« C’est le livre que j’aurais voulu écrire. » Giorgio Bocca (ancien partisan,reporter, cofondateur de La Repubblica)
Résumé-Nuto REVELLI- La Guerre des pauvres- Paru chez Einaudi en 1962 et régulièrement réédité depuis, La Guerre des pauvres fait revivre, à partir du journal tenu par l’auteur, un chapitre héroïque méconnu de l’histoire de l’Italie, depuis la campagne de Russie (il s’engage en juillet 42) jusqu’à la Libération (Cuneo est libérée fin avril 45). Officier du corps expéditionnaire italien sur le front de l’Est dans la division Tridentina, Revelli raconte l’immense défaite et la retraite tragique qui, à la suite de la contre-offensive russe sur le Don, jettent à travers la steppe gelée des dizaines de milliers d’hommes, dont peu survivront. Après, écrit-il, sa vie ne sera plus la même. Quittant l’armée, il prend les armes dans le maquis des Alpes et mène au jour le jour, comme chef partisan puis en tant que commandant de l’une des brigades antifascistes Giustizia e libertà, un autre combat – contre les détachements mussoliniens de la République de Salò et contre les troupes hitlériennes. Au fil des jours et des pages de ce livre-vérité s’affirment la cohérence d’un destin individuel, la dignité des humbles pris dans la folie absurde de l’histoire, la force du témoignage sur « la guerre vue d’en bas ». Portées par une prose sèche et abrupte, une écriture blanche de mémorialiste qui s’invente en marchant et en luttant, loin de la rhétorique du combat ou du sentiment.
Entre Le Sergent dans la neige de Mario Rigoni Stern (1953) et La Guerre sur les collines de Beppe Fenoglio (1968), une autre voix s’élève, qui confère à ces antimémoires de guerre la dimension d’une épopée.
Traduction et annotation d’Angela Guidi et Lucie Marignac
Préface d’Éric Vial
Postface d’Emmanuel Laugier
Inédit en français
De Nuto Revelli ont été traduits : Le Monde des vaincus, Maspéro, 1980 ; Le Disparu de Marburg, Rivages, 2006 ; Les Deux Guerres. Guerre fasciste et guerre de libération, ICIP, 2020.
Photographie de couverture : Jean Gaumy, 2008
L’auteur
Né et mort à Cuneo, dans le Piémont, profondément attaché à ces montagnes qu’il arpenta en chasseur alpin, puis comme partisan après l’armistice du 8 septembre 1943, Nuto REVELLI (1919-2004) est l’une des grandes figures de la Résistance italienne. Son œuvre d’écrivain (il publie dix livres entre 1946 et 2003) s’enracine tout entière dans son expérience de la guerre et dans sa connaissance intime des paysans pauvres du Piémont.
Le préfacier
Éric VIAL, professeur d’Histoire contemporaine à l’université de Cergy-Pontoise, est spécialiste de l’histoire de l’Italie auXXe siècle, en particulier de l’émigration italienne en France. Il a notamment publiéLa Cagoule a encore frappé – L’assassinat des frères Rosselli2010), De Gaulle. Portrait-mosaïque(2017) et dirigéJean Moulin, l’âme de la Résistance(2012). Rue d’Ulm, il a traduit et présenté des textes de Piero Gobetti,Libéralisme et révolution antifasciste(2010), puis l’ouvrage de Sabino Cassese,L’Italie, le fascisme et l’État(2014).
Le postfacier
Essayiste, critique littéraire et poète, Emmanuel LAUGIER est né en 1969 au Maroc. Son premier livre, L’œil bande, paraît en 1996 (rééd. 2016). Suivent une quinzaine de recueils dans lesquels il explore la synthèse entre espaces mémoriels et expérience du présent. Il s’emploie à restituer une disparité de perceptions et d’informations dans l’oscillation d’une écriture en rupture constante de rythme. Aux éditions Nous, il a publié en 2020 Chant tacite.
Sommaire
Préface De Modène à Paraloup, par Éric VIAL
Note de l’auteur
Préambule
La retraite sur le front russe. 16 janvier-10 mars 1943
Le retour en Italie. 17 mars-26 juillet 1943
La guerre de partisan. 8 septembre 1943-27 août 1944
En France avec la brigade Carlo Rosselli. 28 août 1944-23 avril 1945
Italie. La libération de Cuneo. 24-29 avril 1945
Notes
Postface Le présent crénelé de l’action, par Emmanuel LAUGIER
Ingeborg Bachmann-(Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973)-Poetessa, scrittrice e giornalista austriaca.
TUTTI I GIORNI
*
La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.
Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra d’eterno riarmo
ricopre il cielo.
Viene conferita
per diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.
Cenni biografici di Ingeborg Bachmann-(Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973)-Poetessa, scrittrice e giornalista austriaca. I motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Martin Heidegger, Ludwig Wittgenstein) si incontrarono con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione di un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico.
Figlia[1] di Olga Haas e Mathias Bachmann, Ingeborg nacque nel 1926 in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequentò le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che concluse discutendo una tesi su (o meglio, contro) Martin Heidegger, dal titolo La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger.
Suo maestro fu il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft[2] (1890–1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna, da cui i membri, in conseguenza dell’assassinio di uno di loro (Moritz Schlick) da parte di un fanatico nazista e dell’ostilità in seguito dimostrata dal regime politico post Anschluss, erano dovuti fuggire. Nell’epoca dello studio ebbe modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus.[3]
Presto Bachmann divenne redattrice radiofonica[4] presso l’emittente viennese Rot-Weiss-Rot (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compose nel 1952 la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni. Il suo debutto letterario avvenne in occasione di una lettura presso il Gruppo 47. Da allora divenne una stella luminosa della letteratura in lingua tedesca[5]. Nel 1953, all’età di 27 anni, ricevette il premio letterario del Gruppo 47[6] per la raccolta di poesieIl tempo dilazionato.
In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produsse il radiodrammaLe cicale e il libretto per la pantomima danzata L’idiota nel 1955 e il libretto per l’opera Il Principe di Homburg nel 1960. Nel 1956 pubblicò la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa maggiore, conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese.
Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattenne una relazione con l’autore Max Frisch. Nel 1958 apparve il radiodramma Il buon Dio di Manhattan, insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra[7]. Del 1961 è la raccolta di raccontiIl trentesimo anno, a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino. Nel 1964 le viene consegnato il Premio Georg Büchner[8] e nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura[9].
La produzione[5] di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina, diventato un film di Werner Schroeter del 1991, interpretato da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay. Il romanzo è stato concepito come la prima parte di una trilogia chiamata “Cause di morte” (Todesarten) rimasta incompiuta e di cui rimangono dei frammenti: Il libro Franza e Il libro Goldmann. Dal primo dei due frammenti, Xaver Schwarzenberger ha ricavato il film Franza (1986). Nel 1972 fu invece data alle stampe l’ultima opera prima della morte di Bachmann: la raccolta di racconti Tre sentieri per il lago[10], a cui venne attribuito il Premio Anton Wildgans[11].
Morte
La sera del 26 settembre 1973, nella sua casa romana di via Giulia, Ingeborg Bachmann incendiò accidentalmente la sua vestaglia di nylon con la brace della propria sigaretta durante un attacco di torpore, verosimilmente indotto dai barbiturici che stava assumendo come tranquillanti per superare un periodo di stress da superlavoro[12]. Benché vigile al momento del trasporto all’ospedale Sant’Eugenio, struttura specializzata nel trattamento delle ustioni, subì danni renali cui fece seguito un’intossicazione ematica che la portarono alla morte il 17 ottobre[13]. Ingeborg Bachmann fu sepolta il 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale, in coincidenza della sua nascita, e l’istituto d’istruzione superiore di Tarvisio in Friuli Venezia Giulia.
