Klaus Wagenbach -Franz Kafka-Immagini della sua vita
Traduzione di Renata Colorni-
ADELPHI EDIZIONI-Milano
Descrizione-del libro di Klaus Wagenbach -Franz Kafka-Immagini della sua vita-Questo libro contiene quasi cinquecento fotografie, in gran parte sconosciute sino a oggi, che illustrano e illuminano la vita di Franz Kafka. Già trent’anni fa, quando lavorava alla sua biografia del giovane Kafka, a tutt’oggi insuperata, Klaus Wagenbach aveva cominciato a raccogliere questi documenti visivi che fanno da sfondo e si intrecciano a un’opera che per lungo tempo…
Traduzione di Renata Colorni
Franz Kafka (3 luglio 1883 – 3 giugno 1924) ci è rimasto pochissimo, lo sappiamo: forse una parola su dieci, di quelle scritte in vita. E solo grazie al tradimento: dell’amico Max Brod soprattutto, ma anche di alcune delle donne che ha amato. Capaci di resistere alle sue ultime volontà, di non distruggere ogni pagina, anzi di conservarla e diffonderla. La diffusione di quella modesta – quantitativamente, beninteso – produzione è andata ben oltre le scarse speranze del suo autore, e ben oltre la letteratura: oggi Kafka è la cultura contemporanea.
Non penso alle lodi di Herman Hesse (“Kafka è il re segreto della prosa in tedesco”) o W.H. Auden (“Se si dovesse indicare l’autore più vicino ad avere con la nostra epoca lo stesso tipo di rapporto che Dante, Shakespeare e Goethe ebbero con la propria, Kafka è il primo cui verrebbe fatto di pensare”), né agli echi evidenti nelle pagine di giganti della letteratura dell’ultimo mezzo secolo sui due lati dell’oceano: nei complottismi di Thomas Pynchon, nella fantascienza oppressiva e illogica di Philip K. Dick e Jeff VanderMeer, nella metafisica strana di Mircea Cărtărescu… l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine, e già critici e accademici ne hanno compilate a centinaia.
Penso piuttosto all’influenza di Kafka su quello che non è strettamente letteratura, ma più in generale la nostra cultura pop. Un’influenza che va oltre gli adattamenti in forma di cinema (dal Processo di Orson Welles al Castello di Michael Haneke, alla pseudo-fanta-biografia Delitti e Segreti di Steven Soderbergh), fumetto (dai comix di Robert Crumb ai manga dei fratelli Nishioka) e perfino videogiochi (il dimenticabile The Franz Kafka Videogame). Ben più interessante è scavare, anche solo per divertimento, nei riferimenti kafkiani sparsi dentro tutte queste arti che qualcuno chiama ancora popolari.
Gli scritti di Kafka sono oggi a tutti gli effetti icone culturali fondamentali, che possono essere rilette e variate infinite volte, producendo racconti e immagini sempre nuove nella cultura pop. La metamorfosi è l’esempio più evidente di questa possibilità: l’inquietante metafora dell’insetto deriva da ansie primordiali eppure ancora radicalmente contemporanee, viste le nuove opportunità che la modernità ci offre di modificare il nostro corpo concreto e la nostra immagine. Non stupisce che nell’ultimo mezzo secolo, La metamorfosi abbia generato centinaia di storie, centinaia di immagini.
Per quanto riguarda il cinema si parte sempre dall’ovvio David Cronenberg, che con il suo La mosca nel 1986 riprendeva direttamente il tema della trasformazione in insetto adattando la short story di George Langelaan uscita quasi trent’anni prima. Quella tra La mosca e La metamorfosi è tuttavia chiaramente un caso in cui la sovrapposizione funziona fino a un certo punto: La mosca è un racconto che si muove all’interno del recinto del genere fantascientifico, ruota intorno all’avanzamento tecnologico e alla hybris dello scienziato; La metamorfosi va molto oltre tali confini. Rimane comunque godibilissima l’introduzione scritta da David Cronenberg esattamente dieci anni fa, per una delle più recenti traduzioni in lingua inglese del racconto di Kafka: “Di recente mi sono svegliato una mattina scoprendo di essere un uomo di settant’anni. È diverso da ciò che accade a Gregor Samsa ne La metamorfosi? Si sveglia e scopre di essere diventato uno scarabeo di dimensioni quasi umane, e non un esemplare particolarmente robusto. Le nostre reazioni, mia e di Gregor, sono molto simili. Siamo confusi e sconcertati e pensiamo che si tratti di un’illusione momentanea che si dissolverà presto, lasciando che le nostre vite continuino come prima.” In fondo, è molto più corretto paragonare La metamorfosi non ad altre opere, ma alla vita stessa…
Volendo percorrere sentieri meno scontati, si può pensare a un altro classico cinematografico anni Ottanta, ma di genere completamente diverso: Zelig, di Woody Allen, il cui protagonista è un camaleonte umano che nelle sue trasformazioni diventa sempre più immagine del conformismo (fino a presenziare ad adunate hitleriane) e sempre più disumanizzato, dando una forma molto concreta a quelle che sulla pagina erano metafore assai più ambigue. Del resto, è inevitabile: il cinema è un medium molto più caldo – per riprendere un McLuhan sempre valido – della letteratura, e non può certo evitare di mostrare, mentre Kafka poteva chiedere al suo storico editore tedesco Kurt Wolff di non pubblicare alcuna immagine, sulla copertina, che potesse essere ricondotta a Gregor Samsa.
Una forma più concisa di racconto per immagini è senza dubbio il videoclip, che proprio dagli anni Ottanta e fino al 2010 circa ha vissuto un’epoca di grande vivacità.
Osservando un catalogo di videoclip musicali prodotti in questi decenni, è inevitabile pensare alla Metamorfosi come matrice delle grottesche trasformazioni dei corpi messe in scena da centinaia di essi: cito tra gli esempi più immediati i clip di Chris Cunningham per Aphex Twin e Björk, quelli di Hype Williams per Missy Elliott, quelli di Francis Lawrence per Lady Gaga. Bad Romance mostra nelle battute iniziali l’artista che si risveglia (sogni inquieti?) all’interno di un bozzolo-bara e si ritrova trasfigurata da un costume bianco, che la fa muovere in maniera contorta. La ricostruzione pop dell’icona-Metamorfosi sembra evidente, e del resto è stata sottolineata anche da diversi saggi accademici.
E tuttavia, è impossibile non notare come lo stesso Kafka sia diventato icona pop: la parola “kafkiano” è entrata (quasi: non vorremmo essere troppo ottimisti) nel linguaggio quotidiano; il ritratto fotografico dello scrittore – parte dell’inglese Hulton Archive, una delle più prestigiose raccolte di immagini del mondo anglosassone – è tra le più riconoscibili della storia della letteratura. Il suo viso è finito su merchandising e souvenir turistici. Anche grazie a questo, Kafka continua a rinnovare la sua influenza sui nostri tempi, frammentati e ambigui come il suo pensiero e le sue opere.
Diceva Jorge Luis Borges che “L’opera di ogni scrittore modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro”. Nel caso di Franz Kafka, questa massima si è dimostrata assoluta verità.
Ismail Kadaré è nato nel 1936 ad Argirocastro, nell’Albania meridionale, si è laureato in filologia a Tirana e ha proseguito gli studi a Mosca. Tornato in patria, inizia la sua carriera come giornalista e divenne direttore di “Les lettres albanaises”. La poesia è stata la sua prima passione: Ispirazioni giovanili (1956), Il mio secolo (1961). E alla poesia è sempre tornato regolarmente: Perché pensano queste montagne (1964), Motivi di sole (1968), Il tempo (1976), Gocce di pioggia caddero sul vetro (2003).
Anche quando la memoria-
Anche quando la mia memoria fosse stanca
come quei tram dopo mezzanotte
che fermano solo nelle principali stazioni,
Io non ti dimenticherò.
Ricorderò
la silenziosa serata, infinita nei tuoi occhi,
il singhiozzo soffocato, caduto sulla mia spalla
come la perpetua neve.
L’addio è arrivato
me ne vado lontano da te …
Nulla di eccezionale,
solo qualche sera
le dita di qualcun altro, si intrecceranno tra i tuoi capelli
con le mie dita, chilometri lontane …
Cristallo-
Da tempo non ci vediamo e sento
come pian – piano ti dimentico
come muore il tuo ricordo in me
come muoiono i capelli e ogni cosa.
Adesso cerco in giù e in su
un posto dove lasciarti
una strofa o una nota, oppure un brillante
dove posarti, baciarti, vederti.
E se nessuna tomba ti accetterà
troverò una pianura o un oasi di fiori
dove posarti dolcemente come polena
ovunque, ovunque ti dispenso..
Ingannandoti, ma forse così
potrei baciarti andandomene senza ritorno
e non si saprà mai né da noi né da altri
se la dimenticanza è questa oppure no.
Tu piangesti-
Tu piangesti e a bassa voce dicesti
Che io ti tratto come fossi una prostituta.
A quel tempo non feci caso al tuo pianto
Ti amavo senza sapere di amarti.
Solo una mattina, all’improvviso mi svegliai
Senza te e il mondo mi sembrò vuoto,
Allora capii ciò che avevo perso
E capii altrettanto che cosa guadagnai.
Brillava su di me come un smeraldo tedioso
E la felicità si rabbuiò come il crepuscolo dietro le nubi
Non sapevo scegliere tra le due
Una più bella dell’altra mi sembrava.
Perché dev’essere così questa collezione di gioielli
Cui la luce e l’orrore la illuminavano allo stesso modo,
Che nel moltiplicare la brama la vita si accentuava
Ma anche la morte altrettanto evocava.
Breve biograia di Ismail Kadaré è nato nel 1936 ad Argirocastro, nell’Albania meridionale, si è laureato in filologia a Tirana e ha proseguito gli studi a Mosca. Tornato in patria, inizia la sua carriera come giornalista e divenne direttore di “Les lettres albanaises”. La poesia è stata la sua prima passione: Ispirazioni giovanili (1956), Il mio secolo (1961). E alla poesia è sempre tornato regolarmente: Perché pensano queste montagne (1964), Motivi di sole (1968), Il tempo (1976), Gocce di pioggia caddero sul vetro (2003).
Nel 1963 pubblicò il primo romanzo, Il generale dell’armata morta, e da allora si è dedicato intensamente alla narrativa. Ha pubblicato una cinquantina di volumi fra romanzi, racconti e saggi. Nel 1990 ha chiesto e ottenuto asilo politico in Francia, dove è membro onorario dell’Accademia. Nel 1992 ha ottenuto il Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera; nel 2005 l’International Booker Prize; nel 2009 il Premio Principe delle Asturie per la Letteratura. Sempre nel 2009 gli è stato conferito la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione dall’Università di Palermo, riconoscimento voluto fortemente dagli “arberesge” di Piana degli Albanesi. Il Premio LericiPea “alla Carriera” nel 2010 è stato conferito a Kadaré, un poeta la cui voce magistrale è estremamente riconoscibile e si snoda in un vero e proprio “Universo Kadaré”, che dalla poesia al racconto e al romanzo si dilata in una dimensione storica e geografica dal passato al presente, collegando la letteratura albanese alle radici stesse della cultura europea. Kadaré costruisce un ponte tra la sua terra e i paesi che la circondano, trattando i caratteri specifici della storia e della cultura di quel paese, ridotto per lunghi periodi al silenzio, e gli aspetti generali che strutturano la vita di tutti i popoli, violenza e menzogna del potere, dedizione al dovere e varchi di libertà.
Con l’inedito Anche se è Aprile, da cui il titolo del volume che il LericiPea dedicò al poeta premiato, è giunta a noi in quest’occasione una perla, che ancora una volta dispiega l’opera di Kadaré nell’alveo di quella ribadita “unica Letteratura europea da Proust a Tolstoj”, che si evidenzia nel riallacciare la sua poesia, come scrive Marina Giaveri, “non solo ai grandi poeti russi del Novecento, ma ad un conosciuto e praticato panorama europeo”.
La sua opera ha ampia diffusione in Italia, dove sono usciti fra gli altri: Il mostro (Fandango 2010). L’incidente (Longanesi 2010), Il crepuscolo degli dei della steppa (Fandango 2009), Il generale dell’armata morta (Longanesi 2010), Aprile spezzato (ivi 2008), Dante l’inevitabile (Fandango 2008), Il successore (Longanesi 2008), La figlia di Agamennone (ivi 2007). Un invito a cena di troppo (ivi 2012), La bambola (La Nave di Teseo, 2017).
