L’Orfeo (SV 318) è un’opera di Claudio Monteverdi (la prima in ordine di tempo) su libretto di Alessandro Striggio. Si compone di un prologo («Prosopopea della musica») e cinque atti.
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
È ascrivibile al tardo Rinascimento o all’inizio del Barocco musicale, ed è considerata il primo vero capolavoro della storia del melodramma, poiché impiega tutte le risorse fino ad allora concepite nell’arte musicale, con un uso particolarmente audace della polifonia. Basata sul mito greco di Orfeo, parla della sua discesa all’Ade, e del suo tentativo infruttuoso di riportare la sua defunta sposa Euridice alla vita terrena.
Composta nel 1607 per essere eseguita alla corte di Mantova nel periodo carnevalesco, L’Orfeo è uno dei più antichi Drammi per musica a essere tuttora rappresentati regolarmente.
Dopo l’anteprima, avvenuta all’Accademia degli Invaghiti di Mantova il 22 febbraio 1607 (con il tenore Francesco Rasi nel ruolo del titolo), la prima è stata il 24 febbraio al Palazzo Ducale di Mantova. In seguito il lavoro fu eseguito nuovamente, anche in altre città italiane, negli anni immediatamente successivi. Lo spartito venne pubblicato da Monteverdi nel 1609 e, nuovamente, nel 1615.
In seguito alla morte del compositore (1643), dopo la prima del 1647 al Palazzo del Louvre di Parigi il lavoro non venne più interpretato, e cadde nell’oblio.
Dopo la seconda guerra mondiale, le nuove versioni dell’opera iniziarono a presentare l’uso di strumenti d’epoca, per perseguire l’obiettivo di una maggiore autenticità. Vennero quindi pubblicate molte nuove registrazioni e L’Orfeo divenne via via sempre più popolare. Nel 2007 il quarto centenario della prima venne celebrato con numerose rappresentazioni in tutto il mondo. Nel 2009 va in scena alla Scala diretta da Rinaldo Alessandrini con Roberta Invernizzi, Sara Mingardo e Robert Wilson, di cui esiste un video trasmesso da Rai 5.
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
Nella partitura pubblicata Monteverdi elenca circa 41 strumenti da impiegare nell’esecuzione. Lo spartito include (oltre a monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, cori a cinque voci con basso non cifrato, ecc.) pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti da utilizzare sono a volte citati (ad esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese»).
Tuttavia, nonostante le indicazioni sulla partitura, ai musicisti dell’epoca era concessa una notevole libertà di improvvisare (questa permissività non si riscontra nei lavori più maturi di Monteverdi). Pertanto ogni rappresentazione dell’Orfeo è differente dalle altre, oltre che unica e irripetibile.
La passione di Vincenzo Gonzaga per il teatro musicale crebbe grazie ai suoi legami familiari con la corte di Firenze. Verso la fine del XVI secolo, infatti, i musicisti fiorentini più innovativi stavano sviluppando l’intermedio—una forma musicale stabilita da tempo come un interludio inserito tra gli atti dei drammi parlati— reideandolo in forme più innovative.[2] Guidati da Jacopo Corsi, questi successori della celebre Camerata Fiorentina[n 1] diedero vita al primo lavoro appartenente al genere melodrammatico: Dafne, composta da Corsi e Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598. Questo lavoro unisce in sé elementi canori madrigalistici e monodici, oltre a passi strumentali e coreografici, col fine di stabilire un unicum drammatico. Di quest’opera ci restano solo dei frammenti. Tuttavia, altri lavori fiorentini dello stesso periodo (tra cui la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, L’Euridice di Peri e quella di Giulio Caccini) sono giunti interamente fino a noi. In particolare, queste ultime due opere furono le prime dedicate al mito di Orfeo (tratto dalLe metamorfosi di Ovidio), tema che ispirerà i compositori di epoche successive fino al giorno d’oggi. In questo, furono diretti precursori de L’Orfeo di Monteverdi.[5][6]
La corte dei Gonzaga era da tempo celebre per il mecenatismo nei confronti dell’arte teatrale. Un secolo prima dell’epoca di Vincenzo Gonzaga, si rappresentò a corte il dramma lirico di Angelo PolizianoLa favola di Orfeo. Circa la metà di questo lavoro era cantata invece che parlata. In seguito, nel 1598, Monteverdi aiutò la compagnia musicale di corte a mettere in scena il dramma Il pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Mark Ringer, storico del teatro, descrive questo come un “lavoro teatrale spartiacque” che ispirò la moda italiana del dramma pastorale.[7] Il 6 ottobre 1600, durante una visita a Firenze per il matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, il duca Vincenzo assistette a una rappresentazione dell’Euridice di Peri.[6] È probabile che allo spettacolo fossero presenti anche i musicisti più importanti del duca, tra cui Monteverdi. Il duca si rese subito conto dell’originalità di questa nuova forma di intrattenimento drammatico, e del prestigio che avrebbe conferito a chi l’avesse patrocinata.[8]
Anche il giovane Striggio era un abile musicista. Nel 1589 (a 16 anni), aveva suonato la viola alla cerimonia nuziale di Ferdinando di Toscana. Assieme ai due figli più giovani del duca Vincenzo (Francesco e Fernandino), era membro dell’esclusivo circolo intellettuale mantovano: l’Accademia degli Invaghiti, che rappresentava un importante trampolino di lancio per le opere teatrali della città.[10][11]
Non si sa esattamente quando Striggio abbia iniziato la stesura del libretto, ma il lavoro era evidentemente già avviato nel gennaio del 1607.
In una lettera scritta il 5 gennaio, Francesco Gonzaga chiede a suo fratello (all’epoca vicino agli ambienti della corte fiorentina) di fargli ottenere i servigi di un abile cantante castrato (quest’ultimo impiegato nella compagnia musicale del granduca), per la rappresentazione di un dramma per musica da eseguirsi durante il carnevale mantovano.[12]
Le fonti principali impiegate da Striggio per la scrittura del libretto furono il decimo e l’undicesimo libro dalle Metamorfosi di Ovidio, e il quarto libro dalle Georgiche di Virgilio. Questi documenti gli fornirono il materiale di partenza, ma non suggerivano già la forma di un dramma completo (per esempio: i fatti narrati negli atti 1 e 2 de l’Orfeo occupano appena tredici righe nelle Metamorfosi).[13]
Il musicologo Gary Tomlinson sottolinea le numerose similarità tra i testi di Striggio e Rinuccini, evidenziando che alcuni dei discorsi contenuti ne L’Orfeo rassomigliano, come contenuto e come stile letterario, ad alcuni corrispettivi ne l’Euridice.[15]
La critica Barbara Russano Hanning fa notare come i versi di Striggio siano meno raffinati di quelli di Rinuccini, nonostante la struttura del libretto scritto da Striggio sia più interessante.[10]
Nel suo lavoro Rinuccini fu obbligato a inserire un lieto fine (il melodramma era stato pensato per le festività legate alle nozze di Maria de’ Medici). Striggio, invece, che non scriveva per una cerimonia di corte ufficiale, poté attenersi di più alla conclusione originale del mito, in cui Orfeo è ucciso e smembrato dalle Menadi (dette anche Baccanti) iraconde.[14] Scelse infatti di scrivere una versione mitigata di questo finale cruento: le Menadi minacciano di distruggere Orfeo, ma il suo vero destino, alla fine, non viene mostrato.[16]
Il libretto edito a Mantova nel 1607 (in concomitanza con la prima) presenta la conclusione ambigua ideata da Striggio. Tuttavia lo spartito monteverdiano, pubblicato a Venezia nel 1609 da Ricciardo Amadino, termina in maniera del tutto diversa, con Orfeo che ascende al cielo grazie all’intercessione di Apollo.[10]
Secondo Ringer, il finale originale di Striggio fu quasi di sicuro impiegato alla prima de l’Orfeo, ma indubbiamente (a dire del critico) Monteverdi ritenne che la nuova conclusione (quella dell’edizione dello spartito) fosse esteticamente corretta.[16]
Il musicologo Nino Pirrotta, invece, sostiene che il finale con Apollo facesse già parte della pianificazione originale della messa in scena, ma che alla prima non fosse stato messo in atto. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la spiegazione di Pirrotta, poiché la piccola stanza che ospitò l’evento non era in grado di contenere gli ingombranti macchinari teatrali richiesti da questa conclusione. Quella delle Menadi, secondo questa teoria, non sarebbe altro che una scena sostitutiva. Le intenzioni del compositore vennero ristabilite al momento della pubblicazione dello spartito.[17] Recentemente la spiegazione di Pirrotta è stata messa in discussione: l’espressione «sopra angusta scena» che si legge nella lettera di dedica di Claudio Monteverdi non indicherebbe uno spazio piccolo per la rappresentazione, ma sarebbe da opporre al «gran teatro dell’universo», cioè al più vasto pubblico raggiungibile dal compositore dopo la pubblicazione a stampa della partitura.[18]
Quando Monteverdi scrisse la musica per L’Orfeo, possedeva già un’approfondita preparazione nell’ambito della musica per teatro. Aveva infatti lavorato alla corte dei Gonzaga per sedici anni, nel corso dei quali si era occupato di varie musiche di scena (in qualità sia di interprete sia di arrangiatore). Nel 1604, per giunta, aveva scritto il ballo Gli amori di Diana ed Endimone (per il carnevale mantovano del 1604–05).[19] Gli elementi da cui egli attinse per comporre la sua prima opera di stampo melodrammatico — l’Aria, l’Aria strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli interludi musicali— non furono, come sottolineato dal direttore d’orchestra Nikolaus Harnoncourt, creati ex-novo da Monteverdi, ma fu lui che “amalgamò l’insieme delle vecchie e nuove possibilità, creando un unicum veramente moderno”.[20] Il musicologo Robert Donington scrive al riguardo: “Lo spartito non contiene elementi che non siano basati su altri già ideati in precedenza, ma raggiunge la completa maturità in questa forma artistica appena sviluppata… Vi si trovano parole espresse in musica come [i pionieri dell’opera] volevano fossero espresse; vi è musica che le esprime… con l’ispirazione totale del Genio”[21]
Monteverdi pone i requisiti orchestrali all’inizio della partitura pubblicata ma, in conformità con la pratica del tempo, non ne specifica l’utilizzo esatto.[20] A quell’epoca, infatti, era normale consentire a ogni interprete di fare scelte proprie, basate sulla manodopera orchestrale di cui disponeva. Quest’ultimo parametro poteva variare considerevolmente da un luogo a un altro. Inoltre, come fa notare Harnoncourt, gli strumentisti sarebbero stati tutti compositori e si sarebbero aspettati di collaborare creativamente a ogni esecuzione, piuttosto che eseguire alla lettera ciò che era scritto sullo spartito.[20] Un’altra pratica in voga era quella di permettere ai cantanti di abbellire le proprie arie. Monteverdi, di alcune arie (come “Possente spirito” da l’Orfeo), scrisse sia la versione semplice sia quella abbellita,[22] ma secondo Harnoncourt “è ovvio che dove non scrisse abbellimenti non voleva che essi venissero eseguiti”.[23]
Ogni atto dell’opera è collegato a un singolo elemento della storia, e si conclude con un coro. Nonostante la struttura in cinque atti, con due cambi di scenografia richiesti, è probabile che la rappresentazione de l’Orfeo abbia seguito la prassi in uso per gli spettacoli d’intrattenimento a corte, ovvero fu eseguito come un continuum, senza intervalli o calate di sipario tra i vari atti. Erano difatti in uso, all’epoca, i cambi di scenografia visibili agli occhi degli spettatori, e quest’abitudine si riflette nelle modifiche dell’organico strumentale, della tonalità e dello stile che si riscontrano nella partitura dell’Orfeo.[24]
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
Trama
La recitazione ha luogo in due posti contrastanti: i campi della Tracia (negli Atti 1, 2 e 5) e nell’Oltretomba (negli Atti 3 e 4). Una Toccata strumentale (una fioritura di trombe) precede l’entrata della Musica, rappresentante lo “spirito della musica”, che canta un prologo di cinque stanze di versi. Dopo un caloroso invito all’ascolto, La Musica dà prova delle sue abilità e talenti, dichiarando:
Detto ciò, canta un inno di lode al potere della musica, prima di introdurre il protagonista dell’opera, Orfeo, capace di incantare le belve selvatiche con la sua musica.
Atto Primo
Dopo la richiesta di silenzio dell’allegoria della Musica, il sipario si apre sul Primo Atto per rivelare una scena bucolica. Orfeo ed Euridice entrano insieme con un coro di ninfe e pastori, che recitano alla maniera del Coro greco antico, entrambi cantando a gruppi e individualmente. Un pastore annuncia che è il giorno di matrimonio della coppia; il coro risponde inizialmente con una maestosa invocazione (“Vieni, Imeneo, deh vieni”) e successivamente con una gioiosa danza (“Lasciate i monti, lasciate i fonti”). Orfeo ed Euridice cantano del loro reciproco amore prima di lasciarsi con tutto il gruppo della cerimonia matrimoniale nel tempio. Quelli rimasti sulla scena cantano un breve coro, commentando su Orfeo:
«Orfeo, di cui pur dianzi furon cibo i sospir, bevanda il pianto, oggi felice è tanto che nulla è più che da bramar gli avanzi.»
Orfeo ritorna in scena con il coro principale, elogiando le bellezze della natura. Orfeo medita poi sul suo precedente stato di infelicità, proclamando:
«Dopo ’l duol vi è più contento, Dopo ’l mal vi è più felice.»
Questa atmosfera di gioia ha termine con l’ingresso della Messaggera, che comunica che Euridice è stata colpita dal fatale morso di un serpente nell’atto di raccogliere dei fiori. Mentre la Messaggera si punisce, definendosi come colei che genera cattive situazioni, il coro esprime la sua angoscia. Orfeo, dopo avere espresso il proprio dolore e l’incredulità per quanto accaduto, comunica l’intenzione di scendere nell’Aldilà e persuadere Plutone a fare resuscitare Euridice.
Atto Terzo
Orfeo viene guidato da Speranza alle porte dell’Inferno. Dopo avere letto le iscrizioni sul cancello (“Lasciate ogni speranza, ò voi ch’entrate.”), Speranza esce di scena. Orfeo deve ora confrontarsi con il traghettatore Caronte, che si rifiuta ingiustamente di portarlo attraverso il fiume Stige. Orfeo prova dunque a convincere Caronte cantandogli invano un motivo lusinghiero. In seguito, Orfeo prende la sua lira, incantando il traghettatore Caronte, che piomba in uno stato di sonno profondo. Orfeo prende poi il controllo della barca, entrando nell’Aldilà, mentre un coro di spiriti riflette sul fatto che la natura non può difendersi dall’uomo.
Atto Quarto
Nell’Aldilà, Proserpina regina degli Inferi, viene incantata dalla voce di Orfeo, supplicando Plutone di riportare Euridice in vita. Il re dell’Ade viene convinto dalle suppliche della moglie, a condizione che Orfeo non guardi mai indietro Euridice nel ritorno sulla terraferma, cosa che la farebbe scomparire nuovamente per l’eternità. Euridice entra in scena al seguito di Orfeo, che promette che in quello stesso giorno egli giacerà sul bianco petto della moglie. Tuttavia, un dubbio comincia a sorgergli nella mente, convincendosi che Plutone, mosso dall’invidia, lo abbia ingannato. Orfeo, spinto dalla commozione, si gira distrattamente, mentre l’immagine di Euridice comincia lentamente a scomparire. Orfeo prova dunque a seguirla, ma viene attratto da una forza sconosciuta. In seguito, Orfeo spinto dalle proprie passioni a infrangere il patto con Plutone.
Atto Quinto
Tornato nei campi della Tracia, Orfeo tiene un lungo monologo in cui lamenta la sua perdita, celebra la bellezza di Euridice e decide che il suo cuore non sarà mai più trafitto dalla freccia di Cupido. Un’eco fuori scena ripete le sue frasi finali. Improvvisamente, in una nuvola, Apollo scende dal cielo e lo castiga: “Perch’a lo sdegno ed al dolor in preda così ti doni, o figlio?”. Invita Orfeo a lasciare il mondo e a unirsi a lui nei cieli, dove riconoscerà la somiglianza di Euridice nelle stelle. Orfeo risponde che sarebbe indegno non seguire il consiglio di un padre così saggio, e insieme salgono. Un coro di pastori conclude che “chi semina fra doglie, d’ogni grazia il frutto coglie”, prima che l’opera si concluda con una vigorosa moresca.
Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” :IL GIORNO DELLA MEMORIA-Tra Storia e Contro-storia-
Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” –Castelnuovo di Farfa-Il mattino a Castelnuovo, al risveglio, certe volte, mi piace prendere tempo per poi decidere se scriverò qualcosa. Ogni risveglio lo devo immaginare come il ritorno a Castelnuovo per la prima volta, cercando di pensarlo circondato da una terra sconosciuta :la Valle del Farfa. Poi prende il sopravvento il profumo del caffè e così inizio un nuovo giorno con il foglio bianco e una carovana di pensieri da trascrivere. Una collezione di immagini che pian piano si andranno, possibilmente, a sistemarsi nello spazio delle pagine non scritte. Poi uscire dalla staticità e, al terzo caffè, iniziare un viaggio negli scaffali dei libri che forse non leggerò .Muovo i libri come pedine nella scacchiera della mente , quasi sempre,poi, il desiderio di scrivere mi riporta alla scrivania. Sì, così esco dalla notte ,dai pensieri e dai disegni bui . Segni poggiati nel nulla e nel nero ma poi , pian piano, la planimetria e il progetto della pagina diventa chiaro e ben definito. E’ questo un Gennaio diverso, freddo ma con un silenzio che ricorda il momento triste della pandemia. Oggi è il GIORNO DELLA MEMORIA, e allora ecco di cosa scrivere su questo foglio bianco. Il 27 gennaio, qui a Castelnuovo, sono tutti eruditi e acculturati “storici “ .Peccato che i cosiddetti “storici” alla “castelnuovese” non ricordino perché e come iniziò l’orribile olocausto. Ma voi che vi riempite la bocca di “MEMORIA”, sì dico a voi che, con le vostre bocche piene delle parole “cultura e memoria”, gridate e vi stracciate le vostre giacchette “firmate” e continuate tutte le volte a dire e a scrivere :”Affinché non accada mai più! “. E anche oggi continuate a dirlo!E allora vi chiedo se veramente ricordate com’è iniziato l’orribile olocausto.Non certo con i campi di sterminio, non certo con i lager, non certo con le deportazioni di massa.Iniziò con l’eliminazione del dissenso, con il controllo e la paura. Iniziò con l’eugenetica. Iniziò con la divisione del popolo in categorie. Iniziò con il sospetto e la sfiducia del vicino. Voi che riempite le vostre bocche della parola “MEMORIA”, poi isolate le persone solo perché di intralcio alla vostra narrazione tesa a coprire le vostre politiche. Voi che predicate la Democrazia, siete stati i creatori del “LISTONE UNICO” , di triste memoria, oggi al “potere”. Voi isolate e cancellate la VERA STORIA CASTELNUOVESE, manovrandola e incanalandola nella direzione , a beneficio, del vostro “potere” . Credo che “la clessidra” e “il vostro tempo” si stia esaurendo, ma continuerete a cercare ogni scappatoia per galleggiare ancora per un po’. Credo che ognuno di voi avrà presto una casella che si è costruita nei “Gironi” del Nostro Castelnuovo. Concludo questa mia nota con i versi del Sommo Poeta:” E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno XXXIV, 139)”.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
Castelnuovo di Farfa :” La SMEMORIZZAZIONE” dei Giovani castelnuovesi e gli avvinazzati “AMARCOD da CANTINA” .
Castelnuovo di Farfa-A Castelnuovo è in atto una operazione di “SMEMORIZZAZIONE” . Operazione di pura barbarie porta avanti da individui “APPECORONATI” e “ACCAPEZZATI” che conducono, da sempre, una vita da servi e ascari dei vari capibastone. Questi personaggi, ahimè, sono addetti alla demolizione di Castelnuovo. Questi barbari ne distruggono la storia , le tradizioni ed esiliano, culturalmente, i nativi non graditi ai capibastone. Evidentemente questi ascari ,ed i vari sotto panza, non comprendendo che senza memoria storica le società , in particolare le piccole comunità, sono candidate all’autodistruzione se non a quella fisica: certamente a quella morale e culturale. Gli appecoronati castelnuovesi non comprendono che la storia serve certamente a conoscere il passato: ma in funzione del presente e nella prospettiva del futuro. E’ questo, a mio avviso, che sta avvenendo a Castelnuovo. La maggior parte dei giovani castelnuovesi è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale è mancato ogni tipo di rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono e non hanno radici che si nutrono dell’Orgoglio Castelnuovese. E dunque, se non è una scempiaggine, è per lo meno un’ingenuità ritenere che il passato sia passato del tutto o stia sepolto o fermo nella “teca del tempo”. Al passato, anche il più gravoso, – certo se ne abbiamo la forza e la capacità –, può essere restituita energia, fino a farne sprizzare fuori qualcosa di utile non solo per il presente ma anche per il futuro. Se tutto questo discorso vale per la storia in generale credo che sia ancor più valido per la storia locale. Voglio ricordare ai giovani castelnuovesi che la prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è ,in gran parte, un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo sarà eseguito bene allora l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato. Ma se di quell’abito dismesso,-memoria-, ci vergogniamo e lo buttiamo allora indossiamo altri abiti e questo, ahimè, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo e , quindi, noi crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altra parte ma sicuramente non a Castelnuovo allora , sicuramente, non saremo mai veri castelnuovesi.
La FONTANELLA della PIAZZETTA-Disegno di Tatiana CONCAS
CASTELNUOVO DI FARFA La FONTANELLA della PIAZZETTA
Castelnuovo di Farfa (Rieti)
nei disegni di Francesca Vanoncini-
La Fontanella della Piazzetta
Franco Leggeri –Castelnuovese
Franco Leggeri-POESIA Castelnuovo noi che siamo andati via-Biblioteca DEA SABINA
dall’introduzione Murales Castelnuvesi :“-………..E’ innegabile che la maggior parte dei morti tace. Non dice più niente. Ha – letteralmente – già detto tutto. Ho cercato di raccogliere, scrivere, un flusso tempestoso o calmo di pensieri: Emozioni che ho cercato di trasformare in poesia. Ho cercato di attraversare il confine verso la prateria della poesia, dove riposano i Castelnuovesi………..”.
Castelnuovo noi che siamo andati via.
Noi castelnuovesi che abbiamo viaggiato dietro la polvere
alzata dagli zoccoli dei cavalli del padrone.
Noi che abbiamo bevuto l’acqua del nostro fiume Farfa
e mangiato il pesce pescato in quelle Gole
maestre del nostro nuoto .
Castelnuovo , siamo andati via
seguendo la luna del mattino
tra gli sguardi nascosti dietro le finestre.
Siamo andati via cercando il sole,
il suo nascondiglio dietro Fara.
Siamo andati via , non ricordo, o non voglio ricordare la stagione
dei silenzi, madre dei nostri mille perché.
Siamo andati via noi che conoscevamo
il suono della cedra solo dal racconto dei vecchi castelnuovesi
guerrieri reduci di assurde e folli guerre in terre lontane.
Siamo andati via , noi poveri tra i poveri,
accolti da Pasolini e da Mamma Roma.
Siamo stati neorealismo e protagonisti
di pellicole in bianco e nero.
Castelnuovo, noi torniamo con le nostre cicatrici e i nostri racconti.
Noi castelnuovesi abbiamo nostalgia
dei vecchi sorrisi , di volti amici,
siamo tornati con lo zaino ancora pieno di perché.
Siamo tornati alla ricerca dei suoni e voci antiche,
quelle conservate in angoli chiusi e bui.
Siamo tornati per rileggere lapidi a noi care.
Castelnuovo, siamo tornati ora
tra sguardi estranei alle nostre cicatrici.
