a quella di Pinn, protagonista del romanzo di Calvino; entrambi infatti si trovano a vivere, durante la guerra, esperienze da adulti, senza tuttavia riuscire a distinguere il bene dal male o comprendere adeguatamente il peso degli eventi di cui sono testimoni. Esperienze che inevitabilmente conducono entrambi a dover rinunciare alla propria infanzia, catapultati nella “giungla” degli adulti. “Giacomo si aggrappò al suolo per non farsi travolgere, poi un conato gli scosse lo stomaco e, sul bordo dell’abbisso, vomitò giù la sua anima di bambino”.
Luca Randazzo – L’estate di Giacomo-
Sullo sfondo la guerra dei partigiani, in questo caso le vicende della Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” di Feltre, le violenze esplicite, rumorose, legate al conflitto, e quelle private, silenziose, legate a quella concenzione arcaica di uomo-padrone intimamente connessa con il mondo rurale dell’epoca. Un quadro da cui trapela, tuttavia, un po’ di nostalgia per i tempi che furono, naturalmente non in riferimento alla guerra ma al fascino di un mondo agricolo di cui tanti, soprattutto i più giovani, ignorano persino l’esistenza.
Croce-D-Aune-Rifugio-Dal-Piaz-Monte-Pavione-
Il libro si legge velocemente e nonostante la presenza di qualche espressione dialettale la scrittura risulta semplice, fluida. Affascinante l’ambientazione nelle Vette Feltrine, in cui operarono realmente i partigiani della Brigata Garibaldi, alcuni dei quali compaiono nella storia, come il “mitico” comandante Brunetti Paride detto “Bruno”. Un romanzo breve ma intenso, appassionante, consigliato ai ragazzi e, perchè no, a tutti gli adulti che vogliono fare un tuffo nel proprio passato.
L’AUTORE LUCA RANDAZZO nasce nella turbolenta Milano degli anni ’70 e vive un’infanzia tutto sommato spensierata nella natura trentina. Destinato a un sicuro fallimento come astrofisico, scopre l’amore per l’insegnamento e si getta con entusiasmo nella scuola elementare. Attivista sociale nella città di Pisa, completa la propria vita ritrovando un amore perduto e figli già pronti, che confeziona in una deliziosa famiglia. Scrive romanzi per ragazzi quando il tempo glielo consente, cioè durante le vacanze estive, al mare, in montagna o in viaggio con il suo amico furgone. Nel 2008 ha pubblicato Le città parallele con Salani..
Fame, dono e sfida antifascista in una festa del luglio 1943
Presentazione di Mirco Zanoni / Premessa di Alberto Grandi
Viella Libreria Editrice-Roma
Sinossi del libro di Marco Cerri-All’indomani del 25 luglio 1943, la destituzione di Mussolini venne salutata con forme di distruzione simbolica del regime fascista (abbattimento di busti e statue del duce, cancellazione delle scritte murali, saccheggi delle sedi fasciste, falò purificatori, ecc.). I sette fratelli Cervi, insieme agli antifascisti del loro paese, portarono invece in piazza due bidoni del latte, ricolmi di pastasciutta; proposero, cioè, un banchetto collettivo all’interno del quale, senza distinzioni e gerarchie, una comunità avrebbe ritrovato un nuovo senso della propria identità. Alla fine degli anni Ottanta, si ebbe la felice intuizione di riproporre l’antico gesto dei sette fratelli; nel corso degli anni, la festa della pastasciutta antifascista si è diffusa in tutta Italia, fino a diventare una delle manifestazioni più importanti e conosciute dell’antifascismo italiano.
INDICE
Presentazione di Mirco Zanoni
Premessa di Alberto Grandi
Introduzione
La storia dei Cervi e la pastasciutta
Premessa
Il martirologio dei Cervi
Una nuova narrazione
La pastasciutta dei Cervi
27 luglio 1943: la pastasciutta in piazza
Controversie su una data
Decisione, organizzazione e produzione della pasta
Dalla latteria di Caprara alla piazza di Campegine
Sul numero dei partecipanti alla festa
Sull’investimento economico per la pastasciutta
Qualità e tipologia della pastasciutta di Campegine
Come un carnevale
Premessa
Scamiciati, ubriachi e pazzi
Socialità e derisione
Teatralizzazioni carnevalesche
Bevute a garganella
Il carnevale dei Cervi
Antifascismo e saccheggi popolari
Spreco carnevalesco e forme redistributive
La distribuzione della pastasciutta
La fame inesauribile
Ideologia e cultura fascista dell’alimentazione
La cucina del poco e del senza
La fame e il suo sentimento
Astenia e dimagrimento progressivo
Pane e conflitto
Le sfide dei Cervi
La politica degli ammassi e la borsanera
Repressione e impotenza del regime
Borsanera e potlach dei Cervi
La piazza in festa
Tra catarsi e stasi aggregativa
La prefigurazione utopica di un nuovo mondo
Gli abbracci del 25 luglio
Guerra e deperimento della cultura del pasto comune
La condivisione della parola
Il dono dei Cervi
Verticalità del dono
Forme orizzontali di prodigalità e motivazioni del dono
L’idealizzazione fascista della mezzadria
La (relativa) agiatezza dei Cervi
Originalità e riscatto sociale dei Cervi
Sull’inaffidabilità anarchica dei Cervi
Gli arrestati del 25 luglio
La pastasciutta tra immaginario e consuetudini culinarie
Elementi storici
La pastasciutta dei napoletani
I futuristi contro la pastasciutta
Mitologie della cucina emiliana
La dieta contadina padana
Gastronomia festiva nel Reggiano
Del burro e del formaggio
La dieta dei Cervi
La sfoglia e la zuppa
Successo e declino della pastasciutta
Il fuoco di una tradizione
La pastasciutta e la crisi dell’antifascismo
L’idea della festa della pastasciutta e l’inizio della sua storia
Il consolidamento della festa e la rete delle pastasciutte antifasciste
Promotori, luoghi e date della festa
Lo spettacolo della festa
Tra fedeltà filologica e innovazione
Il successo simbolico della pastasciutta antifascista
La ridefinizione dei contenuti della festa
Un antifascismo da mangiare
Conclusioni
Interviste e sitografia
Indice dei nomi
L’Autore
Marco Cerri, di formazione sociologica, da tempo si occupa di storia della Resistenza italiana. Si è già interessato alla vicenda della famiglia e dei fratelli Cervi in una ricerca sulla costruzione del loro mito nell’Italia repubblicana (Papà Cervi e i suoi sette figli. Parole della storia e figure del mito, Rubbettino, 2013).
