poesia di Natalia Ginzburg–“Gli uomini vanno e vengono”-
Natalia Ginzburg-Era il dicembre del 1944 quando Natalia Ginzburg pubblicò questa poesia scritta in memoria di suo marito Leone Ginzburg morto nelle carceri di Roma il 5 febbraio 1944, ferocemente ucciso dalla Gestapo.
Gli uomini vanno e vengono
per le strade della città
Comprano libri e giornali,
muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso,
le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo
per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo
con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta.
Era il viso consueto,
solo un poco più stanco.
E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre.
E le mani erano quelle che
spezzavano il pane e
versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo
che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso
per l’ultima volta.
Se cammini per strada
nessuno ti è accanto
Se hai paura
nessuno ti prende per mano
E non è tua la strada,
non è tua la città.
Non è tua la città
illuminata. La città
illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno
e vengono comprando
cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco
alla quieta finestra
a guardare il silenzio,
il giardino nel buio.
Allora quando piangevi
c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi
c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera
s’apriva, resterà chiuso
per sempre, e deserta
è la tua giovinezza.
Spento il fuoco,
vuota la casa-
Biografia di Natalia Ginzburg
Natalia Ginzburg
Natalia Ginzburg,Scrittrice italiana (Palermo 1916 – Roma 1991); sposò in prime nozze L. Ginzburg, in seconde G. Baldini. Formatasi nell’ambiente degli intellettuali antifascisti torinesi, esordì nel 1942 con un racconto lungo, La strada che va in città, uscito, per ragioni razziali, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte; pubblicò poi altri racconti lunghi (È stato così, 1947; Valentino, seguito da Sagittario, 1957; Le voci della sera, 1961; poi raccolti, con il precedente, in Cinque romanzi brevi, 1964; Famiglia, 1977), alcuni romanzi (Tutti i nostri ieri, 1952; Caro Michele, 1973; La città e la casa, 1984), due volumi fra il saggio e il racconto autobiografico (Le piccole virtù, 1962; Lessico famigliare, 1963) e uno che si colloca invece tra il saggio e il romanzo (La famiglia Manzoni, 1983). La sua narrativa, che per qualche aspetto risente di quella di C. Pavese, mira a rendere con distacco oggettivo una realtà quotidiana, quasi di cronaca, colta nel suo fluire; ed è venuta approfondendo in senso psicologico il proprio campo d’osservazione etico-sociale, che ha al centro una o più figure di donne “sacrificate”, ma accettanti animosamente il loro destino. La G. scrisse anche per il teatro (Ti ho sposato per allegria, L’inserzione, La segretaria, Paese di mare, ecc., riunite nei voll. Ti ho sposato per allegria e altre commedie, 1966, e Paese di mare, 1973) e pubblicò raccolte di articoli e saggi (Mai devi domandarmi, 1970; Vita immaginaria, 1974). Dopo le Opere (2 voll., 1986-87), sono apparsi la commedia L’intervista (1989) e il breve saggio Serena Cruz e la vera giustizia (1990). Dal 1983 fu deputata della Sinistra indipendente. Nel 2016, nella ricorrenza del centenario della nascita, è stata edita a cura di D. Scarpa la raccolta di testi per lo più inediti Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988.Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana.
Leone e Natalia Ginzburg
Natalia Levi Ginzburg-Palermo 1916 – Roma 1991Articolo di Laura Balbo
La sua vita ha attraversato eventi storici difficili, pesantissime tragedie personali. Cresce a Torino in un ambiente intellettuale e antifascista: continui controlli della polizia, la prigione che tocca diversi membri della sua famiglia, tra cui il padre e alcuni dei fratelli. Sono anni che sintetizzerà bene, in seguito, nel suo Lessico famigliare (1963). Nel 1938 si sposa con Leone Ginzburg, che nel 1940 viene mandato al confino in un piccolo paese dell’Abruzzo, e con lui vivranno Natalia e i tre figli (Carlo, Andrea, Alessandra) fino al 1943. Ricorderà quel momento in un testo delle Piccole virtù (1962), un tempo vissuto come un passaggio scomodo e che si rivelerà essere invece il più felice.
Tra il 1943 e il 1944, i Ginzburg presero parte a diverse attività di editoria clandestina. Al loro ritorno a Roma, Leone fu arrestato e condotto in prigione, dove morì per tortura, senza poter rivedere la moglie ed i tre figli.
La scrittrice torna a Torino e, al termine della guerra, inizia a collaborare alla casa editrice Einaudi. Traduzioni, romanzi, saggi, opere di teatro: la sua attività di scrittrice riempie i decenni successivi. Si sposerà di nuovo, nel 1950, con Gabriele Baldini, che morirà nel 1969. E sarà anche parlamentare (1983 e 1987), eletta nella Sinistra Indipendente, attiva in iniziative per la difesa dei diritti e contro il razzismo.
È lì che io l’ho conosciuta.
Scrivere queste righe ha significato per me rendermi conto di qualcosa di inaspettato: come una persona che da tanti anni non è più con noi possa, a un tratto, essermi di nuovo vicina. Un’emozione profonda, che non conoscevo.
Natalia, nel ricordo, è proprio lei: affettuosa con le persone che le sono attorno, molto consapevole dei problemi umani e politici del mondo di cui siamo parte. Schiva e discreta. Silenziosa, in molte occasioni. Sempre attenta. La sua presenza non si deforma, non si appanna.
È la persona grazie alla quale ho capito come incontrare generazioni, esperienze, e pezzi di storia differenti da quelli che viviamo, possa costituire un “ponte” molto importante – se lo sappiamo utilizzare – per imparare, in qualche modo, a vivere: consapevoli, anche fiduciosi. Ci sono momenti e aspetti difficili, della vita e della storia; ma magari, andando avanti, di tutto questo capiremo il senso. Quel che succede attorno a noi, cercare di capirlo; e riuscire a fare la nostra parte. Non starne fuori, o ai margini. Un disorientamento estremamente attento, che sta tutto nella misura dell’umano. Questo c’è nei suoi scritti.
Il suo linguaggio è “umile”; lo sono i titoli dei romanzi, Le voci della sera (1961); Lessico famigliare (1963), Ti ho sposato per allegria (1966); La città e la casa (1984). Ci sono le “piccole cose”, la “vita quotidiana” (termini usati in alcuni filoni della sociologia: dunque, anche in questo c’è tra noi un legame).
I personaggi che nella sua scrittura arriviamo a conoscere come se davvero li avessimo incontrati, per quanto ci sono messi vicino, nei gesti semplici, nelle parole e anche in quello che non dicono, vivono negli anni del fascismo, delle leggi contro gli ebrei, di Mussolini e dell’Asse Roma-Berlino, della guerra. Ho chiara in mente (Tutti i nostri ieri, 1952) la descrizione del momento in cui si sparge la notizia della caduta del fascismo, e si parla dell’armistizio, e si spera che sia tutto finito. Ma poi arrivano i tedeschi, e invece «gli inglesi non arrivano mai».
Molti dei suoi libri sono costruiti attraverso lo sguardo di donne. C’è la vita di bambine (Natalia, in Lessico Famigliare), di giovani ragazze incinte, di vecchie (la «signora Maria»), di donne adulte con i loro figli (Lucrezia, La città e la casa) le contadine, le borghesi.
E gli uomini: quelli in guerra, lontani per mesi e per anni; quelli di cui si sapeva solo che erano “in Russia”. Cenzo Rena e Franz che si consegnano ai tedeschi per salvare la vita di dieci ostaggi innocenti, e vengono fucilati: sono le ultime pagine dei “nostri ieri”.
Ho amato moltissimo l’invenzione (appunto nell’ultimo testo che ho citato) di mettere insieme le lettere di persone, familiari, amici, che si tengono in contatto o si ritrovano (e cambiamenti, sofferenze, il passare del tempo). Il tono, le parole sono quelle della vita di ogni giorno e delle “piccole cose”, che però sono parte di vicende storiche complesse, pesanti. Complesse e pesanti anche le sue esperienze, a partire dalla morte terribile di Leone Ginzburg, il marito torturato e ucciso in carcere nel ‘44. Di questo lei non parlava mai.
Ci siamo “viste” per la prima volta (entrambe come neodeputate elette nella Sinistra Indipendente, ed entrambe “nuove” dell’ambiente) nel corso di una affollata riunione, in una stanza di Montecitorio. Mi ero seduta vicino ad alcune altre persone del nostro “gruppo” quando è entrata, un po’ incerta tra tanta gente in quel contesto inconsueto. Sono andata verso di lei e le ho suggerito di venire dove già alcuni di noi erano seduti. Da allora, mi ha definito il suo “angelo custode” nelle prime esperienze parlamentari, quelle burocratiche in particolare: fare il tesserino di deputato, identificare la propria cassetta postale tra le molte centinaia disponibili, trovare l’ascensore giusto per salire ai piani superiori. Allora c’erano queste cose, poi certo molto sarà cambiato nel palazzo.
Abbiamo passato insieme molto tempo: le sedute durante i lunghi dibattiti parlamentari, riunioni di ogni tipo, convegni. Nel 1989 abbiamo costituito, insieme ad altri, l’associazione Italia/Razzismo. E momenti liberi: a casa sua a Roma; una volta a Sperlonga durante le vacanze e anche un’estate, chissà come, in Val d’Aosta, con Vittorio Foa. Voglio ricordare anche lui, che mi è altrettanto caro.
I figli, i nipoti. In un paio di occasioni anche Giulio Einaudi: lui mi sembrava poco contento che io fossi tra i piedi, proprio non c’entravo con il loro mondo. In effetti non ricordo che si sia mai parlato dei suoi romanzi o di letteratura in generale: forse avrei dovuto farlo.
Certe sue brevi frasi comunque mi sono rimaste in mente. Alcune dei suoi libri; altre, di momenti vissuti insieme: quelle dell’ultima volta che ci siamo viste. Abbiamo parlato di cose quotidiane, come sempre. Il giorno dopo mi hanno chiamato, e ho saputo che non c’era più.
Le tengo dentro di me: con gratitudine e un senso di profonda tenerezza.
Natalia Ginzburg
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Natalia Levi Ginzburg
(Per la bibliografia si rimanda alla voce, riportiamo qui alcuni testi non citati)
Natalia Ginzburg, La strada che va in città, Einaudi, 1942
Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970
Natalia Ginzburg, Caro Michele, Mondadori 19723
Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, Einaudi 1983
Referenze iconografiche: Leone and Natalia Ginzburg. Fonte: Biography of Natalia Ginzburg. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2012-Fonte- Enciclopedia delle donne-
Renato Caputo- Antonio Gramsci, il pacifismo e la non violenza
Fonte-Ass. La Città Futura
Fonte-Ass. La Città Futura -Il lemma pacifismo ricorre quattro volte nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, mentre tre volte s’incontra il termine “pacifista”. Solo cinque di questi testi sono degni d’interesse, dal momento che due ricorrenze sono presenti in dei testi A ripresi integralmente nei corrispondenti testi C, cioè nei quaderni tematici. Nel primo testo significativo, Gramsci critica il particolarismo nazionalista che pretende di incarnare “il vero universalista, il vero pacifista”, sulla base di una fraintesa considerazione di André Gide secondo la quale si servirebbe “meglio l’interesse generale quanto più si è particolari” [1]. A parere di Gramsci il fraintendimento è causato dal fatto che si finisce con il confondere l’“essere particolari”, con il “predicare il particolarismo. Qui – aggiunge acutamente Gramsci – è l’equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista” (3, 2: 284). Allo stesso modo, si finisce con il fraintendere il concetto universale di nazionale confondendolo con il particolarismo nazionalista. A tal proposito Gramsci presenta un esempio illuminante: “Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista” (ibidem).
Allo stesso modo Gramsci, nel secondo testo in cui ricorre il lemma, critica Curzio Malaparte che sosteneva essere vero pacifista il patriota “rivoluzionario”, cioè il fascista (cfr. 23, 22: 2210). In quest’ultimo caso si confonde o, anche in tal caso, si finge di confondere il rivoluzionario, con il suo esatto contrario, il controrivoluzionario e/o il reazionario, secondo un collaudato schema propagandistico fascista che, con una concezione come di consueto autocontraddittoria amava dipingersi come una rivoluzione conservatrice. D’altro canto questi aspetti contraddittori del fascismo da un lato sono tenuti insieme dal primato assolutistico di una prassi volutamente irrazionalista, sulla base della quale, a seconda del contesto storico si sarebbe stati favorevoli al progresso e addirittura alla rivoluzione o, piuttosto, alla conservazione e finanche alla reazione, in nome del più spudorato opportunismo trasformista. D’altro lato, questo apparentemente assurdo voler tenere insieme due termini palesemente in contraddizione l’uno con l’altro, per cui il primo necessariamente esclude il secondo e viceversa, corrisponde in pieno alla natura di classe del ceto sociale di riferimento del fascismo, cioè alla piccola borghesia in quanto tale socialconfusa in quanto in essa convivono e necessariamente si scontrano, al proprio interno, lo sfruttatore e lo sfruttato. Allo stesso modo nel rappresentante del ceto medio convive il lavoratore subordinato e sfruttato da quello stesso Stato di cui è esponente per antonomasia in quanto non solo cittadino, ma al contempo funzionario, quando non pubblico ufficiale.
Vi è poi un breve accenno, contenuto in un testo A e C, a una “mediocre” letteratura di guerra che si è affermata in Europa “col proposito prevalente di arginare la mentalità pacifista alla Remarque” (23, 25: 2213), prodottasi dopo il successo internazionale di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Da ciò si comprende bene il ruolo guerrafondaio dell’industria culturale, anche perché in paesi a capitalismo avanzato la guerra resta uno dei modi più efficaci per aggirare e rinviare la crisi di sovrapproduzione. Come osserva a ragione Gramsci: “questa letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello culturale, cioè come creazione pratica di «masse di sentimenti e di emozioni» da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra perfettamente nel tipo «brescianesco»” (ibidem). Dunque, dinanzi agli attacchi guerrafondai di conservatori e reazionari occorre difendere il pacifismo democratico.
Infine vi sono da ricordare due testi nei quali Gramsci prende posizione contro due specifiche concezioni, determinazioni o accezioni del concetto di pacifismo. La prima è sorta con il cristianesimo primitivo, si è sviluppata nel Medio Evo con il francescanesimo e ha conosciuto una significativa ripresa nel mondo moderno da parte di Gandhi, sino a divenire in India una “credenza popolare”. Tale concezione raggiunge la sua massima espressione con la “non resistenza e non cooperazione” di Gandhi. A tale proposito Gramsci osserva acutamente che “il rapporto tra Gandhismo e Impero Inglese è simile a quello tra cristianesimo-ellenismo e impero romano. Paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e militare) sebbene come numero di abitanti trascurabili. Che molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili, determina il rapporto cristianesimo primitivo – gandhismo” (6, 78: 748). La non violenza di una massa portatrice d’un principio spirituale superiore di fronte a una minoranza che la opprime “porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, (…) che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola” (ibidem). Analogo alle moderne lotte non-violente di ispirazione gandhiana era l’atteggiamento dei “movimenti religiosi popolari del Medio Evo, francescanesimo”. In effetti anch’essi, come la resistenza passiva degli indiani di contro al colonialismo imperialista inglese, “rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda «esposizione» della loro «natura umana» misconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio padre e di uguaglianza ecc.” (6, 78: 748-49).
Nel secondo caso il lemma pacifismo ricorre in una nota in cui Gramsci contesta le interpretazioni conservatrici di Georges Sorel. Sebbene Sorel, per l’“incoerenza dei suoi punti di vista”, possa “essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici” – dall’estrema destra all’estrema sinistra – “tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni”. In altri termini, sebbene “bizzarrie, incongruenze, contraddizioni si trovano nel Sorel sempre e ovunque”, “egli non può essere distaccato da una tendenza costante di radicalismo popolare”. Tanto più che il sindacalismo rivoluzionario di Sorel, per Gramsci, non può esser considerato “un indistinto «associazionismo» di «tutti» gli elementi sociali” (17, 20: 1923), avendo un chiarofondamento di classe. Egualmente “la sua «violenza» non è la violenza di «chiunque» ma di un [solo] «elemento» che il pacifismo democratico tendeva a corrompere” (ibidem), cioè il proletario moderno e, in primis, la classe operaia [2].