Eppure, Castelnuovo
noi non siamo mai andati via
perché abbiamo nelle nostre vene il tuo sangue.
Torniamo a prenderci e testimoniare quel che nessuno
potrà mai riscrivere o certificare: la nostra Storia.
La Storia quella che abbiamo lasciato
chiusa dietro le nostre vecchie porte.
Castelnuovo, si quelle porte dove aspettavamo
di uscire dietro i passi certi da seguire.
Castelnuovo, siamo tornati forti con il coraggio di terminare
l’inverno e l’amara stagione dei rancori e dell’odio.
Bertolt Brecht- Arte, riflessione e godimento estetico-Articolo di Renato Caputo
Bertolt Brecht
Bertolt Brecht, sin dai primi anni venti, ha sviluppato una poetica modernista [1] e la Neue Sachlichkeit e, più in generale, il movimento delle avanguardie storiche hanno avuto una grande importanza nello sviluppo delle sue opere giovanili, non solo dal punto di vista tecnico-formale. È, però, indispensabile analizzare da un punto di vista storico l’adesione di Brecht a questi movimenti, considerandola soprattutto in relazione a quella radicale critica dell’arte tradizionale e al bisogno di rinnovamento estetico che erano alla base della sua riflessione sull’arte. Del resto, anche limitandosi a considerare unicamente i punti di contatto relativi alla critica dell’arte e dell’estetica tradizionale, vi sono delle differenze sostanziali tra le posizioni di Brecht e quelle dei teorici più radicali delle avanguardie. Egli, infatti, non solo non intendeva limitarsi all’astratta denunzia di un mondo sempre più privo di poesia, ma riteneva necessario opporsi a tutte quelle teorie che consideravano come ormai scontata la “bancarotta dell’arte” [2]. In altri termini, Brecht non intendeva arrendersi a quello che considerava un paralizzante pessimismo, un facile scetticismo che si serviva strumentalmente della teoria hegeliana della morte dell’arte per mascherare la propria incapacità di intervento sulla realtà, la propria ignavia di fronte alla tragedia dell’arte nel mondo moderno [3]. A suo parere, infatti, non si poteva considerare definitivamente “morta” ogni forma di espressione artistica, né si doveva, di fronte a questa crisi, arrivare a negare l’importanza stessa dell’attività creativa in essa dispiegata [4]. Irreversibilmente “morta” era unicamente una determinata forma d’espressione artistica, tanto dominante da essere spesso scambiata con l’arte tout court: l’arte “ingenua”. Quell’arte, cioè, che più o meno volutamente ignora o pretende di poter ignorare la “sfida” della modernità [5].
Se gran parte dell’arte tradizionale appariva destinata a una lenta, ma irreversibile agonia, ben diverso era, a parere di Brecht, lo stadio di salute dell’arte dell’inzwischenzeit, cioè dell’espressione artistica appropriata all’epoca della morte della poesia, una rappresentazione artistica fondata su di una solida base riflessiva e “sentimentale”, nel senso schilleriano del termine. L’arte per sopravvivere nel mondo moderno, a parere di Brecht, in effetti non può rinunciare a comprendere in sé quei momenti della riflessione e della mediazione che sembrano condurre alla rovina la “spensierata immediatezza” dell’arte di un tempo. Nell’epoca moderna, la rappresentazione artistica non può più pensare di poter vivere in contrasto con il razionale, ma deve necessariamente, per quanto le è possibile, appropriarsene adattandolo alle proprie esigenze espressive.
Tuttavia, ciò non deve comportare la rinuncia a quella componente essenziale dell’arte legata ai sentimenti e all’immaginazione. A parere di Brecht, in effetti, “bisogna liberarsi da prese di posizione di battaglia del tipo «di qua la ratio» oppure «di là l’emotio». Bisogna analizzare accuratamente il rapporto tra ratio e emotio in tutta la sua contraddittorietà [6] e non si deve permettere agli avversari di presentare il teatro epico come qualcosa di esclusivamente razionale e contrario a ogni emozione. Gli «istinti» i quali, trasformati ormai in riflessi condizionati delle esperienze, sono diventati avversari dei nostri interessi. Le emozioni impantanate, a binario unico, non più controllabile dall’intelletto. Dall’altra parte la ratio emancipata dei fisici, con il suo formalismo meccanico” [7]. Brecht, quindi, avvertiva la necessità di rilegittimare il piacere estetico come momento fondamentale dell’esperienza estetica – di contro a ogni tentativo di imporre un’arte intellettualistica che ne metteva in discussione la stessa legittimità – ripensandolo, però, in vista di una sua riconnessione all’elemento etico-didattico. Il momento del godimento estetico deve, però, esser ripensato in vista di una sua riconnessione all’elemento etico-didattico, da cui troppo spesso è stato intellettualisticamente separato. In altri termini, il piacere prodotto dall’esperienza estetica non può più essere qualcosa di immediato, che prescinda del tutto dal momento della riflessione, dato che lo stesso spettatore dotato di un minimo di consapevolezza della sua funzione non aspira più a perdersi in un passivo sentire, ma vuole comprendere e giudicare.
Da questa necessità deriva la radicale critica di Brecht a quelle opere commerciali, di evasione che definiva con disprezzo “culinarie”. Ciò non significa che a esse Brecht contrapponesse un’arida e intellettualistica concezione dell’arte. Brecht ha così definito, sul suo diario, l’opera di due importanti autori della sua epoca che possono essere considerati i rappresentanti di queste opposte concezioni dell’arte: “George è privo della dimensione sensibile e la sostituisce con una raffinata arte culinaria. Anche KARL KRAUS, il rappresentante della seconda linea, è privo della dimensione sensibile perché è puramente spirituale. L’unilateralità di entrambe le linee rende sempre più difficile un giudizio. Nel caso di GEORGE si ha un soggettivismo portato agli estremi che vorrebbe presentarsi come oggettivo per il fatto che si presenta in maniera formalmente classicistica. In realtà, con tutta la sua apparente soggettività, la lirica di KRAUS è però più prossima all’oggetto, regge più cose. KRAUS è più debole di GEORGE, questo è il guaio. Altrimenti gli sarebbe tanto superiore”[8].
Di contro a queste tendenze Brecht riteneva che il compito fondamentale dell’artista consistesse “nel ricreare i figli dell’era scientifica, in maniera sensuale e in letizia. Questo non lo si ripeterà mai abbastanza, specialmente per noi tedeschi, così inclini a scivolare nell’incorporeo e nell’invisibile, per poi metterci a parlare di Weltanschauung, di visione del mondo, proprio quando il mondo non è più visibile” [9].
Articolo di Renato Caputo
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma |-
Note:
[1] L’importanza di questa poetica è testimoniata, per esempio, da quanto scriveva Brecht in riferimento alle note da lui aggiunte ai suoi drammi: “tutte queste norme teatrali, destinate a un teatro terrestre (secolarizzato), produttivo, umano e saggio, in cui l’ascoltatore è il rappresentante del «destino», non sono naturalmente solo di origine ideologicamente speculativa, ma anche dettate semplicemente dal gusto. Punti di riferimento del gusto sono gli edifici, le macchine, le forme linguistiche, le manifestazioni pubbliche ecc. di tipo moderno”. Bertolt Brecht Diario di lavoro, tr. it. di Zagari, B., Einaudi Torino 1976, p. 440.
[2] Cfr. Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1967, vol. XX, p. 129.
[3] Prima ancora che al livello teorico, questo tratto caratterizzante è individuabile nel tormentato processo di sviluppo dell’opera brechtiana. L’implacabile sarcasmo e la corrosiva ironia che animano la produzione giovanile di Brecht permettono al dolore e allo sconforto metafisico in essa preminenti di non rinchiudersi nell’angusto cerchio dei sentimenti del poeta, di non cedere a quella hybris dell’abisso, che domina nelle opere di tanti poeti espressionisti a lui contemporanei. [Sulla necessità di distinguere l’opera giovanile di Brecht dall’espressionismo resta tuttora valido il contributo di Chiarini P., Bertolt Brecht, Laterza, Bari 1959]. Il suo radicale pessimismo, infatti, non si riposa mai in un’astratta negazione assoluta, in un pavido annullamento della volontà, in un immobile e comodo intellettualismo e pessimismo cosmico. Egli condanna senza appello le passioni e le aspirazioni dell’uomo, ma solo quelle che non hanno per orizzonte la sua radicale finitezza. Egli sembra condannare la vita, interessarsi solo alla sua lenta e inesorabile decomposizione eppure, già in queste prime opere, si può cogliere un profondo amore per tutto ciò che in essa è grande e nobile. Così la maturità “epica” della sua produzione artistica viene a coincidere con la progressiva capacità di liberarsi da questo dolore, da questo profondo pessimismo, almeno quel tanto che basta a poterlo contemplare riflessivamente e, quindi, esprimere artisticamente. Un distacco che gli consente di descrivere con una oggettività tutta epica questa sofferenza, di dargli un nome, una precisa fisionomia storica sì da farne un che di finito e, quindi, di non estraneo all’orizzonte dell’uomo. In altri termini, solo elevando, dando un significato generale al suo torbido patimento giovanile, solo portando a un livello universale i suoi personalissimi sentimenti Brecht è riuscito a fondere in una ricca personalità artistica le peculiarità del suo combattivo e insaziabile spirito critico con il momento più astratto della sua Weltanschauung. Proprio in ciò sta il segreto di quella perfetta riuscita sul piano artistico che sembra spesso mancare negli scritti teorici in cui i due opposti momenti giungono di rado, solo per brevissimi momenti, a quella unificazione che comporta il potenziamento critico di entrambi.
[4] Di fronte a chi condannava in blocco come decadente quasi tutta l’arte “tardo borghese”, Brecht rispondeva con la consueta ironia: “è fuor di dubbio: la letteratura non è in fiore, ma si dovrebbe evitare di pensare facendo ricorso a vecchie metafore. Il concetto di fioritura è unilaterale. Non è lecito vincolare il valore di un’opera, la valutazione della sua forza e della sua grandezza all’idea idillica di una fioritura organica”. Brecht, B., Gesammelte…, op. cit., vol. XX, p. 26.
[5] Brecht a tal proposito osserva: “certo è chiaro che nessuno possa dubitare della rovina dell’arte se ritiene che sia vera arte quella che al giorno d’oggi viene percepita come tale” Brecht, B., Scritti teatrali a cura di Castellani, E., 3 voll., Einaudi, Torino 1975, p. 129.
[6] Prima ancora che nei suoi scritti teorici, Brecht ha dato una esemplare testimonianza di ciò nella sua produzione artistica. I due elementi essenziali di ogni opera, l’immagine e il pensiero, nei suoi lavori appaiono, infatti, inevitabilmente in contrasto, ognuno di essi sembra in grado di salvaguardare la propria esistenza solo contrapponendosi all’altro. Tutta la sua produzione è, così, attraversata e caratterizzata dalla profonda coscienza e dalla instancabile denuncia di questa dolorosa scissione, di questa piaga che tormenta il poeta, ma solo come manifestazione esemplare di quell’implacabile tormento che, in maniera spesso incosciente, travaglia ogni uomo moderno. Le sue opere non solo manifestano esemplarmente questa contraddizione, ma sono tutte intrise dal sentimento riflesso, dalla forza negativa di essa.
[7] B. Brecht, Diario…op. cit., p. 244.
[8] Ivi, p. 153.
[9] Brecht, B., Scritti teatrali, vol. II, p. 185.
Bertolt Brecht
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma |-
da “Tutte le poesie“Mondadori- dalla Rivista Avamposto
Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere. Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica».
Mi chiedi cosa vuol dire
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
Il benessere
Quanti hanno avuto ciò che non avevano:
un lavoro, una casa – ma poi
che l’ebbero ottenuto vi si chiusero.
Ancora per poco sarò tra voi.
Dal cuore del miracolo
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.
La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli istanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
GIOVANNI GIUDICI
Quando piega al termine
Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando
volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.
Ciao, Sublime
Tu, cosa della cosa
o Sublime.
Al di là della fine
e senza fine.
Senza principio
al di qua del principio.
Sublime – esser per essere.
Sublime – divenire.
Crisma dell’immanenza.
Sublime – stella fissa del durare.
Superfluità della coscienza.
Ciao, Sublime.
Ciao, Sublime.
Sublime che non si volta.
Sublime che non si ascolta.
Sublime senza prima
né ultima volta.
Io no – che sempre aspetto
il cominciare, l’apertura.
Io no – per poca fede.
Per poca paura.
Io – senza occhi per contemplarti.
Io che non ho ginocchi per adorarti.
Cosa della cosa.
Rosa della rosa.
Tu – rosa e cosa
ma senza le parole cosa e rosa.
Tu – non foglia che cresce
ma crescersi di foglia.
Tu – non mare che splende
ma splendersi del mare.
Tu – amore nell’amare.
Ciao, Sublime.
Ciao, Essere Umano semplicemente.
E io che passeggio con te.
Io che posso prenderti per mano.
Io che mi brucio di te
nel corpo, nella mente.
Maria de las angustias
Un massimo di impostura è inevitabile
Considerato quanto futile è il cuore:
Anche dalla finzione tuttavia il vero può nascere
Smascherata maschera all’incerto amore.
Egli fabbrica e notturno arzigògola
La via donde buscar el Levante:
A te sale e ti osa, Maria de las angustias,
Ti chiama presenza/assenza, essenza miracolante.
Ma tu per mano a angoli d’acque lo guidavi,
Che in ombre marezzavano le arcate discrete:
E lui con te così tortuosamente naturale
Nell’estraneità di quella quiete.
***
Maestra di enigmi
Affermate che basta una parola
E quella sola che nessuno ha –
Lei che trasvola via dalla memoria
Lucciola albale e falena
È nera spina di pena
Brùscolo a un occhio di storia –
Venisse al mio parlare
Èffeta e poi per sempre bocca muta
Al servo vostro stretto
Frugando sul sentiero
Dove non scende lume di pietà –
Se la felicità sia il nostro vero
O il nostro vero la felicità
L’amore dei vecchi
In una gloria di sole occidente
Vaneggi, mente stanca:
Inseguito prodigio non si adempie
Nell’aldiquà del fiore che s’imbianca
Ma tu, distanza, torna a ricolmarti
Tu a farti terra in questa ferma fuga
Mare di nuda promessa
Ai nostri balbettati passi tardi
E tu, voce, rimani
Persuàdici – un poco, un poco ancora
Nostro non più domani,
Usignolo dell’aurora.
Il mio delitto
Se scrivere era vivere
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un’isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto
GIOVANNI GIUDICI
Breve biografia di Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere.Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica». Dopo un breve periodo trascorso a Torino, nel 1958 è nella sede Olivetti di Milano, dove lavora come copywriter nella Direzione pubblicità e stampa. Nel 1953 pubblica la prima raccolta di versi, Fiorì d’improvviso. La vita in versi, uscito nel 1965, lo impone definitivamente all’attenzione di lettori e critici. Negli anni successivi dà alle stampe Autobiologia (1969, Premio Viareggio), O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984), Salutz (1986, Premio Librex-Guggenheim Montale), Prove del teatro (1953-1988) (1989), Fortezza (1990), Poesie (1953-1990) (1991), Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresie della sera (1999). Nel 2000 la sua opera poetica è raccolta nel Meridiano I versi della vita. Nel 2004 esce l’ultima raccolta, Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002. Muore a La Spezia il 24 maggio 2011.
Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 2014) dalla RIVISTA «Avamposto»
«Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
CONTATTI- RIVISTA «Avamposto»
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Agenzia NEV-500 anni di Anabattismo. Celebrazioni e iniziative in Italia
Roma (NEV), 21 gennaio 2025 –500 anni di Anabattismo, Il 21 gennaio 1525 nasceva a Zurigo il movimento Anabattista. Appartenente alla cosiddetta ala radicale della riforma, distinta dalla Riforma magistrale di Lutero, Calvino e Zwingli, gli anabattisti furono egualmente perseguitati da cattolici e protestanti per la loro pratica del battesimo degli adulti, o meglio dei credenti. Il loro supplizio, per tragica ironia, consisteva nell’annegamento.
500 anni di Anabattismo. Celebrazioni e iniziative in Italia
Cos’è il battesimo dei credenti? Lo abbiamo chiesto al Anabattismoautore fra l’altro della SCHEDA nev sugli Anabattisti.
Raffaele Volpe è stato Presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) e attualmente è Segretario del Dipartimento di Teologia della stessa UCEBI.
Il battesimo dei credenti è “la possibilità di rispondere sì al sì di Dio. Quindi, è la confessione pubblica della propria fede all’interno della comunità. Battesimo dei credenti indica quell’età alla quale si ha consapevolezza, comprensione della propria fede e la si può confessare. Non c’è un limite minimo o massimo” ha detto Volpe.
Anche in Italia si celebra il Cinquecentenario del movimento anabattista, proprio per iniziativa dell’UCEBI. Sul motivo per cui a festeggiare questa ricorrenza sono, in modo particolare, i battisti, Volpe ha dichiarato: “In qualche modo noi ci sentiamo nipoti di questo movimento, in cui si ritrovano molte caratteristiche che si trovano anche nei battisti: il battesimo dei credenti, come abbiamo detto, la dimensione della comunità locale, l’assenza totale di gerarchie. Quindi il battismo, anche soltanto idealmente, si riconosce nell’Anabattismo”.
Il primo appuntamento ufficiale di questo 500° anniversario è per sabato 25 gennaio, con l’incontro con il pastore Raffaele Volpe su attualità dell’anabattismo.
Curato dall’Associazione delle Chiese battiste del Nord-Est, l’incontro si terrà presso la Chiesa battista di Marghera, via Canetti 25 – via Rinascita 24, a partire dalle 15.30 (vd. volantino allegato: 25 gennaio 2025 – L’attualità dell’Anabattismo).
Il 9 marzo, un nuovo appuntamento a cura dell’Associazione lombarda delle Chiese battiste, presso la Chiesa battista di via Pinamonte a Milano, dal titolo “Ricordare per agire, agire per sperare” (vd. volantino allegato). A seguire, da aprile in poi, sono in calendario anche altri incontri in tutta Italia.
Le celebrazioni per i 500 anni del movimento anabattista coinvolgono anche avventisti e pentecostali e l’UCEBI sta lavorando insieme a loro per una sorta di “Triennio sull’anabattismo”.
Come ha spiegato Volpe, c’è “una matrice comune fra battisti, avventisti, pentecostali, chiesa dei fratelli – rappresentata in questo caso dal GBU (Gruppo biblico universitario, la casa editrice). Stiamo sviluppando questo appuntamento su tre anni, partendo proprio dal 21 gennaio. Ricorre proprio oggi quel primo battesimo, di quindici credenti, che simbolicamente rappresenta l’inizio del movimento.
La cosiddetta Confessione di Schleitheim, o “Fraterno accordo di alcuni figli di Dio riguardo a sette articoli” (1527). Immagine tratta dalla Storia dell’anabattismo vol.1 Dalle origini a Münster (1525-1535) di Ugo Gastaldi, ed. Claudiana
Fu durante un culto serale a casa di Felix Mantz, che venne poi condannato e annegato qualche anno dopo nel lago di Zurigo. Concluderemo poi ricordando la famosa confessione di Schleitheim del 1527, riflettendo sull’essere comunità che nascono e si riconoscono intorno a una confessione di fede, a un ordinamento, a un’idea di chiesa”. In collaborazione con queste altre chiese sono previsti due simposi, il cui programma è in fase di definizione.
Nel 2010 la Federazione luterana mondiale (FLM) e la chiesa mennonita, la maggiore denominazione nata dall’anabattismo ancora esistente, hanno condiviso un percorso di riconciliazione. L’Assemblea della FLM infatti votò all’unanimità un documento di richiesta di perdono, sia per le persecuzioni del Cinquecento, sia per aver sottovalutato nei secoli successivi quei fatti. Il documento era stato redatto da una commissione di studio congiunta luterano-mennonita riunitasi dal 2005 al 2009 e portò fra l’altro a modificare gli articoli della Confessione di Augusta, base dell’espressione di fede luterana, che condannavano il movimento anabattista.
Fonte-Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
Scheda curata dal pastore battista Raffaele Volpe
Raffaele Volpe è stato Presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) e attualmente è Segretario del Dipartimento di Teologia della stessa UCEBI.-Il movimento anabattista nasce nel 1525, nell’ambito di quei processi di riforma della chiesa che ebbero inizio nel 1517 a Wittenberg ad opera dell’ex-monaco Martin Lutero. Il 21 gennaio 1525, dopo un estenuante braccio di ferro con le autorità riformate di Zurigo, un gruppo di persone, perduta ogni speranza di vedere riconosciuta la loro libertà religiosa, decise di compiere un atto che Zwingli, padre della riforma di Zurigo, definì ‘la parola d’ordine di uomini sediziosi’. Quell’atto fu il battesimo dei credenti! Durante un culto serale a casa di Felix Mantz, condannato e annegato qualche anno dopo nel fiume Limmat, quindici persone ricevettero il battesimo dei credenti. L’origine del nome ‘anabattisti’, che significa ‘ribattezzatori’, è legata a questo evento battesimale e fu utilizzato in modo dispregiativo da coloro che li perseguitarono.
Qualche anno dopo, ma senza alcuna diretta relazione con gli eventi zurighesi, nacquero in Germania e nei Paesi Bassi altri movimenti anabattisti, ragion per cui è opportuno ricordare che la storia delle origini anabattiste non può limitarsi alla domanda su dove ebbe inizio questo movimento, ma deve dedicarsi allo studio delle sue origini plurali. La pluralità delle sue origini è alla base di una sua pluralità teologica che ha comportato posizioni anche antitetiche in merito a svariate questioni; ad esempio, sull’atteggiamento che la chiesa deve avere nel suo rapporto con il potere secolare, si possono identificare almeno tre posizioni: 1. Un cristiano fa parte di una realtà minoritaria e perseguitata che rifiuta l’uso della spada e non partecipa alla vita politica (i Fratelli svizzeri e gli Articoli di Schleitheim); 2. Un cristiano può partecipare alla vita politica perché un governatore cristiano governerà meglio di un governatore non cristiano (Balthasar Hubmaier); 3. Un cristiano che ha una responsabilità politica non può usare la forza della spada per difendere la chiesa (Pilgram Marpeck).
Tuttavia, le differenti posizioni, anche se in alcuni casi crearono delle divisioni, il più delle volte diedero vita a dialoghi costruttivi che produssero una forma di ‘meticciato teologico’. Il resto dell’opera, invece, fu compiuto dalla persecuzione che fu generalizzata (coinvolse luterani, riformati e cattolici) e metodica, costringendo i gruppi sopravvissuti a ritirarsi in comunità separate.
500 anni di Anabattismo
La più antica chiesa mennonita in Pennsylvania, immagine tratta da Protestantesimo nei secoli. Fonti e documenti. Vol. 1: Cinquecento e Seicento. di Emidio Campi, ed. Claudiana
Sopravvissero due rami dell’anabattismo: i mennoniti (da Menno Simons) e gli hutteriti (da Jakob Hutter) e la ragione fu preminentemente politica: i mennoniti nei Paesi Bassi e gli hutteriti in Moravia trovarono governatori più tolleranti.
Oggigiorno, quasi tutti gli hutteriti vivono nel Canada occidentale e nelle Grandi Pianure settentrionali degli Stati Uniti. Mentre i Mennoniti, la comunità più numerosa, vive soprattutto negli Stati Uniti, sulle coste caraibiche in Honduras, in Paraguay (soprattutto tra i discendenti degli immigrati tedeschi) e in Canada. In realtà, c’è un’altra comunità anabattista sopravvissuta, gli Amish (da Jakob Ammann), nati da una costola più conservatrice all’interno della comunità anabattista svizzera. La stragrande popolazione amish vive negli Stati Uniti.