Opere
Poesie
Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), trad. e cura di Luigi Reitani, Milano, SE, 1994; Nota di Hans Höller, Collana Biblioteca n.752, Milano, Adelphi, 2023, ISBN 978-88-459-3828-3.
Poesie (Gedichte), traduzione di Maria Teresa Mandalari, Parma, Guanda, 1978.
Non conosco mondo migliore (Ich weiss keine bessere Welt), traduzione di Silvia Bortoli, Milano, Guanda, 2004.
Romanzi
Malina (Malina), traduzione di Maria Grazia Manucci, Milano, Adelphi, 1973.
Il libro Franza (Der Fall Franza), traduzione di Magda Olivetti e Luigi Reitani, Milano, Adelphi, 2009. [Comprende e amplia Il caso Franza. Requiem per Fanny Goldmann, traduzione di Magda Olivetti, Milano, Adelphi, 1988]
Racconti
Tre sentieri per il lago e altri racconti (Simultan: neue Erzählungen), traduzione di Amina Pandolfi, Milano, Adelphi, 1980.
Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), traduzione di Clara Schlick, Milano, Feltrinelli, 1963; traduzione di Magda Olivetti, Milano, Adelphi, 1985.
Il sorriso della sfinge (Die Fähre, Im Himmel und auf Erden, Das Lächeln der Sphinx), traduzione di Antonella Gargano, Roma, Lucarini, 1991; Napoli, Cronopio, 2011.
Saggi
Luogo eventuale (Ein Ort für Zufälle), con tredici disegni di Günter Grass, traduzione di Bruna Bianchi, Milano, Edizioni delle donne, 1981; Milano, SE, 1992.
La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger (Die kritische Aufnahme der Existenzialphilosophie Martin Heideggers), Introduzione di Eugenio Mazzarella, traduzione di Silvia Cresti, Napoli, Guida, 1992.
Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte (Frankfurter Vorlesungen), traduzione di Vanda Perretta, Milano, Adelphi, 1993.
Il dicibile e l’indicibile. Saggi radiofonici (Der Mann ohne Eigenschaften – Sagbares und Unsagbares – Das Unglück und die Gottesliebe – Die Welt Marcel Prousts), traduzione di Barbara Agnese, Milano, Adelphi, 1998.
Prose
Il buon Dio di Manhattan (Der gute Gott von Manhattan: ein Geschäft mit Träumen), traduzione di Sergio Molinari, Milano, Il saggiatore, 1961; traduzione di Cinzia Romani, Milano, Adelphi, 1991. [contiene i radiodrammi Il buon Dio di Manhattan, Un negozio di sogni e Le cicale]
Libro del deserto (Der Tod wird kommen. Confluito ne Il libro Franza), traduzione di Anna Pensa, Napoli, Cronopio, 1999.
Quel che ho visto e udito a Roma (Was ich in Rom sah und hörte), traduzione di Kristina Pietra e Anita Raja, Macerata, Quodlibet, 2002.
Epistolari
Lettere da un’amicizia (Briefe einer Freundschaft), carteggio con Hans Werner Henze, a cura di Hans Höller, traduzione di Francesco Maione, Torino, EDT, 2008.
Lettere a Felician (Briefe an Felician), traduzione di Antonella Moscati, Roma, Nottetempo, 2008.
Troviamo le parole. Lettere 1948-1973 (Herzzeit. Der Briefwechsel), carteggio con Paul Celan, traduzione di Francesco Maione, Roma, Nottetempo, 2010 .
Diario di guerra (Kriegstagebuch. Mit Briefen von Jack Hamesh an Ingeborg Bachmann), traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia, Milano, Adelphi, 2011.
Interviste
In cerca di frasi vere (Wir müssen wahre Sätze finden), traduzione di Cinzia Romani, Bari, Laterza, 1989.
Verrà un giorno. Conversazioni romane (Ein Tag wird kommen. Gespräche in Rom), a cura di Judith Kasper, Genova, Marietti, 2009.
Film su Ingeborg Bachmann
Die Geträumten – film tedesco del 2016 diretto da Ruth Beckermann, avente per soggetto la ventennale corrispondenza fra Paul Celan e Ingeborg Bachmann[14].[15]
Ingeborg Bachmann – Journey Into the Desert (Ingeborg Bachmann – Reise in die Wüste) – film tedesco del 2023 diretto da Margarethe von Trotta, avente per soggetto la vita di Ingeborg Bachmann – che visse a Berlino, Zurigo e Roma – il suo rapporto con Max Frisch e il suo viaggio in Egitto[16]
Giuseppe LANZA-All’albergo del sole- Solaria Editore-Firenze -1932
Articolo scritto da Sergio SOLMI per la Rivista PEGASO diretta da Ugo OJETTI
Giuseppe Lanza(Valguarnera Caropepe, 1º gennaio 1900 – Milano, 11 settembre 1988) è stato uno scrittore, drammaturgo e critico teatrale italiano, vincitore del Premio Bagutta nel 1956 per Rosso sul lago.
Sergio SOLMI – Nacque a Rieti il 16 dicembre 1899 da Edmondo e da Clelia Lolli, modenesi.Seguì gli spostamenti del padre, professore di storia e filosofia nei licei, a Mantova (dove vide la luce la sorella Olga), a Livorno e a Torino: lì concluse il ciclo degli studi elementari iniziato nel 1905-06 a Livorno, e frequentò le scuole medie. Il 29 luglio 1912, Edmondo Solmi morì di tifo a Santa Liberata, presso Spilamberto (Modena), durante le vacanze estive.
Si interrompeva prematuramente in quel punto, a soli trentasette anni, una più che promettente parabola intellettuale: libero docente di storia della filosofia e incaricato dell’insegnamento a Torino dal 1908 al 1910, Edmondo Solmi era stato chiamato nel 1910 a Pavia come professore straordinario, e i suoi eccellenti studi su Leonardo da Vinci avevano suscitato l’ammirazione di Sigmund Freud.
Giuseppe Lanza (Valguarnera Caropepe, 1º gennaio 1900 – Milano, 11 settembre 1988) è stato uno scrittore, drammaturgo e critico teatrale italiano, vincitore del Premio Bagutta nel 1956 per Rosso sul lago.
Sergio SOLMI – Nacque a Rieti il 16 dicembre 1899 da Edmondo e da Clelia Lolli, modenesi.Seguì gli spostamenti del padre, professore di storia e filosofia nei licei, a Mantova (dove vide la luce la sorella Olga), a Livorno e a Torino: lì concluse il ciclo degli studi elementari iniziato nel 1905-06 a Livorno, e frequentò le scuole medie. Il 29 luglio 1912, Edmondo Solmi morì di tifo a Santa Liberata, presso Spilamberto (Modena), durante le vacanze estive.
Si interrompeva prematuramente in quel punto, a soli trentasette anni, una più che promettente parabola intellettuale: libero docente di storia della filosofia e incaricato dell’insegnamento a Torino dal 1908 al 1910, Edmondo Solmi era stato chiamato nel 1910 a Pavia come professore straordinario, e i suoi eccellenti studi su Leonardo da Vinci avevano suscitato l’ammirazione di Sigmund Freud.