Note:
[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume I, p. 284. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e – dopo i due punti – il numero di pagina di questa edizione.
[2] Gramsci conduce a termine la sua disamina critica della stumentalizzazione da parte degli oppressori, a partire dai fascisti, del pensiero di Sorel, evidenziando il “punto oscuro” di questo pensatore e uomo politico consistente nel suo “antigiacobinismo” e nel “suo economismo puro; e questo, che è, nel terreno [storico] francese, da connettersi col ricordo del Terrore e poi della repressione di Galliffet, oltre che con l’avversione ai Bonaparte, è il solo elemento della sua dottrina che può essere distorto e dar luogo a interpretazioni conservatrici” (17, 20: 1923-924).
Fonte-Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli- a cura di Riccardo Bigi e Enrica Talà-
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
A ottant’anni dall’arresto di don Roberto Angeli, avvenuto per mano della Gestapo il 17 maggio 1944, e dal suo ritorno a casa, nel maggio del 1945, dopo aver conosciuto i campi di concentramento di Gusen, Mauthausen, Dachau, Vangelo nei Lager viene riproposto adesso in una veste semplice: non solo come documento storico ma come racconto vivo, vibrante, ancora capace di toccare le corde del cuore a chi ci si avvicina per la prima volta, anche senza conoscere la figura di questo sacerdote livornese o senza sapere niente della realtà del Movimento Cristiano Sociale a cui la sua vicenda si lega. Una storia senza tempo che ci dice come l’umanità abbia trovato in se stessa, e quindi possa sempre trovare, l’antidoto a quel veleno che provoca odio, sopraffazioni, razzismo. Un racconto di come, nei campi di concentramento nazisti, sia nato – in mezzo alle torture e alle uccisioni di massa – il sogno di un’Europa, e di un mondo, senza più guerre né divisioni.
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Roberto Angeli –(Schio 1913 – Livorno 1978), sacerdote cattolico, fu attivo nella Resistenza livornese. Arrestato dalla Gestapo il 17 maggio 1944 fu trasferito nella famigerata Villa Triste di Firenze, poi nel campo di smistamento di Fossoli e infine nei Lager di Gusen, Mauthausen e di Dachau, dove venne liberato dalle truppe americane il 29 aprile 1945. Rappresentò i Cristiano Sociali nel Comitato di Liberazione Nazionale di Livorno e nel dopoguerra si occupò di una vasta opera di assistenza in tutta la Toscana, alternando l’attività pastorale con quella di giornalista e scrittore.
Riccardo Bigi Riccardo Bigi giornalista del settimanale Toscana Oggi, collabora con il quotidiano Avvenire. Ha pubblicato la biografia di Giorgio La Pira Il sindaco santo e i romanzi L’altra metà della medaglia e La ragazza della cupola. È autore di testi per il teatro tra cui Pietà. La notte di Michelangelo letto da Sergio Rubini nella cattedrale di Firenze.
Enrica Talà direttrice del Centro studi don Roberto Angeli di Livorno, consigliere nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici e formatrice.
Edizioni di Storia e Letteratura
Le Edizioni di Storia e Letteratura, dopo oltre ottant’anni di attività, continuano a rappresentare un marchio di riferimento nell’editoria di cultura italiana e internazionale. Il catalogo si impernia sulle scienze umanistiche, spaziando dalla filologia, classica e umanistica, alla storia medievale, moderna e contemporanea; dalle scienze documentarie alla filosofia; dalla storia religiosa alle letterature europee.
Edizioni di Storia e Letteratura
via delle Fornaci, 38
00165 Roma
tel. 06.39.67.03.07
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
Giorno della Memoria. Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Articolo di Alessandro Zaccuri venerdì 24 gennaio 2025 –Fonte-Avvenire giornale della CEI
Una volta gli occhiali scivolano nel fango, un’altra volano via per lo schiaffo di un ufficiale delle SS, sigla che nel peculiare gergo dei prigionieri non sta per Schutzstaffel, maper Societas Satanae. Il proprietario degli occhiali – rimasti abbastanza intatti, a dispetto delle ripetute peripezie – conosce bene il latino, essendo uno dei numerosi sacerdoti cattolici deportati dal regime nazista. Un «reduce», come lo stesso don Roberto Angeli si qualifica nel capitolo conclusivo di Vangelo nei Lager, ora ripubblicato da Storia e Letteratura (pagine 224, euro 16,00) con il sottotitolo Un prete nella Resistenza e per la curatela congiunta di Riccardo Bigi ed Enrica Talà, che del Centro studi intitolato al presbitero livornese è la direttrice. Già molto conosciuto in ambito locale, il libro di don Angeli ha tutte le caratteristiche per essere annoverato tra i classici della letteratura concentrazionaria. Uscì per la prima volta nel 1953 e da allora è stato più volte ristampato, anche per essere diffuso nelle scuole. Nella sua immediatezza, è un racconto che può essere veramente apprezzato da qualsiasi lettore, senza che questo vada a discapito di una testimonianza esemplare e profonda.
Scheda di registrazione di Roberto Angeli come prigioniero nel campo di concentramento nazista di Dachau
A fianco del più evidente elemento di interesse, costituito appunto dal resoconto dell’internamento in diversi campi, da Fossoli a Dachau passando per Mauthausen, ce n’è infatti un altro, che corrisponde alla pluralità di soluzioni politiche vagliate dal cattolicesimo democratico negli anni della guerra. Nato nel 1913 a Schio, in provincia di Vicenza, ma cresciuto a Livorno, dove viene ordinato sacerdote nel 1936, don Angeli focalizza la sua attività sulla formazione dei giovani, organizzando una serie di iniziative che, dottrina della Chiesa alla mano, mettono radicalmente in discussione i princìpi del regime fascista, peraltro sempre più compromesso con il paganesimo anticristiano del Terzo Reich. Matura in questo clima l’adesione del sacerdote al Movimento Cristiano Sociale, che nel pieno del conflitto si propone come alternativa alla nascente Democrazia Cristiana. I primi capitoli di Vangelo nei Lager lasciano intuire la complessità di un dibattito che, pur avviandosi alla convergenza tra i due diversi gruppi, è comunque destinato a lasciare una traccia negli assetti politici e civili del dopoguerra.
Non è l’argomento primario del libro, d’accordo, ma ne rappresenta ugualmente la premessa indispensabile. Come molti altri “ribelli per amore” (è la definizione dei partigiani cattolici), don Angeli si schiera contro la dittatura non per considerazioni ideologiche, ma per istintiva fedeltà al messaggio di Cristo. Il resto viene di conseguenza, ed è una conseguenza che porta a mettere in gioco la propria vita. Da questo punto di vista, è bene non lasciarsi distrarre dal tono scanzonato che la prosa di don Angeli conserva anche nelle situazioni più drammatiche. Escogitare trucchi sempre nuovi per nascondere gli ebrei perseguitati o per racimolare un po’ di provviste da distribuire ai fuggiaschi è una «operazione», come la chiama l’autore, che sembra sconfinare nella zingarata, ma resta sorretta dall’implacabile consapevolezza di chi ha scelto di non arrendersi davanti al male. In questa battaglia silenziosa, don Angeli può vantare su un alleato d’eccezione, conosciuto con il soprannome di «nonnino»: un uomo di una certa età, che fa la spola tra la Toscana e Roma per consegnare messaggi clandestini. Si tratta di suo padre, catturato poco prima che anche il sacerdote venga raggiunto dalla Gestapo nella villa di campagna in cui ha trovato rifugio.
Dal 17 maggio 1944, giorno dell’arresto, inizia la discesa di don Angeli nell’inferno dei Lager. Una discesa che, con la solita ironia, il diretto interessato descrive sotto forma di un paradossale avanzamento di carriera, dato che nel trasferimento da un campo all’altro l’internato si trova a portare un numero di matricola sempre più alto. La prima tappa è a Fossoli, che rispetto alle destinazioni successive appare come una specie di «villeggiatura». Per don Angeli, almeno, non per i tanti compagni di prigionia che transitano dal centro del Modenese per essere avviati alla morte. Tra di loro c’è anche Teresio Olivelli, il giovane alpino al quale si deve la formidabile preghiera («Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare. Se cadremo fa’ che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità») che don Angeli trascrive per intero.
La spiritualità ha un peso decisivo in questo resoconto. Se a Mauthausen non sopravvive che un unico sacramento – «l’unico ed il più necessario», annota il sacerdote –, e cioè la Confessione, la ripresa della pratica eucaristica coincide con l’approdo a Dachau, il Lager bavarese nel quale sono stati radunati i ministri del culto appartenenti alle varie confessioni cristiane. In maggioranza cattolici, sottolinea don Angeli, che non trattiene la commozione nel rievocare il momento in cui può finalmente tornare a ricevere la Comunione. È questione di umanità, non di devozione. «Negato un principio spirituale sussistente – argomenta l’autore, ricorrendo a un lessico teologico tanto tradizionale quanto efficace –, negata l’anima, l’uomo cessa di essere una persona con i suoi diritti ed i suoi doveri, per venire declassato al ruolo di semplice individuo, il cui valore si esaurisce in una funzione biologica, come tutti gli altri animali». Non per niente, nel libro è riservata una particolare compassione agli aguzzini, spesso giovanissimi, la cui umanità è stata compromessa dai dettami feroci del totalitarismo.
Il «reduce», alla fine, torna a casa, torna alla sua missione di sacerdote e di educatore. Don Angeli muore nel 1978. Sei anni prima, nel 1972, Paolo VI lo ha ricevuto in udienza privata insieme con altri dodici preti sopravvissuti a Dachau. Avranno parlato di Lager, senz’altro. Più ancora, avranno parlato di Vangelo.
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Nato a Schio da Maria Duranti ed Emilio Angeli, la madre morirà un anno dopo la sua nascita. Nel 1926 entra in seminario livornese. Nel 1936 è ordinato sacerdote, inviato nella parrocchia di Santa Giulia. Insegna in seminario. Nel 1942 è parroco a San Jacopo assistente assieme a don Tintori della FUCI, e fonda il Movimento cristiano sociale livornese.
Il periodo bellico e la deportazione
In seguito allo scoppio della Seconda guerra mondiale e al successivo armistizio si rese attivo nella Resistenzalivornese: negli ultimi anni del Fascismo organizzò pubbliche lezioni (“Lezioni di Santa Giulia”) in cui si oppose apertamente le teorie totalitarie. Rappresentò i “cristiano sociali” all’interno del CLN livornese, si impegno soprattutto nell’attività di assistenza dei partigiani trovando loro rifugi quando si rendeva necessario.
Spinse nel Movimento cristiano sociale e da lì nella Resistenza attiva molti giovani cattolici livornesi e salvò molti ebrei e prigionieri politici, appoggiando le azioni dei partigiani livornesi. Con il padre tenne i contatti con il CLN fiorentino e con il Fronte Militare Clandestino di Roma.
Scheda di registrazione di Roberto Angeli come prigioniero nel campo di concentramento nazista di Dachau
Arrestato il 17 maggio 1944, dalla Gestapo, fu trasferito a Firenze, nella famigerata Villa Triste, dove fu duramente interrogato, senza risultato. Trasferito nel Campo di Fossoli successivamente Bolzano e infine nel lager di Mauthausen. Nel novembre assieme ad altri sacerdoti (tra cui Josef Beran[1]) viene trasferito a Dachau. Viene liberato con l’arrivo delle truppe americane il 29 aprile 1945.
Dopoguerra
Nel dopoguerra si occupò di una vasta opera assistenziale in tutta la provincia, diresse e scrisse articoli per il Fides, il settimanale diocesano.
Scrisse inoltre il libro Vangelo nei Lager che racconta la sua esperienza nella Resistenza e nei lagernazisti.[2]
^ Così scrisse ai giovani: “Vi offro in lettura queste pagine fiduciosi che non le accoglierete come un testo da studiare per gli esami, ma come una esperienza vitale cui partecipare; non cose passate da mandare a memoria, ma stimolo a ripensare il presente e a prepararsi per l’avvenire; contributo alla vostra maturazione“.
Audre Lorde -D’amore e di lotta- Poesie scelte- Testo inglese a fronte
Audre Lorde
Audre Lorde è nata a nord della metropoli come terza e ultima figlia di una famiglia di immigrati da Grenada (Caraibi). È stata una poeta militante che ha riempito i suoi versi della forza libera e denotatrice di Harlem e ha usato la sua poesia come uno stagno in cui far confluire e risuonare la sua lotta verso la piena aderenza di sé stessa in nome dell’uguaglianza.
Nata il 18 febbraio del 1938 nel periodo in cui la povertà per la Grande Depressione agitava le strade di Harlem, cresce in una casa sulla 155ma Strada davanti al fiume Hudson. La famiglia con grandi sacrifici la iscrive in una scuola per studentesse dotate di cui è l’unica ragazza nera. Agli occhi di mamma Linda e papà Frederich, Audre mostra precocemente la sua indole forte e indipendente: decide di troncare una parte del suo nome originale Audrey e recidere la lettera Y e lasciare il nome che le rimarrà appiccicato come segno di distinzione e autoaffermazione. Tra gli scorci di tutto quello che le succede, racconta anche episodi di odio metropolitano: come quando non la fanno sedere sul bus oppure come la osservano mentre attraversa l’incrocio per andare a scuola. Harlem rappresenta in quegli anni il teatro della lotta e protesta degli afroamericani: Malcom X con i suoi comizi riempie l’Apollo Theatre e le vie del quartiere. Lorde per continuare i suoi studi lavora come operaia e infermiera e comincia a frequentare gli ambienti letterari e omosessuali di New York. Negli anni sessanta l’omosessualità era considerata illegale; la comunità gay stanca del deprimente clima di repressione trova nei vecchi edifici industriali, come il Mount Morris di Harlem, un luogo dove esprimersi. In questo composito panorama metropolitano, incontra Edwin Rollins, avvocato bisessuale da cui avrà due figli Elizabeth e Jonathan.
Il matrimonio con Rollins non funziona e Audre si svela a sé stessa attraverso la poesia. Nel 1968 pubblica Two Cities prima delle undici raccolte poetiche. La poesia diventa lo specchio entro cui raccontare la propria diversità e da cui far partire un grido comune, libero, rivolto a tutte le donne. “La pelle nera è come il carbone rinchiuso nelle viscere della terra che si trasforma in diamante”.
Negli anni successvi Lorde viene anche operata per un cancro al seno e racconterà la sua lotta nei Cancer Journals pubblicato nel 1980. In quelle settimane si innamora di una giovane ragazza, Gloria Joseph, che diventerà sua compagna fino alla fine.
La poeta diventerà un punto di riferimento libero e ostinato per la lotta letteraria contro le diversità. Audre Lorde si è battuta perché la poesia diventasse una necessità per ridefinire le libertà e le identità delle persone. Ha costruito un ponte tra mondi diversi in cui affermarsi come donna, nera e omosessuale: il suo messaggio ha abbracciato lentamente tutto il globo, viaggiando assieme a lei dalla Nigeria a Cuba sino alla Nuova Zelanda. Ha saputo portare la sua battaglia femminista ovunque, permeata dalla sua immensa vitalità, documentando anche l’invasione di Grenada, stato insulare nel Mar dei Caraibi in cui è voluta tornare. Nel 1991 è stata nominata Poetessa dello Stato di New York rimanendo per sempre radicata alla sua lotta poetica e al quartiere di Harlem.
Al poeta che si dà il caso sia Nero e al poeta Nero che si dà il caso sia una donna I
Sono nata nel ventre della Nerezza
proprio da in mezzo alle cosce di mia madre
le si ruppero le acque sul linoleum a fiori blu
facendosi come neve sciolta nel freddo di Harlem
le 10 di una notte di luna piena
la mia testa spuntò rotonda come un pendolo
“Eri così scura”, diceva mia madre
“Credevo fossi un maschio”.
