Risvolto del libro di Vladimir Nabokov-Lezioni di letteratura russa-Due volte esule, dalla Russia comunista e dall’Europa nazista, negli Stati Uniti Nabokov insegnò per quasi vent’anni letteratura russa al Wellesley College e in seguito alla Cornell University. Erano lezioni memorabili in cui, con paziente tenacia, richiamava l’attenzione su oggetti o particolari che sembrano non avere alcuna rilevanza artistica: la borsa rossa di Anna Karenina; la fetta di cocomero che Gurov mangia rumorosamente in una stanza d’albergo nella Signora col cagnolino o il vestito «serpentino» di Aksin’ja in un altro racconto di Čechov, «artista perfetto»; la ruota del tondeggiante calesse sul quale, in Anime morte di Gogol’, il tondo Čičikov, ipostasi dell’enfia volgarità universale, arriva nella città di NN. Maestro atipico, spericolato, Nabokov avrebbe voluto trasformare gli allievi in «buoni lettori», quelli che non leggono un libro per identificarsi con i personaggi, e tantomeno per imparare a vivere, giacché la vera letteratura – gioco sacro, superiore forma di felicità – non insegna nulla che possa essere applicato ai problemi della vita. Metteva in guardia contro il veleno ideologico del «messaggio» e contro ogni tentativo di cercare la famigerata «anima russa» nell’opera di giganti come Tolstoj, Čechov, Gogol’ e il pur disamato Dostoevskij. Il professor Nabokov non ha alcun metodo, alcun approccio critico: con gli unici strumenti della passione e di una precisione infinita, si limita a scoprire la magia delle parole nelle loro più segrete combinazioni. E noi, come i suoi studenti, lo ascoltiamo incantati mentre va dritto al cuore di questo o quel capolavoro.
In copertina
Konstantin Andreevič Somov, Giovane donna sullo sfondo di un giardino (1913). Collezione privata. heritage image partnership ltd / alamy stock photo
Sergio Vitale–L’arco, il telaio e la tempesta-Giometti & Antonello-Editori-Macerata
Quarta del libro di Sergio Vitale–L’arco, il telaio e la tempesta-Ma se esiste un potere del corpo, i suoi movimenti possono scrollarsi di dosso il peso di automatismi inveterati, sottomessi a sintassi prescritte, e confrontarsi con gli eventi in modo da trasformarli in occasioni (insisteremo su questo termine), attraverso astuzie e trovate ingegnose, capacità di manovra, tiri mancini, estro dell’intelligenza, un vasto insieme di tattiche che gli antichi Greci raggruppavano sotto il termine μῆτις. Detto in termini diversi, è necessario allentare il giogo dei gesti finalizzati allo scopo, perché è tra di essi che s’infiltrano e si nascondono facilmente le strategie del potere funzionali alla sua riproduzione; bisogna cioè sottrarre spazio ai gesti del fare, per donarlo ai gesti dell’agire.
Risvolto
Vi sono parole antiche, enigmatiche e dall’incerta etimologia, che risultano difficilmente traducibili. Una di queste è καιρός, parola greca che nel corso della sua lunga storia ha attraversato svariati campi del sapere e della conoscenza, caricandosi di valori sempre diversi e talora anche opposti. In molti ne hanno tessuto l’elogio: per Esiodo «il καιρός è in tutto la qualità suprema»; Sofocle lo considera «la migliore delle guide in ogni impresa umana»; Polibio riconosce che esso «comanda tutte le opere dell’uomo», e Callistrato, alla fine del basso impero, ci ricorda che «non vi è altro artigiano della bellezza che il καιρός». Ma quali sono i suoi significati, tali da meritargli il riconoscimento di tanta importanza? Per rispondere a questo interrogativo, il libro si propone di ordinare la pluralità di gesti che caratterizzano il fare e l’agire dell’uomo in base a una triplice partizione, corrispondente a tre dimensioni fondamentali del καιρός: tempestività, temporeggiamento e temperie. Queste dimensioni trovano la loro rappresentazione paradigmatica in altrettante scene che il poema omerico dell’Odissea ha reso eterne. La freccia scoccata da Odisseo, capace di trapassare con assoluta precisione gli anelli di dodici scuri; il lenzuolo che Penelope tesse all’infinito, in attesa di ricongiungersi allo sposo; la tempesta, nata dalla mescolanza di condizioni climatiche e atmosferiche diverse, che impedisce il ritorno dell’eroe. In forme, modi e contesti anche molto distanti, i tre modelli del καιρός si ripetono nel tempo, e fanno ad esempio la loro apparizione nel lavoro di Fernand Deligny, nel pensiero di Aby Warburg, nella fotografia di Cartier-Bresson, nel cinema di Andy Warhol o nella musica di Iannis Xenakis, come pure nell’incessante pioggia di atomi epicurea dalla quale è nato e si evolve di continuo il mondo che abitiamo.
SINOSSI del libro-Lettere di una vita di Irène Némirovsky –Traduzione di Laura Frausin Guarino-Prefazione di Olivier Philipponnat- «Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria degli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sentono osservati dalla posterità» osserva Olivier Philipponnat nella prefazione a questo volume. E tuttavia, aggiunge, le sue lettere fanno parte a pieno titolo dell’opera letteraria, soprattutto perché ci consentono di scoprire una voce più intima, più autentica, diversa da quella che abbiamo imparato ad amare nei romanzi e nei racconti – sorprendente. Se le prime, le lettere delle années folles, ci restituiscono l’immagine di una ragazza vivace e spensierata che, pur legata alle sue origini russe (e al ricordo della tragedia a cui ha assistito), approfitta golosamente di tutto quello che Parigi e la Francia possono offrirle – e che non perde l’ironia nemmeno quando si sente malinconica, arrivando a chiedersi: «Pene di cuore o indigestione di astice?» –, in quelle degli anni Trenta scopriamo la romanziera brillante e determinata, sia nei rapporti con gli editori che nei confronti della critica. Con lo scoppio della guerra, l’occupazione nazista e le leggi antiebraiche, vediamo crescere in lei l’angoscia, la collera, la disillusione – e leggeremo con un nodo in gola la lettera con cui affida le figlie alla governante, elencando i beni di cui disfarsi per provvedere al loro sostentamento, e l’ultima, scritta al marito subito prima della deportazione ad Auschwitz.
PREFAZIONE di Olivier Philipponnat
Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria de- gli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sen- tono osservati dalla posterità. Non pensò mai che un giorno le sue lettere sarebbero giunte ad altri che ai lo- ro destinatari, né che potessero essere incluse nella sua produzione letteraria. Lo stesso vale, del resto, per i suoi « diari di lavoro », ancora poco studiati e molto simili a una sorta di « autocorrispondenza » dove l’autrice si ri- volge spesso a sé stessa.
Si può dire che queste lettere, che rientrano a pieno titolo nella sua opera, ne rappresentino piuttosto il lato nascosto. Irène Némirovsky, che pure nutriva grande interesse per la teoria romanzesca, negli scambi episto- lari discute poco di tecnica narrativa; non lo fa neanche con Gaston Chérau, al quale chiede volentieri consigli professionali. «Quando scrivo un libro» con$derà a René Lalou nel 1938 « provo una sorta di inspiegabile pudore a parlarne, anche con le persone più vicine ». Pudore non lontano dall’orgoglio di essere compresa soltanto da sé stessa.
Nonostante questa reticenza, l’argomento principale di questi scambi è proprio la sua opera. La si scopre molto attenta alle condizioni di pubblicazione dei suoi libri, che segue con una cura materna. Inoltre, nel corso de- gli anni, Michel Epstein, il marito, avrà una parte sem- pre più attiva nella difesa dei suoi interessi presso gli e- ditori e i grandi settimanali che la pubblicano. Questa costante preoccupazione rivela la proli$cità di una scrit- trice impegnata nella stesura di un’opera che, dal 1926 al 1942, conta ben sedici romanzi e più di cinquanta racconti, che triplicano se si considerano anche bozze, minute e appunti, ai quali Irène Némirovsky dedica gran parte della giornata.
Si troveranno qui alcune delle sue risposte a certi cri- tici, quando non contengono solo banali e cortesi rin- graziamenti; ma il gran numero di biglietti più o meno di cortesia, mandati in tutta la Francia a oscuri redattori e oggi venduti all’asta o su catalogo a prezzi indecenti –, lascia intuire quanto fosse importante per lei la diffusio- ne e la recensione delle sue opere. L’umiltà di cui dà prova, il tacito consenso alle critiche, l’apparente liber- tà che concede ai giornali di modi$care a loro piaci- mento i suoi racconti contrastano con l’entusiasmo e la passione per la scrittura che traspaiono invece dai suoi manoscritti.
I rapporti epistolari che intrattiene con gli scrittori – Henry Bernstein, Jacques-Émile Blanche, Henri de Régnier, Gabriel Marcel, Jacques Chardonne e altri… sono occasionali, raramente confidenziali, e sempre ca- ratterizzati da un rispetto delle convenzioni, da un riserbo e da una modestia disarmanti, insaporiti a volte da un pizzico di malizia o da un’ombra di piaggeria, mai offuscati dalla mancanza di sincerità. Da una parte, dunque, una scrittrice che esercita un potere assoluto sui suoi personaggi e sulla sua opera; dall’altra, una donna che nelle lettere non ne fa mai parola. I dubbi, le paure, le domande che intimamente si pone sono e- spressi qui senza la rabbia e l’umorismo caratteristici dei suoi romanzi, piuttosto con un’autoironia sottile, come nelle lettere a monsignor Ghika, che nel febbraio 1939 le amministrerà il battesimo.
La corrispondenza è necessariamente lacunosa: anche se moltissime delle lettere scritte da Irène Némirov- sky sono state conservate dai loro destinatari e oggi si possono consultare in diversi fondi archivistici e in alcu- ne collezioni private, lo stesso non si può dire per quelle che lei aveva ricevuto e che furono molto probabilmen- te distrutte, dopo la guerra, dai nuovi occupanti dell’appartamento parigino in cui la scrittrice le aveva lasciate, nell’aprile 1940, per rifugiarsi insieme alle figlie nel villaggio borgognone di Issy-l’Évêque.
Che cosa resta, quindi| Per gli anni dal 1919 al 1924, il ritratto di una studentessa in gamba, più seria e perseve- rante di quanto vogliano lasciar credere le sue lettere a Madeleine Avot; in mancanza di risposte, ci si può soltanto chiedere se la «cara piccola Mad», erede di una dinastia di cartai che servirà da modello alla virtuosa fa- miglia Hardelot nei Doni della vita, fosse realmente «shockingata» dalle scappatelle dell’amica russa. A quegli anni di spensieratezza segue un intervallo di tem- po, dal 1925 al 1930, di cui non abbiamo alcuna testimonianza epistolare; è il periodo in cui Irène Némirovsky sembra dedicarsi esclusivamente alla vita con Michel Epstein, sposato nel 1926, e alla stesura dei primi ro- manzi, Il malinteso (1926) e soprattutto David Golder (1929), in un anonimato reso ancora più marcato dal- l’uso di uno pseudonimo (Pierre Nerey) per La nemica (1928) e per Il ballo (1929). Tutto questo è in violento contrasto con la grandissima notorietà che le procura l’improvviso successo di David Golder, subito portato sul- lo schermo e sul palcoscenico con Harry Baur e preso in considerazione per il premio Goncourt – al quale la scrittrice, come spiega a Gaston Chérau, preferirà ri- nunciare affinché la sua domanda di naturalizzazione francese sia considerata completamente disinteressata. È l’epoca in cui, per lettera o al telefono, risponde con semplicità alle interviste più o meno serie dei giornali; ripetuta negli anni, questa abitudine finisce per comporre, una pennellata dopo l’altra, un brillante autori- tratto.
Estremamente meticolosa quando si tratta di far rispettare i propri diritti, Irène Némirovsky, nelle lettere di questo decennio, contrassegnate dal monogramma « IE », dimostra un’assoluta professionalità nei rapporti con gli editori o i direttori di riviste, sempre attenta a e- vitare controversie ovvero a prevenirle. Mai o quasi mai accenna al contenuto o al signi$cato della sua opera, se non nelle lettere aperte o nelle risposte che indirizza ad alcuni giornali; anche allora, è raro che alzi i toni, tran- ne quando è in gioco il suo onore e si trova accusata, per esempio, di aver fatto sì che il commediografo Fernand Nozière traesse spunto dalla sceneggiatura di Julien Duvivier per David Golder. La scopriamo attenta a non atti- rarsi critiche – e il sospetto di antisemitismo suscitato da David Golder non è, secondo lei, così assurdo. Ma gli al- terchi più violenti li riserva ai personaggi dei suoi libri, che sembra talvolta usare per ribellarsi alle regole della buona creanza alle quali di solito è vincolata dal rispetto delle convenienze, nonché dalla condizione di stranie- ra, o addirittura di intrusa nella repubblica delle lettere.
