In Italia il canto costante è che il lavoro ‘non c’è’: però è lo stesso paese dove si chiede di lavorare gratis o senza tutele. Il tutto con spaventevoli ricadute culturali sul lavoro come merce degradata, una svalutazione umana e professionale che riguarda tutti.
Marta Fana ci racconta non solo i numeri del lavoro, già deprimenti, ma la sua perdita di qualità.
Non è un libro per economisti, questo combattivo pamphlet, ma un libro per lavoratori. Alessandro Robecchi, “il Fatto Quotidiano”
La precarizzazione ha reso il lavoro una risorsa povera, incapace di fornire alla maggior parte degli italiani quello che un tempo poteva dare: sicurezza economica, forza contrattuale, capacità progettuale. In Italia è stato un processo particolarmente rapido e violento, che ha aperto ferite difficili da rimarginare. Un libro militante e documentato. Giuliano Milani, “Internazionale”
Dicevano: meno diritti, più crescita. Abbiamo solo meno diritti. La modernità paga a cottimo. Così dilaga il lavoro povero, spesso gratuito, e la totale assenza di stabilità lavorativa.
Non è la rabbia di chi ha perso la partita,
ma quella di chi non ha nemmeno potuto giocarla.
Così passi dalla parte del torto (Zerocalcare)
A chi si deve, se dura l’oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà
fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!
Lode della dialettica (Bertolt Brecht)
L’autore -Marta Fanaha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Institut d’Études Politiques di SciencesPo a Parigi. Ha iniziato l’attività di ricerca studiando appalti e corruzione e oggi si occupa di political economy, in particolare di mercato del lavoro, organizzazione del lavoro e disuguaglianze economico-sociali. Per Laterza è autrice di Non è lavoro, è sfruttamento (2017).
Prologo. Di precariato si muore
«Io non ho tradito, io mi sento tradito» sono le parole di un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema frustrazione. Non è l’urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi capricciosamente non vede riconosciuta la propria ‘specialità’. È l’urlo di chi è rimasto solo. Di precariato si muore.
Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall’umanità e dalla solidarietà negate. Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre vite, non potendogli dare un prezzo. C’è più di una generazione a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l’impegno per essere felici. Quella di chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di un’ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c’è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce.
Di precariato si muore. E non è un caso. Il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità, dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano.
Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo.
Ed è esattamente ciò che è stato fatto dalla Thatcher e da Reagan in poi, quello che hanno fatto tutti i governi che hanno tradito i lavoratori, dalla fine degli anni Settanta fino alle più recenti riforme del mercato del lavoro. È stato un impegno quotidiano. Costanza e tenacia. Le hanno provate tutte e ci sono riusciti perché sono rimasti coerenti con la loro idea e ogni giorno e ogni notte hanno lottato per raggiungere quell’obiettivo. Uniti. Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi, gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code.
Come scrive Owen Jones a proposito del ‘thatcherismo’: «L’obiettivo era quello di cancellare la classe operaia come forza politica ed economica della società, rimpiazzandola con una collezione di individui, o imprenditori, che competono gli uni contro gli altri per i propri interessi. […] Tutti avrebbero aspirato a rimontare la scala [sociale] e coloro che non l’avessero fatto sarebbero stati responsabili del loro stesso fallimento».
Né sulla Manica né sul Tirreno è bastata la poesia a fermare questa deriva. Nostalgicamente ascoltiamo ancora De André, capace come pochi di riflettere su un’umanità che sembra persa, spiegarci che esiste «ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore».
Così, negli ultimi decenni, è andata diffondendosi sempre più la figura del giovane con la partita Iva: libero di solcare i contratti a progetto, le prestazioni occasionali, di non arrivare a fine mese e di non avere diritto al reddito nei periodi di non lavoro. Non vincolato da un contratto, libero di esser pagato quanto e quando vuole l’azienda e di non avere alcun potere negoziale. Nel frattempo, il giovane precario poteva consolarsi e crogiolarsi del racconto della sua specificità, di essere unico, di non essere uguale a ‘quegli altri’, quelli impiegati da più di vent’anni con gravi lacune nell’utilizzo di Microsoft Office o, peggio ancora, quelli vestiti male, un po’ sporchi di polvere, di grasso e vernice. Nei cinque minuti tra il parcheggio e la porta d’ingresso, o tra la caffettiera e la piccola scrivania, separate dal lungo corridoio di una casa in affitto, il giovane precario pensa di essere indispensabile. Pensa che tutto andrà meglio, che questo contratto è solo l’inizio, potrà rivendicarlo al prossimo colloquio, quello che non esiste, perché il curriculum lo mandi a un indirizzo di posta elettronica. Lui è solo e a volte pensa che in fondo è l’unico uomo al comando. Di cosa non gli è ben chiaro. Però i sindacati mai.
E del resto, per molti anni, i sindacati non si sono accorti che questi avevano la partita Iva ma erano degli sfruttati e quando se ne sono accorti hanno procrastinato. Un circolo vizioso che ha portato alla sconfitta. Era in atto la trasformazione antropologica e culturale del lavoro subordinato, mascherato dalle collaborazioni. All’inizio degli anni Duemila chiunque poteva essere un lavoratore a termine. Una generazione in fin dei conti abituata dai tempi della scuola: le verifiche a crocette, i quiz ogni quindici giorni erano già l’emblema del ‘mordi e fuggi’. Al diavolo il diritto a una conoscenza lenta, approfondita, critica. Gratta e vinci. Usa e getta. Come quei gadget che, ora, soddisfano gli attacchi di consumismo bulimico, mentre un operaio muore sotto un camion durante un picchetto. È il momento in cui, controllando il codice a barre che traccia la spedizione, il giovane collaboratore inveisce contro Poste Italiane perché non ha consegnato il gadget in tempo. Ma Poste Italiane è stata privatizzata, i postini sono sempre meno e quelli che son rimasti lavorano dieci ore al giorno, le spedizioni sono state appaltate a un corriere esterno, gli sportelli chiudono perché i cittadini sono stati trasformati in clienti. E vanno su internet, le filiali non servono più.
Sono gli anni in cui molti più giovani potevano dirsi liberi dal lavoro subordinato, lo dicevano alla televisione, lo dicevano i giornali. Purtroppo continuano a dirlo. I costi del lavoro diminuiscono, le imprese non devono pagare i contributi, ma non devono pagare neppure la formazione ai propri collaboratori. E i giornali tornano a titolare che le imprese non trovano giovani adatti a ricoprire le mansioni cercate. La colpa della disoccupazione e della precarietà è stata accollata alla scuola, che non prepara al mercato del lavoro. Devono uscire precisi e perfetti per il prossimo annuncio. Ma guai a investire nella formazione: meglio pretendere che sia la scuola, e quindi lo Stato, a pagare, anche per far lavorare gratis nelle aziende i propri studenti.
È così che nasce l’alternanza scuola-lavoro, i cui protocolli d’intesa del Ministero del Lavoro e di quello dell’Istruzione e della Ricerca danno il diritto a grandi multinazionali di impiegare migliaia di studenti nei propri locali, per fare i commessi. Una velocità che lascia interdetti. È stato un attimo, dal susseguirsi di stage umilianti o inutili al dovere del lavoro gratuito. Sarà un’esperienza fantastica, recitavano le pubblicità dell’Expo 2015 a Milano. Vedrete cose, conoscerete gente, gratuitamente. Lavorerete gratis finché altri vorranno. Poi il nulla. Anzi no, poi Garanzia Giovani, il progetto europeo per l’inserimento lavorativo dei Neet (Not in Education, Employment, Training), cioè per coloro che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in programmi di formazione. Più di un milione di persone tra i 15 e i 29 anni si sono presentati ai centri per l’impiego o strutture convenzionate, con la speranza di trovare un lavoro. L’ha detto la pubblicità, il Ministero del Lavoro non fa che vantarsi di questo programma. E allora proviamoci, come in un reality, sia mai che ci dice bene. Altri ci sono arrivati celando l’umiliazione, mettendo da parte l’orgoglio della laurea, dei master da fuori sede. Tirocini come se non ci fosse un domani, per tutti!
Masse di lavoratori che la sera tornano a casa con le proprie storie personali, alcuni aprono un blog e si raccontano. Una questione privata. Nessuno ha inventato il sito di incontri per partite Iva, un mega raduno di chi ha partecipato al grande show di Garanzia Giovani. Lo sciopero generale dei tirocinanti. Ognuno a pregare che quella promessa di assunzione possa un giorno farsi realtà.
Loro, i potenti, gli avidi, gli sfruttatori, hanno vinto perché sono stati coerenti, uniti, perché sono stati più forti nel ‘tutti contro tutti’, dove i morti li abbiamo contati solo noi. Hanno vinto quando ci hanno chiamati «bamboccioni», imponendoci una partita Iva, e siamo stati educati, silenti, accondiscendenti. Hanno vinto quando ci hanno detto che eravamo «choosy» e abbiamo porto l’altra guancia. Hanno vinto quando abbiamo smesso di credere che, uniti, si vince anche noi.
Indagare sulle condizioni di lavoro e non lavoro in Italia è una vera e propria discesa agli inferi. Il dilagare del lavoro povero, spesso gratuito, la totale assenza di tutele e stabilità lavorativa sono fenomeni all’ordine del giorno, che si abbattono su più di una generazione, costretta a lavorare di più ma a guadagnare sempre di meno, nonostante viviamo in una società il cui potenziale produttivo già permetterebbe di ridurre e distribuire il tempo di lavoro mantenendo e/o raggiungendo un tenore di vita più che dignitoso. È la realtà contro cui si infrange la narrazione dominante sulla ‘generazione Erasmus’ e sui Millennials, la stessa che con facilità dichiara che coloro che sono nati negli anni Ottanta dovranno lavorare fino a 75 anni per avere una misera pensione. Come se fosse un fatto naturale, inevitabile, ma soprattutto irreversibile, e non invece il risultato di scelte politiche ben precise, che hanno precarizzato il lavoro, la possibilità di soddisfare bisogni che dovrebbero essere considerati universali, come l’istruzione, la sanità, la casa, il trasporto pubblico. Le stesse politiche che hanno provocato l’inasprirsi delle diseguaglianze sociali spostando reddito e ricchezza dai lavoratori, che li producono, alle imprese, che a loro volta hanno scelto di trasformarli in vere e proprie rendite. Il furto quotidiano operato a danno dei lavoratori, di oggi e domani, è stato sostenuto dall’ideologia del merito, imposta per mascherare un inevitabile conflitto tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Ma soprattutto per negare la matrice collettiva dei rapporti di lavoro, dei rapporti di forza in gioco: è la retorica per cui ognuno è unico artefice del proprio destino.
Il risultato è l’avanzare di forme di sfruttamento sempre più rapaci che pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra lavoro manuale e cognitivo: dai giornalisti pagati due euro ad articolo ai commessi con turni di dodici ore, dagli operai in somministrazione nelle fabbriche della Fca ai facchini di Amazon.
Sono questi gli argomenti trattati in questo libro in cui l’analisi delle trasformazioni economiche e sociali che hanno attraversato i diversi settori si intreccia con le storie di quanti vivono quei luoghi – e non luoghi – di lavoro. Per ragioni oggettive e soggettive, ho scelto di analizzare e descrivere solo alcuni settori economici e forme di lavoro, in particolare la logistica, la grande distribuzione e i servizi pubblici, ma anche i lavoretti dietro la gig economy, le forme di lavoro gratuito, il lavoro a chiamata e il sistema dei buoni lavoro (i voucher). È una scelta dettata da poche ragioni di fondo, tra loro collegate. Primo, essi costituiscono gli esempi più significativi della ristrutturazione del capitalismo, dove la frammentazione del lavoro segue la frammentazione del processo produttivo. Secondo, sono la più nitida rappresentazione di come la valorizzazione del capitale necessiti la creazione di vere e proprie avanguardie dello sfruttamento, che coinvolgono sia i lavoratori immigrati della logistica, sia quelli italiani della grande distribuzione o dei servizi pubblici. La matrice di classe che opera in questi settori è la medesima, nonostante la narrazione dominante tenda a separare e a diversificare una soggettività, quella del nuovo e trasversale proletariato, con espedienti retorici e di facciata. Terzo, il riemergere dei conflitti che popolano questi settori e le modalità con cui le lotte si affermano son spesso taciuti o relegati a meri fatti di cronaca locale quando, invece, sono espressione di un mondo nient’affatto pacificato. D’altra parte, frontiere del precariato come il lavoro a chiamata e il lavoro gratuito si configurano non soltanto come forme di totale estrazione del valore prodotto dai lavoratori che ingrassa solo gli utili d’impresa, ma agiscono come strumenti di estremo ricatto: la promessa di un futuro migliore se si è disposti a farsi sfruttare senza mai alzare la testa.
Mettere in luce la comunanza di interessi, palesando la natura di classe di questi conflitti, ha l’obiettivo di far convergere e amplificare le lotte e le pratiche in atto.
Infine, sebbene con estrema sintesi e in modo nient’affatto esaustivo, si è provato a descrivere il processo politico che ha portato all’impoverimento della classe lavoratrice e soprattutto di quelle generazioni che si affacciano oggi al mondo del lavoro. Per ribadire, in fin dei conti, che il divorzio tra la sfera economica e quella politica è solo un inganno: i processi economici non sono nient’altro che processi politici di potere, di riproduzione di rapporti di forza. In Italia come nel resto d’Europa, la scelta dei governi è stata quella di avallare il progressivo smantellamento dei diritti in modo da restituire forza e dominio alle imprese, a discapito del progresso sociale, cioè del miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza.
Mi preme specificare alcuni dettagli del modo in cui nasce e prende forma questo volume. Innanzitutto, esso è frutto di un lavoro collettivo per cui ringrazio i colleghi, gli amici ma soprattutto i compagni che, interrogandosi e stimolando il dibattito su questi temi, mi hanno, metaforicamente, costretta nel tempo ad approfondirli. È soprattutto grazie a loro che questa coscienza collettiva ha preso forma in uno scritto, preceduto da diversi interventi sui giornali, nei dibattiti, in piazza, nei picchetti e nelle assemblee. Gli incontri con lavoratori e disoccupati sono la fonte delle storie che a tratti compaiono nel libro. Storie che si ripetono e di cui il breve racconto che ne viene fuori non è che una sintesi di prassi molto più frequenti.
Con la speranza che questa presa di coscienza collettiva possa diffondersi e raggiungere i tanti, i molti, che hanno diritto a un riscatto, all’emancipazione negata dall’avidità del capitale e dall’ipocrisia del potere. A loro è dedicato questo libro.
Miserie e splendori del lavoro: un immaginario da ricostruire
Durante gli ultimi decenni, la rappresentazione del lavoro, della quotidianità dei lavoratori, è scomparsa dall’immaginario, dalla cultura. La creazione di vere e proprie periferie nel mondo del lavoro è stata inizialmente giustificata come l’unico strumento efficace per affrontare le difficoltà a trovare il primo impiego da parte di categorie poco partecipi, come le donne, o più vulnerabili, come i giovani e gli immigrati. Una volta create, tuttavia, queste periferie sono state utilizzate dalla narrazione dominante per giungere al fine ultimo: la precarizzazione di ogni forma di lavoro, anche quelle finora garantite da tutele, come i contratti a tempo indeterminato. Dal punto di vista della composizione sociale, lo scontro alimentato è stato quello generazionale: i padri garantiti stanno togliendo lavoro e possibilità di lavorare ai propri figli. La stessa identica narrazione assoldata per giustificare e imporre antidemocraticamente dosi massicce di austerità sul piano fiscale e dei conti pubblici.
Le condizioni di vita di milioni di persone sono usate solo ed esclusivamente per la costruzione di un’immagine funzionale a rappresentare altro: una volta un nemico da creare – come nel caso dei dipendenti pubblici o degli operai in lotta –, un’altra volta un’azienda da esaltare. Più recentemente quel che torna di moda è la costruzione del nemico esterno incarnato dagli immigrati. La retorica dominante, trasversale, sebbene con qualche eccezione nello spettro politico, indica l’immigrazione come causa ultima del crollo di diritti e salari, nonostante sia evidente che l’Italia – da molti più anni rispetto all’inizio dell’attuale ondata di immigrazione – vive un vero e proprio esodo verso l’estero. Secondo quanto riporta l’Istat nel rapporto Migrazioni Internazionali e interne della popolazione residente, «Negli ultimi cinque anni le immigrazioni si sono ridotte del 27%, passando da 386 mila nel 2011 a 280 mila nel 2015. Le emigrazioni, invece, sono aumentate in modo significativo, passando da 82 mila a 147 mila. Il saldo migratorio netto con l’estero, pari a 133 mila unità nel 2015, registra il valore più basso dal 2000 e non è più in grado di compensare il saldo naturale largamente negativo (-162 mila)». Andamento che si ripete nel 2016. Inoltre, il perdurare di fenomeni storici di immigrazione interna – da sud a nord Italia – viene accolta paternalisticamente come qualcosa di naturale. Ma anche nelle regioni del Meridione, dove lo sfruttamento è prassi mai messa in discussione, si agita lo spettro dell’immigrato che ruba il lavoro al giovane disoccupato, senza mai ricordare che già prima dell’arrivo dell’immigrato la disoccupazione giovanile raggiungeva tassi superiori al 50%. Briciole di realismo necessarie per ribaltare uno schema di analisi falso e deleterio. Ma, appunto, l’immagine dell’immigrato causa dei mali di questo paese è utile per nascondere ciò che realmente avviene quotidianamente contro lavoratori italiani e stranieri. Agitare la guerra tra poveri è il gioco prediletto da chi sullo sfruttamento dei molti, indipendentemente dalla nazionalità, mantiene il proprio potere. Tutto il resto è bene insabbiarlo. Dei conflitti sempre più intensi e frequenti che popolano le relazioni industriali del nostro paese, e che non distinguono tra italiani e stranieri, non deve sapere nessuno, è un’immagine che mostra le crepe di un sistema, un conflitto mai sopito e sempre più radicale, che si è scelto strategicamente di ignorare. Quel che quotidianamente viene raccontato, fino a diventare la lettura dominante di questa fase storica, è una realtà che non esiste, almeno non più, fatta di, seppur scarsa, mobilità sociale, di brevi periodi di precariato seguiti da carriere dignitose, possibilità di uscire da uno stato di bisogno attraverso il lavoro. L’unico scontro generazionale che si intravede è questo: la lettura della realtà nella sua dimensione storica. Più di una generazione vive oggi in un contesto di crisi permanente, di distruzione del patto sociale – scioltosi come neve al sole – del dopoguerra e degli anni del boom. Metabolizzare il lavaggio del cervello quotidiano operato a uso e consumo delle élites non fa che distogliere lo sguardo dalle vere cause e responsabilità e dai possibili rimedi. Secondo questa visione distorta continuano a trovare legittimazione non soltanto opinionisti d’accatto che provano a imporci un ribaltamento della realtà per continuare a garantirsi un posto nel mondo, nonché la loro posizione di potere, ma anche opzioni politiche superate dalla storia e ormai incompatibili con la tenuta politica e sociale del paese. Tra queste, ad esempio, le proposte di mantenere i vincoli di bilancio o le privatizzazioni del settore pubblico, il ripetere incessante del non c’è alternativa al costante impoverimento del mondo del lavoro e non lavoro. Convinzioni e prospettive politiche che scongiurano la necessità di abolire l’intero impianto del Jobs Act, fermandosi nel migliore dei casi a una revisione di facciata, come chi propone di ristabilire non già l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ma l’art. 17 e mezzo. Sono gli stessi che avallano l’aumento dell’età pensionabile e ritengono che sia possibile creare solidarietà tra le generazioni riducendo ancora le pensioni di oggi e assoggettando il diritto alla pensione di oggi e domani al pareggio di bilancio. Attraverso questa lente falsata quel che rimane del mondo del lavoro è un racconto ipocrita che si commuove per le proteste degli operai nelle fabbriche lager del Pakistan o per le stragi in quelle del Bangladesh, come fossero eventi esotici, slegati dall’incedere dell’ordine globalizzato, quello che antepone in ogni luogo gli interessi degli sfruttatori a quelli degli sfruttati.
Più ci si avvicina ai confini dell’Italia, più il conflitto, quando non ignorato, è ormai relegato a una questione di cronaca, di ordine pubblico. Nei fatti si tratta di repressione. Risalgono al 2014 le immagini dei lavoratori delle acciaierie di Terni manganellati durante un corteo a Roma, o le cariche durante gli scioperi all’aeroporto di Malpensa del 2013, quelle contro i lavoratori Alcoa. Lì dove regna la repressione, il titolo di apertura è Scontri! Lo stesso è avvenuto di fronte alla lunga primavera di manifestazioni e scioperi generali che hanno attraversato la Francia nel 2016 contro la Loi Travail. Uno sciopero generale ogni settimana, strade piene in molte città francesi, solidarietà tra operai e studenti, tra disoccupati e pensionati. Ai commentatori italiani non importò l’unità che si andava creando per quelle strade, così come nessuno degli habitués dei talk show di prima e seconda serata ebbe un sussulto di indignazione di fronte all’operazione antidemocratica con cui quella legge fu approvata.
La frantumazione del mondo del lavoro vive dentro e fuori i luoghi di lavoro, soprattutto fuori dalle coscienze di chi per vivere deve lavorare. Senza mezzi termini, l’oggetto della discussione è la coscienza di classe, motore della storia, la cui esistenza è negata nella retorica dominante per sgomberare il campo dalla resistenza a tutte le scelte politiche che in questi anni hanno decretato l’inasprirsi delle diseguaglianze economiche, politiche e sociali.
Ma il conflitto prima o poi emerge, in modi più o meno dirompenti. Non sempre la questione di classe si esprime con una direzione politica, ma quando accade è irresistibile. Fuori dai palcoscenici di una politica a-dialettica, l’esigenza di una ricomposizione di classe prende vita grazie a quella generazione di cui tutti parlano e che nessuno ascolta.
«Siamo quei ragazzi che neanche tu, tu che da noi sei stato servito, hai notato. Perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi, siamo una rotella di un ingranaggio gigantesco. Invisibili, ma indispensabili perché senza di noi l’ingranaggio si incepperebbe… Senza di noi, tu non avresti la tua pizza, la tua assistenza telefonica, la tua visita guidata, i tuoi jeans… Siamo in tanti, tantissimi, neanche lo immagini quanti… tutti al servizio di chi sul nostro lavoro ci guadagna, assumendoci senza contratto o con contratti finti che bluffano sull’orario di lavoro, sempre più lungo, bluffano sulle mansioni, sempre di più, sempre troppe. E la paga è sempre più bassa, lontana anni luce da qualsiasi standard contrattuale… Dovrebbero riconoscerci dei diritti: ferie, malattia, permessi, maternità e invece… niente di niente… perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi… non esistiamo eppure ci siamo, siamo qua…».
Questo coro agguerrito ha fatto irruzione per le strade assolate di Napoli invase dai turisti nel giorno della Festa internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici, il Primo Maggio 2017. Perché la storia non bussa, entra sicura. Con nitidezza, oltre ogni deformazione. Qui si uniscono le storie dei lavoratori della ristorazione, dei call center, del turismo (affidato al privato), del commercio. La trama è sempre la stessa: lavoro sfruttato, spesso a nero, non importa se con o senza la laurea, se si tratta di lavori ad alta o bassa qualifica. Lavoratori che parlano al resto della società, a tutti quelli a cui è negata quotidianamente la dignità, ai troppi giovani e meno giovani del Sud Italia, del Sud Europa.
Se non si tratta di vero e proprio lavoro nero, si parla comunque di lavoro povero. In particolare, si è di fronte a una vera e propria proletarizzazione della classe lavoratrice, dove i livelli di sfruttamento intensivo riguardano ampi settori dell’economia e coinvolgono sia il lavoro manuale sia quello intellettuale. Dai giovani fattorini delle consegne a domicilio gestite dalle piattaforme digitali, ai giovani avvocati, dai giornalisti precari, freelance e non, agli ultimi arrivati nelle grandi società di consulenza.
Non vi è dubbio che il lavoro povero si palesi con intensità e modalità differenti nei vari contesti, ma ciò non toglie che la tendenza in atto sia univoca.
Per questa ragione l’urlo dei lavoratori a nero coinvolge anche i tanti collaboratori e partite Iva che, per sfuggire alla solitudine, per anni uscivano di casa per andare a lavorare seduti al tavolino di un bar qualsiasi. Finché qualche illuminato non ha deciso che anche la solitudine può essere messa a valore. Il cameriere e la giovane partita Iva si incontrano sempre meno. Infatti, la solitudine di collaboratori e freelance diventa oggetto di innovazione sociale, in cui privati mettono a disposizione spazi a pagamento dove i lavoratori possono recarsi e sentirsi meno soli. Perché spesso i collaboratori non hanno neppure il diritto a una postazione in azienda: a volte, indipendentemente dagli spazi a disposizione, gli è proprio vietato andarci, perché semplicemente non sono coperti da assicurazione in casi di infortunio sul luogo di lavoro. Così il luogo di lavoro è altrove, anzi, non esiste. Ognuno si crei il suo.
Ed eccola, l’innovazione: l’emergere di spazi di ‘coworking’, dove apparentemente si lavora insieme, ma, molto più realisticamente, ognuno se ne sta per i fatti suoi. Mettere a disposizione uno spazio di coworking viene spesso raccontato come l’offrire un servizio che dà l’opportunità di incontrarsi, fare rete, scambiarsi idee e, perché no, crearne di altre tra una pausa e l’altra. A pagamento. Per sentirsi meno soli si spende intorno ai 15 euro al giorno, si affitta una postazione con una presa e se va bene si scambia qualche parola con quel collega fittizio e potenziale. Solitudine e frammentazione create dai processi di precarizzazione produttiva rimangono questioni private a cui il mercato risponde, trova soluzioni a carico dei lavoratori e su cui è sempre pronto a trarre un po’ di utili. Un cortocircuito che rende bene l’idea di come il concetto di condivisione venga messo a valore. In questo caso, infatti, la solitudine e la frantumazione del lavoro diventano ‘nuovi mercati’; la condivisione non ha un connotato sociale bensì di mercato: si paga per condividere qualcosa che non si detiene, a parte la frustrazione della solitudine. Mentre le aziende risparmiano sui costi relativi ai luoghi fisici del lavoro, i lavoratori pagano per dotarsi di uno spazio di lavoro in cui immaginarsi una vita non atomizzata. Si potrebbe ovviamente sostenere che è possibile riconquistare spazi pubblici dismessi, che il settore pubblico potrebbe impegnarsi a adibire a postazioni di lavoro. La riappropriazione degli spazi pubblici da parte della collettività è un obiettivo nobile che va costantemente rivendicato: tuttavia non si capisce perché, ancora una volta, sia il pubblico a dover pagare per il privato e la sua deresponsabilizzazione!
E quando non si deresponsabilizza per legge, si chiude un occhio, come di fronte al lavoro nero, di fronte al disinvestimento in manutenzione e sicurezza: vengono tagliati i controlli e le ispezioni sul lavoro mentre si spendono soldi pubblici, dei lavoratori, per i rastrellamenti degli immigrati. Così se un operaio muore mentre lavora, è distrazione. Un incidente.
Le morti bianche, cioè quelle sul lavoro, compaiono per poche ore sulle pagine dei giornali. Stando ai dati dell’Inail, nell’ultimo quadriennio sono morti sui luoghi di lavoro circa mille lavoratori ogni anno. Cifre che sottostimano il fenomeno, in quanto non tutti i lavoratori sono registrati presso l’Inail, come i liberi professionisti, i vigili del fuoco o proprio quei collaboratori che popolano i coworking o le camere in affitto in centro città. Ogni giorno, in Italia, più di tre persone muoiono sui luoghi di lavoro, a cui vanno aggiunti gli infortuni e tutte le malattie che si manifestano lentamente, quando ormai il lavoratore è andato in pensione. Secondo i dati ufficiali, nel 2016 le denunce per infortunio sul lavoro sono oltre seicentomila. Neanche fossimo in guerra!
Non si discute peraltro di come le scelte aziendali volte alla riduzione del costo del lavoro producano insicurezza sugli altri lavoratori. È un altro caso di come la tecnologia impatti in modo non neutro sulle condizioni di lavoro. Alcune aziende hanno scelto di sostituire le squadre di vigilanza con dei braccialetti elettronici indossati da un unico addetto alla sicurezza. Nel caso in cui dovesse succedere qualcosa, il braccialetto emette suoni allarmando la centrale operativa, che si trova fuori dallo stabilimento. Solo allora saranno attivati i soccorsi. Peccato però che il tempismo non può essere garantito come avveniva quando a vigilare si era almeno in due. La probabilità di incidenti è inoltre proporzionale all’inesperienza e inversamente correlata con la conoscenza dei luoghi di lavoro e dei suoi impianti. È allora inevitabile che più si precarizza il lavoro più gli incidenti aumentano, soprattutto lì dove i lavoratori temporanei non ricevono neppure la formazione sulla sicurezza.