II
La prima volta che toccai mia sorella in vita
ero sicura che la terra prendesse nota
ma noi non eravamo intonse
la pelle posticcia si sfaldava come guanti di fuoco
fiamma aggiogata ero io
spogliata fino alla punta delle dita
la sua canzone scritta nei miei palmi le mie narici la mia pancia
benvenuta a casa
in una lingua che ero contenta di reimparare.
III
Nessuno spirito gelido mi ha mai attraversato le ossa
all’angolo di Amsterdam Avenue
nessun cane mi ha mai presa per una panca
o un albero o un osso
nessun’amante ha mai guardato alle mie braccia brune e grassocce
vedendo ali né mi hai mai chiamato condor per sbaglio
ma conosco a memoria
occhi
che mi cancellano
come un appuntamento indesiderato
posta a carico
timbrata in giallo rosso viola
ogni colore
eccetto Nero e scelta
e donna
in vita.
IV
Non so rammentarmi le parole della mia prima poesia
ma ricordo una promessa
fatta alla mia penna
di non lasciarla mai
giacere
nel sangue altrui.
Donna Madre Nera
Non riesco a ricordarti delicata
eppure attraverso il tuo pesante amore
sono diventata
immagine della tua carne un tempo fragile
spaccata da falsi desideri.
Quando sconosciuti si avvicinano per farmi i complimenti
il tuo spirito antico fa un inchino
e risuona d’orgoglio
ma una volta nascondevi quel segreto
al centro delle furie
soffocandomi
con seni profondi e capelli ruvidi
con la tua carne spaccata
e occhi da sempre sofferenti
seppelliti in miti di scarso valore.
Ma ho sbucciato la tua rabbia
fino al nocciolo dell’amore
e guarda madre
Io Sono
un tempio oscuro da cui si innalza il tuo vero spirito
bella
e dura come castagno
puntello al tuo incubo di debolezza
e se i miei occhi nascondono
uno squadrone di ribellioni in conflitto
ho imparato da te
a definire me stessa
attraverso i tuoi rifiuti.
Stazioni
Certe donne amano
aspettare
la vita un anello
nella luce di giugno un abbraccio
del sole che le guarisca di un’altra donna
la voce che le completi
che sleghi le loro mani
metta parole nelle loro bocche
dia forma ai loro percorsi suono
alle loro grida un’altra dormiente
che ricordi il loro futuro il loro passato.
Certe donne aspettano il treno
giusto nella stazione sbagliata
nei vicoli del mattino
il clamore del mezzogiorno
il calare della notte.
Certe donne aspettano che l’amore
faccia sorgere
il figlio della loro promessa
di raccogliere dalla terra
quello che non seminano
di reclamare dolore per travaglio
di diventare
la punta di una freccia per mirare
al cuore di un adesso
ma non sta mai fermo.
Certe donne aspettano visioni
che non si ripetono
dove non erano benvenute
nude
il rinnovarsi di inviti
in luoghi
che avrebbero sempre voluto
visitare.
Certe donne aspettano se stesse
dietro l’angolo
e chiamano pace quello spazio vuoto
ma il contrario di vivere
è solo non vivere
e alle stelle non importa.
Certe donne aspettano che qualcosa
cambi e niente
cambia veramente
perciò cambiano
se stesse.
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Per la prima volta in traduzione italiana, questa antologia dà spazio alle poesie di amore e di lotta di una poetessa, Audre Lorde, che ha saputo intrecciare le storie del proprio vissuto personale con le voci collettive dei movimenti femminista, Lgbt e delle persone di colore. Con il suo potente linguaggio poetico, Lorde ci regala istantanee della realtà filtrate attraverso uno sguardo acuto e mai distaccato. Nei suoi versi erompe il racconto di una donna Nera, lesbica, madre, guerriera, poeta, il cui linguaggio è intriso di ognuna di queste parti e dell’intersezione di tutte. Per questo il canto di Audre Lorde arriva a tutte e tutti noi, abbracciando la realtà da un punto di vista situato e proiettandosi oltre, fino a cambiare il nostro modo di guardare il mondo. Introduzione di Loredana Magazzeni, postfazione di Rita Monticelli.
Traduzione di Monica Pareschi- titolo originale: The Mountain Lion
-In copertina-Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
Descrizione del libro di Jean Stafford-Qualcosa di morboso e strisciante, che è del paesaggio, delle presenze che lo animano, degli interni di case occasionalmente trasformate in camere ardenti, accoglie il lettore di questo paradossale romanzo di formazione, in cui all’impossibilità di abbandonare l’infanzia si accompagna quella di rimanere bambini. Ralph e Molly, fratelli malaticci e simbiotici, alleati contro l’universo stereotipato degli adulti – l’ottusa routine scolastica e quotidiana, una madre perbenista e due affettate sorelle maggiori, il fronte compatto delle autorità –, dividono il loro tempo tra la casa di famiglia nei sobborghi di Los Angeles e un ranch in Colorado appartenente al fratellastro della madre. Qui ogni estate i piccoli vengono in contatto con un mondo selvaggio e brutale, che contrasta con l’inautentico ordine della vita suburbana. Ma se dapprima la rudezza e la libertà dell’Ovest affascinano entrambi, poi è solo Ralph a entrare nell’orbita in cui lo attirano lo zio e la sua cerchia, e ad accettare i riti di passaggio necessari a trasformarlo in giovane uomo. E mentre il fratello si sposta sempre più verso un immaginario virile fatto di battute di caccia e di grandi bevute, e vive di pari passo l’inevitabile risveglio della sessualità, Molly, bambina puntuta e sarcastica che anticipa alcuni personaggi di Shirley Jackson, si aggrappa disperatamente al mondo surreale dell’infanzia. L’apparizione nei dintorni del ranch di un puma femmina – animale elusivo e archetipico, nel segno della tradizione letteraria americana – sancirà la scissione definitiva del legame fraterno, precipitando la storia verso un impensabile epilogo.
Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
CAPITOLO PRIMO
Ralph aveva dieci anni e Molly ne aveva otto quando si ammalarono di scarlattina. La malattia aveva lasciato a entrambi una specie di disfunzione ghiandolare che, pur non essendo maligna, provocava in loro uno stato di intossicazione quasi perenne, dando spesso origine a e- pistassi così copiose che dovevano mandarli a casa da scuola. In genere succedeva a tutti e due contemporanea mente. Ralph si precipitava nel corridoio sanguinando a profusione dal naso e trovava Molly che usciva proprio in quel momento dalla terza, con un fazzoletto appallot- tolato e fradicio premuto sulla faccia. La madre non sop- portava la vista del sangue e la sua angoscia, nel vederli arrivare l’uno dopo l’altra sul vialetto d’accesso, non si attenuò mai, nemmeno quando quei ritorni a casa nel bel mezzo della giornata diventarono una consuetudi- ne. Ogni volta li implorava di telefonarle in modo da po- ter mandare Miguel, il factotum, a prenderli con la mac- china. Ma loro non lo facevano mai, perché si divertiva- no a tornare a casa a piedi, e per tutto il tragitto provava- no un piacevole senso di rivalsa nei confronti delle sorel- le, Leah e Rachel, ancora rinchiuse a scuola senz’altro da fare che masticare paraf$na di nascosto.
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Nel settembre successivo alla malattia, il giorno in cui era previsto l’arrivo del nonno Kenyon, il patrigno della madre, per la sua visita annuale, si ritrovarono fuori dal- l’aula di educazione artistica con il sangue che usciva a $otti dal naso, e vedendo oltre la porta socchiusa
la signorina Holihan alle prese con la taglierina e un fascio di carta manila, si misero a camminare in punta di piedi soffocando le risate $nché, giunti alle scale, comincia- rono a correre. Una volta fuori, nel cortile deserto, si congratularono l’uno con l’altra: Molly non sarebbe sta- ta costretta a disegnare una mela sul foglio della signori- na Holihan e Ralph si sarebbe risparmiato non solo cal- ligra$a, ma anche canto. In realtà non ci avrebbero gua- dagnato niente a rientrare qualche ora prima del pul- mino della scuola, visto che il nonno non sarebbe arri- vato alla stazione di Los Angeles prima di metà pome- riggio e Miguel ci avrebbe messo un’altra ora a portarlo a casa con la Willys-Knight. E così cincischiarono più del solito, per nulla sicuri che a casa avrebbero trovato qual- cosa di interessante da fare, ma sicurissimi, d’altra par- te, che la madre, oltre ad agitarsi e a non star zitta un momento come faceva ogni volta che aspettava visite, vedendoli sarebbe montata su tutte le furie.
Era una strada di campagna stretta e tortuosa quella che facevano per tornare. Su entrambi i lati correva un piccolo fosso d’acqua limpida, che biascicava come una bocca. Di tanto in tanto si fermavano a tuffarci i fazzolet- ti e si ripulivano il sangue dalle mani e dalle braccia. Sulla destra c’era un aranceto da cui, in ogni stagione dell’anno, arrivava un profumo opprimente, e dove qualche volta vedevano stormi di uccelli così strani e va- riopinti che dovevano arrivare dai mari del Sud o dal Giappone. Alcuni degli alberelli piramidali erano sem- pre $oriti e altri erano sempre carichi di frutti. Quel giorno nell’aranceto c’era un uomo arrampicato su una scala, che si girò sentendoli arrivare. Si levò il cappello asciugandosi la fronte con la manica della camicia nera e gridò: « Ciao, ragazzi », ma dato che era messicano lo-
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ro non risposero e anzi allungarono il passo, atterriti, $nché non sentirono più la sua risata di scherno.
Poi passarono davanti al grande casei$cio immacola- to del signor Vogelman. Il signor Vogelman era un tede- sco grasso che indossava una tuta bianca e che una volta era stato preso a sassate da un gruppo di scolari di se- conda quando avevano saputo cosa avevano fatto i cruc- chi ai belgi. Le madri, nel timore che potesse vendicarsi esponendo il latte ai bacilli della tubercolosi, gli aveva- no scritto per scusarsi, ma visto che l’episodio era suc- cesso a Halloween, il signor Vogelman aveva frainteso tutto senza capire il senso di quella lettera. Allevava mucche di razza Guernsey col manto che al sole emana- va un luccichio metallico, non proprio giallo banana e nemmeno della sfumatura azzurrina del latte, ma una via di mezzo. Quel giorno vicino alla staccionata c’era un vitello appena nato e, quando vide i piccoli umani che lo $ssavano, il suo muso di cerbiatto prese un’e- spressione di malinconico stupore. La madre muggì stizzita, con le enormi froge nere dilatate, e loro corsero via perché avevano paura delle mucche, anche se non si sarebbero mai sognati di ammetterlo. Conoscevano una barzelletta su un vitello che avevano letto su « The Amer- ican Boy » e, quando furono a distanza di sicurezza dal pascolo, la recitarono come se fosse un dialogo:
ralph: Sono di vitello le tue scarpe| molly: Come no, è pelle conciata. ralph: Lo conciano male|
molly: Per le feste! Col pugnale!
Risero tanto che dovettero sedersi per terra e tenersi la pancia; per via delle risate il sangue usciva molto più in fretta, e allora, torcendosi dal dolore, si tamponavano disperatamente il naso, urlando: «Ahi! Ahi!». In$ne, quando si furono un po’ calmati, Ralph disse: « Mi sa che questa la racconto al nonno» e Molly disse: «Anch’io». Negli ultimi tempi, lei ogni tanto gli dava sui nervi: spes-
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so, quando Ralph aveva $nito di raccontare una barzel- letta o una storia, lei immediatamente la ripeteva pari pari, senza dare agli altri il tempo di scoppiare a ridere o di rimanere sorpresi. Non solo, innumerevoli volte aveva raccontato i sogni del fratello $ngendo che fossero i suoi. Ralph non voleva che la barzelletta sul vitello si rive- lasse un $asco e così, dopo un attimo di tentennamento, accettò di recitarla insieme alla sorella come avevano ap- pena fatto. Non era lunga come una di quelle storielle sui negri che raccontavano Leah e Rachel, ma era molto più divertente, ed erano sicuri che il nonno non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare in quella sua risatona fragorosa, dandosi una manata sul ginocchio mentre e- sclamava: « Perbacco, buona questa! ».
Proseguirono pensando al nonno, strascicando alle- gramente i piedi nella polvere della strada $no a im- biancarsi completamente le scarpe, stringhe comprese. Vicino al casei$cio c’era un arroyo profondo e del tutto prosciugato, che da quelle parti chiamavano « Rio ». Era il risultato di un’inondazione che aveva avuto luogo nel- la primavera in cui Leah aveva tre anni, ma Ralph e Mol- ly avevano sentito raccontare così spesso i particolari del- la catastrofe da esser certi che le loro impressioni derivas- sero dal ricordo, e non dai discorsi della madre e dei suoi amici quando non avevano niente di nuovo da dire ed e- rano costretti a rintuzzare le emozioni del passato. Du- rante l’alluvione il signor Fawcett aveva attraversato un torrente in piena su un cavallo di nome Babe, ormai mor- to da tempo, per soccorrere un’anziana la cui casa era stata spazzata via subito dopo. Si era caricato la donna in sella come un sacco di mangime e le aveva fatto la respira- zione arti$ciale sul pavimento della cucina. Dalla pioggia scrosciante erano sbucati migliaia e migliaia di fringuelli, che si erano posati sulla veranda; erano così tanti che sembrava di essere in una riserva, aveva detto il papà; Fus chia stava preparando una crostata di ciliegie e lui le ave- va chiesto se per caso non voleva aggiungerci anche due dozzine di fringuelli. Dal vialetto d’accesso era arrivato
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galleggiando un albero di pompelmo, con le radici e tut- to, e il papà l’aveva piantato in giardino accanto al collet- tore solare. Ogni anno dava un unico frutto, più piccolo di una pallina da golf e quasi altrettanto duro.
Sul letto del Rio Ralph e Molly trovavano sassi colora- ti, rosa, verdi, gialli e azzurri. A volte, nelle pozze che si formavano dopo un acquazzone, si vedeva luccicare l’o- ro degli stolti. Le sponde ripide erano tutte ricoperte di strani $ori ispidi dalle radici poco profonde e da mac- chie di malva che stillava un latte amaro. C’era un punto in cui il fango si seccava sbriciolandosi come pastafrolla e da piccola Molly era convinta che con quello si prepa- rassero i biscotti del gelato. Tutto ciò che di misterioso e malvagio c’era al mondo veniva dal Rio. Quei sassi lisci e colorati erano in realtà gioielli rubati e il ladro era uno Skalawag nero come il carbone che di giorno dormiva nel deposito del mais del signor Vogelman, ma la notte rimaneva sveglio. Ralph e Molly non si azzardavano a scendere nel Rio col naso sanguinante, perché lo Skala- wag sentiva l’odore del sangue a qualunque distanza e di sicuro avrebbe dato loro la caccia. E così passavano veloci, guardando il Rio con la coda dell’occhio. L’au- tunno precedente, quando ci avevano portato il nonno Kenyon, lui aveva detto: « Ah, ecco, così si ragiona. C’è troppo verde in quest’accidente di California, per la mi- seria. Ma quel $umiciattolo secco lì, quello sì che è un posto come Dio comanda ». Aveva fatto correre gli oc- chi neri sul paesaggio respirando appena, come se la fragranza dei $ori d’arancio lo offendesse, e aveva det- to: «Ma pensa tu, neanche l’inverno avete, da queste parti! Diamine, meglio andarsene in carretta all’inferno che perdersi i primi $occhi di neve che cade ». I bambi- ni erano un po’ indignati e un po’ intimiditi; rendendo- sene conto, lui aveva spiegato – anche se loro non ci ave- vano capito niente – che lì la natura non rappresentava nessuna s$da per l’uomo. « Prendete il mio ranch nel Panhandle. Non c’è posto al mondo dove la natura sia bizzosa come da quelle parti, ma ogni volta che si arrab-
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bia è uno schianto di ragazza, eh! ». Quando aveva com- prato il terreno, su ventimila ettari non c’era una sola goccia d’acqua, nemmeno un ruscello, uno stagno. Da- vanti alla sua intenzione di acquistarlo, gli avevano dato tutti del babbeo. Ma lui era andato avanti per la sua stra- da e l’aveva comprato lo stesso, poi aveva preso una ver- ghetta biforcuta di agrifoglio e aveva scelto un punto su un’altura subito a ovest di dove intendeva costruire la casa. Era rimasto fermo lì con la sua bacchetta di agrifo- glio, tenendo la forcella con entrambe le mani. Dopo un po’, la verga si era piegata verso il basso: nella dire- zione indicata c’era una sorgente profonda di acqua po- tabile che non si era mai prosciugata.