La teologia anabattista nasce dall’elaborazione di un’esperienza di oppressione e di persecuzione. È una teologia di un gruppo marginalizzato e assume sia aspetti di resistenza sia toni profetici nei confronti del ‘mondo’. Questi sono i temi principali di questa teologia: 1. L’unità tra fede e vita: l’esperienza della salvezza per mezzo della grazia avviene, a livello individuale, con la nuova nascita. Qui si colgono gli intrecci essenziali tra il battesimo dei credenti, il discepolato e una vita vissuta alla luce del potere trasformativo dello Spirito alla luce di Romani 12; 2. La chiesa visibile: è nella comunità locale che il perdono, il discernimento e la responsabilità vengono amministrati come doni di Dio. Qui si colgono gli intrecci essenziali tra la condivisione dei beni, l’esperienza religiosa dell’abbandono e il senso di disciplina alla luce di Matteo 18; 3. La missione: la chiesa è discepola di Dio nel mondo, sia con l’annuncio del Vangelo sia attraverso la trasformazione dei conflitti. Qui si colgono gli intrecci essenziali tra la resistenza non violenta, l’impegno per la pace e la denuncia di forme di oppressione e di discriminazione alla luce del sermone sul monte (Matteo 5-7).scheda curata dal pastore battista Raffaele Volpe
Fonte-Servizio stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia via Firenze 38, I-00184 Roma tel. (+39) 06 4825 120 – (+39) 06 483 768
Il 15 gennaio del 1914 nasceva Etty Hillesum, la scrittrice olandese di origini ebraiche morta ad Auschwitz il 30 novembre del 1943. La pubblicazione, da parte di Adelphi, dell’edizione integrale prima del Diario e ora delle Lettere ci permette di conoscere da vicino la vita e il pensiero di questa straordinaria donna, che, quanto più la realtà intorno a lei si faceva orribile e insostenibile, tanto più seppe immergersi nella sua interiorità, scoprendone le profondità e le ricchezze ineusaribili e traendone la forza per amare chiunque incontrava.
L’incalzare della storia e della persecuzione nazista la distolsero progressivamente dai suoi amati studi, la letteratura russa e Rilke su tutti, portandola a scegliere in libertà di operare a Westerbork, il centro dove i tedeschi raccoglievano gli ebrei prima di mandarli a morire ad Auschwitz. Lei stessa, il 7 settembre del 1943, fu caricata su un convoglio diretto al lager insieme al padre, alla madre e al fratello Mischa.
Non esiste modo migliore di ricordarla, nel centenario della nascita, che leggere e meditare la sua storia, ben tramandata nei due volumi citati. È quello che vogliamo fare in questo spazio, lasciandole la parola. Ascoltiamo la sua voce, tratta dalle Lettere (Adelphi), immaginandola mentre si aggira per il campo di Westerbork a consolare e incoraggiare, senza che il sorriso si spegnesse mai sulle sue labbra.
«Arrabbiarsi ed essere scontenti non è produttivo; soffrire davvero per qualcosa è produttivo, e precisamente perché nella scontentezza, nell’arrabbiarsi c’è una passività attiva, mentre nella sofferenza c’è un’attività passiva».
«Questo momento storico, così come lo stiamo vivendo adesso, io ho la forza di sostenerlo, di portarlo tutto sulle mie spalle senza crollare soto il suo peso, e posso perfino perdonare Dio, che le cose vadano come devono andare. Il fatto è che si ha tanto amore in sé, da riuscire a perdonare Dio!!!».
«Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati».
«Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive».
«Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti. E assenza di odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più facile e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale».
«La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli che qui ti vengono quotidianamente addosso, e in questi dettagli si perde e annega. Così non tiene d’occhio le grandi linee, smarrisce la rotta e trova la vita assurda. (…) E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con l’intera famiglia».
«A ogni nuovo crimine o orrore dovremmo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo indenni a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra a guerra finita. Forse sono una donna ambiziosa, ma anch’io vorrei dire una parolina».
Articolo di Paolo Perazzolo-Fonte Famiglia Cristiana
Poeta cileno VICENTE HUIDOBRO-Poesia MONUMENTO AL MARE-
VICENTE HUIDOBRO
Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral.
MONUMENTO AL MARE
Pace sulla costellazione cantante delle acque Scontrate come gli ombri della moltitudine Pace nel mare alle onde di buona volontà Pace sulla lapide dei naufragi Pace sui tamburi dell’orgoglio e le pupille tenebrose E se io sono il traduttore delle onde Pace anche su di me.
Ecco qui lo stampo pieno di frantumi del destino Lo stampo della vendetta Con le sue frasi iraconde che si staccano dalle labbra Ecco qui lo stampo pieno di grazia Quando sei dolce e stai lì ipnotizzato dalle stelle
Ecco qui la morte inesauribile dal principio del mondo Perché un giorno nessuno se ne andrà a spasso per il tempo Nessuno lungo il tempo lastricato di pianeti defunti
Questo è il mare Il mare con le sue onde proprie Con i suoi propri sensi Il mare che cerca di rompere le sue catene Che vuole imitare l’eternità Che vuole essere polmone o nebbiolina di uccelli in pena O il giardino degli astri che pesano nel cielo Sulle tenebre che trasciniamo O che forse ci trascinano Quando volano di repente tutte le colombe della luna E si fa più oscuro dei crocevia della morte
Il mare entra nel carro funebre della notte E si allontana verso il mistero dei suoi paraggi profondi S’ode appena il rumore delle ruote E l’ala degli astri che soffrono nel cielo Questo è il mare Che saluta laggiù lontano l’eternità Che saluta gli astri dimenticati E le stelle conosciute.
Questo è il mare che si desta come il pianto di un bambino Il mare che apre gli occhi e cerca il sole con le piccole mani tremanti Il mare che spinge le onde Le sue onde che mescolano i destini
Alzati e saluta l’amore degli uomini
Ascolta le nostre risa e anche il nostro pianto Ascolta i passi di milioni di schiavi Ascolta la protesta interminabile Di quell’angoscia che si chiama uomo Ascolta il dolore millenario dei petti di carne E la speranza che rinasce dalle proprie ceneri ogni giorno.
Anche noi ti ascoltiamo Rimuginando tanti astri catturati nelle tue reti Rimuginando eternamente i secoli naufragati Anche noi ti ascoltiamo
Quando ti rigiri nel tuo letto di dolore Quando i tuoi gladiatori si battono tra di loro
Quando la tua collera fa esplodere i meridiani Oppure quando ti agiti come un gran mercato in festa Oppure quando maledici gli uomini O fingi di dormire Tremante nella tua grande ragnatela in attesa della preda.
Piangi senza sapere perché piangi E noi piangiamo credendo di sapere perché piangiamo Soffri soffri come soffrono gli uomini Che tu possa ascoltare digrignare i tuoi denti nella notte E rigirarti nel tuo letto Che l’insonnio non ti lasci placare le tue sofferenze Che i bambini prendano a sassate le tue finestre Che ti strappino i capelli Tosse tosse faccia esplodere in sangue i tuoi polmoni Che le tue molle si arrugginiscano E tu venga calpestato come cespuglio di tomba
Però sono vagabondo e ho paura che mi ascolti Ho paura delle tue vendette Dimentica le mie maledizioni e cantiamo insieme stanotte Fatti uomo ti dico come io a volte mi faccio mare Dimentica i presagi funesti Dimentica l’esplosione delle mie praterie Io ti tendo le mani come fiori Facciamo la pace ti dico Tu sei il più potente Che io stringa le tue mani nelle mie E sia la pace tra di noi
Vicino al mio cuore ti sento Quando ascolto il gemito dei tuoi violini Quando stai lì steso come il pianto di un bambino Quando sei pensieroso di fronte al cielo Quando sei dolorante tra le tue lenzuola Quando ti sento piangere dietro la mia finestra Quando piangiamo senza ragione come piangi tu.
Ecco qui il mare Il mare dove viene a scontrarsi l’odore delle città Col suo grembo pieno di barche e pesci e altre cose allegre Quelle barche che pescano sulla riva del cielo Quei pesci che ascoltano ogni raggio di luce Quelle alghe con sonni secolari E quell’onda che canta meglio delle altre
Ecco qui il mare Il mare che si distende e si afferra alle sue rive Il mare che avvolge le stelle nelle sue onde Il mare con la sua pelle martirizzata E i sussulti delle sue vene Con i suoi giorni di pace e le sue notti di isteria
E all’altro lato che c’è all’altro lato Che nascondi mare all’altro lato L’inizio della vita lungo come un serpente O l’inizio della morte più profonda di te stesso E più alta di tutti i monti Che c’è all’altro lato La millenaria volontà di fare una forma e un ritmo O il turbine eterno dei petali troncati
Ecco lì il mare Il mare spalancato Ecco lì il mare spezzato all’improvviso Affinché l’occhio veda l’inizio del mondo Ecco lì il mare Da un’onda all’altra c’è il tempo della vita Dalle sue onde al mio occhio c’è la distanza della morte.
Traduzione di Gianni Darconza per Raffaelli Editore
Breve biografia di Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral. Il creazionismo vuole fare della poesia uno strumento di creazione assoluta, in modo che i segni linguistici acquistino valore per la loro capacità di esprimere bellezza in sé e non per il loro significato sostanziale. Huidobro stesso descrisse, nella sua raccolta di saggi Manifesti, del 1925, cosa sia una poesia creata: «È una poesia nella quale ogni parte che la costituisce, e tutto l’insieme, mostra un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno, slegato da qualunque altra realtà che non sia la propria, che prende il suo posto nel mondo come fenomeno singolo, a parte, distinto dagli altri. Questa poesia è qualcosa che non può esistere se non nella testa del poeta. E non è bella perché ricorda qualcosa, perché ricorda cose viste, a loro volta belle, né perché descriva cose belle che potremmo anche vedere. È bella in sé e non ammette termini di comparazione. E nemmeno può essere concepita fuori dal libro. Niente le somiglia del mondo esterno; rende reale quel che non esiste, cioè si fa realtà a se stessa. Crea il meraviglioso e gli dà vita propria. Crea situazioni straordinarie che non potranno mai esistere nel mondo oggettivo, per cui dovranno esistere nella poesia perché esistano da qualche parte. Quando scrivo: “L’uccello fa il nido nell’arcobaleno”, si presenta un fatto nuovo, qualcosa che non avevate mai visto, che mai vedrete e che tuttavia vi piacerebbe molto vedere. Il poeta deve dire quelle cose che mai si direbbero senza di lui. Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; ci danno in ogni momento il vero sublime, quel sublime del quale i testi ci presentano esempi tanto poco convincenti. E non si tratta del sublime eccitante e grandioso, ma di un sublime senza pretese, senza terrore, che non vuole opprimere o schiacciare il lettore: un sublime da taschino. La poesia creazionista si compone di immagine create, di situazioni create, di concetti creati; non stiracchia alcun elemento della poesia tradizionale, salvo che in essa quegli elementi sono integralmente inventati, senza preoccuparsi assolutamente della loro realtà o veridicità precedenti l’atto della realizzazione».
L’inventore di libri Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo-Articolo di Alessandro Marzo Magno
L’inventore di libri Aldo Manuzio-Forse non lo sapete, ma il piccolo oggetto che avete in mano – così maneggevole, chiaramente stampato, dai caratteri eleganti, corredato da un frontespizio e da un indice – deve quasi tutto al genio di Aldo Manuzio, che cinque secoli fa ha rivoluzionato il modo di realizzare i libri e ha reso possibile il piacere di leggere. Benvenuti nel mondo del primo editore della storia.
Il libro – così come lo conosciamo ancora oggi – nasce a Venezia tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Padre di questa invenzione è Aldo Manuzio. Nato a nel Lazio, transitato per Ferrara e per Carpi, dov’era docente dei principi Pio, approda ormai quarantenne a Venezia. La città in quegli anni è l’indiscussa capitale europea della stampa e così il precettore si trasforma in editore. Pubblica inizialmente grammatiche e testi in greco necessari per apprendere la lingua classica. Poi i suoi orizzonti si allargano: nel 1501 dà vita a una vera e propria rivoluzione, quella del libro tascabile. Se prima si leggeva per necessità (e lo si faceva a voce alta), da quel momento leggere diventa un piacere a cui dedicarsi nel silenzio dell’intimità. E non finisce qui. Manuzio, con il suo amico Pietro Bembo, importa nel volgare italiano i segni di interpunzione che erano utilizzati soltanto nel greco antico: accenti, apostrofi, virgole uncinate e punto e virgola. Quando muore, nel 1515, il mondo del libro è definitivamente cambiato. Alessandro Marzo Magno ricostruisce le tappe di una straordinaria carriera, nell’unico posto al mondo dove sarebbe stata possibile: Venezia.
L’autore è Alessandro Marzo Magno,veneziano per nascita e milanese per lavoro, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e scrive nella pagina culturale del “Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese) e Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler (Garzanti 2017). Per Laterza è autore di L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020).
Edizione: 2020, III rist. 2021 Pagine: 224, ril. Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858141601 ISBN digitale: 9788858143636
L’inventore di libri Aldo Manuzio
Erasmo su Aldo-A chi con i libri lavora, di libri vive, i libri ama.
«È un’impresa erculea, per Ercole!»
Arthur Schopenhauer:”I libri sono compagni, insegnanti, maghi, banchieri dei tesori del mondo,i libri sono l’umanità stampata”.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
1.
Aldo è tra noi
Considerate quello che state facendo in questo preciso momento: avete in mano un libro e lo leggete. Con ogni probabilità siete seduti o distesi, e certamente in silenzio, ovvero non state compitando le parole a voce alta, come quando la maestra a scuola vi chiedeva di leggere per il resto della classe. State svolgendo quest’attività (leggere) perché vi dà piacere, oltre che accrescere il vostro patrimonio di conoscenze; anzi, è molto probabile che se non vi appagasse, trascurereste anche l’incremento del sapere.
L’oggetto che sta occupando la vostra attenzione è un parallelepipedo di carta del peso di qualche ettogrammo, maneggevole, dalle pagine stampate in un carattere elegante e chiaro, dove ogni tanto compare qua e là qualche parola in corsivo (per esempio i titoli dei libri, o le parole straniere). Il testo è reso più comprensibile da una serie di segni che chiamiamo di interpunzione: punti e virgola, virgole uncinate, apostrofi, accenti. Tali segni ci guidano nella lettura, ci indicano le pause nonché la loro gerarchia (il punto e virgola «vale» più della virgola), fondono tra loro due parole in modo da semplificarne la lettura, o indicano dove accentare la pronuncia, ancora una volta per facilitarci il compito.
È molto probabile che, una volta notato questo volume nello scaffale o sul bancone di una libreria, lo abbiate preso in mano sollevandone la copertina al fine di poterne guardare il frontespizio, leggerne titolo e sottotitolo e capire chi siano autore ed editore. Poi, se il titolo vi ha solleticato, avete girato qualche pagina per scorrerne l’indice e coglierne meglio il contenuto. Al che avete preso la decisione se riporlo o comprarlo, ma, visto che lo state leggendo, il libro deve aver superato l’esame e vi siete quindi avviati alla cassa.
Benvenuti nel mondo di Aldo, il primo editore della storia. Tutto quello che avete letto nelle righe appena scorse lo dovete a lui. In precedenza chi imprimeva libri era un semplice tipografo: sceglieva le opere da stampare sulla base del loro potenziale di vendita, ma senza un preciso progetto editoriale. L’attenzione alla qualità era minima, il numero dei refusi negli incunaboli – i «libri in culla», cioè stampati entro la fine del 1499 – ci parla ancor oggi di scarsa accuratezza, di composizioni tirate via, di bozze riviste senza troppo impegno. Con Manuzio cambia tutto: Aldo è davvero «l’inventore della professione dell’editore moderno, colui cioè che si avvicina ai libri avendo in mente un preciso e coerente programma culturale», come osserva Mario Infelise, storico dell’editoria e del libro all’università di Venezia, Ca’ Foscari. Manuzio ha fatto del libro «il più efficiente strumento per l’accumulo e la trasmissione delle conoscenze umane degli ultimi cinque secoli».
Lodovico Guicciardini è un nobile fiorentino che vive ad Anversa, discendente del più noto Francesco. Nel 1567 pubblica la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, nella quale, nonostante fosse scomparso ormai da un cinquantennio, si ritrova a parlare di Aldo Manuzio, «il quale a giudizio d’ognuno […] ridusse veramente la stampa a perfettione, talché non si diceva, ne cercava altro, che la stampa d’Aldo perché era tanto pura e netta. Innanzi a Aldo […] non si trovava che grosse, goffe e scorrette impressioni senza vista e senza grazia, ma egli non perdonando nulla con ingegno, e con giuditio la polì, facilitò e ridusse (come io dico) a ordine e regola perfetta».
Aldo è un uomo colto, coltissimo: conversa fluentemente in greco antico, traduce a vista dal greco al latino e viceversa, ha studiato l’ebraico. Ha in mente un ben preciso progetto editoriale: stampare i classici greci in greco. Successivamente estenderà il suo programma ai classici in latino e ai testi in volgare. La più efficace enunciazione del programma aldino è quella di un umanesimo senza confini che, anni più tardi, farà dire ad Erasmo: «Anche se la sua biblioteca è chiusa dalle anguste pareti della casa, Aldo ha intenzione di costituire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».
Aldo si era dato un piano che definire ambizioso è riduttivo: «Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto». Non si esaurisce qui, però: Manuzio è anche un attento, attentissimo, imprenditore. Sarebbe esagerato dire che si metta a stampare per i soldi, ma di sicuro con la stampa guadagna denaro: riesce a garantire una discreta agiatezza a sé e ai suoi eredi. È il primo a unire i due aspetti che dovrebbero caratterizzare un editore anche ai giorni nostri: la conoscenza culturale e la capacità imprenditoriale. Prima dell’inizio della sua attività non ci sono notizie di rapporti tra eruditi e stampatori che fossero diversi da quelli commerciali.
Manuzio, in quanto studioso che già godeva di solida fama tra i dotti, ha fatto sì che si superassero pregiudizi e incomprensioni tra gli uomini di lettere e quelli d’affari: questo ha reso possibile la rivoluzione che ha investito il mondo della tipografia e quello della cultura.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
La nascita del libro
Ora facciamo un viaggio nel tempo e immaginiamo di essere in una bottega libraria del 1493, ovvero l’anno prima che Manuzio cominci a stampare: vedremmo libri privi di quasi tutte le caratteristiche che ci sono tanto familiari – le abbiamo elencate all’inizio – se non quella di essere costituiti da carta stampata con l’inchiostro. Se invece entrassimo in quella medesima bottega una ventina di anni più tardi, ad esempio nel 1515, ovvero quando Aldo Manuzio muore, ci ritroveremmo ad avere a che fare con un oggetto riconoscibile: un libro maneggevole e stampato in modo da essere leggibile ed elegante.
Al di là di carta e inchiostro, tutto quello che caratterizza un libro come lo conosciamo noi oggi lo dobbiamo ad Aldo Manuzio. Questo signore colto e raffinato ha messo in mano ai suoi contemporanei di mezzo millennio fa un oggetto che usiamo sostanzialmente immutato ancora ai nostri giorni. E la locuzione «mettere in mano», come vedremo nel capitolo sui libri tascabili, va intesa in senso letterale.
Con Manuzio nasce un libro nuovo e diverso in tutto; la sua pagina a stampa appare ai contemporanei talmente perfetta da non far più rimpiangere gli antichi codici manoscritti. I «buoni libri» di Aldo Manuzio decretano la fine dei codici: erano trascorsi oltre mille anni dal IV secolo d.C., da quando cioè i fogli rettangolari di pergamena legati fra loro avevano preso il posto dapprima appartenuto ai rotoli di papiro.
Vedremo più avanti come Aldo introduca il bisogno di leggere e la lettura per passatempo, ma diciamo subito che a tutto questo si accompagna pure l’idea dell’interpretazione del testo, del libero arbitrio, della libertà di opinione. Elementi che oggi ci appaiono scontati: si legge un libro e lo si giudica, si decreta se sia piaciuto o meno, se sia scorrevole, noioso, piacevole, avvincente e via così. Nel XV secolo, invece, le cose stavano assai diversamente. Gli scritti erano pubblicati assieme a tutto l’apparato dei commenti, dagli antichi ai moderni, gli stampatori si sforzavano di dare sempre almeno tre-quattro commenti, intrecciati tra loro a mosaico nei margini di grandi libri in formato in folio (ovvero i volumi nei quali i fogli di carta venivano piegati solo una volta, le cui dimensioni si aggiravano almeno sui 40×26 centimetri).
Si trattava quindi di una sorta di testo accompagnato da ipertesto che di fatto impediva di elaborare un giudizio: tutto quello che ci sarebbe stato da dire era già stato detto in precedenza dagli antichi sapienti; e chi mai avrebbe osato contraddirli. Aldo fa una scelta radicale: spoglia il testo, lo pubblica integrale, nudo, senza commenti che lo circondino e lo soffochino. Ognuno sarà libero di interpretarlo come preferisce. Manuzio mette definitivamente fine alla moda del testo incorniciato dalle spiegazioni.
La novità dev’essere prorompente agli occhi dei contemporanei, un po’ come – spostandoci nell’architettura – succederà una quarantina d’anni più tardi, quando Andrea Palladio al posto di edifici di mattoni rossi, pieni di pinnacoli e arzigogoli, comincerà a costruire fabbricati di pietra bianca, lisci e squadrati. La nudità dei testi imposta da Aldo doveva provocare un effetto simile a quello ispirato dall’essenzialità degli edifici voluta da Palladio. Già fermandosi qua sarebbe evidente la portata della rivoluzione aldina. Eppure c’è dell’altro. E che altro.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il marketing
Aldo Manuzio ha avuto l’accortezza di intuire il potere della promozione commerciale e, se non si temesse di esagerare nel dipingerlo a colori troppo brillanti, si potrebbe anche dire che è stato un autentico genio della vendita di se stesso e dei propri prodotti. Ha utilizzato i mezzi che aveva a disposizione, in particolare le dediche e le prefazioni. Ai nostri occhi la dedica di un libro può apparire superflua perché alla fin fine il libro di per sé – al di là del contenuto – oggi è un prodotto comune; entriamo in una libreria e vediamo volumi a migliaia, a decine di migliaia qualora la libreria sia grande; in una biblioteca ce ne possono addirittura essere milioni, svariati milioni in alcuni casi: la biblioteca del Congresso, a Washington DC, la maggiore del mondo, possiede 28 milioni di volumi. In tante case almeno una parete è ricoperta di libri e il costo di ogni singolo testo è, nella media, abbastanza contenuto e affrontabile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Alla fine del Quattrocento, però, non era così: il libro a stampa era stato inventato una quarantina di anni prima, si trattava di una novità preziosa e ricercata, gli esemplari in circolazione erano pochi e costosi, se non costosissimi. Le dediche, quindi, servono ad Aldo per stabilire una relazione con i potenti ed è bravissimo a ottenere il risultato: nessun altro editore riuscirà a tessere una tela di rapporti a livello tanto alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo arriva a definire l’editore «familiare nostro»; Lucrezia Borgia sarà nominata sua esecutrice testamentaria e lo accoglierà a Ferrara durante la guerra di Cambrai; Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza, riceve un salterio greco con dedica. Il record delle dediche spetta ad Alberto Pio, principe di Carpi: Manuzio gli destina ben dodici edizioni (avremo modo di approfondire nelle pagine che seguono la lunga relazione tra i due).