Anche nel lavoro più strutturato si assiste a una inaccettabile deriva per cui la sicurezza sul lavoro, ma anche dei territori, si fa oggetto di ricatto. Capita che i premi aziendali siano ancorati alla riduzione degli incidenti sul lavoro, cioè i lavoratori possono percepirli – in teoria, dato che rimane una promessa – se in azienda diminuiscono gli incidenti sul lavoro. I lavoratori sono allora incentivati a non dichiarare infortuni altrimenti perdono la possibilità di ricevere il premio. Ma, oltre alla beffa, l’inganno: ai fini della retribuzione con i contratti integrativi contano anche le assenze per malattia. Più ci si ammala meno si guadagna. Al lavoratore non rimane che scegliere tra meno soldi a causa della dichiarata malattia, con la promessa di percepire il premio, o denunciare l’infortunio e non perdere i soldi trattenuti dal datore di lavoro in caso di malattia. Gallina oggi, uovo domani.
Recentemente, un esempio di ricatto tra lavoro e sicurezza si è manifestato durante il referendum sulle concessioni per le trivellazioni, quando si barattava il diritto a trivellare ed estrarre petrolio e profitto con il diritto al lavoro che la riduzione delle trivellazioni avrebbe messo a repentaglio. Ci si può tuttavia opporre a derive simili e rivendicare la priorità del rispetto dei diritti sui profitti, come ha fatto la Fiom-Cgil Basilicata nei confronti dell’Eni al Centro Oli di Viggiano, stabilimento le cui attività sono state sospese dalla giunta regionale della Basilicata dopo plurime richieste di intervento a riduzione degli eccessivi livelli di inquinamento provocati. Una storia mai risolta, quella della sicurezza sul lavoro, del conflitto tra diritti sociali e avidità del capitale, come dimostra magistralmente lo scrittore Alberto Prunetti nel suo libro Amianto. Una storia operaia.
Un atteggiamento paradossale, quello degli italiani di fronte al concetto di sicurezza. Prevale oggi nell’opinione comune un bisogno incondizionato nei confronti della propria sicurezza verso il prossimo, specie se più povero, se sta peggio di noi. Una costante richiesta di protezione della nostra non ricchezza, ma pur sempre proprietà di fronte all’indotto pericolo del ladro che invade le case o il garage o l’orto di casa. Si pretende addirittura il diritto di sparargli contro, di ucciderlo se necessario. Perché la proprietà non è più un furto e non può essere oggetto di furto. Sentimenti o risentimenti che sfociano il più delle volte in vere e proprie forme di razzismo e di odio verso il basso; posizioni che conquistano quotidianamente spazi di riflessione e azione politica. Ancora una volta, il racconto è strumentale a evitare che emerga e si consolidi la consapevolezza che il conflitto vive all’interno del processo di produzione e riproduzione sociale, ed è quello che contrappone sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori.
Cedendo alla narrazione tossica che arriva dall’alto, di fronte al sopruso dei potenti si abbassa la testa, di fronte al furto quotidiano di diritti e salari ci si rivolge con remissività, con l’illusione che da quell’autorità, il capitale e chi lo governa, si può sempre ricevere qualcosa. Un atteggiamento di subalternità che quasi penetra a livello antropologico. Su questo terreno vanno concentrati gli sforzi di una resistenza attiva che rivendichi come sopruso lo stipendio che non arriva da mesi, gli straordinari mai pagati, il contratto a tempo determinato dopo più di tre anni di rinnovi, i contributi non versati, le molestie al lavoro. Rifiutando la guerra tra sfruttati di ogni genere, età, nazionalità.
Dal lavoro a chiamata ai voucher, andata e ritorno
Quando scoppiò la crisi del 2008, le massicce dosi di flessibilità, introdotte fino a quel momento nel mercato del lavoro, mostrarono in modo più eloquente il loro vero volto. La politica aveva però un compito: negare, negare sempre, negare soprattutto di fronte ai giovani: quelli maggiormente coinvolti dai lavori precari e che presto furono espulsi in massa dai processi produttivi insieme ai propri genitori; quelli che un lavoro non riuscivano proprio a trovarlo, indipendentemente dal titolo di studio. La disoccupazione nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 18,3% del 2009 al 30,3% del 2016 (37,8% se si considera la fascia 15-24 anni). Nell’ultimo trimestre del 2016 il tasso di occupazione dello stesso gruppo anagrafico rimane al 29,5%, contro il 39% del 2009.
Alle scelte politiche, ostinate sulla via delle riforme strutturali, serviva rafforzare la narrazione e trovare altri responsabili. Primi tra tutti i giovani stessi, quelli che non ce la fanno neppure a trovare un lavoro sottopagato, sottoinquadrato, quelli che non possono permettersi di lasciare casa dei genitori perché né loro né i genitori hanno i soldi per pagare una stanza in affitto altrove, quelli che si laureano in ritardo e a nessuno importa perché. Nel 2012 essere «bamboccioni», termine coniato dal fu ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, era ormai un complimento: stavano per arrivare gli «sfigati» e gli «schizzinosi». «Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa»: parola di Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti (gennaio 2012). Rincara la dose la ministra Elsa Fornero (ottobre 2012): «Non bisogna mai essere troppo choosy [schizzinosi], meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro. Non aspettare il posto ideale. Bisogna entrare subito nel mercato del lavoro».
Così come ha fatto Chiara, che per due anni ha lavorato come cassiera a chiamata all’ipermercato Martinelli di Mantova. Alla cassa tutti i week-end da venerdì a domenica e poi anche un turno durante la settimana. Per gli infrasettimanali la chiamavano il giorno prima per darle conferma. No ferie, no malattia. Il turno era di dodici ore, con un’ora e mezza di pausa pranzo. La pausa pranzo era il solo momento in cui Chiara aveva diritto a bere. In cassa era vietato bere, ma anche sedersi. Così lei e le sue colleghe erano costrette a tenere nascoste le bottigliette e a scomparire sotto la cassa per qualche istante. Essere sorridenti sempre, anche quando ti arrivava un’infezione urinaria, perché pure se bevi poco al bagno devi andare, ma quando chiami il cambio la collega non arriva a tamburo battente. Aspetti, anche mezz’ora, quaranta minuti. A fine turno, nonostante nel contratto ci fosse scritto «cassiera», Chiara e le sue colleghe dovevano pulire i bagni, tutti.
Chiara è riuscita a trovare lavoro subito e a farsi sfruttare come si deve; le dichiarazioni della Fornero però rimangono non soltanto offensive ma anche fuorvianti. Per la legge della domanda e dell’offerta, se tre milioni di persone sono disoccupate e altrettante scoraggiate – cioè non lavorano e si sono stancate di cercare – significa che la prima offerta spesso neppure esiste. Lo dimostra il numero di posti vacanti, cioè disponibili rispetto al totale dei posti di lavoro esistenti (somma tra i posti vacanti e quelli occupati). Un indicatore che misura la domanda di lavoro da parte delle imprese, a ben vedere fanalino di coda europeo tra il 2009 e il 2016.
Ma perché i giovani? Perché se avessero preso coscienza di non essere sfigati – cioè di aver fatto tutto quello che veniva loro richiesto – avrebbero potuto rievocare uno spettro pericoloso: il conflitto. Così i giovani avevano bisogno di una dose, più massiccia, di distrazioni di massa, che dirottasse la frustrazione ed evitasse ad ogni costo che questa si tramutasse in voglia di riscatto. Andava alimentata una guerra tra poveri e diseredati, mascherata da guerra intergenerazionale: padri contro figli, prima di tutto. Poi è arrivato il tempo degli immigrati, che però nel frattempo erano costretti a lavorare gratis.
Senza girarci attorno, ciò che emerge dalle parole di chi è stato chiamato (dall’allora presidente Giorgio Napolitano, con la fiducia in primis del Pd) a governare il paese all’esplodere della crisi è un profondo disprezzo nei confronti dei lavoratori e dei disoccupati, chiamati solo a sacrificarsi sull’altare della competitività e dei profitti delle imprese finanziarie e non. Non a caso proprio la riforma Fornero, oltre a demolire l’art. 18, permise alle imprese di disporre in modo indiscriminato di un enorme esercito di riserva, sempre più giovane, dati i crescenti tassi di disoccupazione. Una specie di gioco delle tre carte: da un lato, venivano aumentati dell’1,4% i costi dei contratti a termine a carico dei datori di lavoro; dall’altro, si escludeva l’obbligo di comunicare la causa del ricorso al contratto a termine per i primi 12 mesi. Allo stesso tempo, con una mano si restringevano le possibilità di ricorrere al lavoro intermittente (o a chiamata) e con l’altra si liberalizzavano a tutti i settori produttivi i buoni lavoro (o voucher).
Ma la storia dei voucher e del lavoro a chiamata non nasce con la Fornero, che di per sé non ha dovuto inventare nulla, bensì con la riforma Biagi-Maroni del 2003. In principio, nel contratto a chiamata un lavoratore «si pone a disposizione del datore di lavoro per lo svolgimento di determinate prestazioni di carattere discontinuo o intermittente». È un contratto subordinato e può essere a tempo determinato o indeterminato, può coinvolgere tutti i lavoratori, ma nel caso di under 25 o over 45 è necessario che siano disoccupati o in mobilità. Ben presto, nel 2005, la condizione di disoccupato decade e la legge estende a tutti la possibilità di lavorare a chiamata. Oltre alla durata del rapporto di lavoro (a termine o permanente), fin dalla legge Biagi-Maroni il lavoro a chiamata può essere di due tipi: con o senza disponibilità garantita dal lavoratore. In pratica, quest’ultimo può concedere al datore di lavoro la propria disponibilità a essere chiamato (per questa sua disponibilità riceve addirittura un compenso!) e si accolla l’obbligo di rispondere alla chiamata. Oppure può non dare la propria disponibilità: se arriva la chiamata ed è libero bene, altrimenti il datore di lavoro dovrà cercare altrove.
Il lavoro intermittente esplose e, dopo alcuni tentativi, la riforma Fornero decise di limitarlo agli under 24 e agli over 55. Ironicamente potremmo dire che la riforma Fornero non volle privare i giovani del loro protagonismo nel lavoro a chiamata. Secondo quanto riporta il Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie del 2013 (relativo ai dati 2012) del Ministero del Lavoro, i rapporti di lavoro intermittente coinvolgevano principalmente i giovani: «nel 2012 sono stati avviati 223.532 (il 32% del totale) lavoratori nella fascia di età 15-24 anni e 194.941 (ovvero 28% del totale) nella classe 25-34 anni». Si tratta principalmente di contratti a chiamata a tempo determinato, l’8% circa in entrambi i casi.
L’efficacia della riforma Fornero in termini di riduzione del lavoro a chiamata è registrata dai dati: l’incidenza degli avviamenti di contratti a chiamata sul totale dei contratti torna ai valori del 2010 (4%), la metà rispetto al picco massimo raggiunto a inizio 2012, circa l’8%, come riporta l’Isfol nel rapporto del 2015.
Solo una cosa non toccò la riforma del lavoro intermittente attuata dal governo Monti: i rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori. E non è un caso, perché la flessibilità non è neutra: scarica il suo peso sulla parte più debole, il lavoratore, in balìa del ricatto della disoccupazione. Gioco facile per le aziende, a cui la Fornero dimenticò di apporre un limite massimo complessivo di lavoratori a chiamata: come abbiamo visto, la legge dispose infatti un tetto massimo per ciascun lavoratore, non più di 400 giornate lavorative in un triennio. Ma alle aziende fu accordato il diritto di usare le 400 giornate di ciascun lavoratore e poi cambiarlo con un altro sempre a chiamata. Quindi, i datori di lavoro non soltanto potevano assumere a volontà lavoratori a chiamata (a parte i casi esclusi dai contratti collettivi nazionali che, si sa, vivono ormai in costante difensiva), ma potevano e ancora oggi possono esercitare il proprio potere di ricatto usando i contratti intermittenti senza l’esercizio della messa in disponibilità, così da non dover neppure versare le somme dovute per il periodo di non lavoro. Il ricatto scaturisce sempre da quella tensione messa in atto dall’esercito di riserva, le masse di disoccupati alla disperata ricerca di un posto di lavoro. Non accettare quanto chiesto dal datore di lavoro espone direttamente alla perdita dello stesso, ma piegarsi al ricatto significa contestualmente cedere un diritto.
Un’offerta da non rifiutare, soprattutto se giovani e inesperti, così come suggerì il ministro!
Così è stato per Chiara che, dopo due anni, si è licenziata dall’ipermercato in cui faceva la cassiera. Ha lavorato 510 giornate in due anni, oltre il limite. Non ha prove e non può denunciare. Quando ci siamo incontrate non sapeva che l’essere a disposizione dell’azienda è qualcosa per cui le sarebbe spettato un compenso, che andava scritto nel contratto. L’azienda non gliel’ha mai detto e i sindacati non li ha mai visti. Ha accettato la prima offerta e l’hanno sfruttata.
Come si diceva, alle restrizioni all’uso del contratto a chiamata fu affiancata, sempre nel 2012, la totale liberalizzazione dei voucher. Nati nel 2003, i buoni lavoro erano rivolti a regolarizzare i lavori occasionali e accessori, di tipo domestico o in agricoltura. Bisognava fare qualcosa contro il lavoro nero, si diceva, anche a costo o supportando l’idea di un impoverimento di fasce crescenti della forza lavoro. Una questione di priorità o pura formalità, parafrasando i Cccp.
L’idea geniale, quasi fantascientifica, fu quella di creare e liberalizzare uno strumento incostituzionale per porre rimedio a un’attività irregolare. Uno strumento che si compra facilmente dal tabaccaio e sempre lì si riscuote. Ogni settimana, Giorgio si sveglia e va al tabacchi sotto casa. Ha con sé venti voucher: 150 euro. Gli habitués delle slot machine vivono con estrema invidia la riscossione di Giorgio, pensano sia una vincita ottenuta a quelle maledette macchinette in cui finisce quotidianamente la loro pensione. Vagli a spiegare che è uno stipendio! Vagli a spiegare che le bollette non le porta con sé perché o fa la spesa o paga luce e gas.
Secondo il principio di lucidità, la bulimia con cui il legislatore (nei fatti, sia i governi che i Parlamenti) si è scatenato nella deregolamentazione dei voucher rispecchia intenzioni ben più profonde: abbattere fortemente il costo del lavoro a scapito dei lavoratori.
Gaio Valerio Catullo-Poesie – Testo latino a fronte-
-Editore: Demetra-
-DESCRIZIONE-
La complicata storia d’amore con Lesbia ha avuto, sull’animo di Catullo, due punte estreme e opposte: all’inizio, di fronte all’impossibilità per Lesbia di essere e di apparire legata stabilmente a lui, Catullo crede di poter rappresentare la dura condizione di un distacco definitivo… Tuttavia Lesbia, con ennesimo nuovo capriccio, torna a cercare Catullo e gli fa la consueta promessa di amore eterno… Fra sincerità e menzogna, gratitudine e irriconoscenza nella vita e nell’amore, Catullo oscilla continuamente: è questa la chiave di volta della sua tormentata concezione del mondo. Un tormento assiduo, che probabilmente corroderà la sua fragile fibra fisica, fino a ucciderlo appena trentenne.
Breve Biografia di Gaio Valerio Catullo
Gaio Valerio Catullo-E’ il più celebre tra i poetae novi e fu il più grande pota d’amore dopo saffo. secondo San Gerolamo, nel Chronicon, Catullo nacque nell’87 AC, a Verona, nella Gallia Cisalpina e morì nel 57 AC.il poeta però non visse a lungo.si stabilì presto a Roma, dove trovò amici e amore.
Catullo è per noi uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (“poeti nuovi“), che facevano riferimento ai canoni dell’estetica alessandrina e in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo stile poetico che si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità (in riferimento all’abbondanza dei versi di quest’ultima) piuttosto che dalla qualità. Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli antichi eroi o degli dei[7], ma si concentrano su episodi semplici e quotidiani. I neòteroi si dedicano perlopiù all’otium letterario piuttosto che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara nel carme 51: «Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque gestis» «L’ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell’ozio smani e ti scalmani» (traduzione a cura di Nicola Gardini). Talvolta il poeta ostenta il suo disinteresse per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la storia: «nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m’interessa, Cesare, di andarti a genio» (carme 93), scrive al futuro conquistatore della Gallia. Da questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari dell’alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco[8], Apollonio Rodio,Teocrito, Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l’epillio, l’elegia erotico-mitologica e l’epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti latini.
Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè “levigato”) a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente elaborati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limae, con la quale il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario della poesia epica, l’opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e tematica, in particolare come nel carmen 51, una emulazione del fr. 31 di Saffo, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami saffici.
Il carme 66, preceduto da una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l’adesione ad una raffinata elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica, linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di breve durata può essere un’opera raffinata e preziosa.
Nell’Italia della Controriforma la Censura ha svolto un ruolo fondamentale e dalle enormi conseguenze sulla cultura e l’identità del nostro paese. Tenendo insieme in un unico grande affresco dotti e ‘senza lettere’, letteratura e arte, scienza e filosofia, politica e teologia, questo libro analizza a tutto tondo le modalità di controllo del pensiero e delle sue espressioni scritte e orali con una ricerca innovativa destinata a rappresentare a lungo un caposaldo della nostra storiografia.Nei secoli racchiusi tra l’invenzione della stampa e la nascita del diritto d’autore anche gli uomini e le donne più illuminati credevano nella necessità di sorvegliare la circolazione libraria e reprimere le idee considerate dannose per la società. Cosa distinse il sistema di censura romano dai meccanismi di controllo vigenti in altre parti d’Europa? E, soprattutto, in che modo la censura ecclesiastica influì sugli sviluppi della cultura italiana nel corso dell’età moderna? Questo libro ricostruisce gli strumenti con cui Roma cercò di impedire la diffusione dei libri ritenuti pericolosi e allo stesso tempo gli stratagemmi con cui autori, stampatori e lettori cercarono di aggirare tali controlli. La censura fu eliminazione, soppressione, cancellazione, ma anche sostituzione, restituzione, riscrittura. Il successo della politica religiosa e culturale della Controriforma passò anche per la capacità di restituire ai fedeli una serie di testi atti a sostituire i libri non più disponibili. Il libro scomparve e poi ricomparve sotto forme diverse, lontane ma non del tutto nuove rispetto al loro aspetto originario
. L’autore
Giorgio Caravale insegna Storia moderna presso l’Università Roma Tre.Si occupa di storia culturale e religiosa dell’età moderna. È stato Lauro De Bosis Lecturer in History of the Italian Civilization presso la Harvard University e membro della School of Historical Studies dell’Institute for Advanced Study di Princeton. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Beyond the Inquisition. Ambrogio Catarino Politi and the Origins of the Counter-Reformation (Notre Dame University Press 2017); Censorship and Heresy in Revolutionary England and Counter-Reformation Rome. Story of a Dangerous Book (Palgrave 2017); Libri, uomini, idee. Studi su censura e Inquisizione nel Cinquecento(Edizioni di Storia e Letteratura 2021). Per Laterza è autore di Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna (2022) e Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni (2023).
Introduzione
Questo libro si occupa di un frammento di un lunghissimo racconto, un segmento di una vicenda che attraversa l’intera storia dell’umanità. Da Giustiniano fino all’età contemporanea la storia della censura coincide con la storia del potere. Ancora oggi, in alcune regioni del globo, le autorità di governo utilizzano strumenti repressivi. In Cina, e in misura minore in Russia e in India, i detentori del potere politico sottopongono il flusso di informazioni e di scambi epistolari al filtro di un sistema censorio predisposto a intercettare parole sensibili e termini chiave, evitando – così auspicano i censori digitali – che il web e i social network si trasformino in strumenti di lotta antigovernativa, luoghi virtuali nei quali organizzare azioni di dissenso e rivolta nei confronti del governo. Anche le democrazie liberali occidentali, pur senza utilizzare meccanismi apertamente coercitivi, dispongono di strumenti che condizionano e in qualche modo costringono le scelte dei cittadini: meccanismi più raffinati ma non per questo privi di efficacia, forme di pressione che si riverberano sulla sensibilità del pubblico, sulle mode culturali e sulle logiche del mercato editoriale e comunicativo, indirizzando il pensiero e l’azione degli individui. La tirannia sulle persone e sulle cose, è stato scritto, non coincide necessariamente con una figura o un regime dittatoriale: essa si identifica anche con le tante piccole e grandi costrizioni alle quali siamo sottoposti o ci sottoponiamo, costrizioni che limitano le nostre esistenze e il nostro modo di pensare. Il conformismo, l’opportunismo, l’egoismo, la debolezza, il timore o l’insicurezza sono altrettante ragioni di «omologazione delle anime» che insidiano «liberamente» la libertà, dall’interno del carattere degli esseri umani.
Questo volume tratta dell’età aurea della censura, di un’epoca nella quale la nascita e la diffusione del libro a stampa indussero le autorità di governo di tutta Europa a ripensare e rafforzare i loro sistemi di controllo. In questo contesto, la censura ecclesiastica – oggetto specifico della ricerca – si distinse per l’ampiezza degli obiettivi e la rigidità degli strumenti di sorveglianza. Attraverso gli indici dei libri proibiti, lunghe liste di volumi ritenuti pericolosi o anche solo sospetti, Roma si propose nei primi secoli dell’età moderna (secoli XVI-XVIII) di controllare l’intera produzione libraria, individuando di volta in volta i titoli e gli autori dei testi da intercettare, sequestrare ed eliminare dalla circolazione.
Fu un disegno ambizioso, esplicitamente coercitivo, segnato da un tratto inequivocabilmente totalizzante: un disegno che, giudicato con i parametri di oggi, appare utopico, grottesco, forse ridicolo, sicuramente velleitario. Pur disponendo di motori di ricerca universali come Google e di una straordinaria quantità di strumenti conoscitivi digitali, l’uomo del XXI secolo non potrebbe neppure immaginare di acquisire, e dunque controllare, nel corso della sua breve esistenza, anche solo una percentuale irrisoria delle conoscenze sul mondo e sul suo funzionamento. Nel Cinquecento, invece, a pochi decenni di distanza dall’invenzione della stampa, la conquista di un sapere universale appariva agli eruditi come un obiettivo difficile ma non impossibile da realizzare. Pur lamentandosi del fatto che esisteva «troppo da sapere», l’uomo della prima età moderna pensava alla conoscenza come a un’entità definita e circoscritta: quando il filosofo e scienziato René Descartes scrisse che «sebbene tutto il sapere possa essere trovato nelle pagine dei libri, […] ci vorrebbe più tempo per leggere quei libri di quanto non ne disponiamo nella nostra intera vita», egli parlava dei limiti oggettivi frapposti alla sua aspirazione ma rivelava anche che quell’aspirazione era percepita dagli uomini del suo tempo come perfettamente legittima e realizzabile. Complice un numero sempre crescente ma ancora limitato di volumi in circolazione, i grandi umanisti e letterati del Cinquecento e del Seicento concepivano il sapere come qualcosa di afferrabile nella sua interezza e complessità. I numerosi dizionari, enciclopedie e raccolte di citazioni pubblicati tra Quattro e Seicento furono ideati non tanto come strumenti di consultazione, bensì come mezzi in grado di offrire all’uomo di cultura la convinzione di possedere la maggior quantità di informazioni nel più alto numero di campi del sapere. L’idea di elaborare uno strumento come l’indice dei libri proibiti, capace di contenere nelle sue pagine tutto il sapere dannoso alla crescita spirituale dei fedeli, trasse origine dalla condivisione di quell’orizzonte mentale e conoscitivo. Come vedremo, con il passare dei decenni le autorità ecclesiastiche furono costrette a fare i conti con l’irrealizzabilità di quel progetto: ridimensionarono gradualmente i confini geografici e culturali delle loro ambizioni senza tuttavia riuscire mai a liberarsi del tutto di quell’originaria aspirazione totalizzante, destinata a rivelarsi infine uno degli aspetti di maggior debolezza del sistema stesso.
Le autorità censorie romane misero all’indice tutti i libri sospetti di eresia (intesa nelle sue multiformi incarnazioni), ma anche tutti i testi contenenti frasi offensive per la reputazione degli ecclesiastici, affermazioni lesive della fama dei prìncipi, proposizioni «contro la libertà, l’immunità e la giurisdizione ecclesiastica», espressioni tacciabili di superstizione, sortilegi o divinazioni, frasi lascive e «corruttrici dei buoni costumi», esaltazioni dell’amore profano, commistioni di termini e concetti sacri e profani, lodi del fato e della fortuna, o anche solo proposizioni tratte dalla Bibbia ma non riportate fedelmente o cavate da versioni curate da eretici. L’impatto di queste proibizioni, stando alle testimonianze di stampatori e lettori, fu drammatico. Lo strumento dell’espurgazione, concepito all’indomani del primo indice ufficiale (1558) per «salvare» parte dei volumi condannati, eliminando le frasi o le pagine incriminate prima di ristampare una nuova, «corretta» versione del testo, si rivelò per molti aspetti inadeguato. I tipografi e i librai italiani, sempre più impoveriti, salvarono le loro casse fuggendo oltralpe oppure ripensando in modo radicale la fisionomia del proprio catalogo di vendita.
Dopo aver superato le iniziali diffidenze, gli uomini di Chiesa compresero l’importanza della stampa ai fini del consolidamento del loro progetto di conquista della società. Il successo della politica religiosa e culturale di Roma passò anche per la capacità di restituire ai fedeli una serie di testi atti a sostituire i libri non più disponibili. Il libro scomparve e poi ricomparve sotto forme diverse, lontane ma non del tutto nuove rispetto al loro aspetto originario. La censura fu eliminazione, soppressione, cancellazione, ma anche sostituzione, restituzione, riscrittura. Fu uno strumento repressivo ma anche un mezzo per favorire e guidare una profonda spiritualizzazione dell’offerta editoriale. Al posto dei libri messi all’indice, sequestrati, bruciati, una straordinaria quantità di nuovi testi spirituali e devozionali inondò il mercato librario della penisola, mentre un numero significativo di libri proibiti venne materialmente riscritto per iniziativa di autonomi correttori o degli stessi autori, preoccupati di prevenire l’intervento della censura, pronti a intavolare serrate negoziazioni con gli organi romani autocensurando le loro opere.
La riscrittura fu il segno identitario di un’epoca che non rigettò i modelli letterari del passato ma ne riempì le forme di nuovi contenuti. Gli scrittori e le scrittrici religiosi dell’età post-tridentina furono profondamente consapevoli del fascino che la letteratura secolare, e specialmente la lirica d’amore di tipo petrarchesco e i romanzi cavallereschi, continuavano a esercitare sui lettori contemporanei: per questo provarono spesso a eguagliare quel piacere forgiando la letteratura religiosa della Controriforma in aperta dialettica con Petrarca e Ariosto. Allo stesso modo, consapevoli dell’attrattiva esercitata sui «semplici et indotti» da quelle «operette et historiette» vendute da ciarlatani e cantimbanchi nelle piazze e nei vicoli delle città, le autorità ecclesiastiche favorirono una riconversione delle ottave proibite dagli indici romani diffondendo i medesimi versi riempiti per l’occasione di nuovi contenuti più coerenti con il loro disegno religioso e culturale. Il processo di cristianizzazione della cultura promosso dalle autorità ecclesiastiche passò infine anche attraverso la riformulazione di interi generi letterari. Nella misura in cui indusse a trattare in modo nuovo soggetti tradizionali, la censura non si limitò a svolgere un ruolo meramente repressivo, ma partecipò del cambiamento culturale in corso.
Il meccanismo della sostituzione non riuscì tuttavia a compensare del tutto il trauma della forzata separazione da testi cui i lettori erano legati da antiche consuetudini. Essi continuarono a procurarsi i libri proibiti, alimentando un fiorente mercato clandestino attraverso l’efficacia di circuiti cittadini fatti di prestiti, scambi e riproduzioni manoscritte di testi: continuarono cioè a leggere, nonostante tutto, come recita il titolo dell’ultima parte di questo volume. Inevitabilmente, però, i prezzi dei volumi smerciati clandestinamente crebbero, riducendo la platea dei potenziali acquirenti, e l’intensificarsi dei controlli avvantaggiò chi disponeva di una rete di relazioni socialmente qualificate, in grado di aggirare all’occorrenza l’ostacolo delle ispezioni doganali e inquisitoriali. Con l’inasprimento delle misure censorie il libro divenne sempre più un oggetto per pochi. Il sistema di licenze di lettura, adottato dalle autorità inquisitoriali sin dalla metà del Cinquecento e ampiamente utilizzato nel corso del secolo successivo, contribuì a delineare i contorni di un ceto sociale e professionale al quale l’accesso al libro proibito, sia pure a determinate condizioni, venne di fatto garantito. Chiunque fosse in grado di dimostrare – generalmente attraverso il filtro di una raccomandazione ecclesiastica – saldezza di fede e onestà morale, documentando altresì l’utilità di un determinato libro a fini professionali, fu autorizzato dai censori a conservarlo presso di sé, sia pure per un periodo di tempo determinato. Una selezionata élite sociale e culturale, fatta di giuristi, scienziati, medici, fisici, scrittori, letterati e, naturalmente, ecclesiastici, in grado di leggere quasi tutto ciò che voleva, o meglio di cui aveva necessità, si contrappose così a un largo numero di lettori prigionieri di un clima di profondo sospetto nei confronti del libro, spesso pronti a denunciare spontaneamente agli inquisitori il possesso dei pochi volumi proibiti posseduti, pur di non incorrere nelle pene riservate ai trasgressori. Le misure censorie messe in campo da Roma amplificarono le linee di frattura che contraddistinguevano la società di antico regime. Ovunque in Europa le élites culturali e politiche, non solo cattoliche, erano convinte che l’abisso che separava i saggi dal volgo fosse un dato di fatto incontrovertibile della natura umana che nessun progresso del sistema educativo, né tantomeno nessuna evoluzione del sistema di comunicazione avrebbe potuto modificare: la filosofia o la scienza, e più in generale il sapere, erano necessariamente prerogativa di un piccolo numero, un privilegio di pochi. Con la sua imponente offensiva contro l’uso della lingua volgare in materia religiosa (e non solo), inevitabilmente destinata a disegnare il profilo di una «nazione […] trascurata nelle cose della religione», Roma si ritagliò un ruolo da protagonista in quell’«impero del latino» nel quale i governi di mezza Europa difendevano gli arcana imperii del loro sapere esclusivo anche attraverso lo strumento della lingua.