Da quel momento il Rio aveva assunto un nuovo signi$cato per Ralph e Molly, e si erano convinti che lo Skalawag fosse così circospetto perché temeva che potes- se arrivare qualcuno con una bacchetta divinatoria, e a quel punto l’acqua avrebbe trascinato via tutti i suoi gio- ielli. Anche adesso, ogni volta che passavano davanti all’arroyo, pensavano al ranch del nonno nel Panhandle e Ralph, sospirando, diceva: « Accipicchia, come mi pia- cerebbe andare nell’Ovest ». Perché credeva al nonno Kenyon quando gli diceva che la California non era l’O- vest ma una cosa a sé, come la Florida o Washington D.C.
Per esempio, nell’Ovest non si trovavano mica tutte quelle carabattole che piacevano tanto alla signorina Runyon. La signorina Runyon abitava vicino al Rio in una casetta bianca con le persiane verdi e begonie a tut- te le $nestre, che a Molly piaceva tanto prima che il non- no la de$nisse « una roba che non sta né in cielo né in terra ». Il giardino arrivava $no alla strada e tra le aiuole di phlox, $ordalisi e acetosella c’erano strane creature d’ogni sorta: una rana verde gigante, tre nanetti, una papera con quattro paperette, due uccellini azzurri grossi come gatti, un’olandesina con la sua cuf$etta e un palo totemico. Sulla porta di casa c’era un’insegna che diceva « Locanda Passapure ». Accanto alla casa c’e- ra la cuccia del cane, costruita esattamente come la lo-
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canda Passapure, e sopra l’apertura c’era scritto « Il rifu- gio del pastorello », perché la signorina Runyon aveva un pastore tedesco di nome Rover. Sotto la grondaia, sulla veranda, c’era una casetta per gli uccelli costruita come le altre due, ma il nome era meno evocativo: si chiamava semplicemente « Casa degli scriccioli ».
La signorina Runyon era la direttrice dell’uf$cio po- stale e a detta di tutti era proprio un personaggio. Gui- dava da sola un’automobile che chiamava «Mac», ab- breviazione di « macchina », anche se lei per ridere l’a- veva soprannominata « Macchiappa ». Non mangiava né carne né spezie, perché era una seguace del dottor Kel- logg. Di tanto in tanto invitava i Fawcett a un picnic sera- le nel suo giardino e serviva hamburger fatti con i cerea- li della colazione tenuti insieme da una $nta gelatina di piedini di vitello. La domenica pomeriggio andava sem- pre a casa loro a leggere il giornale e non faceva mistero del fatto che, come a tutti i bambini, le piacesse la pagi- na dei fumetti. Li leggeva con la stessa serietà e la stessa concentrazione di Ralph, Molly, Leah e Rachel. Una volta aveva detto che era stufa marcia di Elmer Tuggle e del suo eterno guantone da baseball; il suo preferito era Happy Hooligan. A dispetto di quell’aggressiva bono- mia, era molto paurosa e non se la sentiva di dormire in casa da sola, perciò aveva invitato a stare da lei una don- nina giapponese, la signora Haisan. Se per caso la signo- ra Haisan doveva assentarsi, andavano a dormire da lei Leah e Rachel, che tuttavia lo facevano malvolentieri perché, la prima volta che si erano fermate a casa sua, lei nel bel mezzo della serata aveva alzato improvvisa- mente gli occhi dalla rivista femminile che stava leggen- do e aveva detto in tono nervoso: « Avete sentito| Qual- cuno ha inghiottito qualcosa! ». Secondo Ralph e Molly era stato lo Skalawag, e le cose che poteva aver inghiotti- to erano così numerose e terri$canti che bastava la sola parola a farli tremare come foglie.
La signora Follansbee, la moglie del pastore, aveva a- vanzato scherzosamente l’ipotesi che la signorina Run-
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yon avesse messo gli occhi sul signor Kenyon, e in parte la supposizione si basava sul fatto che i loro cognomi fa- cevano rima; è vero che in diverse occasioni, durante le visite del nonno, lei li aveva invitati ad andare a casa sua «accontentandosi di quel che passa il convento», ma loro non ci erano mai andati, perché, come disse la si- gnora Fawcett nel segreto familiare, « non oso pensare a cosa farebbe una buona forchetta come il signor Ken- yon se gli servissero cereali per cena, per quanto abil- mente camuffati ».
Ralph pensò che forse avrebbe potuto raccontare al nonno una storiella sulla signorina Runyon, una storia inventata ma usando il suo nome, e rimase lì a ponzare appoggiato alla palizzata, lasciando gocciolare il naso sulle assi, $nché due non assunsero l’aspetto di lance andate a segno. O forse avrebbe potuto raccontarne una sulla signora Haisan. La signora Haisan aveva due $gli più o meno della stessa età sua e di Molly, e i bambini vivevano con la zia Hana, un donnino minuscolo che la- vorava dalla signora Fawcett come lavandaia. Si chiama- vano Maisol e Maisako e uno era nato il 4 luglio, l’altro il 1° aprile. C’era stato un episodio terribile quando erano venuti a casa loro con Hana e avevano costretto Ralph e Molly a seguirli nel campo di cocomeri, e non solo aveva- no tagliato un cocomero acerbo con una spatola per lo stucco, ma avevano detto e insinuato cose così orribili che Ralph e Molly erano stati costretti a picchiarli. Natu- ralmente avevano vinto in quattro e quattr’otto, perché i musi gialli erano molto meno robusti di loro.
Ralph non riuscì a farsi venire in mente nessun’altra storiella a parte la barzelletta sul vitello. Allora, facendo marameo alla casa della signorina Runyon, cantilenò: « Postina beduina babbuina truffaldina, non mi fai nien- te, faccia di serpente, non mi fai male, faccia di maia- le!». E poi, prendendo per mano la sorella, si mise a correre veloce come il vento perché la signora Haisan e Rover erano comparsi simultaneamente sulla porta dei rispettivi alloggi e, sebbene Rover fosse innocuo come
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una coccinella e con ogni probabilità la signora Haisan volesse solo offrire loro un kumquat candito, era più di- vertente pensare che fossero inferociti come lo Skala- wag. Appena la casa non fu più visibile, Ralph si inginoc- chiò a terra, accostò l’orecchio alla strada e balzò in pie- di esclamando: «Ehi! Arrivano!». A quel punto, non smisero più di correre $nché non ebbero imboccato la via di casa.
Dopo un centinaio di passi videro le palme che deli- mitavano la loro proprietà. In quell’ultimo tratto, per un motivo o per l’altro, Molly pensava sempre a Redon- do Beach, dove avevano trascorso qualche settimana alla $ne dell’estate. Alzando gli occhi verso il cielo az- zurro e vuoto, aveva ancora la sensazione di essere a pie- di nudi nella sabbia rovente, a caccia di stelle marine e ricci, e di sentire le urla terrorizzate delle madri e quel- le petulanti dei $gli che, avanzando nell’acqua, rispon- devano che le onde non erano poi così alte. Pensare al- la spiaggia la rendeva irrequieta e nostalgica, e di tanto in tanto le strappava un gemito sommesso, perché ogni volta le tornava in mente lo strano fremito d’orrore mi- sto a piacere provato quando un gabbiano le aveva striz- zato l’occhio e lei si era accorta che muoveva solo la pal- pebra inferiore, mentre l’altra rimaneva immobile. Quel giorno però non pianse: Ralph era troppo allegro – lo sapeva – per consolarla, e quando Molly piangeva l’uni- co piacere era proprio farsi abbracciare da lui, inalare il suo odore pungente di serge e bretelle di cuoio, e senti- re, rabbrividendo, le sue mani piene di verruche che le s$oravano la faccia. Molly poteva sempre imporsi di pensare con tristezza non al mare bensì a suo padre, che era morto; di lui non aveva ricordi, ma sapeva che era in cielo con Gesù e l’avrebbe miracolosamente rico- nosciuta quando lei lo avesse raggiunto, anche se al mo- mento della sua morte non era ancora nata. Era il pen- siero più elettrizzante che avesse mai avuto in vita sua, e la mandava in visibilio dal giorno in cui lei e Ralph ave- vano concordato di non morire $nché lui non avesse a-
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vuto novantanove anni e lei novantasette: in quel modo al loro arrivo in cielo sarebbero apparsi molto più vec- chi del padre, che invece era morto all’età di trentasei anni.
Appena imboccarono il vialetto d’accesso, Ralph attac- cò con le tabelline: « Sei per tre| ». « Diciotto » rispose Mol- ly. E Ralph: «Asino cotto». Continuarono: «Otto per ot- to|». «Sessantaquattro». «A Sophia è morto il gatto». «Due per dieci|». «Venti». «Ho perso tutti i denti», e a quel punto Molly strillò, sbellicandosi dalle risa: « Mam- maaa! Ralph ha perso tutti i denti! ». Ma la mamma non era seduta sulla veranda come al solito, e Ralph e Molly rimasero a guardarsi come due ebeti, pieni di imbarazzo.
Avrebbero dovuto saperlo che era in cucina, indaffa- rata con i preparativi per l’arrivo del nonno. La sentiro- no accorrere alla porta nelle sue pantofoline col tacco, gridando, in previsione della scena che si sarebbe trova- ta davanti: « Oh, non ditemi che è successo di nuovo! ». Poi si fermò al di là della zanzariera, le mani sui $anchi, il vitino da vespa nella gonna grigio perla, incerta se ar- rabbiarsi o preoccuparsi, per un attimo troppo sconvol- ta anche solo per aprire bocca. I bambini rimasero in attesa sul primo gradino come cani perfettamente adde- strati e la madre, vedendoli così umiliati, decise di angu- stiarsi e corse loro incontro, abbracciandoli ma allo stes- so tempo facendo attenzione a non macchiarsi la cami- cetta bianca. Profumava di giaggiolo e pan di zenzero, e i bambini, annusandola, ebbero la netta sensazione che l’ospite sarebbe arrivato di lì a poco, una sensazione an- cor più netta di quella che avevano provato al mattino, quando avevano visto Miguel uscire in macchina per an- dare alla stazione. Era partito presto per acquistare ogni sorta di prelibatezze ai mercati di Los Angeles: tra le al- tre cose, avrebbero mangiato amarene e lokum.
«Oh, poveri pulcini!» esclamò la signora Fawcett, e gli occhi azzurri le si riempirono prontamente di lacri- me. « Oh, cari, perché non avete telefonato| Perché dovete sempre far arrabbiare la mamma| ».
Maurizio Degl’Innocenti-Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Editore Franco Angeli-
Questo saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza, avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale. Il testo offre inoltre molteplici spunti di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di un’intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
GIACOMO MATTEOTTI E IL SOCIALISMO RIFORMISTA
Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Dalla scheda del volume sul sito dell’editore FrancoAngeli
Il saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale.
Nel rapporto essenziale con il territorio evidenzia la persistente forza delle periferie, lungo le quali si riscrivono le gerarchie sociali e politiche, tra continuità e rottura dei codici etici e di prestigio. Nel ricostruire il cursus honorum di Matteotti da organizzatore nel Polesine a figura di spessore nazionale fino all’ingresso a Montecitorio e infine a segretario del Partito socialista unitario impegnato nella lotta al fascismo e al bolscevismo, fa emergere una concezione della politica come pedagogia individuale e collettiva per una cittadinanza diffusa e inclusiva; tecnica gestionale in una strategia “costruttiva” della società di lungo periodo; prassi fondata sul ruolo imprescindibile dei partiti nazionali in una democrazia rappresentativa e conflittuale nel rispetto dello Stato di diritto; visione delle problematiche interne in connessione con gli equilibri internazionali in una prospettiva di libera e pacifica convivenza dei popoli e, perfino, già europeista. Il saggio offre molteplici motivi di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
Premessa
La formazione e il “motore dell’energia pratica”
(L’ambiente familiare e il “vaso migliore”; I “tempi lunghi” degli studi e la “fame d’azione”; “Non si gettava, ma andava a passo regolare contro il periglio supremo: il che è infinitamente di più”; La costruzione evolutiva e “il socialismo dentro di noi”; Il “sobillatore”)
La “campagna senza fine”
(Il cursus honorum; La titolarità politica dell’ente locale; Spazio fisico e culturale. Per un sistema di istruzione integrato e permanente; Dalla lega all’azienda cooperativa; “Noi demandiamo di restituire alla nostre terre le libertà”)
“Difendiamo insieme la causa del socialismo, la causa del nostro Paese e quella della civiltà”
(Matteotti a Montecitorio; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Matteotti, il “fermo ai contrabbandieri del pubblico bene” e il debito buono; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Turati e un programma “serio e concreto” per rifare l’Italia; La crisi dello Stato di diritto e l’Esecutivo Giolitti; Nella tenaglia fascista; “La rielaborazione dei Partiti” e il situazionismo; Il Governo di coalizione e il mancato incontro con il Partito popolare)
“I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”
(“Ricominciamo daccapo, ringiovaniremo nel ricostruire”; Matteotti e il frazionismo socialista; Alla segreteria del PSU; Il blocco per la libertà; La guerra, la “pace senza pace” e la ricostruzione dell’Europa)
Turati, Matteotti e il rinnovamento socialista
(Le vie nuove della socialdemocrazia europea; Le Direttive socialiste (1923) e “il partito di realtà”)
Indice dei nomi.
Maurizio Degl’Innocenti, ordinario di storia contemporanea, è direttore di collane editoriali, condirettore della rivista “Storiaefuturo”, membro di diversi istituti di ricerca. Presiede la Fondazione di studi storici “Filippo Turati”. Annovera tra le ultime pubblicazioni La società volontaria e solidale (2012); Giacomo Matteotti. Eroe socialista (2014); La Patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale (2015); Giovanni Pieraccini la politica e l’arte (2016); L’età delle donne. Saggio su Anna Kuliscioff (2017).
Chantal Delsol -La fine della cristianità e il ritorno del paganismo- Edizioni Cantagalli-Siena
Descrizione del libro di Chantal Delsol La fine della cristianità-Il futuro dell’Occidente è pagano. Siamo in un declino da spossatezza, barbarie e cancel culture. Sedici secoli di cristianesimo stanno per finire e oggi siamo testimoni di un’inversione normativa e filosofica che inaugura una nuova era; un’era che non sarà atea o nichilista, come molti credono, ma pagana. La cristianità ha esaurito il suo tempo lasciando spazio a nuove religioni, ad un politeismo che venera gli alberi, la terra, le balene. La transizione è brutale, difficile da accettare per i difensori di un’epoca in via di estinzione.
Dovremmo rimpiangere i tempi passati quando il divorzio era proibito come così l’istruzione superiore delle ragazze? Dobbiamo vivere nella speranza che la cristianità risorga dalle sue ceneri affermando la sua forza morale? Chi vive in questa malinconica nostalgia è già stato cancellato da un mondo che, nel bene o nel male, ormai è cambiato radicalmente.
Il grande Pan è tornato. Il cristianesimo deve inventarsi un altro modo per sopravvivere. Quello del semplice testimone. Dell’agente segreto di Dio.
