Emily Dickinson – Ho trovato le parole per ogni pensiero-a cura di Franco Lonati-illustrazioni di Maria Lojacono
Presentazione del libro della celebre scrittrice Emily Dickinson con Sara Bignotti, curatrice della collana “Parola dell’Arte”, Franco Lonati, curatore del libro, Maria Lojacono, illustratrice del libro e Massimo Tedeschi, presidente dell’AAB.Mercoledì –
Brescia 29 gennaio 2025, ore 18, presso la Sala del Romanino, all’interno della sede di AAB – Associazione Artisti Bresciani, sita in Vicolo delle Stelle 4, Brescia, si terrà la presentazione del libro di poesie: “HO TROVATO LE PAROLE PER OGNI PENSIERO” di Emily Dickinson, il libro contiene una raccolta di poesie e lettere curata da Franco Lonati e arricchita dalle tavole a colori di Maria Lojacono.Durante la serata intervengono Sara Bignotti, curatrice della collana “Parola dell’Arte”, Franco Lonati, curatore del libro, Maria Lojacono, illustratrice del libro e Massimo Tedeschi, presidente dell’AAB.
Emily Dickinson è una poetessa di livello internazionale fortemente riconosciuta dal pubblico e dalla critica. La sua originalità consiste nella capacità di ripensare ogni cosa per se stessa: “riconcettualizzarla” in poesia. È il filo rosso che guida questa raccolta di poesie e lettere, tradotte e curate da Franco Lonati, resa unica dal contributo artistico di Maria Lojacono, autrice di tavole a colori con le quali interpreta la sfida visionaria dickinsoniana: ripensare il mondo attraverso le immagini. I versi sono dedicati a Natura e Bellezza; Morte e Immortalità; Amore e Dolore; Fama e Successo; Poesia e Sensibilità.
Emily Dickinson (USA 1830 – 1886) è considerata tra le più importanti poetesse in lingua inglese.
Franco Lonati insegna Letteratura inglese presso l’Università Cattolica di Brescia. Ha tradotto e curato edizioni di autori di lingua inglese.
Maria Lojacono è diplomata alla scuola Internazionale Comics, ha illustrato molti volumi.
Altiero Spinelli e l’Europa-MANIFESTO di VENTOTENE-
Il 23 maggio 1986 moriva a Roma Altiero Spinelli, tra i padri dell’Unione Europea. Nato a Roma nel 1907, militante comunista, viene arrestato dalla polizia fascista e condannato a 16 anni di reclusione. Durante la detenzione matura il suo distacco dal Pci e dopo il carcere, confinato a Ventotene, scrive, fra il 1941 e il 1942, in collaborazione con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il Manifesto per un’Europa libera e unita.
Noto come il Manifesto di Ventotene, considerato il documento di base del federalismo europeo.
Caduto il fascismo, liberato il 19 agosto 1943, dieci giorni dopo Spinelli fonda a Milano, insieme a una trentina di reduci dal confino, dal carcere e dall’esilio, il Movimento Federalista Europeo. Nel luglio del 1980 promuove l’iniziativa che porterà al trattato di Unione Europea, approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento Europeo il 14 febbraio 1984.
Altiero Spinelli è stato un politico anomalo, ricorda in Altiero Spinelli, lo storico Pietro Graglia: «prima giovane militante comunista, poi, durante la Resistenza e dopo la guerra, profeta dell’unità federale dell’Europa. Combattente indomito, quasi sempre controcorrente, oggi egli appare sempre più una delle figure di rilievo assoluto del Novecento europeo. Della sua vita privata e pubblica Spinelli ha lasciato testimonianze numerose: le memorie, i diari (tutti pubblicati dal Mulino), un ricchissimo archivio».
Sulla base di questi documenti e grazie a una paziente ricerca condotta in archivi europei e americani, Graglia con questo volume ha tracciato per la prima volta un profilo completo della vita e dell’azione politica di Spinelli, soffermandosi in maniera speciale sui decenni dell’impegno federalista e del lavoro nelle istituzioni europee. Minuziosa e appassionata, questa biografia ci porta a contatto diretto con una vicenda umana e politica fuori dal comune e ne conferma a un tempo l’importanza e il fascino.
Un altro libro dopo oltre un settantennio dalla fine della Seconda guerra mondiale e dall’avvio della storia repubblicana: L’Italia e l’Europa di un pessimista attivo – Stati Uniti d’Europa e altri scritti sparsi (1930-1976), edito da Il Mulino, è «il pensiero di uomini e donne del nostro antifascismo, come i valori e le battaglie di quelle generazioni, che costituiscono un patrimonio comune della nostra recente storia democratica ed europea», una fonte d’ispirazione per riflettere sulla condizione presente.
Sono gli scritti di Mario Alberto Rollier raccolti in questo volume, redatti fra gli anni Trenta e Settanta del secolo scorso e affrontano con sorprendente attualità alcune questioni centrali del Novecento che ancora oggi si pongono alla nostra attenzione: l’ecumenismo cristiano e il desiderio di rinnovamento evangelico, l’antifascismo e la Resistenza, la difesa della laicità dello Stato e l’esperienza costituente, il federalismo interno e sovranazionale, il sogno degli Stati Uniti d’Europa, fino alle problematiche di carattere scientifico sull’impiego civile dell’energia nucleare.
La vita di Rollier traccia, con una prospettiva inedita, il quadro di un’epoca della storia europea caratterizzata dalla profonda crisi dei valori cristiani, sopraffatta dagli egoismi nazionali e dalla ferocia dei totalitarismi, ma anche carica di forti tensioni morali, di attese, di entusiasmi e di impegno civile e politico.
Mario Alberto Rollier (1909-1980) nasce a Milano in una famiglia valdese aperta alla cultura liberale europea. Influenzato da Karl Barth e dal movimento ecumenico, partecipa alla stagione di rinnovamento dell’evangelismo italiano. Antifascista, azionista ed europeista è tra i fondatori del Movimento federalista europeo con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli e tra gli estensori della Carta di Chivasso insieme a Émile Chanoux. Chimico di fama nazionale, è stato direttore del Centro sperimentale Lena di Pavia che ha ospitato il primo reattore nucleare italiano.
FONTE-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Altiero Spinelli
Biografia di Altiero SPINELLI-Uomo politico italiano, nato a Roma il 31 agosto 1907, morto ivi il 23 maggio 1986. È stato il massimo sostenitore dell’ideale europeista nell’Italia del secondo dopoguerra. Aderì giovanissimo al Partito comunista e partecipò all’attività clandestina antifascista. Nel 1927 fu arrestato a Milano e condannato a sedici anni di carcere. Nella primavera del 1937 fu inviato al confino di Ponza e, nel luglio 1939, a quello di Ventotene. Nel frattempo, nel 1937, a causa degli orrori della politica staliniana, aveva abbandonato il partito. A Ventotene si convertì al federalismo e scrisse, insieme a E. Rossi, Per una Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (1941), noto anche come Manifesto di Ventotene, da cui emergeva come la migliore organizzazione politica per l’Europa democratica che stava per nascere dalla guerra fosse l’unità federale dei suoi popoli liberi. Liberato nell’agosto 1943, fondò a Milano il Movimento federalista europeo, di cui fu segretario generale dal 1947 al 1963. Nel 1945-46 entrò nella segreteria politica del Partito d’Azione, che lasciò nel febbraio 1946 quando, insieme a U. La Malfa e a F. Parri, costituì il Movimento della Democrazia Repubblicana (MDR). Abbandonato anche questo raggruppamento politico, si dedicò esclusivamente all’impegno del Movimento federalista, e dopo la mancata ratifica, da parte dell’Assemblea nazionale francese, della CED (Comunità Europea di Difesa) che avrebbe costretto gli stati nazionali ad avere un esercito comune e quindi, in prospettiva, una politica comune (1954), si convinse che non si sarebbe mai raggiunto l’obiettivo di un’Europa federale se non si fosse passati da una politica di vertice a un’azione di mobilitazione popolare. Nel 1965 fondò a Roma l’Istituto di affari internazionali, un centro che doveva favorire, attraverso la conoscenza dei problemi della politica internazionale, un’evoluzione di tutti i paesi del mondo verso forme di organizzazione sovranazionale. Dal 1970 al 1976 fu nominato membro della Commissione esecutiva della Comunità europea, e nel giugno 1976 fu eletto deputato come indipendente nelle liste del PCI. Nello stesso anno divenne deputato europeo, poi confermato nelle elezioni del 1979 e del 1983. Nel 1983 scrisse il ”Trattato di Unione europea”, poi fatto proprio dal Parlamento europeo.
Tra i suoi scritti citiamo: L’avventura europea (1972); Come ho tentato di diventare saggio. 1. Io, Ulisse; 2. La goccia e la roccia (1984); Il progetto europeo (1985); Discorsi al Parlamento europeo 1976-1978 (1986); Diario europeo (1989).
Bibl.: E. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Bologna 1987; Altiero Spinelli and federalism in Europe and in the world, a cura di L. Levi, Milano 1990.
FONTE-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani-
Franco Leggeri Fotoreportage–ROMA-chiesa di Santa Passera, la chiesa che ispirò “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini-Santa Passera, chiesetta graziosa ma in cattivo stato – fra il Tevere e via della Magliana. Costruita nel V secolo nel luogo in cui le spoglie i santi alessandrini Giovanni e Ciro, in basso a destra, approdarono a Roma, la chiesa fu in seguito intitolata a Santa Passera, santa che non è mai esistita.
– ROMA-Santa Passera
La chiesa di Santa Passera è una chiesa romana risalente agli inizi del V secolo, ristrutturata e ampliata nel XIV secolo, edificata sui resti di un mausoleo romano e di una cripta risalenti alla seconda metà del II secolo.
L’origine del nome della chiesa, ubicata nel quartiere Portuense di Roma, è incerta poiché non è mai esistita una santa di nome “Passera”.
Storia
Secondo la tradizione, essa fu costruita sulle rive del Tevere nel luogo in cui, agli inizi del V secolo, i resti di due santi alessandrini, Ciro e Giovanni, furono sbarcati, provenienti dall’Egitto, per essere trasferiti nella città di Roma. Dal secolo XI in poi appartenne al monastero di Santa Maria in Via Lata, e, nei documenti dell’XI–XIII secolo è chiamata Sancti Abbacyri oppure Sancti Cyri et Iohannis, in ricordo dei due santi per i quali fu costruita la chiesa. Nel XIV secolo al nome di Abbaciro si sostituì quello di Santa Pacera o Passera: così in un documento del 1317 si parla di un appezzamento posita extra portam Portuensem in loco qui dicitur S. Pacera.[1] Questo appellativo sarà poi prevalente nei secoli successivi.[2]
Sull’origine del nome “Passera”, santa che non è mai esistita nella storia del cristianesimo, l’ipotesi è che esso derivi dal titolo Abbàs Cyrus (“padre Ciro”), da cui il nome Abbaciro: dalla storpiatura popolare di questo termine sarebbero derivati Appaciro, Appàcero, Pàcero, Pàcera e infine Passera.[3]
A confondere ulteriormente l’onomastica della chiesa si aggiunge inoltre l’errore popolare che volle arbitrariamente assimilare la fantomatica “santa Passera” con santa Prassede e festeggiarne in tal luogo la ricorrenza il 21 di luglio[3] in concomitanza con le celebrazioni di quest’ultima martire.[4][5]
Nel XIV secolo l’antica chiesa fu completamente ristrutturata e sopraelevata.
Descrizione
Esterno dell’abside
Il complesso di Santa Passera è composto di tre piani sovrapposti.
La chiesa
La chiesa superiore del XIV secolo è a pianta rettangolare ad un’unica navata, con abside e soffitto ligneo, edificata su di un edificio preesistente, un mausoleo romano, le cui caratteristiche architettoniche ancora si distinguono esternamente sul lato sinistro della chiesa; l’edificio presenta tratti molto simili al cenotafio di Annia Regilla, quest’ultimo risalente alla seconda metà del II secolo d.C..[2] La facciata della chiesa si trova in una posizione elevata, preceduta da una terrazza a cui si accede tramite una doppia rampa di scale. All’interno un presbiterio semicircolare che custodisce l’immagine del Cristo in compagnia di uno stuolo di santi. Un’altra pittura raffigura sempre il Cristo con i santi Ciro e Giovanni.[6]
L’oratorio
Al piano inferiore i resti sotterranei dell’oratorio medievale del V secolo cui si accede da una porta esterna sotto elevata rispetto al terreno. L’oratorio si compone di quattro locali costruiti con mattoni e intercomunicanti. Sulla porta campeggia l’iscrizione che testimonia l’antico utilizzo della struttura quale sepolcro dei santi Ciro e Giovanni:[2]
(LA)«CORPORA SANCTI CYRI RENITENT HIC ATQVEE IOANNIS
QVOÆ QUONDAM ROMÆ DEDIT ALEXANDRIA MAGNA.»
(IT)«Qui risplendono i santi corpi di Ciro e Giovanni
che un giorno la grande Alessandria dette a Roma.»