L’apertura degli archivi romani del Sant’Uffizio (1998) ha offerto la possibilità di analizzare in profondità non solo il funzionamento istituzionale delle due congregazioni cardinalizie (Inquisizione e Indice) incaricate di censurare i libri, ma anche i conflitti, le resistenze e le lotte istituzionali che stanno dietro alle principali decisioni assunte dai loro membri. L’idea di un sistema repressivo coerente è stata sostituita dalla visione di un sistema caratterizzato da una crescente distanza tra norme e regolamenti da una parte, e prassi quotidiana dall’altro. L’immagine di una macchina dagli effetti dirompenti è mutata in quella di una complessa rete di istituzioni confliggenti tra loro, spesso destinata a produrre inconsistenze e aporie. Anche il quadro del rapporto tra censura ecclesiastica e cultura italiana è diventato più sfumato di prima. Siamo oggi lontani dalla vecchia contrapposizione tra una cultura laica oppressa e un mondo ecclesiastico oscurantista intento a sopprimere ogni manifestazione della prima che ha caratterizzato una storiografia ormai datata, fatta di studiosi che insistevano sulla censura come elemento di negazione del sapere e sul fatto che, senza la repressione della Chiesa, la cultura laica avrebbe raggiunto risultati straordinari. Siamo distanti dalla prospettiva storiografica di chi parlava della censura come di una «grande battaglia intesa a sequestrare il mondo cattolico dal progresso del sapere europeo». Lontani dall’idea di «un’Italia controriformata tutta soggetta alla tirannia ecclesiastica», ostaggio di quello «spaventapasseri innocuo e ridicolo» messo in piedi nell’«orticello storico». Sono venute meno da tempo, nel panorama storiografico italiano, le ragioni ideologiche di una scelta di matrice liberale che evitava, per esempio, di trattare ogni argomento che scalfisse l’immagine di libertà tradizionalmente associata alla Riforma protestante. La recente pubblicazione di importanti lavori sull’uso e le forme della censura nel mondo protestante ha mostrato la centralità ricoperta anche in quel contesto dagli strumenti di controllo della circolazione libraria.
Attraverso uno sforzo di comparazione e di contestualizzazione storica, il presente volume ha inteso ripensare la vicenda italiana evitando le insidie della ricerca di un canone nazionale declinato al negativo, incline a enfatizzare quasi esclusivamente l’incompiutezza o il fallimento della storia del nostro paese: incline, nel caso specifico, a pensare alla censura libraria come a una prerogativa quasi esclusiva dell’Italia della Controriforma. Di qui, il tentativo di mettere a fuoco le caratteristiche distintive della realtà italiana solo dopo aver posto in evidenza i molti tratti che essa condivideva con la cultura europea di antico regime.
Il libro che il lettore tiene tra le mani sceglie di guardare alla storia della cultura attraverso il filtro della storia del libro: prende cioè le mosse dalle vicende del libro a stampa per ridare voce agli attori – autori, lettori, stampatori, consultori, censori, traduttori – che animarono la scena culturale della penisola italiana nella prima età moderna. Cerca di condurre per mano il lettore all’interno del mondo del libro, come recita la prima parte del volume, chiedendogli la fatica, e insieme il piacere, di immergersi in una cultura distante dalla nostra, nella quale il libro godeva ancora di uno statuto molto fragile: privo di diritto d’autore, protetto solo da qualche parziale forma di tutela commerciale, il testo a stampa era un oggetto alla mercé di uomini di cultura e d’affari, un manufatto che poteva essere ristampato, riscritto, plagiato senza che nessuno opponesse alcuna resistenza, tantomeno il suo autore. Paradossalmente, proprio le sfide poste dalle più recenti innovazioni digitali possono aiutare il lettore di queste pagine a comprendere meglio i termini di quella lontana cultura. I più moderni strumenti di comunicazione favoriscono, infatti, sia pure in termini ancora sperimentali, l’affermazione di un processo collettivo di creazione letteraria e artistica che tende a sostituire la tradizionale figura del singolo autore, attribuendo all’opera un carattere permanentemente provvisorio e incompiuto e svilendo consapevolmente l’idea di copyright. Osservando l’esempio di un testo, letterario o meno, condiviso in rete da qualche anonimo utente e successivamente modificato, rimaneggiato, riscritto da centinaia di fruitori pronti a contribuire alla sua rielaborazione, è forse oggi più facile di quanto non fosse anche solo vent’anni fa cogliere i tratti di quella che è stata recentemente definita la «cultura della correzione» della prima età moderna.
Tra Cinque e Seicento la censura intervenne, a volte pesantemente, sul libro a stampa, mutilandone la forma e trasfigurandone il significato. Il censore, però, fu solo uno dei tanti attori dell’universo librario – insieme a stampatori, traduttori, glossatori, plagiatori, ri-scrittori e, naturalmente, agli stessi autori – pronti ad alterare il contenuto di un testo adattandone il messaggio allo «spirito de’ tempi». Le cancellazioni operate dal censore furono una delle tante modalità attraverso le quali ciascun protagonista del processo di pubblicazione compì delle scelte che negavano le altre possibilità insite nel testo stesso: ognuna delle loro azioni può essere interpretata come una sorta di cancellazione del sapere che danneggiava o alterava l’originale e corretto significato del testo e le sue intenzioni apparentemente inequivocabili. Immergere la censura in questa cultura non significa sminuirne l’importanza né tantomeno negarne gli effetti repressivi: significa solo restituirla al suo naturale contesto storico. Dopo aver esaminato quali libri finirono al vaglio dei censori, quali libri cioè furono giudicati pericolosi dai tutori dell’ortodossia e per quali motivi (capp. V-VIII), e dopo aver sottolineato la particolare attenzione dedicata dalle autorità censorie, verso il basso, a tutte le forme culturali indirizzate ai cosiddetti «semplici et indotti» (capp. IX-XII), la quarta parte di questo libro è dedicata dunque al libro mutilato, censurato, espurgato, emendato, corretto, riscritto, negoziato, plagiato, tradotto, dissimulato, autocensurato, esiliato: in altre parole, alle molteplici forme in cui la scrittura interagì, più o meno direttamente, con i censori e con la loro azione di controllo (capp. XIII-XIX).
Guardare alla storia della cultura attraverso il filtro della storia del libro consente infine di tenere insieme i moltissimi ambiti di intervento nei quali si dispiegò l’azione delle autorità ecclesiastiche – trattati teologici, scientifici, giuridici, testi letterari, spartiti musicali, pronostici astrologici, avvisi, fogli volanti, ma anche prediche, discorsi, conversazioni –, nonché i molti protagonisti del mondo editoriale sui quali si concentrò la loro attenzione: i tipografi, i colportori, i librai e soprattutto i lettori, con i loro molteplici modi di utilizzare il libro, i loro fantasiosi stratagemmi per sottrarsi ai vincoli della censura, per negoziarne le modalità d’intervento o farne propri i contenuti. Con uno sguardo rivolto anche al di là delle Alpi, questo libro ha infatti l’ambizione di abbracciare in un racconto unitario i tanti campi disciplinari che nel lungo periodo si intrecciano intorno al tema della censura (dalla storia religiosa alla storia politica, dalla storia sociale della lettura e della scrittura alla storia della scienza, dalla storia della filosofia alla storia della letteratura, dalla storia dell’oralità a quella dell’informazione), nella consapevolezza che solo in tal modo sia possibile cogliere a pieno la complessità della macchina censoria, la capillarità della sua presenza nella società italiana di antico regime e il segno impresso sulla cultura del nostro paese e sul modo in cui i suoi abitanti si rapportano al sapere e al potere.
Quando leggiamo i dati statistici relativi al mercato editoriale e alla fisionomia dei lettori nell’Italia di oggi, comparandoli per esempio a quelli di paesi vicini al nostro in termini di vicende storiche e politiche, non possiamo evitare di notare qualche significativa assonanza tra passato e presente. Con 60.000 libri pubblicati ogni anno, stampati in circa 250 milioni di copie, 40.000 persone che lavorano nell’industria, il mercato editoriale italiano è uno dei più produttivi dell’intera Europa: quarto o quinto per dimensioni nel continente europeo, e settimo o ottavo nel mondo, dopo Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia, più Giappone e Cina. Se osserviamo tuttavia la tipologia dei lettori, scopriamo che il 55% della popolazione non legge affatto e che del rimanente 45% di lettori quasi la metà legge un solo libro all’anno – quelli che in gergo vengono chiamati lettori deboli –, un 35% di cosiddetti lettori medi legge tra 5 e 10 libri, manuali scolastici inclusi, e un 15% di lettori forti compra o prende in prestito più di 12 libri all’anno. Questo significa che tre milioni e mezzo di lettori forti, corrispondenti a circa il 5-6% dell’intera popolazione italiana, assorbono più della metà delle vendite di libri in Italia e garantiscono la sopravvivenza di un’industria che continua a fatturare circa tre miliardi e mezzo di euro. La percentuale di lettori nella penisola italiana è una delle più basse d’Europa. Solo pochi paesi registrano dati peggiori dei nostri. Dietro l’Italia troviamo solo qualche Stato della parte meridionale del continente (Grecia, Malta, Portogallo), o paesi più poveri come Bulgaria e Romania, laddove invece la media europea di lettori si aggira intorno al 70% dell’intera popolazione. In termini di abitudini di lettura l’Italia ha una configurazione sociale peculiare, composta da una larga maggioranza di non lettori o di lettori deboli e un piccolo gruppo di lettori particolarmente forti che leggono e collezionano grandi quantità di libri: scrittori, giornalisti, critici, professori universitari, studiosi, spesso impegnati a loro volta a scrivere libri. Sono dati particolarmente significativi specie se confrontati con quelli di paesi dell’Europa mediterranea come la Spagna e la Francia. Secondo le più recenti rilevazioni circa il 60% degli spagnoli legge in media 13 libri l’anno, sono cioè, seguendo i parametri adottati per analizzare i dati italiani, lettori forti. Una percentuale di lettori forti inferiore a quella spagnola, ma sempre di molto superiore a quella italiana, viene registrata invece in Francia, dove circa il 30% dei cittadini legge più di 15 libri l’anno, percentuale compensata in questo caso da un’elevatissima percentuale di lettori medi, pari al 91% della popolazione.
La configurazione sociale dell’Italia contemporanea e dei suoi lettori, caratterizzata da una piccola percentuale di lettori forti e da una larga maggioranza di lettori deboli o non lettori, sembra riflettere in modo sorprendente l’immagine emersa dalla ricerca presentata in questo volume: una ristretta élite sociale e culturale abituata a maneggiare il libro con una certa libertà, seppur attraverso la mediazione ecclesiastica, e una vasta maggioranza prigioniera di un clima di profonda diffidenza nei confronti della lettura. Uno dei successi più duraturi dell’azione censoria romana fu infatti la capacità dissuasiva (e persuasiva) attraverso la quale indusse un crescente numero di fedeli a interiorizzare i divieti e i meccanismi di controllo della circolazione libraria, eliminando dall’orizzonte mentale di molti lettori la dimensione dello svago, dell’intrattenimento e del diletto e disincentivando, quando non apertamente condannando, qualsiasi forma di curiosità intellettuale.
Giudicherà il lettore se queste riflessioni siano il frutto di una forzatura interpretativa o, peggio ancora, di una lettura tendenziosa del nostro passato, o se invece, come credo, non aiutino a comprendere meglio la distanza che separa un’età – quella di Petrarca e Boccaccio – in cui i libri venivano elogiati quali amici capaci di «prendersi cura di te, insegnarti i segreti delle cose», «compagni dotti, lieti, utili e facondi che non ti sono causa di noia, né di spesa, né di lamenti, né di mormorii o d’invidia, né d’inganni», da un’epoca – quella della Controriforma – nella quale i libri furono invece comunemente percepiti come oggetti contundenti, pronti a scatenare «parzialità, sedizioni» e «guerre»: «parole, sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati».
I.
Proteggere il libro
1. Il libro a stampa: un nuovo inizio
La censura è una realtà con cui oggi cittadini di paesi come la Cina, la Russia o l’Iran fanno quotidianamente i conti. Anche le nostre democrazie occidentali non sono affatto immuni da forme di controllo della comunicazione tese a manipolare i contenuti passibili di danneggiare o influenzare negativamente l’azione delle autorità di governo. Ci sono stati secoli, però, in cui le battaglie in nome della libertà di stampa e di espressione e gli anticorpi iniettati nella società contemporanea dalla cultura illuminista erano ancora lontani dall’orizzonte mentale e culturale delle donne e degli uomini del tempo. Secoli in cui una società basata sul privilegio della gerarchia cetuale occupava il posto della democrazia rappresentativa, in cui il potere politico non affondava la sua legittimità nella volontà popolare dei cittadini bensì nel diritto divino del re o del principe, una società in cui era (quasi) unanimemente condivisa l’idea che i detentori del potere potessero, anzi dovessero, esercitare una stretta forma di controllo morale, sociale e intellettuale sulla vita e sulle opinioni dei sudditi. Era una società – ci riferiamo alla società di antico regime – in cui la censura dei libri e delle idee era incoraggiata e auspicata anche dai dotti più illuminati. Una società in cui il libro a stampa, in assenza di un diritto che tutelasse la proprietà intellettuale, godeva di uno statuto ben più instabile e fragile di quello che siamo oggi abituati ad attribuirgli. A quella società e a quella cultura occorre tornare per studiare la storia della censura ecclesiastica, riportando le lancette dell’orologio indietro nel tempo al momento in cui il libro a stampa fece il suo ingresso nella storia della comunicazione scritta, nel cuore dell’Europa di metà Quattrocento. Fu allora che Johann Gutenberg, intraprendente orafo tedesco, sperimentò per la prima volta nella sua bottega di Magonza la stampa a caratteri mobili lavorando per quasi tre anni all’ormai celebre Bibbia a 42 linee. L’impatto di quelle poche decine di caratteri mobili in metallo sulla storia della cultura scritta fu senza dubbio imponente. Già nel 1466, quando lo spagnolo Juan de Torquemada aveva appena installato la stamperia Ulrich Hahn a Roma, Leon Battista Alberti condivise con un caro amico la propria eccitazione per la novità del momento, raccontandogli di quell’«inventore tedesco che di recente, grazie ad alcuni caratteri di stampa, ha reso possibile ottenere più di duecento copie da un originale in un centinaio di giorni e con il lavoro di non più di tre uomini»: «Con un’unica impressione produce un’intera pagina di grande formato!», concluse entusiasta l’umanista genovese. «300 copie in tre mesi, […] e con il lavoro di soli tre uomini!», gli fece eco negli stessi anni il vescovo di Brescia, segretario di papa Sisto IV, incredulo di fronte ai numeri della singola tiratura di un commentario di Gregorio Magno.
Per misurare la portata dell’evento bastava confrontare quei numeri con i 45 amanuensi e i 22 mesi di lavoro necessari, pochi anni prima, al libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci per copiare duecento manoscritti commissionatigli da Cosimo de’ Medici per la biblioteca della Badia di Fiesole. Ai circa 200-300.000 codici amanuensi circolanti nell’Europa della metà del Quattrocento si contrapponevano, già nel 1500, tra i 10 e i 20 milioni di esemplari di libri. La stampa aprì alla cultura scritta possibilità fino a quel momento impensate. In pochi decenni il pubblico di lettori si ampliò considerevolmente, contribuendo al consolidamento di vecchi generi letterari e alla nascita di nuovi; le idee, vecchie e nuove, si propagarono con una rapidità sempre crescente, le notizie si diffusero con una capillarità sino a quel momento sconosciuta. In breve tempo gli scrittori guadagnarono la possibilità di diffondere le proprie opere oltre i confini di ristretti ed elitari circoli umanisti, raggiungendo in alcuni casi la fama cui molti di loro aspiravano. Soprattutto, la stampa contribuì all’individuazione di una sola (unica) versione, tra le tante versioni manoscritte di un testo allora circolanti, la cosiddetta editio princeps, considerata da quel momento in avanti più autorevole delle altre.
Questo processo di selezione risultò pieno di contraddizioni e di limiti, come vedremo, ma contribuì ad avviare un meccanismo di riconoscimento dell’identità dell’autore quale creatore e proprietario del testo, segnando un passaggio significativo nel processo di definizione del concetto di autorialità. Già più di un secolo prima di Gutenberg, autori come Francesco Petrarca avevano iniziato a rivolgersi direttamente al futuro lettore, curando i loro testi con grande meticolosità prima di diffonderli o dedicandosi a rimaneggiare i loro epistolari al fine di offrire un’immagine più chiara del proprio percorso spirituale o intellettuale. Con la stampa, il pubblico di lettori iniziò ad abituarsi ad associare un determinato testo al nome di un autore e gli autori iniziarono a prendere gusto nel vedere riconosciuto, quantomeno in termini di fama, il loro sforzo intellettuale. Alcuni segnali lasciarono presagire che nel giro di pochi decenni il diritto d’autore potesse ottenere una qualche forma di riconoscimento ufficiale. Nel 1545, per esempio, il Consiglio dei Dieci, il massimo organo di governo della Repubblica di Venezia, stabilì che per stampare un’opera occorreva prova documentaria del consenso dell’autore, da presentare all’occorrenza ai Riformatori dello Studio di Padova. In particolare, si intimò agli stampatori che non avessero «ardimento [di] stampar, né stampata far vender alcuna opera» se prima non avessero verificato che «l’autor» oppure i suoi «heredi più congionti» fossero «contenti» e desiderosi «che la si stampi et venda», imponendo una pena pecuniaria di un ducato «per cadaun libro et auttor che stampassero contra il presente ordine».
La storia, invece, prese una piega molto diversa da quella auspicata dai Dieci veneziani. Si sarebbe dovuto attendere quasi due secoli prima di veder formalizzata, in terra inglese, la protezione della proprietà letteraria, ovvero l’identificazione dell’autore come soggetto giuridico autonomo titolare di diritti su un prodotto intellettuale; quasi tre prima di veder accolto il diritto d’autore nel resto dell’Europa. Nei secoli centrali dell’età moderna, quando il mercato librario non era così esteso da garantire significativi guadagni agli stampatori e tantomeno agli autori, quando ancora non esisteva un’opinione pubblica colta capace di alimentare il dibattito intellettuale e la vendita dei volumi, gli autori non ebbero alcun diritto né controllo sui contenuti da loro divulgati: il libro a stampa rimase un oggetto dallo statuto fragile, proprio come lo era stato per secoli il libro manoscritto, lontano dall’essere identificato come un testo definitivo o autorizzato.
2. Il fragile statuto del libro
Il libro, inteso come manufatto, non era di per sé una novità, anzi. Come noto, l’oggetto materiale che siamo oggi abituati a sfogliare è figlio di una scoperta risalente a circa duemila anni fa. Fu poco dopo la nascita di Cristo che venne per la prima volta introdotto il codex. In tempi antichi, prima di quell’invenzione, i libri avevano la forma di rulli, simili a quelli ancor oggi utilizzati dagli ebrei per leggere la torah durante le cerimonie. L’invenzione del codex rese l’atto della lettura molto più semplice: il testo poteva essere impaginato, indicizzato e il lettore poteva scorrere le pagine fino al punto in cui desiderava leggere, proprio come siamo abituati a fare oggi. A partire dal 1100, poi, alcune innovazioni contribuirono a rendere quel codex sempre più somigliante all’oggetto che il lettore tiene in questo momento tra le mani. La carta, prima di tutto: giunta a noi dalla Cina, consentì di produrre oggetti ben più maneggevoli e funzionali dei codici in pelle d’animale che avevano circolato fino a quel momento. Gli scribi, spesso vissuti all’interno di monasteri e conventi, iniziarono a sfornare con sempre maggior frequenza manoscritti elegantemente miniati che assunsero a tutti gli effetti la forma del libro moderno. Il libro manoscritto era destinato a rimanere nei secoli un oggetto esclusivo, distribuito in un numero limitato di copie e rivolto ad acquirenti facoltosi, ma le modalità della sua produzione negli ultimi secoli del Medioevo si fecero sempre più duttili e le forme della sua fruizione sempre più diversificate.
Quando nei decenni successivi all’invenzione di Gutenberg nuove stamperie aprirono i battenti in molte città d’Europa e il libro a stampa si diffuse sempre più velocemente tra le mani di nuovi lettori, il vecchio manoscritto – anche in ragione di quella duttilità – continuò ad occupare un ruolo rilevante nell’universo della comunicazione scritta. Il libro a stampa, infatti, nacque e si sviluppò in continuità con il libro manoscritto: quest’ultimo non solo non scomparve dalla scena, ma godette fino a Seicento inoltrato di una rinnovata fortuna. Lungi dall’identificarsi esclusivamente con la scelta di dare alle stampe un testo, la pubblicazione coincideva, sin dall’antichità, con l’idea della divulgazione, più o meno estesa, di un’opera. Affinché si potesse parlare di pubblicazione era sufficiente l’intenzione dell’autore, dell’editore o di chi per loro, di divulgare un determinato scritto. Il libro veniva detto pubblicato (editus) il giorno in cui l’autore o il possessore del testo consentiva per la prima volta che il suo archetipo, la bella copia del suo lavoro, fosse riprodotto da altri. Sia che questa copia venisse consegnata a uno stampatore, come si verificò sempre più frequentemente dopo l’invenzione di Gutenberg, sia che il testo fosse dato nelle mani di uno scrivano affinché lo riproducesse in una o più copie manoscritte, come molti continuarono a fare fino alla fine del Seicento, questa decisione veniva definita con il medesimo termine: pubblicazione, appunto. Editori e autori erano liberi di scegliere quale forma di divulgazione dare al testo, se manoscritta o a stampa: libro a stampa e libro manoscritto furono percepiti come oggetti e strumenti tanto affini che i due tipi di diffusione potevano persino coesistere per una stessa opera. Molto simile rimase del resto, e per lungo tempo, la natura del concetto di autorialità, incerta e provvisoria, sia che l’autore avesse scelto di far circolare manoscritto il suo testo, sia che avesse optato per la circolazione a stampa. Dell’instabilità e fragilità dello statuto del libro gli autori furono i primi ad avere piena consapevolezza. Molti di loro continuarono a considerare il libro a stampa esattamente negli stessi termini in cui concepivano il libro manoscritto: un testo la cui pubblicazione non era altro che un passaggio intermedio e provvisorio di un percorso intellettuale ed editoriale ben più lungo e fecondo, un testo sulla base del quale continuare a riflettere aggiungendo, sottraendo, modificando. Il Dulce bellum inexpertis di Erasmo da Rotterdam, per esempio, testo tra i più rilevanti dell’irenismo cinquecentesco, venne progressivamente crescendo sotto l’impulso di un’assidua meditazione personale dell’autore. La prima versione, contenuta nell’edizione manuziana degli Adagia (1508), era brevissima: contava cinque sole righe, e tale restò nelle successive edizioni fino a quella pubblicata dallo stampatore basileese Froben nel 1515, allorquando crebbe fino a raggiungere l’ampiezza di mille righe. Anche negli anni successivi Erasmo tornò su quel testo: diverse aggiunte comparvero nelle due successive edizioni frobeniane del 1523 (contro i nobili e contro i monaci) e del 1526 (contro i preti politicanti e contro gli scolastici). Solo a questa data l’adagio poté dirsi definitivamente compiuto, in tal forma poi definitivamente consacrato nell’edizione del 1536. Lo stesso avvenne con uno dei testi più celebri dell’Illuminismo europeo come l’Encyclopédie di Diderot, la cui edizione più diffusa nella Francia del Settecento conteneva centinaia di pagine che non comparivano nell’edizione originale: persino Voltaire considerò l’Encyclopédie così imperfetta e incompiuta che pensò alla sua ultima grande opera, Questions sur l’Encyclopédie, come a un sequel di nove volumi all’Encyclopédie stessa.
Spesso furono gli autori stessi ad approfittare dell’assenza di copyright per ottenere la massima diffusione possibile del loro testo. Ci fu chi arrivò a vendere il medesimo scritto con titoli differenti a due o tre editori, e chi ripubblicò le proprie opere con stampatori diversi e in luoghi diversi, semplicemente aggiungendo qualche piccolo brano o cambiando la lettera prefatoria. Lo stesso Erasmo fu più volte esortato dallo stampatore fiammingo Josse Bade a limitare le ristampe dei suoi scritti. Una nuova, ravvicinata edizione, in tutto e per tutto simile alla precedente, o contenente più o meno rilevanti modifiche, rischiava di costringere lo stampatore «ufficiale» a gettare al macero l’intera tiratura. Come gli ricordò Bade, «la sua reputazione tra i colleghi è tale che se lei annuncia un’edizione rivista di una qualsiasi delle sue opere, anche se non ha aggiunto nulla di nuovo, essi penseranno immediatamente che la vecchia edizione sia priva di valore». In fondo, era la logica stessa del mercato editoriale a ispirare simili operazioni. Invece di essere prodotti in enormi quantità da un singolo editore, i best-seller venivano stampati simultaneamente in tante edizioni a bassa tiratura da molti editori, ognuno dei quali cercava di ricavare il massimo da un mercato del libro libero, appunto, da diritto d’autore. Non potendo rivendicare alcun diritto su ciò che avevano scritto, non aspettando dunque alcun tornaconto economico dalla loro attività intellettuale, gli autori non potevano che gioire della proliferazione di nuove edizioni e ristampe delle loro opere, accogliendola come l’ennesima conferma del proprio successo. I casi di Erasmo da Rotterdam e di Voltaire non devono però fuorviare il lettore: la fama di cui erano circondati offriva loro possibilità che molti altri autori non avevano.
Spesso non fu l’autore a guidare la propria opera attraverso i torchi di mezza Europa. Una volta pubblicato, il libro a stampa era lasciato alla mercé del mercato editoriale. Tra Cinquecento e Seicento, stamperie e librerie della penisola italiana si riempirono di edizioni di volumi già precedentemente pubblicati, letteralmente riscritti da nuovi «autori» o editori i quali, appropriandosi del testo, lo adattavano al mutato gusto del pubblico o, più frequentemente, al mutato clima culturale del paese. Si trattava di operazioni editoriali piuttosto comuni. Come già nella cultura manoscritta, anche nella cultura a stampa il testo scritto mantenne una natura provvisoria e instabile in virtù della quale poteva essere modificato in ogni momento e in ogni passaggio della sua produzione. Allo stesso modo in cui il libro manoscritto, passando di mano in mano, poteva essere corretto, mutato, aggiustato, ridotto, copiato nuovamente, anche il libro stampato, privo di ogni tutela giuridica, poteva essere ripubblicato in qualsiasi momento in una nuova versione, appena ritoccato o profondamente alterato rispetto alla precedente versione. La cultura a stampa, in altre parole, condivise a lungo con quella manoscritta la consapevolezza che la diffusione di un testo comportava, quasi fisiologicamente, modifiche e corruzioni testuali; che il momento della sua pubblicazione non coincideva, salvo casi eccezionali, con il punto d’arrivo del processo creativo che ne era all’origine. Le due culture, insomma, ebbero in comune la medesima sensazione di precarietà. Una volta copiato, o stampato, a seconda dei casi, ovvero una volta pubblicato, il testo diventava per l’appunto di dominio pubblico: come scriveva ancora negli anni trenta del Settecento lo scrittore Francesco Algarotti, «quando un libro è stampato dee esser di tutti». La vicenda editoriale del grande capolavoro della letteratura spagnola del Siglo de oro, il geniale Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, resta a tutt’oggi il miglior apologo della fragilità di statuto del libro a stampa di età moderna. Quando, all’indomani del grande successo editoriale del primo volume dell’opera, qualcuno cercò di approfittarne stampando un seguito non scritto né autorizzato dall’autore, Cervantes, non avendo altri strumenti da opporre ai falsari del suo testo, si affidò alla sottile e pugnace arma dell’umorismo. Nella seconda parte dell’opera, apparsa a stampa solo dopo la pubblicazione di quella falsa versione appena uscita a Tarragona, si divertì a smontarla pezzo per pezzo, inglobandola nella sua narrazione: presentò l’eroe del suo romanzo mentre incontrava i lettori del libro falso e i personaggi che ne erano protagonisti, inducendolo a modificare il proprio itinerario, dirigendolo cioè a Barcellona invece che a Saragozza, al solo scopo di sottolineare la differenza rispetto alla vicenda narrata nel testo spurio. Una volta giunto a Barcellona, poi, Don Chisciotte veniva fatto entrare in una stamperia dove i lavoratori stavano correggendo proprio il libro dell’impostore. Infine, al termine della vicenda, Cervantes confessò ironicamente ai suoi lettori che l’unico motivo per cui il protagonista veniva fatto morire era per evitare che qualche altro episodio falso potesse essere dato in pasto ai lettori senza la sua autorizzazione.