Breve Biografia di Chantal Delsol
Chantal Delsol (Parigi 1947) filosofa, scrittrice, docente di filosofia politica, autorevole protagonista del mondo intellettuale francese. Editorialista di «Le Figaro», è membro della Académie des Sciences morales et politiques dell’Institut de France. Autrice di importanti opere tradotte in diverse lingue, tra le quali ricordiamo: Le Souci con-temporain (1996, 2004), premio Mousquetaire; L’Étatsubsidiaire (1992), premio della Académie des Sciences morales et politiques, trad. it. Lo Stato e la sussidiarietà; Histoire desidéespolitiques de l’Europe centrale, con Michel Maslowski (1998), premio della Académie des Sciences mo-rales et politiques; Éloge de la singularité, essai sur la modernité tardive (2000), premio Raymond-de-Boyer-de-Sainte-Suzanne dell’Accademia francese, trad. it. Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva.
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
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Non abbiamo ancora preso piena coscienza della pro- fonda trasformazione che si sta producendo nel nostro tempo: la fine di una civiltà vecchia di sedici secoli. Dopo molte esitazioni, uso questa agghiacciante parola: “ago- nia”. Infatti la morte della cristianità1 non è affatto una morte improvvisa. D’altronde, salvo poche eccezioni, le civiltà non conoscono una morte improvvisa: si estin- guono a poco a poco, in numerosi sussulti. La cristianità combatte da due secoli per non morire, e in questo con- siste quella commovente ed eroica agonia. È così antica che ha creduto all’inizio di poter beneficiare di una sorta di immortalità: non era forse segnata dal sigillo della tra- scendenza? E poi si è creduta, come certi anziani, troppo vecchia per morire. La Chiesa è eterna per i cattolici: ci sarà sempre un gruppo di fedeli, sia pure sparuto, a costitu- irla. Ma la cristianità è qualcosa di completamente diverso. Si tratta della civiltà ispirata, ordinata, guidata dalla Chie- sa. Sotto questo aspetto possiamo dire che la cristianità è durata sedici secoli, dalla battaglia del fiume Frigido, nel 394, fino alla seconda metà del XX secolo, con il successo dei sostenitori dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Le cosiddette riforme sociali sono essenziali per ca-
1 In francese il termine Chrétienté ha l’iniziale maiuscola, che va usata per distinguere le civiltà (Islam come civiltà e islam come religio- ne, per esempio). In italiano abbiamo optato per l’iniziale minuscola, dato che tale distinzione abitualmente non è così categorica (ndc).
pire l’inizio e la fine. Infatti questa è davvero una civiltà, in altre parole: un certo modo di vivere, una visione dei confini tra il bene e il male.
L’incredibile energia con cui la cultura cristiana lotta da due secoli per non morire dimostra chiaramente che ha davvero formato un mondo, un mondo coerente in tutti gli ambiti della vita, chiamato cristianità. Non sono d’accordo con Emmanuel Mounier quando dice che non c’è stata alcuna civiltà cristiana: «La cristianità è una “spa- ventosa illusione” […]. Il cristianesimo è un’alternativa nel fondo del cuore […], non un consolidamento che si sta- bilisce con il tempo e con il numero»2. Mounier descrive qui il suo desiderio, non certo la realtà. Il cristianesimo ha costruito una civiltà, che è vissuta secondo le sue leggi e i suoi dogmi, tra mille difficoltà, per sedici secoli.
L’eredità controrivoluzionaria
La stagione dei Lumi, che inizia forse molto presto (con Montaigne? con Vico?) e culmina nella grande Rivoluzio- ne, mette in discussione la cristianità, attacca la civiltà cri- stiana, cioè dei modi di essere, una morale, delle convin- zioni profonde.
La Rivoluzione francese non si è potuta compiere se non in opposizione al cristianesimo, che era fin dall’origi- ne e fino a poco tempo fa, ce ne dimentichiamo troppo, il principale nemico della modernità3.
2 e. mounier, Cristianità nella storia, Ecumenica Editrice, Bari 1979, pp. 227-228 (or. fr. Feu la Chrétienté [1950], Desclée de Brouwer, Paris 2013, p. 51).
3 Con l’eccezione, ovviamente, dei protestanti. Il termine cristia- nesimo qui include essenzialmente cattolici e ortodossi.
Gli storici hanno mostrato chiaramente quanto la Ri- voluzione francese del 1789, che è la quarta del suo genere in Occidente, sia stata particolare rispetto alle precedenti. Le rivoluzioni olandese, inglese e americana, per rove- sciare il vecchio ordine sociale, si sono appoggiate su una base religiosa come Archimede sulla sua leva. In questi tre paesi regnava la religione riformata, che opponeva pochi ostacoli alle nuove idee. La Rivoluzione francese invece poggiava sul nulla, perché la religione cattolica dominan- te ne rifiutava tutti i princìpi, a cominciare dalla libertà e dall’uguaglianza. La conseguenza fu che le prime tre rivo- luzioni non degenerarono in utopie vendicative e ridicole, ma instaurarono regimi stabili e crearono società in cui la politica e la religione potevano appoggiarsi l’una sull’altra. La Rivoluzione francese sfociò invece in una guerra perpe- tua tra la Chiesa e lo Stato, con tutte le sue conseguenze: quando si priva completamente della vita spirituale, la po- litica cade inevitabilmente in eccessi sinistri. Quanto alla Chiesa, ridotta allo stato di nemico pubblico e perenne- mente in rivolta contro le leggi e i costumi, andava lenta- mente indebolendosi.
Le prime rivoluzioni moderne fondate sulla libertà fu- rono delle conquiste protestanti. Per questo le democrazie anglosassoni di oggi non hanno rifiutato i riferimenti re- ligiosi all’interno perfino della politica: non si disdegna la propria culla. D’altra parte, come scrive Pascal Ory:
«La Rivoluzione francese, al contrario delle altre tre, non si è potuta appoggiare a una religione che, questa volta, era cattolica, apostolica e romana. I valori che sosteneva si contrapponevano frontal- mente a quelli del Magistero romano, facendo del-
la Chiesa cattolica per più di un secolo il principale organismo antiliberale del mondo occidentale»4.
A partire dall’inizio del XIX secolo, infatti, la Chiesa cat- tolica si erge come baluardo contro la modernità. E poiché la libertà moderna si fa strada come un destino ineluttabile e non può crollare, dal momento che sono i suoi avversari a rendersi ridicoli, la Chiesa nel giro di un secolo e mezzo perderà a poco a poco il suo potere, il suo credito e la sua influenza: «I secoli moderni sono una crociata contro il cri- stianesimo», diceva José Ortega y Gasset5. È la caduta della cristianità come civiltà cristiana.
La cristianità come civiltà è il frutto del cattolicesimo, religione olistica, che sostiene una società organica, rifiuta l’individualismo e la libertà individuale. Era naturale che si scontrasse con la modernità e, una volta arrivata quest’ul- tima al proprio apice, il suo destino era quello di scompa- rire. Quando in occasione del Concilio Vaticano II, negli anni ’60 del XX secolo, la Chiesa riconobbe finalmente la libertà religiosa, «rivoluzione copernicana» (J. Isensee) preparata dall’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, nel 1963, ciò avvenne nel corso di accesi dibattiti interni6. E infatti si trattava addirittura di proclamare esattamente il contrario di quanto aveva decretato Pio IX nel Sillabo,
4 ory, Qu’est-ce qu’une nation?, Gallimard, Paris 2020, p. 161.
5 J. ortega y gasset, Il tema del nostro tempo. La vita come dialogo
tra l’io e la circostanza, SugarCo, Milano 1985, p. 116 (or. spagn. El tema de nuestro tiempo. El ocaso de las revoluciones. El sentido histórico de la teo- ría de Einstein, Calpe, Madrid 1923).
6 J.-m. mayeur (dir.), Storia del cristianesimo. Religione-Politica-Cul- tura, vol. 13, Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Borla-Città Nuova, Roma 2002, pp. 79 e 107 (or. fr. Histoire du christianisme, t. XIII, Crises et renouveau, de 1958 à nos jours, Desclée, Paris 2000, pp. 69 e 109).
un secolo prima… Che cosa significa questo capovolgi- mento, e qual è il suo scopo? Si può capire che la Chiesa non voglia, di fronte agli assalti della modernità, rimanere una fortezza assediata. Tuttavia essa è la sentinella di una verità più che di una reputazione. È molto difficile com- prendere questo evidente cambiamento di rotta, che rati- fica la fine dell’olismo cattolico e un timido ingresso nella società moderna dell’individualismo – poiché significa che «l’uomo deve essere considerato non come l’“oggetto” della vita sociale o come uno dei suoi elementi passivi, ma come il suo “soggetto”, il suo fondamento e il suo fine»7. Tuttavia, anche se la Chiesa avesse voluto, così facendo, riconciliarsi con i tempi, sarebbe stato troppo tardi. La tar- da modernità, che inizia dopo la seconda guerra mondiale, considera la Chiesa come un’istituzione decisamente ob- soleta, perché poggia su una verità e fa uso dell’autorità per sostenerla. Durante la seconda metà del XX secolo e l’inizio del XXI, le divergenze si accumuleranno. Il liberali- smo/libertarismo imperante rappresenta l’esatto opposto del modo di pensare ecclesiale.
Oggi, la stragrande maggioranza del clero e dei fedeli è legata ai moderni princìpi di libertà di coscienza e di re- ligione – tranne qualche piccolo gruppo che peraltro non oserebbe difendere apertamente le proposizioni del Silla- bo. E più ancora: la maggior parte del clero e dei fedeli nutre rammarico e rimpianto ricordando la radicalità del Sillabo.
A partire dall’inizio del XIX secolo incomincia la lun- ga campagna di difesa cristiana. Antoine Compagnon ha mostrato fino a che punto, nei due secoli che ci hanno pre-
ceduto, abbia sovrabbondato la letteratura antimoderna8. All’interno di questa letteratura, subito dopo la Rivoluzione emerge, e sempre più chiaramente, l’ossessione della fine della cristianità.
Il mio intento non è quello di fare la cronistoria di que- sta presa di coscienza con i suoi drammatici sussulti, ma semplicemente di mostrare, brevemente e a mo’ di in- troduzione, come il pensiero cristiano abbia progressiva- mente rinunciato alla cristianità. Non si può definirlo un tradimento, anche se si tratta di una serie di concessioni, ognuna delle quali vorrebbe essere l’ultima mentre già lascia la porta aperta a quella successiva. Il tradimento in effetti presuppone un’alternativa, ma in questo caso non si vede altra scelta possibile – le soluzioni estreme per salva- re la cristianità sono state tentate nel XX secolo e si sono rivelate peggiori del male. Non si può chiamarlo una ri- nuncia, che presuppone un’indifferenza, una fatica, quan- do si guarda all’estrema combattività, alla fede ardente che anima tutta una genealogia di scrittori cristiani, da Juan Donoso Cortés fino a William Cavanaugh, passando per Jacques Maritain e tanti altri. Questa storia di due secoli segna piuttosto una graduale assuefazione a una situazio- ne inizialmente ritenuta inaccettabile, una lunga catena di compromessi di varia portata e, alla fine, una situazione in cui non resta nulla. È la storia di una sconfitta dove tutto è stato aspramente conteso, ma dove nulla è stato salvato, e come si vedrà, nemmeno l’essenziale: la storia concreta di un’agonia, o se si vuole, di una lotta all’ultimo sangue, persa in anticipo.
8 A. ComPagnon, Gli antimoderni, Neri Pozza, Vicenza 2017 (or. fr. Les antimodernes, Gallimard, Paris 2005).
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Prof. Chantal Delsol doktorem honoris causa Katolickiego Uniwersytetu Lubelskiego
Prof. Chantal Delsol
Prof. Chantal Delsol odebrała w niedzielę w Lublinie doktorat honoris causa KUL. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo już nas nikt nie chce słuchać. Misja musi przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi o dokonanie zasadniczego zwrotu” – mówiła filozofka.
Nadanie tytułu doktora honoris causa KUL prof. Chantal Delsol miało miejsce w niedzielę podczas uroczystego rozpoczęcia roku akademickiego, które zakończyło również VII. Kongres Kultury Chrześcijańskiej w Lublinie.
W uchwale Senatu KUL uzasadniono, że to najwyższe wyróżnienie w świecie akademickim jest wyrażeniem szacunku i uznania dla prof. Chantal Delsol „jako wybitnej humanistki upominającej się w swoich pismach filozoficznych i literackich o godność osoby ludzkiej i prawdę w post-ponowoczesnym świecie”.
W swoim wykładzie prof. Chantal Delsol zwróciła uwagę, że chrześcijańskim powołaniem jest misja: „staniecie się rybakami ludzi…”. Ta misja – jak mówiła – to dawanie świadectwa aż po krańce ziemi. „Żyjemy w tej chwili w czasach, kiedy na Zachodzie chrześcijaństwo jest tolerowane pod warunkiem, że nie obiera sobie misji za cel. Stawia nas to w bardzo niekomfortowej sytuacji. Powiedziałabym nawet, żew sytuacji dramatycznie sprzecznej” – podkreśliła francuska filozofka.
Jej zdaniem nie możemy dalej wyobrażać sobie misji jako głosu autorytetu panującego nad ciałami i duszami. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo byliśmy nimi za długo, już nas nikt nie chce słuchać. Misja nasza musi się więc zmienić – przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi tutaj o dokonanie zasadniczego zwrotu” – zwróciła uwagę prof. Delsol.
Zaznaczyła, że wielu misjonarzy w przeszłości było prawdziwymi świadkami tego, co sami głosili. „Ogólnie jednak rzecz biorąc, mamy raczej przed sobą kaznodziejów – ani gorszych, ani lepszych od innych – krótko mówiąc ludzi, którzy czasami wydają się gorsi od innych, ponieważ ich autorytet daje im sposobność do wykorzystywania ludzkich słabości, np. spójrzmy na przypadki pedofilii” – wskazała filozof.
W jej opinii, jeśli nadal chcemy żywić szacunek dla powołania misyjnego, to liczy się tutaj jedynie świadek: prosty, pokorny, zwyczajny. Według niej powinien nawracać on jedynie poprzez swoją własną osobę, swoje własne postępowanie.
„Jednak w tej chwili – przez kilka jeszcze dziesięcioleci albo może nawet stuleci – niech chrześcijanie nie otwierają ust, bo za wiele mówiliśmy i zbyt często tylko mówiliśmy. Potrzebujemy bardzo długiego okresu wstrzemięźliwości, mam na myśli wstrzemięźliwość od słów, od kazań. Pozwólmy ujrzeć, ukazać żywą postać dobrej nowiny” – mówiła francuska filozofka.
Prof. Delsol podkreśliła, że jeżeli misja ma oznaczać podbój, to możemy natychmiast odrzucić tę ambicję. „Będziemy jednak kontynuować historię chrześcijaństwa w ten oto sposób – w filozofii, zastępując dogmatykę fenomenologią; w duszpasterstwie, zastępując dogmatykę świadectwem” – stwierdziła.
Podczas swojego przemówienia inauguracyjnego rok akademicki rektor KUL ks. prof. Mirosław Kalinowski zwrócił uwagę, że „we współczesnych czasach nowoczesności, pluralizmu i postmodernizmu” KUL jest powołany do zadań wyjątkowych.
„Chcemy być uczelnią nowoczesną, ale opartą o tradycję; przodującą w rankingach naukowych, ale równocześnie mającą swój wyrazisty charakter, do którego zobowiązuje przydomek +katolicki+. Uczelnią widoczną w życiu społecznym i proponującą nowe, ciekawe rozwiązania w wielu dziedzinach, ostatnio także w zakresie medycyny, a równocześnie wprowadzającą do świata nauki i relacji społeczno-gospodarczych ducha prawdy, uczciwości, moralności, wysokiej kultury” – zaznaczył rektor.
Katolicki Uniwersytet Lubelski jest najstarszą uczelnią w Lublinie. Powstał w 1918 r. Kształci ponad 8 tys. studentów, w tym ok. 3 tys. na pierwszym roku. Wśród ok. 700 cudzoziemców najliczniejszą grupę stanowią Ukraińcy i Białorusini.