Questa tranquillità s’incrina nel 1938. Nel dicembre di quell’anno l’inquietudine religiosa di Irène Némirovsky, del tutto concreta, e il fallimento dei suoi tentativi di na- turalizzazione la convincono a ricevere il battesimo cat- tolico insieme al marito e alle figlie, per una sorta di de- vozione ai valori cristiani della Francia. O almeno così si poteva supporre, fino alla scoperta di una lettera (la numero 199) inviata nel giugno 1938 a Jean Zay, ministro dell’Istruzione. La richiesta sembra dimostrare che Irène Némirovsky desiderava evitare alle figlie, Denise ed Élisabeth, i palesi inconvenienti legati al loro essere ebree a cominciare dalla mancata ammissione della maggiore ad alcuni istituti privati cattolici, dopo che il liceo pubblico Victor-Duruy aveva dichiarato di non avere più posti. Il ministro trovò la soluzione, ma nella vita di Irène Némirovsky si introdusse l’incertezza, e l’angoscia di non essere francese alimentò via via le ultime opere del deennio, Il signore delle anime (1939), I cani e i lupi (1940) e anche, per simmetria, I doni della vita (scritto nel 1940) inno alla solidità delle vecchie famiglie della borghesia provinciale, ovviamente cattoliche.
Sopraggiungono poi la guerra, la sconfitta e il regime di Vichy. Dall’ottobre 1940 al luglio 1942, di lettera in lettera, vediamo Michel Epstein e Irène Némirovsky di battersi nella morsa delle disposizioni legislative antie- braiche, le quali a poco a poco li impoveriscono e fanno lievitare il debito contratto con le edizioni Albin Michel. Il senso e le finalità di tali provvedimenti sono loro incomprensibili, così cercano solo di aggirare la pioggia di vessazioni e di divieti che impediscono a Irène di amare le sue opere e la obbligano poi a usare Julie Du- mot, la governante delle figlie, come prestanome. Le lettere di questo periodo sono più numerose; sono me- glio conservate e, data la loro frequenza, rivelano un’an- goscia crescente. Quelle di Irène e Michel, indissolubil- mente legati nella sciagura e nella sofferenza, esistono spesso in forma di carta carbone o di minute che viagge- ranno, dopo la loro deportazione, nella famosa valigia in cui Julie Dumot stiperà tutti gli scritti incompleti, le vecchie carte e le lettere ricevute dai coniugi Epstein durante i due anni passati a Issy-l’Évêque. Ne consegue che il periodo più drammatico della vita di Irène Némirovsky, quello della stesura del suo capolavoro, è anche il meglio documentato da una corrispondenza in cui si esprimono senza inibizioni la collera, l’angoscia e la de- lusione. Ma anche l’amicizia e la riconoscenza, in una bellissima serie di lettere indirizzate a André Sabatier,1 il cui intervento fu fondamentale per convincere Robert Esménard, genero di Albin Michel, a continuare a versare a fondo perduto degli anticipi mensili a un’autrice che non poteva più pubblicare.
Questo legame privilegiato non s’interrompe con l’arresto di Irène Némirovsky il 13 luglio 1942, e neppure con quello, in ottobre, di Michel Epstein, il quale, dopo aver tempestato André Sabatier di lettere e di telegram- mi disperati, si arrende al suo destino: raggiungere la moglie passando per la prigione di Le Creusot e poi per il campo di Drancy. La sua ultima lettera, che le figlie non potranno mai leggere, è emblematica: « Forse presto vedrò Irène », scrive poche ore prima della partenza del convoglio numero 42 che lo porterà alla camera a gas. La divulgazione del Journal de guerre di Paul Morand, nel 2020, ha tinto di sinistra ironia i vani tentativi di Michel e di Sabatier di ottenere l’intercessione di questo stretto collaboratore di Pierre Laval. Se Morand per un breve momento appare colpito dalla sorte di Irène Né- mirovsky, una delle sue più ferventi ammiratrici, quella degli ebrei, spietatamente perseguitati dal regime di cui lui è al servizio, gli ispira soltanto indifferenza.
Anche Julie Dumot, divenuta tutrice legale di Denise ed Élisabeth $no alla loro « collocazione » nel collegio cattolico di Notre-Dame-de-Sion nel settembre 1945, continua a corrispondere con André Sabatier e con le edizioni Albin Michel. Avremmo forse dovuto eliminare questa « corrispondenza postuma », visto che il 17 a- gosto 1942 Irène Némirovsky era morta di tifo ad Auschwitz-Birkenau| Lo avremmo fatto se, prima del ritor- no degli ultimi deportati, qualcuno fosse stato a cono- scenza della sua sorte. E se Julie Dumot non le fosse servita per così dire da sostituta $no alla partenza per gli Stati Uniti nel 1946, a missione compiuta. Così, abbia- mo scelto di chiudere queste Lettere di una vita con le parole disincantate di Albin Michel: « Nonostante tutto, continuiamo a sperare… », che in realtà non lasciavano quasi alcuna speranza sulla fine dell’incubo.
SPENSIERATEZZA (1913-1924)
Nata a Kiev l’11 febbraio 1903, Irène Némirovsky cre- sce nella venerazione della lingua francese, nell’osses- sione del ghetto e nell’ignoranza della cultura ebraica. Troppo giovane per ricordare il pogrom dell’ottobre 1905, la prima immagine che conserva della sua infan- zia è il carnevale di Nizza, nel 1906. Ogni inverno, $no allo scoppio della guerra, va per sei mesi in Costa Azzurra o sulla costa basca con i genitori.
Suo padre, Leonid, spregiudicato uomo d’affari, sa chiudere un occhio di fronte alle scappatelle della mo- glie Anna. Irène invece, dopo il licenziamento di Zézelle, l’adorata governante francese, non perdona niente alla madre. Sopraggiunta la guerra, vediamo Leonid esercitare la sua attività di banchiere molto vicino ai cir- coli del potere. Nel febbraio 1917, a San Pietroburgo, Irène assiste alle cosiddette «rivolte per il pane». Nel gennaio 1918 la rivoluzione bolscevica costringe i Némi- rovsky a riparare in Finlandia viaggiando su una slitta. Qui, Irène scrive i suoi primi versi e legge con fervore autori francesi. Alla fine della primavera 1919 la fami- glia, passando da Stoccolma, riesce a raggiungere laFrancia, «il paese più bello del mondo», dove Leonid Némirovsky ricostruisce il suo patrimonio.
Alla Sorbona, dove studia letteratura russa e comparata, Irène stringe amicizia con René Avot, figlio di un industriale del Pas-de-Calais, e con la sorella Madeleine, detta « Mad ». Con la bella stagione, sotto la sorveglianza di una governante inglese, si trasferisce a Vichy, a Plombières o a Vittel e si sottopone alle cure termali per l’asma. A Parigi è libera di vivere come vuole: va nei locali dove si fa jazz, flirta, fa gite in auto. Frequenta gli ambienti dei russi in esilio e pubblica i primi testi in france- se su varie riviste, con il suo nome o sotto pseudonimo.
-Giovanni COMISSO romanzo Storia di un patrimonio Editore Treves Milano 1933-
Articolo di Giansiro Ferrara scritto per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Giovanni Comisso nasce a Treviso il 3 ottobre 1895, figlio secondogenito di Antonio e Claudia Salsa. Il padre è uno stimato commerciante di prodotti agricoli. La madre appartiene alla buona borghesia cittadina. È sorella di due personaggi molto noti in città: l’avvocato Giovanni e il generale Tommaso Salsa, eroe della guerra di Libia, che morirà a Treviso il 21 luglio 1913.
-Biografia di Giovanni Comisso-
Autori: Luigi Urettini e Nicola De Cilia-
Associazione Amici di Giovanni Comisso
Giovanni Comisso nasce a Treviso il 3 ottobre 1895, figlio secondogenito di Antonio e Claudia Salsa. Il padre è uno stimato commerciante di prodotti agricoli. La madre appartiene alla buona borghesia cittadina. È sorella di due personaggi molto noti in città: l’avvocato Giovanni e il generale Tommaso Salsa, eroe della guerra di Libia, che morirà a Treviso il 21 luglio 1913.
Studente, Soldato a Caporetto e sul Grappa, Legionario a Fiume
Nel 1913 è studente al liceo classico “A. Canova”. In quell’anno Comisso conosce lo scultore Arturo Martini, di sei anni più vecchio. L’amicizia con il giovane artista proletario e bohémien è molto importante per la sua formazione. Per la prima volta ha esperienza di un mondo diverso da quello borghese nel quale era stato educato. «Egli allora mi parlava di infinito, della nostra vita umana nel limite del tempo, della necessità di arrivare alle grandi creazioni per sfidare le stelle e la nostra morte. Alle sue parole mi commuovevo fino al pianto e veramente per me egli era il Maestro, il fratello maggiore, il compagno più esperto che dissipava le grandi nebbie che ancora mi avvolgevano nella mia timida giovinezza». Nel 1914, bocciato agli esami di maturità, Comisso si arruola volontario per un anno al corso Genio telegrafisti di Firenze, con l’intenzione di riprendere gli studi al termine del servizio militare. Lo scoppio della Grande Guerra vanificherà i suoi progetti. Nel 1915, all’inizio della guerra, viene trasferito con il suo reparto prima a Cormons, poi a San Giovanni di Manzano. È impiegato come centralinista telefonico: il lavoro principale del reggimento, in quell’inizio di estate e di guerra, consiste principalmente nello stendere il filo telefonico, posandolo sui rami degli alberi lungo la strada. Nella primavera del 1916, esce a Treviso un esile libretto presso la Stamperia Zoppelli dal titolo ‘”Poesie”, curato da Arturo Martini che ha anche eseguito il ritratto di Comisso per la copertina. Secondo lo scultore, sono poesie di «spasimante sensibilità, nate sotto il segno di un’impeccabile purezza però vestite di ingenuità». I genitori di Comisso sono disorientati e imbarazzati, al punto da far ritirare l’edizione perché considerata “disdicevole” del buon nome della famiglia Nell’aprile del 1917 segue a Dolegnano prima, a Udine poi, un corso per diventare ufficiale del Genio telegrafisti. In settembre, nominato sottotenente, viene inviato nell’Alto Isonzo, presso Saga, vicino a Caporetto. In ottobre viene coinvolto nella ritirata. Riesce fortunosamente a fuggire insieme ai suoi soldati. Ripara con il suo reparto a Treviso, dove si era rifugiato il Comando di Divisione, e subito spedito sull’Asolone, zona Grappa. Nella primavera del 1918 è inviato sul Montello, e lì si troverà durante la Battaglia del Solstizio. A Paderno del Grappa, Comisso riceve il telegramma che annuncia l’armistizio, con i soldati impazziti per la gioia : «Da per tutto nella campagna si accendevano fuochi. Sull’alto dei monti, come la notizia si diffondeva, si vedevano razzi innalzarsi nel cielo e grandi fiammate come se gli artiglieri bruciassero la balestite e dalla pianura i riflettori tagliavano pazzamente la notte». Nel 1919 Comisso viene trasferito aFiume, con la compagnia del Genio telegrafisti. Nel febbraio, si iscrive alla facoltà di legge a Padova e frequenta a Roma (con poco profitto) un corso speciale per studenti ex combattenti. Conosce il poeta Arturo Onofri che aveva ammirato le sue poesie, e, suo tramite, entra negli ambienti intellettuali della capitale. Stringe amicizia con Filippo De Pisis, instaurando un sodalizio che durerà tutta la vita. «Dopo la mia amicizia con lo scultore Arturo Martini, questa era un’altra grande amicizia che veniva a deliziarmi e a legarmi alla mia passione per l’arte. Quel tempo era per me come per gli uccelli emigratori, quello che precede la grande trasvolata e in cui si cercano i compagni per vincere le difficoltà della rotta». In agosto ritorna a Fiume, presso il suo reparto, per disertare e unirsi alle truppe ribelli di d’Annunzio in settembre. Conosce Guido Keller, un aviatore, già della squadriglia di Francesco Baracca, ora “segretario d’azione” del “Comandante”: un bizzarro avventuriero, sempre alla ricerca di nuove emozioni con cui nascerà una profonda amicizia, destinata a segnare profondamente la vita di Comisso. «Lo riconoscevo superiore a me e capace di imprimermi un nuovo senso della vita. Moltissima mia infantilità e moltissima mia tendenza borghese, quasi superate colle mie esperienze di guerra, nella mia giornaliera vicinanza a quest’uomo audacissimo, si staccarono definitivamente da me». Durante l’estate del 1920, assieme a Guido Keller, naviga in barca a vela tra le isole del Quarnaro, provando emozioni che ispireranno le pagine più incantate de “Il porto dell’amore”. Assieme ad altri legionari, fonda il Movimento Yoga, anarcoide e con accenti antimodernisti, e l’omonima rivista. Sulla testata campeggia una croce uncinata (simbolo del sole) e la scritta: “Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione”. Settimanale, ne usciranno quattro numeri. Nel primo numero, si dichiara la necessità di introdurre «strane forme di vitalità in ogni movimento, in ogni ambiente, ecco il nostro programma. […] Amare i nostri vizi come le nostre virtù, come ci consiglia Nietzsche. Muoversi. Vivere. Distruggere. Creare. Come scopo. Non per un ideale, ma per esser ciò l’ideale».