(Iscrizione sulla porta d’ingresso della cripta[5])
La cripta
Dall’oratorio una scaletta consente di scendere nella stretta criptaipogea a pianta rettangolare che originariamente custodiva i resti dei due santi martirizzati. L’ambiente, interrato dopo il 1706, riscoperto nel 1904, è databile tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo. La poca illuminazione proviene da un’apertura nella volta e dalle scale. Difficilmente visibili sulle pareti tracce di decorazioni pittoriche, in parte ammalorate dalle innumerevoli piene del vicino Tevere, e in parte vandalizzate. Si intravedono ancora tracce di decorazioni a carattere funerario: sulla volta alcuni glifi e stelle. Sulla parete nord era rappresentata, con in mano la bilancia, la dea Dike, quindi un uccello e un pugile. Sulla parete sud si intravede una pecora e alcuni tratti in pigmento rosso. Verso la fine XIII secolo fu dipinta una Madonna col Bambino, asportata e trafugata nel 1968.[2]
Nella cultura di massa
La corrispondenza del nome dell’ipotetica santa con quello dell’organo sessuale femminile, così come noto nel dialetto romanesco e citato dal poeta Giuseppe Gioachino Belli, ha spesso dato origine a doppi sensi e giochi di parole diffusi popolarmente.[6][7][8]
^Santa Prassede di Roma, in Santi, beati e testimoni – Enciclopedia dei santi, santiebeati.it.
Antonio Bosio, Roma sotterranea opera postuma di Antonio Bosio romano antiquario ecclesiastico singolare de’ suoi tempi, a cura di Giovanni Severani da S. Severino, Roma, Lodovico Grignani, 1650.
Lilia Berruti, Santa Passera: una chiesa per una Santa che non c’è, in Capitolium. Rassegna di attività municipali, anno XL, n. 5, Roma, Arti Grafiche Vecchioni & Guadagno, 1965.
Claudio Rendina, Le Chiese di Roma, Roma, Newton & Compton, 2007, p. 290, ISBN978-88-541-0931-5.
Napsound: Arriva al Teatro India di Roma il recital partenopeo tra musica e poesia-
Dal 18 al 23 febbraio 2025 il Teatro India di Roma ospita Napsound, un recital che intreccia la potenza della poesia napoletana con un ritmo musicale incalzante. Al centro dello spettacolo, le parole e i suoni si rincorrono, dando vita a un dialogo continuo che attraversa epoche e identità.
Le composizioni di Eduardo De Filippo, Totò, Raffaele Viviani e Ferdinando Russo si mescolano in un fluire narrativo che evidenzia le trasformazioni dei ruoli e delle figure umane. Così, il giudice di Eduardo si trasfigura nel dio cattivo di Russo, mentre la donna borghese di Totò si riflette nella figura più complessa della folla incitata da Viviani. Una metamorfosi costante, capace di sorprendere e commuovere.
Musiche elettroniche si intrecciano ai versi, suggerendo riflessioni sulle connessioni invisibili tra passato e presente, tra il singolo e la collettività. In questo flusso di parole e ritmi, Napsound diventa un ponte tra tradizione e innovazione, un luogo in cui ogni spettatore può riconoscere un frammento di sé.
Il Teatro India si trova nel crocevia dei quartieri più vivaci di Roma – Testaccio, Ostiense e Marconi – e vicino alla riva del Tevere, precisamente sul Lungotevere Vittorio Gassman.
Edward Taylor, Poeta nordamericano (Sketchley, Leicester, 1642 circa – Westfield, Massachusetts, 1729) –
Edward Taylor Poeta nordamericano
Edward Taylor Poeta nordamericano (Sketchley, Leicester, 1642 circa – Westfield, Massachusetts, 1729). Scelta la via dell’esilio dall’Inghilterra a causa del suo dissenso in seno alla comunità protestante, si stabilì nel 1668 presso la colonia della Massachusetts Bay, dove divenne amico dei Mather e di S. Sewall. Completati gli studî di teologia alla Harvard University, dal 1671 fu ministro di culto a Westfield.
Preparatory Meditations – First Series: 1
What love is this of Thine that cannot be
In Thine infinity, O Lord, confined,
Unless it in Thy very person see
Infinity and finity conjoined?
What hath Thy godhead, as not satisfied,
Married our manhood, making it its bride?
Oh matchless love! Filling heaven to the brim!
O’errunning it: all running o’er beside
This world! Nay, overflowing hell; wherein
For Thine elect there rose a mighty tide!
That there our veins might through Thy person bleed,
To quench those flames that else would on us feed.
Oh! that Thy love might overflow my heart!
To fire the same with love: for love I would.
But oh! my straitened breast! my lifeless spark!
My fireless flame! What chilly love, and cold?
In measure small! In manner chilly! See.
Lord, blow the coal: Thy love enflame in me.
Head of a White Woman Winking
She has one good bumblebee
which she leads about town
on a leash of clover.
It’s as big as a Saint Bernard
but also extremely fragile.
People want to pet its long, shaggy coat.
These would be mostly whirling dervishes
out shopping for accessories.
When Lily winks they understand everything,
right down to the particle
of a butterfly’s wing lodged
in her last good eye,
so the situation is avoided,
the potential for a cataclysm
is narrowly averted,
and the bumblebee lugs
its little bundle of shaved nerves
forward, on a mission
from some sick, young godhead.
Edward Taylor Poeta nordamericano
Prologue From Preparatory Meditations Before my Approach to the Lord’s Supper
Lord, can a crumb of dust the earth outweigh,
Outmatch all mountains, nay the crystal sky?
Imbosom in’t designs that shall display
And trace into the boundless deity?
Yea, hand a pen whose moisture doth gild o’er
Eternal glory with a glorious glore.
If it is pen had of an angel’s quill,
And sharpened on a precious stone ground tight,
And dipped in liquid gold, and moved by skill
In crystal leaves should golden letters write,
It would but blot and blur, yea, jag and jar,
Unless Thou mak’st the pen and scribener.
I am this crumb of dust which is designed
To make my pen unto Thy praise alone,
And my dull fancy I would gladly grind
Unto an edge on Zion’s precious stone;
And write in liquid gold upon Thy name
My letters till Thy glory forth doth flame.
Let not th’ attempts break down my dust I pray,
Nor laugh Thou them to scorn, but pardon give.
Inspire this crumb of dust till it display
Thy glory through’t: and then Thy dust shall live.
Its failings then Thou’lt overlook, I trust,
They being slips slipped from Thy crumb of dust.
Thy crumb of dust breathes two words from its breast,
That Thou wilt guide its pen to write aright
To prove Thou art and that Thou art the best
And shew Thy prosperties to shine most bright.
And then Thy works will shine as flowers on stems
Or as in jewelary shops do gems.
Happy as the Day Is Long
I take the long walk up the staircase to my secret room.
Today’s big news: they found Amelia Earhart’s shoe, size 9.
1992: Charlie Christian is bebopping at Minton’s in 1941.
Today, the Presidential primaries have failed us once again.
We’ll look for our excitement elsewhere, in the last snow
that is falling, in tomorrow’s Gospel Concert in Springfield.
It’s a good day to be a cat and just sleep.
Or to read the Confessions of Saint Augustine.
Jesus called the sons of Zebedee the Sons of Thunder.
In my secret room, plans are hatched: we’ll explore the Smoky Mountains.
Then we’ll walk along a beach: Hallelujah!
(A letter was just delivered by Overnight Express–
it contained nothing of importance, I slept through it.)
(I guess I’m trying to be ‘above the fray.’)
The Russians, I know, have developed a language called ‘Lincos’
designed for communicating with the inhabitants of other worlds.
That’s been a waste of time, not even a postcard.
But then again, there are tree-climbing fish, called anabases.
They climb the trees out of stupidity, or so it is said.
Who am I to judge? I want to break out of here.
A bee is not strong in geometry: it cannot tell
a square from a triangle or a circle.
The locker room of my skull is full of panting egrets.
I’m saying that strictly for effect.
In time I will heal, I know this, or I believe this.
The contents and furnishings of my secret room will be labeled
and organized so thoroughly it will be a little frightening.
What I thought was infinite will turn out to be just a couple
of odds and ends, a tiny miscellany, miniature stuff, fragments
of novelties, of no great moment. But it will also be enough,
maybe even more than enough, to suggest an immense ritual and tradition.
And this makes me very happy.
Edward Taylor Poeta nordamericano
The Joy If Church Fellowship Rightly Attended
In heaven soaring up, I dropped an ear
On earth: and Oh, sweet melody:
And listening, found it was the saints who were
Encroached for Heaven that sang for joy.
For in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Oh, joyous hearts! Enfired with holy flame!
Is speech thus tassled with praise?
Will not your inward fire of joy contain:
That it in open flames doth blaze?
For in Christ’s coach saints sweetly sing,
As they to glory ride therein.
And if a string do slip by chance, they soon
Do screw it up again, whereby
They set it in a more melodious tune
And a diviner harmony.
For in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
In all their acts, public and private, nay,
And secret too, they praise impart.
But in their acts divine and worship, they
With hymns do offer up their heart.
Thus in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Some few not in; and some whose time and place
Block up this coach’s way do go
As travelers afoot, and so do trace
The road that gives them right thereto,
While in this coach these sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Preparatory Meditations – Second Series: 143
(Canticles 6:10. Who is She that Looks Forth as the Morning,
Fair as the Moon, Clear as the Sun, Terrible as an Army with Banners)
Wonders amazed! Am I espoused to Thee?
My glorious Lord? What! Shall my bit of clay
Be made more bright than brightest angels be,
Look forth like as the morning every way?
And shall my lump of dirts wear such attire?
Rise up in heavenly ornaments thus, higher?
But still the wonders stand, shall I look like
The glorious morning that doth gild the sky
With golden beams that make all day grow light,
And view the world o’er with its golden eye?
And shall I rise like fair as the fair moon,
And bright as in the sun, that lights each room?
When we behold a piece of China clay
Formed up into a China dish complete,
All spiced o’er with gold sparks display
Their beauty all under a glass robe neat,
We gaze thereat, and wonder rise up will,
Wond’ring to see the Chinese art and skill.
How then should we and angels but admire
Thy skill and vessel Thou hast made bright thus
Out for to look like to the morning tire
That shineth out in all bright heavenly plush?
Whose golden beams all varnish o’er the skies
And gild our canopy in golden wise?
Wonders are nonplussed to behold Thy spouse
Look forth like to the morning whose sweet rays
Gild o’er our skies as with transparent boughs
Like orient gold of a celestial blaze.
Fair as the moon, bright as the sun, most clear,
Gilding with spiritual gold grace’s bright sphere.
O blessed! Virgin spouse, shall thy sharp looks
Gild o’er the objects of thy shining eyes
Like fairest moon and brightest sun do th’ fruits
Even as that make the morning shining rise?
The fairest moon in ‘ts socket’s candle-light
Unto the night and th’ sun’s day’s candle bright.
Thy spouse’s robes all made of spiritual silk
Of th’ web wove in the heaven’s bright loom indeed,
By the Holy Spirit’s hand more white than milk
And fitted to attire thy soul that needs.
As th’ morning bright’s made of the sun’s bright rays,
So th’ Spirit’s web thy soul’s rich loom o’erlays.
I frown, chide, strike, and fight them, mourn and cry
To conquer them, but cannot them destroy.
I cannot kill or coop them up: my curb
‘S less than a snaffle in their mouth: my reins
They as a twine thread snap: by hell they’re spurred:
And load my soul with swagging loads of pains.
Black imps, young devils, snap, bite, drag to bring
And pick me headlong hell’s dread whirlpool in.
Lord, hold Thy hand: for handle me Thou mayst
In wrath: but oh, a twinkling ray of hope
Methinks I spy Thou graciously display’st.
There is an advocate: a door is ope.
Sin’s poison swell my heart would till it burst,
Did not a hope hence creep in ‘t thus and nurse ’t.
Joy, joy, God’s son’s the sinner’s advocate,
Doth plead the sinner guiltless, and a saint.
But yet attornies’ pleas spring from the state,
The case is in: if bad, it’s bad in plaint.
My papers do contain no pleas that do
Secure me from, but knock me down to, woe.
I have no plea mine advocate to give:
What now? He’ll anvil arguments great store
Out of His flesh and blood to make thee live.
O dear-bought arguments: good pleas therefore.
Nails made of heavenly steel, more choice than gold
Drove home, well-clenched, eternally will hold.
Oh! Dear-bought plea, dear Lord, what buy ‘t so dear?
What with Thy blood purchase Thy plea for me?
Take argument out of Thy grave t’ appear
And plead my case with, me from guilt to free.
These maul both sin and devils, and amaze
Both saints and angels; wreathe their mouths with praise.
What shall I do, my Lord? What do, that I
May have Thee plead my case? I fee Thee will
With faith, repentance, and obediently
Thy service gainst Satanic sins fulfill.
I’ll fight Thy fields while live I do, although
I should be hacked in pieces by Thy foe.
Make me Thy friend, Lord, be my surety: I
Will be Thy client, be my advocate:
My sins make Thine, Thy pleas make mine hereby.
Thou wilt me save, I will Thee celebrate.
Thou’lt kill my sins that cut my heart within:
And my rough feet shall Thy smooth praises sing.
Edward Taylor was an American Puritan poet and minister of the Congregational church at Westfield, Massachusetts for over 50 years. Considered one of the more significant poets to appear in America in the 17th and 18th centuries, his fame is the result of two works, the Preparatory Meditations … (written 1682–1725) and Gods Determinations touching his Elect … (written 1682?). But he also wrote many other poems during his long life, and he was an indefatigable preacher. Over 60 of his sermons are extant as well as a long treatise, The Harmony of the Gospels. With the exception of two stanzas of verse, his works were unpublished in his lifetime.