In copertina: Bidone per la raccolta e il trasporto del latte (anni Trenta). Gattatico (RE), Museo di Casa Cervi.
Fotografia di John Freeman.
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Fa piacere segnalarvi il nuovo romanzo dell’apprezzato scrittore veneziano Andrea Molesini. Ambientato tra Venezia e Rodi nel settembre del 1938, un’epoca di crisi che assomiglia un po’ alla nostra, Non si uccide di martedì è una commedia nera e satirica dal gusto anglosassone. Attorno al testamento di una vedova molto ricca si dispiegano torbide relazioni familiari e intrecci criminali, mentre Venezia si affaccia prepotente con la Giudecca e le chiese, il Caffè Florian e l’eterna magia dell’acqua. Autore, tra gli altri libri, di Non tutti i bastardi di Vienna, Molesini è anche fondatore di una casa editrice di poesia raffinata che vi abbiamo presentato QUI.
Andrea Molesini
Indubbiamente Andrea Molesini è bravo, sa bene come si racconta una storia, e sa raccontare storie complesse, interessanti, intriganti, muovere un insieme di personaggi come nel celebrato Non tutti i bastardi sono di Vienna, Premio Campiello 2011, e nel più recente Il rogo della Repubblica. Romanzi che si possono dire storici, dove la creatività sopperisce e allarga la frequentazione di archivi, l’uso di documenti. Il risvolto di copertina di questo Non si uccide di martedì ci avverte che anche qui siamo in presenza di un romanzo storico, forse di minor impegno, visto che il numero di pagine si aggira intorno alle duecento e il sempre medesimo risvolto ci dice che ci troviamo nel 1938, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, proprio mentre a Monaco si discutono i destini futuri dell’Europa, con tragici esiti.
Ma forse questo, prima di essere un romanzo storico è qualcos’altro. Forse è un racconto giallo, termine abbastanza bruttino che si usa in Italia per dire che ci troviamo in presenza di una storia in cui c’è un crimine, una vittima quindi un colpevole e, solitamente, un investigatore che conduce le sue indagini per smascherarlo, che, però, qui non c’è, se non molto marginalmente.
Questa è una storia in cui il delitto e il suo svelamento avvengono tutti, letteralmente fatti in casa, è un home-made crime, come le torte di mele della mamma, fatte appunto in casa. Piccolo inciso: chi non ha scritto, o pensato di scrivere un thriller o un crime o un horror alzi la mano… se ne scrivono tanti, tantissimi, probabilmente troppi nell’illusione, da parte delle case editrici, innanzitutto, di vendere copie, tantissime copie; praticamente ogni angolo d’Italia possiede un investigatore, a differenza dall’America, più raramente privato, in Italia si usa meno, che ha il compito di alzare il velo sul più efferato dei delitti, investigatore a cui solitamente piace mangiare, senza una famiglia regolare, con una buona dose di geniale intuito.
Ecco tutti questi elementi, tipici del noir italiano attuale, li troveremo meno in Non si uccide di martedì, che cerca anche altrove i suoi modelli e i suoi riferimenti. […] Molesini per scrivere questo suo racconto ha sicuramente guardato agli illustri inventori del genere, Agatha Christie su tutti, la sua ambientazione è quella stessa, un gruppo di benestanti, o presunti tali nell’Italia o, meglio, nelle sue colonie alla fine degli anni Trenta. Ma nella miscela originale inserisce una buona dose d’ironia e qualche sottesa preoccupazione moralistica.
Andrea Molesini
In un’intervista sul Piccolo di Trieste, Molesini dichiarava di aver voluto creare una storia satirica ma divertente pensando allo spirito del film di Hitchcock La congiura degli innocenti, o AMurder considered as one of the Fine Arts (L’omicidio come opera d’arte) composto, poco prima della metà del diciannovesimo secolo, da Thomas de Quincey, uno scrittore inglese della prima età vittoriana che fa ricorso ad una dose massiccia di humor nelle sue opere. Un filone umoristico ma anche moralistico che esiste, nella letteratura inglese, anche da prima dell’Ottocento basti a pensare Jonathan Swift e alla sua Modest proposal, caustica e surreale proposta per risolvere la miseria dell’Irlanda. Andrea Molesini compone dunque un racconto zeppo di riferimenti, ma abbastanza raro nella tradizione italiana che, comunque, non si sottrae alla sfida di lanciare qualche interrogativo di peso, del tipo: “Fino a dove siamo disposti a spingerci per il nostro personale guadagno?” o “Quale limite è disposta a fissare la nostra coscienza?”. Ad ognuno spetta l’ardua risposta e il libro ce lo chiede direttamente, senza mezzi termini.
Non solo per questo rapporto fra il piccolo, i fatti dei protagonisti e il grande, i grandi interrogativi morali, la grande storia europea, in Non si uccide, abbiamo l’impressione di trovarci continuamente nelle sabbie mobili, tutto si muove e ogni personaggio, il maritino tonto e la sposina ingenua piuttosto che l’avvocato spiantato, diventano qualcos’altro, piccoli mascalzoni più o meno in gamba, in un gioco metamorfico quasi ovidiano dove ognuno dà il meglio del suo peggio. Alla fine la verità, se verità la possiamo chiamare, che emerge è quella per cui non ci possiamo mica fidare di nessuno, nessuno è quello che sembra, tutti hanno un alias dentro di sé, pronto a prendere il sopravvento, ma questo lo avevano capito piuttosto bene anche il dottor Freud e Robert Louis Stevenson già qualche tempo fa.