Iscritto alla sezione ‘moderna’ del liceo d’Azeglio, Sergio Solmi affidò alla rivistina giovanile Cronache latine, tra il 15 gennaio e l’aprile-maggio 1917, i suoi primi scritti, sintomaticamente divaricati (come sarà l’intero corso della sua esperienza) tra la critica letteraria (brevi saggi su Guido Gozzano e Arthur Rimbaud) e la scrittura d’invenzione in versi e in prosa. Nel medesimo anno fu chiamato alle armi con la classe 1899: nella Scuola di applicazione di fanteria di Parma incontrò Eugenio Montale, Francesco Meriano, Marcello Manni, Renato Tassinari, Ercole Leone Crovella, Cesare Cerati (Parma 1917 si intitolerà il bellissimo mémoire pubblicato in La Fiera letteraria il 12 luglio 1953); combatté sul Monfenera e sul Montello, fu ferito da una scheggia di granata e ricoverato nell’ospedale militare di Castelfranco Veneto, partecipò all’avanzata finale conclusa il 4 novembre 1918 (all’esperienza bellica dedicherà, in La Fiera letteraria dell’11 novembre 1928, i ricordi autobiografici dal titolo Giorni di guerra).
Tornato alla vita civile, s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, fondò con Giacomo Debenedetti, Mario Gromo e Emanuele F. Sacerdote la rivista letteraria Primo tempo (15 maggio 1922-dicembre 1923), divenne amico di Piero Gobetti, alla cui lezione rimarrà fedele negli anni, conseguì la laurea in giurisprudenza con una tesi di diritto romano, iniziò l’esercizio della professione legale a Milano nel 1923 e sposò, il 20 novembre 1924, Dora Martinet, figlia di un avvocato socialista, incontrata a Pré St. Didier nell’estate del 1921, dalla quale ebbe i figli Renato e Raffaella. Il 14 gennaio 1926 fu assunto nell’ufficio legale della Banca commerciale italiana, inaugurando un lunghissimo rapporto di lavoro inscindibile dalla profonda amicizia stabilita con il protagonista assoluto della storia di quell’istituto di credito, Raffaele Mattioli.
Collaboratore delle principali riviste letterarie italiane (Il Quindicinale, Il Baretti, L’Italiano, Il Convegno, Le Opere e i Giorni, La Fiera letteraria, Solaria, L’Italia letteraria, Pègaso, Leonardo, La Cultura, Fronte, L’Illustrazione italiana, Circoli, Scuola e cultura, Pan, Emporium, Letteratura, Prospettive, Corrente, Primato) e di alcuni quotidiani (l’Unità, dove conobbe Antonio Gramsci, Giornale di Genova, L’Ambrosiano), Solmi si rivelò subito un interprete eccezionalmente acuto e consentaneo della contemporanea letteratura italiana e francese (sua è la prima originale messa a fuoco dei fondamentali caratteri tematici e formali della poesia di Montale), muovendosi nel solco nel magistero crociano ma senza rinunciare a stabilire una elettiva sintonia con alcuni tra i più eminenti hommes de lettres francesi (Charles Du Bos, Paul Valéry, Alain), particolarmente attenti ai risvolti empirici, ‘tecnici’ dell’opera d’arte.
Il pensiero di Alain (1930) è la prima sistemazione teorica del ‘metodo’ di Solmi per l’interposta persona del filosofo Émile-Auguste Chartier; Fine di stagione (1933) il suo libro di esordio en poète su una linea non lontana dal modello montaliano, ma altrettanto aperta all’ascolto di altre voci del Novecento italiano (di Vincenzo Cardarelli principalmente, mentre Emilio Cecchi fu uno tra i capitali modelli del suo esercizio di prosatore).
Di singolare rilievo è il ruolo assolto da Solmi all’interno della redazione del periodico La Cultura, fondato da Cesare De Lollis: ne diventò condirettore nel 1933, in una fase destinata ad accentuarne l’incompatibilità con la politica culturale del fascismo, che porrà fine alle pubblicazioni della rivista nel maggio del 1935 (in Strumenti critici del settembre 2009 è apparso, per la cura di Guido Lucchini, un inedito Promemoria su “La Cultura”, steso da Solmi su invito di Maurizio Mattioli).
Mentre i saggi sulla letteratura italiana del Novecento sarebbero stati accolti in volume molto più tardi, per sollecitazione di Giacomo Debenedetti (Scrittori negli anni è del 1963), le pagine francesi di Solmi trovarono un primo ordinamento nel 1942 in La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, proprio in coincidenza con la fase liminare della sua clandestina militanza politica nelle file del Partito d’azione. Per la sua partecipazione alla Resistenza a Milano venne arrestato il 2 gennaio 1945: riuscì a fuggire dal carcere ma fu nuovamente catturato il 6 aprile. Di quelle straordinarie vicissitudini è traccia nella sezione Dal quaderno di Mario Rossetti delle sue Poesie (Milano 1950).
Condirettore, insieme con Roberto Nonveiller, di Lettere ed Arti nel 1946, direttore di La Rassegna d’Italia dal 1949, nel secondo dopoguerra Solmi orientò il proprio assiduo, discretissimo lavoro di poeta, prosatore, traduttore, critico della letteratura e delle arti figurative all’insegna di una radicale libertà metodologica, sostenuta da una inquieta, mercuriale curiosità per tutte le forme espressive, fulmineamente teorizzata, il 28 novembre 1967, in uno degli aforismi del suo Quadernetto giallo: «Mantenere sempre il compasso alla sua massima apertura, anche a costo di slogarsi le gambe della mente» (Opere, I, Poesie, meditazioni e ricordi, 2, 1984, p. 168). Non a caso il magistrale lettore di Montaigne e Leopardi, di Rimbaud e di Montale era stato, fin dal 1959, anno di pubblicazione della memorabile antologia Le meraviglie del possibile, allestita con Carlo Fruttero, uno degli scopritori italiani della science fiction; nella medesima orbita si sarebbe inscritto il complice interesse, condiviso con Franco Fortini e Italo Calvino, per Raymond Queneau, del quale avrebbe tradotto Piccola cosmogonia portatile. Il 24 luglio 1968 divenne socio corrispondente della classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia nazionale dei Lincei.
Nell’ultima fase della sua esistenza, scandita dalla pubblicazione delle Meditazioni sullo scorpione (1972), delle Poesie complete (1974) e di una serie di mirabili raccolte di saggi su Leopardi (1969 e 1975), sul fantastico (1971 e 1978) e ancora sulla letteratura francese (1976), Solmi non venne meno all’abito di strenuo rigore e di leggendaria riservatezza che ne aveva costituito l’inconfondibile stigma, e la sua impareggiabile, generosa socievolezza ne convertì naturalmente il profilo di grande borghese in un punto di riferimento della vita culturale e civile a Milano, tanto più importante quanto meno incline all’esibizione di sé.
Morì a Milano il 7 ottobre 1981, a meno di un mese dalla scomparsa di Eugenio Montale.
Opere. In vita Solmi ha dato alle stampe i suoi libri in questa sequenza: Il pensiero di Alain (Milano 1930; Milano 1945; Pisa 1976); Fine di stagione (Lanciano-Milano 1933); La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese (Firenze 1942; Milano-Napoli 1952); Poesie (Milano 1950); Levania e altre poesie, con una nota di V. Sereni (Milano 1956); Scrittori negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del ’900 (Milano 1963, premio Viareggio per la saggistica); Versioni poetiche da contemporanei (Milano 1963); Dal balcone (Milano 1968); Scritti leopardiani (Milano 1969; poi, con il titolo Studi e nuovi studi leopardiani, Milano-Napoli 1975); Quaderno di traduzioni, I-II (Torino 1969-1977); Della favola, del viaggio e di altre cose. Saggi sul fantastico (Milano-Napoli 1971; poi, con il titolo Saggi sul fantastico. Dall’antichità alle prospettive sul futuro, Torino 1978); Meditazioni sullo scorpione e altre prose (Milano 1972, 1979 e 2016, premio Bagutta 1973); Poesie complete (Milano 1974); Saggio su Rimbaud (Torino 1974); La luna di Laforgue e altri scritti di letteratura francese (Milano 1976, premio Viareggio per la saggistica); Poesie (1924-1972), a cura di L. Caretti (Milano 1978); Quadernetto di letture e ricordi, premessa di L. Caretti (Milano 1979).