3. Una (parziale) protezione commerciale
Casi come quello del Don Chisciotte erano tutt’altro che rari. In un regime che non prevedeva alcuna tutela della proprietà letteraria, le edizioni pirata, versioni più economiche e meno accurate dell’originale, messe in circolazione a poche settimane dall’uscita del volume originale da qualche furbo concorrente appropriatosi ingannevolmente dei fogli di stampa, erano piuttosto la regola di un mercato editoriale privo di regole. Gli editori pirata abbreviavano, estendevano, e rilavoravano i testi a loro piacimento, senza preoccuparsi delle intenzioni dell’autore. Stampavano a basso costo su carta economica, senza illustrazioni, in edizioni abbreviate e adattate, senza alcuna cura per l’integrità del testo. Riuscivano a tenere bassi i prezzi di vendita perché lavoravano sulla base di un testo già stampato e risparmiavano sull’impiego di traduttori, incisori e correttori, utilizzando una manodopera di professionalità inferiore alla media a discapito della qualità editoriale. Come scrisse lo scienziato fiorentino Giovanni Fabbroni nel Settecento, «se l’opera è buona, appena ha veduto la luce […] i corsari della letteratura la contraffanno, la ristampano in peggior carta, peggior carattere; e non avendovi sopra altre spese, oltre le consuete del torchio, la vendono al prezzo naturale risultante dalle medesime». C’era chi si illudeva che la qualità e la bellezza grafica dell’editio princeps scoraggiasse eventuali ristampe, come lo stampatore Zeno, il quale, ricevuta copia del Della eloquenza italiana del Fontanini, curata dal nipote Domenico, rassicurò quest’ultimo che l’opera «è pulitissimamente stampata, e che niuna delle edizioni che se ne faranno potrà mai giungere a pareggiarla in conto veruno»: non trascorse neppure un anno che a Venezia comparve una versione pirata «ristampata assai bene», messa in vendita alla metà del prezzo della prima edizione.
Strattonato da autori ambiziosi e impazienti e da editori pirata senza scrupoli, il libro a stampa trovò la sua unica forma di protezione nelle vesti di prodotto commerciale. Forse non poteva essere diversamente: prima ancora che contenitore di idee e veicolo di saperi, esso era un manufatto, una mercanzia dotata di valore economico. Fu per tutelare l’investimento degli stampatori che venne introdotta la prima forma di protezione del libro. Chiunque investiva tempo e denaro nella fabbricazione di un prodotto cercava protezione dalle autorità di governo attraverso la concessione di un monopolio, più o meno prolungato nel tempo, capace di difenderlo dalla concorrenza avversaria: i proprietari di cartiere, solo per fare un esempio, chiesero, e spesso ottennero, un monopolio per la raccolta degli stracci necessari alla produzione della carta nella loro zona di attività. Le autorità di governo, da parte loro, avevano tutto l’interesse a regolamentare lo svolgimento delle attività commerciali sul proprio territorio dispensando diritti e licenze. Si trattava in poche parole di attribuire (e ricevere) un diritto esclusivo della validità di un numero limitato di anni in funzione della produzione di un oggetto di valore commerciale. Le richieste che gli stampatori, o chi per loro, iniziarono a rivolgere al pontefice, a Roma, o al Senato, a Venezia, negli ultimi decenni del Quattrocento furono in tutto simili alle domande presentate dai titolari di altre attività commerciali. Tipicamente, queste richieste iniziavano con un preambolo che spiegava il grado d’innovazione del prodotto e presentava le ragioni della domanda di protezione: dalle spese previste alla paura per le possibili perdite economiche fino al pubblico beneficio derivato dal prodotto stesso, il richiedente si sforzava di toccare le corde più sensibili delle autorità competenti. Una volta accolta la richiesta del tipografo, nessun altro avrebbe potuto stampare quel titolo né introdurlo dentro i confini territoriali di quello Stato a fini di vendita, pena una multa in denaro la cui somma sarebbe stata divisa tra il beneficiario della richiesta e l’autorità dispensatrice della protezione.
Il nome attribuito a questo diritto fu quello di «privilegio di stampa». Così come gli uomini di famiglie altolocate o di Chiesa godevano di speciali privilegi, allo stesso modo iniziarono a beneficiarne alcuni libri considerati di alta qualità, insieme al soggetto responsabile della loro stampa. Nelle società in cui nacquero forti e coese corporazioni di librai-stampatori – i due termini quasi sempre coincidono in età moderna – furono le corporazioni stesse, come per esempio la potente Stationers’ Company di Londra, a beneficiare di privilegi e diritti, tra cui per esempio l’esenzione da alcune tasse; in questo caso il libraio-stampatore godeva del privilegio di stampa in qualità di membro di quella corporazione e tutta la sua produzione libraria beneficiava di quell’appartenenza corporativa. Laddove, invece, come nella penisola italiana, la frammentazione politica e statuale ostacolò la formazione di simili corporazioni, la richiesta del privilegio di stampa fu lasciata all’iniziativa dei singoli soggetti e, tranne rarissimi casi, ogni singolo libro necessitò di una specifica richiesta.
In una società e in un mercato editoriale in cui non esisteva il concetto di proprietà intellettuale, questa tutela commerciale assicurata dalle autorità di governo divenne in molti casi l’unica forma di protezione del libro a stampa. Fu il privilegio di stampa a stabilire per autori, traduttori o curatori i diritti di proprietà sul manoscritto in loro possesso. Poteva trattarsi di un testo fresco di scrittura, di un vecchio manoscritto oppure di una versione emendata o annotata di un libro già pubblicato: i termini della questione non cambiavano. Non esistevano diritti di proprietà ipso facto sul manoscritto originale: si poteva ottenere il privilegio per un manoscritto posseduto da qualcun altro, persino per un testo di cui qualcun altro risultava autore. Quei diritti si creavano dunque nel corso del processo intrapreso per ottenere il privilegio di stampa: era quest’ultimo ad attribuire per la prima volta il diritto di proprietà su un libro stampato o da stampare. Solo attraverso tale strumento l’editore o l’autore avrebbero potuto impedire in termini di legge a qualcun altro di appropriarsi del testo stampato.
Il privilegio di stampa si rivelò però ben presto un’arma spuntata nelle mani degli stampatori. I confini entro cui questa tutela di legge trovò applicazione si dimostrarono infatti molto labili. I limiti incontrati furono principalmente due. Il primo fu legato alla riproducibilità del testo. Il privilegio di stampa impediva per un certo numero di anni la riproduzione del testo nella forma in cui questo era stato stampato dal detentore del privilegio. Bastavano tuttavia piccole modifiche testuali per mettere in discussione l’applicabilità del principio di tutela. Se qualcuno ristampava il medesimo scritto mutando qualche pagina o anche solamente qualche paragrafo, questi poteva sostenere di aver pubblicato un testo nuovo, diverso da quello tutelato dal privilegio, senza che nessuno fosse in grado di opporgli resistenza in termini legali. Permaneva, in altre parole, un elemento di ambiguità relativo a cosa fosse un’edizione sufficientemente originale da risultare meritevole di protezione. Il secondo limite incontrato dal privilegio di stampa fu di natura territoriale: esso aveva validità solamente nella giurisdizione nella quale era stato rilasciato. Un privilegio concesso dal pontefice romano non aveva alcuna validità in territorio veneto, così come un privilegio accordato dal Senato veneto era considerato carta straccia nel Ducato di Mantova. La frammentazione territoriale della penisola italiana e la competizione economica tra i singoli Stati aggravarono le conseguenze di tale limite giurisdizionale: era facile che un libro di successo stampato in uno dei molti antichi Stati italiani venisse ristampato in uno Stato attiguo poche settimane dopo la prima edizione. In questi casi il confine tra editoria ufficiale e pirateria, tra legalità e illegalità, si dimostrò estremamente labile, quasi inesistente. Uno dei modi per limitare i danni finanziari legati a questa consolidata prassi fu quello di presentare il più alto numero possibile di richieste di privilegio di stampa, nel maggior numero di Stati possibile. Lo fece tra i primi il poeta Ludovico Ariosto, il quale, per prevenire l’eventualità che l’Orlando furioso (nella sua terza, rielaborata, versione a stampa del 1532) fosse stampato senza il suo permesso, ottenne e incluse all’interno del libro privilegi di stampa del papa, dell’imperatore, di Venezia e Milano, alludendo anche ad altri privilegi ottenuti a Ferrara, Mantova e Urbino. Per lunghi decenni, però, il suo caso rimase unico nel suo genere. Nessun autore investiva direttamente nella stampa dei propri libri preoccupandosi di tutelare il proprio investimento. Nessuno stampatore, d’altra parte, aveva un’attività così prolifica e ramificata da disporre di diverse tipografie in più di uno Stato.
Al di là dei limiti testuali e territoriali incontrati, il privilegio di stampa rimase uno strumento poco praticato. Non tanto perché in effetti l’ottenimento del privilegio non divenne mai obbligatorio ai fini della stampa di un libro, quanto piuttosto perché furono pochi gli stampatori a ragionare in termini di investimenti economici di lungo periodo, a dieci o quindici anni: la maggior parte di loro preferì mirare all’incasso immediato per poi puntare su un altro titolo. D’altra parte le stesse autorità di governo non incoraggiarono le richieste degli stampatori perché concedere un privilegio a un libro significava attribuire a quel volume una sanzione positiva, una sorta di approvazione ufficiale, e pochi erano evidentemente i titoli che meritavano tale trattamento: a Venezia, città nella quale alla metà del Cinquecento, secondo le stime più attendibili, si pubblicavano circa 15 titoli al giorno, nell’intero anno 1550 le richieste di privilegi furono appena 95. La grande maggioranza degli stampatori non fu interessata ai privilegi, stampò i volumi che aveva a disposizione e cercò di venderne il maggior numero di copie nel più breve lasso di tempo possibile. Il libro a stampa rimase alla mercé del migliore (o peggiore) intenzionato.
II.
Controllare il libro
1. Stampare con licenza
Con il privilegio di stampa le autorità di governo offrirono una prima parziale risposta alla richiesta di protezione proveniente dagli stampatori: figure anfibie tra l’uomo d’affari e l’intellettuale, questi si affermarono presto come i pionieri di quel nuovo mondo e il privilegio di stampa riconobbe, pur con tutti i propri limiti in quanto strumento di tutela, la centralità del loro ruolo. Il libro però non era solo una preziosa mercanzia da tutelare: era anche uno straordinario veicolo di idee e dottrine, e come tale fu accolto dagli uomini del suo tempo. Il futuro papa Enea Silvio Piccolomini salutò la stampa come un’«arte divina», «l’arte delle arti, la scienza delle scienze», una manna dal cielo che regalava all’uomo un così gran numero di libri destinati ad accrescere gli «intimi sentimenti di devozione e di elevazione a Dio» di tanti fedeli. Dappertutto, frati, monaci e vescovi si adoperarono per installare nuove stamperie, spesso in prossimità dei monasteri, a volte persino all’interno degli stessi: la prospettiva, meglio l’illusione, di poter risolvere la questione della diversità delle tradizioni liturgiche locali fu un enorme incentivo alla proliferazione della stampa nei decenni successivi alla metà del Quattrocento. Il re cristianissimo di Francia Luigi XII dichiarò che la stampa era «arte più divina che umana, per la quale la nostra santa fede cattolica può essere grandemente aumentata e corroborata, la giustizia meglio intesa e amministrata». L’iniziale entusiasmo di ecclesiastici e autorità civili venne condiviso anche da molti uomini di lettere. Alcuni tra i più autorevoli umanisti salutarono l’invenzione della stampa come una straordinaria occasione per favorire la diffusione di testi antichi: classici della letteratura pagana e cristiana. Altri si soffermarono sulle prospettive di fama che la stampa avrebbe garantito loro; altri ancora, meno legati alle prospettive di successo individuale, si soffermarono sull’immortalità che la stampa avrebbe regalato agli autori defunti e alle loro idee. Quel «miracolo sconosciuto alle precedenti generazioni» fu dunque salutato con eguale fervore da uomini di Chiesa e umanisti: non di rado – ancora alla fine del Quattrocento – le due categorie coincidevano. La stampa consentiva una diffusione del sapere prima detenuto in via esclusiva da una piccola minoranza espandendo il numero di nuovi libri e di nuovi autori: fu questo l’aspetto che più entusiasmò gli uomini di Chiesa, interessati alla diffusione della parola divina, e gli uomini di lettere, allettati dalla circolazione la più ampia possibile dei testi classici.
Fu però proprio l’incontrollata diffusione del sapere ben oltre i suoi tradizionali confini a trasformare quell’iniziale entusiasmo in fonte di viva preoccupazione. I primi a cogliere vantaggi e potenzialità della stampa furono anche i primi a preoccuparsi dei suoi possibili effetti negativi. L’eccitazione per la rapidità e la capillarità della circolazione del sapere religioso favorite dal libro a stampa fu accompagnata e poi gradualmente sostituita da una nuova apprensione: quella di proteggere i lettori/fedeli dalle insidie che il nuovo oggetto del desiderio presentava. Chi salutò l’invenzione della stampa come un «dono divino» destinato a disegnare uno scenario ideale fatto di una disponibilità quasi illimitata di libri, tale «che non ci sarebbe stata una sola opera che non ci saremmo potuti procurare per mancanza o scarsità di mezzi», presto realizzò che «le cose erano andate molto diversamente da quello che aveva sperato»; che, a pensarci bene, l’accesso apparentemente incondizionato al sapere universale presentava molti più inconvenienti e pericoli di quanti fossero i vantaggi che esso sembrava garantire. Occorreva tutelare i lettori da loro stessi e, in particolare, i lettori meno avvertiti. L’inattesa prospettiva di un allargamento del mondo alfabetizzato, quella speranza, salutata inizialmente con entusiasmo dagli umanisti, che «se pon fare / letrate et docte tutte le persone / ch’àn intellecto, cum le mente prone / al studio», fu presto percepita come una minaccia da sventare.
Gli uomini di Chiesa, alla pari dei letterati umanisti, svilupparono un atteggiamento di profonda diffidenza nei confronti del processo di volgarizzamento del sapere che la stampa aveva messo in moto. Lo scrivano e predicatore domenicano Filippo Da Strada fu tra i primi a fomentare con aristocratico disdegno l’odio contro gli stampatori, individuando nella stampa uno strumento volgarmente commerciale e potenzialmente corruttore dell’animo umano. In una data imprecisata degli ultimi decenni del Quattrocento, il domenicano di Pavia chiese che gli stampatori fossero banditi da Venezia. Lo animava un profondo disprezzo nei confronti di tutto quello che il volgarizzamento della vita intellettuale comportava: dai costi dei testi a stampa, così bassi che anche i bambini potevano acquistarli, alla mitologia pagana, alle poesie d’amore lascive che riempivano le pagine dei nuovi libri solleticando le fantasie erotiche dei giovani lettori, fino alle traduzioni volgari delle Scritture che rischiavano di stravolgere il significato sottile del latino conducendo all’eresia i «semplici et idioti». Ciò di cui Da Strada andava sicuro era che non si poteva tollerare una situazione in cui «ognuno è libero di stampare ciò che desidera», senza un filtro, senza una selezione del sapere: il rischio concreto era quello di «ignorare le opere migliori», scrivendo invece «semplicemente per il gusto dell’intrattenimento cose che sarebbe meglio dimenticare o meglio cancellare da ogni libro». Persino quando qualcuno scriveva «qualcosa di valido e utile e lodevole», capitava che gli stampatori, con la complicità dei curatori, attratti dalla prospettiva di allargare il loro pubblico (e dunque le loro vendite), lo distorcevano e corrompevano «al punto che sarebbe molto meglio fare a meno di quei libri, piuttosto che avere in circolazione migliaia di copie che diffondono falsità in giro per il mondo». Questo richiamo individuava nei libri oggetti «distorti», pieni di «falsità», viziati da un «inutile gusto dell’intrattenimento», unendo in una miscela esiziale i timori antiereticali dell’ecclesiastico e lo sprezzo aristocratico dell’umanista.
Il grido d’allarme invocava un intervento di Roma. E fu presto raccolto dai vertici dell’istituzione ecclesiastica. Nei secoli precedenti la Chiesa cattolica aveva già messo in campo forme di controllo della circolazione del sapere. Fatte le debite differenze, non è esagerato sostenere, come è stato fatto recentemente, che «tutti i principali dispositivi di controllo della produzione e circolazione delle idee e dei testi utilizzati in epoca moderna sono stati inventati nei secoli XIII e XIV». Si trattava, in quel caso, di meccanismi di controllo interni ai monasteri, alle accademie, alle università, a quei luoghi del sapere nei quali la circolazione libraria manoscritta era per lo più confinata. I monasteri selezionavano membri dell’ordine religioso di riferimento per monitorare l’ortodossia dei manoscritti copiati all’interno delle proprie mura. I membri delle accademie sceglievano una commissione interna atta a vagliare i manoscritti dei propri colleghi prima che fossero pubblicati. Le università, infine, si erano dotate di comitati interni di censura volti a controllare l’ortodossia e l’opportunità politica di quanto prodotto dai loro docenti, prima di autorizzarne la diffusione e affidarne infine la copiatura a uno scrivano. Monasteri, accademie e università erano i luoghi di produzione della cultura e diffusione del sapere, e non è casuale del resto che moltissime stamperie e botteghe di copiatura, anch’esse sottoposte annualmente ai controlli dei cosiddetti petarii (docenti universitari), aprirono i battenti nei pressi di sedi di conventi o istituzioni universitarie, come per esempio la stamperia dei due chierici tedeschi Conrad Sweynheim e Arnold Pannartz, stabilitisi nel 1465 presso il monastero benedettino di Subiaco. La censura medievale, insomma, funzionò come uno strumento di negoziazione all’interno di una cittadella fortificata: le comunità dei dotti, laici ed ecclesiastici, utilizzarono questo strumento per vigilare sulla qualità degli studi circolanti all’interno della loro cerchia.
L’invenzione della stampa e il graduale ampliamento della rete di diffusione del sapere ad essa legato costrinsero la censura a ripensare radicalmente il proprio ruolo. Nel giro di pochi decenni quelle cittadelle fortificate si trovarono assediate da una minaccia esterna dai contorni indefiniti ma non per questo meno preoccupanti, ben più temibile del pericolo derivante dall’intemperanza di un frate disobbediente o di un letterato irriverente. L’arrivo del libro a stampa impose un drammatico cambio di strategia, esigendo l’adozione di misure di controllo più ampie ed efficaci, capaci di intervenire al di fuori dei ristretti confini di singoli monasteri, università o accademie.
La principale di queste misure fu l’introduzione della licenza (o permesso) di stampa, in latino imprimatur («si stampi»). Nel mondo tedesco, laddove si insediarono le prime stamperie, tra Colonia a Magonza, le autorità ecclesiastiche tedesche presero, alla metà degli anni ottanta del Quattrocento, i primi provvedimenti contro la stampa e la vendita di opere moralmente disoneste o dottrinalmente ereticali. Sulla scia di quei singoli casi, il pontefice Innocenzo VIII emanò una bolla (la Inter multiplices, 17 novembre 1487) indirizzata a tutti i vescovi della cristianità, stabilendo che qualsiasi libro avrebbe dovuto ottenere prima della stampa una speciale licenza da parte del maestro del Sacro Palazzo e del suo vicario e, fuori dalla città di Roma, dagli ordinari diocesani. Nacque così l’istituto dell’imprimatur, un permesso di stampa da accordare dopo l’esame e l’approvazione di un testo manoscritto. A differenza del privilegio di stampa, l’imprimatur divenne subito un requisito indispensabile per la pubblicazione di un libro. In realtà, però, l’attributo dell’obbligatorietà rimase tale solo in linea teorica: come vedremo, molti libri continuarono a uscire senza il visto dell’autorità ecclesiastica. Le misure di Innocenzo VIII furono ribadite pochi anni dopo da papa Alessandro VI con l’omonima bolla (Inter multiplices) del 1° giugno 1501. Il V concilio lateranense (1513-1516) discusse ampiamente di questi temi e Leone X, appena un anno prima della diffusione delle 95 tesi di Martin Lutero, pubblicò un decreto (Inter sollecitudines, 1516) per confermare la linea intrapresa da Roma. In quegli stessi anni l’istituto della licenza di stampa fu introdotto anche in altri Stati italiani, in particolare a Venezia, dove a partire dal 1527 venne rilasciato dai Capi dei Dieci, e in altri Stati europei, come la Francia e la Spagna, dove una prammatica di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia impose nel 1502 una licenza preventiva per i libri di nuova impressione e per le importazioni di volumi dall’estero. Le autorità protestanti non furono da meno: la censura preventiva adottata dall’Università di Wittenberg e dall’elettore di Sassonia venne legittimata nel 1523 dal mandato conferito da Carlo V ai principi e ai rappresentanti dei domini imperiali (Reichsstände) con il compito di esaminare le copie prima della pubblicazione. Lutero si servì di questo strumento per far tacere avversari come Andreas Karlstadt e partecipò attivamente, a partire dal 1542, all’esame dei libri da stampare. Anche il riformatore zurighese Heinrich Bullinger si pronunciò nel 1553 contro l’abuso della stampa da parte di sette come gli anabattisti e chiese al Piccolo Consiglio che i censori esaminassero preventivamente la conformità al dettato biblico dei testi da pubblicare.
Ciò che preoccupò maggiormente i vertici dell’istituzione ecclesiastica, ispirando dunque queste prime misure di controllo, fu, come accennato, la questione del volgarizzamento del sapere. Sisto IV sottolineò nel 1479 la necessità di sorvegliare in special modo l’«ignoranza delle donne», che, nel tentativo di comprendere ciò che sfuggiva alle loro capacità intellettive, cadevano in errore mettendo a rischio anche la sorte di altre anime pie. Tradotti dal latino in lingua volgare tedesca – avvertì in quegli stessi anni il principe-vescovo di Magonza – gli uffici della messa, e i libri della Bibbia, specialmente i vangeli e le epistole di san Paolo, finivano incautamente nelle mani di uomini incolti e donne del tutto impreparati a cogliere il significato di testi la cui interpretazione era oggetto di contesa persino tra i più dotti studiosi ecclesiastici. Le stesse preoccupazioni indussero nel 1485 il vescovo Rodolfo II di Würzburg a proibire nel suo territorio la stampa di qualsiasi traduzione in tedesco della Bibbia. Lungi dall’impedire, in quello scorcio di secolo, la stampa e la circolazione del testo sacro in lingua volgare, le prime prese di posizione in campo ecclesiastico segnarono però una tendenza destinata a crescere d’intensità nei decenni successivi, specialmente dopo la diffusione delle dottrine luterane.
2. Un sapere per pochi
La profonda diffidenza delle élites politiche, religiose e culturali europee nei confronti del volgarizzamento del sapere aveva radici lontane anche nella penisola italiana. Gli umanisti che animarono le quattrocentesche corti rinascimentali italiane condividevano con gli uomini di Chiesa la convinzione che la conoscenza fosse un patrimonio da riservare solo a pochi, un bene prezioso da tutelare rispetto a orecchie e occhi indiscreti e menti intellettualmente poco attrezzate. Non sempre furono d’accordo su chi potesse godere dei selezionati frutti della cultura, né tantomeno su chi fosse tenuto a esercitare il potere di controllo e censura. Essi però si trovarono sulla stessa lunghezza d’onda quando si trattò di arginare ciò che a molti di loro apparve come una indiscriminata diffusione del sapere. Basti ricordare qui il noto giudizio di Federico da Montefeltro, riportato, certo in maniera non disinteressata, dal grande libraio e commerciante di manoscritti Vespasiano da Bisticci, secondo cui i libri a stampa non erano degni di stare accanto a quelli manoscritti; o il moto di sdegno dei Medici di Firenze di fronte alla standardizzazione delle pagine tipografiche, o ancora la diffidenza di Ercole I d’Este che, nel prestare a Lorenzo il Magnifico un’opera di Dione Cassio, si raccomandò di consultare quel testo privatamente, senza farlo circolare troppo e, soprattutto, senza farlo stampare.
La concezione elitaria del sapere fu un tratto comune della cultura di antico regime. E certo non di sola parte cattolica. «I libri stampati sono cosa da dotti e non materia per sarti e pellicciai», commentò a metà Cinquecento un allarmato luterano di Augusta a proposito dell’incontrollata diffusione degli scritti dello spiritualista radicale Caspar Schwenckfeld fra gli strati più umili della popolazione. Le élites culturali del tempo erano convinte, alla pari delle autorità di governo, che l’abisso che separava i saggi dal volgo fosse un dato di fatto incontrovertibile della natura umana. Nessun progresso del sistema educativo, né tantomeno nessuna evoluzione del sistema di comunicazione avrebbe potuto modificarlo: la filosofia o la scienza, e più in generale il sapere, erano necessariamente prerogativa di un piccolo numero, un privilegio di pochi. La manifestazione pubblica della verità filosofica o scientifica era inconcepibile, per lo meno indesiderabile. Tutti (o quasi) quelli che coltivarono il sapere, anche i più convinti fautori di una libertas philosophandi svincolata da qualsiasi ortodossia religiosa o politica, condividevano la certezza che i frutti delle loro veglie non fossero per tutti. Si trattava di una partizione sociale dotatasi ben presto di una garanzia antropologica: agli spiriti capaci di scienza vennero contrapposte le menti per le quali il sapere non poteva che risultare dannoso. Secondo il filosofo libertino francese Gabriel Naudé il volgo rozzo e poco educato era facilmente condizionabile, pronto a infervorarsi contro le autorità di governo, a esternare malcontento, ad abbandonarsi «a tante opinioni quanto il mare è agitato da diverse burrasche e tempeste», senza essere in grado di riconoscere – «allettato» com’era dal «miele della curiosità» – il «veleno dei dannosi effetti». Guai a «rendere il popolo troppo colto», come rischiavano di fare giornali e gazzette francesi! Lo scrittore Ludovico Zuccolo deplorò il fatto che persino i barbieri discutessero di ragion di Stato. Agostino Mascardi nel suo Dell’arte istorica si lamentò che le «librerie sono piene di tanti componimenti politici, che il mondo non pare […] rivolto ad altro che ad apprendere l’arte del comandare, sì poco sa di quella dell’ubbidire». E il teologo arminiano Conrad Vorstius scrisse a Isaac Casaubon che «la libertà di indagare e di dissentire deve essere concessa solo ai dotti».
Nella cultura di antico regime tutti i campi del sapere avevano una parte legata al segreto. Si trattasse dei segreti della natura (arcana naturae), dei segreti di Dio (arcana Dei) o dei segreti del potere (arcana imperii), o persino dei segreti mondani (arcana mundi) e dei segreti del cuore (arcana cordis), esisteva un nucleo riservato e inaccessibile e come tale potenzialmente pericoloso: moralmente, socialmente e politicamente pericoloso. In effetti, il sapere arcano era considerato in termini largamente positivi e la nozione di segreto, così positivamente intesa, si estendeva a tutti i campi, inclusa la vita quotidiana, il settore economico e scientifico e la cultura politica del tempo. Il filosofo René Descartes sintetizzò bene lo spirito del suo tempo, catturandone in una riga l’essenza più profonda: «Colui che ha vissuto bene, ha vissuto in segreto». L’uomo del XVI e XVII secolo non si preoccupava dei segreti perché qualcuno lo forzava a farlo: egli li apprezzava perché era convinto che il sapere vero e importante fosse segreto per definizione. Pochissimi tra loro consideravano la divulgazione di questi segreti una azione di per sé positiva. Persino i «professionisti di segreti», come il filosofo e scienziato Giovan Battista Della Porta, i quali nel XVI secolo iniziarono a pubblicare «Libri di secreti» destinati a un grande successo di pubblico, non intendevano rivelare l’essenza più profonda del loro sapere, bensì speculare sull’appassionata curiosità che il segreto accendeva negli uomini del tempo. Si trattava nella maggioranza dei casi di manuali di istruzione che fornivano al lettore informazioni tecniche o mediche basilari, lontane tuttavia dal mettere il lettore in condizioni di esercitare un determinato esperimento tecnico o medico senza l’ausilio di un esperto conoscitore dell’arte.