Il libro si apre con una tradizionale immagine veneziana: un avvocato, non certo di grido, sfoglia il Corriere della Sera al Caffè Florian di piazza San Marco e si conclude con un perfetto cerchio nuovamente a Venezia, ma la sua azione centrale si svolge nell’isola di Rodi, che dal 1912 al 1945 fu italiana e che per un periodo fu governata dall’ex ministro dell’istruzione De Vecchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, che applicò con efferato rigore le leggi razziali nella isole del Dodecaneso; la tragedia degli ebrei di Rodi è oggi ricordata da un museo, il libro serve anche a richiamare alla nostra memoria questa pagina vergognosa, e di conseguenza altre ancora potrebbero tornarci alla mente per tanti altri aspetti del colonialismo italiano su cui la riflessione andrebbe approfondita. Il dominio italiano nelle isole greche non fu tutto il miele che tanta pubblicistica vuotamente nazionalistica vorrebbe farci credere. Ciò non toglie che, come sopra detto, le caratterizzazioni storiche rimangono sullo sfondo, sono un fondale in cui prendono vita le azioni dei protagonisti della storia.
Una storia breve che si svolge in un tempo ristretto, un mese nemmeno, in cui ognuno dei personaggi ha il tempo per divenire qualcos’altro, come già sottolineato, anche per passare dalla vita alla morte, anche viceversa dalla morte alla vita. Non vorrei sembrare nemmeno troppo criptico, ma la difficoltà nel parlare di un noir, chiamiamolo così per comodità, è anche quella di non rivelare troppo della sua trama, se non che gusto c’è a leggerlo, poi. Così è anche per il racconto di Molesini che riserva diverse sorprese man mano che si procede nella lettura.
Una annotazione merita la scrittura dell’autore veneziano, capace di tenere saldamente in mano lo svolgimento della vicenda, variando registro linguistico all’occorrenza, i bicchieri divengono tumbler se siamo fra persone o in un luogo in cui è necessario, si fa per dire, chiamarli così. Ma le domestiche parlano con le loro padrone in dialetto, deliziosamente. Così si caratterizzano una serie di personaggi, alcuni dei quali, come le domestiche venete, ricorrenti nella narrativa di Molesini che, sinceramente, mi sembrano molto riuscite: sagge, scaltre e più che collaboratrici delle complici delle loro padrone. Ecco come in tutti racconti updated, anche in Non si uccide di martedì, le fila del gioco sono rette dalle donne, padrone e domestiche ereditiere e ricche nobildonne, mentre gli uomini fanno la figura di tonti e maldestri, sempre disposti al facile guadagno e alla scappatella sentimentale, facili da abbindolare facendo leva sulle loro vanità.
Andrea Molesini ha detto di aver scritto Nonsi uccide di martedì, anche per aver avuto bisogno di divertimento e humor dopo la stesura di una storia cupa come Il rogo della Repubblica, sarà pure vero, ma non per questo quest’ultima sua fatica manca di intelligente gioco intellettuale e anzi, dietro a qualche bocca sorridente ci pone delle questioni intriganti, ci fa pensare insomma, facoltà a cui, visti i tempi in cui la fiducia nel futuro viene a mancare, non sarebbe male ricorrere più spesso.
Roberto Dedenaro
Questa recensione è già apparsa sulla rivista culturale Il Ponte rosso di Trieste, n°96 – ottobre 2023. Come ogni mese, potete scaricare questo nuovo numero e leggere gratuitamente i suoi interessanti contenuti cliccando QUI
Chiara Gamberale- “Dimmi di te” -– Articolo di Luigi Oliveto-
Einaudi Editore
Chiara Gamberale- “Dimmi di te”
Articolo di Luigi Oliveto -L’ultimo romanzo di Chiara Gamberale “Dimmi di te” (Einaudi), pone molte e ardue domande. Non è infatti facile stabilire se la nostra vita corrisponda a come l’avevamo pensata, quanto possiamo dirci ‘compiuti’, non tanto rispetto a certi parametri fasulli imposti dall’esterno, ma in rapporto a sé stessi, a ciò che fa sentire bene con la propria persona, con il nostro essere al mondo. La protagonista del romanzo, Chiara, è giunta a una fase della vita (oltre i quarant’anni) in cui questi interrogativi privi di risposte sono diventati opprimenti, tanto da avere trasformato la sua esistenza in una “palude”. Madre single di una bambina (che nel romanzo viene chiamata semplicemente Bambina), cede ad una delle più diffuse consuetudini familiari: lascia la mansarda del condominio dietro la stazione (perfetto milieu per una adolescenza protrattasi oltre il dovuto) e va ad abitare vicino ai genitori, “impeccabili nonni”, così da avere un aiuto per la gestione della bimba e più tempo per sé. Ma, a cominciare dall’ambiente lindo e tranquillo di quel quartiere (il Quartiere Triste), dalle famiglie così perbene e ‘normali’ che vi risiedono, Chiara si sente quanto mai “impantanata”. Qualcosa accade, però, quando incontra casualmente un amico dei tempi del liceo. L’incontro suscita un inevitabile rimando al passato, ma soprattutto l’esigenza di ripensare quanto il presente possa essersi disallineato dalle aspettative racchiuse in quel passato, quali scelte (e non-scelte) hanno tradito i sogni. L’amico ritrovato diviene così un primo termine di paragone per iniziare a comprendere come si divenga adulti (che è cosa diversa dal crescere), quali compromessi siano forse inevitabili. Questa scoperta dell’altro per testare la propria maturità, induce Chiara a ricontattare diversi suoi coetanei – figure che negli anni del liceo avevano esercitato su di lei forte ascendente, fascino, ammirazione – per verificare quanto il loro presente corrisponda a ciò che erano stati, e, comunque, come e se riescano a vivere in pace con loro stessi. Conduce questa ricerca con metodo, fissa appuntamenti anche percorrendo chilometri, registra scrupolosamente quelle chiacchierate. Pone persino delle condizioni: sarà lei a fare domande – “Dimmi di te”, appunto – e nulla di lei può essere chiesto. Non per una forma di supponenza, ma per essere totalmente in ascolto, per capirli appieno senza introdurre nei loro confronti nessun elemento di giudizio. Anzi, per giungere meglio a un giudizio su di sé, ancorché impietoso, ogni qualvolta si rende consapevole di verità da cui non può più sfuggire. Un’indagine necessaria per maturare senza marcire, poiché all’inazione della palude sono pur sempre preferibili le acque aperte di un mare mosso.