Gli anni ’20 fra Chioggia e Parigi
Nel gennaio 1921, dopo il “Natale di sangue” Comisso abbandona Fiume e rientra a Treviso, incapace tuttavia di adattarsi alla vita piccolo-borghese. A febbraio si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Genova, senza alcun profitto. Frequenta il letterato Mario Maria Martini, amico di Guido Keller, contro il quale proverà una profonda antipatia. Questa esperienza gli ispira il romanzo Il delitto di Fausto Diamante (1933). A Treviso, siamo nel 1922, conosce Giulio Pacher, con cui stringerà un’amicizia – che presto diventa passione. Con lui, va a Chioggia in cerca dei marinai del Gioiello conosciuti a Fiume. Non li trova, ma passa insieme a Giulio una meravigliosa giornata. Tornerà in giugno, e verrà invitato a bordo del veliero dal capitano Gamba: iniziano i suoi viaggi “al vento dell’Adriatico”, da cui trarrà i racconti per il suo libro Gente di mare (1928). Comincia a fine anno a collaborare al quotidiano “Camicia Nera”, diretto dal suo amico, Pietro Pedrazza. Scrive articoli di letteratura, arte e politica. Nel 1923 si iscrive all’Università di Siena per portare finalmente a termine i suoi studi di giurisprudenza. Otterrà la laurea l’anno successivo 1924, con una tesi sui diritti d’autore. In estate percorre di nuovo l’alto Adriatico, le coste istriane e liburniche, le isole di Veglia, Arbe, Cherso, a bordo del bragozzo del capitano Gamba. Esce “Il porto dell’amore” (1924), in cui racconta la sua esperienza fiumana. Pubblicato da una tipografia trevigiana con i soldi ricavati dalla vendita di un impermeabile, ottiene i pareri favorevoli della critica. «Libretto carnale e febbrile, che avvampa e trascolora, è appena un libro ed è ancora una malattia. Arte legata al corso delle stagioni e alle temperie», si legge in una recensione di Eugenio Montale che lo farà conoscere nel mondo letterario. Continua la sua collaborazione con il quotidiano trevigiano che ora si chiama “L’eco del Piave”. Naviga durante l’estate con il bragozzo dei suoi amici pescatori chioggiotti tra le coste e le isole della Dalmazia, pubblicando alcuni racconti. Oramai si veste come un marinaio, lavora con loro e li aiuta nel contrabbando di vestiti e berretti. Nel 1926, grazie all’interesse suscitato da “Il porto dell’amore”, Comisso viene invitato da Enrico Somarè a lavorare a Milano, presso la Galleria d’arte “L’Esame” e l’annessa libreria. Qui ha l’occasione di conoscere gran parte degli intellettuali della metropoli lombarda, tra i quali Eugenio Montale, Giuseppe Antonio Borgese, Carlo Emilio Gadda. L’anno successivo va a Parigi, attratto dalla promessa del critico letterario fr: Valéry Larbaud di far tradurre il suo “Porto dell’amore. Il progetto non si realizza, ma rimane affascinato dalla città. Vi ritrova Filippo De Pisis, vive un tempo «di ebbri istinti». Con Filippo De Pisis frequenta i locali più ambigui, la gente più balzana. «Niente ci tratteneva, Parigi conservava ancora tutto l’aspetto caotico impresso dal dopoguerra, accentrando gente folle di ogni parte del mondo, che si sovrapponeva alla sua plebe già di per sé stravagante e miserabile. Frequentavamo le bettole più luride e vi conoscemmo un’umanità pietosamente macerata»’. Nel 1928, muore suo padre. Con i soldi dell’eredità ritorna a Parigi dove conduce vita «disordinata e frenetica», assieme a Filippo De Pisis. In ottobre, viene invitato dal quotidiano torinese “La Gazzetta del Popolo” a scrivere dei reportages sulla vita parigina. Pubblica una serie di articoli che verranno in seguito raccolti nel volume “Questa è Parigi” (1931). A fine anno esce “Gente di mare”, in cui sono raccolti i racconti ambientati a Chioggia, sul mare, sulle coste istriane e dalmate. Scrive Ugo Ojetti: «La freschezza primitiva, il silenzio del mare e delle coste deserte, gli odori e i sapori e i rari suoni che sotto l’altissimo cielo le porta il vento, la novità nella nostra letteratura di questi temi e di questi incanti: tutto mi piace e mi convince…»
I grandi viaggi in Nord Africa e in Estremo Oriente. La Casa di Campagna
E’ il 1929 quando ottiene il Premio Bagutta con “Gente di mare”. Sempre per “La Gazzetta del Popolo” compie viaggi in Nord Africa e nell’Europa del Nord. In dicembre come inviato speciale del “Corriere della Sera”, compie il Grand Tour in Estremo Oriente. Visita la Cina, il Giappone, la Siberia e la Russia, sino a Mosca. Il viaggio in Estremo Oriente dura sino a giugno del 1930. «Frequentavo loschi balli notturni e bische e postriboli e sempre col mio passo sicuro me ne uscivo a notte inoltrata senza neanche pensare di rasentare il minimo pericolo. Non credo fosse coraggio, ma un’incoscienza datami dall’accanita volontà di vedere». Nelle lettere che scrive alla madre esprime però anche la stanchezza per i lunghi viaggi e il desiderio di stabilirsi nella campagna veneta, per dedicarsi con tranquillità alla scrittura. In agosto pubblica “Giorni di Guerra”, che gli provoca qualche noia con la censura fascista. «Temperamento pieno, espansivo, disposto a godere di tutto e di tutti, comprensivo, avido e giocondo… libro di guerra così ricco, stipato di fatti visivi e trascritti, di impressioni, di sensazioni urgenti, improvvise, traboccanti», scrive Giuseppe Raimondi. In autunno, compera una casa e dei campi a Zero Branco, un paese nel trevigiano. Dopo tanto vagabondare vuole mettere radici nella campagna veneta. A Cortina ha anche conosciuto una giovane ragazza, Rachele, «la purezza e la semplicità, come se le nevi e l’aria di quel luogo si fossero trasfuse in lei», che vagheggia di sposare. Nel 1931 intensifica la sua collaborazione a “L’Italiano” di Leo Longanesi: i suoi articoli spaziano dal cinema sovietico alla “vitalità” e “sanità morale” dei contadini veneti. Esce “Questa è Parigi”. Negli anni successivi, usciranno altri libri: nel 1932 “Cina – Giappone” che raccoglie gli articoli del “Corriere della sera” e nel 1933 “Storia di un patrimonio”, romanzo ambientato a Onigo, tra i colli e il Piave. Nel 1934 ospita nella sua casa di campagna Bruno, un ragazzo figlio di pescatori chioggiotti, un’amicizia intensa e appassionata, che si concluderà non senza amarezze. Gli ispirerà il romanzo “Un inganno d’amore” (1942). L’anno successivo esce “Avventure terrene”, raccolta di racconti che in seguito confluirà nel Volume V delle opere col titolo “Il grande ozio”. Pubblica il romanzo “I due compagni”” (1936): dietro le vicende di uno dei due protagonisti, si nascondono le tragiche vicende del pittore Gino Rossi, ma nei personaggi del romanzo è possibile ravvisare i tratti di Arturo Martini, Nino Springolo e dello stesso Comisso. Nella primavera del 1937 viaggia lungo l’Italia, per più di ventimila chilometri per conto della “Gazzetta del Popolo”, in quella che definisce «una scoperta dell’Italia recondita». Viene inviato da “[èLa Gazzetta del Popolo]]” in Africa Orientale per documentare la nascita del nuovo Impero fascista. «Sono paesi disperati, scrive alla madre, dove gli italiani lavorano come cani. Asmara è una città squinternata, senza capo né coda, oscura come la mia campagna, con strade pessime, dove nessuno sa niente degli altri». Sempre su incarico de “La Gazzetta del Popolo”, nel 1939, si reca in Libia a visitare le colonie agricole fondate da contadini veneti, inviati dal fascismo per dissodare il deserto. Gli articoli, però, non soddisfano il governatore, perché ritenuti poco conformi al linguaggio giornalistico in voga.
Gli anni della seconda Guerra Mondiale e della crisi esistenziale
Nel 1940 comincia a collaborare a “Primato” la rivista culturale voluta da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale. Nei suoi articoli traspare l’angoscia per il tempo che scorre e l’avvicinarsi della vecchiaia, che lo portano alla “scoperta dei sentimenti”. Lo scoppio della guerra trova Comisso nella sua casa di Zero Branco, alle prese con un nuovo amore, il sedicenne Guido Bottegal, un irrequieto ragazzo trevigiano con velleità di poeta che verrà soprannominato “il fuggitivo” per le sue fughe improvvise. Pubblica i racconti di Felicità dopo la noia. La Mondadori pubblica Un inganno d’amore (1942), il romanzo sulla “scoperta dei sentimenti” al quale Comisso teneva particolarmente. La critica lo accoglie con molte perplessità. Ad aggravare la crisi psicologica dello scrittore contribuisce la sua passione per Guido, con esplosioni di gelosia, a causa di un personaggio inquietante come Sandro Pozzi, ex legionario fiumano, ora agente dei servizi segreti fascisti. Nel dicembre 1943, Comisso ritorna a collaborare con il “Corriere della Sera”, divenuto il più importante quotidiano della Repubblica Sociale. A dirigerlo viene chiamato Ermanno Amicucci, già direttore de “La Gazzetta del Popolo”. Nel 1944 Guido Bottegal, arruolato nella Marina Repubblicana, diserta dopo aver scritto una lettera in cui accusa il fascismo di aver tradito i giovani. Viene arrestato e portato nelle carceri di Venezia. Comisso cerca raccomandazioni per farlo scarcerare. Guido viene liberato, dopo aver fatto domanda, su consiglio di Pozzi, di entrare in un reparto combattente della R.S.I. e riprende i rapporti con Comisso. Nel bombardamento di Treviso del 7 aprile, la casa di famiglia in piazza Fiumicelli viene distrutta. La madre e la fedele governante Giovanna erano sfollate a Zero Branco e si salvano. Nel febbraio del 1945, Guido diserta e si rifugia sull’Altipiano di Asiago, a lavorare per i tedeschi nella Todt. Finirà fucilato dai partigiani dell’Altipiano che lo credono una spia. Comisso narrerà questi tragici avvenimenti in Gioventù che muore (1949). «E non cerco più amicizie dopo l’ultima per Guido che mi à così massacrato, illuso, deluso e stroncato». Comisso vive una crisi esistenziale, causata dalla tragica morte dell’amico e dalla sensazione, con l’affermarsi del neorealismo, di essere ormai superato come scrittore. Va spesso a Venezia, a trovare Filippo De Pisis. Collabora con Mario Pannunzio al “Risorgimento liberale” e con altri giornali. Scopre Giuseppe Berto, da poco rientrato dalla prigionia in Texas: è proprio Comisso a indirizzarlo a Longanesi con il manoscritto de Il cielo è rosso (1947), uno dei primi bestseller del dopoguerra. Nel 1947 pubblica con la Mondadori Capriccio e illusione: al centro del romanzo, il travagliato rapporto con Guido. Muore l’amico Arturo Martini e si propone di scriverne la biografia e raccogliere l’epistolario. Il romanzo Gioventù che muore, sulla tragica fine di Guido, viene pubblicato dalle edizioni del quotidiano “Milano-Sera” (1949) dopo essere stato rifiutato da ben tre editori.