Taylor’s birth year and place are still unknown, but the most convincing evidence indicates that he was born in 1642 in the hamlet of Sketchley, Leicestershire, England. His mother, Margaret, died in 1657, and his father, William, a yeoman farmer, in 1658. The civil war was raging in Leicestershire during his infancy, but by 1650 the future poet was enjoying the peace and stability of a prosperous midland farm. His poetry is replete with imagery drawn from the farm and from the countryside of both Old and New England. The Leicestershire dialect occasionally appears in his colloquial verses, as do words drawn from the weaver’s trade (in which he may have been employed at nearby Hinckley).
Educated by a nonconformist schoolmaster, Taylor taught school for a short time at Bagworth. His firm religious convictions as a Protestant dissenter, formed in childhood and strengthened in the favorable atmosphere of Cromwell’s regime, were severely tested during the first years of the Restoration. He refused to sign the Act of Uniformity of 1662 and was therefore prevented from teaching school and from worshiping in peace. On April 26, 1668, he sailed from Execution Dock, Wapping, bound for the Massachusetts Bay Colony.
His earliest verses, written in England, exhibit his lifelong love of the Protestant cause and his anti-Anglican and anti-Roman position. In “A Dialogue between the writer and a Maypole Dresser” the young poet berates the maypole dancers for worshiping the Roman harlot Flora when they “sacrificed a slaughtered tree to her.” He attacked the Church of Rome with the same kind of invective in the long poem written toward the end of his life, The Metrical History of Christianity. The most eloquent of his early poems, “The Lay-mans Lamentation,” praises the zeal of the dissenting preachers silenced by the Act of Uniformity, which finally drove Taylor himself to the Bay Colony. In “A Letter sent to his Brother Joseph Taylor and his wife after a visit” Taylor exhibited his early interest in acrostic verse, a form in which he continued to write in Massachusetts. The names of himself, his brother, and his brother’s wife appear in the initial and final letters of each line.
The hardships of Taylor’s crossing of the Atlantic during the 70 days in which his ship was slowed by calms and buffeted by contrary winds are described in his diary, which also includes perceptive observations of natural phenomena, and of birds and fish, anticipating the imagery of his later poetry. On July 5, 1668, Taylor disembarked at Boston, and, after a visit with Charles Chauncy, president of Harvard College, he entered Harvard on July 23 as an upperclassman. He was the college butler in charge of kitchen utensils and responsible for collecting payment for food and drink consumed from the buttery—a position usually given a mature upperclassman. Taylor’s life at Harvard for the next three years was busy and rigorous with recitations, disputations, and lectures carried on in Latin; with studies in Greek, Hebrew, logic, metaphysics, rhetoric, and astronomy; and with daily morning and evening prayers.
During his student years, Taylor continued to write poetry, including elegies on Zecharia Symmes, Francis Willoughby, and John Allen—all members of the Board of Overseers of Harvard College who died when Taylor was in residence at Harvard. Also extant is a fragment of an elegy that may be on the famous Richard Mather, founder of the Mather dynasty, who died in 1669. An elegy on Charles Chauncy, who died in 1672, was written during Taylor’s first year at Westfield. All of these verses are similar in style, displaying more wordplay and wit than genuine feeling. The poem to Willoughby is an acrostic, and the verses to Chauncy are an elaborate double acrostic. They are an interesting historical addition to the corpus of 17th-century funeral verse but are of little literary value. Taylor’s later elegies to his wife and to Samuel Hooker are much more successful exercises in the genre.
After graduating with his class from Harvard College in 1671, Taylor was faced with the necessity of choosing a vocation. He decided to become a resident scholar at Harvard, and on November 16, he was, according to his diary, “instituted … scholar of the house.” However, a few days later he was persuaded to undertake the hazardous journey of a hundred miles through deep snowdrifts in the dead of winter to Westfield to become minister to that small farming community in the Bay Colony. He remained in Westfield for the rest of his life, with only occasional visits to Boston and other New England towns.
By 1673 Taylor had a parsonage and a new, small meetinghouse, built to serve also as a fort during the Indian troubles. The worshipers were summoned to meeting by the roll of a drum. By the summer of 1674 Taylor had fallen in love with Elizabeth Fitch of Norwich. On September 8th, he sent her a love letter written in the florid rhetoric of the period, and the next month he composed for her an elaborate acrostic love poem. They were married on November 5, 1674 and had eight children, five of whom died in infancy.
King Philip’s War began in June 1675 and was waged with savage ferocity on both sides. In the spring of 1676 the citizens of Westfield were asked to consider removal to the larger town of Springfield for their protection, but Taylor refused the invitation, and Westfield escaped serious damage. During these troubled times Taylor apparently composed little or no verse. The Indian chief King Philip was killed in August 1676, and with the coming of peace Taylor was finally able to organize his church. At his ceremony of ordination on August 27, 1679, Taylor preached his first extant sermon: A Particular Church is Gods House, in which he demonstrates with his customary Calvinistic rigidity that the members of this “Particular Church” at Westfield are among God’s chosen people, the elect, as distinct from the damned; for all people, he said, are “either in a State of Wrath, or a State of Favourits.”
Taylor now resumed his poetic activity. By about 1682 (the date is conjectural) he was composing his major poem Gods Determinations touching his Elect: and The Elects Combat in their Conversion, and Coming up to God in Christ together with the Comfortable Effects thereof. The long title (typical of the period) indicates the subject and movement of the poem—the various ways of God in converting the predestined elect to Christianity (specifically to orthodox Congregationalism) and the spiritual joys of saving grace once the Christian has ascertained the effects of grace in his soul. The poem is somewhat polemical in tone, suggesting that Taylor may have intended to publish it and distribute it to the citizens of Westfield for the purpose of convincing some of the more recalcitrant members of the community to accept saving grace and to enter into full communion with the church. There are a number of passages written to convince the reader that past sins are not certain signs of damnation and that excessive doubts as to a person’s worthiness to accept full membership in the church are the devil’s work. The poem was not published in Taylor’s lifetime, but passages may have been read to his congregation during Sunday morning worship or at evening prayer meetings.
In justifying the ways of God to the elect and in exposing the machinations of the devil, Taylor had a number of previous works—such as John Milton’s Paradise Lost (1667), John Bunyan’s The Holy War (1682), Michael Wigglesworth’s The Day of Doom (1662), and Lorenzo Scupoli’s The Spiritual Conflict (translated from the Italian in 1613)—which could have served as models for his own poem of spiritual combat. A possible source for the psychological aspects of Taylor’s poem, and one much closer to home, is William Ames’s Conscience with the Power and Cases thereof (1639), a copy of which (in Latin) was in Taylor’s library. Ames’s psychological profile of the devil as one who tempts men to damnation by convincing them they are not of the elect is similar to Taylor’s concept of Satan. Sermons and tracts depicting what John Downame called Christian Warfare (1633), that is the clash between personified virtues and vices, were numerous in Taylor’s day, and despite what some scholars have suggested, they probably had more influence on the poem than did the morality plays or the Elizabethan drama.
Gods Determinations touching his Elect … is a dramatization of Taylor’s Calvinistic religious beliefs concerning predestination, creation, the nature of God, original sin, saving grace, redemption through faith in Christ, the division of mankind into the damned and the elect, and the joys of eternal salvation. There is some allegory, and the devil reminds us of the personified vices of the morality plays, but the poem is not an exercise in symbolism nor in Neoplatonism. Heaven and hell are depicted as real places. Christ, Satan, and the angels may sometimes take on the physical attributes of real persons.
The major part of the poem depicts the various methods by which God, through Christ, brings salvation to the elect. The struggle for their salvation is dramatically presented as a combat for the souls of the elect between Mercy and Justice on the one hand and the devil on the other. The effect of sin on natural man and the combats for his redemption are graphically presented, often in a colloquial, down-to-earth style. Of disobedient man’s terror of God’s wrath Taylor writes:
Then like a Child that fears the Poker Clapp
Him on his face doth on his Mothers lap
Doth hold his breath, lies still for fear least hee
Should by his breathing lowd discover’d bee.
Satan, raging at those of the elect who deserted him for Christ, says that now they have two enemies—God and Satan—both of whom will never trust them: “You’l then have sharper service than the Whale, / Between the Sword fish, and the Threshers taile.”
For the modern reader the most interesting part of the poem, perhaps, is to be found in what Taylor calls “Satans Sophestry,” in the devil’s psychological warfare against those who may wish to think of themselves as the elect. His temptations range from appeals to the baser passions to the attempt by subtle arguments to insinuate doubts in the soul’s assurance of saving faith. One of his most insidious arguments is that, if a person has any doubts at all about the possibilities of his spiritual regeneration, then he is not one of the elect because God is supposed to give the elect assurance of saving faith. On the other hand, if a person believes he is assured of saving faith, then he (poor sinner that he is) is guilty of pride, the cardinal sin, and so damned. Another line of attack is to convince the sinner that his so-called love of God is really love of self (a sin) and that his real motivation is fear of hell and desire for the joys of heaven. A third method of attack is what Taylor calls the “ath’istick Hoodwinke”—that the attributes of the Christian God—his ubiquitousness and his incarnation in “a mortal clod”—are contrary to reason and to common sense and that in fact God does not exist. These arguments and many more were probably suggested to Taylor by such books as William Ames’s Conscience with the Power and Cases thereof.
Gods Determinations touching his Elect …, unlike Milton’s Paradise Lost, is a “dated” poem, quite obviously of its period. It does not have the universal and permanent appeal of Milton’s epic, nor can Taylor at any time equal the skill of Milton’s blank verse. The poem is like an anthology of poems written in various meters and in various styles, sometimes colloquial, sometimes ornate, sometimes plain and direct, but it is given coherence and dramatic effectiveness by a single theme (the redemption of the elect) and a single narrative line (the rise of the elect from anguish and despair to the glories of heaven).
At about the same time he was writing Gods Determinations touching his Elect …, Taylor was also composing a series of occasional poems. Only one can be dated precisely—“Upon the Sweeping Flood Aug: 13:14. 1683.” This, the most powerful of the series, has been widely admired. (Joyce Carol Oates used its title as the title for a collection of her short stories.) The flood, which Taylor refers to in his church record, is given allegorical and religious significance: the storm and flood were sent by God to drown man’s carnal love, for the sins of man have acted as a purge on the heavens. Allegorizing natural events, “occurants” as Taylor called them, was habitual among Puritan writers. Several other occasional poems are also allegorical. The spider in “Upon a Spider Catching a Fly” is the devil destroying sinful, natural man, and in “The Ebb and Flow” the tide suggests Taylor’s rising and falling expectations of election. Allegory occurs also in Taylor’s most moving occasional poem, two stanzas of which, published in Cotton Mather’s Right Thoughts in Sad Hours … (1689), were the only lines by Taylor to appear in print during his lifetime. “Upon Wedlock and Death of Children,” written in 1682 or 1683, refers to the deaths of two of his children and to his marriage to Elizabeth Fitch, which he calls a “True-Love Knot.” The word knot has the 17th-century meaning of “garden” as well as the modern meaning. Because theirs is true love, the knot can never be untied; it is a Gordian knot. From this garden sprang four flowers, two of which grew to maturity, two of which died: “But oh! the tortures, Vomit, screechings, groans, / And six weeks Fever would pierce hearts like stones.” But Taylor’s grief is assuaged with the acceptance of God’s will:
Lord, theyre thine.
I piecemeal pass to Glory bright in them.
I joy, may I sweet Flowers for Glory breed,
Whether thou getst them green, or lets them seed.
In 1682 Taylor embarked upon Preparatory Meditations before my approach to the Lords Supper, a series of more than two hundred poems grouped in two series written, “Chiefly upon the Doctrin preached upon the Day of administration.” Unpublished until the 20th century, the poems are a private spiritual diary of great significance to our understanding of the religious and psychological history of the period. The poems are uneven in poetic merit and frequently repetitious in theme and diction, but a few of them are written in the metaphysical and baroque style and may properly be considered the last exemplars of the metaphysical school.
In his imagery Taylor frequently made use of the metaphysical conceit of what Samuel Johnson called, in commenting on Donne, discordia concors “a combination of dissimilar images … the most heterogenous ideas are yoked by violence together.” But Taylor is sometimes even more fantastic than Donne. His imagery may be as extravagant as that of Crashaw or the now-forgotten poet John Cleveland, whom Taylor mentions in his poem on Pope Joan. Today we would call such yoking of images surrealistic, as in his famous line “Should Stars Wooe Lobster Claws.” The strongest influence from the metaphysical school is George Herbert, an Anglican poet and preacher, widely respected by the American Puritans in spite of doctrinal differences and especially admired by Taylor, who was perhaps at his best when writing under Herbert’s influence, as in meditation six of the first series, “Am I thy Gold?”