Poesie di Christa Wolf Poetessa e scrittrice tedesca-
Christa Wolf, nata nel 1929 a Landsberg an der Warthe, oggi in Polonia, si affermò come scrittrice nel 1963. Studiò a Jena e in Magdeburgo e sposò lo scrittore Gerhard Wolf. Sostenitrice del partito socialista, a cui si era iscritta nel 1949, fu una delle autrici più importanti della GDR (Deutsche Demokratische Republik). In seguito assunse una posizione molto critica nei confronti del regime comunista. Oltre a Trama d’infanzia, ricordiamo: Il cielo diviso (1963), Riflessioni su Christa T. (1968), Cassandra (1983), Medea.Voci (1996) e La città degli angeli (2011). Wolf è morta nel 2011, all’età di 82 anni, ed è sepolta a Berlino, nel Dorotheenstädtische Friedhof [N.d.B. lo stesso cimitero dove si trova la tomba di Bertold Brecht].
Riconosciuta – Colpevole di Christa Wolf
ERKANNT
Das bin ich nicht
beteure ich
schuldbewußt
in die fordernden
anklagenden
enttäuschten Gesichter
Aber das bin ich doch wirklich nicht ich
Wirklich bin ich nicht
Nicht ich bin wirklich
Ich bin wirklich nicht
Bin ich nicht wirklich?
Das bist du
sagt der Tod
Ich bin es gewesen
gestehe ich
Zweifellos
30.11.88
SCHULDHAFT
Im Vortraum
sah ich
ein Doppelwesen
Er liegend
sie stehend
zusammengewachsen
an ihren Füßen
dergestalt
daß der Mann
sich nur aufrichten konnte
mit den Füßen der Frau
sie aber die Stehende
nur gehen konnte
in den Füßen des Mannes
So blieben sie
unbeweglich
14.9.87
RICONOSCIUTA
Questa non sono io
assicuro
ai volti
esigenti
che mi accusano
delusi
Certo questa non sono io
Davvero non lo sono
Non lo sono davvero
Io davvero non sono io
Vero che non sono io?
Questa sei tu
dice la morte
Lo sono stata
lo ammetto
Non c’è dubbio
COLPEVOLE
Nel dormiveglia
vedevo
un essere duplice
Sdraiato lui
e lei in piedi
uniti
così che
solo con i piedi della donna
ai suoi piedi
l’uomo
si sarebbe sollevato
e lei pur ritta
avrebbe potuto camminare
solo con i piedi dell’uomo
Restavano dunque
immobili
[ Traduzione di Anna Chiarloni e Ida Travi. Anterem 56, 1998 ]
PRINCIPIO SPERANZA
(Christa Wolf, nata Christa Ihlenfeld)
Inchiodato
alla croce del passato
ogni movimento
spinge
i chiodi
nella carne.
SOLITARI DENTRO STANZE GRIGIE
A tastoni si cammina lungo gli steccati,
si sta seduti solitari dentro stanze grigie
come in camere nebbiogene,
ed è difficile liberarsi dalla tristezza
per tutte le occasioni mancate della vita
– per l’amore perduto,
il dolore incompreso,
la gioia sconosciuta
e il sole mai visto
di paesi stranieri.
PARLAVI DI COSE CHE NON VEDEVANO
Parlavi di cose che non vedevano
e loro ridevano.
Ma tu rema sul fiume oscuro
controcorrente;
va’ per la via sconosciuta
alla cieca, ostinato,
e cerca parole radicate
come il nodoso ulivo –
lascia che ridano.
Desidera che dimori l’altro mondo
nella soffocante solitudine odierna
in questo presente smemorato –
lasciali pure.
Il vento marino e la rugiada dell’alba
esistono senza che alcuno li cerchi.
Breve biografia di Christa Wolf –Poetessa e Scrittrice tedesca (Landsberg an der Warthe 1929 – Berlino 2011).Ha studiato e operato nella Repubblica Democratica Tedesca, cui ha aderito con spirito critico, anche se, dopo la riunificazione della Germania, ciò non è valso a stornare dalla sua figura riserve e sospetti d’ambiguità. Scrittrice problematica, incline al virtuosismo, dopo le poesie raccolte in Wir, unsere Zeit (1959) e Moskauer Novelle (1961), ottenne grande successo col romanzo Der geteilte Himmel (1963; trad. it. 1983), in cui il destino dei personaggi è segnato dalla divisione della terra tedesca. Non minore risonanza ottennero Nachdenken über Christa T. (1969; trad. it. 1973), il racconto Kein Ort. Nirgends (1979; trad. it. 1984), sulla vita e il suicidio di H. von Kleist, con significativi rimandi all’attualità, e il romanzo Kassandra (1983; trad. it. 1984). Dopo la caduta del muro di Berlino, ha raccolto una serie di testi polemici nel volume Im Dialog (1990) e nel discusso scritto autobiografico Was bleibt (1990; trad. it. 1991). Tematicamente legato al mito classico, come il precedente Kassandra, è Medea Stimmen (1996; trad. it. 1997), che riprende in chiave originale tematiche femministe. Tra le pubblicazioni più recenti sono da ricordare la raccolta Hierzulande Andernorts (1999), il romanzo Leibhaftig (2002; trad. it. 2002), i racconti Ein Tag im Jahr 1960-2000 (2003), l’opera in forma di diario Mit anderem Blick (2005) e il romanzo autobiograficoStadt der Engel oder The Overcoat of Dr. Freud. Roman (2010; trad. it. La città degli angeli, 2011). Postumi sono stati pubblicati in Germania: entrambi nel 2012, la raccolta di inediti Rede, dass ich dich e August (trad. it. 2012), ultimo racconto della scrittrice redatto sei mesi prima della morte; i diari Ein Tag im Jahr, 2001-2011, im neuen Jahrhundert (2013).
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Descrizione del libro di Cesare Pavese-Un romanzo al femminile, scritto da un uomo dalla sensibilità femminile: le protagoniste sono donne irrequiete, fragili, “sole”, come recita il titolo. Il senso di questo racconto, nella sua drammaticità, può essere sintetizzato nelle parole di Clelia, la voce narrante: “Non si può amare un altro più di se stessi. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno”. Ed è proprio a Clelia che Pavese affida il suo punto di vista, rivolgendo lo sguardo di una donna libera e disillusa su un’Italia postbellica dove, accanto alla ricostruzione, imperversano la noia e il vuoto esistenziale di una generazione incapace di comunicare e di vivere. Donne annoiate, dunque, come Momina, Mariella, Nene e Rosetta, l’unico personaggio autentico, che, come in un gioco di specchi, riflette la stessa, drammatica fragilità dell’autore, quasi preannunciandone la tragica fine. “Tra donne sole” è un romanzo dolente e spietato, pubblicato nel 1949, sotto il titolo “La bella estate”, insieme al racconto “Il diavolo sulle colline”, un anno prima del suicidio di Pavese. Una storia di disincanto e solitudine, “di scoperta della città e della società”, in cui, si aggirano, pirandellianamente, in una Torino cupa, frivola e borghese, più maschere che volti, vittime e attori di una vita senza senso. Solo l’ingenua Rosetta, incarnazione di un male di vivere non dissimile da quello di Pavese, ha la forza di opporsi ad un vuoto esistenziale divenuto insopportabile, congedandosi, come lui, dalla vita. Il ricorso a dialoghi fitti, serrati, sottolinea il crudo realismo della narrazione e la scrittura, tipicamente pavesiana, lucida, straniata ma, nello stesso tempo, appassionata, descrive, senza filtri, esistenze che si consumano nel cinismo, in contorti e ambigui giochi psicologici e nell’assoluta incapacità di uscire da una disperante solitudine. Nel 1955 Michelangelo Antonioni ha liberamente tratto dal romanzo il film “Le amiche”.
Biografia di Cesare Pavese – Nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo (Cuneo), da Eugenio e da Consolina Mesturini, in una cascina di proprietà del padre, luogo di residenza estiva dei Pavese che vivevano a Torino. Preceduto da Maria, di sei anni più grande, Cesare fu allevato da Vittoria Scaglione, il cui fratello, Pinolo, gli ispirò la figura di Nuto nella Luna e i falò.
In seguito alla prematura scomparsa del padre per un tumore al cervello (2 gennaio 1914), la madre, donna dura ed energica, dovette mandare avanti la famiglia da sola. Cesare frequentò la prima elementare a Santo Stefano, poi a Torino, presso un istituto privato, quindi il ginnasio inferiore presso i gesuiti e quello superiore al Cavour, dove conobbe Mario Sturani, suo fraterno amico. Entrato al liceo Massimo d’Azeglio nell’ottobre del 1923, ebbe come professore Augusto Monti, crociano, intellettuale eticamente solido e profondamente antifascista, e, fra i compagni, Tullio Pinelli, Remo Giacchero, Giorgio Curti.
Nel 1925 Pavese si invaghì di una ballerina del varietà, Pucci, a testimonianza di una predilezione ossessiva per artiste di caffè concerto o attricette (v., già nel dicembre 1924, la lirica Per un’attrice di cinematografo giovanissima, straniera, lontana). Nel dicembre di quell’anno scrisse il racconto autobiografico Lotte di giovani e tradusse il Prometheus unbound (Prometeo slegato) di Percy Bysshe Shelley e le Odi di Orazio. Ottenuta nel 1926 la maturità classica, si iscrisse quindi alla facoltà di lettere dell’Università di Torino. Sul finire dell’anno il suicidio dell’amico Elico Baraldi turbò profondamente Pavese, che confidò la propria angoscia alle pagine di un breve diario.
Il 2 dicembre 1927 si formò la confraternita degli ex allievi del liceo d’Azeglio, in contatto con il Monti, cui parteciparono, oltre a Cesare, figure quali Norberto Bobbio, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Giulio Einaudi (nonché amici non ‘dazeglini’ come Giulio Carlo Argan, Ludovico Geymonat, Franco Antonicelli).
Il 20 giugno 1930 (con voto finale di 108/110) Pavese discusse la tesi di laurea, Interpretazione della poesia di Walt Whitman, con Ferdinando Neri, titolare di letteratura francese, dopo un precedente ‘rifiuto’ dell’anglista Federico Olivero.
Nel frattempo Cesare – grazie alla mediazione di Arrigo Cajumi – aveva offerto, nel marzo, la propria collaborazione all’editore Bemporad per tradurre romanzi statunitensi: in novembre apparve ne La Cultura l’articolo Un romanziere americano, Sinclair Lewis, poi suggellato dal contratto per la traduzione di Our Mr Wrenn, a stampa l’anno dopo. Falliti i tentativi di ottenere una borsa di studio alla Columbia University, nel novembre del 1930 morì la madre; tra settembre e novembre di quell’anno Cesare scrisse I mari del Sud, vero spartiacque che divide lo sperimentalismo giovanile dalla grande stagione confluente in Lavorare stanca.
Nel 1932, evitato il servizio militare, Pavese prese a insegnare in scuole private e serali, continuando a pubblicare saggi sulla letteratura americana e traducendo Moby Dick di Herman Melville e Dark laughter (Riso nero) di Sherwood Anderson (entrambi usciti in quell’anno): sognava di andare in America, ma non vi si recò mai. Sempre in quel periodo conobbe Tina Pizzardo, comunista, insegnante di matematica, vivace, sportiva, di cui si innamorò disperatamente.
Il 1933 fu segnato dalla lettura di un libro fondamentale per la cultura etno-mitologica pavesiana, The golden bough di James G. Frazer. Sempre nel 1933 Giulio Einaudi fondava la casa editrice omonima, con sede in via Arcivescovado 7, rilevando, nel medesimo tempo, La Cultura, rivista poi diretta da Leone Ginzburg: questi nel marzo del 1934 fu arrestato con Monti e altri del gruppo antifascista Giustizia e libertà, probabilmente a causa della delazione di una spia dell’Ovra, Dino Segre, ovvero Pitigrilli. Pavese subentrò nella direzione della rivista, ma come prestanome, giacché l’effettivo direttore era Cajumi. Nel luglio si iscrisse al Partito nazionale fascista (PNF), per poter insegnare liberamente nelle scuole statali.
L’attività di americanista di Pavese fu assai intensa, in questo primo quinquennio degli anni Trenta: nel 1934 pubblicò saggi su William Faulkner e Sinclair Lewis, mentre usciva la traduzione del Portrait di James Joyce, con il titolo Dedalus. Nei primi anni Trenta scrisse inoltre liriche che confluirono successivamente in Lavorare stanca, e i racconti del ciclo-romanzo Ciau Masino, comprendente anche sei poesie. Lavorare stanca era già in bozze per le edizioni di Solaria, con la cura di Alberto Carocci, all’inizio del 1935. La raccolta si segnala nel diagramma lirico novecentesco per un ductus fortemente e talora brutalmente prosastico, con verso lungo e ritmo quasi sempre anapestico; ciò non impedisce talora lo slargarsi in aperture visionarie e vibranti, come, ad esempio, nella celebre Lo steddazzu.