Gli anni cinquanta e sessanta
Nel 1951 pubblica Le mie stagioni per le “Edizioni di Treviso”. L’anno successivo ottiene il premio Viareggio con il libro di racconti Capricci italiani. Nel 1953 Comincia la lunga collaborazione con “Il Mondo” di Mario Pannunzio, dove pubblicherà, l’anno successivo, in tre puntate, Il mio sodalizio con De Pisis, racconto di un’amicizia intensa e rafforzata dall’arte. Filippo De Pisis è ormai ricoverato in una clinica psichiatrica dove morirà il 2 aprile 1956 1954. Muore la madre a maggio. In estate, Comisso decide di mettere in vendita la casa e la campagna di Zero Branco e torna a vivere in città, in un appartamento in affitto. Al Convegno di S. Pellegrino Terme, Romanzo e poesia di ieri e di oggi – Incontro di due generazioni, Comisso presenta il giovane Goffredo Parise. Sarà l’inizio di una nuova amicizia; l’ultima veramente importante per lo scrittore trevisano. Nel 1955, il libro di racconti Un gatto attraversa la strada vince il Premio Strega. Si trasferisce in una nuova casa di proprietà, a Santa Maria del Rovere, prima periferia di Treviso. Annota nel diario: «Finalmente sono venuto ad abitare nella mia nuova casa… Vi trovo ancora il senso della campagna, della mia vita di Zero, pure essendo vicino alla città… Ecco un nuovo punto di partenza per la mia vita». Nel 1958 pubblica La mia casa di campagna. Scrive Guido Piovene: Il venetismo in lui… è un fatto di natura, paesaggio esterno ed interiore rappresentazione. Comisso ha dentro di sé gli assilli del Veneto come li ha il Veneto, che tende a evaderne in belle forme, armonie di colore; li contiene visceralmente, non ne fa oggetto di discorso intellettuale». Esce la raccolta di racconti Satire italiane (1960): un’osservazione puntigliosa di malesseri, ha scritto Nico Naldini, delusioni, ansie e antipatie tra tante descrizioni ironiche che diventano amare sulla natura tradita dall’uomo. «La nostra vita oggi è ridotta a questi estremi dai quali sono escluse serenità, bellezza e armonia». Esce presso Longanesi La donna del lago (1962), che si sviluppa intorno ai “delitti di Alleghe”, una serie di omicidi avvenuti tra il 1933 e il 1946. «Bisogna accettare questo mio libro come una semplice autobiografia, una delle tante biografie lunghe e brevi che fanno il complesso della mia opera narrativa». Sarà uno dei suoi maggiori successi editoriali e Mario Soldati cercherà di farne un film. E’ il 1964 quando esce Cribol per Longanesi, una storia scabrosa ambientata ancora tra il Piave e Onigo, un atto d’amore per la natura e le sue “leggi supreme”. In questi ultimi anni è tormentato da fastidi alla vista, ma scrive ancora, mentre è in corso di pubblicazione presso Longanesi l’opera omnia. Nel 1968 esce Attraverso il tempo, ultimo libro di racconti, lui vivo. «Sono un poco stufo di scrivere, ma è il mio respiro». In maggio, viene organizzato a Treviso un convegno su Comisso, con la presenza, tra gli altri, di Montale, Piovene, Parise e Pasolini. Qualche giorno prima, il critico Gianfranco Contini è passato a casa sua per rendergli omaggio. Il 21 gennaio 1969 Giovanni Comisso muore nell’ospedale della sua città.
Bibliografia essenziale
Al sud, Neri Pozza, 1996, a cura di Nico Naldini.
Amori d’oriente, Milano, Longanesi, 1947.
Approdo in Grecia, Bari, Leonardo Da Vinci, 1954.
Avventure terrene, Milano, Treves, 1935 .
Capricci italiani, Firenze, Vallecchi, 1952.
Capriccio e illusione, Milano, Mondadori, 1947.
Cina-Giappone, Milano, Treves, 1932.
Cribol, Milano, Longanesi, 1964.
Felicità dopo la noia, Milano, Mondadori, 1940.
Gente di mare, Milano, Treves, 1929.
Giorni di guerra, Milano, Mondadori, 1930.
Gioventù che muore, Milano, Milano-Sera, 1949.
I due compagni, Milano, Mondadori, 1936.
I sentimenti nell’arte, Venezia, Il Tridente, 1945.
Il delitto di Fausto Diamante, Milano, Ceschina, 1933.
Il porto dell’amore, Treviso, Vianello, 1924.
L’italiano errante per l’Italia, Firenze, Parenti, 1937.
La donna del lago, Milano, Longanesi, 1962.
La mia casa di campagna, Milano, Longanesi, 1958.
La Sicilia, Ginevra, Cailler, 1953.
Le mie stagioni, Treviso, ed. di Treviso, 1951
Mio sodalizio con De Pisis, Milano, Garzanti, 1954.
Opere, Mondadori, 2002 a cura di Rolando Damiani e Nico Naldini.
Poesie, Treviso, Longo e Zoppelli, 1916.
Questa è Parigi, Milano, Ceschina, 1931.
Satire italiane, Milano Longanesi, 1960
Storia di un patrimonio, Milano, Treves, 1933.
Un gatto attraversa la strada, Milano, Mondadori, 1954.
Un inganno d’amore, Milano, Mondadori, 1942.
Veneto felice, Longanesi 1984, a cura di Nico Naldini.
Storie di cinque donne che hanno cambiato l’immagine del mondo-·
Editore Mondadori
Descrizione-Di buona famiglia o figlie di emigranti, amate o solitarie, ammirate o emarginate, le cinque donne protagoniste di questo libro, di Elisabetta RASY, hanno tutte un rivoluzionario desiderio: indagare la realtà con il proprio sguardo femminile, abituato a cogliere aspetti della vita ignoti, intimi o trascurati, coltivando un’audace arte dell’indiscrezione che è l’esatto contrario dell’indifferenza. Sono cinque grandi fotografe, diverse per carattere e destino, ma ugualmente animate dalla voglia di cambiare l’immagine del mondo scovando bellezza e dolore là dove non erano mai stati visti, che si tratti di amore, politica, sesso, povertà, guerra o del corpo, soprattutto femminile. Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus e Francesca Woodman hanno poco in comune, per origine e storia personale, ma condividono la stessa voglia di raccontare con l’obiettivo fotografico la realtà a misura della loro esperienza di donne e di ciò che hanno conosciuto, scoperto e amato.
Le loro esistenze sono avventurose, spesso difficili. Tina Modotti, operaia in fabbrica a Udine a soli tredici anni, dopo una breve parentesi hollywoodiana vive accese passioni politiche e sentimentali nel Messico degli anni Venti, spalancando i suoi occhi sulla bellezza dei diseredati; Dorothea Lange, in fuga dalla sua famiglia di emigranti, ritrae nel coraggio degli americani rovinati dalla Grande Depressione la propria lotta contro la vergogna della malformazione con cui convive dall’infanzia; l’inquieta Lee Miller, che qualcuno considera la donna più bella del mondo, è pronta a svestirsi degli abiti da modella per denunciare il volto spettrale della guerra; Diane Arbus abbandona gli agi della mondanità newyorkese per puntare il suo obiettivo su ciò che non corrisponde al canone della normalità e raccontare l’imperfezione umana; Francesca Woodman nella sua breve esistenza esplora la figura del corpo femminile, indagandone in crudi ed emotivi autoritratti il lato più misterioso, insieme fragile e potente. Con una scrittura intensa e partecipe, Elisabetta Rasy insegue lungo l’arco del Novecento la vita e l’opera di queste cinque donne straordinarie, animate, ognuna secondo il proprio temperamento, da un’inarrestabile aspirazione alla libertà. Perché proprio l’incontro di talento e libertà è la cifra segreta grazie alla quale hanno saputo farsi strada in un mondo ancora fortemente maschile, diventando protagoniste di un nuovo sguardo sul secolo che hanno attraversato.
Editore : Mondadori (11 maggio 2021)
Lingua : Italiano
Copertina rigida : 252 pagine
ISBN-10 : 8804738820
ISBN-13 : 978-8804738824
Enciclopedia TRECCANI-Rasy, Elisabetta. – Giornalista e scrittrice italiana (n. Roma 1947). Laureatasi in Storia dell’arte, negli anni Ottanta ha fondato con P.V. Tondelli e A. Elkann la rivista Panda. Ha collaborato con varie testate, tra le quali, La Stampa, L’Espresso, Panorama e Sette del Corriere della Sera. Autrice di numerosi saggi di argomento letterario, molti dei quali dedicati alla scrittura femminile (La lingua della nutrice, 1978; Le donne e la letteratura, 1984), ha esordito nella narrativa nel 1985 con il romanzo La prima estasi. Da allora ha scritto diversi romanzi di successo anche all’estero, che hanno ricevuto vari riconoscimenti come il Premio Campiello con Posillipo nel 1998, spesso di argomento parzialmente autobiografico, tra i quali si ricordano: Tra noi due (2002), La scienza degli addii (2005), L’estranea (2008), Non esistono cose lontane (2014), entrambi nel 2016, Le regole del fuoco (finalista al Premio Campiello) e Senza la guerra (con M. Cacciari, E. Galli della Loggia, L. Caracciolo), Una famiglia in pezzi (2017) e Le disobbedienti. Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte (2019).
Un seguito per “Lo straniero” di Albert Camus-Kamel Daoud-Articolo di Alberto Corsani-Uno scrittore algerino immagina il contraltare del celebre romanzo,Un arabo uccide un francese, apparentemente senza motivo, pochi giorni o poche settimane dopo l’indipendenza ottenuta dagli algerini nei confronti della Francia. È il ribaltamento della situazione che innescava, nel 1942, Lo straniero di Albert Camus, dove, nelle prime pagine, un francese d’Algeria sparava a un arabo sulla spiaggia, apparentemente senza motivo. Ma il libro iniziava in maniera inattesa, secca, brutale: «Oggi la mamma è morta…». E la madre è assolutamente centrale, sia pure in termini diversi, anche nel romanzo, ora uscito anche in Italia, dello scrittore-giornalista Kamel Daoud*, che davvero prosegue, rovesciandola, l’«inchiesta» legata allo Straniero e al suo protagonista Meursault(Meursault: contre-enquête è il titolo originale).
La vicenda dello Straniero è stata conosciuta da molti anche sui banchi di scuola: forse Meursault, abbacinato dal sole, ha visto l’arabo avvicinarsi minaccioso, forse era comparsa la lama di un coltello. Dunque, il delitto. E poi tutto quel che ne segue: il protagonista-assassino (che è anche il narratore) non si difende, anzi il suo comportamento sarà alla base della sua condanna a morte. Era defunta la madre, in un ospizio, e lui non se ne era occupato, anzi era andato con una donna. Tutto gli sembrava assurdo, Meursault si «lascia vivere addosso»: non gli resta che farsi condannare, sperando che tanta gente assista, odiandolo, alla sua esecuzione.
Daoud rifiuta questa impostazione, perché essa non rende giustizia alla vittima: vestendo i panni del fratellino dell’arabo ucciso, l’autore lamenta che nel romanzo di Camus la vittima esca di scena senza neppure aver avuto la dignità di un nome. Poteva essere stato ucciso chiunque altro, ciò che interessa lo scrittore francese è solo il disagio interiore, il rovello metafisico, il mal de vivre del sig. Meursault. Un lusso (il disagio esistenziale) che i poveracci non si possono permettere, dovendosi piuttosto arrabattare per tirare avanti e crescere nei vicoli andando a scuola quando capita.
Sembrerebbe una polemica rivendicativa e dettata dall’identità di un popolo liberatosi dal dominio coloniale, che ora volesse liberarsi anche della cappa culturale impostagli dalla Francia. Ma ci sono anche elementi più sottili. Intanto il romanzo di Daoud è tutto pervaso dai libri di Camus, di cui l’autore dimostra una grande conoscenza. Non solo per alcune frasi che ricalcano Lo straniero (per analogia o per via contraria, quasi parodistica). Se nello Straniero il protagonista tiene un atteggiamento di totale insensibilità nei confronti del suo delitto e della sua vittima, qui è tutta la società che assolve l’assassino-narratore: il suo crimine viene considerato un colpo di coda della guerra anticoloniale.
Ma poi c’è anche lo stile – altra operazione interessante: Daoud non si limita a usare frasi brevi ed essenziali come Camus, il suo tono quasi dimesso e una certa brevità del racconto; in un buon terzo del libro scrive rivolgendosi direttamente a un interlocutore, con stile oratorio e dimostrativo, che riecheggia quello di una successiva, complessa opera di Camus come è La caduta. Chi si addentra a questi livelli nello stile del predecessore non può che averlo ammirato.
Inoltre è centrale e molto evocativa la figura della madre. Camus parlò sempre di sua madre come di un modello (povera, di scarsissima istruzione, ma maestra di umanità); per il giovane protagonista invece la mamma è tutto (è già orfano di padre quando gli viene ucciso il fratello), ma è anche una cappa che gli impedisce di crescere, finché l’incontro con una ragazza alle prese con una tesi di laurea sul delitto non lo farà svincolare dalle sue ali protettive.
Un’opera complessa, dunque, che rimanda inevitabilmente all’opera complessiva di Camus, al suo umanesimo che non fu toccato direttamente dalla grazia della fede, ma che ne fu intrigato. Durante la guerra mondiale, nella Francia occupata, lo scrittore entrò in contatto con il mondo protestante. La morte in un incidente d’auto (assurdo, questo sì), quindici anni dopo, ha impedito questo ulteriore, eventuale sviluppo di una vita e carriera dedicate a promuovere la causa dell’umanità: contro ogni oppressione, contro la povertà, la pena di morte, contro la solitudine, e anche contro l’arroganza umana che pretende di creare autonomamente l’uomo nuovo.
*K. Daoud, Il caso Meursault, Milano, Bompiani, 2015, pp. 130, euro 16,00.
Insieme per le donne IL LIBRO FEMMINISTA CHE FECE CADERE LA DITTATURA IN PORTOGALLO Può un libro, un libro femminista, contribuire alla caduta di una dittatura? Sì, un libro femminista può anche questo!
– Rizzoli Editore-
Nel 1972, nel Portogallo che vive una dittatura ormai quarantennale, viene pubblicato un libro: “Le nuove lettere portoghesi” di Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta e Maria Velho da Costa, tre autrici il cui impegno femminista è già noto alle autorità, che di fatto le controlla.
Le Tre Marie, come verranno chiamate da questo momento in poi, descrivono nero su bianco che cosa sia la dittatura portoghese: attraverso un’opera epistolare collettiva scritta a sei mani, le autrici tratteggiano una società patriarcale, sessista e misogina, fortemente razzista nei confronti delle colonie.