In his diction Taylor combined the colloquial with the cosmic (again like Donne), employing abstruse theological or philosophical terms with the homely idiom of the farm or the weaver’s trade. The line “My tazzled Thoughts twirld into Snick-snarls run” illustrates his fondness for “domestic diction” and also the influence of the 16th-century rhetorician Petrus Ramus, the followers of whom eschewed the ornate style and, like Emerson later, preached that the poet should “fasten words to things.” Taylor’s frequent use of the plain style is Ramist. His occasional employment of the ornate style is derived from the King James version of the Bible, and especially from the Song of Solomon, which Taylor loved and which had a pervasive influence on his last meditations. Taylor also employed, sometimes to excess, the various rhetorical devices of the 16th- and 17th-century handbooks such as irony, synecdoche, metonymy, meiosis (diminishing), and amplification. He was especially fond of amplification, which combined with ploce (repetition of a word) and polyptoton (repetition of a word root) results in what Yvor Winters has called “a punning piety.” In meditation 2.48 he writes with reference to the devil and the powers of darkness:
Their Might’s a little mite, Powers powerless fall.
My Mite Almighty may not let down slide.
I will not trust unto this Might of mine:
Nor in my Mite distrust, while I am thine.
In the emblem tradition as it appears in the poetry of Francis Quarles (1592–1644), a poet the Puritans admired, a poem makes a moral, epigrammatic comment on a picture that illustrates a theological or philosophical idea. The tradition is also evident in Taylor’s verse, most obviously “Upon a Spider Catching a Fly,” where the spider in his web symbolizes the devil. Typology as used in biblical exegesis—an object, event, or person in the Old Testament (the type) foreshadows an object, event, or person in the New Testament (the Antitype)—is also pervasive, especially in the meditations of the second series. The Jewish Passover considered as a type of Christian Communion, or Lord’s Supper as Taylor called it, is one of Taylor’s favorite constructs.
Taylor’s meditations are an important part of a long tradition of meditation writing in verse and prose, beginning, as far as verse is concerned, with Robert Southwell and continuing through John Donne, George Herbert, Richard Crashaw, Henry Vaughan, Andrew Marvell, Thomas Traherne, and, finally, Taylor. Richard Baxter’s treatise, The Saints Everlasting Rest (1650), which had considerable influence on meditation writing in verse, advocated an orderly method of meditation involving the three faculties of the soul—memory, understanding, and will (the emotions) in that order. Louis Martz has shown in his introduction to Donald E. Stanford’s edition of Taylor’s poems that some of Taylor’s Preparatory Meditations … are organized according to this tripartite division. Frequently the Puritan poet appears to be following another threefold pattern—despair as he contemplates the sins of mankind and his own personal sin, joy when he thinks of Christ’s promise of redemption to the elect, and hope and resolution when he considers the possibility that he too may be one of the elect. There are also many meditations that appear to have no preset pattern. Taylor was writing at the end of, that is during the decadence of, the meditative tradition, and his poems usually do not have the closely-knit logical organization of the best poems of Donne and Herbert.
Of the more than 200 meditations, a number appear to be independent or occasional poems, but some form well-defined, coherent groups. The central theme of the 49 poems of the first series is love—the divine love of God and Christ for man as proven by Christ’s saving grace to the elect and, conversely, the human love that the elect should have for Christ and God. Three unnumbered poems, entitled “The Experience,” “The Return,” and “The Reflexion,” which Taylor placed among his first meditations, graphically depict the minister-poet’s love of Christ, and one of them, “The Reflexion,” presents what appears to be a mystic moment in which Taylor actually saw a vision of Christ at the Communion table:
Once at thy Feast, I saw thee Pearle-like stand
‘Tween Heaven, and Earth where Heavens
Bright glory all
In streams fell on thee, as a floodgate and,
Like Sun Beams through thee on the
World to Fall.
The experience may have been the inspiration for the first series of preparatory meditations. The meditations consist of poems contemplating the truths of the scripture as seen typologically; attacks on the various “heresies” which are not in agreement with his view of Christ’s perfect humanity and divinity; and moving statements of Taylor’s belief in the perfect humanity and perfect divinity of Christ. Toward the end of his life Taylor wrote a series of meditations (series two, 115–133) on sequential texts from the Song of Solomon, or Canticles, which many Christians of the 17th century considered to be an allegorical poem celebrating the “wedding” of Christ with the members of his church. Taylor adopts the view of Origen, a church father whom he greatly admired, that Canticles may be interpreted as a celebration of the wedding of Christ with the individual soul. In these moving poems, heavily influenced by the diction and imagery of the Bible, Taylor meditates on his union with Christ with almost mystical intensity.
In 1688, when he heard that Stoddard was about to allow unregenerate sinners to partake of the Lord’s Supper, Taylor sent him a letter opposing the move. Stoddard laconically replied that he was not at leisure to go into the reasons for his innovation and then proceeded to liberalize the communion service in the manner Taylor feared. The church at Northampton appears to have followed Stoddard’s practice until his grandson, the great Calvinist preacher Jonathan Edwards, returned to the conservative restrictions of former days, a decision which was eventually instrumental in his being discharged of his duties as pastor of that church and sent out to preach to the Indians. The controversy over Stoddard’s practice was widespread and bitter; yet it was engaged in by some of the chief pastors of the period, including Increase and Cotton Mather.
In 1690 Taylor entered in his commonplace book six syllogisms arguing that the Lord’s Supper is not a converting ordinance, and in this same year, after reading a sermon by Stoddard defending his practice, he wrote in his book 34 pages of animadversions against Stoddard. He made use of this material in 1694 in his series of sermons preached on his own doctrine of the Lord’s Supper. In the course of these sermons he continually attacks Stoddard for destroying a precious sacrament.
The first Mrs. Taylor died on July 7, 1689. Taylor’s moving elegy on her describes the joys and griefs of their married life, especially those caused by the deaths of their children, and his own grief at the death of the children’s mother:
Five Babes thou tookst from me before this Stroke.
Thine arrows then into my bowells broake,
But now they pierce into my bosom smart,
Do strike and stob me in the very heart.
On June 6, 1692, Taylor married Ruth Wyllys of Hartford, who survived him.
Late in 1697 Taylor engaged in controversy with Benjamin Ruggles, pastor of the church at Suffield in the Bay Colony, who began to express what Taylor considered to be dangerous Presbyterian views, dangerous not for doctrinal reasons—for the doctrines of the two churches were almost identical—but because Presbyterianism would deprive the independent Congregational minister of power over his church and place it in the hands of a church synod. Taylor’s struggle against the establishment of Presbyterianism in New England is described in the Westfield church record and is referred to in his poem on the death of Samuel Hooker (circa 1635–1697), minister of the Congregational church in Farmington, Connecticut. In this most powerful of all of Taylor’s elegies Ruggles is referred to as one of several “Young Cockerills” and Presbyterianism is called “refined Prelacy at best.” The next year Taylor wrote an elegy on his sister-in-law Mehetabel Woodbridge. On January 18, 1701 James Taylor, Taylor’s son by his first wife, died in Barbados. The poet refers to his death in meditation 2.40: “Under thy Rod, my God, thy smarting Rod, / That hath off broke my James, that Primrose, Why?” In the same year Taylor began, on August 31, a series of fourteen sermons, entitled Christographia, on the nature of Christ’s person and the unity of the divine and human natures in Christ. The series was finished on October 10, 1703. In his day, Taylor had a reputation for pulpit eloquence. His Harvard classmate Samuel Sewall wrote in his Letter-Book, “I have heard him preach a sermon at the Old South upon short warning which as the phrase in England is, might have been preached at Paul’s Cross,” Sewall, who lived in Boston, had access to the best preaching of the day. Taylor’s poetry was almost completely unknown in his lifetime, but now that almost all of Taylor’s extant poetry and prose have been published, it seems unlikely that his reputation as a preacher will ever equal his reputation as a poet. In his sermons he never exhibits the power and the beauty of the great Calvinist preacher Jonathan Edwards.
In structure and style his sermons are in the tradition of the Puritan preaching of his time. There is usually a three-fold structure—doctrine, reason, and use—or as Taylor put it on the title page of Christographia, each sermon is “Opened, Confirmed, and Practically improved.” The purpose of the Puritan sermon was to explain the scripture and to instruct the congregation in the practical application of scriptural doctrine. Taylor came naturally to the plain style he employed, for most Puritan divines preferred it to the learned and ornate style of the Anglican preachers. Yet he was also preaching to a congregation of poorly educated farmers for whom a plain style and at times colloquial diction were necessary. He refers to the Quakers as “the old Clucking hen of antichrist” and to natural man as “a mushroom.” In his attacks on Stoddard he refers to the Communion bread: “Hands off: its Childrens bread; a Crumb of it may not fall to dogs. But all of it belongs to every Child in the Family.” However, Taylor’s talent as a poet sometimes appears in his sermons, especially in passages depicting the sweetness of saving grace and the mystical union of Christ and the believer.
In June 1705 the bones of a “monster” were discovered at Claverack on the bank of the Hudson River near Albany, New York. The discovery caused considerable excitement, and accounts of the remains appeared in the Boston News-Letter and several years later in the Philosophical Transactions of the Royal Society. At the time their discovery was considered proof of the existence of giants in the earth before the flood. Today the bones are thought to be mastodon remains, the first to be discovered in America.
At least two of the teeth were brought to Taylor in Westfield for examination. He claimed that one weighed five pounds, the other two. Combining this evidence with the report that a 17-foot-long thigh bone had also been discovered and that the ground was discolored for 70 feet, Taylor constructed in his imagination a marvelous giant 70-foot-tall and described him in a remarkable poem of 190 verses, entitled “The Description of the great Bones dug up at Claverack …” Taylor, like his contemporaries Increase and Cotton Mather, had a fondness for prodigies and remarkable providences.
Early in the 18th century (the exact date has never been determined) Taylor began a long poem that eventually ran to well over 20,000 lines. The first part of the poem presents the sufferings and persecutions of the Christians from the beginning until the 12th century, and, after a lacuna in the manuscript, there is an account of the martyrdoms of Queen Mary’s reign in England. The poem is untitled. Donald E. Stanford, who in 1960 made and later published a transcript of the poem, called it A Metrical History of Christianity. The primary sources are the Magdeburg Centuries (1567–1574) of Matthias Flaccus and the well-known book Actes and Monuments of these Latter Perilous Days, first published in English in 1563 and usually known as The Book of Martyrs by John Foxe. Written in decasyllabic couplets and in eight other verse forms, Taylor’s long and frequently tedious poem is uneven in literary merit, varying from the crudest doggerel to exalted hymns to God’s grace. There are a few powerful lines on the operation of God’s justice, but there are also unnecessarily detailed descriptions of the physical agonies of the martyrs and some extremely vitriolic language in several attacks on the Papacy reminiscent of the pamphlet war of the previous century.
Taylor was ill and enfeebled in the final years of his life, but he persisted in writing poems until almost the end. “Upon my recovery out of a threatening Sickness,” which begins, “What, is the golden Gate of Paradise / Lockt up ‘gain that yet I may not enter?,” was written in December 1720. In January 1721 he composed “A Valediction to all the World preparatory for Death,” a flawed, eccentric, but moving, poem (which exists in several heavily corrected versions). In it Taylor bids farewell to the physical world including the stars, sun, moon, and air, while he eagerly anticipates the joys of singing, above the angels, God’s praises in heaven. Throughout the eight cantos he enumerates in vivid detail the pleasures and sorrows of earthly life, including his “study, Books, Pen, Inke, and Paper,” all of which he is about to relinquish for his life in a heaven which he believes in and depicts with absolute conviction:
When I’ve skipt ore the purling Stile with joy
Twixt Swift wing’d Time and Fixt Eternity
And am got in the heavenly strand on High
My Harp shall sing thy praise melodiously.
In 1723 Taylor wrote his elegy on Increase Mather (1639–1723), who had died on August 23. The long title begins “Increase Mather,” Mather is praised as a champion of Congregational orthodoxy, and his opponents, especially the Roman Catholics who made Mather “their Maypole Music,” are denounced at some length. Timothy Cutler, a rector of Yale University who defected to Anglicanism, is more briefly dismissed: “Cutler’s Cutlery gave th’ killing Stob.” In October 1725 Taylor wrote his last preparatory meditation, which begins: “Heart sick my Lord heart sick of Love to thee!” During his final years Taylor composed a scurrilous attack upon the so-called Pope Joan, the legendary Pope John VIII of the 9th century, who according to some Protestant apologists was a woman disguised as a man. The myth had wide circulation from medieval times through the 17th century. The poem is in six versions or drafts and several fragments, indicating that Taylor spent more time on the poem than it was worth.
Taylor died on June 24, 1729 and was interred in the old burying ground at Westfield, Massachusetts. His interesting tombstone, engraved with the face of a primitive angel, fell into disrepair but has now been reconstructed.