***
Alla fine avevo ceduto e Bambina e io avevamo cambiato casa.
Ci eravamo trasferite nel Quartiere Triste, dove, da quando erano andati in pensione, si erano trasferiti i miei genitori.
Un posto tranquillo, Chiara.
Pieno di verde.
Non sembra neanche di stare a Roma.
C’è un silenzio.
Altro che il tuo, di quartiere.
Un quartiere per studenti fuori sede.
Senza un asilo decente.
Una palestra.
Vuoi mettere? Qui per i bambini c’è tutto.
La vita diventerà subito facile.
E poi avrai noi a pochi passi e potremo darti una mano.
Così, a più di quarant’anni, dopo averne trascorsi almeno trenta a contestare l’impalcatura della famiglia messa su da mia madre e mio padre, avevo bisogno proprio dell’aiuto che loro, solo loro, impeccabili nonni, adesso mi potevano dare.
L’avessi messa su io, una famiglia: no, non ne ero stata capace.
Perché a furia di cercare l’amore, di confidare in un allineamento fra i miei pensieri e i sentimenti e le emozioni, non mi ero preoccupata di imparare che cos’è una coppia, com’è che funziona.
Avevo stremato la mia adolescenza oltre ogni limite, ancora mangiavo poco o niente durante il giorno e poi la notte aprivo il freezer e facevo fuori una vaschetta di gelato, nella mansarda di quel quartiere per studenti fuori sede dove abitavo, ogni sera sul divano poteva addormentarsi un mio amico, un’amica, persone come me che dopo le sette, finito di lavorare, dovevano improvvisare il seguito, non c’era nessuno con cui avessero un appuntamento fisso alla stessa tavola.
Ero riuscita perfino ad avere una figlia in circostanze adolescenziali.
Forse per questo, perché per motivi diversi lo smarrimento era lo stesso, lei e io ci eravamo subito riconosciute, subito capite. Mentre tutto quello che da lì in poi ci avrebbe dovuto girare attorno e quello attorno a cui avremmo dovuto girare noi, non lo riconoscevo, non lo capivo, non sapevo come affrontarlo.
Sei ancora innamorata o no?
Lui? È innamorato?
Un conto è l’amore, un altro è la dipendenza, eh.
Sei sicura che con la ex abbia risolto?
E tu? Con il tuo, di passato?
Sai, lui è identico al tizio con cui sono uscita io l’altra sera e che…
Secondo me invece somiglia più alla tizia che avevo incontrato sul cammino di Santiago, la tedesca, ve la ricordate?
Nella mansarda, dal giorno in cui avevo scoperto di essere incinta, non cercavamo altro che una soluzione al rebus – che era sempre stato difficile, ma adesso si faceva impossibile – del rapporto fra me e il padre di Bambina, che viveva e lavorava in un’altra città. Parlavamo, parlavamo, parlavamo parlavamo. Sapevamo ammazzare il tempo solo così, tutti insieme, oppure ognuno per conto suo, perché allo stare in due (con un’altra persona: quella, e basta) forse chiedevamo troppo, forse eravamo disposti a sacrificare troppo poco – la questione rimaneva aperta. Naturalmente nessuno di noi aveva mai immaginato di avere un bambino, perché eravamo noi i bambini, bambini marci – persone che non erano state in grado di maturare. Tutti infatti avevano da subito amato Bambina come fosse un peluche, la mascotte della nostra mansarda. Ma ero io, solo io, che la notte mi svegliavo se lei si svegliava, ero io che restavo sveglia anche mentre dormivo, che la stringevo a me incandescente quando aveva la febbre alta, e non memorizzavo che i bambini piccolissimi fanno così: il giorno dopo passa tutto, era a me che ogni volta quella febbre arrivava alla cima dei nervi, ero io che mi ero prosciugata per allattarla almeno i primi tre mesi con il latte che purtroppo avevo a gocce, io che scaldavo – ma senza esagerare – quello in polvere, per le aggiunte, io che avevo sempre avuto il freezer gonfio e il frigorifero vuoto, occupato solo dalla sua luce, e adesso, mentre Bambina compiva sei sette nove mesi un anno, organizzavo lo scompartimento degli omogeneizzati di carne, di pesce, delle verdure da bollire per il brodo, della crema al mais e alla tapioca – che odore orribile aveva, la tapioca –, ero io che la incoraggiavo a mettere un piedino davanti all’altro, brava, ora aggrappati qui, amore, io che la portavo a fare il primo vaccino, il richiamo, che cercavo il pediatra giusto, il nido giusto, che salivo e scendevo i sette piani a piedi del nostro palazzo senza ascensore con lei in braccio, dopo avere legato il passeggino nell’androne con una catena per le bici, perché se mi dimenticavo di farlo rischiavo di non trovarlo più, come mi era successo due volte nel primo mese: ma, appunto, era un quartiere fatto così, quello. Un quartiere alle spalle della stazione dove tutto può succedere, le persone capitano, se ne vanno, è difficile che qualcuno resti, che si fermi per più di un paio di giorni, e infatti è vero che al di là di un asilo improvvisato nel cortile di cemento armato di un convento, non ci sono scuole per l’infanzia che si possono raggiungere senza prendere la macchina, palestre, non ci sono veterinari, toelettature per cani, niente che possa andare incontro a un’abitudine, i sampietrini dissestati promettono solo avventure e casualità, non ci sono nemmeno i marciapiedi.