Il testo affronta temi quali la riappropriazione e l’autodeterminazione del corpo femminile, il diritto al piacere, nominando nell’opera parole quali “vagina” e “clitoride”, il diritto all’aborto e all’occupazione di spazi pubblici da parte delle donne.
L’opera viene immediatamente censurata “per incompatibilità con la morale pubblica” e Le Tre Marie interrogate: le autrici non riveleranno mai chi avesse scritto cosa.
La storia delle “nuove lettere portoghesi” varca i confini nazionali arrivando in Francia all’attenzione delle più grandi femministe dell’epoca, tra cui Simone de Beauvoir.
Ne consegue una vastissima mobilitazione internazionale a sostegno delle Tre Marie, la cui opera ha di fatto contribuito a screditare l’immagine della dittatura portoghese a livello mondiale, il cui processo si tiene il 25 ottobre del 1973.
Il regime pretende che le autrici ritrattino pubblicamente affermando di non aver avuto intenzione di “offendere il governo, né il buon nome del Portogallo”.
Per il timore di grossi disordini la lettura della sentenza viene rinviata al successivo 25 aprile 1974, lo stesso giorno in cui la dittatura viene rovesciata con il colpo di stato conosciuto come la Rivoluzione dei Garofani.
Alcune settimane dopo, le Tre Marie vengono assolte da tutte le accuse.
Il giudice Acácio Lopes Cardoso emette la sentenza: “Il libro non è pornografico né immorale. Al contrario: è un’opera d’arte, di alto livello, come gli altri che le stesse autrici avevano scritto in precedenza”.
Dafne Malvasi
Per approfondire:
Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta, Maria Velho da Costa, “Le Nuove Lettere Portoghesi”, Ed. Rizzoli, 1977.
https://www.ilpost.it/…/portogallo-femminismo-tre…/
Immagine tratta da: https://espresso.repubblica.it/…/libro_erotismo…/
#letremarie #nuovelettereportoghesi #Portogallo #donnecontroladittatura #librifemministi #insiemeperledonne
“Scrivere le Nuove lettere portoghesi è stata una delle cose più importanti della mia vita”
[intervista apparsa sul portale portoghese di informazione alternativa Esquerda.net il 25 ottobre 2020 a cura di Mariana Carneiro – traduzione e note a cura di Alice Girotto]
Il 25 ottobre 1973 ebbe inizio il processo alle “Tre Marie”, autrici del libro Nuove lettere portoghesi. In quest’intervista concessa a Esquerda.net, Maria Teresa Horta parla del processo di creazione letteraria, della persecuzione che subirono e del movimento di solidarietà che intimorì il regime fascista.
Nel maggio del 1971 Maria Teresa Horta, Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa iniziarono a scrivere, a sei mani, le Novas Cartas Portuguesas (‘Nuove lettere portoghesi’). Per la scrittura collettiva, si accordarono di partire dalle lettere d’amore indirizzate a un ufficiale francese da Mariana Alcoforado, pubblicate in Portogallo in edizione bilingue dall’editore Assírio & Alvim con il titolo Cartas Portuguesas (‘Lettere portoghesi’) e tradotte da Eugénio de Andrade.[1]
In Nuove lettere portoghesi Maria Teresa Horta, Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa sfidano la dittatura, l’ordine patriarcale e le convenzioni sociali del paese. Nell’opera vengono denunciate le diverse oppressioni subite dalle donne, il sistema giudiziario che perseguitava le donne scrittrici, così come la guerra coloniale e la violenza fascista. Esattamente 47 anni fa, il 25 ottobre 1973, ebbe inizio il processo alle “Tre Marie”. In occasione di questa data, Esquerda.net ha intervistato Maria Teresa Horta, che ringraziamo per la disponibilità e la gentilezza.
Come conobbe Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa, le altre due “Marie” con cui avrebbe scritto le Nuove lettere portoghesi?
Io ero giornalista al quotidiano A Capital, dove coordinavo il supplemento letterario “Literatura e Arte”, e un giorno intervistai Maria Isabel Barreno. Da quel momento diventammo amiche. Nel frattempo, Fátima [Maria Velho da Costa] pubblicò Maina Mendes. Quando lo lessi, parlai con Isabel, che mi disse che lei e Fátima erano molto amiche e lavoravano insieme all’Istituto nazionale di ricerche industriali. Mi diede subito il contatto di Fátima per poter organizzare un’intervista. Chiacchierammo per sei ore, uscì da casa mia alle sette di sera passate. Dopo quest’incontro iniziammo, tutte e tre, a incontrarci tutte le settimane. Sentivamo che avevamo molte cose da dirci. Avevamo molto in comune. Isabel veniva in macchina con Fátima e venivano a prendermi al giornale. Pranzavamo sempre al Treze, nel Bairro Alto a Lisbona, dove, all’epoca, si incontravano i giornalisti. Durante i nostri incontri, parlammo varie volte di scrivere qualcosa insieme. Era un progetto che continuavamo a rimandare. Con la pubblicazione del mio libro Minha Senhora de Mim (‘Mia padrona di me’) tutto cambiò. Smettemmo di essere solo le amiche che si incontravano per parlare di letteratura, della dittatura e della situazione delle donne e iniziammo a scrivere un libro insieme: le Nuove lettere portoghesi. Era il maggio del 1971.
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Il libro Minha Senhora de Mim fu ritirato immediatamente dalla polizia politica (PIDE) e le valse, oltretutto, un pestaggio. Può parlarmi un po’ della persecuzione che subì?
Le Nuove lettere portoghesi non esisterebbero se non esistesse il libro Minha Senhora de Mim. La mia vita cambiò radicalmente quando lo pubblicai. La PIDE lo ritirò otto giorni dopo e Snu Abecassis, fondatrice della casa editrice Dom Quixote, fu chiamata dal direttore del Segretariato nazionale di informazione. Moreira Baptista le proibì di tornare a pubblicare una mia opera. “Qualsiasi libro?”, gli chiese Snu, al che lui rispose: “Se il libro si intitola La storia del piccolo maggiolino ed è firmato da Maria Teresa Horta, le faccio chiudere la casa editrice”. A quell’epoca, Moreira Baptista già mi odiava. Ero l’unica donna direttrice di un circolo cinematografico e i circoli erano centri di grande resistenza politica. Un giorno andammo al Palácio Foz, sede del Segretariato, a protestare perché Moreira Baptista aveva proibito un ciclo di film di Visconti che stavamo organizzando. Quando mi vide, chiese cos’è che stava facendo lì quella ragazzina. Gli spiegarono che non ero una ragazzina, ero una scrittrice, sposata, e direttrice dell’ABC. Mi guardò e disse: “Povero paese il nostro, in cui ci sono già donne direttrici di cineforum”. A partire da quel momento diventò il mio peggior nemico.
Dopo il ritiro di Minha Senhora de Mim, divenni bersaglio di una persecuzione feroce. Fu un processo di umiliazione pura, una cosa vergognosa, offensiva. Dovetti cambiare l’utenza telefonica di casa e metterla a nome di mio marito Luís [de Barros]. All’epoca, era rarissimo che l’utenza telefonica fosse a nome di una donna. Chiamavano alle cinque, alle quattro, alle tre del mattino per insultarmi e minacciarmi. Era inconcepibile. Dicevano cose come “Dovrebbero violentarti per vedere se ti piace”. Quando telefonavano di mattina o di pomeriggio, a volte, era mio figlio Luís Jorge che rispondeva e doveva sentire tutte quelle ingiurie su sua madre. Era di una violenza atroce. Oppure rispondeva mio marito, al quale dicevano che doveva “mettere la moglie al suo posto”. In redazione, le centraliniste dovettero istituire il triage delle telefonate, tale era il numero di persone che chiamavano e mi cercavano.
Una sera uscii di casa, nel quartiere popolare di Arco do Cego, per incontrarmi con Luís. Iniziai a salire in direzione della statua di António José de Almeida per prendere un taxi. Era un percorso abbastanza solitario. Improvvisamente, un’auto accese i fanali, iniziò a muoversi verso di me e salì sul marciapiede dove stavo camminando. Dall’auto uscirono due uomini, mentre un terzo rimase al volante. Mi gettarono a terra e iniziarono a picchiarmi. “È per imparare a non scrivere come scrivi”, dissero. Allora capii che non si trattava di una rapina, erano fascisti. Apparve un signore che abitava lì nel quartiere, padre di una mia amica. Chiese “Cosa sta succedendo?”, mentre correva verso di me. Gli uomini entrarono nell’auto e sparirono. Il signore mi portò all’ospedale e sua moglie chiamò alla redazione del Diário de Notícias. Qualcuno doveva avvisare mio marito di quello che era successo. Venne da me subito profondamente turbato. Mi medicarono e mi diedero i punti.
Tutto questo per un libro! E un libro bello, che non è neppure il più erotico che ho scritto e in qualche punto è quasi ingenuo.
È in seguito allo scandalo provocato da Minha Senhora de Mim e alla persecuzione da lei subita che decideste di sfidare il regime fascista e scrivere, a sei mani, le Nuove lettere portoghesi. Come nacque quest’idea?
Circa una settimana dopo l’aggressione, andai a pranzo con Isabel e Fátima. Incontrai per prima Fátima. Quando mi vide, rimase indignatissima per il mio stato, per quello che mi avevano fatto. Di fronte al subbuglio provocato dal libro, allo scandalo che si generò e per il fatto di essere stata inseguita, minacciata e picchiata, Fátima lanciò la sfida: “Se una donna da sola provoca tutta questa confusione, questo subbuglio, questo scandalo, cosa succederebbe se fossimo in tre?”. L’idea mi piacque subito. Nel frattempo, arrivammo al Treze, dove Isabel stava scrivendo su un foglio. Le parlammo dell’idea di scrivere un libro insieme, molto entusiaste. La sua reazione fu: “Che rompiscatole, ne inventate sempre una. Proprio adesso che sto scrivendo A Morte daMãe (‘La morte della madre’)…” (un libro magnifico). La settimana dopo, quando ci incontrammo di nuovo, Isabel aveva già un primo testo, la prima lettera. Fu così che nacquero le Nuove lettere portoghesi.
Conosciamo la “maternità” solo di questo stesso testo. Del resto, vi siete reciprocamente promesse che non avreste mai rivelato chi aveva scritto che cosa. Com’è stato questo processo letterario collettivo?
Oltre al nostro pranzo settimanale al Treze, decidemmo di incontrarci una volta alla settimana in casa di una di noi. L’idea era di alternare di volta in volta il luogo, solo che la stragrande maggioranza delle volte finimmo per riunirci a casa mia. Definimmo diverse regole. Ognuna di noi doveva dare alle altre una copia, battuta a macchina, di quello che avevamo scritto. Durante i nostri incontri non discutevamo solo della costruzione letteraria del libro, parlavamo anche di altre questioni che sorgevano man mano nel corso del processo. Sostanzialmente, discutevamo di tutto. Dovevamo leggere il nostro testo a voce alta alle altre e qualsiasi testo poteva essere rifiutato. Non era affatto il caso di “Io scrivo e voi sopportate”. Poi avevamo dei rituali scherzosi. All’inizio e alla fine dicevamo sempre determinate parole, come se fossero password. Era una specie di gioco. La nostra generazione lo faceva spesso, usavamo parole di cui solo noi sapevamo il significato.
Qualcuno dei testi è mai stato rifiutato?
Neanche uno.
E modificavate i testi le une delle altre?
No, mai, né volevamo farlo. Se non eravamo d’accordo, ne discutevamo lì. Cercavamo di convincere l’autrice del testo a cambiarlo. Chiaramente potevamo rifiutare il testo nella sua interezza, ma di fatto non lo facemmo mai, né mai nessuna di noi disse che non le piaceva il testo di una delle altre due. E tutto questo era la verità. Discutevamo molto dei testi e dello sviluppo della storia. Era dai testi che stavamo discutendo in un dato giorno che partivamo per nuovi testi. Spesso avevamo visioni diverse e scrivevamo testi che andavano in direzione contraria a quella che un’altra stava seguendo, ma lo facevamo in modo letterario, non in modo critico.
Era una vera sfida…
Assolutamente sì! Stavamo lì a discutere ore e ore. Ognuna parlava del testo delle altre e ognuna di noi difendeva il proprio testo. Fu molto intenso.
Ricordo di averla sentita dire che scrivere quest’opera è stata una delle cose più divertenti e avvincenti che ha fatto nella vita. Mi può spiegare perché?
È stata davvero una delle cose più importanti e divertenti che ho fatto nella vita. Ridevamo così tanto! Eravamo tutte molto scherzose. Il libro è pieno di umorismo. Quando affrontiamo il discorso della mascolinità, non c’è niente di più devastante che usare l’umorismo per far arrabbiare quelle creature.