Alla vigilia dell’erompere della guerra di Cambrai, che contrappone a Venezia una coalizione di potenze europee, quando ormai già si udivano tintinnare le spade, Manuzio intitola edizioni a importanti esponenti di entrambe le parti che si stavano per affrontare. Nel marzo 1509, due mesi prima della fatale – per i veneziani – battaglia di Agnadello, dedica un Plutarco a Jacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza, e un Orazio a Jeffroy Charles, nobile francese originario di Saluzzo nonché presidente del senato milanese (salvo un’eccezione nel 1503, queste sono le uniche dediche aldine che riguardino Milano). Un mese dopo, nell’aprile 1509, a guerra ormai dichiarata, destina Sallustio a Bartolomeo d’Alviano, vicecomandante generale delle truppe veneziane: la sola volta, questa, che indirizza un’opera a un uomo d’arme. È evidente il desiderio di costruirsi benemerenze sui due fronti; utilizzando un linguaggio odierno le si potrebbe definire dediche bipartisan, senza pensare a termini più grevi.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il ruolo delle prefazioni
Le prefazioni costituiscono il testo più importante che Aldo ci abbia lasciato; quello dove, come qualcuno ha scritto, «alterna toni gravi ad altri ironici, sfodera qualche aneddoto e battuta, lancia strali ed elogi, riflette su di sé e sul mondo, e in tal modo ci cattura». Gli esordi diventano il mezzo per comunicare con i lettori, per ingraziarseli: «Sii clemente quando trovi qualche sbaglio», oppure «Per ora, mancando vasi d’oro e d’argento, accontentiamoci, come suol dirsi, di quelli di coccio». Le prefazioni costituiscono il manifesto ideologico aldino, il luogo dove Manuzio proclama la propria idea di conoscenza come bene comune: «Si impicchino» quelli che tengono i libri nascosti a casa, «d’animo così basso da affliggersi per un bene fornito a tutti». Aldo è un precursore: il concetto che la cultura debba essere a disposizione di chiunque si farà strada soltanto ai tempi della rivoluzione francese.
L’editore usa le prefazioni anche per creare l’effetto attesa: «Pubblicheremo altresì tutti i matematici» (1497), «Aspettatevi in breve un Dante» (1501). Inventa un modello di prologo affettuoso e diretto, dove affiora il valore dell’amicizia umana: «Il grande affetto che ti porto», scrive a Girolamo Aleandro (1504), cardinale e umanista originario di Motta di Livenza, nel Trevigiano. «Io vorrei poter sempre stare con te, vivere con te», dice a Marin Sanudo (1502), patrizio e autore dei Diarii. Si tratta di una cronaca giornaliera di Venezia cominciata nel 1496 e terminata nel 1533, tre anni prima della morte: 58 volumi in 37 anni, la più importante fonte storica della Venezia di fine XV e inizio XVI secolo. Lo incontreremo ancora, Sanudo, perché amico di Aldo e anche in quanto proprietario di una delle più importanti biblioteche cittadine dell’epoca.
La fama delle raccolte librarie veneziane del tempo è tale da richiamare visitatori di grande prestigio: nel 1490 arriva a Venezia Giano Lascaris, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de’ Medici. Lascaris visita le biblioteche di Ermolao Barbaro, erede dell’umanesimo avviato dal Petrarca e maestro della generazione di Erasmo; di Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia, acquistandovi manoscritti di pregio; e pure quella di Gioachino Torriano, priore del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo (lo stesso dove vive Francesco Colonna, il frate ritenuto autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, di cui diremo ampiamente), che aveva acquistato manoscritti provenienti dalla biblioteca di Mattia Corvino, il sovrano ungherese morto nel 1490. Anche i codici di Bessarione vengono dal 1494 provvisoriamente depositati a San Zanipòlo, come i veneziani chiamano i santi Giovanni e Paolo, e Torriano sarebbe stato molto contento di trasformare da temporaneo a definitivo il deposito del fondo nella propria biblioteca. Il cardinale Bessarione è il dotto umanista greco che nel 1468, quattro anni prima della morte, dona alla repubblica di Venezia i manoscritti bizantini che costituiscono il nucleo fondativo dell’attuale Biblioteca nazionale Marciana.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il catalogo
Oggi ci appare tutto sommato ovvio consultare il catalogo di una casa editrice, ma anche di questo dobbiamo essere grati a Manuzio. Aldo pubblica il primo elenco di edizioni nel 1498 e vi enumera soltanto le opere greche – in quel momento evidentemente costituivano quel che davvero gli interessasse – salvo sporadiche eccezioni, tra le quali il De Aetna che con ogni probabilità aveva stampato per amicizia e gratitudine verso l’autore, Pietro Bembo, o le composizioni latine di un altro amico, Angelo Poliziano, impresse in un massiccio in folio che riunisce gli scritti inediti dell’umanista fiorentino. Sono presenti quindici titoli ripartiti in otto sezioni tematiche; la più affollata è quella delle grammatiche, con cinque opere.
Il secondo catalogo, del giugno 1503, distingue tra libri greci, latini e «portatili in forma di enchiridio», ossia i tascabili (che vedremo più avanti); il terzo e ultimo risale al novembre 1513 e non contiene, come invece i precedenti, l’annuncio di futuri libri. I primi due cataloghi riportano anche i prezzi minimi: non sappiamo se i cartolai – i rivenditori di libri – li rispettassero o se invece vendessero i volumi più cari. Un indizio tuttavia ci arriva da Siviglia, grazie alla biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo, diventata una delle più importanti della prima metà del XVI secolo in virtù dei 15 mila libri che conteneva.
Colombo junior doveva essere pignolo, infatti per la maggior parte delle opere ha annotato data, luogo e prezzo dell’acquisto, con il costo sempre convertito in moneta spagnola, cosa che ci rende possibili i raffronti. Delle ventisei aldine comperate in luoghi diversi, quattordici registrano il medesimo costo annotato nei cataloghi manuziani, di dieci conosciamo soltanto il prezzo pagato da Colombo, di due non abbiamo informazioni.
Un’ulteriore idea ce la possiamo fare anche utilizzando il Zornale di Francesco de Madiis, ovvero il resoconto quotidiano della vendita in una bottega veneziana di 25 mila libri tra il maggio 1484 e il gennaio 1488, ognuno registrato con titolo e prezzo. Il manoscritto, un documento di eccezionale valore, è conservato nella biblioteca Marciana. L’elenco termina sei anni prima che Manuzio cominci a stampare e si riferisce a volumi molto diversi fra loro, ma gli studiosi di storia del libro hanno calcolato il costo per singolo foglio stampato in modo da ottenere un valore coerente.
Visto che in quei tempi i prezzi avevano andamenti piuttosto stabili, è possibile effettuare un comparazione tra il costo per foglio delle aldine e delle edizioni del Zornale. Quest’ultimo oscilla tra i 5 e i 10 denari, con punte più alte in caso di formati che utilizzano carta più pregiata. Il costo per foglio delle aldine di grande formato è simile; aumenta invece vertiginosamente nel caso dei tascabili: quelli stampati in greco sono ovviamente più cari e vanno dai 20 agli oltre 30 denari a foglio, mentre nel caso del latino e del volgare italiano si va dagli 11 agli oltre 13 denari a foglio. Questo smentisce una volta per tutte il mito – più volte ripetuto in vari studi del passato – che i tascabili di Aldo fossero a buon mercato, anche se, ovviamente, un volumetto di qualche decina di fogli aveva un costo unitario di molto inferiore rispetto a un volumone composto da centinaia di carte. In ogni caso possiamo concludere che Manuzio sapeva fare assai bene i conti e che le sue edizioni mantenevano una buona valutazione, anche a distanza di anni dall’uscita, cosa non sempre riscontrabile con le opere stampate da altri editori.
L’indice
Ora veniamo a un’ulteriore eredità aldina, a un altro elemento che ai nostri giorni appare connaturato al libro stesso, ma che nei tempi in cui stava nascendo l’editoria moderna non lo era affatto: l’indice. Gli incunaboli non l’avevano e neppure avevano le pagine numerate; al massimo, ma non sempre, erano numerate le carte, o fogli, tanto che oggi per orizzontarci siamo costretti a distinguerle in r (recto) e v (verso). Ci si arrangiava con il fai da te: ognuno, qualora ne sentisse il bisogno, apponeva a mano i numeri ai fogli e si autocompilava un indice di ciò che lo interessava. Poliziano, tanto per fare un nome significativo, era uno di quelli che si facevano gli indici da soli.
Manuzio – mai dimenticarlo – era un maestro e per chi insegna è importante poter individuare un punto preciso all’interno della massa del testo. La stampa, poi, introduce nuove e sconosciute problematiche: gli errori di stampa, tanto per dirne una. Lo sbaglio nella trascrizione commesso da un copista veniva perpetuato nei manoscritti successivi, spesso senza possibilità di riscontro. Un refuso, invece, si moltiplica subito per le centinaia di copie della tiratura. Gli stampatori del rinascimento, quando scoprivano errori in fase di stampa, invece di correggere i fogli difettosi – la carta era costosa – si accontentavano di ritoccare gli esemplari successivi, con il risultato che le copie differiscono in numerosi particolari. In qualche caso l’omissione di parole poteva essere sanata con una correzione a mano in ciascuna copia: alcuni volumi dei Salmi, editi attorno al 1498 sono stati corretti così, probabilmente dallo stesso Aldo. Più in generale interviene una nuova esigenza: fornire una lista di errata con le relative correzioni, nonché con l’esatto punto del libro in cui inserirle; e l’indice, ovviamente, aiuta.
Comprensibile, quindi, quale importanza avessero le errata, e Aldo già nel primo volume che stampa, una grammatica greca (Erotemata, 1495), aggiunge alla fine un foglio di errata. Si capisce subito dove voglia andare a parare: inizia ora una serie di tentativi, di esperimenti di indicizzazione che proseguiranno per tutto il ventennio di attività.
L’indicazione di Manuzio contiene una novità rispetto alle errata che l’avevano preceduta: rinvia alla riga precisa dove apporre la correzione. Il sistema di rimandi risulta in ogni caso complicato perché le pagine sono prive di numero. Ed ecco che nel 1499 Aldo, per la prima volta, inserisce una rivoluzionaria numerazione per pagina. Per pagina, non per carte: in questo modo ogni singola facciata del foglio porta il numero che la contraddistingue. L’innovazione riguarda un enorme in folio di 642 pagine, non a caso un repertorio della lingua latina (Cornucopiae, di Niccolò Perotti). Manuzio aggiunge anche una numerazione riga per riga, cosicché nell’indice riporta due numeri: il primo rimanda alla pagina, il secondo alla riga. Un sistema molto più efficace e preciso rispetto a quello che utilizziamo noi oggi, anche se ovviamente più macchinoso (e costoso).
Aldo si rende ben conto dell’enorme portata del mutamento e infatti lo annuncia orgogliosamente nel frontespizio, chiamandolo «indice abbondantissimo». Grazie a tale sistema si riesce a individuare con un semplice sguardo il punto cercato, non occorre contare una per una né le pagine né le righe. L’editore fornisce anche le istruzioni: «Abbiamo fatto allestire l’indice unendo insieme il greco e il latino. Ma non ti sfugga, lettore carissimo, che puoi separare del tutto agevolmente il latino dal greco a tuo piacimento».
La novità, tuttavia, non viene usata in maniera continuativa, per esempio le prime edizioni tascabili non presentano le pagine numerate, tanto che parecchie copie giunte fino a noi riportano i numeri aggiunti a mano dai rispettivi proprietari. Aldo numera più spesso le edizioni greche rispetto a quelle latine o volgari, talvolta usa cifre arabe, talaltra romane; in alcuni casi elabora indici assai macchinosi, come quello degli Adagia di Erasmo che l’autore ritiene necessario riformulare e semplificare nelle edizioni successive, stampate a Basilea. Soltanto dal 1509 la numerazione per pagina viene inserita con regolarità, anche nei tascabili, sebbene alcune edizioni continuino a essere numerate soltanto per carta. Quello che per Aldo resta un continuo sperimentare, per i successori diventa una regola da seguire fedelmente: in tal modo è stato compiuto un ulteriore, decisivo, passo verso il libro moderno. Anche il frontespizio, sperimentato a Venezia dal tipografo tedesco Erhard Ratdolt, diventa una presenza regolare nei libri impressi nell’officina aldina.
A questo punto dovrebbe essere chiara la portata della rivoluzione manuziana e quale sia stata la sua impronta in grado di segnare per sempre il mondo del libro. In qualche modo siamo tutti figli di Aldo, anche se spesso a nostra insaputa. Nei prossimi capitoli entreremo maggiormente nei dettagli di questa rivoluzione, ma prima dobbiamo renderci conto che un cambiamento di tale portata sarebbe potuto avvenire nell’Europa del rinascimento soltanto in un luogo: Venezia.
La capitale del libro
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia e a Venezia comincia a stampare. Non conosciamo le ragioni che lo abbiano spinto né all’una né all’altra scelta, ma sappiamo benissimo che soltanto lì sarebbe potuto diventare il primo editore della storia. La Serenissima signoria è una repubblica e quindi Venezia è l’unica capitale europea priva di una corte, con tutte le sue limitazioni; inoltre è la città che trasforma il sapere in un prodotto commerciale non diverso da un sacco di pepe, come rileva acidamente un umanista che certo non la amava.
Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino ad arrivare a quasi la metà dei titoli europei. Nel sessantennio che trascorre dal 1465, anno dell’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, al 1525, a Venezia si stampa la metà dei libri italiani; dal 1525 al 1550 si arriva ai tre quarti, dal 1550 al 1575 a due terzi. La crescita è talmente impetuosa da far dire a Erasmo che è più facile diventare stampatore che fornaio, ma non può mancare pure il solito lamentoso, un tipografo che se la prende per «la perfida rabia de la concorrentia consueta fra questa miserabil arte».
Vittore Branca, filologo e per tanti anni docente di letteratura italiana a Padova, scriveva che «le tipografie rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa “via del libro”, quasi a sostituire – almeno in parte – la ormai disastrata “via delle spezie” (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità)». Le quattromila edizioni di incunaboli che vedono la luce a Venezia entro la fine del XV secolo sono il doppio di quelle parigine; nel biennio 1495-1497 – ovvero quando Aldo aveva già aperto la propria tipografia – si stampano in Europa 1821 opere: 447 provengono da Venezia, mentre solo 181 da Parigi, che si colloca in questa classifica al secondo posto.
A permettere l’esplosione dell’attività editoriale è paradossalmente proprio la morte di chi ha introdotto nel 1469 la stampa a Venezia, ovvero il tedesco Giovanni da Spira (o meglio, se vogliamo rendere onore ai suoi natali, Johannes von Speyer). Un anno dopo aver stampato il secondo libro, Plinio, e mentre sta preparando il terzo, sant’Agostino, muore. Il lavoro viene terminato dal fratello Vindelino, ma scomparso Giovanni non è più valido il privilegio che gli accordava il monopolio dell’esercizio della tipografia: da quel momento in poi chiunque lo voglia può mettersi a stampare. Così accade.
Nella prima metà del Cinquecento la Dominante è sì l’indiscussa capitale europea della produzione editoriale, ma contemporaneamente anche un primario centro di consumo: possiedono libri il 15 per cento dei nuclei familiari, i due terzi del clero, il 40 per cento dei borghesi, il 23 per cento dei nobili, il 5 per cento dei popolani; vi si ritrovano alcune delle biblioteche più importanti dell’epoca: il cardinale Domenico Grimani possiede 15 mila volumi, Marin Sanudo 6500; Ermolao Barbaro, bandito da Venezia nel 1491 dopo aver accettato il patriarcato di Aquileia e morto nel 1493, aveva radunato la più ricca tra le numerose biblioteche greche. Non basta: nel 1537 Jacopo Sansovino comincia i lavori per realizzare la Pubblica libreria, ovvero la prima biblioteca statale pubblica (nel senso che viene concepita non come raccolta riservata, ma per essere usufruita dal pubblico), destinata a diventare l’attuale Marciana.
Questa esplosione dell’editoria avviene per un insieme di motivi che vanno dall’ampia liquidità finanziaria a coraggiose scelte commerciali, dalla libertà di stampa a quello che oggi chiameremmo «risorse umane». Nella seconda metà del XV secolo si liberano capitali: i patrizi smettono di investire nel commercio internazionale e si rivolgono altrove, in primo luogo all’acquisto di appezzamenti agricoli nella neoacquisita terraferma veneta, ma non disdegnano di finanziare attività produttive, e fra queste si ritrova anche l’editoria.
Stampare libri è un’impresa ad alta intensità di capitale, soprattutto a causa del notevole costo dei metalli necessari a realizzare i punzoni (acciaio) e i caratteri (lega di piombo, stagno e antimonio). I libri sono beni che viaggiano assieme agli altri lungo le direttrici commerciali che la repubblica aveva già da tempo stabilito e quei traffici sono molto intensi poiché a Venezia si stampa in una molteplicità di lingue.
Approfittando del contrasto tra la Serenissima e il pontefice, e dell’assenza per alcuni decenni dell’Inquisizione romana, le tipografie della Dominante imprimono anche libri – in anni successivi al capostipite dei Manuzio – invisi alle gerarchie ecclesiastiche: testi dei riformati tedeschi e boemi, il primo libro pornografico della storia (Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, 1527), il Talmud che, non a caso, sarà protagonista del primo grande rogo di libri in piazza San Marco, nell’ottobre 1553, comunicato in tempo reale a papa Giulio III dal nunzio apostolico, Lodovico Beccadelli: «Questa mattina s’è fatto un buon fuoco su la piazza di San Marco». A Venezia, infine, si ritrova al completo tutta quella che oggi si definirebbe «filiera del libro»: incisori, rilegatori, inchiostratori, torcolieri, studenti dell’università di Padova disponibili a correggere bozze e, soprattutto, si ha grande disponibilità di carta.
Per produrre carta c’è bisogno di tanta acqua dolce, corrente e pulita (altrimenti la carta vien fuori giallastra), e ovviamente non la si poteva fabbricare in città, ma lo si faceva nello stato da tera: lungo i fiumi Brenta e Piave, nonché sul lago di Garda, e quegli stessi fiumi venivano anche utilizzati come arterie di trasporto per trasferire la medesima carta che avevano contribuito a generare.
A determinare l’alta domanda di libri contribuiscono in maniera decisiva il vicino ateneo di Padova, dove i sudditi della Serenissima sono obbligati a studiare qualora vogliano laurearsi, e le due scuole pubbliche veneziane, dove si formano i giovani destinati all’amministrazione dello Stato, siano patrizi oppure appartenenti all’ordine intermedio dei cittadini, che forniva la burocrazia statale. Si tratta della scuola di San Marco, dove si approfondiscono gli studi umanistici e morali, e della scuola di Rialto, di indirizzo filosofico, naturalistico e matematico.
Gli stranieri
Nel Quattrocento il centro della vendita dei manoscritti era stato Firenze. La città toscana era anche il cuore finanziario dell’Italia rinascimentale, quindi, in teoria, ci sarebbe dovuta essere più disponibilità di capitali in riva all’Arno che sulle sponde del Canal Grande. Ma Firenze era sempre rimasta una città di fiorentini, al massimo di toscani. Venezia invece era da tempo diventata una città di stranieri. A parte i patrizi, che per forza di cose erano locali, la Dominante ospitava un gran numero di immigrati. Non a caso Girolamo Priuli, cronista dei primi anni del Cinquecento, scriveva che in piazza San Marco si vedevano i nobili incaricati del governo, mentre «tuto il resto herano forestieri et pochissimi venetiani». Persino in un mestiere tradizionale come quello del gondoliere, i veneziani assommavano appena alla metà dei nomi presenti in un elenco di fine XV secolo: gli altri barcaioli provenivano dalla terraferma (molti dalla sponda bresciana del lago di Garda) o dalla Dalmazia.
Il settore editoriale non fa eccezione: quasi tutti gli stampatori, in questo periodo, sono immigrati, sia dall’Italia – Aldo Manuzio tra loro – sia dall’estero, come il già nominato tedesco Giovanni da Spira o il francese Nicolas Jenson, che gli succede. Tra l’altro, a conferma del prestigio e dell’agiatezza che dà la professione di stampatore, Giovanni da Spira sposa madonna Paola, figlia di Antonello da Messina, che era uno dei pittori più affermati e famosi dell’epoca.
In città sono presenti comunità strutturate, alcune di queste lo sono ancora ai nostri giorni, con propri luoghi di culto e confraternite: greci, armeni, ebrei, tedeschi, dalmati. Questo significa che nella Venezia quattro-cinquecentesca si possono trovare colti madrelingua in grado di comporre e correggere testi in quasi tutti gli idiomi all’epoca più diffusi, e questo spiega perché qui si stampi il primo libro in greco (1486), in armeno (1512), in cirillico bosniaco (1512), il secondo in glagolitico, l’antico alfabeto croato (1491), il terzo libro in ceco (1506). Dai torchi veneziani escono inoltre la prima Bibbia in volgare italiano (1471), la prima Bibbia rabbinica (1517), il primo Corano in arabo (1538), la prima traduzione del Corano in italiano (1547). La città rimane per secoli il centro mondiale della stampa greca, ebraica, serba, caramanlidica (lingua turca scritta con caratteri greci, oggi scomparsa), nonché armena, in quest’ultimo caso addirittura fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’indipendenza della repubblica d’Armenia, nel 1990.
Questa è la Venezia dove approda Aldo Manuzio prima di iniziare la sua avventura di stampatore. Ha scritto Cesare De Michelis, editore veneziano scomparso nel 2018: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra e si incontrarono, anche se la storia del loro rapporto è tutt’altro che idillica, anzi appassionante e ricca di colpi di scena, esaltata e disperante, in perenne tensione».
Ora facciamo gli indiscreti, e andiamo a scoprirla, quella storia d’amore.
2.
La formazione di un umanista
Bassiano è uno splendido borgo medievale del Lazio, sui monti Lepini, a un’ottantina di chilometri a sud di Roma. In quella zona transita la via Appia e oggi Bassiano si trova in provincia di Latina. Nel passato faceva però parte del ducato di Sermoneta, retto dai Caetani; Roffredo, l’ultimo discendente di quel ramo della nobile famiglia, è morto nel 1961. Bonifacio VIII, il papa scaraventato all’inferno da Dante Alighieri, era un Caetani.
Il castello dei duchi è a Sermoneta, ma d’estate i Caetani, che di loro sarebbero stati principi, se ne andavano in quel di Bassiano, e il perché è presto detto: il paese si trova a 560 metri di altitudine, tutto circondato da alture; la sera si gode un bel fresco, ma, soprattutto, sta fuori dal raggio di azione delle pericolose zanzare anofeli, portatrici di malaria. I principi non vivevano proprio in un castello, ma in un massiccio palazzone, che faceva comunque una gran figura, e oggi è sede del municipio. Proprio negli anni in cui il suo figlio più illustre, Aldo Manuzio, faceva l’editore a Venezia, Bassiano passa sotto il controllo dei Borgia per un quinquennio, dal 1499 al 1504, ma poi tornano i Caetani, che lo governano ininterrottamente fino a inizio Ottocento.
Sermoneta è pure un bel posto, la sua cattedrale romanica costituisce un autentico gioiello, ma si trova più in basso rispetto a Bassiano, 230 metri sul livello del mare, e si affaccia direttamente sulla pianura pontina. Oggi lo sguardo arriva ad abbracciare il mare, giù fino ad Anzio e Nettuno, e qualche anziano si ricorda ancora la luminosa e tersa giornata del 22 gennaio 1944, quando la superficie marina spumeggiava per le scie dei mezzi da sbarco alleati. Per secoli, però, quella piana era stata tutta palude, e d’estate le anofeli potevano raggiungere anche la coreografica Sermoneta, mentre Bassiano ne rimaneva esente.
Un tempo il portone di Palazzo Caetani costituiva l’unico accesso all’abitato di Bassiano, interamente circondato da mura trecentesche sorvegliate da dieci torrioni. Mura che sono state forate in tempi più recenti per fare spazio a tre porte cittadine. Le strade, selciate in porfido, hanno un andamento a spirale, gli edifici, oggi purtroppo in gran parte abbandonati, conservano quasi tutti l’originario aspetto medievale; alcuni stretti vicoli – il più angusto di tutti si chiama Baciadonne, un nome un programma – tagliano longitudinalmente l’abitato congiungendone i vari livelli. Da Bassiano non si scorge la pianura, mentre un fianco dell’abitato è dominato dal monte Semprevisa che, con i suoi 1536 metri, è il più alto dei Lepini.