Che invece nel Quartiere Triste costeggiano, larghi e placidi, le strade di alberi curati da dove partono viuzze su cui si affacciano i cancelli di graziose villette degli anni Venti, bianche o gialle, e di palazzine liberty basse, con i balconi a cielo aperto, il glicine che si arrampica tutt’attorno ai portoni, le station-wagon parcheggiate.
Eddài, Chiara.
Venite qui.
Fatti aiutare.
Da quanto sei stanca non riesci più a lavorare.
Era vero. Avevo pubblicato il mio primo romanzo a vent’anni, ma ne avevo sette quando avevo scritto Clara e Riki e poi Clara e Riki crescono e poi I figli di Clara e Riki… Non sapevo fare altro nella vita che quello. Leggere, inventare storie, scriverle. I miei personaggi somigliavano ai miei amici della mansarda, ancora prima che li conoscessi: raccontavo chi fa confusione, inciampa, si perde proprio mentre imbocca la via di casa. Chi è destinato a diventare, se ancora non lo è, un bambino marcio. Amavo profondamente il mio lavoro, mi imbarazzava anche chiamarlo lavoro: appena mi avvicinavo a un uomo, a una montagna, allo sportello di un bancomat ero assalita da un dubbio, ma scrivere era la mia certezza, tutte le mie costanze, il mio unico rimedio all’esistenza.
Finché non era arrivata Bambina.
[da Dimmi di te di Chiara Gamberale, Einaudi, 2024]
Luigi Oliveto ,Giornalista, scrittore, saggista.
Luigi Oliveto Giornalista , scrittore e saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita dapoeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poetadelle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),…
Viola Conti-Perché sfuggo all’amore? Il dolore è un talento
-Giovane Holden Edizioni-
Viola Conti-Perché sfuggo all’amore?
Descrizione del libro di Viola Conti-Stabilità, presenza, accettazione sono ciò che Micol ha trovato nel suo compagno Alberto. È un uomo solido, misurato, affidabile, che la apprezza sempre per quello che lei è, e che sa darle la tranquillità che nella vita troppo spesso le è mancata. Un uomo così è difficile da trovare, le ripetono le amiche e i familiari. Ma in quella tranquillità perfetta e sempre uguale, fatta di routine e priva di quegli slanci di fantasia di cui un amore si nutre, Micol si sente segretamente soffocare. Quando il destino le fa incrociare lo sguardo di Flavio, di cui il soprannome il Vichingo racconta ogni cosa, esplode una violenta passione clandestina, accesa di sensualità e di curiosi giochi mentali. Flavio è agli antipodi di Alberto, sfacciato, aggressivo, sfuggente, ogni momento con lui è una sfida imprevedibile ma inebriante. Micol si ritrova lacerata tra due opposti, in cerca di un equilibrio impossibile e della determinazione per compiere una scelta definitiva, mentre i sensi di colpa la divorano e la confusione non fa che crescere. Una storia vivace e di grande acutezza che sa raccontare le sfumature complesse di un sentimento universale, quel bisogno di completezza e insieme il desiderio di brivido che si vorrebbero sempre al centro di un rapporto sentimentale. A illuminare il racconto con una interpretazione psicologica, un saggio chiaro e divulgativo sulle organizzazioni di personalità, con un focus particolare sulla personalità depressiva detta abbandonica, che per la paura della solitudine indossa maschere reprimendo se stessa nel tentativo di aderire alle aspettative altrui.
Viola Conti-Perché sfuggo all’amore?
Giovane Holden Edizioni
Fondata nell’agosto 2006 da Miranda Biondi e Marco Palagi, la casa editrice si distingue subito per la sua linea editoriale originale e per la capacità di saper coniugare innovazione e qualità. Il riferimento nel nome a Holden Caulfield, il protagonista del famoso libro di Salinger, testimonia un intento specifico: curiosità, coscienza critica, un pizzico di ironia. Le difficoltà per un piccolo editore indipendente sono molte, Giovane Holden però è riuscita a ritagliarsi un suo spazio nel mercato conquistando credibilità e soprattutto fama di serietà professionale. A oggi Giovane Holden è una delle realtà editoriali indipendenti più apprezzate a livello nazionale e internazionale. La vocazione per la scoperta letteraria e il gusto per il nuovo si palesa fin dai suoi esordi attraverso l’organizzazione di un Premio Letterario Nazionale, doverosamente, intitolato “Giovane Holden”, che nel 2016 giunge alla sua decima edizione. Negli anni si è aggiunto un Premio tematico “Streghe Vampiri & Co.” La casa editrice vanta oltre cinquecento titoli in catalogo e ha fama, tra gli operatori del settore, di azzeccare sempre una pubblicazione: con una media di circa trenta titoli l’anno, si propone sul mercato come uno dei piccoli editori indipendenti più attivi nel settore promozione. Tra i generi pubblicati: narrativa italiana e straniera (tra cui thriller, avventura, fantasy, rosa), narrativa per bambini e ragazzi, poesia italiana e straniera, saggistica divulgativa (attualità e politica, storia, scienze) e manuali, classici e libri fotografici. Nel 2009 la pubblicazione di Nudo, il libro provocazione composto rigorosamente da pagine bianche, proietta Giovane Holden sulle più importanti testate giornalistiche nazionali, tra cui un passaggio sul Tg satirico di Canale 5 “Striscia la notizia”. A partire dal 2012 conquista anche le piattaforme digitali e avvia la distribuzione dei titoli in versione e-book su tutte le piattaforme online di vendita. La casa editrice partecipa a diverse fiere del libro, tra cui il Pisa Book Festival, la fiera dell’editoria indipendente che si svolge a novembre nella cittadina toscana e il Salone del libro di Torino. Non solo casa editrice quanto piuttosto realtà composita, Giovane Holden è stato anche editore di un periodico di arte e cultura free press “I soliti ignoti magazine” e partner ufficiale della Prima Campagna Nazionale di sensibilizzazione alla lettura “Leggere giova gravemente alla salute”, ideata dall’Associazione culturale I soliti ignoti, che prevede la distribuzione gratuita di migliaia di testi in tutta Italia. Giovane Holden è in prima linea per la difesa della cultura e anche dei diritti civili, dal 2006 ha aderito a un progetto di adozione a distanza. Inoltre è ideatrice e promotrice della campagna nazionale di sensibilizzazione contro la violenza di genere Woman. No more violence, trust yourself.