Era una battaglia politica che stavate ingaggiando…
Era fortemente politica e fu un processo politico, anche se i fascisti hanno sempre tentato di far credere che era una questione di morale e buoni costumi. Molte persone sapevano già che stavamo scrivendo il libro e lo consideravano come una specie di vendetta. Non contro gli uomini, ma contro chi ci chiamava in tribunale e ci proibiva di scrivere, come già era successo con Natália Correia.[2] E questo è uno dei motivi che spinse così tante persone a offrirsi successivamente come testimoni della difesa.
Quanto tempo impiegaste per scrivere il libro?
Nove mesi, dal 1° marzo al 25 novembre del 1971. Ce ne rendemmo conto solo quando stavamo preparando le copie del libro da consegnare alle case editrici. Eravamo a casa mia. Natália Correia della Estúdios Cor, Leão de Castro della Europa-América e Pedro Tamen della Moraes Editores rimasero nel salottino al piano di sotto, aspettando le copie del libro per prenderne una e decidere se volevano pubblicarlo. Mentre preparavamo i mucchietti chiesi quanto tempo ci avevamo messo per scrivere le Nuove lettere portoghesi. Arrivammo quindi a questa conclusione: nove mesi, il tempo di una gravidanza. È impossibile che sia un caso. Quale fu la reazione degli editori al libro?
Leão de Castro, proprietario della casa editrice Europa-América, mi telefonò per spiegarmi che non poteva pubblicarlo perché gli avrebbero fatto chiudere e non sarebbe riuscito a pagare i tipografi. I proprietari della casa editrice di Pedro Tamen non accettarono di pubblicare le Nuove lettere portoghesi. Natália disse invece che, se non le avessero avallato la pubblicazione, si sarebbe licenziata. I proprietari della Estúdios Cor, che più tardi furono sentiti durante il processo e rifiutarono qualsiasi responsabilità, diedero comunque indicazioni a Natália di tagliare alcune parti, ma lei chiese a uno dei tipografi di pubblicare l’opera integralmente. Natália fu la prima persona a essere interrogata durante il processo. Volle assumersi tutta la responsabilità, affermando che, se esisteva qualcuno a cui attribuire la colpa per quel libro magnifico, era lei. Noi lo avevamo scritto, ma era stata lei a pubblicarlo. Se non fosse stato per lei, il libro non sarebbe mai stato pubblicato. Tutte le case editrici si sarebbero rifiutate di farlo. “L’unica responsabile del fatto che il libro sia finito nelle librerie per essere venduto sono io”, sottolineò Natália. Facemmo subito molto rumore in tribunale per cercare di dire che non era vero e ci fu ordinato di tacere.
Era una donna coraggiosa…
Natália era una donna straordinaria. La persona più coraggiosa che ho conosciuto. Una persona intelligente, solidale, che scriveva bellissima poesia. Era davvero una gran donna.
I fascisti considerarono il contenuto delle Nuove lettere portoghesi “irrimediabilmente pornografico e attentatore della morale pubblica” e minacciarono una pena fra i sei mesi e i due anni di carcere. Eravate già consapevoli delle conseguenze che avreste affrontato con la pubblicazione del libro? Pensavate che la persecuzione si sarebbe spinta fino a quel punto?
Eravamo curiose. Credo che sia la parola adatta. Non siamo mai state donne paurose, men che meno di scrivere. Fu, questo sì, una grossa sfida. Del resto, il libro parte dalla sfida di Maria Velho da Costa: “Se una donna da sola provoca tutta questa confusione, questo subbuglio, questo scandalo, cosa succederebbe se fossimo in tre?”. Non ci eravamo mai proposte di scrivere un libretto con tutte le attenzioni.
Stavamo sfidando il regime fascista ed eravamo assolutamente consapevoli del pericolo che stavamo affrontando. All’epoca, tutto era considerato sovversivo. Tutti noi, di sinistra, vivevamo in pericolo. Gli agenti della PIDE potevano fare quello che volevano, come arrivare alle sei della mattina a casa mia, entrare e prendermi per il collo, con il volto addossato contro la parete. Uno dei compiti di quei signori era andare a casa della gente a quell’ora. Faceva parte dell’intimidazione e del terrore permanente. Ognuno di noi aveva un “signor agente” che ascoltava le nostre chiamate. Mi ricordo di una telefonata con [José] Cardoso Pires[3] in cui mi disse “Bene, adesso parliamo al signor agente che ci sta ascoltando”. [ride] Oltre al fatto che, prima di noi, Natália Correia era già finita in tribunale ed era stata condannata per aver scritto la Antologia de Poesia Erótica e Satírica (‘Antologia di poesia erotica e satirica’).
Quello che non ci aspettavamo era tutta quella violenza, tutto l’apparato. Sentimmo cose incredibili e spaventose, anche durante le sessioni in tribunale. Già mentre stavamo scrivendo il libro Isabel e Fátima si separarono dai mariti. E non fu una coincidenza, è tutto legato alle Nuove lettere portoghesi. In questo periodo così breve le nostre vite ne risentirono, anche prima della PIDE, della polizia e del processo. Le nostre vite cambiarono completamente anche per altri aspetti: conoscemmo persone impensabili, come la Duras o Simone [de Beauvoir], uscimmo dal Portogallo…
Ci fu un tentativo implacabile di umiliarvi e intimidirvi e di fingere che non si trattava di un processo politico. Foste addirittura interrogate dalla polizia del buon costume, come le prostitute. Questo tentativo fu esplicito durante il vostro processo?
Vollero proprio umiliarci, schiacciarci. Fu sinistro. Dovemmo presentarci alla polizia del buon costume. Non ammisero mai che era un processo politico, dissero che ciò che era in causa era un attentato alla morale pubblica. Ci trattarono come delle svergognate. Tutto questo è molto importante per capire che le Nuove lettere portoghesi furono considerate gravissime per essere state scritte da donne. E le donne dovevano essere umiliate.
Quando arrivammo alla polizia del buon costume ci ordinarono di sederci, noi e i nostri avvocati, in una stanza dove c’erano delle signore. Poco dopo una di loro, la più vecchia, si alzò e venne a parlare con noi. “Voi, ragazze, siete qui a far che?”, chiese. Il mio avvocato, Francisco Rebelo, le spiegò che eravamo lì perché avevamo scritto le Nuove lettere portoghesi. Rimase molto ammirata. Ci disse che quella stanza non era per le scrittrici, era la stanza delle prostitute, e che non dovevamo stare lì: “Uscite e andate in un’altra stanza, ce ne sono varie disponibili”.
Girò il dito nella piaga. Vollero metterci nella stanza delle prostitute per cercare di umiliarci ed erano convinti che avremmo parlato, che una di noi alla fine avrebbe parlato. Prima ci sentirono insieme, poi ci chiamarono una alla volta, con il rispettivo avvocato. Quando sentirono me, mi dissero che dovevo vergognarmi, che sapevano che ero stata io a scrivere il libro. Non credevano alla storia di un libro scritto in tre, non esisteva. Fu a quel punto che Francisco Rebelo se ne uscì con quella battuta infelice: “È una specie di cadavre exquis”.
Durante l’intero processo non prendeste mai in considerazione la possibilità di smettere di scrivere o, più tardi, di ritrattare?
No! Scrivere questo libro è stata una delle cose migliori delle nostre vite. Com’era possibile? Quel processo letterario fu inedito nel nostro paese, né trovammo niente di identico in altri paesi. Stavamo facendo una cosa unica: tre donne, tre scrittrici, tre amiche che si riuniscono per parlare e scrivere di quello che volevano in un paese fascista. Il fatto che non avevamo paura fu una delle cose che più li fece infuriare. Pensavano che, essendo donne, eravamo esseri fragili e che ci avrebbero terrorizzato. Ma non ci riuscirono. Quando andammo in tribunale non eravamo piene di paura. Eravamo decise.
Il vostro atteggiamento durante le sessioni in tribunale era una delizia, con un’aria convinta, padrone di voi stesse…
Elegantissime, sempre. Ma dovevamo sistemare Isabel prima delle sessioni, perché a lei queste cose non interessavano. [ride] E arrivava in ritardo. Il giudice doveva aspettarla. Le facemmo promettere che l’ultimo giorno sarebbe stata splendida e, infatti, fu così.
E non era solo il fatto di essere elegantissime, ostentavate anche un sorriso in viso.
Nonostante tutta la violenza che subimmo, di fatto non lasciammo mai trasparire intimidazione. E molto di ciò che ci circondava risultava addirittura comico: dall’assistente che trascriveva tutto quello che veniva detto, perché non veniva registrato niente, e interrompeva costantemente per chiedere se “sutura” si scriveva con –s o con –ç, al procuratore che sembrava essersi provato gli interventi prima di andare in tribunale… Tutto questo ci faceva ridere. [ride] Non ricordo di aver avuto paura nemmeno una volta, neppure quando uscii di casa per andare in tribunale pensando che il giudice avrebbe letto la sentenza.
La prima volta che siete comparse davanti al giudice avete avuto il privilegio di assistere a situazioni piuttosto ridicole. Può parlarmi di quel momento?
La prima sessione si svolse al primo piano del tribunale della Boa Hora, nel luglio del 1973. Il giorno dopo iniziavano le ferie giudiziarie, perciò per tre mesi non tornammo in tribunale. L’inizio ufficiale del processo venne fissato per il 25 ottobre, con un giudice e un procuratore diversi. Esattamente il giorno prima di questa prima sessione rimasi senza avvocato. Alla fine fu Duarte Vidal, avvocato di Isabel, a rappresentarmi. Il procuratore si entusiasmò a tal punto che iniziò a parlare senza fermarsi e sempre più forte, per spiegare perché eravamo in tribunale e quanto quel libro fosse orribile e nefasto. Tutto avveniva a porte chiuse, senza pubblico, perciò non so bene a chi stava cercando di spiegarlo. Sembrava che avesse provato il suo intervento a casa con la moglie, per confermare che gli veniva bene. Il giudice teneva già le mani in fronte, quasi a dimostrare di essere già stanco di ascoltarlo. A un certo punto, il procuratore, vestito con quella tunica nera, prese un esemplare delle Nuove lettere portoghesi e lesse un passo. Ne approfittò per dire che non eravamo delle signore, perché una signora non avrebbe scritto una cosa come quella. Pensava che ci stava offendendo tantissimo. Il passo che scelse fu il seguente:
Fragili sono gli uomini di questo paese di nostalgie identiche e paure e avvilimenti. Fragilità camuffata in vari tentativi: sfidando tori in piazze pubbliche, per esempio, corse di macchine e lotte corpo a corpo. O mio Portogallo di maschi che ingannano l’impotenza, animali da monta, stalloni, pessimi amanti, così frettolosi a letto, attenti solo a mostrare il cazzo.
Fu la ridarella totale. Gli avvocati scoppiarono a ridere, anche noi scoppiammo a ridere. Il giudice tentò di dissimulare la risata mettendosi la mano davanti alla bocca. Fu una cosa ridicola. La sessione finì lì, anche perché, non appena terminò la sua rappresentazione teatrale, il procuratore uscì dalla porta. Isabel, con quell’aria tranquilla che aveva sempre, ci chiese di coprirla mentre raccoglieva il libro dal pavimento. La guardammo, con i suoi due metri di altezza, e le spiegammo “solo se una di noi si mette a cavalcioni dell’altra”, ma non sapevamo fare queste acrobazie. [ride] Alla fine trovammo un altro modo. Quando arrivammo accanto al libro ci fermammo, Isabel si abbassò e lo prese mentre la coprivamo. Il giudice vide, è impossibile che non abbia visto, ma non disse nulla. Siccome Isabel non aveva neppure la borsa, uscì dal tribunale con il libro in mano. Questo esemplare adesso si trova a casa di suo figlio, al quale ho raccontato questa storia.
Durante l’intero processo godeste di appoggi molto importanti, com’è il caso di Maria Lamas. In che modo venne coinvolta nel processo?
Quando Marcelo Caetano autorizzò Maria Lamas[4] a tornare in Portogallo, per dimostrare che era molto benevolo, il processo delle Nuove lettere portoghesi era all’inizio. Lei insistette per essere fra i miei testimoni. All’epoca non capii perché, solo in seguito venni a sapere che Maria Lamas era una delle donne che partecipava alle riunioni a cui andava la mia nonna Camila e alle quali mi portava quando ero piccola. Visto che avevamo già molti testimoni e c’era un numero massimo consentito, Paulo e Carmo si rese disponibile a cedere il suo posto a Maria Lamas. C’è un episodio molto bello durante il processo. Siccome era molto sorda, il giudice ordinò di mettere una sedia accanto al suo banco e fu lui a farle le domande. A un certo punto le disse: “Allora, la signora pensa che le donne sono oppresse?”. Lei rispose: “Se io sono oppressa? Ah, molto, dottore, dalle mie figlie”. Penso che sia la cosa più stupefacente. Naturalmente scoppiò una risata generale. [ride]
A un certo punto lei, Isabel e Fátima decideste di inviare all’estero tre libri delle Nuove lettere portoghesi, accompagnati da tre lettere: a Simone de Beauvoir, a Marguerite Duras e a Christiane Rochefort. Perché queste tre figure?