Tra il 1983 e il 2011 la casa editrice Adelphi (Milano) ha pubblicato, per la cura di G. Pacchiano, l’intero corpus delle Opere: I, Poesie, meditazioni e ricordi, 1, Poesie e versioni poetiche (1983); 2, Meditazioni e ricordi (1984); II, Studi leopardiani. Note su autori classici italiani e stranieri (1987); III, La letteratura italiana contemporanea, 1, Scrittori negli anni (1992); 2, Scrittori, critici e pensatori del Novecento (1998); IV, Saggi di letteratura francese, 1, Il pensiero di Alain. La salute di Montaigne ed altri scritti (2005); 2, Saggio su Rimbaud. La luna di Laforgue ed altri scritti (2009); V, Letteratura e società. Saggi sul fantastico. La responsabilità della cultura. Scritti di argomento storico e politico (2000); VI, Scritti sull’arte. Discorso sulla pittura contemporanea. Saggi e note su artisti italiani e stranieri e altre pagine sparse, con una nota di A. Negri (2011).
Il lavoro di Solmi traduttore di poesia è attestato da Versioni poetiche da contemporanei e dal Quaderno di traduzioni, I-II; di Solmi è, inoltre, la versione italiana (seguita da Piccola guida alla Piccola cosmogonia di Italo Calvino) di Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau (Torino 1982).
Si deve a Solmi la cura dei due tomi delle Opere di Giacomo Leopardi per la collezione La letteratura italiana. Storia e testi della Ricciardi (Milano-Napoli 1956 e, in collaborazione con la figlia Raffaella, 1966) e delle antologie Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza (con C. Fruttero, Torino 1959) e Il giardino del tempo e altri racconti. Il terzo libro della fantascienza (Torino 1983).
Non esiste una raccolta neppure parziale delle lettere di Sergio Solmi, che i rari specimina sparsamente resi noti rendono vivamente desiderabile. Sono state edite, a cura di M. Baldini, introduzione di A. Dolfi, le Lettere a Sergio Solmi di Carlo Betocchi (Roma 2006).
Fonti e Bibl.: La Biblioteca e l’Archivio di Sergio Solmi sono presso la Fondazione Natalino Sapegno onlus a Morgex (Aosta). Una notevole testimonianza biografica e autobiografica ha redatto il figlio primogenito, Renato: Nota biografica e testimonianza personale, in Letteratura e società, cit., pp. 663-685 (poi, con il titolo Sergio Solmi. Una testimonianza personale, in Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Macerata 2007, pp. 775-792). Su Solmi e la Banca commerciale italiana è utile il saggio di G. Leori – G. Montanari, Le carte di Sergio Solmi, capo dell’Ufficio consulenza legale della Banca commerciale italiana (1942-1953), in Italia contemporanea, 2014, n. 274, pp. 159-174.
Una ricca serie di informazioni bibliografiche, alle quali si rinvia, offrono le monografie di F. D’Alessandro, Lo stile europeo di S. S. Tra critica e poesia, Milano 2005, di A. Giampietro, S. S. critico militante. Un itinerario nella letteratura italiana del Novecento, Bari 2012, e di G. Montanari – F. Pino, S. S. tra letteratura e banca, Milano 2016. A pp. 227-314 del suo libro Francesca D’Alessandro ha reso noto un prezioso quaderno, dal titolo Libri letti, che di Solmi registra le letture comprese tra il 1919 e il 1936 (ne esistono altri due, rispettivamente relativi agli anni 1936-60 e 1960-81).
Tra gli scritti e le testimonianze di carattere generale si vedano: Omaggio a S. S., a cura di L. Erba, in Stagione, 1956, n. 10, (interventi di L. Erba, V. Sereni, G. Caproni, L. Anceschi, M. Luzi, G. Bárberi Squarotti, M. Colesanti, M. Camilucci, E. Bartolini, U. Eco, N. Risi, G. Gramigna); E. Montale, S. S. Settant’anni. Uomo e poeta, in Corriere della Sera, 16 dicembre 1969 (poi, con il titolo S. S. uomo e poeta, in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, pp. 342-344; con il titolo originario in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, II, Milano 1996, pp. 2932-2934); I. Calvino, S. lunare ma non troppo, in la Repubblica, 10 ottobre 1981 (poi, con il titolo In memoria di S. S., in Id., Saggi 1945-1955, a cura di M. Barenghi, Milano 1995, pp. 1253-1256); S. Ramat, S., S., in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, III, Torino 1986, pp. 209-211. Sul poeta e prosatore d’invenzione: V. Sereni, postfazione a Levania e altre poesie, cit., pp. 25-43 (poi in Id., Letture preliminari, Padova 1974, pp. 49-63); P.P. Pasolini, Levania e altre poesie, in Il Punto della settimana, 5 gennaio 1957 (poi, con il titolo S.: evasione e impegno, in Id., Passione e ideologia (1948-1958), Milano 1960, pp. 450-452, e in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia di N. Naldini, I, Milano 1999, pp. 1192-1195); A. Zanzotto, S. S. e “Levania”, in aut aut, 1957, n. 40, pp. 374-384, e Id., Le lune sognate nei versi di S., in Corriere della Sera del lunedì, 13 gennaio 1975 (poi, la seconda con il nuovo titolo Le “Poesie complete” di S. S., in Id., Fantasie di avvicinamento, Milano 1991, pp. 59-73 e 74-77); L. Caretti, Itinerario di S., in Strumenti critici, III (1969), 10, pp. 381-403 (poi in Id., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino 1976, pp. 427-452, e Introduzione a S. S., Poesie, cit., pp. IX-XXXI); P.V. Mengaldo, Caratteri stilistici della poesia di Solmi, in Giornale storico della letteratura italiana, CXIX (2002), pp. 497-510 (poi in Id., La tradizione del Novecento. Quinta serie, Roma 2017, pp. 237-248); sul critico: E. Montale, recensione a Il pensiero di Alain, in Pègaso, II (1930), 11, pp. 633-636 (poi in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, I, Milano 1996, pp. 423-429); G. Debenedetti, gli anonimi paratesti allegati a Scrittori negli anni, cit. (seconda di copertina: Il libro; terza di copertina: L’Autore); P.V. Mengaldo, S. S., in Profili di critici del Novecento, Torino 1998, pp. 38-43; sul traduttore: P.V. Mengaldo, Aspetti delle versioni poetiche di S., in Studi novecenteschi, IX (1982), pp. 45-96 (poi in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze 1987, pp. 307-356, e Seconda serie, Torino 2003, pp. 271-314).
Sinossi del libro di Serena McLeen-Dopo la morte dell’amata nonna Angela Bramante, Annabella viene a conoscenza dell’esistenza di Villa dei Conti Bramante, la maestosa e vecchia dimora nella quale, in un piccolo paese della bassa pianura padana, proprio la nonna ha vissuto la sua giovinezza, per poi scappare alcuni anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale lasciandosi quel passato alle spalle per sempre. Annabella dovr&agrvae; accettare quel lascito e ristrutturare la casa, oppure rinunciarvi: ad aiutarla a scegliere cosa fare sarà una lettera che la nonna le ha lasciato. Ma cosa si nasconde tra le righe di quello scritto? Quando Annabella finalmente scioglierà i propri dubbi, imbarcandosi nel compito affidatole dalla nonna, si immergerà fra le pagine del diario e fra i più dolorosi ricordi di quella parte della vita di Angela, a lei sconosciuta e legata agli anni bui del Fascismo e della guerra. In un momento di crisi artistica e professionale, Annabella troverà nuova ispirazione nella ricerca della verità e nell’incontro con Francesco, che gestisce con la madre la locanda di paese, ma allo stesso tempo scoprirà che dell’eredità della nonna fa parte anche l’inconfessabile storia della sua stessa famiglia: un capitolo torbido e pregno di segreti per colpa del quale Angela ha vissuto tutta la vita sotto il peso della vergogna.Una giovane donna in cerca di se stessa, i terribili segreti di un passato sepolto ma non morto: nel contesto storico della Seconda Guerra Mondiale, un romanzo psicologico che rivela le pieghe più oscure dell’animo umano.