Francesco Daveri- Un cristiano per la libertà -di Alessandro Forlani
Francesco Daveri nacque il 1° gennaio 1903 a Piacenza da Cesare e Carolina Maldotti, una famiglia, come egli stesso avrebbe ricordato, «povera e numerosa»:il padre era impiegato presso la curia vescovile e i figli della coppia furono sette (due maschi e cinque femmine). Dopo aver frequentato le scuole elementari, D. fu ammesso al seminario vescovile, dove svolse le cinque classi del ginnasio, per poi superare nel 1919 il concorso per accedere al Collegio Alberoni, la prestigiosa istituzione piacentina per la formazione del clero che aveva anche annoverato personalità destinate al successo nelle diverse discipline scientifiche. Non avvertendo la vocazione religiosa, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, mantenendosi negli studi con il proprio lavoro fino al 1926, quando si laureò a pieni voti. Nel frattempo, iscrittosi anche al Partito popolare italiano nel 1921, divenne socio della Società della gioventù cattolica italiana, entrando nel 1922 nel consiglio della Federazione diocesana, di cui fu segretario per la propaganda nel 1924 e per le missioni nel 1926. Nel periodo universitario fece parte anche della Fuci, di cui fu il reggente del segretariato di Piacenza dal 1927 al 1929. Dopo due anni di praticantato legale, D. aprì uno studio insieme a Giuseppe Arata, con il quale, dopo aver condiviso la militanza nella Gioventù cattolica, avrebbe collaborato anche nella Resistenza su posizioni differenti, in quanto socialista. D. sposò Margherita Castagna, con la quale ebbe cinque figli, entrando, secondo le disposizioni statutarie, nell’Unione uomini di Azione cattolica. Ma a partire dal 1930 il suo impegno si concentrò prevalentemente sull’antifascismo attivo. Partecipò alle attività del Movimento guelfo d’azione, promuovendo la diffusione dei manifestini prodotti dal gruppo. Allacciò contatti con esponenti socialisti. Rimase in rapporto con i dirigenti del disciolto Partito popolare che non si erano piegati al regime. Nella seconda metà degli anni Trenta, quando fu aperta anche a Piacenza la sezione, D. prese parte alle iniziative del Movimento laureati di Azione cattolica e a partire dagli inizi del 1943, dopo la fondazione in diocesi dello Studium Christi, fu coinvolto nelle attività di questo centro che, pur avendo un taglio culturale, fu uno spazio prezioso nel maturare le prospettive per il dopoguerra. Le attività clandestine si intensificarono durante la II Guerra mondiale. Dopo lo sfollamento della famiglia a Bobbio, in provincia di Piacenza, alla fine del 1942, D. decise di rimanere a Piacenza, oltre che per continuare la professione, anche per non allentare l’opposizione al regime che si era fatta sempre più intensa. All’indomani della caduta del fascismo, che maturò il 25 luglio 1943, a Bettola diede fuoco pubblicamente a un ritratto di Mussolini, gettando i frammenti incandescenti dal balcone della pretura verso la folla che stava manifestando con spirito anche divertito per la scena. Intervenne anche per far scarcerare quanti avevano manifestato nel capoluogo per la caduta del duce presso il prefetto Amerigo De Bonis, il quale il 1º settembre 1943 lo nominò membro della giunta provinciale amministrativa. In seguito all’armistizio, fu tra i fondatori del Comitato di liberazione nazionale di Piacenza, che si costituì e poi si riunì a più riprese nel suo studio di via Pavone. Si attivò immediatamente per organizzare il rifornimento di armi per le prime bande partigiane che si andavano formando nell’Appennino piacentino. Lo stretto controllo del territorio seguito all’occupazione nazista accentuò la pressione sulle sue iniziative. Il Tribunale straordinario provinciale il 30 gennaio 1944 spiccò un mandato di cattura per l’oltraggio compiuto all’indomani della destituzione di Mussolini. Avvisato in tempo, D. si nascose in città, preparando la difesa in vista del processo, che si chiuse in contumacia nel marzo del 1944 con la «faziosa sentenza», determinata in cinque anni di reclusione. D. scrisse una dura lettera, diffusa in città, al prefetto Davide Fossa, al quale imputava la responsabilità di un recente eccidio, con la minaccia di rappresaglia da parte delle forze partigiane. Nel nascondiglio, preparò anche messaggi da inviare alla Resistenza. Il 15 marzo 1944, sotto il falso nome di Lorenzo Bianchi, mentre cercava di varcare il confine verso la Svizzera, fu fermato dalle guardie di frontiera, che lo trattennero e, dopo una estenuante trattativa, gli permisero il varco. Espletate le consuete procedure previste per i rifugiati, fu spostato alla casa d’Italia a Lugano, dove trovò alcuni antifascisti cattolici con i quali era in rapporto amicale, e poi fu spostato a Loverciano. Nel Ticino, comunque, D., su incarico del Clnai, fece da raccordo tra la Resistenza del Nord Emilia e gli alleati. Oltre a inserirsi nel dibattito politico che fu animato tra i rifugiati italiani, attraverso la fidata segretaria dello studio professionale, Bruna Tizzoni, che effettuò diversi viaggi in Svizzera, riallacciò i rapporti con la Resistenza della sua terra. Questi servirono anche per farli fruttare all’interno della rete dello Special Operation Executive, il servizio segreto inglese attivato durante la guerra, per conto del quale D. cominciò a operare. Attraverso questo canale, nel luglio del 1944 rientrò clandestinamente in Italia, operando prevalentemente a Milano sotto mentite spoglie, in collegamento con i servizi di informazione della Resistenza. Non smise però di tenere relazioni importanti con il piacentino, cercando anche di orientare a distanza la rappresentanza democristiana all’interno dell’organismo di coordinamento locale. La sua attività più importante fu comunque l’incarico di ispettore militare del Nord Emilia per conto del Clnai, che lo mise in continuo contatto con Ferruccio Parri ed Enrico Mattei. Nell’ottobre del 1944 D. rientrò nel piacentino, dove tenne alcuni incontri rivelatisi cruciali per il consolidamento in senso unitario della Resistenza, che lo consacrarono come punto di riferimento imprescindibile. Il 18 novembre, nel corso di un’operazione che fu favorita anche dall’«incompetenza» di altri delle «regole cospirative», fu arrestato a Milano e condotto al carcere di San Vittore, dove fu registrato con il nome di Lorenzo Bianchi, secondo quanto attestava il documento d’identità falso. Interrogato brutalmente dalle Ss, non rivelò informazioni compromettenti, addossandosi anzi la responsabilità per tentare di scagionare quanti erano stati arrestato con lui. Per un principio di congelamento al piede fu ricoverato nell’infermeria della struttura, anche se i reiterati tentativi per liberarlo, per il tramite del consolato inglese di Lugano non riuscirono. Il 17 gennaio 1945 D. fu deportato al campo di concentramento di Gries, nei pressi di Bolzano, da dove il 4 febbraio seguente, con l’ultimo convoglio di deportati italiani verso i lager nazisti, partì per la Germania, arrivando a Mauthausen il 7 febbraio successivo, venendo identificato con la piastrina n. 126.054. Una decina di giorni dopo fu assegnato al sottocampo di Gusen II, costretto al lavoro forzato nella cava di San Giorgio. Prostrato e ridotto allo stremo, D. fu ricoverato in infermeria, dalla quale il 30 marzo uscì febbricitante. Sentendo ormai prossima la liberazione, cercò di attingere alle residue energie per continuare il duro lavoro, ma, senza riuscire a resistere, fu bastonato. D. si spense dopo il 10 aprile 1945. Il certificato della Croce rossa internazionale, secondo il libro dei morti del campo, attestò come giorno del decesso il 13 aprile 1945 alle ore 6.50. Nel 1986 gli fu conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: «Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà».
Francesco Daveri
Onorificenze
Medaglia d’argento al valore militare
Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà.
Fonti e bibliografia
Luigi Donati, Ricordo di Francesco Daveri, A. Del Maino, Piacenza 1955.
Alessandro Forlani, Francesco Daveri (1903-1945). Un cristiano per la liberta, Emilstampa, Piacenza 1993.
Italo Londei, L’espatrio dell’avv. Francesco Daveri, in «Archivum bobiense», 25 (2003), pp. 499-508.
Claudio Oltremonti, Nelle S.P.I.R.E. del regime. Upi, Questura, Ovra, Mgir, missione alleate, intelligence partigiana a Piacenza (1943-1945), s.n.t., 2018.
Autore scheda: Paolo Trionfini-Fonte Biografie dei Resistenti
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Edith Bruck-Il pane perduto –Editore La nave di Teseo-
Edith Bruck-Il pane perduto
Descrizione del libro di Edith Bruck-Il pane perduto –Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.
Edith Bruck
Breve biografia di Edith Bruck,di origine ungherese, è nata nel 1931 in una povera, numerosa famiglia ebrea. Nel 1944 viene deportata nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuta ai lager nazisti, dopo anni di pellegrinaggio approda definitivamente in Italia, adottandone la lingua. Presso La nave di Teseo sono usciti: La rondine sul termosifone (2017), Ti lascio dormire (2019), Il pane perduto (2020, finalista al premio Strega e vincitore del premio Strega Giovani), Tempi (2020), Andremo in città (2021), Lettera alla madre (2022), Sono Francesco (2022) e Signora Auschwitz (2023). Nel 2023 ha vinto il premio Campiello alla carriera. Ha ricevuto le lauree honoris causa in Informazione, Editoria e Giornalismo (Roma Tre, 2018), Filologia moderna (Macerata, 2019) e Scienze filosofiche (Sassari, 2023).
Istituto della Enciclopedia Italiana –Edith Bruck Scrittrice ungherese naturalizzata italiana (n. Tiszabercel 1931). Reduce dell’Olocausto, sopravvissuta alla deportazione nei campi di concentramento di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen, ha trascorso gran parte della sua vita a raccontare la terribile esperienza con la sua arte, gli scritti e portando la propria testimonianza presso scuole e università, per mantenere viva la memoria. Trasferitasi in Italia ne ha adottato la lingua. B. ha collaborato con alcuni giornali, tra cui Il Tempo, il Corriere della Sera e Il Messaggero, occupandosi tra l’altro dei temi dell’identità ebraica e della politica di Israele. Il suo libro d’esordio è l’autobiografico Chi ti ama così del 1959. Dal volume di racconti Andremo in città (1962) N. Risi, con cui ha avuto un lungo sodalizio sentimentale e artistico, ha tratto l’omonimo film. Tra le altre opere si ricordano: Le sacre nozze (1969), Lettera alla madre (1988, Premio Rapallo), Nuda proprietà (1993), L’amore offeso (2002), Quanta stella c’è nel cielo (2009, Premio Viareggio), Il sogno rapito (2014), La rondine sul termosifone (2017), Ti lascio dormire (2019), Il pane perduto (2021, Premio Strega giovani, finalista al Premio Strega e Premio Viareggio-Rèpaci per la narrativa) e I frutti della memoria. La mia testimonianza nelle scuole (2024). Traduttrice, autrice teatrale e di poesie, sceneggiatrice e regista, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2021), nel 2023 è stata insignita del Premio Campiello alla carriera. Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Andrea Frediani -La vera storia di Auschwitz – Newton Compton Editori-
Descrizione del libro di Andrea Frediani -La vera storia di Auschwitz –La storia della nascita e dello sviluppo di uno dei luoghi simbolo dell’Olocausto e dell’orrore nazista Auschwitz non nasce da un giorno all’altro, senza alcuna avvisaglia. Al contrario, è il punto di arrivo di un percorso che inizia nel momento stesso in cui il nazismo prende il potere, istituendo campi di concentramento dapprima per gli avversari politici e poi per gli emarginati sociali, ai quali si affianca una politica razziale sempre più esasperata. Il programma di eutanasia è un altro balzo in avanti verso l’orrore, che con la guerra non conosce più ostacoli né limiti. Durante il conflitto, l’intera gerarchia delle SS lavora costantemente per creare il campo totale, che soddisfi i requisiti per internare un numero sempre maggiore di prigionieri, sfruttarne la forza lavoro per l’industria bellica, ed eliminare subito chiunque non risulti utile. Dai primi esperimenti con i detenuti sovietici fino allo sterminio degli ebrei ungheresi, nell’arco di un triennio Auschwitz affina sempre di più le sue capacità assassine, fino a diventare l’unico lager in grado di mettere in pratica, e su ampia scala, tutti i sistemi escogitati dai nazisti per la “soluzione finale”: l’omicidio di massa mediante privazioni, lavoro coatto e camere a gas.Un autore da oltre un milione e mezzo di copie-La storia del campo di concentramento più tristemente noto, narrata da uno dei più stimati divulgatori storici italiani.
La vera storia di Auschwitz raccontata dallo scrittore Andrea Frediani
Andrea Frediani–È nato a Roma nel 1963. Divulgatore storico tra i più noti d’Italia, ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi e romanzi storici, tra i quali: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; 300 guerrieri; Missione impossibile; L’enigma del gesuita. Ha firmato le serie Gli invincibili, Invasion Saga e Roma Caput Mundi; i thriller storici Il custode dei 99 manoscritti e La spia dei Borgia; Lo chiamavano Gladiatore, con Massimo Lugli; Il cospiratore; La guerra infinita; Il bibliotecario di Auschwitz; I Lupi di Roma; L’ultimo soldato di Mussolini; Le Williams, con Matteo Renzoni, L’eroe di Atene, Il nazista che visse due volte, Il dio della guerra, Napoleone, Delitto al Palatino e Il gladiatore. Le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo.
La vera storia di Auschwitz-Articolo di Salvatore Galeone
In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria, abbiamo chiesto ad Andrea Frediani, autore del libro “La vera storia di Auschwitz”, di raccontarci la storia della nascita e dello sviluppo di uno dei luoghi simbolo dell’Olocausto.