Sì, decidemmo di inviare i libri quando la situazione era già abbastanza pericolosa. Non appena il libro venne proibito, Duarte Vilar, che era già amico di Isabel e fu il suo avvocato, le disse che dovevamo divulgare quello che stava succedendo e le chiese se aveva conoscenze fuori del paese. Lei rispose di no, ma che le avevo io, in particolare di gruppi che lavoravano con Simone de Beauvoir. Un amico di Isabel si offrì di portare tre libri e tre lettere nel suo viaggio a Parigi. Fu molto coraggioso, sapendo del pericolo che correva. All’epoca, quando andavamo all’estero, i nostri bagagli erano perquisiti da cima a fondo. Se la PIDE avesse visto una cosa del genere l’amico di Isabel sarebbe stato arrestato immediatamente.
Quando parlammo delle femministe alle quali avremmo inviato i libri, c’erano due figure che emersero subito. Una di loro era Simone. Chi meglio di Simone de Beauvoir? Assolutamente nessuno! Era la donna e la grande scrittrice più conosciuta un po’ in tutto il mondo e un’indiscutibile femminista. Sapevamo anche che c’erano diversi gruppi di donne che lavoravano con lei, di cui uno latino-americano, che poteva tradurre le Nuove lettere portoghesi. Marguerite Duras era, e continua a essere, la mia passione. È un punto di riferimento per la mia vita. Una donna molto difficile e favolosa. Simone era già molto meno irriguardosa. Christiane Rochefort scriveva molto sulle donne. Ma, di fatto, le due donne che fecero di più per il libro furono Duras e Simone.
Il libro Nuove lettere portoghesi non è pornografico né immorale. Al contrario, è un’opera d’arte di elevato livello, che segue altre opere d’arte che le autrici hanno già prodotto.
È impressionante come le cose cambino…
[1] In Italia, l’edizione più diffusa delle Lettre portugaises, testo anonimo francese del 1669, è quella curata da Brunella Schisa per Marsilio con il titolo Lettere di una monaca portoghese.
[2] Natália Correia (1923-1993) fu una scrittrice di poesia, di prosa e di teatro, oltre che giornalista, programmatrice televisiva e attivista politica, sia prima che dopo la caduta dell’Estado Novo; una donna carismatica, figura di riferimento per la cultura portoghese del Novecento. In italiano è possibile leggere la raccolta di poesie Comunicação (tradotta da Maria da Graça Gomes de Pina e pubblicata da Carocci nel 2015).
[3] José Cardoso Pires (1925-1998), romanziere, saggista e drammaturgo, è stato uno dei maggiori scrittori portoghesi contemporanei. Fra le più recenti traduzioni in italiano di sue opere vi sono Dinosauro eccellentissimo (Vertigo, 2007), Gli scarafaggi (Le nubi, 2006) e De profundis: valzer lento (Feltrinelli, 2002).
[4] Maria da Conceição Vassalo e Silva da Cunha Lamas (1893-1983) fu una scrittrice, traduttrice, giornalista e famosa attivista politica femminista. La sua opera più importante è As mulheres do meu país (‘Le donne del mio paese’), la prima inchiesta mai realizzata sulle condizioni di vita delle donne portoghesi.
Ritanna Armeni -Di questo amore non si deve sapere. La storia di Inessa e Lenin
Editore- Ponte Alle Grazie
DESCRIZIONE
Donna attraente e appassionata, magnetica e vitale, pianista eccellente, poliglotta, rivoluzionaria, impegnata nella lotta per i diritti delle donne, sostenitrice del libero amore, madre di cinque figli e moglie di un ricchissimo industriale russo: è Inessa Armand, votata anima e corpo alla causa bolscevica. Anche se per molto tempo il regime sovietico ha fatto di tutto per tenerlo segreto, fu il grande amore di Lenin, oltre che la sua più fidata collaboratrice. Si conobbero a Parigi nel 1909, in un caffè dove si incontravano i rivoluzionari russi in esilio: il loro legame si nutriva dell’ardore politico, dell’ebbrezza di ideare e partecipare a un cambiamento storico epocale, ma anche di fascinazione, attrazione e tenerezza. Inessa è sepolta per volere di Lenin davanti alle mura del Cremlino vicino a John Reed, ma è stata cancellata dai libri di Storia. Il capo della Rivoluzione non poteva essere macchiato dalla meschinità di un adulterio borghese. Ritanna Armeni, che ha seguito le sue tracce nelle poche testimonianze e biografie esistenti e ha ripercorso i suoi passi in Europa, ci restituisce il ritratto fremente, dolce e indomabile di una donna che più che al passato sembra appartenere al nostro futuro: inquieta e non catalogabile, piena di contraddizioni eppure integra nelle sue passioni, capace di amare perché libera, rivoluzionaria nel privato e nel politico.
L’AUTORE
Ritanna Armeni è giornalista e scrittrice. Ha lavorato come caporedattrice al periodico «Noi donne», poi a «il manifesto» e nella redazione di «l’Unità», a «Rinascita» e, ancora, opinionista sul quotidiano «Il Riformista». Nel 1998 è diventata portavoce dell’allora segretario di Rifondazione Comunista ed ex Presidente della Camera dei Deputati, Fausto Bertinotti, del quale ha curato, con Rina Gagliardi, il volume Devi augurarti che la strada sia lunga (Ponte alle Grazie 2009). È stata per tre anni conduttrice di “Otto e mezzo” insieme a Giuliano Ferrara. Ha pubblicato Di questo amore non si deve sapere (Ponte alle Grazie 2015), vincitore del Premio Comisso. Tra gli altri suoi titoli usciti sempre con Ponte alle Grazie: La colpa delle donne (2006), Prime donne. Perché in politica non c’è spazio per il secondo sesso (2008), Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte (2018). Mara. Una donna del Novecento (2020).
casa editrice Ponte alle Grazie
La casa editrice Ponte alle Grazie è stata fondata a Firenze alla fine degli anni Ottanta. Negli anni il catalogo si è arricchito di autori affermati a livello internazionale e giovani promesse apprezzate da pubblico e critica. Tra i nomi più rappresentativi della narrativa spiccano autori dalla forte identità letteraria come Margaret Atwood, Philippe Claudel, Sarah Waters e Aldo Buzzi. Nel fortunato filone della letteratura di viaggio emergono i reportage di Colin Thubron. La produzione di saggistica continua la sua storica vocazione economica e politica orientandola verso temi ambientalisti e di critica sociale. Sempre più spazio trova la divulgazione, soprattutto quella filosofica, psicologica e delle neuroscienze. Il professor Giorgio Nardone dirige i “Saggi di terapia breve”, manuali di psicologia che fanno riferimento alla scuola di problem-solving iniziata a Palo Alto da Paul Watzlawick. Allan Bay dirige invece la collana “Il lettore goloso” che si propone di introdurre i lettori a una vera cultura della cucina pubblicando libri originali, molto lontani dai tradizionali volumi di ricette.
Biblioteca DEA SABINA-Vasilij Nemirovič-Dančenko–“I gemelli di San Nicola”
a cura e traduzione di Marco Caratazzolo
Stilo Editrice-Fonte rivista on line PugliaLibre.
Vasilij Nemirovič-Dančenko(1844-1936) fu poeta, prosatore e giornalista. Fratello del più celebre regista teatrale Vladimir, acquisì grande notorietà per i resoconti ispirati ai numerosi viaggi che compì in varie parti del mondo (tra questi la Spagna, l’Africa, l’Estremo Oriente, il Monte Athos), anche come corrispondente di guerra per i più influenti quotidiani e periodici russi.
Una torrida giornata estiva, mentre gli abitanti di Bari Vecchia sono immersi nei chiassosi e consueti rituali della loro vita quotidiana, un evento straordinario sconvolge la pace della Basilica di San Nicola. Una povera pellegrina russa, giunta poche ore prima per inchinarsi alle spoglie del Santo, viene trovata morta dal priore della Basilica accanto all’altare della cripta. Ma non è tutto: vicino alla donna morente si scorge un’altra presenza. È l’inizio di questa «favola della realtà» di Nemirovič-Dančenko, in cui elementi di mistero si intrecciano a una trama dai tratti fiabeschi, dando vita a un affresco che si sviluppa tra le vie, gli odori, i colori, i volti dei bambini e le urla genuine delle donne di Bari Vecchia.
La novella I gemelli di San Nicola di Vasilij Nemirovič-Dančenko è stata tradotta e curata da Marco Caratozzolo, docente di Lingua e letteratura russa all’Università degli Studi di Bari, ed è pubblicata da Stilo Editrice nella collana “Pagine di Russia” (pp. 136, euro 14).
Biografia di Vasilij Nemirovič-Dančenko(1844-1936) fu poeta, prosatore e giornalista. Fratello del più celebre regista teatrale Vladimir, acquisì grande notorietà per i resoconti ispirati ai numerosi viaggi che compì in varie parti del mondo (tra questi la Spagna, l’Africa, l’Estremo Oriente, il Monte Athos), anche come corrispondente di guerra per i più influenti quotidiani e periodici russi. I luoghi visitati divennero l’ambientazione dei suoi numerosi romanzi e racconti, scritti con uno stile tradizionale russo, ma ricchi di originali elementi paesaggistici e di vita quotidiana. Nell’ultima parte della sua vita, Nemirovič-Dančenko, che non condivise la Rivoluzione d’Ottobre, si stabilì a Praga, collaborando con le maggiori testate dell’emigrazione russa in Europa.
STILO EDITRICE SOC. COOP. R.L. v.le A. Salandra 36 – 70124 Bari tel. 080/9905095
La Stilo Editrice s.c.r.l., con sede in Bari, svolge con continuità la sua attività editoriale dal 1999. La sua produzione è raccolta in un catalogo storico che annovera circa trecentocinquanta titoli, suddivisi in due marchi editoriali: Stilo e Grecale.
Il marchio Stilo è quello originario e il suo profilo è mutato negli anni parallelamente ai tempi e ai cambiamenti del mondo editoriale. Attualmente dedica particolare l’attenzione alla letteratura straniera, selezionando opere provenienti dalle ‘periferie’ d’Europa, e sulla cultura slava e russa, attraverso la pubblicazione di studi e ricerche ma anche di opere narrative e poetiche. Altri settori della sua produzione sono la filosofia, la legalità e l’intercultura – in cui si impegna anche attraverso rassegne e festival – nonché i testi della tradizione regionale che abbiano legami con la cultura italiana ed europea.
Il marchio Grecale è nato invece nel 2015 e ospita opere dedicate alla cultura dei territori nelle loro diverse sfaccettature (arte, turismo, ambiente e natura, spiritualità, storia e letteratura) attraverso testi agili e brevi.
Con i due marchi l’Editrice vuole dare voce agli intrecci tra dimensione globale e locale, laddove si abbracciano in una prospettiva ‘meridiana’.
Dal 2013 l’Editrice organizza, insieme alla Cattedra di Lingua e letteratura russa dell’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’, il Festival Letterario Pagine di Russia finalizzato a promuovere la conoscenza della letteratura e della cultura russa. La direzione scientifica del festival è dei docenti Marco Caratozzolo e Simone Guagnelli.
L’Editrice organizza periodicamente corsi di formazione al lavoro editoriale e accoglie per tirocini formativi studenti dell’Università degli Studi di Bari
Partecipa alle fiere nazionali e internazionali di settore come il Salone Internazionale del Libro di Torino, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più Libri Più Liberi di Roma, la Fiera del libro di Francoforte, il Festival du Livre di Parigi; una selezione delle sue opere è presente sul sito italbooks.com promosso dall’ICE (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane).
STAFF Lo staff della Stilo Editrice è composto numerosi collaboratori tra correttori di bozze, redattori, traduttori, grafici, tecnici.
Presidente:Vito Lacirignola, dott. in Filosofia Direzione editoriale: Chiara Lacirignola e Marianna Carabellese, dott.sse in Filologia moderna Capo-redattore: Stefano Savella, dott. in Filologia moderna Consulenti: Vanna Maraglino, PhD in Filologia greca e latina e in Scienze storiche, e Stefano Savella, dott. in Filologia moderna Direttori di collana: Daniele Maria Pegorari, docente di Letteratura italiana contemporaneapresso l’Università degli Studi di Bari, dirige le collane Officina, Biblioteca della letteratura pugliese e Ciliegie; Marco Caratozzolo, docente di Lingua e letteratura russa presso l’Università degli Studi di Bari, dirige la collana Pagine di Russia;
Mario De Pasquale, co-direttore editoriale della rivista online della SFI «Comunicazione Filosofica» e presidente della sezione SFI di Bari, dirige la collana Filosofia. Progetti: Marco Caratozzolo e Simone Guagnelli, docenti presso l’Università degli Studi di Bari, curano la direzione scientifica del Festival Letterario Pagine di Russia.