Qui, attorno al 1450, nasce Aldo Manuzio. Una lapide indica oggi la sua casa. Peccato che sia un «tarocco»: l’edificio risale al Sei-Settecento e quindi di sicuro il futuro editore non può essere nato lì. La casa dei Manuzio quasi certamente esiste ancora, poiché il borgo è sopravvissuto intatto, ma non abbiamo idea di quale possa essere.
Sappiamo pochissimo della famiglia di Aldo e niente della sua infanzia. Un atto rogato dal notaio Antonio Tuzi il 30 dicembre 1449 ci dice che tal Paolo di Manduzio di Bassiano vende un appezzamento di terra all’ebreo Abramo di Mosè. Nel più antico manoscritto aldino che ci sia pervenuto, un documento redatto tra il 1480 e il 1486, conservato nella biblioteca Querini Stampalia di Venezia, compare la firma Aldus Manducius (nella forma al genitivo Alti Manducii). Nessun dubbio, quindi, che proprio quello fosse il cognome originario dell’umanista, che in seguito si firmerà Mannuccius, quindi Manucius (dal 1493) e infine Manutius (dal 1497). Il padre di Aldo si chiamava Antonio e aveva alcune sorelle, ma altro non ci è dato conoscere.
A Roma
Si può presumere che la famiglia fosse relativamente benestante, se aveva terreni da vendere, ma non possiamo sapere se potesse anche permettersi di mantenere agli studi un figlio a Roma, o se invece siano stati i Caetani a prendersi cura del giovane Manuzio. Il nipote Aldo junior, un secolo più tardi, ricorderà i rapporti di deferenza che legavano il nonno alla famiglia principesca e d’altra parte non era poi inusuale che i signori di un determinato luogo facessero studiare a proprie spese i ragazzini più svegli.
Sicuro, invece, che Aldo studiasse a Roma all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento, poiché il suo insegnante Gaspare da Verona, docente di retorica alla Sapienza, si trasferisce a Viterbo nel 1474. Un altro suo maestro – è Aldo a rivelarlo in una delle prefazioni – è l’umanista Domizio Calderini, nativo di Torri del Benaco, segretario di papa Sisto IV. Curioso che entrambi i maestri romani di Aldo fossero originari del Veronese.
Calderini fa parte della cerchia del già citato cardinale Bessarione e lo accompagna in un viaggio in Francia, proprio mentre il prelato sta lavorando a un’edizione che sarà pubblicata postuma da Arnold Pannartz e Conrad Sweinheim. Due nomi celebri, questi, poiché appartengono ai chierici tedeschi – Pannartz era un praghese di lingua tedesca, Sweinheim proveniva dall’Assia – che nel 1465 avevano importato la stampa a caratteri mobili in Italia, impiantando una tipografia nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, vicino a Roma. Anche Gaspare da Verona conosce l’attività dei due tipografi, visto che li nomina già nel 1467, ovvero quando erano arrivati a Subiaco da due anni soltanto.
L’introduzione della stampa in Italia faceva parlare di sé ed è probabile che a Roma la nuova attività costituisse oggetto d’attenzione e di meraviglia, ma non si sa se già in questi anni Manuzio fosse entrato in contatto con il mondo della tipografia, se avesse avuto modo di osservare le neonate edizioni a stampa, o se il suo sia stato invece un innamoramento tardivo. Aldo per molti anni rimane prima di tutto un maestro e solo in un secondo tempo diventa uno stampatore, quando, ormai quarantenne, concepisce l’attività di tipografo come mezzo per darsi i migliori strumenti di insegnamento del greco: grammatiche e testi di lettura. Non possiamo davvero capire se già una ventina di anni prima avesse intuito le potenzialità della stampa.
Non è certo nemmeno se, dopo aver appreso il latino, a Roma cominci da subito a studiare anche il greco antico, lingua che in seguito apprenderà benissimo, tanto da poterla parlare e tradurre a vista, come abbiamo già ricordato. Certamente nella città papale Manuzio stringe amicizia con l’umanista pistoiese Scipione Forteguerri, detto il Carteromaco, che diventerà un suo stretto collaboratore e al quale dedicherà un’edizione nel 1501. Lo ritroveremo, anche perché sarà uno dei fondatori dell’Accademia aldina.
Il periodo romano di Manuzio rimane molto oscuro, così come quello della sua infanzia e adolescenza. L’unica cosa certa è che dopo pochi anni se ne va. Non conosciamo esattamente né quando né perché, qualcuno ipotizza che possa aver abbandonato Roma a causa della peste del 1478, ma non c’è alcun indizio in grado di trasformare l’illazione in affermazione.
A Ferrara
In realtà Aldo si trova a Ferrara già dal 1475, ma non è possibile stabilire se si fosse trasferito o se si trattasse di una pausa temporanea dal soggiorno romano. Nella città di Ercole I d’Este, umanista e munifico mecenate del rinascimento, Manuzio apprende, o approfondisce, il greco antico con Battista Guarino, figlio di quel Guarino Veronese (ecco che torna ancora una volta Verona) che aveva imparato il greco a Costantinopoli prima della conquista ottomana del 1453 ed era stato precettore alla corte estense. L’incontro con Battista Guarino è senz’altro importante, visto che Aldo nel 1495 dedicherà l’edizione di Teocrito al suo maestro di una ventina d’anni prima. Se Manuzio fosse arrivato a Ferrara conoscendo o meno il greco rimane oggetto di disputa tra gli studiosi, mentre è sicuro che quando se ne va lo parla e lo legge fluentemente.
C’è dell’altro, in ogni caso: a Ferrara incontra un compagno di studi che gli cambierà la vita: Giovanni Pico della Mirandola. Il nobiluomo umanista, evidentemente aiutato dalla sua proverbiale memoria, padroneggia sei lingue, tra antiche e moderne, e ora si sta dedicando a perfezionare il greco. Sua sorella Caterina è moglie – e dal 1477 vedova – del signore di Carpi; nel 1484 sposerà Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara e figlio del marchese di Mantova (i Gonzaga diventeranno duchi soltanto nel 1530).
Ora una piccola digressione: in quest’area tra Emilia e Lombardia e nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo si ritrovano alcune corti medie o piccole che intrattengono relazioni strette l’una con l’altra. I Gonzaga di Mantova, i Pio di Carpi, i Pico di Mirandola, gli Este di Ferrara si imparentano fra loro e sfruttano quelle che oggi si chiamerebbero economie di scala, facendo arrivare artisti, musicisti, precettori che si spostano da una città all’altra. Aggiungiamo che Carpi e Mirandola sono signorie troppo piccole per potersi considerare del tutto sicure dalle mire dei vicini e quindi cercano di appoggiarsi agli stati più potenti e influenti.
Negli anni di cui ci stiamo occupando la potenza che stende sull’area l’ombra della propria egemonia, quella che suscita timori e apprensioni, e di conseguenza la potenza da battere, è senza dubbio la repubblica di Venezia. Non a caso, quando sarà sconfitta, il principe Alberto Pio si rivolgerà sia all’impero, sia alla Francia, sia al papato, finendo per rimetterci il trono in un gioco triangolare più grande di lui. Aldo Manuzio – lo vedremo – si muove all’interno di quest’ambito, concedendosi tutt’al più un paio di digressioni verso Milano. Di certo sviluppa una sorta di rapporto d’affetto con Ferrara (trasporto che invece mai proverà per Venezia), visto che nel suo primo testamento consiglia la giovane moglie, sposata appena un anno prima, di trovarsi un nuovo marito nella città degli Este, qualora non dovesse tornare dal viaggio. Tutto questo ci racconta tra l’altro quanto al tempo fossero considerati pericolosi i viaggi: così tanto da indurre a far testamento prima di partire.
Aggiungiamo un ulteriore elemento per comprendere meglio gli intrecci di questa zona dell’Italia rinascimentale: Alberto Pio sposa prima una Gonzaga e poi una Orsini; dalla seconda moglie ha due figlie, una delle quali, di nome Caterina come la nonna, si coniuga con un Caetani. Questo indizio ci permette di ipotizzare che sussistesse un qualche nesso tra i duchi di Sermoneta e i signori di Carpi e che, quindi, il legame di Aldo Manuzio con la piccola corte emiliana possa essere passato anche attraverso i Caetani. Non lo sappiamo, ma le relazioni tra le famiglie esistevano e quindi l’eventualità è quantomeno verosimile.
A Carpi
Caterina Pico è una donna di notevole cultura: nel corredo per le nozze con Lionello I Pio di Savoia sono presenti, oltre ai consueti gioielli, argenti e biancheria, anche codici manoscritti e testi di autori classici, come Virgilio e le epistole di Cicerone (queste ultime sono pure il primo testo stampato a Venezia, nel 1469, da Giovanni da Spira: tutto si tiene in questo scorcio del rinascimento).
Quando il principe di Carpi muore, lascia alla vedova una notevole somma affinché realizzi una biblioteca. È proprio Caterina, con ogni probabilità su consiglio del fratello Giovanni, a chiamare Aldo Manuzio perché faccia da precettore ai due figli, Alberto e Lionello, di cinque e tre anni. Un atto notarile conservato negli archivi carpigiani ci dice che l’8 marzo 1480 Aldo ottiene l’incarico di insegnamento a corte, nonché la cittadinanza con esenzione fiscale. Pochi mesi dopo, il 5 agosto, il «magistro Aldo Manutio de Bassiano» risulta proprietario di «unum caxamentum» che affaccia sull’attuale corso Cabassi (identificato nell’unico edificio gotico ancora esistente nella via, ma non si sa se in effetti sia proprio quello). In quanto precettore dei principini Aldo abita a palazzo, quindi è possibile che questa casa e un altro paio che gli sono intestate costituiscano un emolumento, sotto forma di riscossione degli affitti. Vengono assegnati a Manuzio anche alcuni campi coltivabili che andranno in eredità al figlio Paolo e saranno amministrati da Lionello Pio.
Tra Aldo e Alberto si instaura una relazione ben più solida di quella tra maestro e allievo che, lo vedremo, perdurerà fino alla scomparsa dell’editore, nel 1515. Nel primo dei cinque volumi di Aristotele che l’editore bassianese dedica al principe di Carpi (1495) fornisce al «dotto giovinetto» una sorta di vademecum: «A te infatti non manca nulla: non il talento, che possiedi in abbondanza; non l’eloquenza, di cui sei ben dotato; non i libri, né di cultura latina, né greca, né ebraica, di cui vai in cerca con una solerzia senza pari; non gli insegnanti più preparati, che tu hai assoldato senza badare a spese. Continua dunque a dedicarti, come stai facendo, alle nobili discipline: io certo, per quel che posso, non ti farò mai mancare la mia presenza».
Tali righe ci restituiscono un Manuzio attento, paterno, benevolo. È solo da dettagli come questi che possiamo cercare di ricostruire e immaginare il carattere di quest’uomo straordinario. Infatti, la rielaborazione della sua biografia, lacunosa per alcune parti della sua vita e della sua attività, è addirittura oscura per quanto riguarda gli aspetti personali. Vedremo che Erasmo ci descrive paturnie e spilorcerie del suocero, Andrea Torresani (o Torresano), ma di lui, a parte che era maniaco delle grammatiche, non ci dice nulla.
I tanti studiosi che si sono dedicati al primo editore della storia hanno provato ad azzardare qualche ipotesi, sulla base degli elementi conosciuti. Per esempio si sa dei molti amici, ai diversi livelli della scala sociale, mentre non si conoscono nemici, se non rivali editoriali, quindi si può pensare che fosse cordiale, una persona con la quale passare un po’ di tempo in piacevole compagnia. Era capace di lavorare per molte ore di seguito, applicandosi con attenzione a quel che stava facendo, probabilmente era pignolo, attento, e abile. Amava il lavoro di squadra e cercava di sollecitare in tutti i modi la collaborazione tra gli studiosi; quel che chiedeva in cambio erano manoscritti da poter stampare.
Non c’è dubbio che avesse il bernoccolo degli affari e che utilizzasse tribunali e amicizie per far valere i propri diritti, ma mai in modo violento e prevaricatore, in un’epoca che violenta e prevaricatrice lo era parecchio. Non manifesta mai l’aggressività tipica dei suoi contemporanei, anzi appare schivo e talvolta imbarazzato per la celebrità. Ci sono tuttavia da registrare alcuni litigi per questioni di denaro con collaboratori che a causa di tali liti lo abbandoneranno. Viene quindi da domandarsi se Aldo condividesse almeno in parte l’estrema taccagneria del suocero.
Andare oltre queste deduzioni, però, appare difficile. Com’era il suo rapporto con la moglie, così tanto più giovane di lui? E con i figli? Nell’ultimo testamento lascerà alle due figlie la facoltà di scegliere se maritarsi o monacarsi, ed era una concessione molto avanzata in quei tempi, ma, al di là di questo, altro non sappiamo.
Durante gli anni di Carpi Aldo Manuzio con ogni probabilità ancora non pensa alla stampa e si dedica al mestiere di precettore, che si presume gli riesca piuttosto bene: Alberto e Lionello Pio non saranno gli unici allievi con cui conserverà rapporti di affetto. Dev’essere comunque un’attività molto impegnativa, infatti si lamenta che, oppresso da incombenze di ogni genere, gli restano soltanto quattro ore al giorno per scrivere un trattato grammaticale a beneficio dei suoi allievi. Non specifica però quali siano gli altri suoi compiti, oltre all’insegnamento vero e proprio.
Uno dei pochi punti certi del soggiorno di Aldo a Carpi è che trascorre il suo tempo quasi sempre assieme ai principini e li accompagna prima a Ferrara (1481) e poi a Mirandola dallo zio Pico (1482), dopo che Venezia dichiara guerra agli Este. Conosciamo questo soggiorno, durato qualche mese, grazie a una lettera del Poliziano: Angelo Ambrogini – questo il suo nome – era il più importante grecista dell’epoca e diventerà molto amico di Manuzio; i due si scambiano una fitta corrispondenza, ma si incontreranno di persona soltanto una volta, a Venezia. È a Mirandola che Aldo rimane colpito dal greco raffinatissimo del fiorentino Poliziano, in una sua lettera che legge in compagnia dell’umanista cretese Manuel Adramitteno.
Giovanni Pico in quegli anni sta cercando di trasformare Mirandola in un centro culturale di prima grandezza e potrebbe essere che Aldo si imbatta proprio qui nell’idea di un’accademia che possa diventare luogo di scambio e discussione tra dotti conoscitori della cultura greca.
Si può presumere che Aldo abbia approfondito la propria abilità a esprimersi in greco antico nei ritrovi che i grecisti tenevano nella villa di Pico. Il tono delle sue lettere del periodo è tuttavia quello di un giovane che si sforza di ben figurare nel mondo intellettuale che lo circonda. È sopravvissuta un’unica lettera di Pico ad Aldo, in cui il signore di Mirandola esorta l’umanista a proseguire nell’indagine filosofica. Evidentemente Manuzio era anche un suo compagno di studi, oltre che un protetto.
Incerto, invece, è un possibile viaggio a Venezia di Aldo assieme ai giovani Pio (nel 1487), che potrebbe essere stato il primo contatto del futuro editore con la Serenissima. Tre anni prima Caterina si era risposata con Rodolfo Gonzaga e si ritiene che il ruolo di Aldo a corte fosse diventato con il tempo più influente rispetto a quello di semplice maestro e precettore dei figli di primo letto. Caterina avrà altri sei figli da Rodolfo. Questi rimarrà ucciso nel luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, mentre la donna morirà nel dicembre 1501, avvelenata da una damigella che sembra si fosse innamorata di lei senza esserne corrisposta. Amore e morte in una corte del rinascimento.
Il soggiorno di Manuzio a Carpi termina tra l’autunno e l’inverno del 1489: un rogito notarile di ottobre dove Aldo di Sermoneta è indicato come precettore del principe Alberto costituisce l’ultimo atto ufficiale che ne registri la presenza.
Il rapporto con i Pio, come detto, continuerà: Aldo entra a far parte della famiglia, dal 1503 adotta il cognome Pio e dal 1506 lo userà per firmarsi. Delle dodici dediche ad Alberto abbiamo già detto, e si presume che da Carpi gli siano anche regolarmente arrivati finanziamenti. Atti ufficiali e lettere registrano le relazioni tra l’editore e Alberto III fino al 1509, ovvero fino a quando il principe si schiera con i nemici di Venezia, mentre i legami con Lionello II proseguono fino alla morte di Aldo.
Il tenore della corrispondenza dei fratelli Pio con Manuzio diverge già dal 1498: Alberto gli scrive in tono affettuoso e intimo riguardo a libri, a comuni frequentazioni culturali, a questioni che Aldo intrattiene a Carpi. Lionello, che talvolta si firma filius, si occupa invece del lato pratico dei rapporti, e risponde alle richieste di Aldo di gestire gli interessi nelle terre emiliane, come, per esempio, nel luglio 1508, quando informa l’editore di «aver avuto cura del raccolto delle sue terre e di averglielo fatto accreditare». D’altra parte Lionello ha sposato una nobile veneziana, Maria Martinengo, e quindi le connessioni tra il castello di Novi, dove la coppia risiede, e la Dominante rimangono intense. Un atto notarile del marzo 1508 registra il mandato di Lionello Pio a Manuzio per ottenere una condotta militare dalla Serenissima (condotta che però non verrà concessa).
Aldo è legalmente un membro a tutti gli effetti della famiglia Pio e ha intestate a sé numerose terre che, almeno in parte, risulteranno proprietà degli eredi ancora nel 1556. Lionello nel settembre 1498 scrive a Manuzio affermando che manterrà fede alla promessa del fratello Alberto di donargli altre terre e un castello dove installare una stamperia e l’accademia. Non è quindi casuale che Aldo scriva che userà il «bel castello» per «insediarvi un’accademia nella quale, posta fine alla barbarie, si coltivino con impegno le belle lettere e le belle arti».
La donazione del castello, tuttavia, non diventerà mai effettiva, mentre Aldo nei momenti di difficoltà, nel 1506 e nel 1510, lo reclama per potersi trasferire con famiglia e stamperia. Sono entrambi anni nei quali Manuzio è assente da Venezia; i motivi li vedremo meglio più avanti.
Il castello è stato identificato con quello di Novi dove, come detto, risiedono Lionello e la moglie e dove effettivamente viene installata una tipografia che stampa una sola edizione. Secondo una fonte settecentesca e non verificabile, Alberto III avrebbe invitato Manuzio ad allestire una tipografia, ma questi ormai si era trasferito a Venezia e avrebbe quindi declinato la richiesta del principe. Quel che è certo, invece, è che il carpigiano Benedetto Dolcibelli (o Dolcibello) del Manzo – il soprannome viene dal fatto che proveniva da una famiglia di macellai – impianta una stamperia a Carpi prima in città (1506) e poi nel castello di Novi (1508), dove stampa la suddetta unica edizione, e quindi si trasferisce a Ferrara.
Dolcibelli aveva lavorato – assieme a Giovanni Bissolo, pure lui di Carpi, e a Gabriele Braccio, di Brisighella – a Venezia nell’officina di Aldo, dove aveva imparato il mestiere. Si era però ritrovato coinvolto in una brutta storia di contraffazione dei caratteri greci aldini, che vedremo meglio nel capitolo sui falsi, e se n’era andato da Venezia assieme ai due complici continuando a stampare, dapprima a Milano e poi altrove. I documenti sopravvissuti riguardo a questa vicenda sono molto pochi e quindi la conosciamo solo a tratti. Di conseguenza non possiamo neanche sapere se nel 1506, quando Aldo va a Milano e a Mantova, ci siano stati o meno contatti tra lui e il suo ex lavorante, che in quel momento faceva il tipografo nella città dei Pio. Questo fatto comunque dimostra che Aldo si avvale della collaborazione di alcuni carpigiani al momento di aprire la sua tipografia a Venezia.
La presenza di Aldo a Carpi è eternata da un affresco nella cappella di Palazzo Pio. Molto ben conservato, opera del pittore Bernardino Loschi, sulla parete di destra raffigura una specie di gruppo di famiglia dei Pio: in primo piano il trentenne Alberto III, dalle fluenti chiome bionde, con un copricapo nero; alle spalle il padre Lionello I, che quando l’affresco viene dipinto (inizio Cinquecento) è ormai defunto da una ventina d’anni. In secondo piano il fratello più giovane, Lionello II. Davanti al principe Alberto stanno due figure vestite con un lungo abito nero e berretto dello stesso colore. Una delle due, quella più arretrata, è identificata con Aldo Manuzio, poiché si tratta di un uomo di una cinquantina d’anni, che era proprio l’età di Aldo quando l’opera è stata eseguita.
Il personaggio che è ritratto davanti, più giovane, potrebbe essere o il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi o l’umanista cretese Marco Musuro; entrambi si trovavano a Carpi assieme a Manuzio ed erano più giovani di lui, il primo di una decina d’anni, il secondo di una ventina. Musuro, colto filologo, lo ritroveremo perché diventerà uno dei più stretti collaboratori di Aldo. L’affresco si è conservato perché dopo l’esautorazione dei Pio e il passaggio di Carpi agli Este è stato semplicemente coperto con una tenda e non distrutto, come spesso accadeva quando si voleva rimuovere la memoria dei signori spodestati.
Adesso lasciamo l’emiliana Carpi e seguiamo finalmente Aldo nella città dove cambierà la storia del libro: Venezia.
3.
Come si diventa editore
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia tra il 1489 e il 1490. Con ogni probabilità la sua intenzione era di continuare a insegnare, e nulla di quel che sappiamo (poco) del suo primissimo periodo nella Dominante lascia presagire che stesse già pensando di mettersi a stampare. Di conseguenza non abbiamo idea se e quanto abbia contato sulla sua scelta di spostarsi il fatto che la città all’epoca fosse l’indiscussa capitale dell’editoria. Forse quel che davvero lo attirava di Venezia era la presenza di tanti dotti umanisti, in particolar modo greci: «Venezia, città che possiamo definire la nuova Atene del nostro tempo per la presenza di moltissimi uomini dotati di eccezionale cultura», scriverà Aldo anni più tardi.
Comunque non amerà mai a fondo la città che lo ospitava, non si sentirà mai veneziano, non sarà mai animato da particolare trasporto per il luogo dove era forse arrivato perché non poteva farne a meno, e dove si è fermato perché soltanto lì poteva mettere in pratica il suo progetto editoriale. I suoi primi tempi veneziani sono contrassegnati dalla continuità dei legami con Carpi, sia per quel che fa, sia per i collaboratori che si sceglie (abbiamo già detto, e vedremo ancora, che nell’appena aperta tipografia lavorano alcuni carpigiani).
Poco dopo l’arrivo nella Serenissima signoria Aldo pubblica la sua prima opera, il Panegirico delle muse (Musarum Panegyris), un lavoro in latino che costituisce un po’ il manifesto del suo metodo di insegnamento. Per farlo si rivolge allo stampatore Battista Torti, un calabrese di Nicastro, che nel 1489 imprime il testo – più un opuscolo che un libro – formato da due componimenti in rima dedicati ad Alberto Pio nonché da una parte centrale costituita da una lettera a sua madre Caterina. Ce ne sono giunte soltanto sette copie, in Italia se ne trovano due: a Bologna e a Napoli.
Aldo osserva che latino e greco vanno insegnati assieme e non separatamente, prima il latino e poi il greco, come si usava al tempo, e insiste nel sottolineare il valore educativo della lettura dei classici in originale. Fino a quel momento era stato possibile conoscere l’antichità ellenica soltanto attraverso le traduzioni latine. Certamente si era in tal modo potuto entrare in contatto con un mondo che sarebbe stato altrimenti destinato a rimanere sconosciuto, ma nel contempo le traduzioni lo avevano alterato, distorcendolo attraverso le lenti del latino. Aldo quindi ritiene che sia necessario tornare alla fonte e leggere le opere greche direttamente in greco (pure questa una concezione sorprendentemente moderna, come si vede).