Il 15 maggio 1935 Pavese venne arrestato in qualità di direttore della Cultura ma soprattutto perché reo di possedere lettere cifrate del pittore Bruno Maffi indirizzate alla Pizzardo, cui aveva offerto disponibilità del proprio recapito, giacché la donna era severamente controllata dalla polizia. Dopo essere stato per breve tempo alle Carceri nuove di Torino e a Regina Coeli a Roma, Pavese venne confinato a Brancaleone Calabro dove, giunto il 4 agosto 1935, rimase fino al marzo del 1936, quando ottenne il condono e poté rientrare a Torino. L’esperienza del confino è in parte narrata e trasfigurata nel romanzo Il carcere (in Prima che il gallo canti) e, precedentemente, nel racconto Terra d’esilio, del luglio 1936. Nel frattempo era uscita la traduzione di The 42nd parallel (42° parallelo, 1934) di John Dos Passos, mentre le prime copie di Lavorare stanca (Firenze), arrivarono alla fine del gennaio del 1936. Nel marzo successivo, a Torino, venuto a sapere che Tina si era fidanzata e prossima a sposarsi con il polacco Enrico Reiser, Pavese entrò in una cupa depressione, documentata dal diario con accenti di estrema violenza.
Nel 1937 Cesare scrisse alcuni racconti importanti fra cui Temporale d’estate, Carogne, L’idolo, nonché altre liriche destinate a entrare nell’edizione einaudiana di Lavorare stanca (Torino 1943); tradusse The big money (Un mucchio di quattrini) di Dos Passos e Of mice and men (Uomini e topi) di John Steinbeck. L’anno dopo fu la volta di Moll Flanders di Daniel Defoe e di The autobiography of Alice B. Toklas (Autobiografia di Alice Toklas) di Gertrude Stein. Nel 1938 Pavese venne assunto presso Einaudi; continuava a produrre racconti e poesie, finché, alla fine di novembre, cominciò a scrivere il suo primo romanzo, Memorie di due stagioni (con titolo definitivo Il carcere, terminato nell’aprile dell’anno seguente, apparve nel 1948 in Prima che il gallo canti). Nel 1939, oltre a tradurre il Copperfield e testi di storiografia di Christopher Dawson e George Macaulay, diede alla luce, in estate, Paesi tuoi, il romanzo che segnò l’esordio narrativo (Torino 1941), destinato a rinnovare la prosa narrativa italiana, per il suo contributo di asciutta e quasi incantata brutalità narrativa, derivata da modelli americani come, ad esempio, il James M. Cain di Postman always rings twice, ma anche da paradigmi più barocchi e strazianti come il Faulkner di Sanctuary. Nel 1940 scrisse La tenda (poi La bella estate); fra il 1940 e il 1941 La spiaggia; sempre nel 1940 tradusse Benito Cereno di Melville e Three lives (Tre esistenze) della Stein. Nel 1941 tradusse The Trojan horse (Il cavallo di Troia) di Christopher Morley e scrisse numerosi racconti di Feria d’agosto, alcuni dei quali furono pubblicati nel Messaggero di Roma.
Nella primavera del 1940 rivide Fernanda Pivano, che aveva avuto come allieva durante le supplenze al d’Azeglio: iscritta all’Università, colta e spregiudicata, anche lei americanista (tradusse, per Einaudi, la Spoon River anthology di Edgar Lee Master). Cesare si innamorò di lei, mentre l’Italia entrava in guerra, e le chiese di sposarlo, ottenendo un rifiuto; scrisse per lei, oltre a lettere lunghe e suggestive, alcune poesie splendide, che segnarono il passaggio a una nuova lirica, preludio alla stagione più tarda delle liriche per la Garufi e per Connie: si tratta di un nuovo stile, rarefatto e lirico rispetto al precedente verso lungo gonfio di ‘realismo’ prosastico, un nuovo modo quasi ‘dannunziano’, in realtà molto grecizzante e mitico, di cantare la donna isolandola in un universo naturale talora aereo, ma progressivamente sempre più funebre.
A Roma Pavese scese, nel febbraio del 1942, per prendere contatto con i redattori locali della Einaudi, Carlo Muscetta e Mario Alicata; pubblicò in volume La spiaggia (Roma 1942) e la traduzione di The Hamlet di William Faulkner, con il titolo Il borgo; scrisse altri racconti poi inclusi in Feria d’agosto. A causa dei bombardamenti la sede della Einaudi fu dapprima trasferita in un rifugio, quindi a Roma, dove Pavese si recò a dirigerla dal gennaio del 1943. La situazione però anche qui si faceva difficile, come si legge in una drammatica (ma non priva di ironia) missiva a Giulio Einaudi del 19-20 luglio. Così il 26 luglio, subito dopo la caduta di Mussolini, Cesare fece rientro a Torino, nella nuova sede di via Galileo Ferraris, mentre a Roma restava Leone Ginzburg.
Nonostante il precipitare degli eventi, Pavese continuò a lavorare strenuamente a Torino: fino a quando, dopo l’8 settembre, l’Einaudi venne posta sotto tutela del commissario della Repubblica sociale italiana (RSI) Paolo Zappa. Mentre gli amici erano tutti alla macchia nella Resistenza, egli rimase solo «nelle grinfie della storia» (v. Lettere, I, p. 740) vedendosi costretto a recarsi dapprima presso la sorella sfollata, a Serralunga di Crea nel Monferrato, quindi al collegio Trevisio di Casale Monferrato, retto dai padri Somaschi, ove diede lezioni private agli studenti sotto falso nome fino alla Liberazione.
La permanenza nel collegio – documentata soprattutto dai ricordi di padre Giovanni Baravalle, con cui strinse amicizia – testimonia il massimo avvicinamento di Cesare alla religione, nonché importanti letture filosofiche, mistiche e mitografiche. Cesare conobbe inoltre un ex allievo di Baravalle, Carlo Grillo, singolare personaggio di giovane nobile, filosofo e ‘decadente’, che ispirò il Poli del Diavolo sulle colline. Al 1942-43 risale anche il famigerato «taccuino segreto», in cui Cesare sfoga il suo irrazionalismo e un inquietante anti-antifascismo. Tuttavia poi l’adesione al comunismo fu precoce, come ha dimostrato Mariarosa Masoero attribuendo a Pavese alcuni articoli anonimi apparsi nella Voce del Monferrato del maggio 1945 (Masoero, 2006), tanto che «In breve volgere di tempo lo scrittore del diario “nero” e della crisi religiosa si scopre comunista» (Mondo, 2006, p. 127).
Nel 1944 Pavese continuava a scrivere prose poi raccolte in Feria d’agosto, mentre gli eventi di questi anni gli ispirarono un racconto, Il fuggiasco, poi materia per La casa in collina. Dopo la fine della guerra riprese il lavoro alla Einaudi, ma le morti eroiche in giovane età di Leone Ginzburg, Giaime Pintor, Gaspare Pajetta e di altri turbarono non poco l’animo di un uomo segnato dal ‘rimorso del sopravvissuto’. Il 1945 fu comunque un anno di intensa attività: come sempre Pavese cercava la risurrezione attraverso il duro lavoro. Alla Einaudi era considerato ormai un direttore editoriale di grande autorevolezza; riprese i contatti con Ernesto De Martino, già incontrato nel 1943, dalla cui collaborazione nacque la cosiddetta collana viola di etnologia, psicologia, storia delle religioni (che ospitò, fra le altre, opere di Carl Gustav Jung, Lucien Lévy-Bruhl, Karl Kerényi, Vladimir J. Propp, Bronislaw Malinowski, Leo Frobenius, James G. Frazer, Mircea Eliade ecc.). In luglio si recò a Roma, nella sede di via Uffici del Vicario 49, mentre a Torino era Massimo Mila a sostituirlo. Nel frattempo conobbe Davide Lajolo e cominciò a collaborare con l’Unità: nell’autunno prese la tessera del Partito comunista italiano (PCI). A Roma amava immergersi in una solitudine fatta di lavoro intenso e cinematografi serali. Conobbe però una donna, Bianca Garufi, per cui scrisse le poesie del ciclo La terra e la morte (apparse a stampa in rivista nel 1947). Nella capitale continuò a risiedere fino all’autunno del 1946, quando fece ritorno a Torino.
Nel novembre del 1945 uscì Feria d’agosto, mentre sul finire dell’anno cominciò a lavorare ai Dialoghi con Leucò. Nel giugno del 1946 scrisse alcuni versi per una donna, T. (Teresa Motta). Nel frattempo continuava a comporre i magistrali «dialoghetti» e, a quattro mani con Bianca Garufi, cominciò un romanzo, Fuoco grande, rimasto incompiuto. Non smetteva peraltro di scrivere di letteratura americana (su Peter Matthiessen e Joseph Conrad), né di collaborare a l’Unità con pezzi politico-letterari: nel caso dei Dialoghi col compagno utilizzò la forma dialogica che, in un universo remoto, aveva applicato a Leucò; d’altra parte è fra ottobre e dicembre di quest’anno che scrisse il romanzo Il compagno, mentre ancora stava lavorando ai dialoghi mitici.
Nel 1947 terminò e pubblicò i Dialoghi con Leucò (Torino) e diede alle stampe Il compagno (Torino), che, segnalato allo Strega, fu insignito soltanto del premio Salento l’anno successivo. Notevole ancora l’impegno sul versante anglo-americano: oltre a saggi e recensioni, tradusse Captain Smith and company (Capitano Smith) di Robert Henriques. Fra il settembre di quell’anno e il febbraio del 1948 scrisse La casa in collina che uscì, insieme con Il carcere, in Prima che il gallo canti (Torino, novembre 1948), tradusse privatamente la Teogonia di Esiodo e cominciò lo scambio epistolare con Rosa Calzecchi Onesti, incaricata della traduzione dei poemi omerici per la Einaudi. Non si dimentichi che Pavese stesso aveva tradotto per proprio conto fra l’altro l’episodio dell’evocazione dei morti dell’XI dell’Odissea, una prima volta parzialmente in un quaderno del confino calabrese, poi integralmente in fogli sciolti: quest’ultima traduzione va datata proprio a ridosso del 1948, in cui uscì il volume contenente il libro XI dell’Odissea a cura di Mario Untersteiner (Firenze, Sansoni: con dedica autografa a Pavese del maggio, o luglio, 1948, conservato nella biblioteca di Pavese).
Fra giugno e ottobre scrisse Il diavolo sulle colline, mentre continuava la collaborazione con l’Unità e altre riviste. Nel 1949 scrisse Tra donne sole, ma non tralasciò il mondo antico, traducendo fra l’altro alcuni inni omerici. Nel novembre uscì La bella estate (Torino), che comprendeva il romanzo eponimo, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole. Pavese ricevette un giudizio piuttosto sferzante dall’antico maestro Augusto Monti, cui rispose piccato in uno scambio epistolare teso ma sincero. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, fu composto tra settembre e novembre del 1949 e uscì sempre per i tipi di Einaudi (Torino 1950).
Il romanzo ha un respiro più fluente rispetto ai precedenti, quasi a comporsi in un ritmo classico, georgico, ove il ritorno alla terra originaria è un ritorno alla terra tout court; tuttavia l’umanesimo della Luna e i falò è macchiato dall’orrore, dalla violenza e dalla follia delle cose e delle persone, della guerra trascorsa, di tutto ciò insomma che si contrappone alla calma e alla forza della natura e degli uomini che vogliono dominarla. Come sempre il fondo sacrificale e sanguinoso del rito e del mito emerge in Pavese anche quando sembra che un ordine possa controllare il caos.
Fu al termine del 1949, fra ottobre e dicembre, che si acuì il contrasto fra Pavese e De Martino nella conduzione della ‘collana viola’: il grande etnologo, ex socialista da poco iscritto al PCI, riceveva accuse dagli ‘ortodossi’ del partito, a causa degli autori pubblicati, rappresentanti dell’irrazionalismo novecentesco, quando non filonazisti o apertamente reazionari. Anche Pavese era guardato con sospetto, ma reagì ironicamente o energicamente (e pubblicamente). Lo scambio di lettere con De Martino alterna momenti di incomunicabilità ad altri più concilianti. Alla tragica morte di Pavese, De Martino, con una discutibile lettera a Giulio Einaudi, additò la ‘pericolosità’ della collana, pur continuando a lavorarvi, magari saltuariamente, fino al 1958; nel 1962 un nuovo voltafaccia, in cui De Martino rivalutò e la collana e la figura di Pavese.
Nel 1949 l’impegno di direttore editoriale, insieme con la pubblicazione di articoli militanti e teorici, era sempre intensissimo: tutto questo accumulo di lavoro incise evidentemente sul sistema nervoso di Pavese, che cominciò ad avvertire stanchezza, a soffrire d’insonnia e a denunciare piccole crisi di panico. «Esaurimento – è una parola – ma che cosa significa?», si domandava nel diario il 28 novembre. L’incontro con Constance Dowling, nel capodanno romano, arrivò dunque a fulminare un uomo già predisposto allo shock. Le sorelle Dowling, Constance e Doris, erano attrici americane; la seconda aveva lavorato con Raf Vallone, amico di Cesare, nel film di Giuseppe De Santis Riso amaro, alla cui elaborazione scritta forse aveva partecipato anche lo stesso Pavese. Che rivide Connie (ipocoristico di Constance) nel marzo del 1950, a Cervinia: fu un innamoramento senza scampo.