DISTRIBUZIONE Il sistema distributivo dei libri della Stilo Editrice è attualmente così organizzato:
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ebook per le biblioteche italiane ed estere attraverso Torrossa-Casalini
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traduzione di Alessandro Ceni- Feltrinelli Editore -Milano
Nota introduttiva di Alessandro Ceni-James Joyce-Ulisse- Dublino, 16 giugno 1904. È la data scelta da James Joyce per immortalare in poco meno di ventiquattr’ore la vita di Leopold Bloom, di sua moglie Molly e di Stephen Dedalus, realizzando un’opera destinata a rivoluzionare il romanzo. È l’odissea quotidiana dell’uomo moderno, protagonista non di peregrinazioni mitiche e straordinarie, ma di una vita normale che però riserva – se osservata da vicino – non minori emozioni, colpi di scena, imprevisti e avventure del decennale viaggio dell’eroe omerico. “Leggere l’Ulisse,” scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva (qui pubblicata integralmente), “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”.
Una sfida insomma che, con il procedere della lettura, si trasforma in un vero e proprio godimento. Lo stesso di Joyce che, parlando del suo capolavoro, disse: “Vi ho messo così tanti enigmi e rompicapi che terranno i professori occupati per secoli a chiedersi cosa ho voluto significare; e questo è l’unico modo per assicurarsi l’immortalità”.
Ancora oggi il realista guarda solo verso
la realtà esteriore senza rendersi conto di
esserne lo specchio. Ancora oggi l’ideali-
sta guarda solo nello specchio voltando le
spalle alla realtà esteriore. L’atteggiamen-
to conoscitivo di ambedue impedisce loro
di vedere che lo specchio ha un rovescio,
una faccia non riflettente, che lo pone
sullo stesso piano degli elementi reali
che esso riflette.
Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio –
La storia, disse Stephen, è un incubo dal
quale sto cercando di svegliarmi.
James Joyce, Ulisse
Abracadabra
Leggere l’Ulisse è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto. Spesso a rovescio. Per poi allontanarlo. E quindi riavvicinarlo. In un continuo movimento, anche muscolare, di avanti e indietro, o meglio, di indietro in avanti. Movimento durante il quale si ha coscienza e si dà contezza dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto. Questo processo diciamo ottico-cognitivo, incantatorio com’è proprio della sua qualità cinetica, incessantemente mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della fibra stessa del tessuto e campi lunghi dell’insieme dell’intreccio) ci conduce alla tutt’altro che stabilizzante condizione di trovarsi dentro e fuori dal testo contemporaneamente. L’Ulisse è la trama di una tela vista in simultanea nel recto, nel verso, alla luce ultra- violetta, a luce radente, e così via; tela che ha per telaio, che possiede per impianto portante, le due assi verticale-orizzontale delle due parole di apertura, “Stately” e “plump” (in questa traduzione “Sontuoso” e “polputo”), vale a dire l’alto/ basso, il drammatico/comico, l’eroico/farsesco del sopra/ sotto umano. Il dramma (nel senso stretto di rappresentazione seria di un avvenimento) e il comico (il suo contrario, la commedia dell’arte italiana) che vanno sobbollendo nel medesimo calderone danno origine per metamorfosi o trasformazione a una pozione che è la condizione del tragico quotidiano, quella condizione da tutti esperita dove l’antica matrice greca della ineluttabilità del destino e il moderno senso di illusorietà dell’esserci si fondono. I fili della trama del tessuto della tela sono i tanti e vari registri e colori (stilistici, linguistici) che animano questa stoffa fino a farcela balenare davanti per quello che potrebbe essere, per l’unicum che è: tutt’altro che “a misfire” (“un colpo mancato”, “una cilecca”), com’ebbe a definirlo Virginia Woolf, bensì uno straordinario e irripetibile colpito-e-affondato della scrittura. Un impensabile, fino ad allora (la data di pubblicazione è il 1922), tappeto magico.
Abracadabra
Nel leggere l’Ulisse ci si accorge che le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano: com’è specifico della poesia, accade che le parole (anche una sola parola) illuminino violentemente rivoltandole le pagine, accendano orbitando di significato il tutto, incendino sul proprio asse l’immagine. Grande è la frequenza qui con cui la parola ci induce a percepire, grazie a una capacità sinestesica precipua della scrittura poetica, e in un modo a tal punto insistito che si potrebbe considerare l’intero testo alla stregua di un’unica poesia (niente a che vedere col poema), un’unica poesia dilatata, iperbolica, strutturata nelle 3 parti (I, II, III) ovvero macro-strofe del racconto divise in 18 episodi (3, 12, 3) ovvero scene ovvero macro-versi, dove ogni episodio è in realtà un lunghissimo, pantagruelico solo verso, ricchissimo di rime interne, assonanze, metafore ecc. che vanno materilizzandosi (cioè, vengono narrativamente rese) in persone, personaggi, casi, situazioni, frasi, espressioni ecc. L’impressione è che Joyce, superata nel 1916 la prova sperimentale del suo A Portrait of the Artist as Young Man, abbia voluto trasportare e ricomporre in prosa per il tramite tecnico della poesia una sua musica interiore, dove il geniale monstrum, il prodigioso ordito prodotto dall’unione di uno spartito sinfonico con un pezzo di chamber music ma dodecafonico – e Chamber Music è, come si sa, anche il titolo del primo libro di Joyce, una raccolta di poesie uscita nel 1907 –, miscela il recitar cantando (Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi) al melodramma pucciniano, le malìe di Ravel all’astrazione di Schönberg e alle fiamme di Stravinskij. È per questo che le sue parole nella pagina rivoluzionano: l’uso totale della lingua, declinata nei suoi multiformi linguaggi, fa della lin- gua in sé il racconto, il narrato (si presenta, diciamo, al pari di una Odissea della lingua, il cui canto è come se fosse per sortilegio in perenne esecuzione). E ancora: pittoricamente parlando, sembra quasi di assistere alla, per dir così, messa in scena di una pala d’altare giottesca, con la sua predella e le sue formelle (il cui ordine però è stravolto), dipinta da un cubista, di modo che lo stesso oggetto è osservato contemporaneamente da più punti di vista per ottenere una scomposizione che compone: un cubista con solidissime fondamenta figurative classiche (la mente va al Picasso di Les demoiselles d’Avignon).
Abracadabra
Dal leggere l’Ulisse – dai suoi nodi-parole della trama del tessuto del tappeto, dal suo inesorabile decontestualizzare e ricontestualizzare con la sua feroce conseguenza di spostamento di significati fino al rovesciamento e alla parodia (all’acuminato vertice della parodia della parodia), e oltre, fino alla purezza del travestimento e dell’imitazione (mai qui della dissimulazione o della falsificazione, perché qui tutto è onestamente e crudamente “reale” e “vero”), cioè a una sorta di sincronico incamminarsi sul filo senza bilanciere e farsi sparare dal cannone –, dal leggere l’Ulisse se ne può facilmente sortire con le ossa rotte e con la inquietante sensazione di non averci capito niente ovvero con la irritante sensazione di non possedere adeguate facoltà intellettuali, se non addirittura intellettive, oltre che con la ragionevole tentazione di liquidare il tutto come il coltissimo delirio di un letterato irlandese ebbro. In realtà, superato l’iniziale e, mi si passi, iniziatico sforzo di approccio, ponendosi in piena libertà e disponibilità nei confronti della sensibilità del testo, ci si può impadronire (e farsi irretire, esattamente farsi “prendere nella rete”) della profonda grandezza e bellezza di questo punto di non ritorno della letteratura mondiale di tutti i tempi. Da una parte il lettore tenga sempre ben presente che il modernismo joyciano, sodale della linea guida che andava allora tracciando il poeta Pound, ha salde basi evidenti e dichiarate oppure misteriosamente alluse proprio nella tradizione che va scardinando (avvelenando l’impianto stilistico dei grandi narratori dell’Ottocento europeo), secondo un procedimento comune a ogni opera d’arte autentica, e che qui, com’è ormai arcinoto, è costituita da uno zoccolo ovvero piattaforma (tettonica) o pangea formato dal Vecchio e Nuovo Testamento amalgamato alla totalità dell’opera shakespeariana (sulla quale Joyce abilmente riesce a innestare una speciale commistione ottenuta con le accese tinte di una novella chauceriana e le fosche di un truce dramma elisabettiano), passando per il mondo classico greco-latino, la mitologia gaelica e Dante e innervato da scrittori come Defoe, Sterne, Dickens, Rabelais, Cervantes, Balzac, tanto per rammentarne quasi a caso qualcuno; quindi il metodico lavoro di distruzione e di ricostruzione (di rinnovato utilizzo delle pietre del castello letterario) che caratterizza questo inedito omerico bardo del disastro dell’esistere poco o nulla ha a che spartire con l’inane macello di un avanguardista. Dall’altra parte un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza, a imbarcarvisi provando dunque quel particolarissimo stato d’animo che si ha nel navigare, di identificazione di sé con la nave (io sono la nave/la nave sono io, la nave mi ha/io ho la nave): sono portato dal mezzo e ne divengo il mezzo. Al lettore è richiesto, insomma – an- che se è possibile che ne riemergerà come sfiorato dalla baudelaireiana “ala del vento dell’imbecillità” e stordito, claudicante, balbuziente – di calarsi nel buio della parola, nell’abisso della lingua, di scendere nell’agone di quelle pagine come un antico atleta di Olimpia: nudo. Si esige qui il cedere e l’affidarsi alla consapevole scelta del precipitare (in quel “Sì” con cui si chiude il viaggio?), evitando di controllare gli strumenti, le bussole e i portolani o i radar sollecitamente forniti dallo sterminato contributo critico e dall’apparato di commenti, glosse, note (utili, senza dubbio, ma giustificabili quasi del tutto da, legittimi, criteri editoriali), eludendo se possibile il sotteso, e presunto, schema compositivo che ricalcherebbe episodi dell’Odissea (e che a me pare invece presentarsi come un ulteriore depistaggio, a posteriori, joyciano, una ulissica trappola nella trappola, tanto ammiccante quanto grottesca, e proprio per le sue caratteristiche di erranza ed enigmaticità), e persino la figura medesima di Ulisse, che andrei casomai a rintracciare, anziché nell’eroe omerico, nell’arcaica figura mitica di un dio solare, cioè della nascita e della morte, antecedente alla colonizzazione greca dell’Egeo, pertanto da far risalire a prima dell’epica che lo riguarda. Il lettore infine cessi di continuare a guarda- re del prestigiatore il cilindro con la puerile speranza di capire come e perché ne esca il coniglio.
Dell’eretico (delle patrie lettere di lingua inglese) e del- lo scismatico (della cultura e patria irlandese) Joyce con gratitudine una irrefutabile certezza va conservata, una certezza che travalica la difficoltà e anche l’incomprensibilità della pagina, ed è quella che l’Ulisse è tanti Ulisse: lo è Stephen, lo è Bloom, lo è Molly, lo sono le persone e i personaggi che sostanziano quel breve arco temporale dublinese in cui agiscono e sono agiti, lo è il lettore, lo è il traduttore, siamo noi. L’Ulisse è tanti Ulisse ma l’Ulisse assoluto è il testo. A questo punto però Joyce (l’esule, il gran fuggiasco) è ormai decisamente in rotta verso quel “riverrun” posto in esergo a Finnegans Wake, verso il michelangiolesco osare, il “folle volo”, linguistico dell’“Apriti Sesamo” definitivo.
Nota a margine
Al termine di questi non pochi anni di lavoro desidero ringraziare la casa editrice per la fiducia accordatami nell’affidarmi la traduzione, in particolare i direttori di collana succedutisi nel tempo fino all’attuale perché hanno saputo sagacemente attendere e la redazione perché ha saputo assai professionalmente sopportare.
Questi anni e questo lavoro sono dedicati a mia madre Bernardina (1918-2014) e a mio fratello Massimo (1949-2019).
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[Titolo dell’opera originale ULYSSES – Traduzione dall’inglese di ALESSANDRO CENI
Prima edizione nell’“Universale Economica” – I CLASSICI ottobre 2021]
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L’AUTORE
James Joyce (Dublino, 1882 – Zurigo, 1941) è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento. Scrittore sin dalla giovane età, tentati gli studi in medicina e una carriera da tenore, nel 1905 si trasferì a Trieste divenendo insegnante, e conobbe tra gli altri Italo Svevo ed Ezra Pound. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si trasferì a Zurigo, e poi a Parigi, dove pubblicò Ulisse (1922), considerato il suo capolavoro. Nei diciassette anni successivi si dedicò alla stesura di Finnegans Wake, che uscì nel 1939. Nei “Classici” Feltrinelli sono disponibili anche Gente di Dublino (2013) e Un ritratto dell’artista da giovane (2016).
IL TRADUTTORE
Alessandro Ceni (Firenze, 1957), poeta e pittore, ha tradotto fra gli altri Milton, Poe, Durrell, Keats, Byron, Emerson, Ste- venson, Carroll, Wharton, Scott Fitzgerald. Per “I Classici” Feltrinelli ha tradotto e curato La ballata del vecchio marinaio – Kubla Khan (1994) di Samuel Taylor Coleridge, Il critico come artista. L’anima dell’uomo sotto il socialismo (1995) di Oscar Wilde, Lord Jim (2002) di Joseph Conrad, Moby Dick (2007) e Billy Budd (2008) di Herman Melville, Foglie d’erba (2012) di Walt Whitman e Il Circolo Pickwick (2016) di Charles Dickens.
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