Manuzio porta con sé a Venezia il manoscritto del Panegirico: con ogni probabilità gli serviva per promuoversi e farsi conoscere come insegnante. Se era stato precettore dei principini di Carpi poteva ben diventarlo dei figli di qualche patrizio della città di San Marco. E infatti viene assunto da Pierfrancesco Barbarigo con il compito di far da maestro a Santo, suo figlio naturale. Difficilmente sarebbe potuta andargli meglio: il doge in carica, Agostino Barbarigo, è zio di Pierfrancesco, il precedente, Marco, era suo padre, e per di più il patrizio entrerà in società con Manuzio quando deciderà di aprire la stamperia.
Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che Aldo, maestro prima ed editore poi, pensasse a un’istruzione allargata al popolo, che immaginasse i suoi libri in mano a schiere di giovani animati dalla voglia d’imparare. Proprio no: si rivolge ai figli dei ricchi e dei molto ricchi – cioè a una fascia di popolazione che al massimo arriva al 5 per cento – e la sua idea è quella di istruire la futura classe dirigente attraverso lo studio di una lingua morta: il greco antico. Una lingua che non è possibile imparare da soli per la semplice ragione che nessuno la parla, quindi la si può apprendere soltanto a scuola. Il tutto ha poco a che fare con il valore intrinseco della letteratura classica, quanto piuttosto con un metodo: i ragazzini che crescono studiando sui medesimi libri, da adulti si capiranno meglio. Ai nostri giorni si direbbe networking, assomiglia un po’ alla «rete dei vecchi compagni di scuola» che ancora oggi unisce in Gran Bretagna la classe dirigente che ha frequentato Eton e poche altre public schools.
Carlo Greppi -Storia di Lorenzo, che salvò Primo Levi-Editori Laterza
Descrizione del libro di Carlo Greppi-In Se questo è un uomo Primo Levi ha scritto: «credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi». Ma chi era Lorenzo? Lorenzo Perrone, questo il suo nome, era un muratore piemontese che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz. Un uomo povero, burrascoso e quasi analfabeta che tutti i giorni, per sei mesi, portò a Levi una gavetta di zuppa che lo aiutò a compensare la malnutrizione del Lager. E non si limitò ad assisterlo nei suoi bisogni più concreti: andò ben oltre, rischiando la vita anche per permettergli di comunicare con la famiglia. Si occupò del suo giovane amico come solo un padre avrebbe potuto fare. La loro fu un’amicizia straordinaria che, nata all’inferno, sopravvisse alla guerra e proseguì in Italia fino alla morte struggente di Lorenzo nel 1952, piegato dall’alcol e dalla tubercolosi. Primo non lo dimenticò mai: parlò spesso di lui e chiamò i suoi figli Lisa Lorenza e Renzo, in onore del suo amico. Questo libro è la biografia di una ‘pietra di scarto’ della storia, di una di quelle persone che vivono senza lasciare, apparentemente, traccia e ricordo di sé. Ma che, a ben guardare, sono la vera ‘testata d’angolo’ dell’umanità.
Carlo Greppi-
L’autore Carlo Greppi
Carlo Greppi, storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento. Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente(2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018), Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo(2023,Premio TIR-The Italian Review, tradotto in spagnolo, olandese e francese e in corso di traduzione in inglese e russo).
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Prologo
E io gli ho detto: “guarda che rischi a parlare con me”.
E lui ha detto: “non me ne importa niente”.
Primo Levi, novembre 1986
Un giorno di dicembre di diversi anni fa mi trovai a dover guardare un documentario intitolato Il coraggio e la pietà, che descrive la solidarietà – vera e presunta – degli italiani nei confronti degli ebrei perseguitati che permise alla maggior parte di loro, al di qua delle Alpi, di salvarsi, a differenza degli oltre settemila che svanirono nella Shoah. Il documentario era andato in onda nel novembre 1986, cinque mesi prima della morte di Primo Levi. Tra le poche scene che mi colpirono ce ne fu una in cui lo stesso Levi raccontava, con la sua consueta pacatezza, quanto fu un uomo silenzioso a permettergli di salvarsi. Era un umile muratore, non un prigioniero di Auschwitz. Era un lavoratore civile piemontese, di Fossano, che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz, con il quale Levi si incontrò per diversi mesi, compensando la malnutrizione del Lager con zuppe di brodaglie che quest’uomo gli portava con regolarità. Tutti i giorni, per sei mesi. L’unico compenso che quest’uomo accettò, se così lo possiamo chiamare, fu di farsi riparare dai ciabattini di Monowitz le scarpe di cuoio, camminando per quattro giorni con gli zoccoli di legno di Levi, per poi scambiare nuovamente le rispettive calzature. Non volle nient’altro.
Non era la prima volta che sentivo parlare di Lorenzo Perrone, perché il chimico torinese sopravvissuto ad Auschwitz ne scrisse innanzitutto in Se questo è un uomo fin dal 1947, poi in una manciata di pagine di Lilìt e altri racconti e inoltre in due passi de I sommersi e i salvati – sempre omettendone il cognome – e perché già sapevo che entrambi i figli di Levi (Lisa Lorenza, nata nel 1948, e Renzo, nato nel 1957) dovevano il loro nome a quest’uomo enigmatico; cosa che, come avrei scoperto in seguito, dichiarò anche pubblicamente. Ma sentire che Lorenzo rischiò di finire ad Auschwitz per i suoi gesti, sentirlo dire intendo – e non leggerlo – smosse in me qualcosa di profondo, toccò una parte di me che era addormentata, forse assuefatta, da tempo.
In quello stesso frangente, ed era sera tardi di un giorno compreso tra l’8 dicembre e Natale del 2014, prima di andare a dormire misi nel lettore un dvd che da quasi tre anni mi riproponevo di guardare e finiva sempre in fondo alla lista: si intitola Il Giudice dei Giusti. Ebbene, nella prima scena – la prima – vediamo Mordecai Paldiel, all’epoca direttore del dipartimento che all’interno del museo della Shoah di Gerusalemme (lo Yad Vashem) si occupa del riconoscimento dei “Giusti tra le nazioni”, i non ebrei che salvarono gli ebrei, prendere un faldone tra le mani. Ed è quello di Lorenzo Perrone, il dossier n. 8157.
A quel punto andai sulla sezione del sito di Yad Vashem dedicata ai 25.271 “Giusti”, 610 dei quali erano italiani (nel 2021 sono diventati 27.921, e 744 gli italiani), e trovai, come epigrafe in inglese che apre la pagina, proprio un estratto del passo che in Se questo è un uomo descrive Lorenzo, cioè questo (otto anni dopo è ancora lì):
Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
Primo Levi, forse il più grande testimone del Novecento, ha scritto e detto in più occasioni – ben al di là di quelle finora citate, lo vedremo – di dovere a Lorenzo non solo la vita, ma qualcosa di più, e per l’istituzione che si occupa della cura della memoria dei gesti che salvarono i perseguitati Lorenzo Perrone è senza ombra di dubbio il più importante tra loro, ai livelli dei ben più noti Oskar Schindler e Giorgio Perlasca – resi celebri dal film Schindler’s List di Steven Spielberg (1993), tratto da un libro del 1982 di Thomas Keneally, e da un bestseller di Enrico Deaglio, La banalità del bene (1991), diventato a sua volta un prodotto audiovisivo, lo sceneggiato Perlasca. Un eroe italiano di Alberto Negrin (2002) –, seppur proveniente da un contesto sociale completamente differente. Questo personaggio povero e burrascoso, “quasi analfabeta” e taciturno, “era un uomo – ha scritto ancora il chimico torinese –; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”. I suoi gesti semplici e quotidiani sono diventati con ogni probabilità la radice della testimonianza di Levi, e la sua indelebile solidarietà è impressa nei libri che hanno formato la parte sana della cultura del mondo occidentale degli ultimi decenni. Libri che ancora oggi sono un passaggio obbligato nella formazione di ogni studente delle scuole, in Italia e non solo.
Ma chi era, Lorenzo Perrone? In questi anni ho raccolto materiale sulla sua vita prima, durante e dopo “Suiss” (così lui chiamava Auschwitz), dagli archivi di Fossano – si chiamava Perrone o Perone? Questo è il primo inciampo della nostra storia – alle testimonianze dei due nipoti ancora in vita, dal tentativo impraticabile del carotaggio sistematico di ogni possibile accenno nelle biografie di Primo Levi, nelle sue interviste (oltre trecento quelle finora censite) e nelle migliaia di libri a lui o alla sua opera dedicati (circa 7.000 quando sto scrivendo questo libro) al faldone ancora conservato allo Yad Vashem della pratica istruita nel 1995 grazie alla biografa Carole Angier, tutto questo solo per cominciare; ma una porzione considerevole di quello che possiamo dire intorno a quest’uomo straordinario che rese possibile “la storia stupefacente della sopravvivenza” di Levi è già incardinata nei testi di quest’ultimo. È quanto di più straordinario uno storico possa desiderare di avere tra le mani, nell’avviare una ricerca che punti al cuore dell’umanità: le pagine di uno dei più esatti indagatori dell’animo nostro. Ma non è tutto, naturalmente: “la realtà degli uomini non è la stessa della realtà degli uomini raccontata dagli scrittori”, mi dice Alberto Cavaglion, tra i più fini conoscitori dell’opera leviana, nonché curatore dell’edizione commentata del 2012 di Se questo è un uomo; Primo Levi stesso ne ha parlato sovente, dell’arte di “arrotondare”, facendo perno sull’immaginazione, perché “la realtà è sempre più complessa” e “più ruvida”.
È fisiologico che una nuda vita così umile – così ordinaria, fino a “Suiss” – che oltretutto, come si vedrà, arriva a inabissarsi prima che il suo punto più alto venga alla luce, lasci molti vuoti da colmare, ma la coltre di oblio che è calata su gran parte dell’esistenza di quest’uomo di poche parole la si può perforare. Ci si deve almeno provare. Ed è naturale che questa storia, per iniziare, parta dal primo incontro in cui levò lo sguardo e poi torni sui suoi piedi, che hanno fatto centinaia e centinaia di chilometri, prima di approdare al lascito profondo racchiuso in questa storia di dannazione e salvezza che parla a tutti e a ognuno.
Gli ultimi
[…]
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
[…]
Primo Levi, Agli amici, 16 dicembre 1985
Tacca dal Burgué
Quando ha conosciuto il prigioniero 174 517, Lorenzo stava tirando su un muro con un altro tizio della sua ditta, anch’egli di lingua italiana, e com’era prevedibile nonostante e forse proprio per gli schiaffi che la vita gli aveva dato, ne parleremo, anche laggiù lui i muri “li faceva diritti, solidi, con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale” – è Primo Levi che ne parla, ne I sommersi e i salvati. Quando vide per la prima volta quel minuto torinese, Lorenzo giunto dal Burgué, il borgo vecchio di Fossano, non si stava chiedendo a cosa e a chi avrebbe giovato il suo faticare come un mulo: un bombardamento alleato aveva appena sconvolto “quello sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo” che era la “Buna”, il grande progetto della Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie AG – meglio nota come I.G. Farben – fondato a Monowitz, a sei chilometri da Auschwitz I, e dopo aver zigzagato tra i calcinacci che scricchiolavano sotto il cuoio delle sue scarpe da lavoro, lui era giunto con il suo collega e connazionale nei pressi dei macchinari più preziosi, per proteggerli con alte e robuste tramezze, senza troppo arrovellarsi.
Metteva giù mattoni da un’impalcatura, muto, e quel prigioniero 174 517, che poi avrebbe saputo chiamarsi Primo, il numero tatuato sul braccio sinistro – un Häftling scialbo, un detenuto quasi invisibile tanto ansimava tra i morsi della fame –, era sotto e a un certo punto Lorenzo gli aveva parlato in tedesco avvertendo “che la malta stava per finire”, e di portare dunque su il bugliolo. Quel ventiquattrenne mingherlino che era ancora solo un numero aveva provato ad allargare le gambe, ad afferrare il manico del secchio con entrambe le mani, a sollevarlo e a imprimergli un’oscillazione di modo da poter sfruttare lo slancio e portare il carico in avanti e, da lì, sulla spalla. Ma i risultati s’erano rivelati a dir poco patetici, e il secchio era ricaduto in terra rovesciando metà della malta. A Lorenzo non era scappato da ridere ma aveva pronunciato otto parole, le prime della parte che più conta di questa storia, che sarebbero rimbombate in testa a Primo, non è difficile da immaginare, per interminabili ore di un giorno di inizio estate del 1944, che è da collocare tra il 16 e il 21 giugno, date in cui entrò in allarme la parte occidentale dell’Alta Slesia, che dai mesi successivi sarebbe stata sistematicamente bombardata da raid sempre più imponenti.
“Oh già, si capisce, con gente come questa”, aveva detto Lorenzo accingendosi alla discesa dalla sua posizione, prima di portarsi al medesimo livello della malta rovesciata che già s’induriva tra i calcinacci del cantiere piegato dalle bombe degli Alleati, che colpivano gli impianti industriali – scattando poi fotografie al “pianeta Auschwitz” dal cielo – senza però liberare i prigionieri dalla condanna del gas. A cosa si riferiva, con quel “gente come questa”? Intendeva gli “schiavi degli schiavi”, “lo scalino più basso” della gerarchia di Monowitz, o intendeva i borghesi incapaci di tenere in mano un secchio di malta, privilegiati fino all’ingresso in quel mondo alla rovescia, divenuti a quel punto gli ultimi degli ultimi? Comunque la si voglia leggere, questa frase trasuda disprezzo, o commiserazione: ed è lo stesso Levi a dircelo; e al contempo è a sua volta un cortocircuito; chissà quante volte, suppongo non poche, Lorenzo se l’era sentita dire. Lui, e lo vedremo, era un poveraccio, alcolizzato, rissoso; sarà anche stato uno che faceva bene il suo lavoro, ma della “gente come questa” non è che ci si possa fidare. La sfrutti, finché, a quarant’anni, inizia a perdere vigore e concentrazione – poi, quando non serve più, la butti via.
Ad ogni modo non fu certo un primo impatto raccomandabile, tra loro due, considerato il disastro compiuto da quel manovale 174 517; Primo Levi si era imposto tuttavia alla vista di Lorenzo per la sua curiosa reazione a sentir parlare italiano, dopo quell’ordine burbero da lui intimato in pessimo tedesco, per di più con riconoscibilissimo accento piemontese, creando così un varco in quella sorta di incantesimo che inchiodava ogni essere umano al suo posto, nell’universo ferocemente grottesco che era il Lager. Lorenzo la aveva riconosciuta particolarmente prossima, quella manodopera maschile non qualificata, e tanto poteva bastare, sebbene spesso non fosse sufficiente affatto. Nonostante anche internati di altre nazionalità avessero avuto l’occasione di stabilire un contatto con il mondo esterno, ad esempio tramite i lavoratori forzati del Servizio obbligatorio del lavoro francese, gli schiavi erano infatti per i civili – compresi i lavoratori come Lorenzo, s’intende – “intoccabili”. E tali dovevano restare, non importano le circostanze: “I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa”, avrebbe ricordato Primo Levi.
Lorenzo lo pensava, nell’attimo in cui lo notò? Non credo, perché lui non stava a distribuire colpe a cuor leggero, perché sapeva che quelli in catene sono quasi sempre i miseri, mentre il potere cambia scarpe ogni tre settimane – e perché nulla so di quello che eventualmente disse nelle ore seguenti, e ritengo impossibile lo si possa sapere. Azzardo l’ipotesi, avendo intuito qualcosa della sua personalità grazie a una discreta quantità di fonti, che non volle cercare le parole neanche nei due o tre giorni successivi: stava più probabilmente a macinare pensieri con lo sguardo tra il perso e l’arcigno, indecifrabile, come quello che svelano le sue fotografie giunte fino a noi – mi risulta che siano solamente due. La prima la vedremo a breve; l’altra è questa.
Lo disprezzava, quell’uomo che quasi svaniva, morente? Lo commiserava? Lo temeva? Sembra quasi di sentire l’inquietudine che scaturì già con le leggi razziali del 1938, che Primo Levi avrebbe raccontato ne Il sistema periodico, nel 1975, rievocando quel primo “lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto”: “Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te?”.
Servono ancora – sempre – scorci di Levi, che avrebbe saputo sapientemente intessere le parole e i concetti utili a comprendere l’animo umano; qui riferendosi proprio allo sguardo dei lavoratori civili sugli “schiavi degli schiavi”, i prigionieri ebrei che poi, tramite ordinatissime marce con divisa a righe sbrindellata e berretti, andavano alla Buna a lavorare, ammesso che di lavoro si possa parlare:
Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione.
Fotografando il momento in cui questa storia si innescò per divenire qualcosa di più di una riga in un archivio sepolto, per quanto si possa tentare di unire in un unico disegno i chilometri percorsi a capo chino fin da ragazzo e quel momento in cui lo sguardo di Lorenzo cercò al contrario di dare un senso e vagò in cerca delle parole giuste per poi dirlo, bisognerebbe innanzitutto ammettere che poi nelle vite randagie, forse più che nelle altre, è il caso a giocare le sue carte migliori. Un’immagine allora si impone: Lorenzo e Primo appartenevano, semplicemente, “a due caste diverse”, e avrebbero potuto, altrettanto semplicemente, non guardarsi mai. Nella vita precedente, innanzitutto, e poi lì dove il privilegio era la chiave di volta di ogni giorno, in termini completamente ribaltati. Primo era destinato a morire, se non si fosse ingegnato ogni minuto; Lorenzo a vivere, se non si fosse messo nei guai.
La posizione di superiorità nella disposizione spaziale di quel momento e nella gerarchia del Lager, in quel lungo tempo passato a distanza ravvicinata senza essere a conoscenza l’uno dell’esistenza dell’altro, era per così dire un contrappasso, considerati i reciproci trascorsi, nel mondo di prima e di lassù. Mentre laggiù nel 1944 il privilegio era sul suolo che calpestava lui che tanto aveva sputato polvere, ora, il prigioniero 174 517 che nella vita svanita era il borghese dotato di discreta fortuna, il laureato chimico in erba Primo Levi, laggiù sul fondo dello spirito umano era schiavo come migliaia d’altri. Come altri 11.600 lavoratori della I.G. Farben in quell’anno, eseguiva ogni sorta di impiego sfibrante per costruire la Buna-Werke, la fabbrica di prodotti chimici del campo; ma era sovente un lavorare “senza scopo”, il suo, il loro, uno sgobbare per esaurire ogni fibra vitale, fino a morirne. Che piovesse a dirotto o nevicasse sottile, che il vento soffiasse via la cenere o il sole quasi desse l’impressione di poterla ravvivare, come migliaia d’altri lui spalava, interrava, sollevava, cadeva, smistava, assembrava fino a che vene e arterie non erano prossime allo scoppio, e prendeva badilate in testa da un Kapò o da un qualunque prominente se non riusciva a proseguire. Andava ribadito, il potere; e andava annientato, ciò che ci rende uomini e ci fa credere di poterci non piegare. Ma non chiese aiuto a Lorenzo quel giorno, Primo, suppongo perché non aveva, all’epoca dei fatti d’estate del 1944, “un’idea chiara del modo di vivere e delle disponibilità di questi italiani”, prevalentemente dei poveracci nel mondo di prima, ma che lì stavano in superficie mentre lui sprofondava con migliaia di altri pezzenti della storia e nella storia essa stessa. Eppure bastava una manciata di parole, appena misurate sulla bilancia del comune linguaggio, per rompere il sortilegio e spezzare le catene del contagio del male: è così che “si spuntano le armi della notte”, direbbe la sapienza di Levi.
Ebbene Lorenzo le parole le centellinava, è vero – ma queste le pronunciò dopo quell’iniziale e goffo malinteso.
“Guarda che rischi, a parlare con me”, disse Primo.
“Non me ne importa niente”, gli rispose Lorenzo.
Un muratore, uno che sa fare il suo mestiere, costruisce.
Non è detto che abbia la visione d’insieme, quella ce l’ha chi lo comanda, chi lo istruisce, ma lui fa la sua parte. La visione d’insieme ce la si ha alla fine, di solito. O almeno così dovrebbe essere. Mi verrebbe da azzardare l’ipotesi che Lorenzo sia stato uno dei pochi, nella storia, che quella visione ce l’ha avuta dall’inizio, ma risulta impossibile scovarne una prova, ed è difficile trovare qualcuno che possa sostenere di averlo conosciuto per davvero.
Era un uomo di poche parole, Lorenzo. E doveva sempre partire. Attraverso il Colle delle Finestre, negli anni Trenta, a partire dal 1935 o dal 1936 secondo i suoi parenti, andava in Francia a lavorare illegalmente, passando il confine in clandestinità con altri poveracci come lui – i palmi callosi, i piedi nodosi raggrinziti da tanto andare – e come il fratello maggiore Giovanni, due anni scarsi più vecchio di lui, gli occhi sottili e la capigliatura folta, che lo affiancava a passo spedito, sui valichi del contrabbando. Capitava che camminassero una settimana filata: andava così. Mi pare quasi di intravedere i contrabbandieri con cui Lorenzo e Giovanni condividevano brandelli di strada dire loro qualche parola in piemontese: ’ndôma, ’mpresa, le sillabe di rito insomma, quelle che sorvolano la testa di chi procede a capo chino, risparmiando energie per il lavoro che lo aspetta al di là di quella linea tracciata dagli uomini su una carta. Su quelle rotte, in cui potevi essere frontaliero o contrabbandiere a seconda delle circostanze ed era molto sfumata la distinzione tra regolari e irregolari, illecito e lecito, si incontravano persone di ogni età che dalla Francia venivano in qua, in Italia; parlavano la medesima lingua, quella degli sbandati del mondo, dei dannati dei monti. Che si fanno un culo così, con il sole e l’alluvione, per un piatto di polenta concia; ma che se si tratta di sdraiarsi senza se ne fanno in fretta una ragione. Suo fratello Giovanni, detto barba Giuanin, dall’agosto del 1931 era certamente in Francia dove viveva loro zio, “Jean”.
Andavano in Costa Azzurra, dove “lavoro ce n’era sempre” come avrebbe ricordato Levi, probabilmente a Tolone o in altri centri abitati del sud-ovest francese; più precisamente a Embrun, un comune a una sessantina di chilometri dal confine, e quando passava il Giro d’Italia sul Colle della Maddalena, con i controlli più blandi, i vecchi approfittavano dell’occasione per andare su in taxi a salutarli, e forse bere un bicchiere o due. Me lo racconta a gennaio del 2020 il nipote Beppe, figlio di un altro fratello (Michele, otto anni più giovane di Lorenzo), spiegandomi che ogni categoria aveva il suo gergo: non avrebbe senso immaginarli a discutere in italiano, ma nel loro criptico magüt.
A pranzo Lorenzo tirava fuori la sua gavetta d’alluminio, due uova, la buta di vino nero, le croste di pane, e piegava la testa sul suo corpo imponente di un uomo già anziano anche se navigava fra i trentuno e i trentacinque anni, allora. Il cucchiaio di legno sembrava una protesi delle sue braccia, il suo busto pareva ancorato sulla terra, un marcantonio di pelle coriacea emersa dal Burgué, il borgo vecchio dei muratori e dei pescatori – i pescau – che si guadagnavano il pane sul fiume Stura, divorati da zanzare spesse come conigli. Il Burgué era proprio come lo si può visualizzare sforzandosi appena, ripescando in un immaginario arcaico che arrancando si affaccia alla modernità, e aiutandosi con le fotografie dell’inizio del ventesimo secolo. Tutte le porte aperte, le sedie tarlate a ridosso del muro pericolante a incassare il vento e il gelo e il bel tempo del fine settimana, quando il cielo lo regalava – le giornate che iniziano con il buio e finiscono che c’è ancora un po’ di chiarore, per chi riesce a tornare a casa a dormire. Oggi è diverso, ma di quel vecchio borgo si intravedono le tracce, tra i muri ridipinti a nuovo e orientandosi tra le vie con i vecchi nomi e le numerazioni nel frattempo scalate.