Auschwitz non nasce da un giorno all’altro, senza alcuna avvisaglia. Al contrario, è il punto di arrivo di un percorso che inizia nel momento stesso in cui il nazismo prende il potere, istituendo campi di concentramento dapprima per gli avversari politici e poi per gli emarginati sociali, ai quali si affianca una politica razziale sempre più esasperata.
In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria, abbiamo chiesto ad Andrea Frediani, divulgatore storico tra i più noti d’Italia e autore del libro “La vera storia di Auschwitz“, di raccontarci la storia della nascita e dello sviluppo di uno dei luoghi simbolo dell’Olocausto e dell’orrore nazista.
La vera storia di Auschwitz
Dopo una sessantina di libri di storia, ho deciso di scrivere un libro sulla storia. Vi chiederete che differenza c’è: ebbene, è abissale. Un libro di storia obbliga lo storico a essere imparziale, oggettivo, distaccato. In uno sulla storia puoi metterci la tua passione, le tue convinzioni, le tue opinioni. E se c’era un argomento su cui valeva la pena prendere una posizione, era una delle più grandi mostruosità del Novecento: l’Olocausto. A indurmi a farlo è stato il negazionismo imperante, la tendenza di molti a minimizzare, se non a negare, e di altri a voltare lo sguardo da un’altra parte, per l’incapacità di sostenere il carico emotivo che tale argomento comporta.
Così, ho scritto un libro agile, che possa attirare l’attenzione anche del lettore distratto, e fornire ulteriori argomenti, e una visione più ampia, a chi invece il tema già lo ha affrontato. E l’ho fatto per permettere a chiunque di cogliere i segnali di un nuovo Auschwitz, laddove ve ne fossero: perché è noto che nella storia, quando qualcosa si dimentica, prima o poi si ripete, materializzandosi all’improvviso perché nessuno ne coglie le avvisaglie.
Auschwitz, lo spiego nel libro, non è nato all’improvviso. I segnali c’erano, eccome. Auschwitz segna la conclusione di un processo iniziato meno di un decennio prima, con l’avvento al potere di Hitler in Germania – un avvento, va ricordato, democratico, attraverso libere elezioni – cui segue immediatamente l’istituzione di campi di concentramento per i dissidenti politici. E’ il primo passo: fino ad allora, i campi di concentramento erano nati solo in ambito coloniale. Adesso, vi si rinchiude chiunque non sia gradito al regime; dopo i dissidenti politici, gli emarginati sociali e poi gli ebrei.
Ma siamo ancora in una fase embrionale. Il livello sale quando si ricorre a una politica di eutanasia, verso chi il regime non ritiene degno di vivere, a cominciare da malati di mente e disabili. Gas e iniezioni letali sono gli strumenti di morte prediletti dai nazisti, ma le proteste della Chiesa tedesca li costringono a sospendere il programma. Poi però la guerra offre una copertura per i loro crimini e la spinta a esasperare la loro politica razziale, internando le razze che considerano inferiori o pericolose, ovvero slavi, ebrei e zingari.
Ogni campo di concentramento viene potenziato per fare dei deportati degli schiavi, e qualcuno viene creato appositamente per eliminarli, con gli stenti, col lavoro o col gas. Ma solo uno risponde a tutti, ma proprio tutti i requisiti: un’ex caserma dell’esercito polacco, a breve distanza da una cittadina immersa nel verde a 60 km da Cracovia, Oświęcim, in tedesco Auschwitz.
E’ qui che i vertici del Reich scelgono di investire per creare il campo perfetto, totale, che risponda a tutte le esigenze di sfruttamento della forza lavoro dei prigionieri, e di annientamento delle razze inferiori: non un campo di concentramento, quindi, ma di sterminio; un campo che metta a disposizione degli aguzzini i più svariati metodi per mettere in atto la cosiddetta “soluzione finale”.
Se gli altri campi svolgono solo alcune delle funzioni richieste dai vertici del nazismo, e in particolar modo dal capo delle SS Himmler, Auschwitz, attraverso numerosi interventi e perfezionamenti nel corso del tempo, le assolverà tutte. Gli inizi sono timidi, con una limitata portata di internati, in gran parte prigionieri di guerra sovietici, condotti allo sfinimento con lavori pesanti e condizioni insostenibili. Ed è su di loro che si compiono i primi esperimenti stanziali col gas, il famigerato Zyklon B che sostituisce il monossido di carbonio utilizzato occasionalmente altrove fino ad allora.
Quando poi la macchina è oliata, con la disponibilità di strutture concepite appositamente in un nuovo campo, Birkenau, edificate con stanzoni al piano terra o interrato dove immettere il gas e crematori a quello superiore per bruciare i cadaveri, ai sovietici si aggiungono ebrei e zingari, e l’impresa assume un carattere industriale.
Auschwitz diventa pertanto un perfetto ingranaggio di morte dove ogni fase è curata e registrata nei dettagli, gli stessi che ci hanno permesso di venirne a conoscenza; dal rastrellamento nei paesi d’origine al terribile viaggio in treno in carri bestiame, fino all’arrivo al lager, dove ciascuno percorre una sua strada verso la morte: per vecchi, bambini e tante donne è la immediata camera a gas, per altri è il lavoro forzato in condizioni disumane nelle decine di sottocampi, per altri ancora la trasformazione in cavie per gli esperimenti dei medici delle SS, o il tifo e le tante malattie contratte in condizioni igieniche devastanti.
In mezzo a quest’orrore, sono tante le storie di meschinità e redenzione, amore e odio, crudeltà e bontà, altruismo ed egoismo, eroismo e pavidità, forza e debolezza. Ciascuna di queste storie potrebbe essere raccontata in un romanzo o in un film, e in effetti in molti casi è accaduto. Non si possono raccontare tutte in un libro, ma ne bastano alcune, per arricchire la nostra sensibilità.
Salvatore Galeone -Giornalista pubblicista
Biografia breve di Salvatore Galeone –Giornalista pubblicista, community manager, appassionato di letteratura e di comunicazione social e digitale, Salvatore Galeone è laureato in Scienze della comunicazione con Laurea Magistrale in Comunicazione e Multimedialità. Nato a Taranto, vive e lavora a Milano dal 2011 e si occupa di Libreriamo, insieme al fondatore del progetto Saro Trovato, fin dal primo giorno.
Carissimo amico, io sono stata una di quelle senza capelli e senza nome, senza più forza per ricordare.
Io sono una di quelle che, attraverso i tuoi libri, ha scoperto anche se’ stessa.
Tu hai trovato le parole che cercavo: indicibile, vergogna, stupore. Tu senza odio hai fatto la cronaca anti retorica di Auschwitz.
Hai descritto quello che anch’io avevo visto, schiacciata dalla paura dalla fame e dalla solitudine.
Anni dopo una tua silenziosa lettrice, libro dopo libro. Baracche, kapò, torturatori, assassini, colori odori lingue sconosciute, fuoco e fumo nel vento di Auschwitz.
Siamo sommersi o siamo salvati? Nel numero tatuato c’è la nostra profonda identità.
Vittime?
Persone nuove, vive per caso e per questo gelose e incapaci (anche tu, anche tu) di dire l’indicibile.
Ti scrissi al tempo dell’uscita del tuo ultimo libro, ti chiesi perché io mi credevo salvata, almeno salva, se non per sempre, forse in parte.
Tu mi rispondesti che non c’era speranza per noi che avevamo visto IL MALE, che eravamo stati inghiottiti da quel male estremo.
Ma allora chi saranno i salvati? Tu avevi capito! A me sembra che resti soltanto la memoria. È vero, è sempre più difficile farsi capire dalle nuove generazioni, ma compito irrinunciabile finché avrà vita l’ultimo testimone.
Grazie amico, caro maestro! Anch’io con te non perdono e non dimentico.
La sua opera più famosa, di genere memorialistico, è Se questo è un uomo, in cui racconta le sue esperienze nel campo di concentramento nazista; il libro è considerato un classico della letteratura mondiale. Laureato in chimica, in molte sue opere appaiono riferimenti diretti e indiretti a questa branca della scienza.[4]
Primo Levi nacque a Torino – in un appartamento di Corso re Umberto 75 dove abiterà per tutta la vita[5] – il 31 luglio 1919, figlio primogenito di Cesare Levi (1878-1942) ed Ester Luzzati (1895-1991),[6] sposatisi nel 1917 e appartenenti a famiglie di origini ebraiche. I suoi antenati erano ebrei piemontesi provenienti dalla Spagna e dalla Provenza;[7] il nonno paterno era un ingegnere civile, il nonno materno un mercante di stoffe. Il padre Cesare, ebreo praticante,[8] laureato in ingegneria elettrotecnica (nel 1901) e dipendente della società Ganz, era spesso lontano dalla famiglia per ragioni di lavoro, principalmente all’estero (in particolare in Ungheria). Nondimeno esercitò sul figlio una profonda influenza, trasmettendogli gli interessi per la scienza e la letteratura (Levi raccontò che il padre gli aveva comprato un microscopio e regalato molti libri) che diverranno tratti salienti della personalità di Primo Levi, nonché elementi della sua futura produzione letteraria. Nel 1921 nacque la sorella Anna Maria, cui Levi restò molto legato per tutta la vita.[9]
Dopo le scuole elementari ricevette lezioni private per un anno; era di salute cagionevole. Nel 1930 s’iscrisse al Ginnasio D’Azeglio di Torino e successivamente, tra il 1934 e il 1935, frequentò il liceo, noto per aver annoverato negli anni precedenti tra i propri insegnanti e studenti diverse figure distintesi per la loro opposizione al regime fascista, tra cui Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Norberto Bobbio, Zino Zini e Massimo Mila. Levi era uno studente con un buon rendimento, timido e diligente, molto interessato a biologia e chimica, meno a storia e italiano; manifestò insofferenza per l’astratto sapere letterario che gli veniva insegnato. Strinse amicizia con alcuni compagni di corso (in particolare con Mario Piacenza) accomunati dall’interesse per la chimica; con altri compagni invece fondò una sorta di gruppo sportivo-fan club intitolato al corridore Luigi Beccali.[10]
Negli anni del Ginnasio fu compagno di Fernanda Pivano; nel Liceo frequentò il Corso B, solo maschile, a differenza di Fernanda Pivano che, nel corso A, ebbe come supplente di lingua italiana in Ia Liceo, Cesare Pavese;[11] Levi fu allievo di Azelia Arici, con cui rimase in contatto nel corso della sua vita e cui dedicò un necrologio pubblicato sul quotidiano La Stampa.[12] Nel corso del liceo nacque il suo amore per la montagna. Nel 1936-1937 fu uno dei redattori del numero unico del D’Azeglio sotto spirito, rivista della scuola, su cui pubblicò la sua prima poesia Voi non sapete studiare, in cui racconta le sue disavventure nel tentativo di raccogliere un erbario su indicazione della professoressa di scienze.[13] In quel periodo maturerà in Levi l’intenzione d’intraprendere una carriera nella chimica, annunciando la propria decisione in tal senso al padre nel giorno del suo sedicesimo compleanno, il 31 luglio 1935.[10]
Nel 1937, dopo essere stato rimandato in italiano a giugno, si diplomò al Liceo classico Massimo d’Azeglio, superando l’esame di maturità a settembre,[14][15] e si iscrisse al corso di laurea in chimica presso l’Università di Torino. Il padre di Primo si era iscritto di malavoglia al partito fascista. Nel novembre del 1938, entrarono in vigore in Italia le leggi razziali dopo quelle in Germania, dove già l’antisemitismo si era manifestato attraverso atti di violenza e sopraffazione. Tali leggi avevano introdotto gravi discriminazioni ai danni dei cittadini italiani che il regime fascista considerava “di razza ebraica”. Le leggi razziali ebbero un determinante influsso indiretto sul suo percorso universitario e intellettuale.
«Nella mia famiglia si accettava, con qualche insofferenza, il fascismo. Mio padre […] si era iscritto al partito di malavoglia, ma si era pur messo la camicia nera. Ed io fui balilla e poi avanguardista. Potrei dire che le leggi razziali restituirono a me, come ad altri, il libero arbitrio.[16]»
Le leggi razziali precludevano l’accesso allo studio universitario agli ebrei, ma concedevano di terminare gli studi a coloro che li avessero già intrapresi. Negli anni dell’università frequentò circoli di studenti antifascisti; leggeva Darwin, Mann, Tolstoj. Pur in regola con gli esami, a causa delle leggi razziali ebbe difficoltà a trovare un relatore per la sua tesi, finché nel 1941 si laureò con lode, con una tesi compilativa in chimica (L’inversione di Walden, relatore il professore Giacomo Ponzio[17])[18]: in realtà discusse una tesi e due sottotesi, una delle quali, in fisica sperimentale, avrebbe dovuto essere la tesi principale se agli ebrei non fosse stato impedito di svolgere ricerca in laboratorio. Il diploma di laurea riporta la precisazione «di razza ebraica».