–Gabriele D’ANNUNZIO –Il “LIBRO SEGRETO”-Rivista PAN n°9 -1935
Gabriele D’ANNUNZIO –Scrittore (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938). Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una cultura molto vasta, mostrò un’inesauribile capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole con una raffinata tecnica di scrittura.
Gabriele D’ANNUNZIO –Scrittore (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938). Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una cultura molto vasta, mostrò un’inesauribile capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole con una raffinata tecnica di scrittura.
Vita
Era ancora convittore presso il collegio Cicognini di Prato quando esordì con Primo vere (1879), una raccolta di poesie pubblicata a spese del padre (Francesco Paolo Rapagnetta, che, adottato nel 1851 da una zia materna e dal marito di questa, Antonio D’A., ne aveva assunto il cognome, trasmettendolo poi ai figli), e positivamente recensita da G. Chiarini. Trasferitosi a Roma nel 1881 per gli studî universitarî, che non avrebbe mai condotto a termine, fu accolto con simpatia negli ambienti giornalistici e letterarî e cominciò a collaborare alla Cronaca bizantina, la rivista di A. Sommaruga, restando affascinato dai metodi modernamente spregiudicati dell’editore, cui affidò la stampa (1882) di Canto novo e delle novelle di Terra vergine. Nel successivo periodo di dissipatezze (“La giovinezza mia barbara e forte In braccio de le femmine si uccide”), celebrato dall’audace Intermezzo di rime (1883), si unì in matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese (dal matrimonio nasceranno i figli Mario, Gabriellino e Veniero), trovò un impiego stabile come redattore della Tribuna, firmando con varî pseudonimi cronache mondane e culturali, e pubblicò le raccolte di novelle Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886; insieme con altre, una scelta di novelle da questi due libri sarà ripubblicata in Novelle della Pescara, 1902). All’esperienza della più elegante società romana e al nuovo grande amore per Elvira (o Barbara, come preferì chiamarla) Fraternali Leoni, si ispirò il romanzoIl piacere, composto negli ultimi mesi del 1888 e pubblicato l’anno successivo dall’editore Treves di Milano. Dopo la parentesi fastidiosa del servizio militare (1889-90), le ristrettezze economiche lo indussero a spostarsi a Napoli (1891), dove intrecciò una nuova relazione con la nobildonna siciliana Maria Gravina Cruyllas, dalla quale nacquero i figli Renata e Gabriele Dante. A Napoli collaborò tra l’altro al Mattino, si interessò alle opere di Nietzsche e Wagner, e pubblicò a puntate (1891-92) il romanzo L’innocente, apparso poi in volume presso l’editore Bideri (1892) e subito tradotto in Francia; insieme con il racconto lungo Giovanni Episcopo, di poco precedente (1891; in vol. 1892), esso risente l’influsso della narrativa russa. L’influenza della lettura di Nietzsche si fa invece sentire in modo determinante già nel Trionfo della morte(1894), e all’insegna del superomismo si svolgerà la successiva produzione dannunziana, a partire da Le vergini delle rocce (1896). Nel 1895 D’A. partecipò a una crociera in Grecia, che avrebbe poi trasfigurato nel primo libro delle Laudi. Intanto le suggestioni della crociera rivissero in un dramma, La città morta (1896; pubbl. 1898), grazie anche all’incoraggiamento a scrivere per il teatro che a D’A. veniva da Eleonora Duse, la più grande attrice del tempo, con la quale aveva ormai intrecciato una relazione (e per la quale avrebbe scritto poi Sogno d’un mattino di primavera, 1897, La Gioconda, 1899, e La gloria, 1899). Nel 1897 fu eletto deputato nel collegio di Ortona a Mare, ma, sia per la scarsa partecipazione ai lavori parlamentari sia per il clamoroso passaggio dai banchi della destra a quelli dell’estrema sinistra (“vado verso la Vita”), uscì sconfitto dalle successive consultazioni elettorali. La sua preoccupazione dominante, anche per le solite difficoltà economiche ora accentuate dal principesco tenore di vita nella villa detta la “Capponcina” presso Settignano, era piuttosto la produzione letteraria. Furono così composti, in un breve giro di anni, quelli che vengono considerati comunemente i capolavori dannunziani: il romanzo Il fuoco (1900); la tragediaFrancesca da Rimini (1902); i primi tre libri delle Laudi: Maia (1903), Elettra e Alcyone(1904); la tragedia pastorale La figlia di Iorio (1904). Nonostante qualche clamoroso insuccesso e la fine della relazione con la Duse, prevalentemente teatrali furono gli interessi del periodo successivo (La fiaccola sotto il moggio, 1905; Più che l’amore, 1907; La nave, 1908; Fedra, 1909), che pure culminò nell’ultimo grande romanzo dannunziano, ispirato a una drammatica vicenda amorosa, Forse che sì forse che no (1910). Nel 1910, per sfuggire ai creditori, D’A. fu costretto all'”esilio” in Francia, dove rinverdì un prestigio che risaliva agli anni Novanta e alle traduzioni dell’Innocente e del Piacere, scrivendo in francese antico Le martyre de saint Sébastien (1911), che fu musicato da C. Debussy e interpretato dalla danzatrice I. Rubinstein, e La Pisanelle ou La mort parfumée (1913). In traduzione francese, col titolo Le chèvrefeuille, veniva rappresentata nel 1913 la tragedia Il ferro, da lui composta in italiano come la precedente Parisina del 1912. In questi anni lavorò anche per il cinema, contribuendo non poco, con le sue sonanti didascalie, al successo del film Cabiria (1914) di Piero Fosco (G. Pastrone). Nel 1915, invitato a Quarto per inaugurare il monumento ai Mille, rientrò in Italia e avviò una personale, infiammatissima campagna interventista, in aperta polemica con gli atteggiamenti del governo. Dopo la dichiarazione di guerra, si arruolò come volontario e si distinse in una serie di imprese militari, come la Beffa di Buccari o il volo su Vienna, pur essendo rimasto gravemente ferito in un incidente aviatorio in seguito al quale perse un occhio. Nella totale cecità postoperatoria, aveva scritto (1916) il Notturno su sottili strisce di carta che la figlia Renata provvedeva a decifrare e ricopiare. Eroe pluridecorato e figura ormai leggendaria presso i reduci, si fece interprete, dopo la fine della guerra, della loro indignazione per la “vittoria mutilata” e guidò la “marcia di Ronchi” e l’occupazione di Fiume, che tenne, in qualità di “Reggente”, dal settembre 1919 al dicembre 1920, quando fu costretto militarmente a rinunciare alla sua impresa (a testimonianza degli ambiziosi programmi politici e sociali del D’A. fiumano resta la Carta del Carnaro a sfondo corporativista, che, redatta da A. De Ambris, ebbe da D’A. la forma letteraria definitiva). Ritiratosi nella villa Cargnacco, in quello che poi chiamerà il “Vittoriale degli Italiani”, sul Lago di Garda, fu colto alla sprovvista dal colpo di mano di Mussolini, che aveva appoggiato l’impresa fiumana e a essa probabilmente si era ispirato. Con il dittatore fascista intrattenne un rapporto difficile, apparentemente amichevole e di reciproca ammirazione, ma in realtà minato dal sospetto, vedendosi quindi confinato nella dorata prigione del Vittoriale e dissuaso da qualsiasi interferenza politica, in cambio del massimo riguardo formale e di non poche concessioni (nel 1924 fu creato principe di Montenevoso; poté sovrintendere all’edizione nazionale delle sue opere; nel 1937 divenne presidente dell’Accademia d’Italia).