Edizione con testo a fronte-Traduzione di Silvia Bre-A cura di Ottavio Fatica
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto-Robert Frost-Poesie Fuoco e ghiaccio«Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento». Questa spiazzante formula di poetica racchiude i due estremi del fuoco e del ghiaccio, al centro della visione di Frost come di molti suoi versi – estremi inestricabilmente complementari, di quelli che fanno il tormento e la delizia di critici e lettori. «Ma il bello sta nel modo in cui lo dici» recita un suo verso. Così, dietro i grandi monologhi drammatici espressi in un parlato popolare, come dietro i sonetti e le altre composizioni formalmente ineccepibili da lui predilette – del verso libero diceva che era come «giocare a tennis senza rete» –, c’è sempre qualcos’altro. Qualcosa che ci turba, che ci mette in discussione, e non si lascia domare. Sarà per questo che le sue poesie, anche a leggerle cento volte, manterranno sempre la loro freschezza, continueranno a custodire il loro segreto. In questa vastissima scelta, tratta da tutta la sua produzione, il lettore avrà modo di incontrare il maggiore poeta americano del Novecento, diventato paradossalmente, come tutto ciò che lo riguarda, il più ‘moderno’, forse perché il più refrattario, ingannevole, e a modo suo audace, fra i grandi modernisti. Quello con cui bisogna ogni volta tornare a fare i conti.
In copertina
Robert Frost ritratto nella sua fattoria vicino a Ripton, Vermont. Fotografia di Tom Hollyman. tom hollyman/photo researchers/premium archive via getty images
Robert Frost-1941
Nota biografica-Robert Lee Frost (San Francisco, 26 marzo 1874 – Boston, 29 gennaio 1963) è stato un poeta statunitense. È uno dei più noti e importanti poeti americani e fu anche traduttore e drammaturgo.
Cenni biografici Evelyn Scott (Clarksville, Tennessee, 1893 – New York 1963) era una scrittrice, drammaturga e poetessa americana. Scrittore modernista e sperimentale, Scott “era una figura letteraria significativa negli anni ’20 e ’30, ma alla fine cadde nell’oblio della critica”.
DESCRIZIONE – RECENZIONI
“Avuta, giovanissima, l’intrepida avventura di una fuga dal Brasile con un uomo povero e marito di un’altra, ha lasciato un libro autobiografico… Uno stile duro, freddo, sempre amaro d’istinto, che rimarrà un esempio di ardita forza” (Elio Vittorini, Americana)
“Evelyn Scott scriveva piuttosto bene, per essere una donna” (William Faulkner)
Nel 1913 una ragazza minorenne, incinta, fugge in Brasile con un uomo che potrebbe essere suo padre, suscitando uno scandalo di cui si impadronisce la stampa. Rimane in Sud America sei anni, in una zona remota, affrontando prove durissime, miseria, sofferenza, disprezzo. E’ la storia di una sfida: una delle molte sostenute da questa giovane nata nel 1893 nel Tennessee, che si è lasciata alle spalle una casa in stile Via col vento, un’adolescenza di “ardente femminista” e persino il suo nome vero, per chiamarsi Evelyn Scott, consapevole, forse, che la sua vita somiglierà a quella di un’eroina romanzesca degli anni Venti.
Tornata in America, Evelyn Scott diventa improvvisamente una stella del firmamento letterario di New York: la sua carriera di scrittrice è vertiginosa. Quando pubblica le sue prime poesie, William Carlos Williams le scrive: “Lei è – oltre a H.D. – l’unica donna che possa far poesia oggi”.
E Sinclair Lewis, dopo aver letto il suo primo romanzo, The Narrow House: “Salutiamo Evelyn Scott. E’ una di noi; una che sa; un’artista autentica. Il suo libro è un avvenimento”. Escapade (In fuga), il diario del suo periodo brasiliano, s’impone nel 1923 come storia di uno scandalo e di una ribellione ai codici sociali. Ma Evelyn sembra avere anche il dono della divinazione critica: scrive il suo primo lungo saggio americano su Joyce, Un contemporaneo del futuro, e “lancia” Willian Faulkner, allora agli esordi, convincendo il proprio editore a pubblicare L’urlo e il furore. Quando però Faulkner riceve il Nobel nel 1950 Evelyn non pubblica più da tempo; morirà nel 1963, dimenticata, lasciando dietro di sé poche tracce e molti enigmi.
Elio Vittorini, nell’Americana, scopriva Evelyn Scott tra i “piccoli scrittori irrequieti” degli anni Venti – Robert McAlmon, Waldo Franck, Ben Hecht – e pubblicava alcune pagine di Escapade nella traduzione di Eugenio Montale. “Non le ho più dimenticate” scrive Marisa Bulgheroni nel commento alla prima edizione italiana (1988). “Il libro brasiliano di Evelyn si colloca sullo scaffale di quei rari testi autobiografici (Walden di Thoreau, La mia Africa di Karen Blixen) che usano la prima persona singolare come un appostamento, un osservatorio tramite il quale rivelarci un mondo mai fino allora immaginato – si tratti di un lago tra i boschi,di un continente o dello spazio psichico”.
Editori Riuniti, Via di Fioranello n.56, 00134, Roma (RM)
Poesie di Stig Dagerman -Breve è la vita di tutto quel che arde
Traduzione di: Fulvio Ferrari-IPERBOREA casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani
DESCRIZIONE-Per la prima volta tradotta in italiano, un’antologia che dà conto di circa dieci anni di attività poetica di Stig Dagerman.