In quel periodo suo padre si ammalò di tumore. Le conseguenti difficoltà economiche resero affannosa la ricerca di un impiego. Levi fu assunto in maniera semi-illegale da un’impresa (non appariva ufficialmente nei libri paga, pur lavorando in un laboratorio), con il compito di trovare un metodo economicamente conveniente per estrarre le tracce di nichel contenute nel materiale di scarto di una cava d’amianto presso Lanzo (l’Amiantifera di Balangero, anche se Levi, nel suo racconto Nichel, non la nomina mai). A questo periodo si fanno con probabilità risalire i primi esperimenti letterari come la poesia “Crescenzago” o il progetto di un racconto di montagna. Nel 1942, si trasferì a Milano, avendo trovato un impiego migliore presso la sede milanese, situata in via Meucci a Crescenzago, della Wander AG, una società svizzera produttrice di alimenti speciali e prodotti farmaceutici, dov’era incaricato di studiare alcuni farmaci contro il diabete. Qui Levi, assieme ad alcuni amici, venne in contatto con ambienti antifascisti militanti ed entrò nel Partito d’Azione clandestino.
La Resistenza e il campo di concentramento di Auschwitz
«Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di quello che eravamo, rimanga.»
Dopo l’8 settembre 1943 si rifugiò in montagna, unendosi a un nucleo partigiano operante in Valle d’Aosta. Il periodo di militanza fra i partigiani del Col de Joux è stato quello che Levi stesso ha giudicato un’esperienza di giovani ben intenzionati, ma sprovveduti, privi di armi e di solidi contatti, come Levi afferma in una lettera a Paolo Momigliano Levi.[19] La sua esperienza partigiana è stata oggetto di due saggi usciti a pochi mesi di distanza nel 2013 e di una dura polemica giornalistica.[n 2] Poco dopo, all’alba del 13 dicembre 1943, venne arrestato insieme a due compagni dalla milizia fascista nel villaggio di Amay, sul versante verso Saint-Vincent del Col de Joux (tra Saint-Vincent e Brusson). Interrogato, preferì dichiararsi ebreo piuttosto che partigiano e per questo fu trasferito nel campo di Fossoli,[20] presso Carpi, in provincia di Modena.
Il 22 febbraio 1944 Levi e altri 650 ebrei, donne e uomini, furono stipati su un treno merci. Nel suo vagone, racconterà, c’erano 45 persone, tra cui una madre con un neonato; viaggiarono per 5 giorni e arrivarono nella notte al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato (con il numero 174517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945.
Levi attribuì la propria sopravvivenza a una serie di incontri e coincidenze fortunate. Innanzitutto, leggendo pubblicazioni scientifiche durante i suoi studi, aveva appreso un tedesco elementare, e riusciva quindi a comprendere gli ordini impartitigli; di grande importanza fu parimenti l’incontro con Lorenzo Perrone, un civile occupato come muratore, il quale, esponendosi a un grande rischio personale, gli fece avere regolarmente del cibo. In un secondo momento, verso la fine del 1944, fu esaminato da una commissione di selezione, incaricata di reclutare chimici per la Buna, una fabbrica per la produzione di gomma sintetica di proprietà del colosso chimico tedesco IG Farben.
Insieme ad altri due prigionieri (entrambi poi deceduti durante la marcia di evacuazione) ottenne, superato l’esame, un posto presso il laboratorio della Buna, dove svolse mansioni meno faticose ed ebbe la possibilità di contrabbandare materiale con il quale effettuare transazioni per ottenere cibo. Nel far ciò, si avvalse della collaborazione di un altro prigioniero al quale fu molto legato, Alberto Dalla Volta, anch’egli italiano. Infine, nel gennaio del 1945, immediatamente prima della liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, si ammalò di scarlattina e venne ricoverato nel Ka-be (dal tedesco Krankenbau, in italiano “infermeria del campo”); i tedeschi evacuarono il campo e abbandonarono i malati, così Levi scampò fortunosamente alla marcia di evacuazione da Auschwitz, nella quale sarebbe morto Alberto. Fu uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo.
Il viaggio di ritorno in Italia, narrato nel libro di memorie La tregua, sarà lungo e travagliato. Levi fece l’infermiere per qualche mese a Katowice, in un campo sovietico di transito; a giugno iniziò il viaggio di rimpatrio, che si protrasse fino a ottobre: percorse un itinerario che dalla Russia Bianca lo condusse in patria attraverso Ucraina, Romania, Ungheria, Austria e Germania.[21]
Il ritorno e la carriera da scrittore
Giunto a Torino, si riprese dal punto di vista fisico e riallacciò i contatti con i familiari e gli amici superstiti della Shoah; trovò lavoro nella fabbrica di vernici Duco-Montecatini ad Avigliana, vicino a Torino, da cui si dimise nel 1947.
L’esperienza nel campo di concentramento lo aveva segnato profondamente: l’incubo vissuto nel lager lo spinse subito a scrivere un testo che fosse testimonianza della sua esperienza ad Auschwitz e che verrà intitolato Se questo è un uomo. Cinque capitoli dell’opera erano già stati pubblicati tra il 29 marzo e il 31 maggio 1947 ne L’amico del popolo, organo della Federazione comunista vercellese e in seguito rivisti. La pubblicazione dell’opera su questo periodico si deve all’interessamento di Silvio Ortona, amico dell’autore. Nel 1945 fu poi aggiunta la poesia Buna Lager, sempre pubblicata sul giornale. In seguito conobbe Lucia Morpurgo (1920-2009) che diventò sua moglie a settembre 1947: questo incontro, insieme al lavoro di chimico, gli permise di superare il momento più doloroso del ritorno e di dedicarsi alla stesura di Se questo è un uomo. Ne Il Sistema periodico Primo Levi definisce il suo scrivere “un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché”.[22] Nel 1947 terminò il manoscritto, ma molti editori, tra cui Einaudi, lo rifiutarono; la scelta editoriale di non accettare il testo per la pubblicazione presso Einaudi venne presa da Natalia Ginzburg, all’epoca consulente della casa editrice torinese.[23] Fu pubblicato da un piccolo editore, De Silva, a cura di Franco Antonicelli. Nonostante la buona accoglienza della critica, inclusa una recensione favorevole di Italo Calvino su l’Unità, incontrò uno scarso successo di vendita. Delle 2500 copie stampate ne furono vendute solo 1500, soprattutto a Torino.
L’opera di Levi fu uno dei primissimi memoriali di deportati ebrei nei campi di sterminio nazisti. Sette furono i deportati ebrei autori di racconti autobiografici pubblicati in Italia nei primi anni del dopoguerra: Lazzaro Levi alla fine del 1945, Giuliana Fiorentino Tedeschi, Alba Valech Capozzi, Frida Misul e Luciana Nissim Momigliano nel 1946, e infine nel 1947 Primo Levi e Liana Millu. A essi vanno aggiunti Luigi Ferri, la cui deposizione (in tedesco) è resa nell’aprile 1945 di fronte a uno dei primi tribunali chiamati a giudicare sui crimini nazisti; Sofia Schafranov, la cui testimonianza è raccolta nel 1945 in un libro-intervista di Alberto Cavaliere, e Bruno Piazza, il cui memoriale, scritto negli stessi anni, sarà però pubblicato solo nel 1956.[24] Prima di Se questo è un uomo, Levi aveva scritto con il dottor Leonardo De Benedetti,[25][26] su richiesta delle autorità russe, Rapporto su Auschwitz, il primo saggio che descriveva le condizioni sanitarie nei campi di concentramento. Levi abbandonò quindi il mondo della letteratura e si dedicò alla professione di chimico. Dopo una breve esperienza come lavoratore autonomo con un amico, trovò impiego presso la Siva, una ditta di produzione di vernici di Settimo Torinese, di cui, in seguito, assunse la direzione fino al pensionamento. Nel 1948 nacque sua figlia Lisa Lorenza, nel 1957 il figlio Renzo.
Nel 1955, una mostra sulla deportazione a Torino incontrò uno straordinario riscontro di pubblico: Levi si rese conto del grande interesse per la Shoah, soprattutto tra i giovani. Partecipò a numerosi incontri pubblici (soprattutto nelle scuole). Aveva intanto riproposto nel 1955 Se questo è un uomo a Einaudi, che decise di pubblicarlo nel giugno 1958: questa nuova edizione, con modifiche e aggiunte, in particolare la parte introduttiva dove Levi racconta il suo arresto, incontrò un successo immediato. Dal 1959 collaborò alle traduzioni delle sue opere in inglese e in tedesco: quest’ultima traduzione era particolarmente significativa per Levi (uno degli obiettivi che si era proposto scrivendo il suo romanzo era far comprendere al popolo tedesco che cosa era stato fatto in suo nome e di fargliene accettare una responsabilità almeno parziale). Incoraggiato dal successo internazionale, nel 1962, quattordici anni dopo la stesura di Se questo è un uomo, incominciò a lavorare a una nuova opera sul viaggio di ritorno da Auschwitz: quest’opera fu intitolata La tregua, scritta metodicamente (a differenza di Se questo è un uomo) e vinse la prima edizione del Premio Campiello (1963);[27] incontrò un buon successo tra la critica. Nella sua produzione letteraria successiva, prendendo spunto dalle proprie esperienze come chimico, l’osservazione della natura e l’impatto della scienza e della tecnica sulla quotidianità diventarono lo spunto per originali situazioni narrate in racconti pubblicati su Il Giorno.
In questo periodo, la sua vita è nettamente divisa in tre impegni: la fabbrica, la famiglia, la scrittura. Compì numerosi viaggi di lavoro in Germania e Inghilterra. Nel 1965 tornò ad Auschwitz per una cerimonia commemorativa.
Anni settanta e ottanta
Fece molti viaggi di lavoro in Unione Sovietica; nel 1975 decise di andare in pensione (abbandonando la direzione della fabbrica, ma restandone consulente per due anni) e di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e agli incontri nelle scuole. Nello stesso anno uscì la raccolta di racconti Il sistema periodico, in cui episodi autobiografici e racconti di fantasia vengono associati ciascuno a un elemento chimico. L’opera gli valse il Premio Prato per la Resistenza. Il 19 ottobre 2006 la Royal Institution del Regno Unito scelse quest’opera come il miglior libro di scienza mai scritto.[28]
Nel 1978 pubblicò La chiave a stella. Questa raccolta di racconti il cui protagonista è il medesimo personaggio, Libertino Faussone, rappresenta un omaggio al lavoro creativo e in particolare a quel gran numero di tecnici italiani che hanno lavorato in giro per il mondo a seguito dei grandi progetti di ingegneria civile portati avanti dall’industria italiana dell’epoca (anni sessanta e anni settanta). Nel luglio del 1979La chiave a stella vinse il premio Strega.[29] Claude Lévi-Strauss elogiò il romanzo.
Nel 1982 tornò al tema della seconda guerra mondiale, raccontando in Se non ora, quando?, le avventure picaresche di un gruppo di partigiani ebrei di origini polacche e russe che tendono imboscate ai tedeschi sul fronte orientale e giungono ad attraversare i territori del Reich sconfitto, sino a Milano, da dove alcuni prenderanno la via della Palestina per partecipare alla costruzione dello Stato di Israele. Il libro vinse nel 1982 il Premio Campiello e il Premio Viareggio.[30]
Tornò per la seconda volta ad Auschwitz, provando grande emozione. Prese posizione, con un articolo su La Repubblica, contro Israele,[31] che aveva invaso il Libano. Intraprese la traduzione de Il processo, su invito di Giulio Einaudi, e poi di due opere di Lévi-Strauss.
Nella raccolta di saggi I sommersi e i salvati (1986), prendendo spunto dai molti dialoghi con i giovani, in incontri pubblici e scambi epistolari, tornò per l’ultima volta sul tema dell’Olocausto, cercando di analizzare con distacco la sua esperienza, chiedendosi perché le persone si siano comportate in quel modo ad Auschwitz e perché alcuni siano sopravvissuti e altri no. In particolare estese la sua analisi alla “zona grigia”, come egli la definì, rappresentata da tutti coloro che a vario titolo e con varie mansioni avevano partecipato al progetto concentrazionario nazista.
«È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana […].[32]»
La morte
Primo Levi venne trovato morto l’11 aprile 1987 nell’atrio del palazzo di corso Re Umberto 75 a Torino, dove viveva. Il corpo fu rinvenuto alla base della tromba delle scale dello stabile, a seguito di una caduta. Benché l’ipotesi di gran lunga più accreditata sia quella del suicidio,[33][34][35][36] alcuni sostennero che la caduta potesse essere stata provocata dalle forti vertigini di cui Levi soffriva.[34][37]
Levi ebbe una molteplicità di interessi, perlopiù riconducibili alle aree della scienza e della letteratura, come si può constatare da L’altrui mestiere. La sua cultura scientifica si estendeva anche alla biologia: era attirato in particolare dall’etologia, e dedicò molti racconti[39] e articoli a vari animali; seguiva con passione la fisica e commentò molti degli avvenimenti scientifici del suo tempo, come l’allunaggio e il disastro di Chernobyl, si espresse sulla minaccia nucleare, e dialogò pressoché da pari a pari con il noto fisico Regge; alla chimica dedicò un’attenzione divulgativa particolare, con numerosi riferimenti alla sua esperienza lavorativa e alla vita comune. Si confrontò anche con i primi computer, imparando a usarli come editor di testo. Mostrò nei suoi scritti una cultura scientifica particolarmente profonda, che aveva contaminato anche il suo lessico e stile letterario, in cui si individuano frequenti riferimenti ad aspetti scientifici e uso comune di terminologia scientifica (come limite superiore); si focalizzò sul tentativo (ad esempio ne La chiave a stella) di rinobilitare la materia, il lavoro manuale e l’uso dei sensi, contrapposti all’erudizione astratta. Tale concretezza, aderenza alla realtà e sobrietà si riflettono nella sua attività di scrittura, che considera procedere su una linea di continuità rispetto al lavoro di chimico.
«Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più l’itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro.»
La sua opera è pertanto considerata un anello di giunzione tra cultura scientifica e cultura umanistica, la separazione tra le quali risultava assurda a Levi.[40] Egli coltivò infatti una passione amatoriale per la linguistica, mentre si cimentò professionalmente nella traduzione dal tedesco e dal francese per Einaudi. Leggeva libri classici, di scienza e di fantascienza (Darwin, Huxley, Mann, Sterne, Tolstoj, Werfel).
Levi non era religioso: «La mia è la vita di un uomo che è vissuto, e vive, senza Dio, nell’indifferenza di Dio»,[8] affermò, intervistato da Giuseppe Grieco, contrapponendosi al credente Elie Wiesel; «io, il non credente, e ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz»,[41] anche se dichiarò di provare invidia per i credenti. Dopo la terribile esperienza del lager radicalizzò il suo ateismo: «C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo»:[42] parlò di vicinanza alla posizione materialistica di Leopardi, anche in conseguenza della propria adesione alla scienza. Pur non essendo religioso, fu interessato alla cultura e alla tradizione ebraica: accettava la propria identità ebraica, ma non la fede.
Stile letterario
Lo stile letterario di Primo Levi, in Se questo è un uomo, si sviluppa in una narrazione asciutta e priva di retorica, sintetica ed esauriente quanto basta per comprendere i sentimenti e lo sfondo sociale dell’ambientazione dell’opera: stile che ben si adatta al vasto pubblico a cui Levi intende rivolgersi, in special modo nella trattazione di un argomento di estrema importanza, come quello della prigionia in un lager. Tuttavia l’opera è nutrita di una profonda conoscenza dei classici, appresa sia in Liceo sia grazie a moltissime letture personali.
Esistono differenze significative tra le varie opere, soprattutto rispetto a Se questo è un uomo. L’opera prima fu infatti composta sotto lo stimolo di testimoniare quanto vissuto, il cui ricordo era ancora molto recente all’epoca dei fatti; per le opere successive, a partire da La tregua, Levi compone i propri libri in modo molto più sistematico, dandosi precise scadenze e scrivendo regolarmente in orari prestabiliti.
Opera omnia
Opere. Volume I: Se questo è un uomo. La tregua. Il sistema periodico. I sommersi e i salvati, Collana Biblioteca dell’Orsa n. 4, Torino, Einaudi, 1987, pp. LXVII-827, ISBN978-88-06-59920-1.
Opere. Volume II: Romanzi e poesie, Collana Biblioteca dell’Orsa n. 6, Torino, Einaudi, 1988, ISBN978-88-06-59973-7.
Opere. Volume III: Racconti e saggi, Collana Biblioteca dell’Orsa n. 8, Torino, Einaudi, 1990, ISBN978-88-06-11752-8.
Opere, a cura di Marco Belpoliti, Edizione speciale per la Biblioteca di Repubblica-L’Espresso, Roma, 2009.
Opere. Volume 1: Se questo è un uomo, La tregua, Storie naturali
Opere. Volume 2: Vizio di forma, Il sistema periodico, La chiave a stella, Pagine sparse 1946- 1980
Opere. Volume 3: Lilìt e altri racconti, Se non ora, quando?, Ad ora incerta, Altre poesie, L’altrui mestiere
Opere. Volume 4: Racconti e saggi, I sommersi e i salvati, Pagine sparse (1981-1987), La ricerca delle radici
Opere complete I-II, a cura di Marco Belpoliti, Introduzione di Daniele Del Giudice, redazione di Ernesto Franco, Torino, Einaudi, 2016, ISBN978-88-06-20772-4.
Opere complete III: Conversazioni, interviste, dichiarazioni, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2018, ISBN978-88-062-3597-0.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Descrizione del film “Una volta nella vita”, per celebrare il GIORNO DELLA MEMORIA -Ispirato a una storia vera. Liceo Léon Blum di Créteil, città nella banlieue sud-est di Parigi: una scuola che è un incrocio esplosivo di etnie, confessioni religiose e conflitti sociali. Una professoressa, Anne Gueguen (Ariane Ascaride), propone alla sua classe più problematica un progetto comune: partecipare a un concorso nazionale di storia dedicato alla Resistenza e alla Deportazione. Un incontro, quello con la memoria della Shoah, che cambierà per sempre la vita degli studenti.
Bellissimo film da far vedere nelle scuole- Il film lo dovrebbero vedere anche tutti gli insegnanti.
“Bisogna ripartire dalla scuola”: Ariane Ascaride ci racconta Una volta nella vita.
Il suo volto particolare, al di fuori delle convenzioni cinematografiche, ha reso Ariane Ascaride una musa insolita per il suo compagno, il regista Robert Guédiguian. La metà della sua filmografia è segnata da questo rapporto sinergico, artistico oltre che sentimentale. Ma nel giorno della memoria esce in Italia un film in cui il marito non è coinvolto. Una volta nella vita è la storia vera – cosceneggiata da Ahmed Dramé, uno dei ragazzi che l’ha vissuta solo alcuni anni fa – di una classe apparentemente irrecuperabile di un liceo disagiato della banlieue parigina. Una professoressa, la stessa Aristide, non si arrende a darli per spacciati. Li convince pian piano a partecipare a un concorso sulla resistenza e la deportazione, indetto ogni anno dal governo francese. Occasione per guardare alla scuola in maniera positiva. Concorda l’attrice, che abbiamo incontrato qualche giorno fa a Parigi, in occasione dei Rendez-Vous di Unifrance.
“Soprattutto è una storia vera, non si può obiettare in alcun modo, è qualcosa che è accaduto. Una cosa così eccezionale che Ahmed ha voluto raccontarla. Non è stato solo un film, per me, ma un momento della mia vita.”
Le riprese immagino siano state effettuate in un clima particolare, con tutti quei ragazzi.
C’erano pochi attori, molti erano ragazzi che frequentano ancora la scuola. Si sono davvero sentiti coinvolti in questa storia. Dovevo trovare il modo giusto per relazionarmi con loro, in modo che avessero fiducia in me. Mi ha dato modo di capire quanto sia difficile fare l’insegnante, per cui ho grande ammirazione. Naturalmente giravamo solo un film, ma dovevo avvicinarli a me, stabilire un contatto in modo da rendere tutto credibile.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Una classe piena di colori, religioni, esperienze diverse, come spesso accade nelle periferie.
Sono stati straordinari. Oltretutto abbiamo girato durante il ramadan, per cui in molti passavano la giornata senza mangiare né bere. La prima settimana mi guardavano come fossi veramente una professoressa, non sapevano bene quando si girava o no. Dopo una decina di giorni, fra un ciak e l’altro, non ero un’amica, ma neanche più la professoressa; piuttosto qualcuno con cui parlare e scoprire cose che non conoscevano.
Cosa comporta per un’attrice con tanti anni di esperienza lavorare con ragazzi non professionisti?
È formidabile, ti obbliga a un grande coinvolgimento, ponendoti molti interrogativi sul tuo lavoro. Sono così veri, sono alta tensione, e non puoi che essere reale anche tu. La mattina arrivavo e li guardavo, li seguivo, poi mi comportavo come una ballerina di tango: ad azione segue reazione. Due passi avanti, uno indietro. È andata così. Abbiamo girato durante l’estate nella vera scuola, il Liceo Léon Blum a Créteil, nella banlieue parigina. I ragazzi hanno presto preso le abitudini che avevano durante l’anno scolastico, mettendosi a fare confusione e a chiacchierare durante le pause. La sola cosa che dicevo era: “se sento ancora qualcuno urlare gli metto le mani alla gola”. Ecco, questo le professoresse non possono dirlo, ma io sì.
Ha incontrato la professoressa che interpreta?
Non prima delle riprese, soltanto dopo, e siamo diventate molto amiche.
Come mai non l’ha incontrata prima?
Perché non volevo riprodurla, volevo costruire il personaggio intorno a quello che avevo letto e alla sceneggiatura. Se avessi cercato solamente di riprodurla non sarei mai riuscita a farlo, non è questo il mio lavoro; devo creare il personaggio, non riprodurlo.
Spesso sulle prime pagine si parla della scuola solo come fonte di problemi. Lei è ottimista?
Non era un vostro grande intellettuale, Gramsci, che parlava di pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà? La penso così. Se guardiamo bene il mondo viene da chiedersi come se la caveranno questi ragazzi, ma allo stesso tempo non voglio cedere a pensieri del genere. Sono pieni d’energia e di risorse, il mondo di domani è loro. Faranno delle proposte che noi neanche immaginiamo; ho una fiducia assoluta in loro, bisogna solo ascoltarli.
Lei è madre, questo l’ha portata a una maggiore identificazione con questi mesi bui, specie per i giovani?
Penso di sì. Mia figlia è stata particolarmente sconvolta dopo il 13 novembre: ha perso dei cari amici. Non voleva più uscire di casa, per lei il mondo in cui è cresciuta è finito quella notte, non vuole più avere figli. Penso che mai come oggi il ruolo di madre sia di importanza cruciale.
Non pensa che nelle grandi manifestazioni, dopo Charlie Hebdo e gli attentati di novembre, siano mancate le banlieue?
È proprio questo il problema. Nelle periferie ci sono moltissimi giovani che lavorano, superano gli esami, che vogliono integrarsi, e si integrano, all’interno della società francese. Allo stesso tempo c’è una frangia di persone in sofferenza, senza armi se non la violenza, verbale o del tipo peggiore. Sono fascisti, assassini, folli. Uccidono dei giovani con cui magari sono andati a farsi un bicchiere sei mesi prima. Giovani esattamente come loro. L’errore dello stato francese è non aver compreso come mai siano diventati così, dell’abbandono di queste persone. Non sono che il risultato delle azioni dei nostri governi, i quali, quando non c’è stato più lavoro, li ha assistiti, con il sussidio di disoccupazione, cancellando la loro identità, rendendoli una massa informe.
In fondo nel film quello che fa il suo personaggio è proprio far emergere la specificità di ogni ragazzo, riconoscerlo, senza considerare tutti come un’unica classe problematica.
È esattamente riconoscere il termine giusto, quello che non facciamo. Lo sa che i ragazzi delle banlieue hanno paura di andare sugli Champs-Élysées, non per paura degli attentati, ma anche da prima?
Pensano non sia il loro mondo. Parlo di giovani nati qui, in Francia. È falso, ma gli abbiamo così tanto fatto sentire che non è il loro mondo, che i più fragili o perduti hanno ascoltato sirene mostruose finendo per uccidere altri giovani. Per questo la scuola è fondamentale: se la scuola va male, anche la società andrà male. Se sapesse da quanto tempo dico questa cosa; fino a che non si farà uno sforzo particolare nelle scuole, aiutando i professori, non cambierà niente. Fino a che ci saranno i licei ghetto e le scuole private, senza che i ragazzi si mescolino realmente, non accadrà niente di diverso. È complicato, soprattutto considerato che noi siamo andati a cercare il loro petrolio, tracciando dei confini senza sentire il loro parere. Abbiamo fatto di tutto e preso di tutto, e ora puntiamo il dito dicendo che sono cattivi.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
La storia e l’integrazione sono aspetti importanti della sua carriera.
Da figlia di immigrati italiani posso solo dire che è molto difficile essere un’immigrata. Una frase di mio padre la conservo sempre nella mia testa: è incredibilmente duro, perché sei insultato anche vivendo in una città mista come Marsiglia. Sei meno che niente, un ladro, di qualsiasi immigrazione tu faccia parte. È terribile. Tutto questo avendo la stessa religione, immaginate i musulmani. Provo una grande ammirazione per i giovani che riescono ad uscire da tutto questo, ci vuole un coraggio inimmaginabile. Io ho imparato l’italiano, ma non da mio padre, che non ha mai voluto parlarci in quella lingua. Voleva che fossimo francese. Gli scappavano delle parole in italiano solo quando si arrabbiava.
Un’artista e una donna appassionata, Ariane Ascaride. Colpita come tutti i francesi dagli attentati di novembre, ha scritto per “Le Monde” delle parole che suonano ancora più attuali oggi, giorno della memoria, mentre le prime targhe di marmo sui fatti di Charlie Hebdo sono entrate a far parte del tessuto urbano di Parigi, e il ricordo si confonde con l’attualità. Di seguito alcune delle sue parole.
“Obblighiamo i politici a riconsiderare il loro lavoro, le loro responsabilità storiche. I nostri figli non ci hanno chiesto di venire al mondo, tutti dobbiamo loro un rispetto totale e un mondo luminoso. Facciamo ascoltare la nostra voce in modo che conoscano ancora la spensieratezza della giovinezza. Obblighiamo quelli che nelle sfere privilegiate del potere tavolta se ne dimenticano, a considerare le vere ragioni che portano un giovane a uccidere una ragazza o un ragazzo, che magari ascoltano la sua stessa musica.
Parliamo alto e forte, parliamo a quelli che pensano al mondo nella stessa maniera. Cambiamo, impariamo uno dall’altro, salviamo i nostri figli”.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
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