Chantal Delsol (ur. 16 kwietnia 1947 r. w Paryżu) jest profesorem filozofii politycznej, francuską myślicielką zajmującą się przemianami świata postnowoczesnego, członkinią Akademii Francuskiej, a także publicystką oraz autorką książek filozoficznych i powieści. Jest założycielką Instytutu Badań im. Hannah Arendt oraz dyrektorką Ośrodka Studiów Europejskich na Uniwersytecie Marne-la-Vallée w Paryżu. Po polsku ukazały się m. in. „Esej o człowieku późnej nowoczesności” (2003), „Nienawiść do świata. Totalitaryzmy i ponowoczesność” (2017), „Koniec świata chrześcijańskiego” (2023).
Come il viale è quieto, chiaro, assonnato!
Colta dal vento la sabbia vola via
E l’erba sfiora come un soffice pettine…
Con quale gioia or vengo in questo luogo
E a lungo siedo, semiassopito.
Mi piace, quasi svagato, ascoltare
Ora il riso, ora il pianto dei bimbi, e dietro un cerchio
La loro ritmica corsa sul sentiero. Che bello!
Che frastuono, così eterno e veritiero,
Come di pioggia, di risacca o di vento.
Nessuno mi conosce. Qui sono un semplice
Passante, un cittadino, un “signore”
In pastrano marrone e bombetta,
Niente di speciale. Ecco, una signorina
Mi si siede accanto con un libro aperto.
Un marmocchio col secchiello e la paletta
Si accoccola ai miei piedi. Imbronciato,
Si rigira nella sabbia, ed io così enorme
Mi sembro per questa vicinanza,
Che rammento,
Quando io stesso sedevo presso la colonna
Leonina a Venezia. Su questa creaturina,
Sulla testa nel berrettino verde,
Io mi ergo come pesante pietra
Secolare, sopravvissuta a molti
Uomini e regni, tradimenti ed eroismi.
E il marmocchio con zelo riempie
Di sabbia il secchiello e, presolo, me lo versa
Sui piedi, sulle scarpe…Che bello!
E leggero nel cuore io rivedo
Il cocente meriggio veneziano,
Il leone alato librarsi su di me
Immobile con il libro aperto tra le zampe.
E sopra il leone, rosea e tondeggiante,
Fuggire una nuvoletta. E più in alto, più in alto –
L’azzurro denso e cupo, e in esso scivolare
Minuscole, ma fiammeggianti stelle.
Ora esse ardono sul viale,
Sul marmocchio e su di me. Follemente
I loro raggi lottano coi raggi del sole…
Il vento
Inesauribile fruscia con le ondate di sabbia,
Sfoglia il libro della signorina. E ciò che odo,
Da non so qual prodigio è trasfigurato,
Così tenacemente s’imprime nel cuore,
Che più non mi servon né pensieri né parole,
Ed è come se mi specchiassi
In me stesso.
E a tal punto seduce la viva linfa dell’anima,
Che, come Narciso, io dalla sponda terrena
Mi strappo e volo là, dove sono solo,
Nel mio primevo mondo natìo,
Faccia a faccia con me stesso, smarrito un giorno –
Ed ora ritrovato…E da lontano
Mi giunge la voce della signorina: “Mi scusi,
Che ore sono?”
1918
Vladislav Chodasevič
Il pane
Oggi in cucina c’è una luce che abbaglia.
Col grembiule, cosparsa di farina,
Di tutte le Mignon tu sei la più bella
Con la tua bellezza genuina.
Ti svolazzano intorno coi cestini,
Con il bricco del latte e le fascine,
Spiumandosi le ali, i cherubini…
Tra le nubi, dalle colline
Prorompe la luce, e sulle pentole oziose
Come fasci di strali batte il giorno.
Sfacendosi somiglia a pallide rose
La legna che arde nel forno.
E i densi getti del futuro filone
Nel vaso d’argilla un angelo versa,
Giurandoci che son veri, come il sole,
L’amore, il lavoro e la terra.
1918
Il vizio e la morte
Vizio e morte. Quale tentazione,
E quante gioie in una parola godo!
Vizio e morte pungono allo stesso modo,
E sfuggirà il loro pungiglione
Solo colui che serberà nella coscienza
La segreta chiave di un’altra esistenza.
1921
Elegia
Del giardino Kronverkskij le fronde
Stormiscono ai venti rugghianti.
L’anima la sua gioia effonde.
Non le servono conforto e incanti.
Con occhi ardenti e temerari
Guarda i suoi millenni passati,
E vola con le sue grandi ali
Lungo sciami fuoco-alati.
Là tutto è sconfinato e canoro,
E ciascuno ha un’arpa in mano,
Come nubi, gli spiriti tra loro
Parlano un idioma dolce e arcano.
La mia esiliata con esultanza
Entra nella dimora cara
E la sua orgogliosa uguaglianza
Ai tremendi fratelli dichiara.
E mai più oramai le servirà
Chi sotto la pioggia che sferza
Nel giardino Kronverkskij qua e là
Si trascina con la sua pochezza.
E non coglie il mio povero udito,
Né la mente inerte e banale,
Qual spirito essa sarà in paradiso,
O nel tetro abisso infernale.
1921
Oltrepassa, oltresalta,
Oltrevola, oltre – ciò che vuoi –
Ma liberati: come sasso dalla fionda,
Come stella, caduta nella notte…
Ti sei smarrito – adesso cerca…
Dio sa che cosa borbotti,
Cercando le lenti o le chiavi.
1922
An Mariechen
Stai lì attaccata come una ventosa,
A servir birra dietro il banco.
Ci vuole una ragazza più briosa, –
Tu sei malata e il tuo volto è bianco.
Con quella rosa enorme sopra il petto
Che nessuno ancora ha mai baciato –
Mentre un serto funebre, anche il più gretto,
Sarebbe ornamento più indicato.
E’ così bello, così imperituro
Morire ancor prima di peccare.
Ma i tuoi cari ti troveran sicuro
Qualcuno che ti porti all’altare
Un uomo cosiddetto benpensante,
Una persona come si deve –
Sarà un fardello inutile e pesante
Per la tua vita debole e breve.
Meglio sarebbe – ignara e sorridente –
Solo a pensarci un fremito avverto –
Abbandonarti in preda a un malvivente
In un boschetto buio e deserto.
Meglio – in pochi istanti, senza illusioni –
Conoscer la vergogna e la morte,
E i due sfaceli, le due deflorazioni
Non separare da una stessa sorte.
Giacere in terra – l’abito sgualcito –
Sola, in quel bosco di betulla,
Un coltello nel seno illividito.
Nel tuo seno ancora di fanciulla.
1923
Povere rime
Per quattro soldi tutta la settimana
Deperire, affannarsi e trepidare,
Ogni sabato con la moglie befana
Su un boccale abbracciati sonnecchiare,
La domenica sull’erba non più verde
Recarsi in treno, stender la coperta,
E di nuovo assopirsi e testardamente
Trovare che tutto questo diverta,
E trascinarsi indietro nella dimora
La coperta, la moglie e la giacca,
E non sferrare mai, alla buon’ora,
Alla coperta e al mondo un pugno in faccia, –
Oh, in una tale legge senza scampo,
In una tal ferrea rassegnazione,
oh, le bollicine possono soltanto
Salire sempre in alto nel sifone.
1926
Ballata
Siedo nella mia stanza rotonda,
Siedo, dall’alto rischiarato.
Guardo il sole da venti candele
Lassù nel cielo intonacato.
Intorno – come me rischiarati,
Il tavolo, i lisi divani.
Siedo – e nello sgomento non so più
Dove posare le mie mani.
Sui vetri silenzioso fiorisce
Un gelido bianco palmeto.
Nel taschino del gilè martella
L’orologio il suo toc inquieto.
Oh, della mia vita senza scampo
Inerte, misera povertà!
A chi confidare come io sento
Per me e per queste cose pietà?
Ed ecco comincio ad oscillare,
Tenendo serrati i ginocchi,
E a un tratto in versi a parlare prendo
Con me stesso, chiudendo gli occhi.
Sconnessi, appassionati discorsi!
Discorsi senza alcun costrutto,
Ma i suoni son più veri del senso,
La parola – più forte di tutto.
E musica, musica, musica
Al mio canto si avvince,
E sottile, sottile, sottile
Una lama allor mi trafigge.
Io emergo al di sopra di me stesso,
Mi erigo sulla morta esistenza,
I piedi nella fiamma nascosta,
La fronte negli astri scorrenti.
E vedo con occhi smisurati –
Con occhi, forse, di serpente –
Come il canto selvaggio ascoltano
Le mie tristi cose da niente.
E a un fluido ritmico vortice
Tutta la stanza si abbandona,
E qualcuno la pesante lira
Attraverso il vento mi dona.
E non c’è più il cielo intonacato
E il sole da venti candele:
Su nere rocce levigate
Orfeo poggia i piedi lieve.
1921
Vladislav Chodasevič
Chodasevič è sepolto nel cimitero di Billancourt, presso Parigi, il poeta che Maksim Gorkij considerava “il migliore che vanti la Russia moderna”. Vladislav Felicianovič Chodasevič, di origine polacca, era nato a Mosca il 29 maggio 1886. Nel 1922 lasciò la Russia per sempre, e dal 1925 fino al giorno della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1939, visse costantemente a Parigi.
I suoi primi quattro volumetti di poesie furono pubblicati in Russia:Giovinezza nel 1908, La casetta felice nel 1914, Per la via del grano nel 1920 e La pesante lira nel 1922. I versi da lui scritti all’estero, e riassunti col titolo La notte europea, entrarono a far parte della sua raccolta del 1927. L’ultimo decennio di vita di Chodasevič fu più dedicato alla critica e alle rievocazioni letterarie, che alla poesia. Non ebbe mai altri guadagni che quelli derivatigli dalla sua attività letteraria, visse sempre negli stenti, cadde spesso gravemente ammalato, ma ebbe amici cari e fedeli tra letterati e poeti, lettori e ammiratori, che non cessarono mai di amarlo.
Scriveva Gumilёv nel 1914, commentando la seconda raccolta di versi La casetta felice: “Non è possibile abituarsi né alla sua fantasia, né alle sue intonazioni – egli ci si presenta inaspettato, con nuove avvincenti parole, e non si trattiene a lungo, lasciando dietro di sé un piacevole inappagamento e il desiderio di un nuovo incontro”.
Per i loro tratti chiari e precisi e per l’immediata efficacia, i versi di Chodasevič incantano anche il lettore più “impoetico”. La loro forma classica è impeccabile, semplice, elegante. La sua concezione della vita è ironica e tragica al tempo stesso. Dalla sua poesia emerge con insistenza l’eterno tema dell’anima immortale e degli ostacoli che le frappongono la materia e la squallida banalità della vita. E’ un continuo alternarsi di estasi metafisiche e di minute inquadrature prosaiche, d’immersioni ed emersioni, di cadute negli abissi dell’esistenza e di slanci mistici.
Scrive R. Poggioli nel suo libro Il fiore del verso russo: “Uno dei procedimenti più cari a Chodasevič è proprio quello di assegnare una grandezza precaria a provvisoria a oggetti meschini o anche di ridurre le cose grandi alle dimensioni di quelli o al loro livello, ed è questo gioco fra il sublime e il minuscolo che gli permette di comprendere l’umanità di ogni oggetto e le lacrime delle cose”. A.M. Ripellino ha messo in risalto il lato “mordace e velenoso” della poesia di Chodasevič, il suo “mondo uggioso e grottesco, nel quale si aggirano personaggi meschini, idioti e mostri dall’apparenza fantomatica”, sottolineando inoltre il pessimismo del poeta, il clima di scherno, l’atmosfera grigia che aleggia nei suoi versi.
E’ vero: Chodasevič è un poeta spaesato in tanto squallore che lo circonda, ma mi sembra che il suo pessimismo, la sua tragedia trovino una via d’uscita, e la sua salvezza sia nel tono serio e pacato della sua poesia, nella sua attitudine a contemplare con un certo distacco i misteri dell’anima e dell’esistenza; la sua è un’ironia assai spesso feroce e maligna, ma sovente è anche serena, ricca di un humour leggero e immediato. La sua rabbia non lo fa tonare, ma lo spinge a riflettere, a partecipare delle altrui miserie, a sorridere lievemente subito dopo aver pianto.
In una lettera del 1 ottobre 1923 Gorkij scriveva al poeta: “I vostri versi An Mariechen sono belli e penetranti. Non so dire di più, ma aggiungerò soltanto che essi suscitano nell’anima il freddo sibilo della bufera di neve” e nello stesso tempo sono irresistibilmente umani”. Mi sembra che questo suggestivo giudizio di Gorkij possa essere la giusta insegna sull’incantato “bazar” del poeta Chodasevič. (Paolo Statuti)
FONTE- da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti-
Luogo e data di nascita: Moskva, 16 (28) maggio 1886
Luogo e data di morte: Parigi, 14 giugno 1939
Professione: poeta, memorialista, critico letterario
Ultimo di sei figli, nasce da un padre di nobile origine polacca (Felician Ivanovič Chodasevič; 1834–1911) e da madre ebrea (Sofija Jakovlevna Brafman; 1846–1911), poi convertita al cattolicesimo. Dal padre che in giovinezza sognava di diventare pittore (aprirà invece a Mosca uno dei primi negozi di articoli fotografici) eredita l’inclinazione per le arti e dalla madre il gusto della poesia. Di salute cagionevole, alla passione giovanile per il balletto sostituisce all’inizio del secolo l’amore per la letteratura: frequenta circoli letterari e artistici, scrive recensioni e feuilletons, traduce, collabora con diverse riviste, nel 1908 pubblica la prima raccolta di versi Molodost’ (Giovinezza)
Nel 1911 viene per la prima volta in Italia per curarsi e si ferma a Nervi sulla Riviera ligure, poi visita Firenze, Pisa e Venezia, dove si consuma il suo dramma d’amore per Evgenija Vladimirovna Paganuzzi (1884–1982), prima moglie di Pavel Muratov. Il primo viaggio si prolunga più di due mesi (2 giugno – metà agosto 1911), Venezia e l’Italia seducono il poeta: “Non può sottrarsi l’Italia alla sua inevitabile leggiadria! Ora costruisce le città sui capricciosi declivi dei suoi monti, ora sulle rocce costiere, ora sulle decine di minuscole isolette sparpagliate nella nebbiosa laguna” (Nočnoj prazdnik, in Sobranie sočinenij, a cura di J.E. Malmstad e R. Hughes, Ann Arbor: Ardis, 1990, vol. 2, p. 77).
Chodasevič si rifiuta di considerare ‘morta’ Venezia, come l’aveva descritta Pёtr Percov nel suo libro Venecija (1905) o Nina Petrovskaja nel saggio Mertvyj gorod: Pis’mo iz Venecii (La città morta: lettera da Venezia, 1908), e nello schizzo Nočnoj prazdnik (Festa notturna) indugia ancora sulla incomparabile bellezza dell’Italia: “Girovagando per le tortuose, strette viuzze che scendono al mare di una cittadina d’Italia, ho capito una volta per tutte che la bellezza è un dono del cielo, ingiusto e dolce, dato per secoli a questo paese” (Ibidem).
Nel 1914 il poeta pubblica la sua seconda raccolta Ščaslivyj domik (La casetta felice), negli anni della Prima guerra mondiale si risparmia il fronte per una grave forma di tubercolosi ossea, collabora con le riviste “Russkie vedomosti” e “Utro Rossii”, passa l’estate 1916 e 1917 a Koktebel’ da Maksimilian Vološin.
Come molti intellettuali accoglie con entusiasmo la rivoluzione di febbraio, aderisce inizialmente alla rivoluzione d’ottobre: nel 1917-1920 collabora alla sezione teatrale del Commissariato del popolo per l’istruzione (TEO) e al Proletkul’t, dirige la sezione moscovita delle edizioni Vsemirnaja literatura; nel 1918 insieme a Muratov organizza Knižnaja lavka pisatelej (Bottega del libro per gli scrittori), improvvisata rivendita di libri su commissione ed esigua fonte di sussistenza; edita insieme a Lev Jaffe Evrejskaja antologija. Sbornik molodych evrejskoj poezii (Antologia ebraica. Raccolta di giovani poeti ebrei).