D’altra parte la sorella Doris divenne una buona amica per Cesare, che scrisse per le due sorelle soggetti cinematografici, tra cui uno tratto dal Diavolo sulle colline. Connie e Doris rappresentavano ‘fisicamente’ il cinema per Cesare: le lettere sui progetti filmici per le due sorelle sono numerose. La tarda lettera a Connie del 17 aprile forse accompagnava la poesia T’was only a flirt, l’ultimo semplice tremendo blues. Constance stava per ripartire per New York, Pavese si trovò solo davanti al proprio nudo orrore, la disperata speranza di sposare Connie si era bruciata: lei non sarebbe tornata mai, Cesare lo sapeva e lo scrisse a Doris il 6 luglio.
L’anno 1950 non fu certo vuoto di impegni culturali; fra l’altro Pavese entrò a far parte della redazione della rivista Cultura e realtà, diretta da Mario Motta, facente capo all’area della ‘sinistra cristiana’, piuttosto invisa all’ortodossia del PCI, in cui pubblicò un saggio sul mito e una risposta polemica a Franco Fortini che aveva attaccato De Martino accusandolo di cedere ai pericoli dell’irrazionalismo. L’articoletto uscì nel marzo, mese in cui Pavese scrisse anche gran parte delle liriche per Connie, fra cui la suprema, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Il 24 giugno vi fu il trionfo mondano di Cesare, che si recò a Roma a ricevere il premio Strega per La bella estate, uscito l’anno precedente. Pavese giunse all’ultimo momento al ninfeo di Villa Giulia, elegantissimo, accompagnato dalla bella Doris Dowling nell’occasione e si fece fotografare docilmente.
Dopo l’apoteosi, l’incubo dell’estate in città. Un’estate davvero fatale per Pavese. Recatosi dapprima dai suoi amici, i coniugi Ruata, a Varigotti, vi restò pochi giorni spostandosi a Bocca di Magra, dove bruciò un estremo, rapido amore impossibile per una ragazza, Pierina (Romilda Bollati di Saint-Pierre, sorella di Giulio Bollati). Fatto ritorno a Torino in un afoso deserto, se si eccettua la presenza dei coniugi Rubino, presso i quali aveva conosciuto Connie, Pavese vide la Alterocca, sua futura biografa, il 17 e ancora il 18 agosto (a cena in un locale in riva al Po), confidandole di sentirsi lucidamente all’epilogo della propria parabola. Il 23 le scrisse esprimendole il proprio desiderio di «silenzio». La prossimità della fine sembra ormai ineludibile.
Sabato 26 agosto 1950, nel primo pomeriggio, Pavese si recò all’albergo Roma, sotto i portici di piazza Carlo Felice, e prese una piccola stanza al terzo piano. In serata fece alcune telefonate, tra l’altro a Fernanda Pivano e, probabilmente, a una ragazza conosciuta qualche giorno prima in una sala da ballo che avrebbe eluso il suo invito, definendolo musone e noioso. La sera del giorno dopo Pavese fu ritrovato senza vita sul letto: si era tolto la vita con il sonnifero.
Il messaggio ai posteri, vergato sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò, suonava: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi», firmato Cesare Pavese. Era modellato su quello di Vladimir V. Majakovskij, come Cesare lo aveva letto nell’antologia Il fiore del verso russo curata da Renato Poggioli per Einaudi (1949). Eccone le prime righe: «A tutti. Se muoio non accusate nessuno. Niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva soffrire. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi».
Opere. L’edizione delle opere «complete» di Pavese, in 14 volumi (16 tomi), uscì per i tipi torinesi di Einaudi nel 1968. Ora sono disponibili: Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti (2000) e Tutti i racconti (2002). Si vedano inoltre: Poesie giovanili (1923-30), a cura di A. Dughera – M. Masoero, Torino 1989; Pavese giovane, Torino 1990; Il mestiere di vivere (1935-1950), nuova ed. integrale condotta sull’autografo, a cura di M. Guglielminetti – L. Nay, Torino 1990; L. Mondo, Il tormento di Pavese, prima che il gallo canti, in La Stampa, 8 agosto 1990 (taccuino inedito); Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), a cura di M. Masoero, Torino 1993; Le poesie, a cura di M. Masoero e con introduzione di M. Guglielminetti, Torino 1998; Tra donne sole, nuova ed. con l’aggiunta delle lettere di C. Pavese e I. Calvino, Torino 1998 (in appendice la sceneggiatura del film Le amiche di M. Antonioni); Dodici giorni al mare. Un diario del 1922, a cura di M. Masoero, Genova 2008; Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, Torino 2009; Le Odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese, a cura di G. Barberi Squarotti, Firenze 2013.
Fonti e Bibl.: I manoscritti e dattiloscritti principali sono custoditi nell’Archivio Pavese presso il Centro di studi di letteratura italiana in Piemonte Guido Gozzano-Cesare Pavese della facoltà di lettere dell’Università degli studi di Torino; provengono dalla famiglia (fondo Sini-Cossa) e dalla Einaudi; sul sito HyperPavese – database imprescindibile e in progress – curato da Mariarosa Masoero, molti materiali sono disponibili digitalizzati.
Sono stati pubblicati nuclei (spesso) inediti dell’epistolario in varie sedi; si veda, ad esempio: P. Pulega, Tre lettere inedite di C. P., in Studi novecenteschi, 1974, n. 7, pp. 107-109; P. Briganti, In margine alla corrispondenza P. – Jahier. Una lettera inedita di P., in Studi e problemi di critica testuale, 1974, vol. 9, pp. 234-243; M. Leva, Tredici lettere inedite di C. P. ad Aldo Camerino, in Strumenti critici, XXX (1976), pp. 247-256; F. Contorbia, P.: le lettere inedite a Sibilla, in La Stampa – Tuttolibri, 26 febbraio 1987; M. Guglielminetti, Una poetica ‘tenzone’: Mario Sturani e C. P., in Mario Sturani 1906-1978, a cura di M.M. Lamberti, Torino 1990, pp. 192-199; C. Pavese – E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Torino 1991; A. Dughera, Monti e P.: storia di un’amicizia attraverso le lettere, in Id., Tra le carte di P., Roma 1992, pp. 49-103; S. Savioli, L’ALI di P., in Levia Gravia, I (1999), pp. 259-288; M. Guglielminetti – S. Savioli, Un carteggio inedito tra C. P. e Mario Bonfantini, in Esperienze letterarie, 2000, n. 3-4, pp. 61-85; C. P. & Anthony Chiuminatto. Their corrispondence, a cura di M. Pietralunga, Toronto-Buffalo-London 2007; C. P. tuo Muscetta, a cura di G. Ferroni – E. Frustaci, Catania 2007; Officina Einaudi. Lettere editoriali 1940-1950, a cura di S. Savioli, Torino 2008; C. Pavese – R. Poggioli, “A meeting of minds”. Carteggio 1947-1950, a cura di S. Savioli, Alessandria 2010; Una bellissima coppia discorde. Il Carteggio fra C. P. e Bianca Garufi (1945-1950), a cura di M. Masoero, Firenze 2011.
Strumento bibliografico imprescindibile è L. Mesiano, C. P. di carta e di parole. Bibliografia ragionata e analitica, Alessandria 2007, cui si rimanda per brevità. Precedentemente: M. Lanzillotta, Bibliografia pavesiana, Rende 1999; Ead., Materiali pavesiani, in Filologia antica e moderna, 1997, vol. 13, pp. 101-113; cfr. anche C. P.: le carte, i libri, le immagini (catal.), a cura di A. Dughera – D. Richerme, Torino 1987. Fra gli studi biografici: D. Lajolo, Il “vizio assurdo”. Storia di C. P., Milano 1960 (poi: P., Il vizio assurdo, Milano 1984); B. Alterocca, P. dopo un quarto di secolo, Torino 1975 (poi: C. P. Vita e opere di un grande scrittore sempre attuale, Quart [Aosta] 1985); L. Mondo, Quell’antico ragazzo. Vita di C. P., Milano 2006. Si aggiunga la dettagliata Cronologia di M. Masoero in C. Pavese, Tutti i romanzi, cit., pp. LXVII-CIII; nonché T. Wlassics, P. falso e vero. Vita, poetica, narrativa, Torino 1987, pp. 25-64, e F. Vaccaneo, C. P., una biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi, Cavallermaggiore (Torino) 1996 (1ª ed. Torino 1989). Fra le testimonianze si vedano almeno N. Ginzburg, Le piccole virtù e Lessico famigliare, rispettivamente Torino 1962 e 1963; A. Monti, I miei conti con la scuola, Torino 1965; P. Spriano, Le passioni di un decennio, Milano 1986; T. Pizzardo, Senza pensarci due volte, Bologna 1996.
Fra i contributi critici più recenti: R. Gigliucci, C. P., Milano 2001; Sotto il gelo dell’acqua c’è l’erba. Omaggio a C. P., Alessandria 2001 (con un carteggio inedito con Raffaele Pettazzoni); P. e la guerra, a cura di A. d’Orsi – M. Masoero, Alessandria 2004; M. Masoero, “Anche astenersi è un prender parte”. C. P. a Casale Monferrato, in Come l’uom s’eterna, S. Mauro Torinese 2006; C. P. e la “sua” Torino (catal.), a cura di M. Masoero – G. Zaccaria, Torino 2007; V. Capasa, “Lo scopritore di una terra incognita”. C. P. poeta, Alessandria 2008; G. Remigi, C. P. e la letteratura americana. Una “splendida monotonia”, Firenze 2012; C. P., un greco del nostro tempo, a cura di A. Catalfamo, S. Stefano Belbo 2012.
Maria Stuarda, forma italianizzata di Mary Stuart, è stata sicuramente la regina più importante della Scozia.
Nota Biografica:
Nata l’8 dicembre 1542 da Giacomo V Re di Scozia e dalla sua seconda moglie Marie de Guise, duchessa francese imparentata con la casa reale di Francia, Maria era la nipote di Margaret Tudor, sorella di Enrico VIII d’Inghilterra, il re famoso per aver rotto i legami con la chiesa cattolica e aver istituito la fede anglicana.
Poco dopo la sua nascita, il padre morì lasciando lei come unica erede e nel 1543, nella cappella del Castello di Stirling, la piccola fu incoronata Maria, Regina di Scozia.
Ci fu una breve reggenza di James Hamilton mentre nel 1554 la madre Marie de Guise decise di rompere il fidanzamento tra la figlia ed il principe Edoardo, figlio di Enrico VIII che con questo sposalizio avrebbe messo le mani sul regno di Scozia.
Descrizione del romanzo:
Il “brutale corteggiamento” ebbe inizio. Così venne definito quello che seguì a questa rottura, le campagne militari inglesi contro la Scozia nel tentativo di rapire Maria e farla sposare con Edoardo. Marie de Guise fuggì portando con sè la figlia di castello in castello fino ad arrivare nella corte di Francia storica alleata scozzese dove il re Enrico IIapprofittò per farla sposare con il figlio Francesco II nel 1558 che però morì poco dopo.
Cresciuta e allevata alla corte dissipata di Caterina de’ Medici, fu la legittima regina di Scozia. Nella terra che fu di William Wallace fu richiamata dai membri dell’aristocrazia, ansiosi anzitutto di assicurare al loro paese l’indipendenza dai vicini meridionali. Infatti, il Parlamento scozzese, senza l’assenso della sovrana, aveva ratificato la modifica della religione di Stato passando da quella cattolica a quella protestante sotto la spinta del furore del riformatore John Knox.
Maria sbarcò a Leith nel 1561, possedendo numerose virtù e talenti appresi dall’educazione ricevuta in Francia, ma era manchevole di quella forza per far fronte alla pericolosa situazione scozzese.
I rapporti con la cugina Elisabetta I d’Inghilterra
Nel frattempo sul trono di Inghilterra salì Elisabetta, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, la donna per cui il re ruppe i rapporti con la Chiesa di Roma. I rapporti tra le cugine, Maria Stuarda ed Elisabetta I, furono difficili e complicati. innanzitutto per la fedeltà che molti cattolici inglesi decisero di dare alla regina di Scozia non riconoscendo Elisabetta. Ancor di più, ad incrinare i rapporti tra le due regine, accorse la difficile situazione della successione.
Elisabetta non aveva figli e non era intenzionata ad averla. Maria invece, captando la possibilità di unire i due regni sotto la sua egida, si sposò con il cugino Lord Darnley, che grazie a sua madre vantava certi diritti di successione al trono inglese. Dal matrimonio nacque Giacomo VI di Scozia (poi Giacomo I d’Inghilterra), battezzato nel Castello di Stirlingsu una tavola rotonda, come a renderlo il nuovo re Artù che avrebbe presto unito Scozia e Inghilterra.