Opere
Tra i molti generi letterarî da lui tentati, D’A. predilesse la poesialirica: essa anzi fu l’asse intorno al quale tutte le altre forme espressive ruotarono e si organizzarono, allo stesso modo in cui intorno alla letteratura ruotarono i varî aspetti della sua personalità poliedrica. Poetici sono del resto i suoi esordî, con due raccolte addirittura passate in proverbio: Primo vere (1879), per la straordinaria precocità, e Canto novo (1882), per l’invenzione di una inconfondibile cifra personale, pur a ridosso e quasi come approfondimento delle originarie suggestioni carducciane. Del classicismo carducciano, e in particolare delle Odi barbare, rimane virtualmente tributaria una poesia d’ora in poi sempre giocata sulla consapevolezza della propria inafferrabilità di Ideale e sulla conseguente inevitabilità dell’artificio: tutta barbara, congetturale e artificiosa, come congetturale e artificioso era stato il tentativo delle Odi carducciane di riprodurre i metri classici nella versificazione italiana. La stessa scoperta sensuale della natura, che rappresenta la novità più caratteristica di Canto novo e accompagnerà D’A. in tutti gli esperimenti successivi, coincide con un artificio, sullo sfondo di un primordio fantastico giustificando una barbarica irruzione nel mondo ignoto della poesia e conciliando il massimo dell’attualità e della concretezza con l’atemporalità del mito classicistico. Mentre il narratore di Terra vergine (1882) approfitta con acume della lezione verghiana, e soprattutto fornisce di un retroterra aneddotico la sfrenata sensualità del Canto novo, con Intermezzo di rime (1883) D’A. apre il gioco che da cronista mondano avrebbe condotto a perfezione nel quinquennio successivo: una scherzosa divinizzazione del bel mondo romano e di un rituale trasparentemente erotico, cui la poesia fosse in grado di restituire serietà, se non esplicitezza, ricavandone dal canto suo la conferma di una funzione sociale e del relativo consenso. È però da romanziere, con Il piacere (1889), che gli riesce di emanciparsi dalle frigide eleganze e dal valore puramente ludico già presentiti e ben esemplati da Isaotta Guttadàuro e altre poesie (1886). Nel romanzo, la “lotta d’una mostruosa Chimera estetico-afrodisiaca col palpitante fantasma della Vita nell’anima d’un uomo” mette finalmente di fronte una fedeltà all’Ideale deprecabile come un vizio immondo, per la disumanità che comporta, e un buon senso tanto immediatamente redditizio e socialmente rispettabile quanto assolutamente sprovvisto di qualsiasi attrattiva letteraria e intellettuale. Lo scrittore ribadisce così l’irrinunciabilità dell’Ideale nell’amore e nell’arte e al romanzo assegna il compito di creare artificialmente nel lettore la disposizione ad assecondare il suo sogno. A questa nuova disposizione del lettore si rivolge la più affabile poesia delle Elegie romane (1892) e soprattutto del Poema paradisiaco (1893), opera in cui, smessi i travestimenti delle raccolte precedenti per agitare l’altrettanto speciosa parola d’ordine della stanchezza dei sensi e della bontà, D’A. riscatta virtuosisticamente il linguaggio più dimesso del suo repertorio, puntando sulla tensione psicologica dei duetti sentimentali e sulla moltiplicazione delle pause che alonano di sottintesi e potenziano anche le parole più banali. Un altro romanzo, L’innocente (1892), proprio a partire da un equivoco umanitarismo esemplato su Dostoevskij e Tolstoj, aveva del resto chiarito che anche il mito della bontà e della semplicità era nutrito di intellettualismo e si fondava su un idealismo consequenziario in maniera spietata. La conversione al superomismo nietzschiano, per quanto effettivamente incoraggiata da affinità psicologiche e culturali indipendenti dalle letture napoletane di D’A., risulta tuttavia decisiva, sia per l’acuirsi degli interessi teorici di uno scrittore che infatti per un intero decennio mostra di prediligere la forma romanzo, e un romanzo per giunta “idealista”, sia per la più risentita percezione della dimensione sociale dell’attività artistica. Si passa quindi dal Trionfo della morte (1894), in cui il già collaudato tema misogino della Nemica coinvolge nella sua ispirazione distruttiva miti e istituzioni inconciliabili con la purezza dell’Arte, a Le vergini delle rocce (1896), il romanzo “di una Bellezza misteriosa e quasi terribile” che racconta, in una maniera provocatoriamente antiromanzesca, il sogno di una folle palingenesi reazionaria contro la “diminuzione” e la “violazione” da cui sono minacciati tutti i valori in una moderna società democratica. E si approda infine a Il fuoco (1900), che mette in scena l’esperimento di una sorta di regia dell’albeggiante vita spirituale delle masse, non più temute e respinte ma incoraggiate e guidate nelle loro oscure aspirazioni verso la Bellezza. Alle teorizzazioni romanzesche, corrispondono i concreti tentativi di un’arte sia pure solo velleitariamente popolare, compiuti attraverso il teatro. Miti, secondo la ricetta classica dell’arte per il popolo, e insieme dimostrazioni della immutata efficacia dei miti antichi sono le tragedie dannunziane, da La città morta (1898) a La figlia di Iorio (1904) a Più che l’amore (1906), a Fedra (1909), in cui la solita lotta per l’Ideale, spinta talora fino al crimine, rappresenta iperbolicamente una comune insofferenza nei confronti del grigiore della vita quotidiana e la parola poetica sperimenta la propria efficacia fuori del libro. La stagione dei capolavori dannunziani culmina però nei due più celebrati libri delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, quando l’urgenza del comprendere lascia il posto alla liberatoria conquista di una poesia nella quale felicemente collaborino istinto e artificio. Gli oltre ottomila versi di Maia (1903) sono virtuosisticamente giocati sul mantenimento della stessa tensione espressiva e esplicitamente votati addirittura all’emulazione del poema dantesco, ponendosi altresì a modello delle innovazioni metriche novecentesche e lasciando intravedere una nuova strada per la poesia civile. Alcyone (1904), di là dalla tenue trama di una vacanza estiva a contatto con la natura toscana, trova un motivo unitario nel suo porsi come “tregua” e nella conseguente scelta di argomenti privati e sentimentali, e punta sulla suggestione d’una lingua manipolata senza sforzo evidente e sulla sconcertante prossimità al linguaggio prosastico, sempre imminente e ogni volta mirabilmente eluso (ad esiti altrettanto significativi non giungono il secondo e il quarto libro delle Laudi: Elettra, 1904; Merope, 1912; né Canti della guerra latina, 1933, noto anche come Asterope). La fase del ripiegamento memoriale si apre all’indomani della splendida fioritura primonovecentesca, all’insegna di un autobiografismo meno strumentale e idealizzato. Se così Forse che sì forse che no (1910) traduce, concretamente svilendolo, l’Ideale dei romanzi precedenti nella passione aviatoria e, quasi come postuma compensazione, rappresenta il dramma della femminilità offesa, tutte le prose di memoria e quella che è stata definita “esplorazione d’ombra”, comprese tra l’atteggiamento solennemente meditativo della Contemplazione della morte (1912) e la scrittura apparentemente pedantesca e in realtà comica del Secondo amante di Lucrezia Buti (nel vol. Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile, 1924, primo dei due tomi che, con Il compagno dagli occhi senza cigli e altri studii ecc., 1928, compongono Le faville del maglio), rivelano addirittura uno scrittore nuovo. Con il Notturno (pubbl. nel 1921), il mutamento dello scenario psicologico e la singolare tecnica compositiva si risolvono nella ricerca di una lirica essenzialità all’interno della prosa, che nella paratassi inevitabile di un eterno presente vive l’ultima stagione di una sensibilità sovrumana, e, con le Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’A. tentato di morire (1935), lo scrittore a quella tecnica fa corrispondere la naturalezza quasi meccanica con cui si concede alla registrazione, al ricordo, all’intuizione più penetrante, senza ricavarne più nessuna scintilla di vitalità.