Nel novembre 1920 si trasferisce a Pietrogrado, dove con l’aiuto di Maksim Gor’kij ottiene un alloggio alla Casa delle Arti (Disk), rifugio insperato per l’intelligencija in cui convergono in quegli anni di carestia e incertezza molti letterati (al Disk dedicherà molte pagine di memorie). Nel 1920 esce la raccolta Putёm zerna (Per la via del grano) che lo pone fra le grandi voci poetiche del suo tempo, nel 1922 Tjaželaja lira (La pesante lira), poi è come sospinto fuori dalla Russia sovietica, prende la difficile decisione di allontanarsi dalla Russia; grazie all’aiuto dell’ambasciatore della Lettonia Jurgis Baltrušajtis e di Anatolij Lunačarskij ottiene il passaporto per l’estero per 3 anni per motivi di salute.
Il 22 giugno 1922, senza neanche salutare la moglie Anna Čulkova (gesto di cui si rammarica tutta la vita) parte con Nina Berberova per Berlino, prima stazione della via di emigrato che lo porterà nel 1925 a Parigi. Come molti altri russi a Berlino non si considera un emigrato, anzi prova un’aperta insofferenza per i bianchi, si sente affine a Andrej Belyj che più d’ogni altro aveva percepito il sentore di catastrofe del periodo e la lugubre atmosfera della città: “Berlino è un incubo, che penetra nella vita reale con ordine e metodo e assume l’aspetto innocuo del comune buon senso borghese: un buon senso senza senso” (A. Belyj, Odna iz obitelej carstva tenej, Leningrad 1924, p. 36). Incontra Muratov, Boris Zajcev, Il’ja Erenburg, Boris Pasternak e molti altri, frequenta le serate letterarie al Café Landgraf (tutto diligentemente appuntato nel suo Kamer-fur’erskij žurnal, Diario di un gentiluomo di corte), ma il “volto inumano” della città lo respinge:
Case – come demoni,
fra le case – tenebra;
filiere di demoni,
e in mezzo uno spiffero
(Dalla strada di Berlino, in È tempo di essere, p. 241).
Gli anni 1921-1925 sono indissolubilmente legati a Gor’kij, nonostante la loro diversità di carattere e opinioni: prima lavorano insieme all’edizione della rivista “Beseda” (La conversazione) di cui usciranno 6 numeri, poi dall’ottobre 1924 all’aprile 1925 è ospite a Sorrento dallo scrittore.
La giornata di Gor’kij è rigorosamente suddivisa tra lavoro, salutari passeggiate, pranzi e divertimento. Al piano superiore della villa (camera di Gor’kij e Budberg) si lavora, al piano inferiore, quello che lo scrittore chiama la nursery, si gioca: Maksim legge romanzi polizieschi, colleziona francobolli, la moglie dipinge. Talora Maksim fa da cicerone agli ospiti e li porta sulla sua motocicletta a visitare Amalfi o Ravello:
La motocicletta sfiora la roccia
In corsa sinuosa,
la nuova curva rivela più ampio
ora il golfo alla vista (…)
Dorme Procida in contorni di nebbia,
a nord sfiata il Vesuvio
(Fotografie di Sorrento, in Non è tempo di essere, p. 279).
Per divagarsi Maksim propone di pubblicare un giornale manoscritto “Sorrentijskaja pravda” (La verità di Sorrento), parodia di certe riviste sovietiche o dell’emigrazione, per il quale scrivono Gor’kij, Chodasevič e Berberova, l’impaginazione è di Maksim, le illustrazioni di Rakickij e Maksim, che “in considerazione della sua scarsa competenza” svolge anche il ruolo di redattore
Chodasevic visita anche le rovine di Pompei, scrive il saggio Pompejskij užas (Stupore pompeiano, 1925), in cui riflette sulla patria e l’emigrazione, sul crollo della civiltà europea. A Sorrento si raffredda a poco a poco la sua amicizia con Gor’kij “senza discussioni, scandali, reciproci rimproveri o offese”, lo snerva l’atteggiamento ambiguo di Gor’kij verso il regime sovietico:
“Era uno degli uomini più testardi che conobbi, ma anche uno dei più tenaci. Ammiratore strenuo del sogno e dell’inganno dominante, che per la primitività del suo pensiero non seppe mai distinguere dalla più comune e volgare menzogna, egli non ha mai fatto propria la sua immagine ‘ideale’, in parte autentica, in parte immaginaria, di cantore della rivoluzione e del proletariato. E quando la rivoluzione risultò diversa da quella che aveva immaginata, gli fu intollerabile il solo pensiero di perdere questa immagine, di “deteriorare la propria biografia” <…> e alla fin fine si vendette, non per soldi, ma per conservare per se e per gli altri l’illusione principale della sua vita <…>. In cambio di tutto ciò la rivoluzione ha preteso da lui, come pretende da tutti, non un onesto lavoro, ma sudditanza e lusinga. È diventato uno schiavo e un adulatore” (Gor’kij 2 // Nekropol’; Vospominanija; Literatura i vlast’; Pis’ma k B.A. Sadovskomu / pred. i komm. N. Bogomolova. Moskva 1996, pp. 207-208).
Quando nell’aprile 1925 la rappresentanza sovietica in italia nega a Chodasevič il prolungamento del visto e gli ingiunge di rientrare in URSS, il poeta rifiuta e si trasferisce definitivamente a Parigi. Qui tace la sua voce poetica, collabora come critico letterario alle riviste “Sovremennye zapiski” (Appunti contemporanei) e “Vozroždenie” (La rinascita), continua lo studio della linea classica della poesia russa, scrive la biografia di Deržavin (1931), gli articoli Literatura i vlast’ v sovetskoj Rossii (Letteratura e potere nella Russia sovietica, 1931) e Krovavaja pišča (Cibo insanguinato, 1932), la raccolta di saggi su Puškin (1937) e il volume Necropoli (1939).
Pubblicazioni
Chodasevič, Poesie, in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Torino: Einaudi, 1949, pp. 361-376.
Chodasevič, Poesie, in A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954, pp. 209-224.
V.F. Chodasevič, Necropoli. A cura di Nilo Pucci, pref. di N. Berberova, Milano: Adelphi, 1985.
V.F. Chodasevič, La notte europea. A cura di C. Graziadei, con uno scritto di N. Berberova. Milano: Guanda, 1992.
Perepiska N.N. Berberovoj i V.F. Chodaseviča s Ol’goj Sin’orelli (1923–1933) / publ. E. Garetto // Archivio russo-italiano IX. Salerno: Collana di Europa Orientalis, 2012. Т. 1. C. 103–138.
V.F. Chodasevič, Quarantuno poesie. A cura di N. Pucci, Borgomanero: Ladolfi, 2014.
V.F. Chodasevič, Non è tempo di essere. A cura di C. Graziadei. Firenze: Bompiani, 2019.
Fonti archivistiche
Fondazione Giorgio Cini, Venezia. Archivio di Angelo e Olga Signorelli.
Bibliografia
Belyj, Rembrandtova pravda v poezii našich dnej (o stichach V. Chodaseviča) // Zapiski mečtatelej 1922. № 5, pp. 13–39.
A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954.
N.A. Bogomolov, Žizn’ i poezija Vladislava Chodaseviča // V.F. Chodasevič, Stichotvorenija. L.: Sovetskij pisatel’, 1989, pp. 5–51.
Berberova, Il corsivo è mio, Milano: Adelphi, 1989.
Čulkova, Vospominanija o Vladislave Chodaseviče // Russica-1981, New-York 1981
Graziadei, La dissonanza nella poesia di Chodasevič, in Il gladiatore morente. Saggi di poesia
russa. Siena: Cadmo, 2000, pp. 167–212.
Graziadei, Contemplare la morte. Karl Brjullov, Vladislav Chodasevič, in Estetica delle rovine, a cura di G. Tortora. Roma: Manifestolibri, 200, pp. 385–405.
G. Bočarov, Filologičeskie sjužety, M.: Jazyki slavjanskich kul’tur, 2008, pp. 385–415.
Sinossi-Questo libro, di cui presentiamo la prima traduzione al mondo, si apre sugli anni del primo Novecento russo. Era il momento di una equivoca ed esaltante mescolanza fra arte e vita: «Tutte le strade erano aperte, con un solo obbligo: andare quanto più possibile veloce e lontano. Questo era l’unico, il fondamentale dogma. Si poteva esaltare Dio come il Diavolo. Si poteva essere posseduti da qualsiasi cosa, entità: l’importante era la pienezza della possessione». Tutto andava offerto sull’altare delle emozioni. «Cogliamo gli attimi distruggendoli» disse Brjusov, gran sacerdote del simbolismo. C’era la posa teatrale e c’era il colpo di pistola. «“Perdo succo di mirtillo!” gridava il pagliaccio di Blok. Ma il succo di mirtillo talvolta si rivelò sangue vero».
Chodasevic era allora un giovane poeta, dal segno elegante, dall’aria morbosa, dall’intelligenza acutissima. Oggi sappiamo che era un astro nella costellazione dei grandi poeti russi malmenati dalla storia, accanto alla Achmatova, a Mandel’štam, alla Cvetaeva, a Pasternak, anche se la sua opera solo ora comincia a essere scoperta. «Nell’aria afosa, come prima dei temporali, di quegli anni», troppo colmi di presagi (il suo amico Muni ne era così ossessionato che arrivò a dichiarare: «I presagi sono aboliti»), Chodasevic visse la nascita caotica della letteratura moderna in Russia. Si conoscevano tutti, percepivano miserie e incanti gli uni degli altri, avevano passioni per le stesse donne, litigavano, bevevano, perdevano al gioco. Poi venne la guerra, venne la rivoluzione, ai poeti cominciarono ad accompagnarsi i delatori. Pietroburgo appariva come «una città morta, sinistra». Nel 1922 Chodasevic riuscì ad abbandonare la Russia, non senza aver esortato i suoi amici nelle «ultime ore prima della separazione» a concordare i segnali «da scambiarsi nella tenebra che incombe». Da allora sino alla morte si può dire che non abbia assistito che all’estendersi, intorno a lui, di una sterminata «necropoli». Morivano uno dopo l’altro, suicidi, o assassinati o ridotti al silenzio. E uno dopo l’altro sfilano in questo libro: da Brjusov a Blok, da Esenin a Sologub, da Belyj a Gor’kij. Chodasevic non riesce a parlare di questi scrittori senza darci anche un giudizio penetrante sulla loro opera, ma non riesce a parlare della loro opera senza evocare la loro presenza, il loro gesto, spesso il loro convivere con le più ingombranti contraddizioni. Erano tutti personaggi di un immenso «romanzo russo», e come tali qui ci appaiono. Oscillavano tutti fra estremi, e riuscivano talvolta a mascherarne la natura. Come per Sologub, di ciascuno era difficile dire «da dove è partito e dove è arrivato, se dal sacrilegio alla preghiera o viceversa, dalla benedizione alla maledizione o viceversa». Crudele e commosso, questo libro è un salvataggio nella memoria dell’ultima grande letteratura russa, operato da uno dei suoi protagonisti, prima che la «necropoli» inghiottisse anche lui. Come scrisse lo stesso Chodasevic: «In un certo senso la storia della letteratura russa potrebbe essere definita la storia della distruzione degli scrittori russi».
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo ,I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi –
Descrizione del libro di Gad Lerner eLaura Gnocchi-Giangiacomo Feltrinelli Editore-–Che cos’è il fascismo? Siamo sicuri che sia scomparso? I racconti di chi il fascismo lo ha vissuto, e si è ribellato, quando era giovane come voi oggi.
Sono passati ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia da allora ha vissuto in pace, ma vi sarà giunta l’eco di nuove guerre scoppiate all’improvviso, epidemie e disastri ambientali. In questi momenti la Storia può diventare per noi una buona consigliera e può aiutarci a capire oggi con quali pretesti l’umanità venne allora divisa in persone di serie A e di serie B, perché i nonni dei nostri genitori abbiano obbedito a dittatori fanatici.
Erano i tempi del fascismo, un’invenzione italiana del 1919, quando Benito Mussolini prese il potere e trasformò rapidamente il Regno d’Italia in una dittatura. Ma la sua ambizione non era solo quella di comandare, voleva cambiare la testa della gente, fargli il lavaggio del cervello. Il suo regime durò oltre vent’anni, seguiti da venti mesi di guerra civile, nel corso dei quali l’antifascismo divenne Resistenza fino ad arrivare nell’aprile 1945 alla resa del nazifascismo. La Liberazione, appunto, celebrata da allora come festa nazionale ogni 25 aprile.
Le partigiane e i partigiani che abbiamo intervistato ci raccontano com’è andata per davvero e le loro storie ci ricordano che la libertà non è un regalo per sempre, dobbiamo guadagnarcela ogni giorno.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo-Feltrinelli Editore
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate italiane da inviato o con ruoli di direzione. Ha ideato e condotto vari programmi d’informazione televisiva alla Rai, La7 e Laeffe. Ha diretto il Tg1. Ora scrive su “Il Fatto Quotidiano” e “Nigrizia”. Con Feltrinelli ha pubblicato Operai (1988, 2010), Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità (2005), Scintille (2009), Concetta. Una storia operaia (2017), L’infedele (2020) e Gaza. Odio e amore per Israele (2024). Ha curato, insieme a Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (2020), Noi, ragazzi della libertà (2021) e Dimmi cos’è il fascismo (2025).
Laura Gnocchiè giornalista. Ha diretto varie testate, tra cui “Il Venerdì di Repubblica”. Il suo ultimo programma televisivo è stato La scelta, ideato insieme a Gad Lerner, con il quale ha curato anche Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (Feltrinelli, 2020), Noi, ragazzi della libertà (Feltrinelli, 2021), entrambi nati dalla raccolta di oltre novecento videointerviste realizzate in collaborazione con l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, e Dimmi cos’è il fascismo. I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi (Feltrinelli, 2025, con le illustrazioni di Piero Macola).
Umberto Bellintani nasce a Gorgo di San Benedetto Po il 10 maggio 1914 e muore a San Benedetto Po il 7 ottobre 1999.Fra gli anni 1932 e 1937 studia scultura all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, allievo di Marino Marini.Partito volontario per la guerra, patisce i campi di concentramento di Dachau, Torn, Peterdorf e Górlitz. In guerra comincia a trasfondere in versi il suo forte senso della “poesia della vita”.Alla fine del conflitto, impossibilitato a riprendere la scultura, per breve tempo insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto Po per poi svolgere le mansioni di segretario presso la Scuola Media di San Benedetto Po.In vita dà alle stampe cinque importanti raccolte di versi: Forse un viso tra mille (Vallecchi 1953), Paria (Mondadori 1955), E tu che m’ascolti (Mondadori 1963), Nella grande pianura (Mondadori 1998) e Canto autunnale (Perosini 1998).
Umberto Bellintani -Poeta italiano
POESIE
Per un bambino che non conosce più i passeri
Urlavan lungi dei cani (o eran gufi?).
Urlavan lungi dei cani e c’eran gufi;
e come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri del cimitero
quando il ragazzino si trovò
solo solo nella notte.
E allora egli aveva un urlo strozzato nella gola,
ché un fruscio d’erbe lo soffocava come un serpente
e la luna veramente era cupa tra le fronde degli alberi.
Come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri e i fianchi degli argini,
e fu allora che il bambino perse l’uso della parola,
e perse la vista comune delle viole e dei giocattoli
e il senso naturale delle cose.
Così ora tentenna il capo e nei suoi occhi è una nuvola,
ma pare un angelo divino contemplante
profonde luci assorte in se stesso.
Povera madre che lo sorvegli lungo i sentieri del tuo orto
e ora lacrimi al suo riso ebete sugli asparagi,
io non so dirti s’è sfortuna a lui toccata
o s’è migliore la sua sorte, più benigna
che al fanciullo intento a suddividere
in bianchi e neri i dadi del suo gioco.
Dolce chiude l’ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d’anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v’è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s’alterna
timore d’essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l’ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.