«Un giorno all’anno si dovrebbe immaginare / la morte chiusa in una scatoletta bianca. / A nessuna illusione si dovrebbe rinunciare, / nessuno morrebbe per quattro dollari in banca. // (…) Nessuno vien bruciato all’improvviso / e nessuno per strada ha da crepare. / Certo, è menzogna, son del vostro avviso. / Dico soltanto: Possiamo immaginare.» Stig Dagerman espresse anche in versi la vicinanza agli ultimi e l’umanesimo dolente che in una continua tensione tra speranza e disincanto attraversano la sua multiforme opera in prosa. Negli anni 1944-47 e 1950-54, fino al giorno prima di morire, scrisse per il giornale anarchico Arbetaren oltre 1300 dagsedlar, poesie satiriche a commento della cronaca politica e sociale che con il loro tono diretto contribuirono a fare di Dagerman un riferimento identitario per i giovani libertari della sua generazione. Il metro è per lo più tradizionale, quasi da filastrocca, ma la giocosità della rima e del ritmo potenzia per contrasto la durezza dei contenuti: gli accordi della «democratica» Svezia con la Spagna di Franco, i senzatetto di Stoccolma lasciati al freddo, i bambini armati per combattere le guerre dei grandi. Ai brevi componimenti di denuncia, questo volume affianca una scelta di versi in cui la forma irregolare insieme alla riflessione sulla condizione umana, pur sempre intrecciata all’impegno politico, avvicina l’autore alle avanguardie internazionali e ben accoglie simboli e metafore della sua narrativa. Una lettura toccante che aggiunge un tassello significativo al ritratto di uno sperimentatore instancabile al quale ancora oggi s’ispirano scrittori, giornalisti e musicisti di tutta Europa.
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Approfondimento
«Abbattete i poveri». E Dagerman si spense
Data: 1 Dicembre 2022
Recensione di Angelo Ferracuti a «Breve è la vita di tutto quel che arde» di Stig Dagerman, apparsa su La Lettura il 6 novembre 2022
Tutta la letteratura di Stig Dagerman è fortemente permeata di esistenzialismo politico e coerenza tematica, ma anche da un contrasto molto forte tra io e mondo, istinto di libertà, desiderio di giustizia sociale contrapposti alla brutalità del potere. Come la sua cristallina postura di autore è segnata da una combattività angosciata e a volte disperata, che pendolareggia tra sogno utopico e disincanto, speranza e disillusione, e da una militanza totale nel movimento libertario svedese vissuta a microfono aperto nella sua breve vita, iniziata nel 1923 e finita a soli 31 anni nel 1954 quando morì suicida al culmine del successo editoriale.
In poche stagioni ci ha lasciato alcuni libri di rara forza espressiva, valore letterario e trasporto emotivo, la passione e la purezza delle raccolte di racconti, romanzi come «Bambino bruciato», «I giochi della notte», «Il serpente», l’esordio del «1945», il lancinante «Il nostro bisogno di consolazione», un breve ma intensissimo monologo filosofico sulla tensione dell’uomo verso la felicità, il bisogno di libertà e lo schiacciante sistema di dominio sociale, che può reputarsi il suo testamento intellettuale; i reportage lirici di «Autunno tedesco», quando fu inviato da l’«Expressen» nel 1946 in Germania fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, a raccontare il Paese sconfitto, tutti libri fedelmente editi da Iperborea.
Un’altra componente di Dagerman e della sua letteratura è la ricerca ossessiva della coerenza visionaria attraverso quella che ha definito «La politica dell’impossibile», nella letteratura e nella vita, titolo di un libro di saggi, avversa a quella «Realpolitik», la politica concreta, pragmatica, dello status quo, dei compromessi e della rinuncia al cambiamento, schiacciata dal giogo economico.
Adesso esce il libro delle sue poesie politiche, «Breve è la vita di tutto quel che arde» (Iperborea) tradotto e curato con rigore e passione da Fulvio Ferrari, professore ordinario di Filologia germanica all’università di Trento, ma soprattutto grande conoscitore e divulgatore delle letterature scandinave. Si tratta di una scelta del suo corpus poetico che mette insieme testi sparsi ai «dagsedlar», dispacci quotidiani spesso scritti in rima affidati al giornale anarchico «Arbetaren» («L’operaio»), di cui era redattore, che però nel linguaggio corrente significa anche «ceffoni» per la loro immediatezza e vicinanza ai fatti di cronaca.
Insieme agli accadimenti storici c’è anche la vena esistenzialistica e romantica dello scrittore svedese: l’incrocio di questi due elementi è la sua cifra, il suo conio profondo che percorre tutta la sua opera, dentro quell’angoscia e paura prodotte dalla Seconda guerra mondiale che ne è il tellurico fondale storico.
Nel libro si alternano differenti stili compositivi, riflessioni intimistiche sulla condizione umana e il senso della vita, così come testi di impegno sociale come l’intenso «No pasarán» dove commemora l’epica tragica della guerra di Spagna con tutta la sua verve antifranchista, un inno alla lotta, alla resistenza.
La poesia di Dagerman ha una urgenza politica, ma soprattutto esistenziale, stilistica, la forma è il suo fuoco, la forma che incrocia gli ideali dei «Cuori ardenti» di cui parla in un saggio, anche per questo lo sentiamo contemporaneo e fratello, la sua letteratura è viva. I «dagsedlar», scritti con caustica ironia, hanno spesso l’andamento di una filastrocca, un gusto agrodolce, nel senso che ibridano lo stile cantilenante del verso con contenuti di dura crudezza, spietati, del palcoscenico impazzito del mondo, e nascono sempre da una notizia di cronaca.
I temi sono l’antimilitarismo, la bomba atomica, la condizione umana degli ultimi, la violenza sui bambini, un argomento molto caro a Dagerman, siano essi i senzatetto svedesi o gli africani dannati della Terra, i neri americani condannati a morte e portati al patibolo, come in «Due volte morto»: «Tutti quanti abbiamo da imparare,/ ci si allena ore e ore per fare il boia./ Che importa come un negro può campare,/ Quello che conta è che un negro muoia».