Lorenzo viveva a circa un chilometro da dove è stata scattata la prima di queste fotografie, e a pochi metri da dove è stata scattata la seconda, e per la precisione in via Michelini 4 e 6, che oggi corrisponde al civico 12: tre stanze per otto persone, una per stracci e ferri vecchi, e una per il mulo e per il carretto, come avrebbe raccontato Carole Angier, biografa di Levi che un quarto di secolo fa ebbe modo di intervistare tre suoi parenti, tra cui lo stesso Beppe. La notte gli uomini allevavano anguille per mezzo delle dighe e pescavano a Stura con reti e filari; all’alba le donne caricavano quel ben di dio sui carretti e vendevano il frutto del duro lavoro a povera gente come loro. “Si faceva quel che si poteva, si vendeva quel che si faceva”, si cercava di stare alla larga dai guai, salvo qualche rissa di tanto in tanto per assaporare la propria mortalità, forse, o per scordar la fame. Nel Burgué, ancora lo ricorda novant’anni dopo, con malcelata nostalgia, la gente del posto, gli uomini erano tutti pescatori, o lattonieri, o muratori come Lorenzo e Giovanni, e tornavano nel Burgué a dormire in una Fossano che solo nel 1936 avrebbe visto asfaltate le principali strade cittadine. Quando passavano loro due tra le case dove all’epoca non si vedeva mai il sole, oscurato dalla caserma Umberto I che ora non c’è più, lo sguardo sulla polvere o sul fango che sempre accompagna chi non ha, qualcuno si scostava dicendo “Eccoli, i giganti”, così mi racconta Beppe. “Eccoli, i Tacca”.
Lorenzo era il secondo, i genitori – Giuseppe e Giovanna Tallone, sposati nel 1901 – vivevano di ferri vecchi e stracci, anche se i loro mestieri ufficiali erano “muratore” e “operaia”. Aveva altri due fratelli lattonieri: Michele, il padre di Beppe, e Secondo, che era in realtà l’ultimo e il quarto tra i maschi; e due sorelle di nome Giovanna e Caterina, rimasta “da sposare”, che avrebbe poi vissuto con lui e Giovanni, barba Giuanin. E tutti li chiamavano Tacca, nel borgo vecchio dei pescatori di Fossano, probabilmente per via del fatto che erano degli attaccabrighe, anche se si sa che poi i soprannomi – detti “stranomi”, da quelle parti – prendono la loro strada e ci si dimentica perché, soprattutto nelle parabole familiari che fanno di tutto per passare inosservate, agli occhi di chi registra ciò che è degno di essere raccontato, con le fisiologiche dispersioni della storia. Il primo a vedersi affibbiato questo stranome dovrebbe essere Giuseppe, ma forse la storia è più antica.
Tutti i maschi della famiglia, anche Tacca el tulè bel, Michele “il lattoniere bello”, parlavano poco, ed era una caratteristica che avevano preso dal padre, “chiuso in se stesso e preda di oscure depressioni” secondo Angier. Il ritratto fotografico che campeggia ancora oggi sulla sua tomba esibisce uno sguardo arcigno: le sopracciglia visibilmente corrucciate, i baffi curati appena, gli occhi gelidi – difficile immaginare un sorriso uscire da quel volto.
Giuseppe era un genitore “brutale e tirannico, litigioso e violento quando si ubriacava”, un padre padrone, e l’infanzia di Lorenzo, Giovanni e di tutti gli altri della nidiata era stata accompagnata dalle valanghe di botte che avevano preso a casa e poi, in maniera del tutto naturale, da quelle che avevano dato fuori dal “Pigher” – l’osteria “Pigrizia” dei pescatori e dei muratori all’incrocio tra via Don Bosco e via Garibaldi, a pochi passi da casa loro, chiusa da anni. Ora l’edificio in cui stava non ha più neanche vagamente l’aspetto dell’epoca: il palazzo è dipinto di rosso argilla, e le quattro arcate che ospitavano Lorenzo e quell’umanità rocciosa e rissosa sono state tirate a lucido; persino la targa “Terziere del Borgo Vecchio – Via Del Borgo Vecchio” sull’angolo quasi luccica, ad abbellire l’immagine di un’epoca antica più arrotondata di quanto in realtà non fosse. Lo scorrere del tempo a volte parla a gran voce; altre mette tutto a tacere. La famiglia di Luisa Mellano, presidentessa dell’Anpi di Fossano e pronipote del mitico partigiano Piero Cosa, all’epoca abitava davanti al “Pigher”, e il suo bisnonno pescatore, come decine d’altri, passava la sua vita lì a bere, mi racconta lei; d’inverno gli uomini, allora usava, indossavano le mantelline. Sono da immaginare piegati sui loro fegati, in serate interminabili condite da mugugni e bestemmie, in quei luoghi dove prende fiato chi nel corso della giornata va a essere spremuto per potersi permettere un pasto caldo o due; talvolta tra loro c’erano persino dei preti. Immagino che questi uomini tarchiati con la mantellina dicessero, magari citando testualmente una canzone popolare fossanese del 1870, I Mônarca: “Sôma busse ’n po’ ’d barbera”, andiamo a berci un po’ di Barbera, e la ciucca generale – “una ciôca general”– era assicurata.
I “Tacca” stavano per lo più zitti forse anche in ragione di tutto quello che scolavano, Lorenzo e Giovanni che marciava con lui su per i monti, bruciando suole e confini. Dio se bevevano, quei due, probabilmente fin da quand’erano ragazzini, sebbene per legge fosse già vietato. Tutti loro padre; anche se il loro vero padre era il bisogno, familiare quanto il colore nero acre del vino che scandiva le loro stagioni.
Per quanto ne sappiamo, Lorenzo tirava a campare in molti modi: il pensiero che scacciava gli altri era sempre, o quasi, andare avanti, e si comprava e vendeva di tutto, all’epoca, con una cifra sussurrata e una stretta di mano – “se truciavu la man, ’l cuntrat era fat”, come racconta un contadino ne Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. Sulle orme del padre da ragazzino Lorenzo, sempre con barba Giuanin, s’improvvisava feramiù, robivecchi: staccava il pezzo inferiore delle grondaie, che era di ghisa, e poi si affacciava alla finestra di casa sua al piano terra a venderla a chi passava. Come Bartolomeo Vanzetti, l’anarchico assassinato negli Stati Uniti nel 1927 di una dozzina d’anni più vecchio e nato e cresciuto a dieci chilometri da Fossano, che a quindici anni già scriveva che alla sera, “dopo diciotto ore di lavoro […] mi pare di avere i piedi nella brace tanto mi bruciano”, anche Lorenzo era vissuto “col sudore della [sua] fronte fin da bambino”. E ci voleva una costante, e rinnovata, inventiva – naturalmente non si può escludere che questo accadesse anche ai margini della legalità.
Era nato “Perone” (con una “r”) in via Ospizio 28 alle “undici antimeridiane” di domenica 11 settembre 1904, quando lo stomaco comincia a fartela sentire, la fame: forse anche per questo era sempre lei che guidava lui. La notizia, naturalmente, non ebbe alcuna rilevanza sui giornali locali, se non sul piano statistico: Lorenzo era uno tra gli otto maschi e le cinque femmine fossanesi nati in quella settimana. All’Ufficio di stato civile il padre Giuseppe – “di anni ventisette, muratore” – il giorno successivo aveva portato tra i testimoni il fratello Lorenzo “di anni ventitré, operaio”, ed entrambi si erano firmati “Perrone” con due “r”; probabilmente è per via dell’inflessione dialettale data al cognome “Perùn” che gli analfabeti e i semianalfabeti marcavano la “r” al punto da raddoppiarla; vedremo che per delle zie di Levi il cognome “vero” era senza ombra di dubbio “Prùn”.
Anche Lorenzo, omonimo del nonno materno e dello zio, suo padrino al battesimo il giorno successivo, sarebbe incorso nello stesso errore – era un errore? – firmandosi “Perrone”: non era andato oltre la terza elementare, come certifica il suo libretto di lavoro intestato a Lorenzo “Perone”. Pur battezzato, non era religioso né conosceva il Vangelo secondo Levi; scriveva a fatica ma camminava molto, e aveva iniziato a lavorare a dieci anni, come avrebbero testimoniato i suoi parenti per la pratica dello Yad Vashem, presumo nei mesi del 1914 in cui scoppiava la Grande guerra: non ho però idea di che aspetto avesse durante la sua infanzia.
Suo fratello Secondo – quello arrivato per ultimo – avrebbe raccontato a un altro biografo di Levi, Ian Thomson, che Lorenzo era un “pessimista nato”, ma è evidente come si sia influenzati dal senno del poi, nel tentativo di ricostruirne la vita, considerando che una delle ultime immagini che possiamo reperire di lui è quella raccolta dallo stesso Thomson, grazie a un’intervista del 1993 all’ex parroco di Fossano, don Carlo Lenta: negli ultimi anni di vita Lorenzo vendeva rottami nella neve, “senza giacca e con il viso livido”. Perché non ha mai saputo come si dimentica, lui, questa è una certezza; ma se già a dieci anni covasse rabbia e rancore non lo possiamo sapere.
Coltelli, bestemmie
Il primo ritratto fotografico di Lorenzo che mi risulti, come peraltro il secondo che già abbiamo visto, non ha niente di fiabesco; è anzi austero. È quello del suo servizio militare del 1924-25, iniziato a diciannove anni, numero di matricola 29439, bersagliere con il 7° Reggimento di Brescia, da poco trasformato in Reggimento ciclisti e oggi di stanza in Puglia. Arruolato (“Perone” con una “r” sola) il 25 aprile del 1924, venne ricoverato meno di tre mesi dopo: fu congedato infine a ottobre del 1925, e tornò a casa. “Durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà e onore”, dichiarò il suo capitano.
La sua Fossano in quei due decenni era cambiata profondamente: sotto l’amministrazione degli avvocati Antonio Della Torre e Luigi Dompé, che avevano diretto la vita cittadina dal 1899 al 1914, si era arrivati alla luce elettrica, alla tanto agognata distribuzione dell’acqua potabile ai cittadini e alla prima pietra del nuovo edificio scolastico, mentre la storica industria cartaia e la forte presenza dell’industria serica sul territorio erano state affiancate da quella metallurgica, potenziata a partire dal 1907, anno in cui si erano fatte sentire le prime agitazioni sociali per il miglioramento delle condizioni lavorative e della retribuzione, e per il riconoscimento di una rappresentanza sindacale. Dopo la Grande guerra e i suoi 312 morti fossanesi, l’espansione economica aveva vissuto oltretutto una drammatica contrazione, come rilevava il giornale locale “Il Fossanese” il 7 settembre 1918, quando Lorenzo aveva quattordici anni: “La vita cittadina è una vita di vera indolenza generale […] Si dirà: ma nelle osterie e nei caffè vi è sempre gente! […] Date invece uno sguardo al lavoro, alle industrie: l’arte muraria si può dire morta e sepolta, tanto [è] vero che i muratori han dovuto cambiare mestiere; e la crisi muraria la risentono di conseguenza fabbri, falegnami, lattonieri, verniciatori etc. Delle altre professioni non parliamone: magrezza più o meno eguale”.
È in questo contesto che si sarebbe imposta la marea montante del fascismo, nel “biennio nero” che nella percezione dei contemporanei corrispose a uno stato di guerra civile: l’offensiva contro le classi lavoratrici, presto sostenuta dall’azione reazionaria dello Stato liberale, da industriali, da latifondisti e dalla borghesia, e infine dalla monarchia, si sarebbe rivelata letale. Tra le altre cose, nel primo semestre del 1921 i fascisti operarono una distruzione sistematica di Camere del Lavoro, circoli di sinistra, Case del popolo, sedi di sindacati e così via – 49 azioni nel solo Piemonte, come ricostruito in presa diretta da Angelo Tasca – e il 4 maggio e il 3 giugno del 1921 nelle vicine Mondovì e Dronero vennero assassinati quattro e due socialisti dalle squadre d’azione fasciste. Il barbiere fossanese Angelo Suetta, classe 1901 (tre anni più vecchio di Lorenzo), avrebbe ricordato che al 1° maggio del 1921, festa dei lavoratori, era salito “dal Borgo [Vecchio] verso piazza Castello, dove c’era la sede alla Camera del lavoro, per prendere parte al corteo… Ma la città sembrava quasi assediata: fascisti, carabinieri e guardie regie da ogni parte, armati fino ai denti”; c’erano già stati subbugli e tumulti e lui si era precipitato alla Camera del lavoro per nascondere il registro degli operai iscritti al sindacato. Questa cronica violenza politica, che secondo le stime dell’epoca e successive lasciò 3.000 morti sul terreno in tutta la penisola, non può essere passata inosservata agli occhi di Lorenzo. Con la presa del potere del fascismo si sarebbe proceduto alla “normalizzazione”, particolarmente evidente a Fossano dopo l’allontanamento del militante socialista Giovanni Germanetto alla fine del 1922, e il suo arresto nella primavera del 1923. Come scrive lo storico Livio Berardo, già negli anni precedenti il carcere Santa Caterina di Fossano aveva ospitato oltre venti tra comunisti, socialisti e anarchici, e il direttore all’inizio degli anni Trenta “pur avendo indagato con la ‘massima diligenza’, non riuscì a scovare negli elenchi neppure un detenuto che avesse avuto precedenti squadristici”. Non è difficile ipotizzare quello che Lorenzo, all’epoca della marcia su Roma diciottenne, possa aver pensato della sua comunità cittadina, nella quale gli oppositori e i contestatori finivano in galera, i fascisti giravano impuniti, e lo Stato non interveniva a placare la violenza sistemica su operai e contadini. A scanso di equivoci non risulta che avesse la tessera del Partito nazionale fascista, né che abbia mai manifestato alcun tipo di adesione al regime. Sebbene non sarebbero stati solo i poteri locali e i borghesi a farsi attrarre dal fascismo, ma anche contadini e operai, tra le classi lavoratrici e in particolare tra i frontalieri serpeggiava un’ostinata avversione al regime – spesso si migrava anche perché era divenuto sempre più difficile trovare lavoro in una città fascista –, non ci sono riscontri documentari per poter ipotizzare che Lorenzo abbia avuto dei guai per la sua eventuale opposizione politica ai fascisti o al notabilato locale. Né compare tra i 670 antifascisti finiti nel Santa Caterina di Fossano durante il ventennio, fra i quali troviamo detenuti “illustri” come l’operaio comunista Remo Scappini, poi protagonista dell’insurrezione di Genova, al quale si sarebbe arreso un generale tedesco ad aprile del 1945. Questo non significa che Lorenzo, che viveva a meno di duecento metri dal Santa Caterina, non desse rogne alla sua comunità, anzi.
Pugni e pedate Lorenzo, e con ogni probabilità relativamente spesso, ne dava: ma soprattutto al “Pigher”, a quanto si sussurra ancora adesso in quel che rimane del Burgué, o quando riteneva si fosse ampiamente superata la sua capacità di sopportare. Oscuro rimane il modo in cui faceva a botte, che a quanto si percepisce incalzando in superficie la labile memoria della comunità cittadina forse era una delle sue attività principali, o comunque più evidenti, prima della sua partenza per Auschwitz; ma non riesco ad accedere ad alcun tipo di fonte che ci permetta di inquadrare uno di questi momenti, e non saprei come fare, se non scandagliando il suo flebile ma arroccato ricordo tra chi inloco ha indagato la sua storia o fonti e ricostruzioni che ci avvicinano al contesto in cui visse.
“L’essere in conflitto con qualcuno […] era una sorta di stato d’animo, un modus vivendi che esprimeva una certa normalità di rapporti, sia tra singoli che tra comunità”, ha scritto la studiosa Alessandra Demichelis in un saggio intitolato “Il buon tempo antico”. Cronache criminali dalle campagne cuneesi nel Novecento, che ci aiuta a colmare in parte questo vuoto documentario. In quella provincia e all’epoca dilagava “l’uso smodato di vino”, considerato un “nettare riparatore”, e favoriva furibondi litigi in cui non mancavano le bastonate, i coltelli e i coltellacci, i cutlass – i tajun de Il mondo dei vinti –; a partire dalla fine della Grande guerra fecero la loro apparizione, sempre più spesso, anche le armi da fuoco. In quel mondo rurale essere “pronto” significava essere “reattivo alla lite”, e le retate nelle osterie erano uno spettacolo frequente. Lesioni personali, diffamazioni, ingiurie, e la stessa ubriachezza erano tra i delitti più ricorrenti già all’inizio del Novecento: era un mondo, questo, “percorso da accattoni, ubriachi, folli, ciarlatani, truffatori e in cui i più deboli erano destinati a soccombere. Ogni villaggio aveva il suo ‘scemo’, deriso e maltrattato perché malato di mente o semplicemente ‘strano’, fuori binario”. Come ebbe modo di scrivere Nuto Revelli, “nell’arco delle nostre valli si contano a centinaia i ‘fragili di nervi’, gli alcolizzati, i misantropi: un mondo che i sani ignorano o temono o disprezzano”. Un mondo violento, brutale, dove l’uomo è il lupo dell’uomo: con o senza coltello e con o senza bastone – mi sento di escludere che Lorenzo possedesse un’arma da fuoco –, ci si doveva proteggere. E a volte, come recita l’adagio popolare, la miglior difesa è l’attacco.
Come scriveva il “Corriere Subalpino” nel 1914 (Lorenzo aveva dieci anni), “Fino a qualche anno fa buona parte del volgo in buona fede credeva che non potesse celebrarsi una festa campestre senza che la sagra fosse commemorata dalla distribuzione di qualche sacco di legnate…”: nelle risse a calci, pugni, morsi e bastonate per le quali non erano necessari neanche particolari pretesti talora, però, in questa “litigiosità diffusa a tutti i livelli” per la quale “ogni oggetto a portata di mano poteva trasformarsi in arma” (una bottiglia, una pietra, un falcetto, un bastone), “scappava” il morto. È ancora Demichelis che ne scrive:
L’alcol e il suo abuso […] era presentissimo sulle pagine dei giornali e nelle aule dei tribunali. Non c’era festa laica o religiosa, cerimonia o convivio che non si concludesse con colossali bevute cui seguivano, spesso, fatti delittuosi. L’osteria era il luogo del conforto e dello svago dove si cantava, si giocava a carte o alla morra, si discuteva. Sempre bevendo. I verbali delle forze dell’ordine forniscono conteggi sul quantitativo di vino consumato ed erano sempre litri “pro capite”. Bastava quindi una parola di troppo, chiamarsi a mò di scherno con nomignoli appiccicati e mal tollerati, bastava un disaccordo su un soldo non pagato.
“Oh Duro”, uno dice in un’osteria di Limone, e l’altro risponde “Oh Ver”, e si scatena una rissa furibonda a colpi di calci, pugni e coltellate. I delitti si consumavano dentro l’osteria ma soprattutto fuori, appena usciti o nelle ore successive. Non più lucidi e senza freni la rabbia esplodeva anche contro chi magari fino a pochi minuti prima stava seduto allo stesso tavolo.
[…] Le notizie su risse finite in tragedia sono così numerose che non si riesce a contarle, moltissime provocate dall’uso di armi bianche, specie coltelli con lame di lunghezza non consentita. Compagno inseparabile, quasi un prolungamento della mano dell’agricoltore, del pastore, dell’artigiano, il coltello era così diffuso che a più riprese si tentò di regolamentarne il possesso e l’utilizzo, vista la facilità con cui veniva sfoderato.
Nel saggio Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, un lavoro fondamentale dello storico Cesare Bermani, tra i pionieri di un uso sistematico della storia orale e “dal basso” in Italia e che ci sarà di notevole aiuto, si possono intercettare nudi dati e testimonianze che corroborano l’ipotesi che questo modusvivendi fosse stato spesso, com’è prevedibile, semplicemente esportato. Se l’amministratore di una fattoria nei pressi di Zossen nel 1941 avrebbe notato che gli italiani lavoravano “avendo sempre un randello a portata di mano”, che erano “indisciplinati e sfacciati” e che un sorvegliante era stato assalito e preso a pugni in faccia tre volte in un solo giorno; l’emigrato italiano Gino Vermicelli, che dalla Francia andò in Germania, avrebbe raccontato a Bermani che “questa gente che parte è sempre la più avventurosa e spregiudicata, quindi anche la più combattiva”:
Spesso sono anche delle “teppe”, nel senso che è gente che se ne fotte, di solito sono i timorati di Dio a starsene a casa, ed è naturalmente quella che ti pianta più grane, che fa borsa nera ecc. Questo è comunque il tipo di umanità che emigra allora, e che poi naturalmente può essere in parte simpatica e in parte no. Perché in queste emigrazioni tiri fuori la schiuma.
O ancora: non fosse che stentiamo a pensarlo così rumoroso e loquace, in una sorta di testacoda che ci porta dai primi decenni del Novecento al momento del “ritorno”, verrebbe da affiancare a Lorenzo l’immagine del Moro di Verona che Levi avrebbe incontrato ne La tregua, l’anziano compagno di camerata “di maggior formato” con un “petto profondo [che] si sollevava come il mare quando gonfia in tempesta”. Ecco l’istantanea di un momento del suo picaresco viaggio di ritorno:
Doveva discendere da una stirpe tenacemente legata alla terra, poiché il suo vero nome era Avesani, ed era di Avesa, il sobborgo dei lavandai di Verona celebrato da Berto Barbarani. Aveva più di settant’anni, e li dimostrava tutti: era un gran vecchio scabro dall’ossatura da dinosauro, alto e ben dritto sulle reni, forte ancora come un cavallo, benché l’età e la fatica avessero tolto ogni scioltezza alle sue giunture nodose. Il suo cranio calvo, nobilmente convesso, era circondato alla base da una corona di capelli candidi: ma la faccia scarna e rugosa era di un olivastro itterico, e violentemente gialli e venati di sangue lampeggiavano gli occhi, infossati sotto enormi archi ciliari come cani feroci in fondo alle loro tane.
Nel petto del Moro, scheletrico eppure poderoso, ribolliva senza tregua una collera gigantesca ma indeterminata: una collera insensata contro tutti e tutto, contro i russi e i tedeschi, contro l’Italia e gli italiani, contro Dio e gli uomini, contro se stesso e contro noi, contro il giorno quando era giorno e contro la notte quando era notte, contro il suo destino e tutti i destini, contro il suo mestiere che pure aveva nel sangue. Era muratore: aveva posato mattoni per cinquant’anni, in Italia, in America, in Francia, poi di nuovo in Italia, infine in Germania, e ogni suo mattone era stato cementato con bestemmie. Bestemmiava in continuazione, ma non macchinalmente; bestemmiava con metodo e con studio, acrimoniosamente, interrompendosi per cercare la parola giusta, correggendosi spesso, e arrovellandosi quando la parola giusta non si trovava: allora bestemmiava contro la bestemmia che non veniva.
Sono suggestioni che percorrono le campagne mediterranee ed europee dove erano di casa vino, imprecazioni, coltelli, bastoni; brandelli di esistenze strappati al contesto in cui Lorenzo nacque e crebbe, a quello in cui imparò a fare a botte con la vita e al luogo da cui fu capace in qualche modo di uscire, e non da solo; ma sono immagini che appartengono in parte alla storia, in parte alla cronaca e in parte al mito ribilanciato del “buon tempo antico”, appunto. Questi spunti fugaci eppur concreti, accostabili ma fino a un certo punto alla biografia di Lorenzo, possono farcelo intravedere, il muradur di Fossano? Possono riempire i decenni di silenzio – chissà, forse condito di bestemmie – che ci ha lasciato in eredità?