Poiché veramente sono fratello
Poiché veramente sono fratello
del topo nella bocca della gatta
che svelta se ne corre via
e sopportare non posso il ragazzo
scemo che inchioda al tronco
dell’acero la lucertola
ecco che uccido il ragazzo
con il cuore e gli tronco le mani,
poi rendo la testa della gatta
in poltiglia con colpi di pietra
ed è davvero perché sono fratello del fossato
della latta arrugginita e dei ciottoli
della strada e di ogni essere che vive o non vive
ecco che amo e odio follemente il mondo.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Più d’una rete
Più d’una rete luceva sulle acque,
stillando al sole; di poi si sommergeva.
Ed era un giubilo d’allodole quando
al pescatore sotto riva lento emerse
il giovinetto da quel fondo, il corpo cereo.
Allora il pianto della madre ruppe in gridi,
e quello muto d’altre donne dilagò
ed era greve. Ma nel cielo
ancora il sole risplendeva e la Riparia
era pur sempre gorgheggiata dalle rondini.
Paria
Poveri affaticati nelle membra,
servi delle gleba, paria,
per noi la morte è riposo.
Tu luna invano risplendi in mezzo al cielo;
e non ci cavi dagli occhi che sudore
antica stella che illumini nei boschi
a maggio il canto malinconico dei cùculi.
Non siam che miseri lombrichi nella mota,
siamo concime, la ruota, la carrucola
e non v’è pena che noi non si conosca.
Angela
Piace il tuo parlare, Angela,
venditrice dell’amore:
c’è il buono di un’anima cristiana,
dolce di cose, del buono della vita.
E c’è tanto della mamma nei tuoi occhi
di un benevolo nero;
e che ti prende, di poi si vergogna.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Fratelli
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato
in questa vita così fatta per gli uomini;
chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino
e ha distrutto le colture, e chi la donna
dell’amico ha condotta a perdizione.
Ma non per questo nessuno v’è che peni;
ognuno soffre la montagna della morte
che gl’impedisce di vedere il proprio figlio
e la sua donna, la casa, il campo amato,
un volto amico, un arnese, umili cose.
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Il gatto che ritto si dorme
Il gatto che ritto si dorme
al sommo del palo in questa quiete
dell’aria al pomeriggio di fuoco,
e la rana che grida terrore
dove il fosso s’incurva,
sono voci dell’arcano, e la cetonia
stremata sul sentiero e l’acqua
infesta di torpore e morte;
voci dell’arcano
che dilagan talvolta allora
che tutto s’addensa nel cuore,
preme e non sai
se di vita diversa un esser vivo
un irrequieto immortale
o d’altri mondi a noi cala la voce.
Altro non sai che tu vivi
di questo senso profondo della vita
che ti snerva e che puoi
affascinato dare il fianco alla morte.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Una pianura tutta verde
Immaginiamola, amici, una pianura tutta verde
e tutta piena di bianchi scheletri.
E ditemi voi se non è bella una pianura tutta verde
di primavera ben coperta di quegli scheletri
distesi al sole e tanti fiori sparsi intorno.
Immaginiamola, amici, una pianura tutta sola
come s’intende cosparsa di margherite.
E ditemi voi se non è bella una pianura verde
tutta gremita di margherite e bianchi scheletri.
Immaginiamola, amici, la morte bianca distesa al sole
con tanti scheletri in quella piana di fresco verde.
A Berto
Case vuote abbandonate
occhi allucinati di finestre
amate case di campagna
lombarde voci della vita
case morte della mia pianura
vite spente della gioia
aie al sole della luce
mia tristezza che non taci mai.
Ancora: forse Dio non esiste,
esiste soltanto esiste
il sempre che vive in noi
eternamente.
Morirete senza tremare
di sgomento
perché nessun figlio resterà
solo. Fonte Poesie dal sito www.italian-poetry.org
APRILE
(Umberto Bellintani)
Tu vivi il tempo di grazia dell’aprile
e tra le canne stormenti dello stagno
se un frullo appena si ode dei palmipedi,
avverti un grido imponente di stupore;
e del tuo cuore se un nonnulla desta un lagno,
il muover d’ali di quell’anatra smarrita,
un piccol sasso, un’inezia ti consola.
È dunque vano che ti dica, e ciò m’allieta,
di come il male della vita qui s’apposta;
è dunque vano che ti parli della nera
nube che incombe sopra l’anima contrita,
se per l’azzurro dei tuoi occhi sempre sosta
ritta sul palo di laggiù l’upupa rara.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
NOSTALGIA
Torna un lamento,
e ne dà l’eco la pallida
ombra del monte al capo viola.
Vedo gli uccelli
sui comignoli dei tetti
di un paese dell’Epiro
e scroscia un fresco scintillato di rugiada.
E mentre trebbiano il grano
dei fulvi cavalli arrivo
ove l’oracolo di Delfo era
nel volto corrucciato del greco
fiero di odiarmi.
Non sarò forse mai,
non avrò più ritorno
a quelle terre ove
di me in cerca s’aggira
un ebbro momento.
Oh triste
esser dispersi nel tempo
e per terra divisi
in parti ed ogni parte la sorella
chiamare vanamente.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Chi era Umberto Bellintani
Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Umberto Bellintani nasce a Gorgo, frazione di San Benedetto Po, provincia di Mantova. Fra il 1932 e il 1937 frequenta a Monza l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Ha come maestri (oltre a Marino Marini, docente di Plastica Decorativa, con cui si diploma in scultura nel 1937) Arturo Martini, Raffaele De Grada, Pio Semeghini, Giuseppe Pagano (architetto), Edoardo Persico. Confesserà in più di una lettera all’amico Parronchi che quegli anni furono intensi e pieni di sogni, fra tutti quello di diventare scultore. Purtroppo, delle opere eseguite da Bellintani in quel tempo è rimasto pochissimo: una scultura denominata Fanciullo, conservata nella raccolta Collezioni Civiche di proprietà del Comune di Monza e Il legionario, scultura a figura intera, conservata in uno dei chiostri della Società Umanitaria a Milano. Richiamato alle armi nel 1940, combatte in Albania e in Grecia. È prigioniero, dal 1943 al 1945, nei campi di lavoro di Górlitz e Dachau in Germania, Thorn e Peterdorf nell’attuale Polonia. Alla fine del conflitto, abbandonata la scultura, dapprima insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto, poi è assunto come applicato di segreteria presso la locale Scuola Media. Sposatosi nel 1940 con Eva Pedrazzoli, ha due figli, Marino e Rita. Il suo esordio poetico avviene nel 1946 quando si colloca al secondo posto ex aequo con Vittorio Sereni al Premio Internazionale “Libera Stampa” (1946-1966) di Lugano e suscita l’interesse da parte della critica più accreditata. Pubblica nove poesie sul Politecnico di Elio Vittorini, due su Paragone di Roberto Longhi, altre su Itinerari. Nel 1953 pubblica la sua prima raccolta di versi Forse un viso tra mille, per la Casa Editrice Vallecchi. Nel 1954, agli Incontri fra generazioni, che avevano sostituito il Premio San Pellegrino, ottiene il Premio Minerva Italica mentre Rocco Scotellaro riceve un premio alla memoria. Nel 1955 pubblica Paria, Edizioni della Meridiana, a cura di Vittorio Sereni, prefazione di Giansiro Ferrata. Nel 1962 vince il Premio Cervia e ottiene la medaglia d’oro al Premio LericiPea. Nel 1963 pubblica E tu che m’ascolti, per la Casa Editrice Mondadori, nella collana Lo specchio. La raccolta comprende anche la ristampa di Paria. Dopo aver raggiunto considerevoli consensi, sparisce dalla scena letteraria e per ben 35 anni non pubblica niente altro. In questo arco di tempo, comunque, non cessa mai né di scrivere né di disegnare e intrattiene rapporti epistolari con letterati e poeti. Nel 1983 Alessandro Parronchi lo convince a esporre alla Galleria Pananti di Firenze, dal 18 al 28 giugno, un gruppo di cinquanta disegni. Umberto Bellintani accetta ma ordina poi a Piero Pananti di distruggere i cataloghi: di essi rimane solo una copia. Nel 1998, poco prima della morte, avvenuta il 7 ottobre 1999, escono due raccolte di poesie: – Nella grande pianura, una cinquantina di inediti, riuniti sotto il titolo Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, una scelta da Forse un viso tra mille e tutto E tu che mi ascolti, a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori Editore; – Canto autunnale, quarantacinque componimenti editi e inediti, a cura di Italo Bosetto, per l’Editore Perosini di Verona. Alcune poesie circolavano già, firmate con vari pseudonimi: Tino di Camaino, Federico Fiume, Berto della Rita. Con quello di Virgilio il Greco, coniato da Suzana Glavaš, nel 1995 erano apparsi quattro inediti sulla rivista Da qui.[10], diretta da Giuseppe Goffredo. Nel 1999 vince il Premio di Poesia Circe Sabaudia e il Premio Speciale David Maria Turoldo al concorso letterario Renzo Sertoli Salis di cui ha notizia ma che sarà consegnato postumo, il 29 ottobre, alla figlia Rita.
Nel 2000 il Comune di San Benedetto Po dedica al suo nome la Biblioteca Pubblica e istituisce il “Premio Bellintani di San Benedetto Po”. Il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Sempre nel 2000, il Comune di Mantova organizza, a Palazzo Te, una Mostra di suoi disegni e, al Centro Culturale Biblioteca Baratta, un percorso fotografico dal titolo Umberto Bellintani, Luoghi, di Piero Baguzzi. Nel 2005, dal 6 febbraio al 20 marzo, un’altra mostra “Umberto Bellintani- Disegni” è stata organizzata da Afro Somenzari alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Viadana. Negli anni Cinquanta, il professor Joja Ricov, un italianista insegnante di croato in due università milanesi, attraverso Salvatore Quasimodo e l’antologia poetica, Poesia Italiana del Dopoguerra, da lui curata e pubblicata nel 1958, conosce la poesia di Bellintani e se ne fa estimatore in patria. Agli inizi degli anni ottanta, Suzana Glavaš, studentessa di lingua e letteratura italiana dell’Università degli Studi di Zagabria allora, e oggi docente di lingua croata all’Università L’Orientale di Napoli, frequenta le lezioni del professor Mladen Machiedo e scopre la poesia di Bellintani. Nel 1984 viene di persona in Italia, a Gorgo, a incontrare il poeta perché vuole dedicargli la tesi di dottorato e lui, nel Natale 1986, le invia in regalo un manoscritto con un gruppo di poesie inedite. Nel 1995 la Glavaš discute e pubblica la sua tesi di dottorato, Iskustvo i mit u poeziji Umberta Bellintanija (Esperienza e mito nella poesia di Umberto Bellintani), Zagreb 1995. Nel 2006, pubblica in Italia, col titolo Se vuoi sapere di me, la settantina di poesie inedite regalatele dal poeta, presso la Poiesis Editrice di Alberobello, Bari, e La Mongolfiera Editrice di Cosenza, nella collana Diwan della Poesia, curata dal poeta e critico Giuseppe Goffredo. Nel 2008 uscirà a Zagabria, a cura della Glavaš, una scelta antologica di poesie di Bellintani da lei tradotte e presentate con testo a fronte e uno studio sulla poesia Notte Incantata. (fonte Wikipedia)
Umberto Bellintani -Poeta italiano
<<Ond’io canti dolcezza e amore, e il cardo fiorito, e te rincorra, nuvola vaghissima del cielo margherita, anche per me nel campo ara il vecchio padre.>> *Versi di ispirazione autobiografica di Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Autore oggi poco conosciuto, legato alla terra ed al mondo contadino, lo scultore e poeta lombardo è stato sempre apprezzato da importanti critici e poeti. Tra loro, il celebre narratore Carlo Emilio Gadda, che ne ammira “la dizione scarna e commossa, la nettezza dolorosa dell’immagine, l’autenticità dell’angoscia poetica”, e lo scrittore Franco Fortini, che lo qualifica come “Esenin rurale”. Ed ancora, Eugenio Montale, il quale scrive in un articolo del Corriere della Sera nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni. Spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola.” Maurizio Cucchi, infine, così definisce nel 1995 il suo universo bucolico: “È un poeta di ruvida violenza espressiva. Il suo mondo parrebbe quello di una realtà sprofondata nella terra, ma dove il poeta legge qualcosa che la oltrepassa, qualcosa di arcano”. Lo stesso Bellintani rievocava la sua attrazione verso l’arte poetica ed il suo amore per la natura in un testo autobiografico del 1959: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii parlare di erbe e di fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi.
Articolo di Valentina Barbieri -• festival letteratura 08 settembre 2014-
Articolo di Valentina Barbieri –Poeta Umberto Bellintani: l’uomo che dava del tu alla natura
Al Campiani l’omaggio al poeta di Gorgo, a cent’anni dalla nascita, con Nella Roveri, Antonio Prete e Fabrizio Dall’Aglio
Articolo di Valentina Barbieri -08 settembre 2014- Eugenio Montale scrisse di lui: «Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola». Ieri, al conservatorio Campiani, si è aperta così la finestra che il Festivaletteratura ha voluto riservare alla memoria di Umberto Bellintani, per il centenario dalla sua nascita. La citazione è partita da Antonio Prete, editore della nuova edizione (a cura di Elia Malagò e Nella Roveri) della prima raccolta di Bellintani, Forse un viso tra mille pubblicata nel 1953. «Mi è strano parlare di Bellintani da editore- afferma Prete- lui ebbe un rapporto così contrastato con l’editoria. Dopo l’uscita di E tu che m’ascolti nel 1963 sparì dalle scene e non pubblicò più nulla per trent’anni. Trovo calzante ciò che scrisse di lui Montale: la poesia vera si rifugia sempre in uomini che sembrano con avere le carte in tavola. Uomini scomodi, spesso distanti, apparentemente lontani dal mondo». Bellintani lontano dal mondo lo era probabilmente solo in senso fisico. Non si allontanava dalla sua Gorgo se non per contigenti necessità, non aveva pretese di pubblicazione, era lontano dall’opportunismo e dalla gloria effimera. Nonostante ciò, per tutta la sua vita, mantenne una corrispondenza costante con quelli che erano, al tempo, i maggiori protagonisti della poesia e letteratura del Novecento. Fortini, Vittorini, Caproni, Sereni, Zavattini, Pasolini. Nella mostra, allestita nel museo civico polironiano a San Benedetto Po, inaugurata a maggio in occasione delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Bellintani, che rimarrà aperta fino al 5 ottobre, sono esposte alcune lettere, tra le più importanti del suo infinito carteggio. «Le carte sono veramente tantissime-aggiunge Nella Roveri- Bellintani scriveva su ogni tipo di supporto: anche sui cartoni della pasta. C’è un immenso materiale che andrebbe studiato approfonditamente». Tra le tante lettere che il poeta di Gorgo scrisse, vi è il carteggio con Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo. «Nel 1951- racconta Fabrizio Dall’Aglio- Bellintani inviò tutte le sue poesie a Don Primo. Non è una cosa usuale per il poeta di Gorgo che, di solito, non amava inviare bozze delle sue opere. Ma a Don Primo sì. Lo fa, a parer mio, per svelare al parroco la sua vera anima. La poesia diventa per lui un veicolo della confidenza. Con Don Primo scoccherà un’empatia tale che il parroco confessò a Bellintani di “essersi riposato e ricreato nella lettura delle sue poesie”». Dall’Aglio ha segnalato come nelle poesie di Bellintani la fede non assurga mai a trascendenza, bensì ad immanenza. Come il poeta di Gorgo riuscisse a ritrovare nelle cose l’infinito. I versi delle sue poesie si colorano così di immagini, di un bestiario fittissimo di esseri viventi attraverso cui emerge un’adesione alla terrestrità e alla creaturalità. Con Bellintani vi è un ritorno alla letizia e alla natura indagata a partire da Lucrezio e, nello stesso tempo, il terrore che le parole non portino più con sè le cose, che perdano la loro prossimità col mondo, che esauriscano il tu con la natura.
• festivaletteratura 2014
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