Dopo l’iniziale entusiasmo, il processo di diffusione del sapere innescato dalla circolazione di idee e notizie a mezzo stampa fu quasi unanimemente percepito dalle élites, laiche ed ecclesiastiche, come una pericolosa minaccia al proprio sistema di potere, politico e culturale, e più in generale al funzionamento della società di antico regime. In campo religioso, l’ampia circolazione di libri spirituali e teologici arrivò nell’arco di pochi decenni a mettere in discussione il pilastro intorno al quale Roma aveva costruito il suo radicamento sociale e il suo sistema di potere: il principio dell’intermediazione ecclesiastica tra il fedele e Dio. Uomini e donne di ogni livello sociale furono presto in grado di formarsi un’idea autonoma in materia di dogmi e dottrina religiosa: ciabattini, artigiani, donne, discutevano a ogni angolo di strada dei principali dogmi della dottrina cattolica come fossero teologi o uomini di studio. Il monopolio del sapere religioso detenuto per secoli dalla Chiesa venne seriamente messo in discussione già a partire dai primi decenni del Cinquecento. Allo stesso modo anche i detentori del potere politico percepirono il crescente successo della stampa come una seria minaccia all’inviolabilità di una sfera di conoscenze fino a quel momento considerata intoccabile. La pubblicazione di segreti di governo, i cosiddetti arcana imperii, poteva determinare disordini sociali ma anche incrinare relazioni diplomatiche con gli altri Stati. Come scrisse Paolo Sarpi, consultore del Senato veneto, «ognuno confessa che il vero termine di regger il suddito è mantenerlo senza saputa delle cose pubbliche e in venerazione di quelle». Qualsiasi governo, monarchico, principesco o repubblicano che fosse, agiva sullo scacchiere politico europeo e mondiale stringendo alleanze militari, concludendo accordi diplomatici, difendendo l’onorabilità del proprio nome, tutelando la propria rete di ambasciatori. Nessuno poteva tollerare che «la materia del governo di Stato» e «le cose grandi» fossero destinate a portare «diletto» alla grande maggioranza della popolazione, aiutando uomini e donne incolti a «trattar i negotii publici della sua città» e persino «le sue bisogne della propria casa», come scrisse l’anonimo autore di una raccolta di relazioni di carattere politico intitolata Thesoro politico (1589), piena di «cose secrete et importanti», la cui circolazione fu prontamente interdetta da Roma.
Tutti, o quasi, riconobbero la legittimità dei dispositivi di censura volti a impedire che certi tipi di scritti fossero accessibili al pubblico più largo. Il fine fu quello di preservare la pace sociale, l’ortodossia religiosa, la moralità pubblica e l’ordine politico. Autorità civili e religiose, intellettuali e uomini di Chiesa si ritrovarono accomunati dal timore degli effetti perversi che letture non gradite avrebbero potuto provocare negli uomini e nelle donne del popolo, convinti che non si potesse fare affidamento alcuno sulla loro capacità di discernere la verità dall’errore, che fosse dunque fondamentale sorvegliare ciò che era destinato alla pubblicazione, prima e dopo che il testo finisse sotto il torchio.
3. Della necessità della censura
Nell’«età del segreto» la censura venne dunque presentata e accolta come un diritto acquisito di chi deteneva il potere: il miglior strumento per difendere un sapere elitario dalle insidie del processo di volgarizzamento messo in moto dall’invenzione della stampa. I detentori del potere religioso e politico poterono contare, in questo senso, sulla complicità degli uomini di cultura. Anche i più radicali pensatori del tempo, filosofi, scrittori, umanisti, oggi visti come eroi della libertà di stampa e di espressione e spesso ricordati tra le vittime più illustri dell’intolleranza religiosa e politica del tempo, concordavano sull’utilità della censura come strumento di governo. Pietro Carnesecchi, protonotario apostolico, condannato a morte nel 1567 dopo due processi inquisitoriali, commentò con grande benevolenza la pubblicazione del primo indice romano dei libri proibiti (1558), sottolineando come fosse opportuno «metter freno alla troppa curiosità nella qual tutti universalmente pecchiamo», lasciando da parte gli scritti «inutili et superflui». Erasmo da Rotterdam, uno degli intellettuali più acclamati ma anche più censurati dell’Europa cinquecentesca, si adoperò in diverse occasioni affinché scritti a lui sgraditi fossero proibiti e confiscati: una prima volta fece in modo che gli stampatori di Basilea smettessero di pubblicare le opere di Juan Luis Vives, umanista spagnolo con cui egli, dopo un lungo sodalizio intellettuale, era entrato in conflitto; una seconda volta chiese direttamente ai magistrati di Strasburgo di impedire la pubblicazione degli scritti di Sebastian Frank. Thomas More, il noto autore dell’Utopia (1516), chiese libertà di pensiero e di parola ma pose limiti ben precisi: non tollerava diversità di opinioni riguardo alla Provvidenza divina o all’immortalità dell’anima. Il giurisdizionalista veneziano Paolo Sarpi, il «gran nimico di Roma», uno dei più strenui oppositori dell’Inquisizione romana e dei suoi metodi repressivi, reclamò una rigida divisione di competenze tra censura ecclesiastica e censura di Stato, guardandosi bene dal chiederne l’abolizione. La prima si sarebbe dovuta limitare all’ambito strettamente teologico e religioso, occupandosi di «dottrine [che] non toccano in alcun modo la potestà dei prìncipi né la favoriscono»; la seconda si sarebbe dedicata a mettere al bando tutto ciò che avrebbe potuto danneggiare il potere temporale del principe. Dirk Coornhert, teologo e scienziato olandese, campione della tolleranza religiosa, autore di un’opera significativamente intitolata Sinodo, o della libertà di coscienza (1582), osservò che i libri religiosi andavano combattuti con la forza della verità e non con le proibizioni. Il compito delle autorità ecclesiastiche e dei teologi era quello «di refutare, combattere e mettere in ridicolo libri eretici con la forza della verità» e non con l’uso della forza e della censura. La censura però rimaneva uno strumento fondamentale per mantenere l’ordine pubblico: i libri «ingiuriosi o sediziosi» che delegittimavano il potere politico e incitavano all’insubordinazione sociale e politica andavano proibiti senza alcuna esitazione. Non era solo «giusto» ma anche «necessario e utile» che il magistrato civile ne proibisse duramente la produzione e la stampa. John Milton, il famoso autore dell’Areopagitica (1644), dopo aver redatto alcune tra le più belle pagine mai scritte contro il principio della censura preventiva e in difesa della libertà di stampa, si espresse a favore della censura post-pubblicazione e della sua utilità sociale. «Uccidere un buon libro è quasi lo stesso che uccidere un uomo», scrisse il poeta all’indomani di un provvedimento del governo inglese che introduceva l’istituto della censura preventiva. «In un certo senso è ancora peggio: perché chi uccide un uomo uccide una creatura dotata di ragione, fatta a immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro, uccide la ragione stessa, distrugge, direi quasi, la pupilla di quella Immagine Divina», concluse con un’enfasi retorica pari solo alla forza delle sue parole. Anche i libri più cattivi potevano contribuire all’avanzamento della conoscenza, magari in vie indirette e imprevedibili: «Possono riuscire utili in vari modi ad un lettore cauto e giudizioso, poiché lo mettono in grado di scoprire, o confutare, prevenire ed illustrare gli errori». Eppure, aggiunse Milton, i libri potevano provocare effetti potenti e indesiderati, potevano addirittura comportarsi come «malfattori»: la Chiesa e lo Stato avevano dunque il dovere di «osservare con occhio vigile il modo in cui si comportano, non diversamente da come si fa per gli uomini»; e se necessario, «condannarli con rigorosa giustizia, come dei malfattori, e mandarli al confine o alla prigione».
Immaginare una società senza censura fu impresa impossibile per un uomo (o una donna) della prima età moderna. Anche chi ne soffrì personalmente le conseguenze e ne combatté con forza i nefasti effetti fu naturalmente predisposto a prendere atto della sua ineluttabile presenza.
III.
Un sistema di censura
1. Meglio proibire che prevenire
A dispetto della sua supposta obbligatorietà, il vidit o imprimatur ecclesiastico comparve sul frontespizio di una percentuale relativamente esigua di titoli. Molti stampatori elusero i controlli pubblicando senza aver ottenuto l’autorizzazione ecclesiastica né quella laica, per paura di un intervento censorio o più semplicemente per non affrontare le lungaggini di un meccanismo farraginoso destinato a ritardare oltremodo i tempi di stampa: un manoscritto rischiava di rimanere nel chiuso della cella di un convento inquisitoriale anche per mesi, a volte per anni, in attesa di essere esaminato. Le autorità ecclesiastiche, dal canto loro, faticarono a trovare personale competente e sufficientemente motivato a svolgere il controllo preliminare dei testi. Il sistema di censura preventiva, insomma, faticò a tenere testa ai ritmi crescenti del mercato editoriale e, forse anche per questo, le autorità romane spesso rinunciarono ad applicare le pene previste per i trasgressori. Solo gli ordini religiosi, le università e le accademie letterarie, riuscirono a organizzare una forma efficiente di controllo dei manoscritti dei loro membri. Si trattò però di un filtro censorio dagli obiettivi diversi, complementare e non alternativo all’imprimatur. Mentre l’autorizzazione concessa dai superiori di un ordine religioso o dal comitato di censura di un’università o di un’accademia letteraria aveva il limitato scopo di tutelare il buon nome dell’istituzione di cui il proponente era parte, la licenza di stampa aveva l’ambizione di misurare l’impatto di un’opera sull’intera società, tutelando in particolare l’ortodossia religiosa e la buona reputazione delle autorità di governo.
Con il passare degli anni Roma realizzò che il filtro preventivo non era sufficiente ad arginare la crescente circolazione di opere «nocive» e pericolose. La velocità con cui il veleno dell’eresia si diffondeva, apparentemente senza filtri, richiamava alla fantasia di molti ecclesiastici la rapidità con cui la peste si spargeva tra la popolazione senza possibilità di controllo. La celerità con cui il «libro infetto» passava di mano in mano, contagiando chiunque ne venisse in possesso, riportava alla mente delle autorità romane l’ineluttabilità del morbo epidemico. Per frenare quella dilagante infezione occorreva un sistema di controllo capillare ed efficiente, capace di intercettare i volumi sospetti anche dopo la loro pubblicazione. Serviva un organo centrale pronto ad assumersi la responsabilità di impartire ordini chiari e precisi ma anche una rete locale in grado di eseguire quelle direttive. I vescovi avevano svolto per lungo tempo, e fino a tempi recentissimi, il ruolo di censori; gli inquisitori avevano da poco ricevuto, in occasione della riorganizzazione del Sant’Uffizio romano (1542), l’incarico di ispezionare biblioteche pubbliche e private, botteghe di tipografi e librai, case private, chiese e monasteri, insomma di dare la caccia ai libri proibiti con il preciso ordine di sequestrarli ed eventualmente mandarli al rogo. Roma non sciolse mai del tutto il nodo della divisione dei compiti. Anzi, alle figure del vescovo e dell’inquisitore se ne aggiunse una terza, quella del maestro del Sacro Palazzo, incaricato sin dagli inizi del Cinquecento di sorvegliare la circolazione di libri proibiti nella città papale e nel suo distretto ma successivamente investito di compiti censori rilevanti, ben al di là delle mura di Roma. Il risultato fu un secolo e mezzo di conflitti e sovrapposizioni giurisdizionali, con la Congregazione del Sant’Uffizio schierata a difesa delle prerogative degli inquisitori locali e la Congregazione dell’Indice, istituita formalmente da Gregorio XIII nel 1572 con il compito di rivedere e aggiornare l’indice tridentino e provvedere all’espurgazione dei testi condannati donec corrigentur, pronta a tutelare le competenze dei vescovi. I rapporti di forza tra queste istituzioni seguirono un andamento altalenante, inevitabilmente scandito dalla variabile composizione delle stesse congregazioni, dall’indole, e dal carattere dei cardinali che ne furono di volta in volta membri e naturalmente dalle differenti propensioni personali e politiche dei pontefici che si succedettero sul soglio. Lo scontro giurisdizionale tra Sant’Uffizio e Indice assunse, in alcune fasi del Cinquecento, la natura di un conflitto tra due opposte visioni del governo della Chiesa e del suo gregge: da una parte la vigile e inflessibile guida dottrinale degli inquisitori, dall’altra lo sguardo persuasivo e caritatevole dei vescovi. Già a partire dalla seconda metà del Cinquecento, comunque, anche grazie all’appoggio più o meno esplicito di pontefici come Paolo IV, Pio V, Sisto V, e in certa misura Clemente VIII, la linea prevalente fu quella inquisitoriale. Il Seicento sancì definitivamente il ruolo ancillare dell’Indice rispetto all’Inquisizione, senza tuttavia piegarne definitivamente la resistenza. Solo a metà Settecento, quando l’affermazione della censura di Stato indebolì l’apparato inquisitoriale, il modello vescovile riprese vigore. I pontefici, intenti a combattere la diffusione della cultura dei Lumi, restituirono ai vescovi le competenze in materia censoria attribuite loro due secoli prima dal concilio di Trento. La scelta, però, si rivelò tardiva: la battaglia per il controllo della circolazione libraria si era ormai conclusa, e con esiti non favorevoli a Roma.
2. Il libro che sorveglia gli altri
Oltre a scegliere a chi affidare le redini della rete censoria, Roma fu chiamata a fornire a vescovi, inquisitori e censori gli strumenti adatti per orientare le scelte di stampatori e lettori. Bisognava offrire ai protagonisti del mondo del libro un punto di riferimento sicuro: un catalogo, una lista che elencasse i volumi più temibili, una guida capace di distinguere i buoni dai cattivi titoli. Le facoltà di teologia delle università di Parigi e Lovanio iniziarono a farlo prima degli altri. Muovendo dalle condanne formulate dalla Sorbona negli anni venti e trenta del Cinquecento, in Francia venne stilata nel 1544 una lista di 230 titoli in latino e in francese. Il numero dei volumi proibiti aumentò gradualmente nelle edizioni successive del catalogo, pubblicate rispettivamente nel 1545, 1547, 1549, 1551 e 1556: l’ultima versione contò 528 interdizioni, riferite a 278 opere in latino e a 250 in francese. I teologi dell’università di Lovanio, adeguandosi agli ordini di Carlo V e di Filippo II, pubblicarono nel 1546 un catalogo di libri proibiti, ampliandolo poi con nuovi titoli nel 1550 e nel 1558. Gli inquisitori e i librai della penisola italiana furono invitati a servirsi di quelle liste, ma sin dai primi anni quaranta Roma comprese la necessità di dotarsi di uno strumento proprio, capace di fotografare lo stato della circolazione libraria all’interno dei confini territoriali italiani ma anche atto a parlare ai lettori di tutta la cristianità. Il Sant’Uffizio incaricò Egidio Foscarari, maestro del Sacro Palazzo, di stilare un elenco di libri eretici e sospetti. Questa lista, completata da Girolamo Muzzarelli, successore di Foscarari, venne inviata manoscritta, tra il 1553 e il 1554, a Firenze, Venezia e Milano, dove fu stampata rispettivamente dall’inquisitore, dal nunzio e dall’arcivescovo. La resistenza di governi civili e stampatori locali, più agguerrita a Venezia, più morbida ma ugualmente efficace nelle altre due città, costrinse le autorità ecclesiastiche a ritirare gli elenchi prima di avviarne l’applicazione. All’indomani della pace di Augusta (1555), Gian Pietro Carafa, fondatore e guida indiscussa del Sant’Uffizio, neoeletto pontefice con il nome di Paolo IV, incaricò una commissione presieduta da Michele Ghislieri, poi suo successore al vertice dell’Inquisizione, e composta tra gli altri da due eremitani agostiniani, Cristoforo da Padova e Giuseppe Veronese, e dal generale dei gesuiti Diego Laínez, di preparare un indice ufficiale dei libri proibiti. Il primo frutto dei lavori di quella commissione fu pronto nel novembre 1557, pubblicato il mese successivo da Antonio Blado a Roma: la severità delle norme contenute e le proteste di autorevoli personalità ecclesiastiche indussero però il pontefice a negargli l’avallo. La commissione si rimise al lavoro, questa volta sotto la presidenza del cardinale inquisitore Bernardino Scotti, completando nel mese di novembre 1558 un nuovo indice: l’elenco venne pubblicato il mese successivo, affisso come decreto dell’Inquisizione alle porte della basilica di San Pietro e del palazzo dell’Inquisizione a Campo dei Fiori il 30 dicembre, e diffuso all’inizio del 1559.
La lista, meno severa della precedente, era ormai diventata un vero e proprio volume. Un libro – l’indice dei libri proibiti, il primo indice ufficiale romano – venne posto a guardia dell’intero sistema della circolazione libraria. Le circa mille proibizioni furono ordinate alfabeticamente, ripartite in tre gruppi o classi. Nel primo, composto da circa 600 nomi, vennero inseriti gli autori non cattolici di cui si proibiva l’intera produzione, compresi dunque gli scritti non religiosi. Nel secondo gruppo furono elencati 126 titoli relativi a 117 autori; nell’ultimo 332 titoli anonimi. Al termine di questi elenchi furono aggiunte due liste: la prima composta di 45 Bibbie e Nuovi Testamenti (in volgare) espressamente vietati, la seconda formata dai nomi di 61 tipografi la cui produzione venne integralmente messa al bando. All’interno del terzo gruppo, quello dei titoli anonimi, sotto la voce «libri omnes» figurarono proibizioni relative a intere categorie di libri destinate ad ampliare il numero dei titoli proibiti: oltre ai volumi privi di nome d’autore, stampatore, data e luogo di edizione, o mancanti di permesso dell’ordinario del luogo e dell’inquisitore o pubblicati da stampatori eretici, risultarono vietate anche le opere di astrologia e di magia, negromanzia e chiromanzia.
Nonostante l’eliminazione di circa 50 autori rispetto alla prima severissima versione del 1557, l’indice paolino (1558) suscitò una violenta ondata di proteste. Come prevedibile, le resistenze più forti vennero dagli stampatori, in particolare da quelli veneziani. Venezia era alla metà del Cinquecento uno dei centri editoriali più fiorenti d’Europa, in competizione con Basilea, Londra, Parigi e Anversa. Quell’elenco di più di mille titoli costringeva gran parte di loro a rinunciare alla propria attività: consegnando agli inquisitori, come previsto dall’indice, tutti i titoli proibiti da loro stampati, anche solo quelli materialmente presenti nelle proprie botteghe, essi avrebbero subìto perdite economiche incalcolabili. Voci di malcontento si alzarono anche dai collegi gesuiti e dai palazzi romani. Persino i vertici del Sant’Uffizio si lamentarono dell’assurda severità di molte proibizioni: il 27 gennaio 1559, poche settimane dopo la promulgazione dell’indice, Michele Ghislieri, futuro papa Pio V, scrisse all’inquisitore di Genova Giorgio Franchi autorizzandolo di fatto a concedere in lettura una serie di opere in deroga alle norme paoline: «I libri di humanità de buoni autori, riconosciuti, scholiati o commentati da altri reprobati nell’indice, si possono concedere deletis delendis, sì come anche si concedono i libri de santi dottori». Fu il segnale che qualcosa poteva, anzi doveva essere rivisto. L’alleggerimento delle proibizioni paoline fu realizzato in due tappe. Una Instructio circa indicem librorum prohibitorum (1559), direttamente ispirata da Ghislieri con l’esplicito intento di far sì che «assai delli libri prohibiti si potrieno tenere», escluse dal terzo gruppo delle opere anonime tutti i libri stampati senza nome d’autore o data di pubblicazione fino a quaranta anni prima, precedentemente dunque alla diffusione della Riforma protestante: a meno di evidenze di segno contrario – questa la ratio del documento – non vi era ragione di supporre che la scelta dell’anonimia fosse stata dettata dal desiderio di mascherare la propria identità a fini ingannevoli. L’Instructio propose anche di eliminare dai testi medici o giuridici di autori ortodossi commenti, annotazioni, prefazioni o introduzioni redatte da autori protestanti, evitando così la proibizione dell’intera opera. Per la prima volta si legittimò dunque la possibilità di espurgare un testo, depurandolo degli elementi «infetti», al fine di restituirlo ai canali della circolazione libraria in una nuova, purificata veste. Il testo della Moderatio Indicis (1561), primo frutto del lavoro di una commissione di vescovi tridentini incaricata dal nuovo pontefice Pio IV (1559-1564) di rivedere l’indice di Paolo IV, confermò molte di quelle indicazioni, destinate infine ad essere accolte nel nuovo indice dei libri proibiti promulgato nel 1564. Il cosiddetto indice tridentino valorizzò il principio dell’espurgazione dei testi, estendendone l’applicazione a molte categorie di libri. L’intento iniziale della commissione, quello di individuare con precisione le opere espurgabili e incaricare per ciascuna di esse un censore in grado di portare a termine il lavoro prima della promulgazione dell’indice, si rivelò però irrealizzabile: molti di quei volumi, generalmente scritti di argomento religioso di autori altrimenti condannati dall’indice, comparvero nell’elenco finale dei libri proibiti accompagnati dalla formula donec corrigetur o donec expurgetur («finché il libro non sarà corretto», o «espurgato»), due espressioni che legavano la validità della proibizione al tempo necessario a portare a termine la necessaria correzione. Il meccanismo era in apparenza semplice. Le opere individuate contenevano solo poche pagine, a volte poche frasi o parole, pericolose per la «salute» dei fedeli: sarebbe stato sufficiente sopprimere quei passi o quelle pagine, ristampando una nuova versione del testo, per restituire ai lettori un libro cui altrimenti non avrebbero più avuto accesso. I padri tridentini non furono però in grado di prevedere la crescita esponenziale cui il numero dei volumi da espurgare andò incontro negli anni e nei decenni successivi. Complici anche le generiche proibizioni contenute nelle regole introduttive da loro apposte all’indice stesso, il numero delle opere bisognose di espurgazione aumentò a dismisura, rendendo arduo il funzionamento della macchina censoria: particolarmente difficile si rivelò il reperimento di uomini disposti a collaborare con il maestro del Sacro Palazzo, incaricato di coordinare l’intera operazione, ma soprattutto capaci di penetrare, armati di solo calamo, nel corpo di complessi testi religiosi, filosofici, giuridici, medici, letterari, estraendone il «morbo nocivo» senza alterare l’equilibrio complessivo dell’opera.
I limiti rivelati dallo strumento indice dei libri proibiti non furono però legati solo al meccanismo dell’espurgazione dei testi. La fase gestazionale di ciascuna lista di proibizioni era inevitabilmente lunga e complessa: non tanto per le diverse, a volte contrastanti, posizioni politiche e ideologiche dei membri delle due congregazioni cardinalizie incaricate di prepararne il testo, quanto per l’oggettiva difficoltà di reperire e organizzare le notizie provenienti da ogni angolo d’Europa. In occasione del primo indice ufficiale romano gli inquisitori disposero di una serie di preziose fonti informative, dalle liste già pubblicate dalle facoltà di teologia delle università di Parigi e Lovanio fino ai formidabili strumenti bibliografici involontariamente messi a disposizione da uomini di cultura protestante, come la Bibliotheca universalis di Conrad Gesner (1554), catalogo universale del sapere, lista ideale dei libri che l’uomo dotto avrebbe dovuto possedere e leggere, o come gli scritti polemici dell’ex vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio. Gli estensori dei successivi indici non poterono approfittare di tali mezzi. L’aggiornamento della lista si rivelò un processo necessariamente farraginoso. Una volta pubblicato, l’indice rimase uno strumento poco flessibile, statico, quasi immobile davanti al flusso ininterrotto di testi stampati. Dopo l’indice tridentino (1564), nell’arco di un secolo, Roma riuscì a pubblicarne solo altri due, sotto i pontefici Clemente VIII (1596) e Alessandro VII (1664).
Oltre a individuare i libri da inserire all’indice, occorreva anche dare pubblicità alle proibizioni in esso contenute, diffondere adeguatamente la notizia della loro condanna, mettere stampatori librai e lettori nelle condizioni di utilizzare quella lunga lista di titoli proibiti. Le copie degli indici, però, erano poche e non facilmente consultabili. Difficile pretendere che i librai, una volta rinvenuto uno di quei rari esemplari, imparassero a memoria più di mille titoli per poi compararli con i volumi da loro conservati, o che i lettori si dimostrassero così scrupolosi da consultarne il contenuto prima di acquistare o farsi prestare un volume. Come emerse da molti processi inquisitoriali, la gran parte dei librai (e dei lettori) ignoravano il contenuto degli indici, spesso non sapevano distinguere un libro proibito da uno lecito. I polemisti protestanti ne fecero materia di scherno, insinuando che Roma avesse volutamente confezionato un’opus tenebrarum, un’«opera dell’oscurità» e del «segreto», nascosta «con tanta perizia dalla luce e dalla vista degli uomini», consegnata esclusivamente nelle mani degli inquisitori, destinata a rimanere un’opera esoterica riservata a pochi eletti. Non di rado i fedeli più timorati, attanagliati dai dubbi, sceglievano di consegnare all’inquisitore una lista completa dei libri da loro posseduti, lasciando a quest’ultimo l’onere di individuare i titoli proibiti. L’ignoranza dei lettori finì così per ritorcersi contro gli stessi inquisitori: l’inquisitore bolognese Giovanni Antonio Spadini (1585-1598) si lamentò, uno tra i tanti, che «quasi tutti, poiché non conoscono le norme dell’Indice o per altre ragioni, hanno portato una lista di tutti i libri che hanno dentro casa», costringendolo ad esaminare fino a «quattromila liste di libri».
A Roma si cercò di ovviare al problema stampando un gran numero di fogli volanti contenenti elenchi parziali di proibizioni, affissi all’occasione nei punti strategici della città, ma soprattutto pubblicando un numero crescente di copie dell’indice da far distribuire nelle singole diocesi. Gli inquisitori locali furono incoraggiati a fare altrettanto utilizzando le stamperie più affidabili a loro disposizione. I librai vennero invitati a conservarne una copia all’interno delle loro botteghe. Spesso però le spese necessarie per la stampa erano elevate e i fondi a disposizione degli uffici inquisitoriali locali non sufficienti a garantirne la pubblicazione di un numero adeguato. Una volta superati gli ostacoli di natura economica e organizzativa, rimaneva poi il problema della lingua. L’indice dei libri proibiti era redatto nella lingua ufficiale di Roma, il latino. Come disse agli inquisitori un libraio modenese, costretto a giustificarsi per non essersene procurato una copia, «è tanto averlo come non averlo perché è latino e non l’intendo». La scelta del latino, diversa da quella delle autorità spagnole e portoghesi aduse a pubblicare l’indice nella loro lingua natia, era legata alle aspirazioni universalistiche coltivate dalla censura romana. Per essere recepite in ogni angolo della cristianità, come Roma ambiziosamente auspicava, le proibizioni dovevano parlare una lingua universalmente conosciuta, la lingua della Respublica christianorum. La lingua latina era però conosciuta solo da una ristrettissima cerchia di dotti: eruditi residenti in ogni parte della cristianità certo, ma pur sempre un’esigua minoranza della popolazione. La grande maggioranza di stampatori, librai, lettori, in molti casi anche di inquisitori e vescovi, non faceva parte di quell’élite. Nel corso del Cinquecento solo a Parma e in poche altre città vennero pubblicate liste locali di libri proibiti in volgare italiano, prassi seguita anche nel secolo successivo con la pubblicazione di una serie di «indici locali» in lingua vernacolare. L’indice di Alessandro VII (1664) cercò di renderne la lettura più accessibile, abbandonando la divisione tripartita in classi e inserendo al suo posto una più semplice struttura alfabetica, ma una soluzione definitiva maturò solo alla metà del Settecento, quando Roma decise finalmente di pubblicare l’intero indice, regole introduttive comprese, in lingua volgare. Anche in questo caso, la decisione si rivelò felice ma tardiva. L’indice, sovrastato dall’avanzare della censura di Stato, aveva ormai perso gran parte della sua autorevolezza. Le decisioni di Roma circolarono con più facilità, ma i vescovi e gli inquisitori non ebbero più la forza di darne applicazione.