L’anarchico ribelle, quello che dice di voler opporre il potere delle sue parole «a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà», è anche al fianco dei lavoratori insorti in Germania dell’Est contro il regime comunista: «Quante volte il popolo avete chiamato./ Ora rispondiamo: Siam qui, siamo arrivati./ Fatevi avanti, popolari signori/ – e se vi è possibile, disarmati!».
L’ultima poesia scritta da Dagerman si intitola «Attenti al cane!», pubblicata il 5 novembre 1954, e nasce dopo avere letto la dichiarazione di un responsabile della Previdenza sociale di Värmland, una contea che si trova nella parte occidentale del Paese: «Certo è deplorevole che gente che vive di sussidi tenga poi un cane» fu l’affermazione indignata di una persona probabilmente appartenente alla ricca borghesia svedese.
Stig Dagerman il ribelle, lo scrittore nato nel cuore del proletariato e figlio di un operaio artificiere poverissimo e di una telefonista, quello posseduto dal radicalismo che giovanissimo diresse «Storm», il giornale della gioventù anarchica, reagisce a queste parole scrivendo versi venati di ironica indignazione, descrive la gente dei bassifondi come quelli che «stanno in stanzette strette e fosche/ con i loro bastardi costosi», poi la denuncia arriva con un’invettiva provocatoriamente sarcastica: «Ora è il momento di esser risoluti:/ Abbattere i cani! Non è buona cosa?/ E siano poi anche i poveri abbattuti,/ così il Comune risparmia qualcosa».
La poesia fu pubblicata il giorno dopo la sua morte, l’aveva scritta ventiquattr’ore prima di uccidersi con il gas di scarico della sua automobile.
Dopo una serie di tentativi di suicidio non riusciti, sprofondato in una cupa depressione, questa volta aveva organizzato tutto, scrivendo persino l’epitaffio per la sua lapide: «Qui riposa/ uno scrittore svedese/ caduto per niente/ sua colpa fu l’innocenza/ dimenticatelo spesso».
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
PAOLO RUFFILI-LE POESIE DI DAGERMAN- Fonte sito www.italian-poetry.org
Stig Dagerman (1923-1954), svedese, è uno di quei talenti precoci che compiono tutto quello che li riguarda creativamente parlando entro i trent’anni, indipendentemente dal fatto che si sia deliberatamente tolto la vita al compimento dei 31 anni. Del resto aveva tentato di farlo qualche altra volta già prima e, a spiegarne almeno in parte la prospettiva autodistruttiva, c’è la sua vicenda biografica, anche se l’autore più tardi ha descritto l’infanzia come l’epoca forse più felice della sua vita. Ma, in seguito all’abbandono da parte della madre nei primissimi mesi dopo la nascita e per la difficoltà del padre minatore di garantire le condizioni essenziali alla crescita, il piccolo Stig fu ospitato e cresciuto dai nonni paterni. Nei nonni, similmente a quanto accadde allo scrittore austriaco Thomas Bernhard (con il quale c’è più qualche altra somiglianza sul piano della scrittura), trovò delle figure vivaci, rassicuranti ed intellettualmente stimolanti, dunque le prime condizioni per il futuro percorso intellettuale. L’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e, poco tempo dopo, la perdita della nonna colpita da una emorragia cerebrale, portarono Dagerman a commettere il primo di una serie di tentati suicidi. Trasferito a Stoccolma dal padre, a soli tredici anni poté avvicinarsi all’anarchismo e al sindacalismo e iniziò precocemente l’attività di scrittore in seno all’Unione Sindacale Giovanile, per poi diventare redattore del giornale Storm (La tempesta), per passare più avanti ad occuparsi di fatti di cronaca, nel combattivo giornale anarcosindacalista Arbetaren (L’operaio). La sua produzione ebbe un’accelerazione legata a un’energia esplosiva incontenibile: drammi teatrali, racconti, saggi e reportage, scritti satirici, poesie, romanzi. Divenne un originale esponente della letteratura quarantista, capitanata da Karl Vennberg e Erik Lindegren, e resta a tutt’oggi una figura mitica della letteratura svedese. Iperborea, che ha pubblicato romanzi e racconti, manda in libreria di Dagerman, Breve è la vita di tutto quel che arde (traduzione e cura di Fulvio Ferrari), poesie esistenziali, vivide e tormentate nei loro affondi dentro i labirinti della psiche, e poesie satiriche, a commento potente della cronaca politica e sociale del suo tempo. Sono versi sempre intensi, scritti in uno stile che attraverso l’ossessione, l’analisi impietosa, la satira amara, mira a mettere in scacco tutte le maschere di comodo dell’esistenza svelandone la realtà di tragedia e di farsa.
L’Autore
Stig Dagerman
Stig Dagerman –Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Dagerman appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco e Il serpente.
casa editrice Iperborea- Chi siamo
Iperborea è una casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani nel 1987 per far conoscere la letteratura dell’area nord-europea in Italia.Primi a esplorarla in maniera sistematica, si è potuto farlo con vasta libertà di scelta e una produzione di altissima qualità, che spazia dai classici e premi Nobel, inediti o riproposti in nuove traduzioni, alle voci di punta della narrativa contemporanea.
Oltre ai paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia), Iperborea pubblica letteratura baltica, nederlandese, tedesca, canadese, islandese (incluse le antiche saghe medioevali), una collana di narrativa per l’infanzia (I Miniborei) e una serie dedicata alle strisce dei Mumin di Tove Jansson.
Dal 2018 lancia la serie The Passenger, un libro-magazine che raccoglie inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che formano il ritratto della vita contemporanea di un paese o una città (non solo del Nord Europa) e dei loro abitanti. Dal 2020 The Passenger è tradotto anche in inglese, pubblicato e distribuito in tutto il mondo in coedizione con Europa Editions.
Nel 2021 è arrivata la serie Cose Spiegate bene, in collaborazione con il Post: ogni numero è dedicato all’approfondimento di un tema, attraverso articoli, infografiche e illustrazioni originali.
Inoltre, dal 2015, Iperborea organizza a Milano e in varie città d’Italia il festival I Boreali, dedicato alla cultura nordica.
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