A rendere ulteriormente intricati i legami tra le regine fu la morte sanguinosa del marito di Maria Stuarda, accusata dalla cugina di essere complice dell’attentato. La regina scozzese aveva un segretario favorito, l’italiano Rizzio, in contrasto con Darnley e i nobili protestanti che dominavano la politica del paese. Rizzio fu ucciso dallo stesso Lord sotto gli occhi della regina. A sua volta, un anno dopo il marito di Maria fu ucciso da James Hepburn, IV conte di Bothwell, che divenne poi il marito della regina di Scozia, rendendo ancora più credibile la sua implicazione nell’assassinio del precedente marito.
I nobili scozzesi, benchè non eccessivamente morali, furono urtati da questi atti che disonoravano la nazione. Imprigionarono Maria a Lochleven per processarla. Ella fuggì per chiedere asilo alla cugina Elisabetta.
La regina d’Inghilterra, nonostante l’antipatia per Maria, odiava anche le ribellioni e la figura del calvinista Knox. Decise così di trattenerla in prigionia cercando di intavolare una trattativa ma con condizioni di pace alquanto irragionevoli, come che rinunciasse al trono a favore di Giacomo VI e che lo facesse educare in Inghilterra.
I continui rifiuti, la sete di vendetta, e l’aspirazione a sposare il re Filippo di Spagna la portarono per ben 19 anni ad essere imprigionata e ad essere accusata di complicità nelle congiure contro la regina anglicana. La prova della sua partecipazione fu trovata nella firma al documento della cospirazione di Babington che prevedeva la morte di Elisabetta. Il processo che ne seguì la condannò a morte, nonostante il figlio Giacomo chiese che la pena fosse commutata in esilio.
La condanna a morte fu firmata il 1° febbraio 1587 per quella che le Camere definirono “quel drago enorme e mostruoso ch’è la regina degli scozzesi”.
Durante il processo, Maria Stuarda, per sottolineare la sua fedeltà alla religione cattolica, alla Scozia e il non essersi piegata all’Inghilterra anglicana, disse ai suoi accusatori “guardate nelle vostre coscienze e ricordate che il teatro del mondo è più ampio del regno d’Inghilterra.” Essendo una regina straniera, nonché la prima sovrana ad essere giustiziata nonostante legittimamente unta e coronata, non poteva essere accusata di alcun tradimento.
La sua vita, divenuta così modello di eroina di romanzo, campionessa di fede, fu venerata dal mondo cattolico come santa e martire. Trascorse i suoi ultimi giorni pregando e perdonando il suo boia al quale disse “vi perdono con tutto il mio cuore, perché ora io spero che porrete fine a tutte le mie angustie”.
Morì decapitata l’8 febbraio del 1587 con ben due colpi di scure, indossando una sottoveste di raso rosso, colore liturgico del martirio per la religione cattolica usato per dimostrare la sua innocenza. La regina chiese che le dame, alla sua morte, vestissero il “nero spagnolo”. Il nero divenne il colore ufficiale del lutto per i re, i principi e nobili vari, cioè coloro che erano più vicini ai papi e agli uomini influenti della Chiesa.
Le opere a lei ispirate
La sua figura ispirò un romanzo di Alexandre Dumas in cui si concentra la malinconia per il ruolo storico per cui la Regina era nata ma che le sanguinose vicende le impedirono di essere. A lei furono anche dedicate un’opera lirica di Gaetano Donizetti e un’opera di teatro di Frederich Schiller. Vittorio Alfieri nel 1788 scrisse la tragedia “Maria Stuarda”.
A livello cinematografico sono decine i film in cui compare e due su tutti la vedono protagonista, entrambi intitolati “Mary Queen of Scots”, usciti nel 1971 e nel 2013. Nel primo la figura della regina fu recitata da Vanessa Redgrave che ottenne anche una candidatura agli Oscar per questo ruolo. Tra il 2013 e il 2017 le è stata dedicata anche una serie TV, chiamata ”Reign”, incentrata sulla sua giovinezza impersonata dall’attrice Adelaide Kane.
Nel 2018, invece, è uscito il film “Maria regina di Scozia“, diretto da Josie Rourke con protagoniste Saoirse Ronan e Margot Robbie. Si tratta dell’adattamento cinematografico di My Heart is my own: the life of Mary Queen of Scots, biografia della regina scozzese scritta da John Guy.
Biografia di Maria Stuarda-Figlia (Linlithgow 1542 – Fotheringay Castle, Northamptonshire, 1587) di Giacomo V e di Maria di Lorena. Mandata in Francia (1548) perché fosse sottratta al fidanzamento con Edoardo d’Inghilterra voluto da Enrico VIII, M. vi fu educata alla corte di Enrico II e fidanzata col delfino Francesco, che poi sposò nell’apr. 1558. Bella, di carattere energico, seppe tener testa alle difficoltà che Caterina de’ Medici, avversa al partito dei Guisa, cui M. era legata da rapporti di parentela, le opponeva, dominando il debole marito. La morte di Francesco II (5 dic. 1560) la fece però attenta alla situazione in Scozia, dove si era favorevolmente conclusa, con l’aiuto di Elisabetta d’Inghilterra, la lotta per la proclamazione del protestantesimo; M. si rifiutò di riconoscere il trattato di Edimburgo, in base al quale erano stati espulsi i Francesi, ma accettò l’invito dei lord protestanti, presto delusi dell’amicizia di Elisabetta, e nell’agosto 1561 sbarcò a Leith. Furono anni tranquilli: la collaborazione fra i lord protestanti e M. fu cementata dall’appoggio del conte di Moray e dell’ala moderata dei protestanti scozzesi, che consentì a M. la personale professione del culto cattolico e una generale politica di tolleranza religiosa. Il difficile equilibrio (la pressione dei circoli cattolici su M. non era meno forte del violento estremismo di J. Knox) fu rotto quando M., che aveva rifiutato un matrimonio col conte di Leicester proposto da Elisabetta, sposò, incurante dell’opposizione protestante, Enrico Darnley, il capo dei cattolici scozzesi (1565); poi sconfisse Moray, che si rifugiò in Inghilterra. La grave situazione fu complicata dall’ambizione del debole Darnley a farsi proclamare principe-consorte e dall’improvvisa passione di M. per il suo segretario Davide Rizzio; una breve alleanza di Darnley con i nobili protestanti, sempre più irritati dai tentativi di restaurazione cattolica di M., portò all’assassinio di Rizzio (1566) e poi si sfasciò. M. diede una nuova prova del carattere tutto passionale e non politico della sua azione; riconciliatasi col marito (il 19 giugno le nasceva il figlio Giacomo), riuscì a scindere l’opposizione dei nobili, e con l’aiuto dei conti di Bothwell, di Huntly e di Atholl tornò a Edimburgo dal suo rifugio di Dunbar, iniziando una relazione con Bothwell, che fu l’inizio della catastrofe. Darnley fu assassinato (9 febbr. 1567), e nel maggio successivo, dopo avventurose vicende, M. sposò, secondo il rito protestante, Bothwell. La violenta opposizione dei nobili, che vincitori a Carberry Hill costrinsero M. all’abdicazione e al ritiro a Lochleven, travolse la sua testarda resistenza e, sconfitta ancora a Langside, M. cercò rifugio in Inghilterra presso Elisabetta. L’avversione personale per la regina cattolica, che aveva in varie occasioni mostrato di non voler rinunciare ai suoi diritti al trono inglese, fu contenuta dall’imbarazzo politico di Elisabetta che non voleva immischiarsi nella punizione di una regina; e per un momento si pensò di risolvere la difficile situazione sposando M. col duca di Norfolk. Un progetto che fallì presto, mentre M. tentava disperati complotti con i Guisa e con Filippo II di Spagna, finché, compromessasi imprudentemente nella congiura di A. Babington, nell’ott. 1586 fu processata e (11 ottobre) condannata a morte. Dopo molte esitazioni, Elisabetta si decise a firmare il decreto di morte, che fu eseguito il 7 febbraio 1587.
– Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Rosa Leveroni i Valls neix a Barcelona l’1 d’abril del 1910 en el si d’una família de la mitjana burgesia. El seu pare, descendent d’una família d’armadors de vaixells de Gènova, fa de gerent d’un magatzem de metalls, i la seva mare, de mestra. Fa els primers estudis al col·legi Príncep d’Astúries i, posteriorment, fins als dotze anys, a les Dames Negres del passeig de Gràcia.
Als quinze anys publica els seus primers versos a la revista Patufet, i comença a tenir clara la seva vocació literària. Tot i que el seu pare la pressiona perquè es dediqui al negoci familiar, als dinou anys, coincidint amb la caiguda de la dictadura de Primo de Rivera, entra a l’Escola de Bibliotecàries, que aleshores dirigeix Jordi Rubió. Aquesta institució, fundada per Eugeni d’Ors, té com a professors alguns dels intel·lectuals catalans més brillants del moment (Carles Riba, Ferran Soldevila, Nicolau d’Olwer, Rafael de Campalans). L’estada a l’Escola de Bibliotecàries i, en especial, la coneixença de Carles Riba, és cabdal en la formació intel·lectual i personal de Leveroni.
L’any 1933 rep una beca per anar a Madrid a fer una tesina sobre literatura infantil. En tornar, entra a treballar a la biblioteca de la Universitat Autònoma de Barcelona. Durant la guerra civil fa dos cursos de la carrera de Filosofia i Lletres. L’any 1937 és finalista al premi Joaquim Folguera amb el llibre Epigrames i cançons, que publica l’any 1938, prologat per Carles Riba. La influència ribiana i, en general, de tota la generació postsimbolista és molt present en aquest volum. Els temes que hi apareixen seran els que es repetiran durant tota la seva obra: la tristesa, la desolació amorosa, la melangia…, sentiments continguts i objectivats gràcies a la disciplina del vers.
El 1939, després de la Guerra Civil, la depuració de funcionaris de la Generalitat fa que perdi la feina com a bibliotecària de la Universitat Autònoma. Durant la dècada dels quaranta, Leveroni dedica tota la seva energia a la resistència cultural catalana enfront de la repressió franquista, i es converteix en l’ànima del grup intel·lectual que Carles Riba forma al seu voltant. És ella qui distribueix clandestinament les Elegies de Bierville de Riba, qui actua de contacte entre els intel·lectuals catalans de l’interior i els de l’exili, i és una de les primeres col·laboradores de la revista Poesia (fundada el 1940) i de la revista Ariel (fundada el 1946).
L’any 1952 publica un segon volum de poesia, Presència i record, prologat per Salvador Espriu. La mort del seu pare, l’obliga a centrar-se en el negoci familiar. En aquesta època assisteix assíduament als congressos de literatura catalana que se celebren a Anglaterra, organitzats per la Catalan Society, entitat de la qual és membre. Durant les dècades dels seixanta i dels setanta, la seva figura es manté cada vegada més apartada i aïllada de l’escena literària catalana, fet al qual també contribueix el seu silenci poètic.
L’any 1981 publica el volum Poesia, que recull tota la seva obra poètica, amb pròleg de Maria Aurèlia Capmany i dos epílegs de Carles Riba i Salvador Espriu, escrits respectivament el 1938 i el 1950 i que havien prologat els dos reculls poètics. L’any següent, el conjunt de la seva obra és reconegut amb l’atorgament de la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Mor el 4 d’agost del 1985, poc abans que es publiqui un volum de contes que recull la seva producció narrativa. És enterrada a Port-Lligat.
Rosa Leveroni-Poesia”PRESENZA E RICORDO”
*
Con il grigiore di questo cielo,
l’argento dell’ulivo
deve sembrare il tocco di un pennello
dalla fine trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava l’oscurità.
Tutta la luce è rimasta
sul ramo d’ulivo.
Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
(Presència i record. Barcelona: Edicions de l’Óssa Menor, 1952)
* * *
Elegies dels dies obscurs
III
Desmai de cap al tard damunt de l’aigua
adormida del port. Els núvols grisos
deixaven la tristesa de sentir-se
orfes del seu rosat botí de posta,
sobre el mirall opac. L’ala del somni
ratllava les cobertes treballades
d’un íntim cansament. Ja cap bandera
no ornava els mastelers. I les desferres
dels bots abandonats eren la muda
crida del desesper. Els nostres passos
ressonaven pel moll i les paraules
foren el lent sospir de la nostàlgia
d’un viatge mai fet… Ah! les inútils
veles del mort desig, ¿com desplegar-les
al vent que no vindrà per a portar-nos
al goig del mar obert, a l’alegria
de les ones batents, si els braços àvids
d’aquest port desolat ens retenien?
VIII
Aquest so greu de corda adolorida
que subratlla el meu cant, és la penyora
deixada per la mort perquè et recordi,
amor adolescent. És la teva ombra
que en l’alta solitud dels camins aspres,
el braç acollidor, va fer-me ofrena
d’aquest repòs segur, oh flama pura
del meu amor passat, present encara
en el somriure las d’un món que porta
el pes de tots els morts en les florides
de cada primavera renovada.