Al di là dei suoi limiti, comunque, l’indice dei libri proibiti rimase un unicum nel panorama religioso e culturale dell’Europa moderna, condizionando fortemente il carattere della censura libraria nella penisola italiana. Nell’Inghilterra puritana, nella Svizzera calvinista, nella Germania luterana o nella Repubblica olandese, la censura venne piuttosto affidata alla formulazione di generiche categorie di opere condannabili: libri che «ostacolano l’onore e la gloria di Dio», libri «di cose papistiche», «lascivi», «impudichi», «pregiudizievoli alla religione e ai buoni costumi», libri che «sovvertono l’ordine politico». Furono poi le autorità locali a decidere caso per caso, alla luce di quelle generiche indicazioni, se proibire un testo o meno, in base all’opportunità politica, alla congiuntura religiosa e ai rapporti di forza in campo. In questo modo il controllo librario si rivelò più facilmente soggetto alla contrattazione tra le forze sociali coinvolte, dunque più flessibile. Una volta stampato e promulgato, l’indice dei libri proibiti non consentiva, invece, di negoziare sul numero e sul merito delle opere condannate: l’interpretazione di alcune norme diede adito ad animate discussioni e a violenti scontri giurisdizionali, ma la punibilità o meno di un testo difficilmente fu oggetto di contesa. L’esistenza di una lista unica, ufficialmente approvata da Roma, rappresentò un elemento di rigidità e centralizzazione del sistema che, fatta eccezione per la penisola iberica, non ebbe uguali nell’Europa del tempo.
3. Le frontiere del contagio
Oltre a individuare, non senza ambiguità e contraddizioni, i responsabili della rete di controllo e dotarli di uno strumento solo parzialmente consono al loro compito, Roma si occupò di identificare e punire i responsabili del contagio pestilenziale. Gli autori erano spesso morti da decenni, risiedevano in paesi protestanti lontani dai confini della penisola, oppure si celavano dietro il velo della pseudonimia e dell’anonimato: difficile farne il bersaglio dell’azione censoria. Rimanevano gli stampatori e i librai, coloro che materialmente producevano e diffondevano i testi proibiti. Le due figure erano spesso sovrapponibili nel mercato editoriale cinque-seicentesco: chi stampava un libro si occupava infatti anche di venderlo al pubblico, chi decideva di investire del denaro si assumeva anche la responsabilità di ricavarne un provento a copertura delle spese sostenute; troppi i rischi economici, soprattutto nei primi due secoli dell’invenzione della stampa, per distinguere nettamente le due responsabilità. Sorvegliare stamperie e librerie divenne il principale obiettivo delle autorità ecclesiastiche sin dalla stesura dei primi indici ufficiali romani. Come scrisse nel 1559 l’inquisitore Michele Ghislieri, «alli librari non s’ha da far più remissione che si facci comunemente alli altri, sapendo che per la loro ingordigia orta est haec tempestas et ruina maxima»: la sete di guadagni dei librai, messa sciaguratamente al servizio dell’eresia luterana, era la causa della «grande rovina» della cristianità. Ma l’«ingordigia» non fu l’unico aspetto della loro attività a preoccupare i tutori dell’ortodossia: convinti fautori dell’eresia luterana, alcuni si mostrarono persino disposti a sacrificare i propri interessi commerciali in nome del trionfo della verità religiosa. Oltre a contemplare una lista di 61 stampatori dei quali si vietò espressamente l’intera produzione, l’indice paolino (1558) puntò dunque il dito contro i venditori di libri. Stabilì l’obbligo di presentare al Sant’Uffizio la lista dei volumi conservati nei loro magazzini. Ciascuno di loro, oltre a redigere l’inventario del materiale posto in vendita, fu chiamato a conservare all’interno della propria bottega una copia dell’ultimo indice stampato, a usare la massima prudenza nel vendere Bibbie volgari, libri di controversia tra cattolici ed eretici, nonché titoli segnalati all’indice come «da purgare», almeno finché questi non fossero stati corretti, ad attendere la presenza di un vicario dell’inquisitore prima di aprire casse di libri importati dall’estero e, più in generale, a evitare di importare volumi dalla Germania o da altri luoghi, o di acquistare libri usati prima che il relativo elenco fosse stato esaminato e approvato dall’Inquisizione. In molti furono processati tra Cinquecento e Seicento, accusati di aver stampato o anche solo venduto libri eretici, contribuendo in maniera decisiva a diffondere il morbo luterano. Tra i nomi più noti, Antonio Gadaldino, libraio di Modena; Antonio Brucioli, già traduttore della Bibbia, stampatore insieme ai fratelli Alessandro e Francesco; Gabriele Giolito, forse il più famoso libraio e stampatore italiano del Cinquecento, la cui bottega napoletana fu perquisita in più occasioni; Vincenzo Valgrisi, editore e libraio di origini francesi, con attività a Venezia e Roma; Girolamo Polo, editore di una stampa non autorizzata delle Vite dei Pontefici del Platina.
Naturalmente la caccia al libro proibito non poteva fermarsi sulla soglia di librerie e stamperie. I librai si muovevano spesso, e con loro si spostavano i libri. Controllare la circolazione del libro proibito significava anche sorvegliare le frontiere interne ed esterne della penisola. A Roma era il maestro del Sacro Palazzo a occuparsi, insieme ai suoi «agenti» e «deputati», di registrare tutti i volumi che uscivano o entravano nella città papale; nel resto della penisola, ogni Stato aveva i suoi doganieri, chiamati a svolgere le funzioni di filtro censorio sotto lo sguardo attento degli inquisitori. L’assenza di una qualsiasi forma di coordinamento tra autorità doganali di Stati diversi mise tuttavia a dura prova la tenuta dell’intero sistema. Non c’era accordo neppure su chi dovesse effettuare il controllo delle casse di libri spediti da una città all’altra. La norma stabilita dal Sant’Uffizio, secondo la quale il contenuto doveva essere esaminato nella città di partenza, venne spesso sconfessata dalle autorità inquisitoriali e doganali della città di arrivo, le quali non ammettevano per valide liste «sottoscritte da gl’inquisitori di quelle città di dove [i libri] son partiti». In teoria, un doppio filtro avrebbe potuto garantire un maggior controllo sulla circolazione di testi proibiti; in pratica, però, la totale mancanza di collaborazione tra le autorità doganali aggravò il carico di lavoro di uomini poco motivati ad eseguire i compiti loro assegnati, contribuendo a inceppare il funzionamento della macchina. L’indolenza e l’inefficienza di molti doganieri fu oggetto di scherno da parte degli uomini di cultura del tempo, pronti a riferirsi ai controllori di libri come a uomini «tanto discreti che sebene anco non vi fosse altra difficoltà, terrebbono [i libri] qualche mese prima di restituirli». La possibilità, poi, di pubblicare in uno Stato confinante un testo proibito in una qualsiasi città italiana non fece che mettere in rilievo l’inadeguatezza del sistema. Come scrisse lo sconsolato inquisitore di Modena, «mentre io m’affatico qua di levar via i libri che contengono oscenità e possono corrompere i buoni costumi, in Vicenza ad altro non s’attende che a ristampare a punto quei libri che per esser molto lascivi mille volte sono stati prohibiti». Il caos regnava sovrano.
I pericoli maggiori provenivano comunque dalle frontiere esterne, dai paesi protestanti che confinavano più o meno direttamente con la penisola italiana. Nonostante i divieti contenuti negli indici, molti librai italiani continuavano a importare con regolarità volumi proibiti, sicuri di ricavarne un lauto guadagno. Per arginare il commercio clandestino Roma si affidò alla sua rete di nunzi apostolici e legati fuori d’Italia. Chiese loro di redigere e inoltrare nella città papale la lista dei libri proibiti o sospesi stampati nei territori ricadenti sotto la loro giurisdizione. Sfogliando con perizia i cataloghi dei libri in vendita presso le fiere librarie d’Europa, i nunzi e i loro collaboratori potevano individuare i «libri infetti et perniziosi» immessi nel mercato editoriale europeo e inviarne notizia a Roma. L’obiettivo era impedire che quei volumi varcassero la frontiera italiana, «ovviare che simil peste de’ libri non infetti queste nostre parti d’Italia». Questi elenchi, però, minacciavano di ottenere l’effetto opposto a quello sperato: invece di metterli in allerta, quelle liste rischiavano di ingolosire i librai italiani avidi di novità editoriali d’oltralpe. Come scrisse Antonio Possevino, proponendo un pronto rimedio all’«ingordigia» dei venditori di libri, «questi catalogi dovrebbono prohibirsi, o almeno purgarsi, o sì risicarsi talmente che non vi si vedessero i nomi de’ libri che non fossero di dottrina sana et purgata». Raccogliendo il suggerimento dell’autorevole gesuita, Roma chiese al Bücherkommissar (commissario dei libri), una magistratura istituita a Francoforte a fine Cinquecento e sottoposta a una doppia fedeltà, al papa e all’imperatore, di redigere, su iniziativa dei nunzi e con il sostegno finanziario della Santa Sede, cataloghi separati per le novità librarie presentate alla fiera da autori di sicura ortodossia cattolica. Solo queste liste vennero autorizzate a circolare nella penisola italiana, anche con l’intento di aiutare librai (e lettori) a tenersi lontani da volumi protestanti abilmente camuffati, libri che «sotto spetiosi titoli […] contengono le più volte pessime dottrine».
Il pericolo del contagio ereticale veniva anche dal mare, e la penisola italiana, con le sue migliaia di chilometri di coste, risultava particolarmente esposta. Amsterdam, Londra, Parigi: ogni giorno decine di imbarcazioni mercantili provenienti dalle capitali del commercio europeo giungevano a Livorno, a Genova e in altri porti italiani, spesso cariche di libri «nascosti con molta segretezza e gelosia nel fondo della nave». Qualche volta quei volumi vennero intercettati, sequestrati e portati nelle sedi inquisitoriali o vescovili locali; molte altre, complici controlli doganali superficiali e frettolosi, la merce proibita venne smerciata clandestinamente senza ostacoli: i porti da controllare erano molti, il numero delle navi straniere in arrivo elevato, e poco il tempo per effettuare i controlli prima che le imbarcazioni salpassero per nuove destinazioni. A dare man forte a nunzi e doganieri si aggiunse, infine, a partire dalla seconda metà del Seicento, la figura del bibliotecario. La crescente diffusione di gazzette e riviste letterarie, ricche di recensioni e notizie bibliografiche, trasformò alcuni dotti funzionari di biblioteca in complici collaboratori di Indice e Inquisizione. Oltre a segnalare i titoli più pericolosi, i più solerti tra loro si preoccuparono di acquistare i volumi, prestandoli infine ai cardinali membri delle due congregazioni affinché ne valutassero personalmente il contenuto.
Nonostante gli sforzi di questi volenterosi servitori di Roma, il sistema di controllo delle frontiere interne ed esterne della penisola rimase inevitabilmente legato alla casualità degli eventi. Gli archivi romani sono pieni di storie di libri denunciati da qualche collaboratore dell’Inquisizione imbattutosi, più o meno fortuitamente, in un testo «pericoloso», spesso in seguito alla segnalazione di un corrispondente epistolare o di un solerte informatore. L’ingranaggio messo in moto, quasi per inerzia, da quelle segnalazioni condusse in molti casi all’emanazione di un decreto di proibizione: poco importava che quel titolo fosse stato già inserito all’indice, magari più di cinquant’anni prima. A volte l’illusione di gestire un meccanismo efficiente era più importante che non l’efficacia stessa del sistema.
4. Libri al rogo
Molti libri proibiti sfuggirono al controllo delle dogane. Altri invece furono intercettati, destinati nella maggior parte dei casi a essere sequestrati o mandati al rogo. Fatta eccezione per le poche volte in cui l’opera venne esaminata e, accertata l’innocuità del suo contenuto, restituita al legittimo proprietario, l’obiettivo delle autorità ecclesiastiche fu quello di eliminare il testo dai circuiti della circolazione libraria. Entrambe le soluzioni, il sequestro e il rogo, garantivano il raggiungimento del risultato, la seconda, naturalmente, meglio della prima. Il libro sequestrato rimaneva mesi, spesso anni, all’interno di un baule o di una cella conventuale, in attesa di essere esaminato o ricollocato, tolto dalla circolazione a volte senza aver neppure subito una condanna formale. Il libro dato alle fiamme scompariva in forme più eclatanti e, senza dubbio, risolutive. In una delle pagine più suggestive del sogno evocato nel suo trattato utopistico L’An2440 (1771), il drammaturgo francese Louis-Sébastien Mercier mise in bocca al protagonista dell’opera un racconto di tragica grandiosità. Dopo aver raccolto «d’unanime consenso» i «libri […] giudicati o frivoli, o inutili o perniciosi», venne formata, nel mezzo di una grande pianura, «una piramide» alta quanto una torre, una «nuova torre di Babele», scrisse Mercier. Questo «bizzarro edificio», «composto da cinque o seicentomila commentatori, da ottocentomila volumi di giurisprudenza e di critica ingiuriosa, da cinquantamila dizionari, da centomila poemi, da seicentomila viaggi e da un miliardo di romanzi», e coronato, alla sua sommità, da un centinaio di fascicoli di «giornali», costituì una «massa spaventosa» cui venne appiccato il fuoco. Non tutte le cataste di libri preparate al centro delle piazze italiane furono «maestose» come la «torre di Babele» evocata dallo scrittore francese: a volte riguardarono «più di cinque o seimila copie di libri», altre meno di un migliaio di esemplari, altre ancora poche decine di testi. Il «bruciamento» pubblico fu però un’attività molto praticata nelle città italiane del Cinquecento, come del resto lo era stato, seppure con frequenza minore, anche nei decenni precedenti. Già nel 1415 il concilio di Costanza condannò per eresia il teologo inglese John Wyclif, decretando che tutti i suoi «libri, trattati, volumi ed opuscoli» fossero pubblicamente dati alle fiamme. Nel 1431, papa Eugenio IV proibì l’Hermaphroditus del Panormita, ordinando che le sue opere fossero bruciate sulle pubbliche piazze di Bologna, Ferrara e Milano. La costituzione Inter multiplices di Innocenzo VIII (1487) stabilì che tutti gli scritti contrari alla fede e ai buoni costumi dovessero essere «normalmente» distrutti con il fuoco. Anche il mondo protestante si illuminò della luce viva dei libri in fiamme. Uno dei momenti fondativi del luteranesimo fu proprio un rogo: nel dicembre del 1520, davanti alla porta di Elster a Wittenberg, Martin Lutero bruciò, insieme alla bolla papale di scomunica, anche il codice giustinianeo, simbolo della tradizione canonistica ecclesiastica, e altri libri cattolici. Il comune riferimento biblico, per cattolici e luterani, era un passo degli Atti degli apostoli in cui si menzionava l’antica usanza di bruciare i libri pericolosi, ricordando in particolare che gli Efesini, conquistati al messaggio evangelico dalla predicazione di Paolo, diedero spontaneamente alle fiamme i libri dei quali si erano serviti per le loro pratiche magiche (Ap, 19, 19). A quel passo biblico si ispirò anche Giovanni Calvino, argomentando che l’apostolo non si era riferito solo ai libri magici, bensì anche alle frivole e vane attività legate all’astrologia giudiziaria, molto diffusa ai tempi di san Paolo. Per tutti – cattolici, luterani o calvinisti, antichi Greci e Romani – bruciare un volume fu un modo per certificare l’abbandono delle pratiche e dei comportamenti ispirati dalle pagine in esso contenute. Distruggere materialmente un libro significò eliminare o quantomeno ridurre il pericolo di contagio, la sua capacità di infettare i fedeli.
La capacità distruttiva delle fiamme non va tuttavia sopravvalutata. Raramente il fuoco è riuscito a fermare o anche solamente a interrompere la circolazione di un libro o la tradizione di un’opera: c’è chi sostiene, con qualche buona ragione, che al massimo ne abbia fatto diventare più rare le copie, per la gioia dei bibliofili di tutti i tempi. Più che nella violenza dei numeri, l’efficacia del rogo risiedette nella sua forza simbolica. Il rogo fu un rito di purificazione al quale l’intera comunità cittadina era chiamata a prendere parte, un passaggio di espiazione individuale e collettiva attraverso il quale ritrovare la purezza perduta, ovvero, per usare le parole irridenti di Mercier, «un sacrificio espiatorio offerto alla verità, al buon senso e al vero gusto». Il rogo non fu altro che la brutale materializzazione di un obiettivo ambizioso: la cancellazione di ogni traccia dell’autore e delle sue idee dalla memoria individuale e collettiva dei fedeli. La più spettacolare manifestazione di damnatio memoriae mai concepita dall’uomo.
IV.
Roma e gli altri
1. Un’alleanza elitaria
Nella penisola italiana l’eresia nacque e si sviluppò, nei primi anni della sua diffusione, come fenomeno prevalentemente elitario. Élites di corte ed ecclesiastiche accolsero il vento nuovo che spirava dal Nord non tanto in ragione di una profonda condivisione delle dottrine luterane, quanto piuttosto nel tentativo di dare voce al diffuso anticlericalismo della società italiana, sfruttandone politicamente il risultato. Gran parte della penisola era sotto l’influenza della politica imperiale, se non sotto il diretto controllo di Carlo V. Napoli e Milano erano domini imperiali e i Medici erano legati a doppio filo all’imperatore sin da quando ricorsero all’aiuto delle sue truppe per riconquistare Firenze all’ultimo esperimento repubblicano (1530). La politica religiosa di Carlo V fu in quegli anni tutt’altro che univoca. L’obiettivo di ritrovare l’unità politica del suo impero passava per la difficile ricomposizione della frattura dottrinale originata dalla Riforma. La promozione di occasioni di incontro e dialogo tra i rappresentanti dei due fronti religiosi contrapposti fu l’asse portante di una strategia politica caratterizzata da un atteggiamento irenico e conciliante nei confronti dei protestanti. La politica dell’imperatore consentì alle élites aristocratiche e feudali di molti Stati italiani, allora sotto la diretta influenza di Carlo V, di sviluppare forme di resistenza all’autorità papale, recependo con benevolenza le dottrine d’oltralpe.
Tuttavia, lungi dall’elaborare un progetto politico – e tantomeno religioso – comune, quelle ambizioni locali rimasero isolate l’una dall’altra, prigioniere della debolezza politica e militare degli Stati italiani. La loro inconsistenza si manifestò apertamente a partire da quando, nel 1547, la condanna tridentina della dottrina luterana della giustificazione e la schiacciante vittoria militare di Carlo V contro la lega di Smalcalda a Mülhberg contribuirono a mutare significativamente il quadro politico facendo seriamente vacillare il progetto imperiale di ricomposizione dell’unità perduta, destinato a fallire definitivamente di lì a poco con la pace di Augusta (1555). Prive della copertura politica dell’imperatore, quelle istanze anticlericali e filoluterane evaporarono nel giro di poco tempo. Il graduale ma irreversibile fallimento della politica conciliatoria di Carlo V, insieme alla crescente diffusione dell’eresia tra i ceti medio-bassi della popolazione, indussero le autorità politiche degli Stati italiani a ripensare radicalmente il loro atteggiamento nei confronti di Roma. Di fronte alla prospettiva di un assoggettamento all’Inquisizione spagnola – dal 1556 Napoli e Milano si ritrovarono sotto il regno del cattolicissimo re di Spagna Filippo II – e dinanzi alla minaccia di destabilizzazione legata alla diffusione delle dottrine ereticali tra artigiani, mercanti e ciabattini, prevalse tra le élites urbane degli Stati italiani un istinto di conservazione.
Nel giro di pochi anni la comune lotta all’eresia dottrinale divenne il cemento di un’intesa tutta italiana tra potere politico e religioso. I poteri politici italiani, fragili e spesso di recente costituzione, offrirono la propria alleanza alla capitale della cristianità in cambio di una legittimazione politica che supplisse alla propria intrinseca debolezza. L’applicazione dell’indice di Paolo IV trovò poca resistenza da parte dei principi italiani e, più in generale, dei poteri secolari. Appena due mesi dopo la sua emanazione, l’inquisitore Michele Ghislieri, futuro papa Pio V, si disse soddisfatto della piena rispondenza dell’operato dei poteri pubblici di ogni Stato e città italiani alle disposizioni di Roma:
Milano esseguisce gagliardamente et ha stampato et publicato l’Indice. In Venetia il sabato delle Olive pubblicamente si brusciorno più di X et forsi XII mila volumi libri; et l’inquisitore ne fa tuttavia nuovi cumuli. Firenze è vero che è mal provista d’inquisitori ma il duca zelantissimo dà ogni favore a questo Santo Officio. Napoli co’l resto d’Italia ha prontamente obedito.
Ad eccezione di Sicilia e Sardegna, dove vigeva la giurisdizione inquisitoriale spagnola, gli altri Stati accolsero i dettami romani in materia di censura. Il Ducato di Milano, il Regno di Napoli, il Granducato di Toscana, il Ducato di Savoia, la Repubblica di Venezia e quella di Lucca, il Ducato di Mantova e il Ducato di Ferrara, dopo qualche iniziale resistenza e a prezzo di qualche compromesso, accettarono l’introduzione degli indici dei libri proibiti romani. A Milano già dal 1543 il governatore spagnolo proibì di stampare senza licenza ecclesiastica; nel 1564 furono pubblicati i decreti tridentini e il vescovo Carlo Borromeo ne curò personalmente l’applicazione, inclusa la professione di fede imposta a stampatori e librai. A Firenze, nonostante l’indebolimento dell’ufficio inquisitoriale a seguito di aspri conflitti giurisdizionali, l’intervento contro librai e stampatori non fu meno severo. Cosimo I confermò il rigore di un bando censorio emanato dieci anni prima, ordinando il 18 marzo 1559 un rogo pubblico dei libri sino a quel momento sequestrati. Alla fine di maggio, in risposta a una sollecitazione del Senato di Zurigo preoccupato per i danni recati dall’indice agli stampatori zurighesi, il duca promise di adoperarsi in difesa del libero commercio dei libri «de literarum cognitione honestisque disciplinis tractantium», ma chiarì che non si poteva pretendere che Firenze e la sua corte si allontanassero dall’ortodossia. A Napoli, fallito il tentativo del viceré Pedro de Toledo di introdurre l’Inquisizione alla spagnola nel 1547, il cardinale Alfonso Carafa, arcivescovo della città, assunse negli anni sessanta diversi provvedimenti in materia censoria, tra cui l’ordine rivolto ai librai napoletani di presentare nota dei libri posseduti in bottega, preoccupandosi anche di organizzare, nei mesi successivi alla pubblicazione dell’indice romano, più di un rogo pubblico di libri. Quando nel 1569 il vicario arcivescovile emise un proprio decreto volto a vietare le stampe prive della sua autorizzazione, il viceré lo sostenne esplicitamente, intimando a voce agli stampatori di non pubblicare «senza licentia dell’arcivescovo». Nel 1607 e 1611 l’arcivescovo Ottavio Acquaviva emanò infine una serie di editti volti a disporre la sorveglianza ecclesiastica alla dogana e l’obbligo ai librai di presentare la lista dei volumi presenti nei magazzini. Di fatto, fino al Settecento l’autorità ecclesiastica godette di totale autonomia, senza intavolare trattative con il potere secolare.
Laddove si registrarono segnali di resistenza da parte del potere politico, nel giro di pochi anni questi lasciarono il posto a una collaborazione attiva con l’Inquisizione romana e le autorità ecclesiastiche. In Piemonte, per esempio, i frequenti contrasti giurisdizionali sorti in materia di censura si risolsero tutti a favore del potere ecclesiastico. Nonostante la temerarietà di alcuni messaggi indirizzati al papa per il tramite del suo nunzio, tra cui il rifiuto di ricevere alcun inquisitore che non fosse nativo dei territori da lui governati, il duca Carlo Emanuele I arrivò a meritare gli elogi di Paolo V per il suo contributo alla lotta contro gli eretici, segno della collaborazione alla quale si era piegato. L’editto con cui a metà Seicento la reggente Maria Cristina di Francia impose la licenza di Stato accanto a quella del superiore ecclesiastico fu presto svuotato di significato dall’ordine impartito da Carlo Emanuele II a «ministri, ufficiali e sudditi» affinché fornissero «ogni aiuto, favore e braccio forte» ai padri inquisitori, in modo da arginare la circolazione di libri «eretici o proibiti» in nome della difesa dell’«integrità e purità della fede cattolica», segnando di fatto il completo asservimento del duca alla Santa Sede.
Rimaneva Venezia. La Serenissima fu lo Stato italiano che più cercò di imitare il modello delle grandi monarchie europee, mettendo le istituzioni ecclesiastiche al servizio di quelle statali e adoperandosi viceversa affinché la censura di Stato non agisse subordinatamente alle esigenze di Roma. Nel 1547 la Repubblica raggiunse un compromesso con il Sant’Uffizio romano affiancando agli inquisitori tre membri laici nominati dal Senato della città, i cosiddetti Savi sopra l’eresia, portavoce degli interessi del potere civile. Nel corso della seconda metà del Cinquecento Venezia coltivò più o meno esplicitamente le sue rivendicazioni giurisdizionalistiche nei confronti di Roma, difendendo a spada tratta il principio secondo cui spettava al Consiglio dei Dieci concedere la licenza preventiva di stampa, lasciando all’inquisitore, quantomeno sul piano formale, nulla di più che il potere di rilasciare un parere, una «fede» attestante l’assenza di motivi di carattere religioso o morale tali da impedire la pubblicazione del libro. Anche dopo la promulgazione dell’indice clementino, il governo veneziano riuscì a strappare a Roma la firma di un concordato che ribadì la centralità della giurisdizione laica accanto a quella ecclesiastica in materia di vigilanza censoria. Con la vicenda dell’Interdetto (1606) Venezia divenne il centro dell’opposizione alle ingerenze papali, affermando con maggior vigore la prevalenza della censura di Stato su quella ecclesiastica. Ciò non significava una riduzione dei controlli; essa piuttosto testimoniava di una maggiore sensibilità alle ragioni della politica e di una restrizione delle ragioni della religione entro confini puramente spirituali. Mettere la censura al servizio della reputazione dello Stato equivaleva a porre seri limiti alla circolazione di scritti dannosi per gli interessi della Repubblica e dei suoi alleati politici, di opere storiche che ricostruissero in maniera sfavorevole eventi nei quali Venezia era stata coinvolta in passato, di libri infamanti lesivi dell’onore e della reputazione di patriziati nobiliari e autorità di governo. Eppure, la scommessa veneziana di spezzare il dominio ecclesiastico sui fedeli sostituendolo con un’altra forma di dipendenza, quella tra il principe e i propri sudditi, si rivelò troppo ardita. Molte erano le divisioni interne allo stesso patriziato, non compatto di fronte alla prospettiva di ripetuti scontri con Roma, e troppo deboli le sue istituzioni per sostenere la sfida di una repubblica aristocratica di origine medievale postasi sulla via delle monarchie assolute senza avere i mezzi per costruire forme stabili di controllo e condizionamento delle menti dei sudditi, come i contemporanei teorici dell’assolutismo stavano tentando di fare. Anche a Venezia la censura di Stato finì per soccombere alle ragioni di Chiesa: si dovette attendere la seconda metà del Settecento per veder riprendere con maggiore decisione quella politica giurisdizionale che si era cercato di avviare con qualche successo oltre centocinquant’anni prima.
Per questo insieme di ragioni i ripetuti sforzi della Serenissima di affrancarsi dal potere ecclesiastico non riuscirono a scalfire l’immagine monolitica della penisola italiana restituita da molti osservatori stranieri: quella di un corpo unitario oscurato dall’ombra del pontefice, di un paese diviso territorialmente e politicamente, unito solo dalla comune egemonia culturale ecclesiastica. «In Italia», sentenziò alla metà del Seicento il poeta inglese John Milton, «non vi è una sola oncia di più di bontà, d’onestà, di saggezza, di pudore, dacché l’inquisizione si è abbattuta sui libri con tutto il suo rigore». «Questa servitù» – aggiunse – aveva «offuscato la gloria del genio italiano, in modo che niente si scriveva laggiù, da molti anni, se non adulazioni e tronfia retorica». Al netto del pregiudizio di un dotto puritano intriso di ostilità anticattolica, le parole di Milton riflettevano una percezione allora piuttosto comune. L’assenza di un’unica entità statale centrale, la presenza al contrario di tanti piccoli fragili poteri locali, crearono i presupposti per il rafforzamento del potere religioso e politico del papato. L’esito dell’incontro tra la capitale della cristianità e le tante giovani ambizioni locali incapaci di costruire un progetto politico comune fu un’alleanza cementata dalla condivisione di una cultura fortemente elitaria. Roma ottenne il pieno appoggio del potere civile alla sua azione di repressione dell’eresia e controllo della circolazione libraria; la nobiltà e il patriziato urbano degli Stati italiani ricevettero in cambio una sorta di immunità rispetto all’invadenza della censura ecclesiastica, una garanzia di difesa, una promessa di intangibilità delle condizioni di privilegio di cui godevano. Fu in nome di questa alleanza e della sua cultura elitaria che la censura ecclesiastica esercitò la sua funzione di controllo delle idee sub specie librorum principalmente verso il basso, rivolgendosi soprattutto verso i testi pubblicati in lingua volgare, più accessibili agli strati medio-bassi della popolazione, e verso superstizioni, pratiche magiche, eccessi nel culto dei santi e nelle devozioni radicati in particolar modo tra i cosiddetti «senza lettere», garantendo invece ai ceti nobiliari una serie di strumenti atti ad aggirare la ristrettezza delle norme proibitorie.