Sebbene negli anni del fascismo – tra la violenza degli esordi e la “normalizzazione” del regime – Fossano avesse visto impiantarsi l’industria casearia e rafforzarsi anche quella dei concimi chimici, e sebbene negli anni Trenta fosse aumentata la produzione agricola del territorio circostante anche in virtù di imperiosi diktat del regime, questo non aveva scalfito se non in superficie l’imponente flusso migratorio, onnipresente da secoli ma intensificatosi nel tardo Ottocento prevalentemente come movimento stagionale, e diventato via via più definitivo nel periodo tra le due guerre mondiali. Quella che tra gli anni Venti e Trenta accalcava le frontiere tra il nord-ovest dell’Italia e il sud-est della Francia era un’umanità vivace e sofferente: da decenni quel confine poroso era percorso da pastori e colportueurs – gli ambulanti –, da mendicanti che nelle fiere facevano ballare le marmotte, dai cavié che commerciavano capelli femminili per i fabbricanti di parrucche parigini, da venditori di botti, maglie di lana, tele. Il legame che unisce “La Granda” – la provincia di Cuneo di cui Fossano fa parte – e la Francia mediterranea e alpina è antico e radicato in profondità; e nel primo scorcio di Novecento era emersa sempre più chiara la disparità di bisogni e possibilità, dal momento che in Italia mancava il pane, e alla Francia servivano braccia. Anche l’annata agricola era complementare: da novembre a marzo sul territorio francese servivano sempre uomini per il raccolto – delle olive, dei fiori, delle primizie –, per i grandi alberghi della Costa Azzurra e per i lavori di scasso e preparazione dei terreni. E così, ha scritto la storica Renata Allio, “braccianti, terrazzieri, spaccapietre, portuali, facchini”, e con loro molte donne che andavano a fare le domestiche, le cameriere o a raccogliere fiori o olive, quando arrivava il freddo “scendevano” in Francia e lo facevano per lo più in clandestinità. L’emigrazione temporanea dei cuneesi della montagna e di quelli della pianura li portava a condurre una vita di stenti pur di risparmiare qualcosa, e a infittire le fila dei “giavanesi”, come erano definiti in generale i migranti di mezzo mondo che affollavano la Provenza degli anni Trenta rendendola un’isola di Giava, “sprofondata in un concerto tutto suo di voci bisbetiche, di bestemmie e di mugugni” nella vivida descrizione dell’omonimo romanzo del 1939 dell’ebreo polacco Jan Malacki, che adottò lo pseudonimo Jean Malaquais. Gli italiani in particolare erano agli occhi di molti locali dei “rospi” – babi –, come a Marsiglia, o dei veri e propri nemici, come l’eccidio del villaggio occitano di Aigues-Mortes del 1893 già aveva dimostrato. Come sempre accade, chiusure e rifiuti si accompagnavano a contaminazioni virtuose: il romanzo xenofobo di inizio Novecento L’Invasion del prolifico autore ultranazionalista Louis Bertrand, ambientato proprio a Marsiglia – a poco più di duecento chilometri da Embrun –, pur trasudando disprezzo per gli immigrati italiani ammetteva che i provenzali si capivano “a metà” con i piemontesi, ormai parecchie migliaia da decenni, da quando era terminata la Grande Migrazione.
Stiamo parlando di un rigagnolo all’interno di una vera e propria emorragia inarrestabile: tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana il fenomeno migratorio interessò ogni anno almeno l’1% dei piemontesi, e tra il 1916 e il 1926 i numeri ufficiali parlano di 402.079 piemontesi e valdostani che emigrarono, andandosi a sommare al milione e mezzo abbondante di persone partite dalle medesime regioni nei quarant’anni precedenti. Molte di loro andavano nel sud della Francia, e in alcune regioni nel primo decennio del dopoguerra gli arrivi si impennarono addirittura fino a quasi quaranta volte tanto, come ammoniva un articolo allarmista uscito su “Le Matin” nel 1928, quando Lorenzo di anni ne aveva ormai ventitré e aveva da poco terminato la naia.
Negli anni Venti e Trenta l’immigrazione clandestina in Francia era diventata un fenomeno di massa, e il regime fascista aveva tentato di porle un freno, stimolando esclusivamente l’emigrazione temporanea e reprimendo poi quella irregolare: le leggi fasciste che dal 1927 puntavano a restringere le maglie dell’emigrazione endemica, pur inceppando in parte il meccanismo dei frontalieri, avevano però ottenuto l’effetto opposto a quello auspicato. Molti migranti, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, avevano infatti scelto di radicarsi stabilmente in Francia. Nonostante le tensioni inevitabili in presenza di cospicui flussi, però, come ha rilevato ancora Allio, “l’assimilazione fu rapida e oggi i nipoti degli immigrati piemontesi sono perfettamente integrati e indistinguibili dalla popolazione autoctona. Spesso abitano ancora nella casa costruita dai nonni. Percorrendo la periferia collinare di Nizza, Cannes, Vallauris o la piana di Grasse, sulle targhette dei campanelli delle case mono-famigliari con giardino si leggono tuttora in prevalenza cognomi piemontesi e per la maggior parte cuneesi”.
E venne la notte
Lorenzo “Il Tacca”, insomma, non era certo l’unico che stava più di là che di qua, non era l’unica vita randagia che partiva d’inverno e tornava in primavera, e molti stavano e basta e forse erano più francesi che altro, ormai. Alla metà degli anni Quaranta c’erano 437.000 lavoratori italiani in Francia, 120.000 dei quali erano edili (muratori e manovali in particolare), e se si calcolano le famiglie e i molti naturalizzati francesi – non meno di 150.000 agli inizi del decennio secondo l’ambasciatore Raffaele Guariglia – ci si avvicina al milione di presenze su suolo transalpino. È difficilmente ipotizzabile che questa popolazione per lo più di estrazione popolare fosse fascista. In primis perché – l’ho accennato – non di rado ci si spostava proprio in ragione del fatto che la vita era divenuta più complicata a causa del proprio atteggiamento tiepido o maldisposto nei confronti del regime; un cappellano tra i lavoratori agricoli italiani in Alta Slesia e poi in Austria avrebbe detto a Bermani che “chi va via, spesso lo fa perché non è riuscito a farsi assumere, e le ragioni possono essere varie, anche politiche”. In secondo luogo perché la presenza di antifascisti nella comunità italo-francese era imponente: insistendo sulla difficoltà di distinguere gli uni dagli altri, Bermani arriva a sostenere che “quasi tutti gli italiani in Francia [fossero] quindi in posizione critica od ostile verso il fascismo”, considerato anche il fatto che i “fuoriusciti” politici – pur non essendo dotati di un organismo di propaganda unitario – erano in larghissima parte lavoratori.
Resta un fatto che nel 1940 gli italiani e gli italo-francesi, a prescindere dalle loro convinzioni più o meno marcate, divennero ufficialmente nemici: il loro paese d’origine aveva attaccato la Francia attraversando l’arco alpino occidentale per la pugnalata alle spalle, le coup de poignard dans le dos, in seguito all’offensiva dell’alleato nazista. È ancora l’emigrato Vermicelli, all’epoca in Francia da dieci anni, a raccontare:
Arriva la guerra, la Francia è in guerra con la Germania, tu sei un operaio originario di un paese neutrale e fai il tuo lavoro. Non appena la radio ha comunicato che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia – io lavoravo alla fabbrica Licorne, faceva dei fuoristrada per l’esercito francese – mi ha chiamato il caporeparto: “Vai in ufficio”. M’han dato i miei quattro soldi e m’han mandato a casa. E così han fatto con tutti gli altri italiani che lavoravano lì, perché ovviamente non era possibile che in una fabbrica militare lavorasse un cittadino di un paese nemico. Arrivato a casa, mi collego con gli antifascisti che conoscevo e la direttiva che viene è questa. “Andiamo tutti ad arruolarci nell’esercito”. Si sapeva benissimo che non ci avrebbero mai chiamati a fare il soldato. Ma si sapeva anche che ci poteva essere un qualche stupido prefetto che ti mandava in campo di concentramento. Infatti i francesi, subito dopo la dichiarazione di guerra, avevano messo qualche decina di migliaia di italiani in campo di concentramento.
Un’altra guerra mondiale, una seconda, iniziava così per quei poveracci come Lorenzo che avrebbero dovuto far grande l’Italia, nelle intenzioni di chi mandava gli uomini a uccidere e a morire in Francia, e poi in Grecia, in Jugoslavia, in Unione sovietica. Da Fossano, e anche dal Burgué, erano partiti in centinaia, a fare le guerre del duce: l’elenco dei caduti lo si trova ancora oggi dietro al monumento nei pressi del Bastione del Salice, il residuo della cinta bastionata del XVI secolo. Risulterebbe invece (di nuovo) titanica – un ago in decine di pagliai – l’impresa di rintracciare la presenza di Lorenzo nel 1940 in un triangolo immaginario tra Nizza, Tolone e Embrun (Levi in un’intervista uscita postuma avrebbe parlato anche di Lione e Tolosa, ammettendo di non ricordare); un percorso di quasi 400 chilometri considerando solo il perimetro. Ma lui era una di quelle migliaia di persone – non meno di 8.500 –, stando a quanto ricostruito da Levi e da Angier, che erano state imprigionate: quando il colpo di pugnale era stato metaforicamente sferrato, i francesi si erano difesi come lo si fa nel momento in cui il nemico varca la soglia di quella che percepisci come “casa” e si diffida di ciascuno, in base al nome che porta, al luogo in cui ha cominciato a faticare. Mentre gli italiani subivano una delle battute d’arresto più umilianti della loro storia militare, Lorenzo aveva tirato il fiato. In gabbia gli uomini con i calli alle mani e ai piedi sopravvivono quasi sempre – almeno così credeva anche lui, prima di “Suiss” – e si mangia pure meglio che fuori, ma era durata solo qualche giorno, la tregua dal tanto andare chini. Perché quando i nazisti, anche per conto degli italiani inchiodati a ridosso delle frontiere dopo qualche passo, avevano annientato la Francia e avevano preso Parigi, il 14 giugno, Lorenzo era stato liberato, e con lui tanti compagni, braccia necessarie all’economia dell’Asse; a inizio luglio era certamente già a Fossano, all’ufficio di collocamento, a chiedere un sussidio di disoccupazione. Lavorare di nuovo in Francia sarebbe stato più ostico, di lì in avanti.
In quella regione di contaminazioni e contatti il vicino e lo straniero, l’italiano, aveva infatti ormai acquisito anche agli occhi della gente comune lo status di nemico: in seguito a una meticolosa preparazione, la frontiera si era irrigidita, trasformandosi letteralmente in un fronte. Gli italiani come Lorenzo, anche se avversi al fascismo, erano nati nella patria dei futuri dominatori, che negli anni seguenti avrebbero occupato un’ampia area del sud della Francia, in buona parte corrispondente proprio alle zone in cui lui si recava a lavorare. L’Asse voleva conquistare il mondo, si partiva dall’Europa che si sarebbe ridotta in macerie, nella quale si sarebbe comunque trovato di che campare; e come Primo Levi fa sostenere al suo alter ego Libertino Faussone ne La chiave a stella, “a dire di no a un lavoro uno impara tardi”. E ce ne sarebbe stato, da marciare, con o senza una divisa. Non posso sapere quante volte Lorenzo sia tornato in Francia irregolarmente nei primi anni Quaranta: anche se mi sento di escluderlo, potrebbe essere addirittura partito da lì attraverso un canale – inizialmente volontario, poi sempre più forzato – che portava migliaia di lavoratori italiani in Germania direttamente dal territorio francese; a nulla sarebbero valse, ad esempio, le pressioni del governo fascista perché gli operai italiani venissero rimpatriati prima di essere inviati nel Terzo Reich. In qualunque dei tre territori uno fosse impiegato, c’è da dire, lavorava comunque per l’Asse; tornare in Italia oltretutto poteva essere rischioso, e in effetti la sua classe di leva venne mobilitata. Una parte dei 178.674 lavoratori rientrati dalla Francia in Italia tra il 1937 e il 1942, in ogni caso, ripartì verso la Germania con dei contratti collettivi a termine: ritengo che Lorenzo fosse tra questi. Come certifica il suo libretto di lavoro, riprodotto parzialmente anche nel fascicolo di Yad Vashem, il muratore di Fossano ad Auschwitz ci arrivò infatti con la ditta italiana “G. Beotti”, purtroppo sempre sprovvista di altri estremi che aiuterebbero a individuarla, e questo dovrebbe essere accaduto tramite uno zio che lo fece chiamare a Embrun, oppure tramite suo fratello Giovanni, barba Giuanin. Primo Levi era stato più vago, scrivendo in Lilìt e altri racconti che “la sua scelta era stata ben poco volontaria” (tornerò su questo aspetto), perché quando i tedeschi erano arrivati in Francia, dopo il suo breve internamento, “avevano ricostituito l’impresa e l’avevano trasferita in blocco in Alta Slesia”. Non è da escludere che sia andata in effetti così, naturalmente, ma il libretto di lavoro di Lorenzo rivela come impiego immediatamente precedente alla partenza per “Suiss” oltre un mese presso una ditta di Tradate, comune del Varesotto, in un cantiere a Levaldigi, frazione di Savigliano ancora oggi nota per l’omonimo aeroporto, che proprio in quei mesi si stava ampliando massicciamente a uso militare, espropriando diverse proprietà del circondario: la committenza infatti era l’aeronautica, come rivela l’archivio storico della ditta.
Le parole di Levi lasciano aperta una pista: sembrano suggerire che Lorenzo avesse intrapreso il percorso più rapido, risparmiandosi perlomeno qualche decina di chilometri a piedi. Lui, che tanto marciava: tolti i continui andirivieni da frontaliero sappiamo con certezza che Lorenzo di chilometri ne avrebbe fatti millequattrocentododici in quattro – o più probabilmente cinque – mesi, seguendo la ferrovia, nel 1945. Ma questo è il capolinea di questa storia, o quasi, e per capirla serve mettere ordine e imparare a conoscere Lorenzo anche e innanzitutto come è stato dato in sorte a Primo.
“Se un capomastro gli faceva un’osservazione, anche con il migliore dei modi, lui non rispondeva, si metteva il cappello e se ne andava”: Levi avrebbe ricordato così gli anni che precedettero il suo incontro con Lorenzo; suppongo che si tratti di un’immagine ricavata di prima mano da lui stesso, o forse per altre vie, a partire dai suoi familiari che avrebbero confermato queste informazioni ad Angier. La scena è ampiamente verosimile, dato il noto carattere irascibile di Lorenzo, sebbene ammantata da un’aura ieratica forse mitizzante, e dalla formulazione scelta da Levi deduco con cautela che questo fosse accaduto più di una volta tra la metà degli anni Trenta e il 17 aprile del 1942, quando infine il muradur di Fossano giunse ai margini di Auschwitz, dove avrebbe lavorato alla “Buna”, fondata nell’ottobre di quell’anno con l’obiettivo di produrre gomma sintetica – la “buna”, per l’appunto, acronimo di Butadien-Natrium-Prozess – e benzina sintetica e coloranti e altri sottoprodotti del carbone.
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea, secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Elegia
Troppo orgoglioso per morire, morì debole e cieco
Nel più oscuro dei modi, e non indietreggiò,
Un uomo freddo; e gentile, coraggioso nel suo angusto amor
proprio!
Nel più oscuro dei giorni. Oh, possa egli per sempre
Riposare sereno, finalmente, sull’estrema collina
Delle croci, sotto l’erba, in amore, e qui tra i lunghi
Stormi ringiovanire, e mai giacere smarrito
O inerte i giorni innumerevoli della sua morte,
Benché sopra ogni cosa desiderasse il seno di sua madre.
Che era polvere e sonno, e nella terra cortese
La nera giustizia della morte, cieca e sconsacrata.
Che non trovi mai requie ma sia generato e mantenuto,
Pregai nella stanza accovacciante, presso il suo cieco letto,
Nella casa attutita, qualche secondo prima
Di mezzogiorno, e col buio, e alla luce. Il fiume dei morti
Gli venava la povera mano che stringevo, e io vedevo
Attraverso i suoi occhi senza lume le radici del mare.
Questo pane che spezzo
Questo pane che spezzo un tempo era frumento,
questo vino su un albero straniero
nei suoi frutti era immerso;
l’uomo di giorno o il vento nella notte
piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell’uva.
In questo vino, un tempo, il sangue dell’estate
batteva nella carne che vestiva la vite;
un tempo, in questo pane,
il frumento era allegro in mezzo al vento;
l’uomo ha spezzato il sole e ha rovesciato il vento.
Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
devastare le vene, erano un tempo
frumento ed uva, nati
da radice e linfa sensuali.
E’ il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.
E morte non avrà dominio
E morte non avrà dominio.
E i morti nudi saranno uno
Con l’uomo nel vento e la luna occidentale;
Quando le loro ossa saranno scarnificate e dissolte,
Avranno stelle ai gomiti e ai piedi;
Per quanto impazziti saranno savi,
Per quanto affondino nel mare torneranno a risorgere;
Per quanto gli amanti si perdano amore resterà;
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Sotto i gorghi del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Torcendosi ai tormenti al cedere dei tèndini,
Legati a una ruota, pur non si romperanno;
Si spaccherà la fede in quelle mani,
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Strappati da ogni lato non si spaccheranno
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Mai più possano i gabbiani gridargli agli orecchi
Né onde frangersi furiose sulle rive;
Dove fiore sbocciò possa fiore mai più
Sollevare il capo agli scrosci della pioggia;
Per quanto impazzite e morte come chiodi,
Le teste di quei tali martellano fra le margherite;
Irromperanno nel sole fin che il sole cadrà,
E morte non avrà dominio.
Non andartene docile in quella buona notte
Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
Perchè dalle loro parole non diramarono fulmini
Non se ne vanno docili in quella buona notte,
I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide
Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
Troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.
Biografia di Dylan Marlais Thomas( 1914-1953)-
Dylan Marlais Thomas, poeta gallese
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea,secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Appassionatosi alla poesia fin da piccolo, scrive i primi componimenti già a undici anni sul giornalino della scuola, arrivando a pubblicare “Diciotto poesie”, la sua prima raccolta, nel 1934. Il debutto è clamoroso, e suscita scalpore nei salotti letterari di Londra. La lirica più nota è “And death shall have no dominion”: la morte è, insieme all’amore e alla natura, uno dei temi più importanti delle sue opere, incentrate sull’unità drammatica ed estatica del creato. Nel 1936 Dylan Thomas pubblica “Venticinque poesie” e sposa Caitlin MacNamara, ballerina che gli darà tre figli (tra i quali Aeronwy, futura scrittrice).
Trasferitosi in una casa sul mare a Laugharne, nella cosiddetta Boathouse, scrive molte poesie nella solitudine di quello che in “The writing shed” descrive come il suo capanno verde. A Laugharne è ispirata anche Llareggub, località immaginaria che farà da sfondo al dramma “Under milk wood”. Nel 1939 Thomas pubblica “Il mondo che respiro” e “La mappa dell’amore”, cui fa seguito, nel 1940, una raccolta di storie dall’evidente matrice autobiografica, intitolata “Ritratto dell’artista da cucciolo”.
Nel febbraio del 1941, Swansea viene bombardata dalla Luftwaffe: subito dopo i raid, il poeta gallese scrive un dramma radiofonico, “Return journey home”, che descrive il Kardomah Cafè della città come raso al suolo. A maggio, Thomas e la moglie si trasferiscono a Londra: qui egli spera di trovare lavoro nell’industria del cinema, e si rivolge al direttore della divisione film del Ministero dell’Informazione. Non avendo ricevuto risposta, ottiene comunque un impiego presso la Strand Films, per la quale sceneggia cinque pellicole: “This is colour”, “New towns for old”, “These are the men”, “Conquest of a germ” e “Our country”.
Nel 1943 intraprende una relazione con Pamela Glendower: solo una delle tante scappatelle che hanno contraddistinto e contraddistingueranno il suo matrimonio. Nel frattempo, la vita del letterato si caratterizza anche per vizi ed eccessi, sperpero di denaro e alcolismo: un’abitudine che conduce la sua famiglia sino alle soglie della povertà. E così, mentre nel 1946 viene edito “Death and entrances”, il libro che costituisce la sua consacrazione definitiva, Dylan Thomas deve fare i conti con i debiti e la dipendenza dall’alcol, nonostante i quali ottiene comunque la solidarietà del mondo intellettuale, che lo assiste moralmente ed economicamente.
Nel 1950 intraprende un tour di tre mesi a New York, su invito di John Brinnin. Nel corso del viaggio in America, il poeta gallese viene invitato a numerose feste e celebrazioni, e non di rado si ubriaca, diventando molesto e rivelandosi un ospite difficile da gestire e scandaloso. Non solo: spesso beve anche prima delle letture che deve tenere, al punto da far sì che la scrittrice Elizabeth Hardwick si chieda se arriverà un momento in cui Thomas crollerà sul palco. Tornato in Europa, egli inizia a lavorare a “In the white giant’s thigh”, che ha modo di leggere nel settembre del 1950 in televisione; comincia a scrivere anche “In country heaven”, che però non viene mai completato.
Dopo un viaggio in Iran effettuato per la lavorazione di un film della Anglo-Iranian Oil Company che poi non vedrà mai la luce, lo scrittore fa ritorno in Galles per scrivere due poesie: “Lament” e “Do not go gentle into that good night”, un’ode dedicata al padre morente. Nonostante le numerose personalità che gli offrono un sostegno economico (la Principessa Margherita Caetani, Margaret Taylor e Marged Howard-Stepney), egli si trova sempre a corto di soldi, così che si risolve a scrivere diverse lettere di richieste di aiuto a importanti esponenti della letteratura del tempo, tra cui T.S. Eliot.
Confidando nella possibilità di ottenere altri lavori negli Stati Uniti, compra a casa a Londra, a Camden Town, al 54 di Delancey Street, per poi attraversare nuovamente l’Oceano Atlantico nel 1952, insieme con Caitlin (che vuole seguirlo dopo avere scoperto che nel viaggio americano precedente lui l’aveva tradita). I due continuano a bere, e Dylan Thomas diventa sempre più sofferente a causa di problemi ai polmoni, complice il tour de force americano che lo porta ad accettare quasi cinquanta impegni.
E’, questo, il secondo dei quattro tour nella Grande Mela. Il terzo va in scena nell’aprile del 1953, quando Dylan declama una versione non definitiva di “Under milk wood” all’Università di Harward e al Poetry Centre di New York. La realizzazione del componimento, per altro, è piuttosto turbolenta, e viene completata solo grazie all’assistente di Brinnin, Liz Reitell, che chiude a chiave in una camera Thomas per costringerlo a lavorare. Con la stessa Reitell egli passa gli ultimi dieci giorni del suo terzo viaggio newyorchese, per una breve ma passionale relazione amorosa.
Tornato in Gran Bretagna non prima di essersi rotto un braccio cadendo dalle scale mentre era ubriaco, Thomas è sempre più malato. Nell’ottobre del 1953 si reca a New York per un altro tour di letture delle sue opere e conferenze: afflitto da problemi respiratori e dalla gotta (per le quali in Gran Bretagna non si era mai curato), affronta il viaggio nonostante le sue difficoltà di salute e portando con sé un inalatore per respirare meglio. In America, festeggia il sue trentanovesimo compleanno, anche se deve abbandonare la festa organizzata in suo onore a causa dei soliti malanni.
Il clima e l’inquinamento della Grande Mela si rivelano letali per la salute già precaria dello scrittore (che tra l’altro continua a bere alcol). Ricoverato al St. Vincent’s Hospital in stato di coma etilico dopo essersi ubriacato, Dylan Thomas muore a mezzogiorno del 9 novembre 1953, ufficialmente per le conseguenze di una polmonite. Oltre a “Under milk wood”, verranno pubblicati postumi anche “Adventures in the skin trade”, “Quite eraly one morning”, “Vernon Watkins” e le lettere scelte “Selected letters”.
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