Ets el meu port tancat on de l’inútil
navegar porcel·lós veig la tristesa
i el conhortament… Ombra benigna
que m’acompanya el cant atemperant-lo
amb unes notes greus, serva’m els braços
eternament oberts…
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen,
ignorant cap a on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el festeig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya
s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres
vetllant un rierol,
i coneixen el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres,
mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Jo porto dintre meu
per fer-me companyia
la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra,
aire i sol, mar i estrella,
perquè fossis més meu,
perquè jo fos més teva.
(Epigrames i cançons. Barcelona: Gustau Gili, 1938)
Antologia
Alcune poesie
Con il grigiore di questo cielo
l’argento de l’olivera
deve sembrare il tocco di un pennello
di una raffinata trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava la tenebra.
Tutta la luce è andata
al brancam de l’olivera.
(Presenza e ricordo. Barcellona: Edizioni dell’orso minore, 1952)
* * *
Elegies dels muore oscurs
III
Svenendo nel pomeriggio in acqua
sonno dal porto. Le nuvole grigie
hanno lasciato la tristezza dei sentimenti
Orfani con il loro sedere rosa,
sullo specchio opaco. L’ala del sogno
graffiato i ponti lavorati
di una stanchezza intima. Nessuna bandiera più
niente Ornava els Mastelers. I les desferres
delle barche abbandonate erano i muti
grido di disperazione. I nostri passi
risuonava attraverso il molo e le parole
Erano il lento sospiro della nostalgia
da un viaggio mai fatto… Ah! Ah! quelli inutili
candele del desiderio di morte, come aprirle
al vento che non verrà a prenderci
alla gioia del mare aperto, alla felicità
delle onde battenti, se l’avidità braccia
Ci hanno tenuti lontano da questo porto desolato?
VIII
Quel serio suono di corda dolorante
che sottolinea il mio canto, è la penyora
lasciato alla morte per ricordarti,
amore adolescenziale. È la tua ombra
che nell’alta solitudine delle strade aspre,
il braccio di accoglienza, mi ha fatto un’offerta
di questo riposo sicuro, oh fiamma pura
dal mio amore passato, presente ancora
nel sorriso quelli di un mondo che porta
il peso di tutte le morti in Florida
di ogni primavera rinnovata.
Sei il mio porto chiuso dove dell’inutilità
surf in porcellana vedo la tristezza
I el conhortament… Ombra benigna
che mi accompagna la canzone temprandola
Sul serio, servi le mie braccia
eternamente aperto…
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Seguite i sentieri che conducono i campi,
ignorante cappuccio a sul furgone,
amato da un profumo di terra morbida
Non posso errívol.
E prendono i colori caldi del rame
con un bacio dal sole che tramonta,
e cieli d’amore, sotto i rami,
la festa del popolo.
Seguite i sentieri per la vigna
stanno allineando la costa,
E hanno la sete e lo sguardo
un bell gotim un punt.
Per favore seguite i sentieri tra pollancre
vegliare su un torrente,
E conoscono il volo delle borse di studio,
il gioco della pioggia e del sole…
Amo tutte le strade, anche le più dure,
purché siano aperti
E hanno messo un nuovo tremore alla frutta
nei miei sensi svegli.
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Porto dentro di me
per farmi compagnia
solo la solitudine.
La solitudine immensa
amarla infinitamente
Voglio essere la terra,
Aire i sol, mar i estrella,
perché tu eri più mio,
in modo che potessi essere più come te.
(Epigrammi e canzoni. Barcellona: Gustau Gili, 1938)
Rosa Leveroni (Barcelona, 1910-1985). Poeta i narradora. La seva poesia es troba influïda pel mestratge de Carles Riba, tant en els models formals com en el refús de la superficialitat i el barroquisme. La seva obra és breu i es troba recollida en dos volums: Poesia (1981) i Contes (1985). Conrea també l’assaig i la crítica literària (sobre Ausiàs March, especialment). Durant la postguerra desenvolupa una tasca important en la represa de la cultura i la llengua catalanes. L’any 1982 és reconeguda amb la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Va ser una de les primeres membres i, posteriorment, sòcia d’honor de l’Associació d’Escriptors en Llengua Catalana.
Rosa Leveroni (Barcellona, 1910-1985). Il poeta e il cantastorie. La sua poesia è influenzata dalla maestria di Carles Riba, sia nei modelli formali che nel rifiuto della superficialità e del barocco. Il suo lavoro è breve ed è raccolto in due volumi: Poesia (1981) e Racconti (1985). Coltiva anche saggio e critica letteraria (soprattutto su Ausiàs March) Nel dopoguerra sviluppa un importante compito nel restauro della cultura e della lingua catalana. L’anno 1982 è riconosciuta con la Croce di San Giorgio della Generalitat di Catalogna.
POEMES DE ROSA LEVERONI
VI TARDA DE POESIA
20 D’ABRIL DE 2022
AULES DE DIFUSIÓ CULTURAL DE LA GARROTXA
POEMES DE ROSA LEVERONI
PÒRTIC
del llibre Epigrames i cançons, 1938
Jo porto dintre meu per fer-me companyia la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra, aire i sol, mar i estrella, perquè fossis més meu, perquè jo fos més teva.
ELS RECORDS III
Jo fos per tu aquesta cançó tan dolça que desgrana el molí;
aquest oreig suau que t’agombola perfumant-te el matí.
Fos el flauteig dels tòtils a la tarda en la calma dels horts.
Si fos aquesta pau que t’acompanya en el repòs dels ports …
o fos la punxa de la rosa encesa d’un desig abrandat; aquell record d’una hora de follia, d’aguda voluptat.
Si fos l’enyorament d’uns braços tendres que varen ser-te amics,
o bé la revifalla rancorosa d’aquells menyspreus antics.
Si jo no fos per tu record amable, fos almenys un neguit,
un odi o un dolor, una recança … Ho fos tot, menys l’oblit.
(del llibre Presència i record, 1952)
CANÇÓ DE LES BESADES
El primer bes que florí,
te’n recordes?, jo el donava. Tu em prengueres el segon vora del riu que cantava.
I després ja començà
el rosari de besades.
Unes amb regust de sol
i neu dalt de la muntanya. Altres amb claror d’estels
i perfum de lluna clara.
Totes d’un encantament
que ens feia les hores calmes …
D’aquell rosari passat,
sols el record m’acompanya i la recança també,
amor, si tu l’oblidaves.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
ABSÈNCIA I
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis,
i sóc tan lluny de l’amat!… Sols tinc la mar per companya; ella bé prou que em somriu dins la cala arredossada.
Em somriuen els estels i la lluna niquelada,
el campanar cimejant
i la vela ben inflada,
i la gavina en ple vol,
i el peix fugint de la xarxa…
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis! Si sóc tan lluny de l’amat
res dintre meu ja no canta.
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
No vull el mirall del mar, ni l’estelada florida;
ni claror de cels novells, ni encetar cap nova via.
Vull la dolçor del teu braç abraçant la meva vida; vull la claror dels teus ulls i la teva veu amiga.
XXIII
ABSÈNCIA VII
Em pren la calma dels camps quan l’hora esdevé rogenca.
I la quietud de la mar
quan els vents dormen la sesta. I mentre vola l’ocell
l’ànima esdevé lleugera …
Saber-te lluny sense dol
em fa ressò de miracle.
Ara, però, veig el món
amb la claror que m’encanta de tenir-te dintre meu,
que fa que no em cal pensar-te.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
CANÇÓ D’UN SETEMBRE
Era una coma d’oliveres
amb una casa i un camí,
al capdavall dues figueres
fent ombra fresca a un doll molt fi.
Era migdia. Reposava
la vinya negra de gotims; vora el portal un gall cantava; es feinejava porta endins.
Aquella font era tan clara, era tan net aquell cel blau … Omplia el pit la joia avara
i la llangor fou tan suau!…
Jo no sabia que l’amava
però en sos ulls em vaig mirar … Des d’aleshores l’estimava,
ja no he sabut què és oblidar.
(del llibre Presència i record, 1952)
Vull sentir-te com arrel
dins la foscor beneïda d’aquesta terra vivent
de nostra amor compartida.
(del llibre Presència i record, 1952)
CLAROR DAURADA
És la claror daurada de la posta d’un dia de tardor
que veig en els teus ulls i que m’ofrenen la teva tremolor.
És aquell deix cansat, com d’arribada després de tràngols forts
a l’esperat recer, on tots els somnis troben la pau dels ports.
És el somriure lleu, la veu sonora d’haver estimat ja tant,
que em prenen dolçament i se m’emporten sense saber on van…
(del llibre Presència i record, 1952)
ELS CAMINS III TEMA AMB VARIACIONS
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen ignorant cap on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el fresseig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres vetllant un rierol,
i coneixent el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres, mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(del llibre Presència i record, 1952)
COLOR DEL TEMPS
Clavellines als balcons,
parets blanques, fustes blaves. Esclat de llum: campanar; randes albes a les platges. Tocs de mel en la claror;
verds i blaus, joies de l’aigua …
Quin perfum primaveral ofrenaves, vila amable! …
(del llibre Presència i record, 1952)
Si jo tingués un veler sortiria a pesca d’albes. Encalçaria els estels
per posar-me’n arracades.
Si jo tingués un veler, totes les illes i platges
em serien avinents
per al somni i les besades.
Si jo tingués un veler,
en cap port faria estada. El món fóra dintre seu,
ai amor, si tu hi anaves …
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges on d’aquest meu navegar pugui reposar les ales.
Tots els camins de la mar un a un se’m refusaven; sols els ports resten oberts amb l’agombol de les cases.
Les veles han desertat
tots els vents que les tibaven. L’estrella signa el retorn
al vell sofrir delectable.
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges …
(del llibre Poesia, 1981)
GLOSES MALLORQUINES
Si bastiment hi havia
que fadrines se’n dugués vestides de mariners,
jo la de davant seria.
Tota la mar trescaria, estimat meu, sols que us ves.
Totes les illes hauria
per a bescanvi d’un bes. Pirates i bandolers
a tots ells jo robaria,
i res no m’aturaria
si els teus braços jo trobés.
Els teus llavis jo tindria com a més segur recés. Pirates i mariners
i moros de moreria,
res ja no m’espantaria
si en els teus ulls em negués…
III
GLOSES MALLORQUINES VII
Vós heu robat i robeu
i vós sou la robadora;
el cor m’heu robat, senyora, i l’ànima em pledegeu.
Vós teniu tot l’amor meu,
no en voleu ser sabedora. Vós jugueu amb mi, senyora, i potser vos arrisqueu.
El cor m’heu robat, senyora, potser el vostre hi perdereu. És molt cara la penyora, mireu, senyora, el que feu!
L’enamorar enamora
i, si l’ànima em voleu, mireu-me als ulls, missenyora, que dins ells la trobareu.
El cor m’heu robat, senyora. Ara el vostre me’l deveu.
(del llibre Presència i record, 1952)
Tota la mar trescaria
si prop meu sempre et tingués!
(del llibre Presència i record, 1952)
VOLDRIA QUE EL MEU CANT FOS COM UNA ALBA
Voldria que el meu cant fos com una alba secreta per a tots,
i només un de sol capís els signes
dels inefables mots.
Voldria que el meu cant fos com l’alosa o com el dia clar,
que posen en el cel la seva joia
sense res esperar.
Voldria que el meu cant fos com un himne de gràcies per la sort
de trobar dintre meu tot el misteri
de la vida i la mort.
(del llibre Poesia, 1981)
TESTAMENT
Quan l’hora del repòs hagi vingut per a mi vull tan sols el mantell d’un tros de cel marí. Vull el silenci dolç del vol de la gavina dibuixant el contorn d’una cala ben fina; l’olivera d’argent, un xiprer més ardit
i la rosa florint al bell punt de la nit;
la bandera d’oblit d’una vela ben blanca
fent més neta i ardent la blancor de la tanca. I saber-me que sóc, en el redós suau,
un bri d’herba només de la divina pau.