Le opere di D’A. furono da lui stesso riordinate in 48 voll., per l’ed. nazionale (1927-36), cui si aggiunse un vol. di Indici, a cura di A. Sodini (1936). Postumi sono stati pubblicati: Solus ad solam, un diario d’amore, a cura di J. De Blasi (1939); una scelta di sue Lettere a Barbara Leoni, a cura di B. Borletti (1954); i Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella (1965), seguiti da Altri taccuini, a cura di E. Bianchetti (1976) e da Di me a me stesso, a cura di A. Andreoli (1990); il Carteggio D’A.-Mussolini (1919-1938), a cura di R. De Felice e E. Mariano (1971); alcuni testi inediti, che dovevano far parte della raccolta La penultima ventura (2 voll., 1931), dedicata al periodo fiumano, in La penultima ventura, a cura di R. De Felice (1974), il Carteggio D’A. – Ojetti (1894-1936), a cura di C. Ceccuti (1979).
Poesie di Vittorio Bodini -Pubblicate dal Blog L’Altrove-
Vittorio Bodini è una delle figure centrali nella poesia italiana del Novecento, noto per la sua capacità di fondere esperienze personali con una profonda riflessione sulla condizione umana. La sua opera poetica, ricca di immagini evocative e di una musicalità unica, merita un’analisi attenta che ne metta in luce i temi principali e l’impatto culturale.
Nato a Bari il 6 gennaio 1914, Bodini trascorse la sua giovinezza in un contesto segnato da eventi storici tumultuosi, come la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine degli anni ’30 si trasferì a Firenze, dove si laureò in Lettere e Filosofia ed entrò in contatto con importanti correnti letterarie. La sua vita fu segnata da viaggi e esperienze che influenzarono profondamente la sua scrittura. Bodini visse anche in Spagna, un’esperienza che arricchì la sua poesia di una dimensione di ricerca identitaria e di nostalgia. Nel 1954 fondò a Lecce L’esperienza poetica, rivista che durò solo due anni. Gli ultimi dieci anni della sua vita li trascorse invece a Roma, dove morì nel dicembre del 1970.
La poesia di Bodini si distingue per la sua profondità emotiva e per l’uso di un linguaggio semplice ma incisivo. Le sue raccolte più celebri, come il suo libro di esordio, La luna dei Borboni, esplorano temi quali la solitudine, l’amore, la morte e la memoria; immagini che giocano un ruolo cruciale nella sua scrittura. Bodini riflette sul passato con un tono nostalgico, cercando di ricostruire le esperienze perdute. Finalista al Premio Viareggio, il volume esplora il tema della nostalgia attraverso immagini evocative che richiamano la sua terra natale, la Puglia. La luna diventa un simbolo di bellezza e malinconia, riflettendo un desiderio di connessione con le radici culturali e personali. Le poesie sono caratterizzate da un linguaggio ricco di musicalità e da una forte carica emotiva.
L’opera di Bodini si distingue per la sua capacità di esplorare temi universali attraverso una lente personale. I temi della nostalgia, della memoria e della fragilità umana sono costantemente presenti. La sua scrittura è caratterizzata da una musicalità intrinseca, che si manifesta in scelte lessicali ricercate e in un ritmo che invita alla lettura ad alta voce. La fusione di elementi autobiografici con riferimenti culturali e letterari, come il barocco spagnolo, arricchisce ulteriormente la sua poetica.
La presenza di tali tematiche sono da attribuire anche al profondo legame che il poeta ebbe con la cultura e la letteratura spagnola; il surrealismo spagnolo influenzò la sua poetica in vari modi.
Il surrealismo spagnolo si caratterizzava per l’uso di immagini oniriche, simboli e una forte carica emotiva, spesso legata alla realtà sociale e politica del paese. Nel suo soggiorno in Spagna, Bodini si interessò molto allo studio e alla traduzione di autori surrealisti quali Federico García Lorca, Miguel de Cervantes, Rafael Alberti, Francisco de Quevedo e Calderón de la Barça.
Vittorio Bodini si afferma come una delle voci più significative della poesia italiana del Novecento. La sua capacità di esprimere emozioni complesse attraverso un linguaggio evocativo e diretto lo rende un poeta di grande rilevanza.
Di seguito alcune poesie scelte di Vittorio Bodini
Sto davanti alla tua caverna
Sto davanti alla tua caverna. Esci fuori e arrenditi. Noi abbiamo la sintassi e la radio, i giornali e il telegrafo, e tu non vivi che del mio sonno, non hai che la roccia a cui ti tieni abbrancato, e per farmi dispetto non mi rispondi nemmeno.
Il destino dell’uomo
Quando dai pomodori uscirà il sangue il destino dell’uomo sulla terra sarà segnato Gli animali che hanno per vita privata un continente grattacieli d’arnie o l’insonne arabesco saranno nei tuoi occhi come un campo da tennis Gli ingegneri si rompono senza un grido Avran le sere cere minuziose sere dal volto aguzzo inesatte chimere Sono i calici d’ombra Sono i calici in fiamme Il vuoto dei manichini attirerà le montagne.
I pini della Salaria
Attento. Ogni poesia può esser l’ultima. Le parole s’ammùtinano. Comincia un insolito modo con le cose di guardarsi d’intendersi scavalcando le parole in una vile dolcezza. Ahi, e avevo un cuore che voleva abbaiare tutte le notti alla luna e alle pietre. Sì, i cappellini d’edera dei lampioni notturni, le coppie che s’abbracciano nelle macchine ferme… Che posto troverò per voi nella memoria, per voi e per le colme cupole che ammaìna Roma nell’ombra? I pini della Salaria non hanno pigne da far scoppiare al fuoco, pigne calde da mettere nel cavo petto dei morti.
Tu non conosci il Sud, le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d’un dado.
Qui non vorrei morire dove vivere mi tocca, mio paese, così sgradito da doverti amare; lento piano dove la luce pare di carne cruda e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.
Pigro come una mezzaluna nel sole di maggio, la tazza di caffè, le parole perdute, vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano: divento ulivo e ruota d’un lento carro, siepe di fichi d’India, terra amara dove cresce il tabacco. Ma tu, mortale e torbida, così mia, così sola, dici che non è vero, che non è tutto. Triste invidia di vivere, in tutta questa pianura non c’è un ramo su cui tu voglia posarti.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Orfeo ed Euridice è un’opera lirica composta da Christoph Willibald –
Orfeo ed Euridice (versione francese: Orphée et Euridice[1]) è un’opera lirica composta da Christoph Willibald Gluck intorno al mito di Orfeo, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi. Appartiene al genere dell’azione teatrale, in quanto opera su soggetto mitologico, con cori e danze incorporati[4]. Fu rappresentata per la prima volta a Vienna il 5 ottobre 1762, su impulso del direttore generale degli spettacoli teatrali (Generalspektakeldirektor), conte Giacomo Durazzo, ed aprì la stagione della cosiddetta riforma gluckiana –proseguita con Alceste e Paride ed Elena–, con la quale il compositore tedesco ed il librettista livornese (e, insieme a loro, il genovese direttore dei teatri) si proponevano di semplificare al massimo l’azione drammatica, superando sia le astruse trame dell’opera seria italiana, sia i suoi eccessi vocali, e ripristinando quindi un rapporto più equilibrato tra parola e musica[5]. Le danze furono curate dal coreografo italiano Gasparo Angiolini, che si faceva portatore di analoghe aspirazioni di riforma nel campo del balletto, in un’epoca che vide la nascita della nuova forma coreutica del “ballet d’action“.[6]
Dodici anni dopo la prima del 1762, Gluck rimaneggiò profondamente la sua opera per adeguarla agli usi musicali della capitale francese, dove, il 2 agosto 1774, nella prima sala del Palais-Royal, vide la luce Orphée et Euridice[1], con libretto tradotto in francese, ed ampliato, da Pierre Louis Moline, con nuova orchestrazione commisurata ai più ampi organici dell’Opéra, con parecchia musica completamente nuova, con imprestiti da opere precedenti e con un più largo spazio dato alle danze.