2. L’altra Europa
La ricerca di forme di alleanza tra potere politico e religioso non fu un’esclusiva della penisola italiana. Dovunque, nel continente europeo, gli Stati di antico regime percepirono l’eresia come una minaccia al loro sistema di potere, affidandosi agli strumenti di controllo della Chiesa per difendersi. Il compito delle autorità di governo fu prima di tutto quello di assicurare il mantenimento dello status quo; i sudditi, che erano allo stesso tempo i fedeli, vennero strettamente sorvegliati, controllati e formati nella fedeltà al potere. Ogni contestazione, religiosa o politica, venne percepita come un tradimento destinato a mettere in pericolo la coesione sociale. Diversi, rispetto alla penisola italiana, furono però i rapporti di forza e le dinamiche interne a queste alleanze, come diversi furono anche gli esiti culturali e sociali della loro azione. Il fondamento di tali intese fu una distinzione di competenze e di sfere giurisdizionali tra potere politico e autorità ecclesiastica, decisamente più netta che non nella realtà italiana. L’attività di censura fu ben più chiaramente ispirata a quell’«ordine legittimo» la cui assenza Fulgenzio Micanzio lamentò persino nella sua Venezia: un’autorità politica incaricata di regolamentare la circolazione di libri minacciosi per la propria autorità, ben distinta da un potere religioso occupato a sorvegliare il commercio di volumi pericolosi per la dottrina di cui esso era depositario. I rapporti di forza furono esattamente rovesciati rispetto a quelli stabilitisi in territorio italiano. Laddove le istituzioni monarchiche favorirono la formazione dei grandi Stati nazionali, come in Francia o in Spagna, le autorità ecclesiastiche si trovarono di fronte a un potere centrale unitario e compatto, intento a creare Chiese a loro fedeli. In caso di contrasto o sovrapposizione giurisdizionale, a differenza di quanto accadde nella penisola italiana, fu generalmente il potere politico a prevalere. In Francia, per esempio, il potere monarchico perseguì, anche attraverso le armi della censura, l’obiettivo di assicurare l’ordine e la prosperità all’interno e il prestigio del governo all’esterno del Regno, mentre la Chiesa francese agì nell’interesse della difesa dei dogmi cattolici, perseguendo come unico obiettivo il trionfo di una fede cattolica rinnovata, interiorizzata, e purificata dalle superstizioni. Geloso difensore del diritto divino del proprio potere, il re di Francia sostenne la Chiesa e ne cercò il sostegno. Da parte sua la Chiesa francese, orgogliosa della sua tradizione gallicana, appoggiò pienamente il re di Francia, trovando nella sua protezione un solido argine alle ingerenze della Santa Sede. Non mancarono contrasti giurisdizionali tra potere politico e religioso, anche in materia di censura; fatta eccezione per i primi decenni del Cinquecento, però, questi si risolsero spesso a favore della monarchia francese, la quale, a partire dalla metà del secolo, affermò un potere quasi esclusivo nel controllo sui libri.
Tra il 1521, data della prima condanna degli scritti di Martin Lutero da parte della Facoltà di teologia di Parigi, e l’inizio delle guerre di religione, la Sorbona fece la parte del leone. Furono i teologi parigini a determinare la politica censoria francese, avvalendosi della stretta collaborazione del Parlamento quale braccio esecutivo delle proprie decisioni. Inizialmente il re Francesco I provò a opporre una qualche resistenza al loro predominio, anche in considerazione del coinvolgimento di sua sorella Margherita di Navarra, autrice dello Specchio dell’anima peccatrice (1531), testo censurato dalla Sorbona, nei circoli evangelici francesi creatisi intorno all’esperienza del vescovo di Meaux Guillaume Briçonnet e dell’umanista Jacques Lefevre d’Etaples. L’affaire des placards del 1534, un clamoroso episodio di propaganda riformata, convinse tuttavia il monarca francese ad abbandonare ogni ritrosia avallando in tutto e per tutto la politica dei teologi parigini. La Sorbona emanò così nel 1543 i suoi venticinque articoli di fede e pubblicò negli anni seguenti ben cinque cataloghi di libri proibiti. Il culmine della collaborazione tra re, Parlamento e Facoltà di teologia si registrò nel 1551 con l’editto di Châteaubriant: quarantasei articoli di cui quattordici specificamente dedicati alla censura libraria, con cui il re proibì a tipografi e librai di stampare o vendere i titoli inseriti nel catalogo di libri proibiti emanato dalla Facoltà di teologia; impose loro anche di ottenere il permesso della Facoltà prima di stampare un libro e di esporre nelle loro librerie il catalogo dei libri proibiti e la lista di tutti i libri in vendita nella propria bottega; infine incaricò delegati della Facoltà di ispezionare due volte all’anno tutte le librerie sotto la loro giurisdizione. Con la morte di Enrico II (1559) e l’inizio delle guerre di religione quell’equilibrio invece si ruppe. La monarchia iniziò a occuparsi sempre più in prima persona delle misure censorie: gli editti regi e le lettere patenti degli anni sessanta testimoniano il tentativo sempre più marcato di attribuire un diritto esclusivo in materia di censura al cancelliere del re, affidando a lui solamente il diritto di accordare privilegi di stampa (1563) e nominare come censori incaricati di svolgere quel compito tre stampatori di sua fiducia (1583) e, successivamente, quattro dottori in teologia di provata fedeltà regia, fino a quel momento scelti dalla Sorbona, preposti all’esame dei libri di teologia (1623). A partire dal 1633 il cancelliere Pierre Séguier applicò scrupolosamente questa normativa, erodendo sempre più il potere della Facoltà di teologia. La Sorbona passò progressivamente sotto il controllo regio e l’Assemblea generale del clero si trovò sempre più isolata nella difesa delle prerogative ecclesiastiche. La prima continuò a esaminare le opere che trattavano di religione per scovare tracce di protestantesimo, giansenismo e altre eresie, o dottrine pericolose per il bene e l’onore del clero come quelle che criticavano il potere episcopale o quelle che minacciavano le libertà della Chiesa gallicana ed erano troppo ultramontane, o ancora le dottrine sospette di molinismo e lassismo morale. Ma nella grande maggioranza dei casi fu la censura regale ad avere l’ultima parola. Le censure ecclesiastiche ebbero effetto solo quando trovarono il sostegno della monarchia, quando cioè non furono d’intralcio agli obiettivi perseguiti dalla censura di Stato: il rafforzamento del potere monarchico e della sua reputazione, all’interno come all’esterno del paese, e la priorità accordata alle esigenze diplomatiche, compresi eventuali accordi con potenze non cattoliche delle quali non si voleva urtare la suscettibilità.
Anche in Spagna la censura politica informata alla ragion di Stato ebbe maggiore cittadinanza di quanta non ne ricevette nella penisola italiana. La Spagna era una monarchia tra le più potenti d’Europa. Un organo civile, il Consiglio di Castiglia, il principale tra tanti consigli che coadiuvavano l’azione politica del monarca, ricevette da questi l’incarico di esaminare preventivamente ogni manoscritto prima della stampa. Una prammatica regia del 1502, ribadita e meglio articolata nel 1558, stabilì l’obbligo di ottenere una licenza regia prima di stampare. Il Sant’Uffizio spagnolo venne incaricato invece di sorvegliare la circolazione dei libri. In linea teorica, la divisione di compiti era netta: al Consiglio di Castiglia la censura preventiva, al Sant’Uffizio quella a posteriori. Nella prassi, invece, il Consiglio di Castiglia finì presto per occuparsi anche di censura a posteriori, limitando il Sant’Uffizio al controllo della circolazione di opere di argomento strettamente religioso. Il Consiglio di Castiglia arginò la tentazione del Sant’Uffizio di estendere la categoria di eresia dottrinale fino a includere nella propria sfera di competenza opere letterarie, scientifiche, mediche, politiche, come accaduto nella penisola italiana: rispetto al Sant’Uffizio romano, l’Inquisizione spagnola fu non a caso meno incline a intervenire in materie extra fidem, ovvero al di fuori dell’ambito dell’eresia e dell’errore dottrinale. In caso di contrasto giurisdizionale, ciascun organo – il Consiglio di Castiglia e il Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione – rimase aggrappato alla difesa delle proprie prerogative; tuttavia, il rapporto tra potere civile e potere ecclesiastico, ovvero tra censura politica e censura religiosa, tra ragion di Stato e ragion di Chiesa, risultò spesso sbilanciato in favore dei primi: non a caso molti ecclesiastici svolsero la funzione di censori al servizio del Consiglio di Castiglia, di una censura la cui natura eminentemente politica era evidente a tutti, e non viceversa. Grazie al controllo preventivo dei manoscritti, ma anche attraverso la sua attività censoria a posteriori, il Consiglio di Castiglia favorì l’affermazione di un criterio di «utilità» del libro molto diverso da quello impostosi nella penisola italiana. Laddove per la censura romana l’utilità di uno scritto coincideva con l’accrescimento della fede del lettore, in Spagna l’utilità pubblica di un’opera venne declinata, a seconda delle circostanze, in ragione del potenziale giovamento arrecato all’intera comunità o a una parte di essa, anche solo nei termini del godimento atteso da parte dei lettori, oppure come difesa delle prerogative regie e della reputazione della monarchia.
Una netta preminenza della censura di Stato su quella ecclesiastica si registrò, nel resto d’Europa, anche nei casi in cui il potere politico incarnò ideali radicalmente opposti al modello monarchico. È il caso dell’Olanda del Seicento, oggetto negli ultimi decenni di interpretazioni storiografiche differenti, identificata alternativamente come la terra della libertà di stampa in cui «legalmente il libro venne costretto in molti modi, in pratica però godette di una totale libertà», o viceversa come il paese in cui, dopo la nascita della Repubblica olandese (1581), la censura preventiva divenne persino più rigorosa e dura di quella stabilita dai precedenti editti di proibizione regi. Al di là di tali divergenti letture, gli storici concordano però sul fatto che le priorità e gli obiettivi della censura olandese furono di natura squisitamente politica, prima tra tutte la preoccupazione per la circolazione di scritti potenzialmente dannosi per i governanti o per le potenze straniere loro alleate, come Inghilterra e Francia. Nel 1581 Guglielmo d’Orange emanò un editto per proibire tutti i «libri offensivi, sediziosi e scandalosi, gli avvisi, canzoni, ed altro, che possono indurre gli uomini ignoranti e inesperti nonché l’uomo comune a cattive interpretazioni, a rivolte e atti di sedizione»: se la prima versione del testo contemplò anche la proibizione dei libri «ostili alla religione cristiana», significativamente la versione finale concentrò la sua attenzione esclusivamente sui pamphlet politici. Un successivo editto del 1608 proibì gli scritti che mettevano a rischio le negoziazioni per la pace raggiunta poi l’anno seguente, la cosiddetta tregua dei Dodici anni; nel 1649, all’indomani della decapitazione di Carlo I d’Inghilterra, venne bloccata la circolazione di tutti gli scritti sull’argomento, giustificando tale decisione con la scelta del governo di non prendere posizione in merito. Altri provvedimenti colpirono la pirateria di documenti ufficiali al fine di evitare che una selezione maliziosa di quelle carte, magari accompagnata da un commento tendenzioso, potesse causare un disordine domestico o internazionale. Per ragioni simili furono proibiti documenti che ridicolizzavano figure olandesi di spicco o principi stranieri amici della Repubblica. Facendo seguito alle vigorose proteste di Parigi, infine, vennero messi sotto controllo i giornali pubblicati da esuli protestanti francesi alla fine del Seicento, illegalmente smerciati in Francia attraverso i confini olandesi.
Tre cene, la Pàvana social club del nuovo libro di Francesco Guccini
Francesco Guccini torna in libreria con Tre cene, un libro inaspettato, una raccolta di tre racconti che attraversano il Novecento in tre momenti esemplari: una cena degli anni Trenta, una negli anni Settanta del secolo appena passato e una ambientata ai giorni nostri, che in realtà è un pranzo ma che alla prima si richiama nel finale, dando al libro una circolarità perfetta che lo rende unico.
La cena mette in scena la povertà degli anni d’anteguerra, Il ritorno è animato dalle speranze dopo il Sessantotto e L’eclissi parla delle disillusioni dei nostri anni: cambiano i valori e i punti di vista, gli stili di vita e le abitudini ma non il desiderio e la celebrazione della festa.
Tre compagnie di amici si avvicendano, nei luoghi dell’Appennino intorno a Pàvana, con le loro aspirazioni, i loro scherzi, le loro perfidie, le loro sbronze ma rimane unica la “Pàvana Social Club“, dove il vino anziché il rum, con la sua irrisoria e consolatoria allegria, diventa il motore narrativo. E bagna quei mitici piatti della tradizione che ancora oggi sono i protagonisti di quelle feste dell’Appennino: fra tutti, la porchetta, i maccheroni sul Papero e i crostini con i fegatini di pollo.
Ancora una volta Guccini ci racconta con ironia com’è cambiata l’Italia, dove le differenze sociali via via si riducono e le donne diventano più protagoniste, ma sempre mettendo in risalto quei bizzarri eroi della sua epica del disincanto.
Guccini racconta tre storie ma è come se raccontasse tre favole, dove però la morale alla fine di ciascuno è sospesa. Quello che più conta sono i personaggi che via via Guccini presenta, dedicando a ciascuno un ritratto ironico, a tratti crudele ma mai impietoso. Sono alla fine dei personaggi indimenticabili, così come lo erano quelli delle sue canzoni: lo scrittore è capace di creare con pochi tratti di penna identità, situazioni e atmosfere profondamente reali, in cui perdersi o ritrovarsi.
Siamo così trasportati nel mondo in cui Francesco si trova più a suo agio, quello di una sua famosa canzone, Farewell: “Tra gli amici che ridono e suonano attorno ai tavoli pieni di vino”. Non sono racconti autobiografici, ma luoghi e personaggi ricordano situazioni realmente accadute, rielaborate poi dalla sua fervida fantasia: personaggi messi in scena come sul proscenio di un teatro, illuminati da fascio potente di luce, con dialoghi molto espressivi e battute salaci che a volte sono veri e propri colpi di frusta, altre lasciano intendere piccanti sottintesi.
Con il suo libro d’esordio narrativo degli anni Ottanta (Croniche epafaniche) e col suo ultimo (Tralummescuro) edito da Giunti, Tre cene disegna una sorta di trilogia di Pàvana, il paese dell’Appennino fra Toscana ed Emilia che Guccini al pari di altri grandi esempi letterari (dalla “Macondo” di Garcia Marquez alla “Malo” di Meneghello) ha reso un immortale specchio del cambiamento esistenziale.
Tuttavia in Tre cene Guccini ha scelto di usare un italiano colorato solo a tratti da qualche inflessione dialettale: non ritroviamo perciò le espressioni in pavanese degli altri due, né quel velo di tristezza per un mondo che si è perso per sempre che anima quei due libri. In questi tre racconti quel mondo che non c’è più si popola invece di personaggi bizzarri e divertenti, in una sorta di commedia umana che non cessa di divertirci ma anche di farci riflettere, specie nei tre finali dei racconti nei quali una sospensione quasi metafisica dà l’impressione al lettore che tutto quanto è stato narrato lo riguardi da vicino e lo riguarderà per sempre, al di là di ogni epoca e situazione contingente.
«Non aspettatevi grandi avvenimenti dalle cose che andrò raccontando, fulminanti colpi di scena come agnizioni improvvise o finali drammatici o misteri iniziali che poi, a poco a poco, logicamente sgretolati dalle deduzioni di un abile investigatore, si dipanano e si mostrano in tutta la loro enigmatica chiarezza»: così ci avverte Francesco Guccini, in apertura del primo dei tre racconti che compongono questo libro. «È semplicemente la storia di una cena, e di alcuni amici; una storia di quelle quasi come le favole che ci raccontavano da piccoli, già sentita tante volte ma che amavamo ci raccontassero ancora e ancora, per il solo piacere di stare lì ad ascoltare…» E così, accompagnati dalla sua voce, seguiamo gli amici protagonisti in una notte d’inverno, mentre la neve cade, fino alla prima delle locande dove trascorreranno una notte di buon cibo e molto vino, di risate e un po’ d’amore; una di quelle notti in cui l’amicizia e la sazietà aiutano a non ascoltare i presagi della vita che corre. Questa prima cena ha luogo prima dell’ultima guerra nell’Appennino tra Bologna e Pistoia, la successiva ci racconta lo stesso mondo quarant’anni dopo, l’ultima – che non è invero una cena, bensì un pranzo di mezza estate che si protrae fino a un grande falò notturno – si svolge nel giorno di un’eclissi di sole. Dai poveri anni Trenta alla disillusa fine del Novecento, passando dalle speranze dei Settanta, nelle tre compagnie di amici che si avvicendano, nei loro scherzi, nelle loro sbronze, nei cibi che scelgono di mangiare ritroviamo il sapore del nostro passato e rileggiamo noi stessi con divertimento e malinconia. Francesco Guccini inanella tre storie che diventano una sola e dà vita a nuovi, memorabili, bizzarri eroi della sua epica del tempo perduto.
Sandra Bonsanti – Stanotte dormirai nel letto del re
-Editore Archinto-Milano-
Dal libro di Sandra Bonsanti-«Il compito di matematica lo si fa con l’ingegner Gadda (per vederselo bocciato dall’insegnante). E si cresce all’ombra, anzi è meglio dire alla presenza di Eugenio Montale, di Luigi Dallapiccola, di Giorgio Bassani, mentre il ricordo di Nello Rosselli è vivo nelle conversazioni a tavola e nelle passeggiate con il padre e la madre. E l’elenco delle persone che hanno frequentato casa Bonsanti a Firenze – casa intesa come luogo fisico ma anche come metafora, perché ne faceva parte pure il Gabinetto Vieusseux – e che sono raccontate in questo libro potrebbe continuare a lungo.». «Il libro racconta, in realtà, il Novecento, il secolo in cui il Male si manifesta nella sua estrema radicalità. E centrale è la storia di un falò. Il padre dell’autrice getta nel fuoco carte e libri, subito dopo l’8 settembre, perché la casa sta per essere perquisita dai nazisti. In quella immagine c’è la tragedia intesa come l’ineluttabilità del destino: i roghi iniziati nel 1933 nella Germania si propagano con l’avanzare dei tedeschi in Europa e fino ad assumere la dimensione familiare, in casa Bonsanti.» (Wlodek Goldkorn)
Figlia di Alessandro Bonsanti ex sindaco repubblicano di Firenze, sposata con lo storico, scrittore e senatore repubblicano Giovanni Ferrara, ha tre figlie. Dopo essersi laureata a Firenze, ha vissuto per diversi anni a New York.
Nel 1994 è stata eletta alla Camera dei deputati per la coalizione dei Progressisti nel collegio uninominale di Firenze 2 con oltre il 53% dei voti. Durante la XII Legislatura è stata membro della commissione parlamentare antimafia.
Nel 1996 ha rinunciato a ricandidarsi alle elezioni per assumere la direzione del quotidiano Il Tirreno[1][2].
Dal 2002 al 2015 è stata presidente di Libertà e Giustizia; in seguito, è componente del Consiglio di Presidenza sotto le successive presidenze di Alberto Vannucci, Nadia Urbinati e Tomaso Montanari.
Caschetto nero, naso appuntito, morbide spalle, fianchi che sa come agitare per meglio incantare il suo pubblico: tutto questo è Kiki, cantante, ballerina, modella; Kiki dall’eleganza ferina di un cervo; Kiki trasportata dalla gioia. Kiki, stella delle notti di Montparnasse, sulla Rive Gauche della Parigi degli anni Venti, una città la cui luce, negli anni fra le due guerre, brilla tanto da accecare. Ma Kiki, nata Alice Ernestine Prin, figlia illegittima dalle origini povere e oscure, è anche qualcos’altro per la platea bohémienne che assiste a quegli spettacoli: la compagna e musa di uno dei piú dirompenti artisti dell’epoca, Man Ray. S’incontrano in un caffè, nel 1921. Kiki è esuberante e provocatoria, a quel tempo la preferita da pittori come Calder e Modigliani; Man Ray è guardingo, taciturno, capace di pronunciare in francese solo poche frasi. Ma tanto basta a far scoppiare la passione: è l’inizio di una relazione romantica e artistica che non ha pari fra i contemporanei. Kiki è al suo fianco durante tante avventure creative che costruiranno la fama di Man Ray per la posterità, dal Violon d’Ingres a Noire et blanche, e questo è tutto ciò che il mondo ricorda di lei. Ma la verità, dispiegata per noi in queste pagine da Mark Braude, è che Kiki fu molto di piú. Non soltanto musa, modella e cantante, capace con la sua voce di consolare gli afflitti ubriachi nelle notti vellutate di Parigi, ma anche artista magnetica e irresistibile, pittrice dalla creatività esplosiva, che attirava le folle durante le proprie esposizioni, attrice nei primi film surrealisti, il cui memoir, corredato da un’introduzione di Ernest Hemingway, finí sulle prime pagine di tutti i quotidiani francesi. Una figura imprendibile, con cui la storia è stata ingenerosa. Con questa biografia, che è stata definita «un gioiello anni Venti» (Air Mail), «tanto irresistibile quanto dovuta» (Chicago Review of Books) e «di grande spessore storico» (National Book Review), Braude mescola ricerca accurata a una prosa brillante e poetica, dispiegando il racconto di una vita eccezionale che sfida tutti i nostri preconcetti sugli artisti e le loro muse e mettendo in discussione il confine, spesso poroso, fra i due.
Beat Edizioni-info@beatedizioni.it
RECENSIONI
«L’esuberante biografia di Braude ribilancia i pesi nella storia della Rive Gauche parigina, storia nella quale Kiki – modella e musa – viene considerata troppe volte soltanto un personaggio secondario». The New York Times
«Con una prosa vibrante, ammaliante quanto la sua stessa protagonista, questa avvincente biografia restituisce a Kiki il suo posto legittimo: quello di fulcro, di stella irradiante di Montparnasse». Toronto Star
«Un’inebriante scorribanda fra le gallerie e i nightclub della Francia fra le due guerre». Vogue
«Un libro irresistibile, come irresistibile fu Kiki». Jim Jarmusch
Lorenzo Iervolino-GIANNI RODARI-Vita, utopie e militanza di un maestro ribelle –
-Red Star Press editore-Roma
Descrizione- Gianni Rodari-Piemontese di nascita, lombardo di adozione, Giovanni Francesco Rodari, detto Gianni, non è “solo” l’autore di un’opera vastissima e variegata, capace di rivoluzionare i parametri della letteratura rivolta ai più piccoli fino a restare impressa nell’immaginario collettivo di intere generazioni. Ma se libri come Favole al telefono o Grammatica della fantasia sono entrate a far parte del patrimonio culturale internazionale, lo scrittore Gianni Rodari fu pur sempre anche studente seminariale, maestro elementare, militante comunista, partigiano e giornalista e, oltre che pedagogo e poeta, anche marito e padre.
In questa biografia, autentico viaggio nella vita di Gianni Rodari, Lorenzo Iervolino, con l’ausilio delle dichiarazioni di Rodari e le testimonianze di prima mano dei suoi amici e colleghi, compone un racconto corale e appassionante della straordinaria esistenza di un maestro ribelle. Un intellettuale che, piuttosto che scrittore di libri, amava definirsi un fabbricante di giocattoli.
Red Star Press-Editore Viale di Tor Marancia civ 76- Cap -00147 Roma, Italia
Nacque il 23 ottobre 1920 a Omegna, sul lago d’Orta, da Giuseppe Rodari (1890-1929), fornaio che possedeva il negozio in via Mazzini, via principale di Omegna, sposato in seconde nozze con Maddalena Aricocchi (1898-1963), commessa nella bottega paterna. Poiché i genitori stavano in negozio, venne seguito nel corso della sua infanzia da una balia di Pettenasco. A Omegna frequentò le prime quattro classi elementari, ma poi, in seguito alla morte del padre per broncopolmonite avvenuta nel 1929, all’età di nove anni si trasferì a Gavirate (VA), paese natale della madre, insieme con il fratello Cesare (1921-1982).[2]
In seguito, la madre cedette l’attività del marito al fratellastro di Gianni, Mario (1908-1966), nato dalle prime nozze del padre. Nel 1931 la madre lo fece entrare nel seminariocattolico di San Pietro Martire di Seveso (MI), ma comprese ben presto che non era la strada giusta per il figlio, quindi nel 1934 lo iscrisse alle magistrali.
Nel 1937 Rodari si diplomò come maestro presso Gavirate. Nel 1938 fece il precettore a Sesto Calende, presso una famiglia di ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania. Nel 1939 si iscrisse alla facoltà di lingue dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, abbandonando però i corsi dopo pochi esami. Insegnò in seguito a Brusimpiano, Ranco e Cardana di Besozzo. Come egli stesso raccontò, la sua scuola non fu grandiosa a causa della sua giovane età; tuttavia, si rese conto che fu una scuola divertente dove i bambini utilizzavano la fantasia addirittura per aiutarlo a correggere le sue stesse opere: questa, insieme a molte altre, fu una delle caratteristiche basilari di Rodari, che lo faranno sempre riconoscere per la sua originalità.
Dopo il 25 aprile 1945, iniziò la carriera giornalistica in Lombardia, dapprima con il giornaletto ciclostilato Cinque punte, poi dirigendo L’Ordine Nuovo, periodico della Federazione Comunista di Varese. Nel frattempo, pubblicò alcune trascrizioni di leggende popolari e alcuni racconti anche con lo pseudonimo di Francesco Aricocchi. Nel 1947 approdò a l’Unità di Milano, su cui, due anni dopo, iniziò a curare la rubrica La domenica dei piccoli.
In piena guerra fredda, nel 1951, la pubblicazione del suo primo libro pedagogico Il manuale del Pioniere provocò aspre reazioni da parte della stampa cattolica, tanto che le parrocchie arrivavano a bruciare nei cortili il Pioniere e i suoi libri.[4] Il 25 aprile 1953 sposò la modenese Maria Teresa Ferretti, segretaria del Gruppo Parlamentare del Fronte Democratico Popolare, ed ebbe da lei una figlia Paola nel 1957. Il 13 dicembre 1953 fondò Avanguardia, giornale nazionale della FGCI. Chiusa l’esperienza nel 1956, tornò, chiamato da Pietro Ingrao, all’Unità, dal settembre del 1956 al dicembre del 1958.
Dal 1954, per una quindicina d’anni, collaborò anche a numerose altre pubblicazioni: scrisse articoli su quotidiani e periodici e curò libri e rubriche per ragazzi. Tuttavia, entrò nell’Albo dei giornalisti solo nel 1957. Dal 1º dicembre 1958 passò a Paese Sera come inviato speciale e nello stesso periodo iniziò a collaborare con Rai e BBC, come autore del programma televisivo per l’infanzia Giocagiò. Dal 1966 al 1969 Rodari non pubblicò libri, limitandosi ad un’intensa attività di collaborazioni per quanto riguarda il lavoro con i bambini. È questo un periodo molto duro per lui, soprattutto a causa delle non ottimali condizioni fisiche e della gran mole di lavoro.[5]
Gianni Rodari collaborò tra il 1967 e il 1968 con articoli, poesie e filastrocche alla rivista Pioniere Noi Donne.[6]
Bruno Munari e Altan hanno disegnato numerose copertine e illustrazioni per i libri di Gianni Rodari.[7][8][9]
Nel 1973 uscì il suo lavoro pedagogico più celebre: Grammatica della fantasia, saggio indirizzato a insegnanti, genitori e animatori, nonché frutto di anni di lavoro passati a relazionarsi con il campo della “fantastica”. Con il celebre pseudonimo di Benelux, teneva su Paese Sera una rubrica-corsivo quotidiana molto seguita.[11] Si recò più volte in Unione Sovietica, dove i suoi libri erano diffusi in tutte le scuole delle repubbliche. Intraprese viaggi anche in Cina e in Bulgaria.[12]
Fino all’inizio del 1980 continuò le collaborazioni giornalistiche e partecipò a molte conferenze e incontri nelle scuole italiane con insegnanti, genitori, alunni e gruppi teatrali per ragazzi. Suoi testi pacifisti sono stati musicati da Sergio Endrigo e da altri cantautori italiani.
Il 10 aprile 1980 venne ricoverato in una clinica a Roma per potersi sottoporre ad un intervento chirurgico alla gamba sinistra, data l’occlusione di una vena; morì quattro giorni dopo, il 14 aprile, per shock cardiogeno, all’età di 59 anni.
Dal 1980 (anno della sua morte) sono state scritte decine di opere che parlano di Gianni Rodari, ed esistono anche centinaia di parchi, circoli, biblioteche, ludoteche, strade, e scuole materne ed elementari intitolate a lui. Il “Parco Rodari” più importante si trova ad Omegna, suo paese natale, mentre a Roma gli è stata intitolata la biblioteca comunale del Municipio Roma VII a Tor Tre Teste.[16]
Nel 2010, 90º anniversario della nascita, 40º anniversario del ricevimento del Premio Andersen e 30º anniversario della morte, in Italia e all’estero, sono state realizzate numerosissime iniziative per ricordarlo; tra esse le nuove ristampe per l’occasione.