(del llibre Poesia, 1981)
Donem les gràcies a totes les persones que han fet possible aquesta VI Tarda de Poesia:
ALS QUI HAN LLEGIT TEXTOS EN PROSA:
Reflexions i records de Rosa Leveroni Carta de Salvador Espriu
A LES LECTORES I LECTORS DE POEMES:
Pòrtic
Els records
Cançó de les besades
Rosa encesa del desig …
No vull el mirall del mar …
Els camins
Color del temps
Claror daurada
Si jo tingués un veler …
Glosses mallorquines: Si bastiment hi havia … Voldria que el meu cant fos com una alba Testament
A L’ÀNGEL GIRONA, MÚSIC VERSIONADOR I INTÈRPRET:
Em pren la calma dels camps
Cançó d’un setembre
Glosses mallorquines: Vós heu robat i robeu … Són les illes del record …
A L’EDITOR DEL POWER POINT:
Glòria Llinàs Francesc Bragulat
Maria Biarnés Montse Delgà Conxita Ayats Margarida Arau Tura Tarrús Roser Melià Montse Trubat M. Teresa Roura Pilar Gurt
Descrizione-Harold Bloom ha scritto che “con l’eccezione di Shakespeare” Emily Dickinson dimostra più originalità cognitiva di qualsiasi altro poeta occidentale dopo Dante, e che i critici quasi sempre sottovalutano la sua sorprendente complessità intellettuale. Forse anche per questa complessità, quasi un prisma che moltiplica immagini, luci, sensi, la poetessa che dalla sua stanza ha inviato una “lettera al mondo” colma di verità distillate in solitudine, continua ad attirare ovunque “biografi, filologi, docenti, studiosi, traduttori, critici” (Vivian Lamarque). E soprattutto lettori, catturati e conquistati dall’enigma di Emily, “piccola come lo scricciolo” e vestita sempre di bianco. I suoi versi concisi, intensi e misteriosi ritraggono ciò che la circonda: animali, fiori, piante, voci di una poesia spesso definita oracolare. Da un isolato punto di osservazione lo sguardo acutissimo di Emily ha saputo individuare e ampliare i limiti dell’espressione e della comprensione, indicare nuovi significati, vedere oltre la vita. Ha saputo creare un linguaggio nuovo per suggerire sensi inediti, pause come improvvise deviazioni nel volo degli uccelli: forse indecifrabili, ma ipnotiche, libere.
Crocetti Editore
Traduzione: Barbara Lanati;
Pagine: 96
Prezzo: € 7,00
ISBN: 9788883064326
Data Uscita: 02/07/2024
LA CASA EDITRICE CROCETTI
Fondata nel 1981 dal grecista e traduttore Nicola Crocetti, la casa editrice Crocetti è specializzata nella pubblicazione di opere di poesia e di letteratura neogreca, omaggio alle origini del suo fondatore.
In quasi quarant’anni di attività, la Crocetti ha pubblicato numerose opere di poeti italiani e stranieri, tra cui i Premi Nobel Ghiorgos Seferis, Odisseas Elitis, Saint-John Perse, Derek Walcott e Tomas Tranströmer. Nel catalogo figurano inoltre volumi di Emily Dickinson, Antonio Machado, Walt Whitman, Ghiannis Ritsos, Costantino Kavafis, Louis Aragon, Kahlil Gibran, Rainer Maria Rilke, Edna St. Vincent Millay, Paul Valéry, Simone Weil, Yehuda Amichai, Anne Sexton, Manolis Anaghnostakis, Adrienne Rich, Jaime Saenz, Carol Ann Duffy, Thomas Bernhard. Quasi tutti i volumi sono pubblicati con il testo originale a fronte.
Tra gli autori italiani in catalogo, troviamo Alda Merini, Franco Loi, Antonella Anedda, Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani, Antonio Porta, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Aldo Nove, Giorgio Manganelli, Mariangela Gualtieri, Maria Grazia Calandrone, Pierluigi Cappello.
Oltre alle opere di singoli autori, la Crocetti ha inoltre pubblicati alcuni volumi collettanei, come le antologie della poesia basca, svedese, russa, greca e svizzera di lingua tedesca.
Da alcuni volumi editi dalla Crocetti sono stati tratti spettacoli teatrali interpretati da importanti attori italiani. Ne sono un esempio alcuni monologhi drammatici di Ghiannis Ritsos, portati sul palcoscenico, tra gli altri, da Moni Ovadia, Paolo Rossi, Anna Bonaiuto, Elisabetta Vergani, Isabella Ragonese, Luigi Lo Cascio ed Elisabetta Pozzi.
Nel 1995 alle collane di poesia si è aggiunta la collana di narrativa neogreca “Aristea”, che ha proposto ai lettori alcuni dei romanzi greci più venduti e letterariamente più rilevanti del Ventesimo secolo, finora assolutamente sconosciuti al pubblico italiano.
Nel 2020 la Crocetti è stata acquisita dal gruppo Feltrinelli e ha inaugurato questa nuova fase cominciando a ristampare i titoli che l’hanno resa una delle più prestigiose case editrici italiane.
LA RIVISTA “POESIA”
Nel gennaio 1988 Nicola Crocetti ha fondato “Poesia”, la rivista mensile di cultura poetica più diffusa d’Europa. Fin dal primo numero, le caratteristiche principali di “Poesia” sono state: il taglio internazionale e informativo, la distribuzione capillare nelle edicole e un apparato iconografico che finalmente consentiva ai lettori di conoscere i volti dei poeti.
La distribuzione nelle edicole ha permesso alla rivista di raggiungere un pubblico molto vasto, distribuito su tutto il territorio nazionale. La tiratura di “Poesia” ha raggiunto in passato le 50.000 copie. Molte tra le maggiori Università europee e tra le più prestigiose Università americane sono abbonate alla rivista fin dal primo numero. Nei suoi trentatré anni di vita, “Poesia” ha venduto complessivamente circa tre milioni di copie.
L’alto interesse non solo italiano nei confronti di questa rivista può essere verificato digitando la parola “poesia” sul motore di ricerca Google: su oltre cento milioni di pagine la rivista “Poesia” risulta in prima posizione tra quelle regolarmente visitate.
Del comitato di redazione di “Poesia”, garante del suo alto livello culturale, fanno o hanno fatto parte sei Premi Nobel per la Letteratura (il russo-americano Joseph Brodsky, il caraibico Derek Walcott, l’irlandese Seamus Heaney, il greco Odisseas Elitis, il polacco Czesław Miłosz e lo svedese Tomas Tranströmer), oltre a poeti di fama nazionale e internazionale, come Yves Bonnefoy, Tony Harrison, Charles Wright, Adam Zagajewski, Durs Grünbein, Paul Muldoon, Antonella Anedda, Milo De Angelis, Nicola Gardini, Franco Loi, Vivian Lamarque, Silvio Ramat.
Dopo che per i primi tre anni “Poesia”è stata diretta dai poeti Patrizia Valduga e Maurizio Cucchi, nel 1991 la direzione è stata assunta da Nicola Crocetti, e la rivista si è sempre più caratterizzata per la sua vocazione internazionale. Nei 358 numeri usciti con cadenza mensile fino all’aprile 2020 e nelle sue 30.000 pagine, la rivista ha proposto centinaia di articoli su poeti tradotti per la prima volta in italiano e di nuove traduzioni di poeti ancora sconosciuti in Italia. In totale ha pubblicato quasi 3.500 poeti, tra i maggiori a livello nazionale e internazionale, e oltre 36.000 poesie tradotte da una quarantina di lingue, quasi sempre con il testo originale a fronte.
La casa editrice Crocetti ha organizzato anche diversi festival di poesia. In collaborazione con il Comune di Parma e il Teatro Due, dal 2004 al 2012 ha curato la sezione internazionale del Festival di poesia di Parma, uno dei più prestigiosi appuntamenti culturali di quegli anni, al quale sono intervenuti alcuni dei maggiori poeti del mondo.
Nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha assegnato a “Poesia”un riconoscimento per la sua attività di diffusione della poesia in Italia, consegnato al direttore della rivista Nicola Crocetti il 12 maggio 2003 al Quirinale dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Con il passaggio al gruppo Feltrinelli, dal maggio 2020 “Poesia” ha cambiato veste grafica, periodicità (da mensile in bimestrale) e canale distributivo (dalle edicole alle librerie). Non è mutata, però, la passione con cui i suoi redattori e i collaboratori raccontano da trentaquattro anni il mondo poetico italiano e internazionale.
Per attivare l’abbonamento a “Poesia” scrivi a info@poesia.it . Otterrai tutte le informazioni.
I numeri arretrati di “Poesia” (nuova serie) sono ordinabili in libreria (certamente nelle Librerie Feltrinelli) e nei principali store online (lafeltrinelli.it, ibs.it, Amazon.it ecc).
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Antonio Gramsci, Lettera alla mamma del 15 dicembre 1930.
Antonio Gramsci:”Carissima mamma,ecco il quinto natale che passo in privazione di libertà e il quarto che passo in carcere. Veramente la condizione di coatto in cui passai il natale del 26 ad Ustica era ancora una specie di paradiso della libertà personale in confronto alla condizione di carcerato. Ma non credere che la mia serenità sia venuta meno. Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere diventato più saggio e di avere arricchito la mia esperienza degli uomini e delle cose. Del resto non ho perduto il gusto della vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che se anche non posso piú «zaccurrare sa fae arrostia» [«sgranocchiare le fave arrostite» in lingua sarda], tuttavia non proverei dispiacere a vedere e sentire gli altri a zaccurrare.
Dunque non sono diventato vecchio, ti pare? Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. In questo senso sono sicuro che neanche tu sei diventata vecchia nonostante la tua età. Sono sicuro che sei decisa a vivere a lungo, per poterci rivedere tutti insieme e per poter conoscere tutti i tuoi nipotini: finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie. Devi persuaderti però che occorre anche risparmiare un po’ le proprie forze e non intestarsi a fare dei grandi sforzi come quando si era di primo pelo. Ora mi pare appunto che Teresina, nella sua lettera, mi abbia accennato, con un po’ di malizia, che tu pretendi di fare troppo e che non vuoi rinunziare alla tua supremazia nei lavori di casa. Devi invece rinunziare e riposarti. Carissima mamma, ti auguro tante cose per le feste, di essere allegra e tranquilla. Tanti auguri e saluti a tutti di casa.
Ti abbraccio teneramente.
Antonio Gramsci, 15 dicembre 1930.
Antonio Gramsciè tra i fondatori del Partito comunista italiano. Fatto arrestare da Mussolini muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione.
Antonio Gramsci è nato ad Ales (Cagliari) nel 1891 da famiglia piccolo-borghese. Di salute cagionevole fin dall’infanzia, vince una borsa di studio per l’Università di Torino, laureandosi in lettere e filosofia. Nel 1913 aderisce al Partito socialista del quale diventa, nel ’17, segretario della sezione torinese. Affascinato dal pensiero e dall’opera di Lenin, in Russia, nel 1919 promuove la formazione della corrente comunista nel Partito socialista, dalla quale, nel 1921, nasce il Partito comunista d’Italia. Direttore del quotidiano L’Ordine nuovo, nel ’22 è componente dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista. Si sposa a Mosca; avrà due figli per i quali, dal carcere italiano, scriverà una serie di commoventi favole pubblicate con il titolo L’albero del riccio. Rientrato in Italia, è eletto deputato per il collegio Veneto e segretario generale del Partito comunista. Nel 1926 viene arrestato dalla polizia fascista nonostante l’immunità parlamentare, il re e Mussolini sciolgono la Camera dei deputati, mettendo fuori legge i comunisti. Gramsci e tutti i deputati comunisti sono processati e confinati: Gramsci nell’isola di Ustica e successivamente nel carcere di Civitavecchia e Turi. Non essendo adeguatamente curato è abbandonato al lento spegnimento fra sofferenze. Muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione, senza aver mai rivisto i figlioletti. Negli anni della reclusione scrive 33 quaderni di studi filosofici e politici, definiti una delle opere più alte e acute del secolo; pubblicati da Einaudi, nel dopoguerra, sono noti universalmente come i Quaderni dal carcere, tradotti in tutte le lingue più importanti.
I luoghi sono memoria, radici, punti di vista – di Luigi Oliveto-
Editore Feltrinelli
Reduce dal successo del Premio Campiello, ecco il romanzo “Alma” di Federica Manzon. Pagine intense, dove geografie reali e interiori (fino a che punto le seconde possono prescindere dalle prime?), vicende personali e Storia, vanno a costruire un racconto che, per quanto riferito a un recente passato, fa pensare molto al presente. A come, nel nostro oggi, ci si voglia aprire o chiudere al futuro, ragionando – non senza apprensione – di radici e strappi, confini e spaesamenti, patrie e apolidia. Del resto tutto questo ha a che fare con il ‘chi sono’, in quale luogo (fisico e mentale) posso dire di trovarmi a casa, poiché i luoghi sono anche ‘punti di vista’. Il romanzo di Federica Manzon pare avere le sue ragioni proprio in questa intelligente inquietudine, mossa da memorie, sentimenti, visioni del mondo. La protagonista, Alma, torna tre giorni a Trieste per gli adempimenti relativi a una inaspettata eredità lasciatale dal padre. Uomo di grande fascino, pressoché assente dalla famiglia in un continuo andirivieni oltre confine, su un’isola della ex Jugoslavia del maresciallo Tito, senza che si sapesse quale lavoro vi andasse a fare: “andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.” Sono anni che Alma ha lasciato Trieste per rifarsi una vita altrove. Ora ritrova la città e, con essa, una parte di sé: l’infanzia, il viale di platani che portava alla bella casa dei nonni, gli eleganti caffè dove si respirava mondanità e mitteleuropa. Ritrova la casa sul Carso nella quale, da un giorno all’altro, si erano trasferiti e dove, da Belgrado, era arrivato Vili, figlio di due intellettuali amici di suo padre. Destino vuole che sia proprio Vili a consegnarle l’eredità, lui che era stato “un fratello, un amico, un antagonista” e che oggi sarebbe stata l’ultima persona che desiderava rivedere. Sono dunque per Alma tre giorni emotivamente impegnativi, di sovrapposti pensieri su quanto è accaduto nella sua vita e nelle esistenze altrui; in un prima e in un dopo, qui e oltre. Non è un caso che tutto ciò sia avvenuto – e adesso si riproponga – in una terra di confine, nella seducente Trieste, che, per dirla con Saba, è città di “scontrosa grazia”, di “aria strana, tormentosa”. Un posto che bene accondiscende desideri di altrove e sconfinamenti. Terra di furioso vento che vorrebbe portar via cose e anime. Passa, sconquassa, non si ferma. Poi torna, nuovamente arriva, e fugge.
Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all’isola. Lei cammina nel paese chiuso: una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola tra case di vacanza disabitate, qualche facciata sfoggia una bandiera della Dinamo Zagabria appesa ai fili del bucato, qualche altra un muro decorato da fori di proiettile. Alma alza gli occhi verso il campanile e vede un gabbiano che si sgranchisce le ali. Stamattina ha telefonato all’albergo sull’isola, ha chiesto se era possibile prenotare una camera. È possibile, le hanno risposto con riluttanza. Sono cambiati i tempi ma l’isola conserva la sua scortesia. Il cielo intanto è schiarito, c’è un sole baltico. Le sembra di aver passato la vita sotto cieli come questo, a inseguire qualcosa che non aveva chiaro. Un inverno nella sua città a est, doveva essere la fine di febbraio, camminava nel bosco del barone Revoltella e gli alberi sobbalzavano per la bora, lei stringeva la mano di un uomo che si era intrufolata nella tasca del suo cappotto e tremava. Accadevano cose del genere, conosceva persone con cui passava del tempo, scrutavano il cielo insieme, facevano un pezzo di strada, poi lei se ne andava. Le campane battono l’ora, il capitano della barca è entrato in cabina a controllare che tutto sia pronto. Alma si affretta a raggiungere la passerella, nessuno le controlla il biglietto: è l’unica passeggera, e ha l’aria da straniera del nord. Ovunque abbia vissuto l’hanno sempre scambiata per una che viene da un altrove, c’è qualcosa di provvisorio nei suoi gesti, come se fosse sempre sul punto di partire, o perché dà l’impressione di aspettare un attimo di troppo prima di rispondere alle domande e la gente pensa che lei non capisca la lingua, nessuna lingua, anche se lei ne capisce e ne parla diverse.
Sul ponte appoggia i gomiti al parapetto e si sporge a vedere l’acqua che si increspa appena i motori iniziano a rullare. Una volta, in braccio a suo padre, le era caduto il cappello in acqua. Un cappellino di paglia con il nastro blu comprato a Venezia. Per consolarla lui l’aveva portata sotto coperta, dove molti nel vederlo si erano alzati a stringergli la mano, aveva detto qualcosa al capitano e quello aveva fatto spuntare dall’armadietto sotto i comandi un rettangolo di tessuto blu con una stella rossa cucita su un lato e gliel’aveva sistemato sulla testa. Lei aveva detto grazie, e il capitano e suo padre si erano scambiati uno sguardo significativo. Il cappello dei giovani pionieri di Jugoslavia non è sopravvissuto all’infanzia e non esistono foto di quel giorno: pochi di noi sono stati immortalati nelle occasioni di festa, se non si aveva la fortuna di entrare nelle parate nazionali e di finire sul “Vjesnik” o sul “Novi list”. Alma ricorda che portava sandali blu e una maglietta alla marinara. Per anni ha creduto che quel ricordo fosse una suggestione della fantasia, cresciuto nel deserto della memoria familiare con l’ostinazione di un’acacia nel Sahara, poi aveva smesso di pensarci.
A quel tempo suo padre la portava due o tre volte l’anno sull’isola. C’era un’aria da festa del cinema e coppe di champagne, l’aria sbarazzina dei Paesi non allineati. Uomini in giacca e cravatta o con il cappello bianco passeggiavano lungo i viali o sfilavano su piccole macchine decappottabili; branchi di cerbiatti brucavano l’erba del campo da golf. Alma si tuffava dagli scogli piatti e nuotava in apnea tra i pomodori di mare grossi come un pugno e i cefali, e i saraghi. Aveva il divieto di rivolgere la parola a chicchessia, e d’altra parte si chiedeva come avrebbe potuto farlo dal momento che parlavano lingue indistinguibili diverse dalla sua, solo ogni tanto riconosceva qua e là dei suoni che assomigliavano a quelli che sentiva sugli autobus di casa sua, o alla spiaggia dopo la Pineta dove scendevano al bagno gli sloveni di Contovello. A volte sull’isola c’erano anche altri bambini, il cappellino blu con la stella rossa come il suo, camicie bianche e un fazzoletto rosso attorno al collo. Suo padre le aveva spiegato che erano i giovani pionieri, e lei gli aveva detto che voleva essere una pioniera. E perché mai? Per avere la divisa come loro! In realtà detestava le volte in cui sull’isola c’erano i pionieri. Erano una banda, una tribù. Parlavano una lingua esoterica, possedevano un codice di gesti che lei ignorava: battevano palmo contro palmo, pugno contro pugno, urlavano, si tuffavano dalle scogliere a sud, le più pericolose, fischiavano con due dita in bocca. A volte la trascinavano nelle loro spedizioni alle ville e dai buchi nelle recinzioni spiavano i camerieri in divisa preparare il fuoco per la griglia mentre sui grandi tavoli di pietra i vasi aspettavano di essere riempiti dai fiori e i militari piantonavano i cancelli. Nessuno dei soldati li minacciava mai, né li scacciava quando diventavano molesti, perché il Maresciallo adorava i bambini, si faceva fotografare con loro ogni volta che appariva alle cerimonie pubbliche, li baciava e accettava i loro doni, finanziava i giochi atletici a cui presenziava con la moglie e i funzionari che negli anni sopravvivevano alle epurazioni. Ad Alma capitava di imbattersi in suo padre che passeggiava lungo i viali dell’isola in compagnia di donne con collane di perle e uomini che fumavano, le strizzava l’occhio a dire che non era il momento per ricordare a tutti che era un padre. Passandogli accanto lo sentiva parlare ogni volta lingue diverse, le parole uscivano agili dalla sua bocca, accavallate le une sulle altre così che diventava difficile per chiunque attribuirgli un accento, capire da dove veniva o, meglio ancora, da che parte stava. (Dov’era nato? Chi erano i suoi genitori? E il nome che portava?) Non sapevano, quelle donne e quegli uomini eleganti, che suo padre era uno zingaro capace di imbastire storie che stordivano e di cantare ninne nanne che mettevano paura – andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.
L’infanzia di Alma, che durò più o meno fino al trasferimento nella casa sul Carso, era stata un alternarsi di attese e pomeriggi carichi di tensione in cui sua madre rientrava con vaschette di alluminio colme di ćevapčići arrostiti e ajvar, kipferl e biete cucinate con le patate, la cena per il ritorno di suo padre che finivano per sbocconcellare da sole. E se da adulta Alma ha sviluppato una certa irritazione per il rumore di tacchi femminili che avanzano sul parquet, è perché in quei giorni di vana speranza sua madre indossava il vestito di raso verde che le lasciava le ginocchia e le spalle scoperte e i tacchi che risuonavano tormentosamente dalla cucina alla finestra del salotto, per ore, fino a quando non si arrendevano al buio e venivano lanciati nello sgabuzzino lasciando nell’aria uno strascico di trepidazione e dolore.
Articolo di Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista-[da Alma di Federica Manzon, Feltrinelli, 2024]-Fonte-toscanalibri.it
Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista.Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004), Mario Luzi. Un segno indelebile (2016). Esce nel 2020 la raccolta di racconti Le rose di Kathryn. Nell’album Indy e Lib (cinque ristampe) adatta, per i bambini della scuola primaria, il testo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», edizione patrocinata dalla Federazione Italiana dei Club Unesco. E’ autore di trasmissioni culturali per la televisione e di docufilm pubblicati in Dvd. È direttore del portale Toscanalibri.it.
Kate Clanchy –Nata a Glasgow nel 1965, Kate Clanchy ha studiato ad Edimburgo e Oxford, città in cui oggi vive e lavora come insegnante, giornalista e scrittrice freelance. Ha vinto numerosi premi prestigiosi con diversi libri di poesia tra cui “Newborn”, una raccolta dedicata ai temi della gravidanza, della nascita e della cura di un bambino. Il suo ultimo libro è la biografia “What Is She Doing Here?: A Refugee’s Story”, con cui ha vinto il Writer’s Guild Best Book Award for 2008 e che è stato mandato in onda dalla BBC
Patagonia
Dissi forse la Patagonia, e immaginavo
una penisola, grande abbastanza
per un paio di sedie a sdraio
su cui dondolare nell’alta marea. Pensavo
a noi in un freddo mozzafiato, davanti
a un orizzonte tondo come una moneta, avvolti
nell’intreccio del ripiglino che i gabbiani giocano
dal mare fino al sole. Pensavo di aspettare
finché le onde non si fossero addormentate
dalla noia.
Posa
Ora faccio sedere mio figlio
sull’anca e reggo
il suo peso con la curva
della vita, come un albero
diviso da una forcella,
come amanti inclinati in un valzer.
Niente è perduto. Mai stata
una di quelle ragazze
rimaste magre come un fuscello.
Ai balli spesso ero da sola.
* * *
Amore
Non ne avevo mai incontrati così prima.
Una faccia da sollievo – davvero,
come una battuta su suo padre – sfocata
come da anni di lucidatura;
mani aggrinzite come foglie secche;
il calore licenzioso che emetteva,
emetteva, i suoi respiri corti,
prudenti: pensavo
che i suoi filamenti esplodessero,
pensavo fosse un imperatore,
morente su cuscini di seta.
Non sapevo come tenerlo
avvolto, non sapevo
come allattarlo, non avevo
alcuna idea su di lui. Di notte
cercavo di ricordare la sensazione
della sua testa sul mio collo, il cranio
piccolo come un gatto, quell’affetto
caldo come un soldo fuso,
e i capelli, la peluria, fine
come lo strato più interno nel pelo
di qualche rara creatura delle nevi,
un’aureola di pelliccia, se mai
incontrassi una bestia così potresti
andarci vicino. Ho cominciato da lì.
* * *
Il ponte oltre il confine
Qui, dovrei senz’altro pensare a casa:
il mio paese e la città ripida e pulita
dove sono cresciuta: i suoi banchi di nubi,
i venti e la luce cangiante, teatrale,
i suoi scrosci di pioggia burbera e gelida, o altrimenti,
la volta che il treno rimase qui un’ora e mezza.
Era caldo, per una volta. Il motore sembrava
borbottare e respirare con noi,
e nel silenzio, il suonatore sul retro
strimpellava Scotland the Brave. C’era
una luce dorata, da film, e l’uomo di fronte
soffriva, diceva, per amore.
Vide un paese nei miei occhi.
Ma era di Los Angeles,
e io pensavo a un altro ponte.
Era ottobre. Io correvo a incontrare un uomo
con cui le cose non erano proprio stabili,
e in effetti non lo sarebbero mai state, e mi fermai
a mezza strada per guardare gli uccelli – rondini
in lontane migliaia, trascinate
verso l’Africa, o il caldo, o la casa, senza sapere
cosa, ma certamente come. Scivolavano sul cielo di carta
erano croci sui grafici del mercato azionaio,
erano sabbia in un canestro scosso,
e io le fissavo, come a setacciare l’oro.
* * *
Un uomo sposato
L’uomo sposato la notte scorsa sognava
di una casa che gli era stata lasciata: una casa come quelle che hai nei sogni,
mille stanze, un corridoio. Vagava
in giro da solo, mi disse, sorrideva
con suo sorriso quieto e interiore. Trovavo
un giardino segreto, mura alte, chiuso, uno strano verde vellutato. Lì, una finestra guardava verso l’oceano. Piegava le mani pallide,
avevo, diceva, la chiave. Sua moglie toccava
la figlia addormentata, pesante lussuoso animale,
e lo guardava, d’intesa, soddisfatta.
traduzioni di Sergio PASQUANDRA
Breve biografia di Kate Clanchy –Nata a Glasgow nel 1965, Kate Clanchy ha studiato ad Edimburgo e Oxford, città in cui oggi vive e lavora come insegnante, giornalista e scrittrice freelance. Ha vinto numerosi premi prestigiosi con diversi libri di poesia tra cui “Newborn”, una raccolta dedicata ai temi della gravidanza, della nascita e della cura di un bambino. Il suo ultimo libro è la biografia “What Is She Doing Here?: A Refugee’s Story”, con cui ha vinto il Writer’s Guild Best Book Award for 2008 e che è stato mandato in onda dalla BBC
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