Sebbene molte vie e piazze siano state a lui dedicate, la principale “piazza Gianni Rodari” sorge proprio a Omegna, davanti all’omonimo “Parco della Fantasia” sopraccitato.[17]
La Grammatica della fantasia è, come dice il sottotitolo, un’”introduzione all’arte di inventare storie”. È l’unico volume dello scrittore di Omegna non appartenente al genere narrativo, ma dal contenuto teorico.
Nasce ufficialmente a Reggio Emilia, dalla paziente trascrizione a macchina da parte di una stagista di alcuni appunti rimasti a lungo dimenticati. Gli appunti in questione, scritti intorno agli anni quaranta, facevano parte della raccolta del Quaderno della fantasia. Vennero recuperati in seguito ad un comizio che si terrà proprio nella città emiliana dal 6 al 10 marzo 1972.
L’opera si sviluppa in 45 capitoli e si potrebbe affermare che la stragrande maggioranza dei temi e degli episodi della poliedrica attività di scrittore e di studioso di Gianni Rodari sopra citati nella biografia siano ripresi anche nel corso delle argomentazioni e degli esempi che le accompagnano.
Opere
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Barbara O’Brien–Operatori e Cose-Confessioni di una schizofrenica-
-ADELPHI EDIZIONI-
Con una Postfazione di Michael Maccoby Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini
Descrizine del libro di Barbara O’Brien-Immaginate di svegliarvi una mattina come le altre e vedere ai piedi del vostro letto tre figure spettrali, ma terribilmente vere – un ragazzino con un sorriso stampato sul volto, un uomo anziano dall’aria autorevole, che ispira fiducia, uno strano individuo con lunghi capelli dritti e neri, lineamenti femminei e un’espressione arrogante. E immaginate, da quel giorno in poi, di non poter più pensare liberamente, di diventare le cavie di un oscuro esperimento e non poter fare altro che eseguire i loro ordini. È quello che è accaduto a Barbara O’Brien, pseudonimo di una giovane donna che alla fine degli anni Cinquanta ha pubblicato questo libro: una delle più straordinarie testimonianze dall’interno di un delirio schizofrenico durato sei mesi, da cui miracolosamente, e con le sue sole forze, è riuscita a liberarsi. Ma chi sono quelle figure che ha visto materializzarsi nella sua stanza, e cosa vogliono da lei? Sono gli «Operatori», occhiuti guardiani che nel suo universo paranoide studiano, sorvegliano, escogitano sempre nuovi modi per esercitare potere sulle loro vittime, le «Cose», a cui non resta che guardare e aspettare. Eppure, usciti insieme a lei dalla cronaca del suo delirio, ci sembra di avvertire una strana affinità fra l’operare di quelle feroci e persecutorie presenze e la struttura stessa su cui si regge il mondo chiamato «normale».
Barbara O’Brien
Operatori e Cose
Confessioni di una schizofrenica
In copertina
Michaël Borremans, Gli allievi (2001). Fotografia di Peter Cox. courtesy zeno x gallery, antwerp
Con una Postfazione di Michael Maccoby, Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, Fabula, 374 2021, pp. 251 isbn: 9788845936173 Temi: Letteratura nordamericana
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
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recensione di Leone Ginzburg scritta per la Rivista PEGASO n°10 1932 diretta da Ugo Ojetti
ISAAC BABEL -Scrittore russo (n. Odessa 1894 – m. 1940), autore di bozzetti e racconti – giustamente chiamati miniature – che ritraggono gli avvenimenti della lotta rivoluzionaria (Konnarmija “L’armata a cavallo”, 1926), a cui B. stesso partecipò nell’armata di Budënnyj e che ci descrive in prima persona, oppure la vita e la graduale scomparsa della piccola borghesia ebraica di Odessa (Odesskie rasskazy “Racconti di Odessa”, 1931; Istorija moej golubiatni “Storia della mia colombaia”). È autore inoltre di due drammi: Zakat (“Il tramonto”, 1928) e Marija (“Maria”, 1935). Vittima delle epurazioni staliniane, fu arrestato nel 1939 e non si ebbero più notizie di lui; nel 1956 la sua memoria fu ufficialnente riabilitata.
ISAAC BABEL-Biografia da Enciclopedia TRECCANI
Babel´ ⟨bàb’il’⟩, Isaak Emmanuilovič. – Scrittore russo (n. Odessa 1894 – m. 1940), autore di bozzetti e racconti – giustamente chiamati miniature – che ritraggono gli avvenimenti della lotta rivoluzionaria (Konnarmija “L’armata a cavallo”, 1926), a cui B. stesso partecipò nell’armata di Budënnyj e che ci descrive in prima persona, oppure la vita e la graduale scomparsa della piccola borghesia ebraica di Odessa (Odesskie rasskazy “Racconti di Odessa”, 1931; Istorija moej golubiatni “Storia della mia colombaia”). È autore inoltre di due drammi: Zakat (“Il tramonto”, 1928) e Marija (“Maria”, 1935). Vittima delle epurazioni staliniane, fu arrestato nel 1939 e non si ebbero più notizie di lui; nel 1956 la sua memoria fu ufficialnente riabilitata.
Leone Ginzburg- Nacque a Odessa dagli ebrei Fëdor Nikolaevič Ginzburg e Vera Griliches.Era l’ultimo di tre fratelli: lo precedevano Marussa (1896) e Nicola (1899). Era in realtà figlio naturale dell’italiano Renzo Segré, con cui la madre aveva avuto una fugace relazione mentre si trovava in villeggiatura a Viareggio; Fëdor lo aveva però riconosciuto come suo e Leone stesso lo considerò sempre come il proprio padre. Figura importantissima nell’infanzia di Leone fu l’italiana Maria Segré (sorella del suo padre naturale) che sin dal 1902 viveva presso la famiglia in qualità di istruttrice. Insegnò ai tre fratelli il francese e l’italiano e fu lei a creare i rapporti tra i Ginzburg e l’Italia. Leone fu per la prima volta in Italia nel 1910, quando trascorse le vacanze a Viareggio con la madre e i fratelli. Questa consuetudine si ripeté anche negli anni successivi sino allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914: in quell’occasione la madre e i fratelli maggiori tornarono a Odessa mentre il figlio minore, per evitargli un pericoloso viaggio in mare, rimase nella Penisola con la Segré che divenne per lui quasi una seconda madre. Il giovane Ginzburg visse in Italia per tutta la durata del conflitto, dividendosi tra Roma e Viareggio. Frattanto, passati attraverso la Rivoluzione di ottobre, i parenti rimasti in Russia si trovavano in difficoltà: nonostante avessero sostenuto la rivolta, i Ginzburg dovevano soffrire nuove pesanti limitazioni. Il primo a lasciare Odessa, nel 1919, fu Nicola il quale, temendo il richiamo alle armi, si trasferì a Torino dove si iscrisse al Politecnico. L’anno successivo tutta la famiglia si era stabilita a Torino e fu raggiunta da Leone che si iscrisse alla seconda classe del “Liceo Classico Vincenzo Gioberti”. Nel 1921 i Ginzburg si spostarono ancora una volta: furono a Berlino dove il padre aveva avviato una nuova società commerciale assieme a un amico. Leone dovette quindi riprendere la lingua russa e fu iscritto alla scuola russa della città dove proseguì gli studi ginnasiali. Nell’autunno 1923, mentre il padre restava in Germania per lavoro, la famiglia si riportò a Torino e qui Leone preparò, nel 1924, l’esame ginnasiale. Tra il 1924 e il 1927 concluse gli studi classici frequentando il liceo Massimo d’Azeglio. Fu studioso e docente di letteratura russa, partecipò allo storico gruppo di intellettuali di area socialista e radical-liberale (tra gli altri, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Elio Vittorini, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli) che collaborarono alla nascita a Torino della casa editrice Einaudi. In campo politico fu un federalista convinto, attivo antifascista, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana nel 1931 aderì al movimento “Giustizia e Libertà”. Fu per questo arrestato il 13 marzo 1934 in seguito alle ammissioni dell’antifascista giellino Sion Segre, arrestato con Mario Levi l’11 marzo, e su segnalazione del chimico francese René Odin, informatore dell’OVRA. Condannato a quattro anni di carcere, con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, beneficiò di due anni di condono condizionale. Rilasciato nel 1936, proseguì la sua attività letteraria e di antifascista. Nel 1938 sposò Natalia Levi (meglio nota come Natalia Ginzburg), dalla quale ebbe due figli e una figlia: Carlo Ginzburg, poi divenuto noto storico, Andrea, economista, e Alessandra, psicanalista. Nel giugno del 1940 fu mandato al confino a Pizzoli, in Abruzzo, fino alla caduta del fascismo. Liberato nel 1943 alla caduta del fascismo, si spostò a Roma dove fu uno degli animatori della Resistenza nella capitale. Nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, fu torturato dai tedeschi perché rifiutò di collaborare. Morì in carcere, in conseguenza delle torture subite, la mattina del 5 febbraio 1944. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Leone_Ginzburg
Ennio Abate-«Sui confini della poesia» di Franco Fortini.
” Sui confini della poesia” si legge in “Nuovi saggi italiani 2” alle pagg. 313 -327 del volume della Garzanti pubblicato nel 1987. E’ una lezione tenuta da Fortini nel 1978 presso l’università del Sussex nel maggio 1978. Il testo non è di agevole lettura, anche perché rivolto ad un pubblico di studiosi. Usa espressioni concentrate e le tesi non vengono spiegate ricorrendo ad esempi. Questi sono gli appunti che ho steso in questi giorni dopo una ennesima lettura e avendo in mente la questione del rapporto poesia/moltinpoesia. I numeri tra parentesi rimandano alle pagine. [E. A.]
1.
Tu scrivi, noi scriviamo. Le parole che usiamo tra pochi anni o decenni saranno sconquassate «dal contesto feroce che la storia contemporanea gli prepara» (315). L’ avete mai pensato? Fortini ci pensava. Questa sua lezione era sulle «alterazioni subite dalla recezione delle opere letterarie nel corso della loro esistenza temporale» (316). E aveva come obiettivo polemico non tanto lo strutturalismo (316), corrente di pensiero alla quale Fortini riconosceva «eccellenti risultati» (317) ma l’abbandono della «dimensione storica negli studi letterari» sostituita dal «chiacchiericcio nevrotico dell’industria culturale».
2.
Subiamo – per Fortini «da circa dieci anni» (315), per noi ormai da circa un cinquantennio (e molti senza accorgersene, altri senza più considerarlo un problema o il Problema) – «quella che viene chiamata la “crisi del marxismo”» (315). Ne abbiamo percepito le conseguenze. (Fino a quali livelli culturali?) Ce ne siamo accorti dagli articoli di giornali che ci hanno proposto, dalla scomparsa dalle vetrine delle librerie di certi autori sostituiti da altri, dalle interviste ad X invece che a Y. Fortini accenna alla «ripresa d’interesse per la cultura dell’esistenzialismo tedesco (Heidegger quindi e Nietzsche), per quella della crisi e della negatività (ossia per l’arte e il pensiero viennese degli anni Dieci), per quella che potremmo chiamare la Scuola di Parigi, arco assai ampio che va da Lacan a Derrida, da Bataille a Foucault» (315).
Taluni hanno considerato questo mutamento una liberazione da un modo di pensare troppo rigido, ma io condivido l’opinione di Fortini: è stato un disastro. Che ha comportato «frustrazione sociale e politica» nelle forze operaie e intellettuali a cui ci eravamo legati, la cancellazione di una prospettiva (quella di «rovesciare gli equilibri di potere del ventennio precedente», «perdita di memoria del passato» (soprattutto quello prossimo) anche nelle «esistenze individuali» (315), la facile imposizione di una «sfrenata manipolazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa», tutti indirizzati «nella medesima direzione: distruggere l’avvenire sostituendolo col “sempre eguale”»; e soprattutto una «incapacità o non-volontà di previsione e di progetto» (316). (Penso al fallimento di tutti i miei tentativi di costruire riviste, tutti).
2.
Cos’è accaduto di riflesso nel campo della letteratura, della poesia e della critica letteraria?C’è stato o no questa «brutale divaricazione di posizioni: vitalismo esasperato, che si potrebbe chiamare neosurrealista […] oppure formalismo esasperato, indifferente agli aspetti referenziali», di cui parla Fortini? O la loro convivenza o giustapposizione? (317) Si è avuta questa «progressiva scomparsa degli “oggetti” artistici e poetici» e della loro «latente funzione pedagogica» che ancora sapeva alludere ad «un fondamentale “problema della vita”» (Lukàcs)? Fortini non ne dubita: non c’è nessun spazio più per questa funzione dell’arte o della poesia, non è più possibile la «via estetica all’umanesimo», scopo che aveva ancora avuto valore per la sua generazione. C’è stata una «distruzione radicale di quella prospettiva» (318). E a distruggerla è stata «la realtà socioeconomica del presente». Rammaricarsene? No. Bisogna, invece, «domandarsi se tale distruzione non sia benefica»; e se non permetta di riproporre, cancellando «due secoli di estetica borghese», il «tema antichissimo e futuro» della – potremmo dire – pienezza della vita o delle «sue più profonde possibilità» (318).
(Rientra in questo discorso il fenomeno che ho chiamato dei moltinpoesia? O vi sfugge e rimane marginale o secondario? Credo di sì.)
3.
Trattandosi di una lezione, Fortini si diffonde, seguendo Jakobson. in «precisazioni terminologiche». Ne fa sui concetti di testo (letterario o poetico) (318) e di contesto (a cui non dà un «significato esclusivamente linguistico» intendendo invece «l’ambiente e l’insieme delle determinazioni socioculturali» (319). Non approfondisco questa parte del saggio e vado subito al punto che mi e ci riguarda oggi, come poeti o scrittori o moltinpoesia. Lo riassumerei così: scrivere (poesia, prosa) o fare arte significa dare forma a qualcosa che è informe. Ciò «comporta caratteri severi di sforzo e di progetto» (321). Banalmente: fatica, studio. Fortini, per la precisione e più rigorosamente, dice: «organizzazione, volontà, ascesi, selezione», insistendo su un fatto:«il valore di ogni forma è anche etico-politico» (321) e non, dunque, soltanto estetico. La forma «si oppone in generale alla proliferazione “produttiva” dell’inutile» e, specificamente oggi, alla «dissolutio vitae della produzione capitalistica e della sua fabbrica di spettri» (321).
4.
Oggi non abbiamo più il pubblico borghese, che aveva «una familiarità esistenziale con le lettere e le arti», un pubblico cioè che si era «allontanato dalle liturgie religiose» e si era educato ai valori dell’arte e della poesia (321). Abbiamo, invece, un pubblico fatto da acquirenti e consumatori dei «prodotti dell’industria culturale di massa» (322). In esso possiamo trovare sia persone attente agli «aspetti tecnico-retorici delle lettere e delle arti» sia persone che hanno perso ogni capacità di distinguere tra «letteratura, contro letteratura, Vulgåliteratur, insomma fra “opere d’arte” e “opere di consumo”»(322).
E qui de te fabula narratur, o moltinpoesia, nella cui nebulosa ho imparato a riconoscere quelle spinte che Fortini con precisione definisce:« formalismo di origini strutturaliste e semiologico» o «vitalismo preterrazionale» (322)!
5.
Guardiamo questa “foto di gruppo culturale” scattata da Fortini nel 1978, data di questo saggio:
«Le classi oppresse e sfruttate (o alienate o reificate) sono, per eccellenza, esposte alla storia come labilità e come carenza di legittimazione; e per questo tendono a porre al primo posto le funzioni referenziali del linguaggio, i contenuti emotivi e ortativi. Dagli oggetti del discorso poetico o artistico esse guardano ai contesti, al caos storico in cui sono immerse. Oppure, dal fondo della sala schermiscono gli austeri ascoltatori delle prime file. O magari si abbandonano ad una forma qualsiasi di oppio culturale, di alta e bassa poesia, Hölderlin o la canzone di juke-box; forma, certo, ma ormai forma vuota (anche quella del classico se letto senza prospettiva) cui l’ascoltatore offre il proprio sangue senza riceverne» (322-323).
Ai poeti non piacerà, ai moltinpoesia neppure. Figuriamoci chi oggi accetta di essere classificato tra le «classi oppresse e sfruttate»! E credo che, su 10 poeti o moltinpoesia che ho incontrato, ancora 7 o 8 sono disposti a condividere l’opinione di Adorno, così riassunta da Fortini: «l’oggetto estetico con la sola sua presenza nega e avversa e tende a sconvolgere tutto quel che è accettato, quotidiano e ripetuto» (323). E, dunque, la poesia ha in sé valore. Se non tutti sono oggi pronti a giurare che «la funzione sociale della poesia sarebbe sempre rivoluzionaria» (324), concorderanno facilmente che essa è sicuramente liberatoria o salvifica o terapeutica o consolatoria o civile. Insomma un valore di per sé e, già così com’è, insostituibile. Come lo fu in passato? Se non proprio, quasi. Sciocco sarebbe ironizzare su queste credenze. Fortini non lo fa. Anzi ammette che lui pure, «ancora pochi anni fa», era convinto che «la forma poetica avesse una sua autonoma forza liberatrice relativamente indipendente dai suoi contenuti, ossia dal suo “oggetto”» (324). Eppure non era così cieco o coi paraocchi da non vedere che «la poesia, proprio in quanto forma che si oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice o conciliatrice» (324). Né erano ciechi e coi paraocchi pensatori come Horkheimer e Adorno, che, come Fortini ricorda, erano pur essi consapevoli che «il canto della poesia e dell’arte è al servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del consumo come spreco e piacere ma perché la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere che promesse e immagini, fiori sulle catene» (324). Ovvio che a queste parole sorriderà chi vede nel «mutamento» solo una minaccia o troppi rischi. Meno ovvio che sorridano quanti si sono riconosciuti, almeno in passato, nel mutamento, progressivo o rivoluzionario.
6.
Gli acritici appassionati della Poesia non sopportano che la loro amata Dea o Musa possa rivelare nel tempo e per la precisione nell’epoca post-borghese ( o postmoderna) un volto ambiguo o non sicuramente benefico. E reclamano più Poesia, più attenzione (e soldi) per la Poesia da parte dei Governi o l’apertura di altre Case della Poesia, dove i suoi riti possano essere officiati dai più riconosciuti sacerdoti. Mentre i moltinpoesia saranno sconcertati dal veder demolire un Idolo, a cui finalmente pure loro si erano potuti avvicinare. Sentirsi rispolverare da Fortini le idee del vecchio Lukàcs irrita o fa incazzare. Ma come faceva il filosofo ungherese a guardare preoccupato «l’importanza crescente attribuita alla letteratura e all’arte dall’età romantica ad oggi»? Come faceva a sospettare che l’«estetizzazione del mondo» (325) o, in altri termini, con Debord, la «società dello spettacolo» riduca tutto a «apparenza e fantasma» o all’ «autonomia dei significanti» (326)? E vedere addirittura un legame pericoloso tra questo processo di Inno alla Bellezza e «la crescita del processo di reificazione in ogni altra parte dell’attività umana»? Cavilli, intellettualismi da veterocomunisti, signora mia! Lasciateci lavorare o almeno provare! E così molti moltinpoesia si aggrappano all’affermazione che la poesia è ancora una nicchia, «l’ultimo luogo che la sclerosi della reificazione non ha ancora totalmente invaso» (325). E quindi teniamocela stretta, no, la nostra “vocazione poetica”. Perché metterla in discussione?
7.
Fortini ai poeti, ai moltinpoesia, agli artisti in questo scritto pone un problema. E io lo riassumo e lo metto proprio in forma di predicozzo o lezioncina così: mentre voi state a discutere su come «formare» le vostre opere d’arte, altri stanno dando forma a loro modo alla «vita medesima». (Dice niente – aggiungo oggi – la parola «biopolitica»?). Lo capite o no che, occupandovi soltanto di dar forme alle vostre opere, date per fallita ogni «ipotesi di una trasformazione degli uomini» o una «proposta di integrità umana» (325)? Non v’importa più nulla di questo? Come dite? Il «grido» dell’arte e della poesia non deve restare inascoltato? D’accordo. Ma volete capirlo che esso «è un segno di miseria oltre che di grandezza; ma soprattutto è la prova di una ripetuta sconfitta umana»? E che: «Come la religione per Marx, l’arte e la letteratura sono “il cuore di un mondo senza cuore”»? (325). E cioè contengono l’illusione « di essere usciti dal mondo della prestazione», cioè del lavoro obbligato. Non vedete che «l’antico sogno schilleriano di una “educazione estetica dell’umanità” si è trasformato in una crescente demolizione dell’universo dei significati a favore di un universo dei significanti» (326)?
8.
Chi però orecchiasse questo “vecchio” discorso potrebbe chiedere: non c’è alcun rimedio a questa crisi? Bisogna abbandonare poesia e arte e sostituirle con qualche altro valore? Chiarisco subito che non sono queste le conclusioni di Fortini. Alla fine del suo saggio egli delinea una via possibile, che spiega anche il titolo del saggio stesso. E’ una via suggerita dalla sua visione dialettica. Dice che non bisogna contrapporre «forma» e «vita». O «forma e non forma». O «passato formato» e «futuro da formare» (327). Perché si tornerebbe all’«antitesi cara al naturalismo e al decadentismo di ottant’anni fa» (327). Bisogna, invece, pensare la forma come «tensione ad inglobare, affrontare ed elaborare quel che sta oltre le frontiere della forma poetica» (327). Insomma, qualcosa di dinamico e non di statico. Che si spinge verso il fuori e non il dentro. Si deve, cioè, forzare «la tendenza centripeta di ogni opera, il suo tendenziale rifiuto ad altro da sé». Allora «l’opera proprio perché chiusa potrebbe essere arma a comprendere la realtà aperta e informale» (327). In conclusione, Fortini, lasciando perdere «la sovversiva promessa di felicità» tanto spesso associata alla poesia, sostiene che essa, «se si porta ai propri confini, riafferma l’esigenza che gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza» (327). Io continuo ancora a provarci.
Breve nota su FRANCO FORTINI-Nato a Firenze il 10 settembre 1917, Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), è autore di poesie e romanzi, critico letterario, traduttore e polemista. Occupa un posto di primissimo piano tra gli intellettuali del secondo dopoguerra. Fortini nasce da padre ebreo e madre cattolica.
Gli studi e il periodo della guerra
Dopo aver terminato gli studi scolastici si iscrive alle facoltà di Lettere e Giurisprudenza a Firenze. Al fine di evitare le conseguenze delle discriminazioni per la razza, a partire dal 1940 assume il cognome della madre, che è appunto Fortini. Ma questo stratagemma non lo aiuta, in quanto l’organizzazione universitaria fascista lo espelle comunque dall’università.
Dopo la guerra in cui presta servizio come soldato dell’esercito italiano, è costretto a riparare in Svizzera. Qui si unisce al gruppo dei partigiani della Valdossola che organizzano la Resistenza. Due anni dopo Franco Fortini si trasferisce a Milano, e qui comincia a lavorare nel campo letterario.
Inoltre, svolge attività di docenza presso l’Università degli Studi di Siena, dove insegna Storia della Critica.
Franco Fortini intellettuale
Fortini è un intellettuale rivoluzionario che, partito con la condivisione degli ideali dell’ermetismo (corrente letteraria del periodo), arriva a “sposare” i principi del marxismo critico propugnato da Marx. Fortini si pone così in una posizione fortemente polemica verso la società del tempo ed anche nei confronti della “nuova guardia” che emerge tra gli intellettuali ed i politici.
Sempre fortemente sostenitore della rivoluzione, Franco Fortini si impegna nelle lotte ideologiche che contraddistinguono l’epoca in cui vive, e lo fa attraverso le sue opere letterarie – in prosa e in versi.
Le opere di Franco Fortini
La sua produzione poetica, molto ricca e variegata, è racchiusa integralmente nel volume intitolato “Una volta per sempre”, pubblicato nel 1978.
Tra i libri di narrativa ricordiamo, in particolare:
“Agonia di Natale” (1948)
“Sere in Valdassola” (1963)
Franco Fortini e la concezione della Poesia
Come la maggior parte dei poeti italiani a lui contemporanei, Fortini esprime una profonda crisi dell’intellettuale di fronte alla Storia, e la conseguente negazione di qualsiasi funzione della poesia, ad eccezione della presa di coscienza e della testimonianza.
La poesia resta quindi relegata ad un ruolo privato e marginale. Franco Fortini è piuttosto interessato a mettere in evidenza il “qui ed ora”, ad esaltare i messaggi che la Natura formula. Non manca, comunque, qualche riferimento ad episodi e personaggi del passato.
Questo è un verso famoso del Fortini, in cui è abilmente sintetizzato il suo punto di vista.
Secondo Velio Abati, autore che ha dedicato a Franco Fortini il volume “Franco Fortini. Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994”, questo intellettuale ha scelto una linea “corale” di poesia, che non appartiene a quelle dominanti (di Dante o Petrarca). Anzi, non si tratta propriamente di lirica, quanto piuttosto di “passi filosofici”.
Assai fervida è anche l’attività svolta da Fortini come traduttore di testi, così come la sua collaborazione come autore di testi in alcune prestigiose riviste del Novecento. La sua penna è stata particolarmente apprezzata anche nelle pagine di quotidiani famosi come il Sole 24 Ore e il Corriere della Sera.
Franco Fortini si spegna a Milano il 28 novembre 1994 all’età di 77 anni.
Il 10 settembre del 1917 nasceva a Firenze il poeta, critico letterario e traduttore Franco Fortini.
Il vero cognome di Franco Fortini è Lattes, ereditato dal padre Dino: le leggi razziali del 1938 lo indurranno ad assumere come “nom de plume” il primo cognome della madre, Emma Fortini del Giglio. Durante l’infanzia assisté più volte a episodi di violenza che gli resteranno nella memoria: «Avevo cinque anni quando vidi i fascisti picchiare uno che non aveva salutato la bandiera». Nonostante l’incertezza economica della famiglia e le crescenti difficoltà del padre per l’affermarsi del regime fascista, Franco riuscirà a laurearsi in Legge e ad ottenere un incarico come supplente in un istituto tecnico di Porto Civitanova Marche. Il poeta perse il posto quando il dirigente scolastico ne denunciò l’ascendenza ebraica, mentre il padre veniva arrestato. Richiamato alle armi nel 1941, partecipò alla Resistenza unendosi ai partigiani della Valdossola. Trascorse diversi mesi in Svizzera a settembre, ospite del pastore valdese Alberto Fuhrmann e, nel 1944, conobbe la sua futura moglie, Ruth Leiser. Rientrato in Italia dopo la Liberazione, nel 1946 sposò Ruth a Milano e pubblicò la sua prima raccolta di poesie, “Foglio di via e altri versi” (Einaudi, 1946), con un disegno di Fortini in copertina e la dedica al padre. L’anno successivo si trasferì a Ivrea per lavorare all’Olivetti, dove si occupava di pubblicità e di onomastica dei prodotti: fu lui a scegliere il nome della popolare macchina da scrivere Lettera 22. All’attività poetica affianca quella di traduttore (Proust, Brecht, Kafka, Éluard tra gli altri, spesso in collaborazione con Ruth) e l’impegno politico nell’ambito della sinistra socialista. In seguito lavorerà come consulente editoriale presso Einaudi e come insegnante in alcuni istituti tecnici di Milano, Monza e Lecco, fino ad ottenere la docenza di Storia della Critica presso l’Università di Siena. Tra i libri pubblicati da Fortini spiccano “Una facile allegoria” (Edizioni della Meridiana, 1954), “L’ospite ingrato” (De Donato, 1966), “Questo muro” (Mondadori, 1973), “Paesaggio con serpente” (Einaudi, 1984) e “Composita solvantur” (Einaudi, 1994). Fortini morì a Milano il 28 novembre del 1994 all’età di 77 anni. Oggi ho voluto ricordare questo grande intellettuale con una poesia tratta dalla sua prima raccolta “Foglio di via e altri versi” nella quali il poeta descrive l’amore per una donna frequentata prima di conoscere Ruth. La saggezza del titolo è l’accettazione della fine di questa storia, la meditazione di chi trae un bilancio del passato, ma anche la consapevolezza che, come dissero altri saggi, l’amore sopravvive a se stesso.
SAGGEZZA
C’era una donna che sola ho amata
Come nei sogni si ama se stessi
E di bene e di male l’ho colmata
Come gli uomini fanno con se stessi.
Essa era quella che avevo voluta
Per essere chiamato col mio nome:
E lo diceva, quando l’ho perduta.
Ma forse quello non era il mio nome.
E vo per altre stagioni e pensieri
Altro cercando al di là del suo viso;
Ma più mi stanco per nuovi sentieri
Sempre più chiaro conosco il suo viso.
Forse è vero, e i più savi l’hanno scritto:
Oltre l’amore c’è ancora l’amore.
Si sperde il fiore e poi si vede il frutto:
Noi ci perdiamo e si vede l’amore.
[Franco Fortini, Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi, 1978, p. 47]
Immagine: Franco Fortini (fonte: Le Parole e le Cose).
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