L’opera è passata alla storia come la più famosa tra quelle composte da Gluck, e, nell’una edizione o nell’altra, o, più spesso ancora, in versioni ulteriori, ampiamente e variamente rimodellate, è stata una delle poche opere settecentesche, se non addirittura l’unica non mozartiana, a rimanere sempre, fino ad oggi, in repertorio nei principali teatri lirici del mondo[7].
L’Orfeo fu il primo lavoro di Gluck a mettere in pratica le sue ambizioni di riforma dell’opera seria. Si è molto discusso del ruolo reciproco di musicista e librettista nella genesi della riforma stessa e Ranieri de’ Calzabigi medesimo ebbe già modo di rilevare, a proposito della sua collaborazione con il compositore tedesco, che, se Gluck era il creatore della musica, non l’aveva creata però dal nulla, ma sulla base della materia prima che lui stesso gli aveva fornito, e che quindi li si doveva considerare compartecipi dell’onore della creazione dell’opera nel suo complesso[8]. Lo stesso Gluck, in una lettera al Mercure de France del 1775 non ebbe difficoltà a riconoscere una qualche posizione di primato del Calzabigi nella gestazione della riforma: “Mi dovrei ancor più rimproverare se acconsentissi nel lasciarmi attribuire [l’iniziativa] del nuovo genere d’opera italiana, il cui successo giustifica l’averla tentata; è al Sig. Calzabigi che va il merito principale …”[9]. In effetti, secondo il racconto più tardi fatto, sempre sul Mercure de France del 1784, dal poeta livornese, il libretto dell’Orfeo era già pronto ed era già stato recitato al Conte Durazzo verso il 1761, prima che questi coinvolgesse Gluck nell’impresa della composizione della nuova opera[10]. D’altro canto, secondo Hutchings, era principalmente “la vecchia forma del libretto” metastasiano l’ostacolo intrinseco per i tentativi di dare continuità e maggior realismo all’azione drammatica, ed era quindi una nuova forma di scrittura il primo requisito per cercare nuove strade[11].
Nell’Orfeo, le grandi arievirtuosistiche con il da capo (e comunque le arie chiuse, in un certo senso, autosufficienti), destinate a rappresentare sentimenti e momenti topici, da un lato, e, dall’altro, gli interminabili recitativi secchi, utilizzati per illustrare l’effettivo svolgersi degli avvenimenti drammatici, lasciano strada a pezzi di più breve durata strettamente legati l’un l’altro a formare strutture musicali più ampie: i recitativi, sempre accompagnati, si allargano naturalmente nelle arie, per le quali Calzabigi introduce sia la forma strofica (come in “Chiamo il mio ben così”, dell’atto primo, dove ognuna delle tre sestine di versi non ripetuti che compongono l’aria, è alternato con brani di recitativo, il quale è pure chiamato a concludere il pezzo nel suo insieme) sia il rondò (come in “Che farò senza Euridice?”, il brano più famoso dell’opera, nel terzo atto, in cui la strofa principale viene ripetuta tre volte[12]). In conclusione, vengono infrante e superate le vecchie convenzioni dell’opera seria italiana, con lo scopo di dare impeto drammatico all’azione, la quale viene anche semplificata, dal punto di vista della trama, con l’eliminazione della consueta pletora di personaggi minori e dei relativi intrecci secondari. Quanto alle connessioni con la tragédie lyrique francese, ed in particolare con le opere di Rameau, sullo stesso loro schema, anche l’Orfeo contiene un gran numero di danzeespressive[13], un ampio utilizzo del coro e l’uso del recitativo accompagnato[5]. Il coup de théâtre di aprire il dramma con un coro intento a piangere uno dei personaggi principali, già deceduto, è molto simile a quello realizzato all’inizio del Castor et Pollux di Rameau nel 1737[14]. Ci sono anche elementi che non paiono rispettare alla lettera gli stilemi della riforma gluckiana: per esempio, la frizzante e gioiosa ouverture non anticipa minimamente la successiva azione del dramma[5]. La parte di Orfeo richiede un esecutore particolarmente dotato, che eviti ad esempio di far diventare monotona l’aria strofica “Chiamo il mio ben così” e che sia in grado di informare di significato tragico sia essa sia la successiva “Che farò senza Euridice?”, entrambe le quali si basano su armonie che non sono naturalmente lacrimevoli[15]. In effetti, nella prefazione all’ultima delle sue opere riformate italiane, Paride ed Elena (1770), Gluck avrebbe ammonito: basta poco «perché la mia aria nell’Orfeo, “Che farò senza Euridice”, mutando solo qualche cosa nella maniera dell’espressione diventi un saltarello di burattini. Una nota più o meno tenuta, un rinforzo trascurato di tempo o di voce, un’appoggiatura fuor di luogo, un trillo, un passaggio, una volata può rovinare tutta una scena in un’opera simile …»[16].
La riforma gluckiana, iniziata con l’Orfeo ed Euridice, ha avuto una significativa influenza lungo tutto il corso successivo della storia dell’opera, da Mozart a Wagner, attraverso Weber[17], con l’idea wagneriana del Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) particolarmente debitrice nei confronti di Gluck[18]. L’opera seria vecchio stile ed il dominio dei cantanti orientati alla coloratura venne ad essere sempre meno popolare dopo il successo delle opere di Gluck nel loro insieme e dell’Orfeo in particolare[5]. In essa, l’orchestra presenta un carattere preponderante nei confronti del canto, assai più di quanto non fosse mai avvenuto nelle opere precedenti: si pensi soprattutto all’arioso del protagonista, “Che puro ciel”, dove la voce è relegata al ruolo comparativamente minore della declamazione in stile recitativo, mentre è l’oboe a portare avanti la melodia principale, sostenuto dagli assolo del flauto, del violoncello, del fagotto e del corno, e con l’accompagnamento anche degli archi (che eseguono terzine) e del continuo, nel quadro della più complessa orchestrazione che Gluck avesse mai scritto[5].
L’opera fu data la prima volta a Vienna, nel Burgtheater, il 5 ottobre 1762, in occasione dell’onomastico dell’imperatoreFrancesco I, sotto la supervisione del direttore del teatro, il riformista conte Giacomo Durazzo. La coreografia fu curata da Gasparo Angiolini, e la scenografia da Giovanni Maria Quaglio, entrambi esponenti di punta dei rispettivi ambiti artistici. Primo Orfeo fu il famoso contraltocastratoGaetano Guadagni, rinomato soprattutto per la sua abilità di attore, maturata a Londra alla scuola shakespaeriana di David Garrick[15], e per le sue capacità nel canto di espressione, alieno dalle esteriorità e dagli stereotipi che caratterizzarono l’arte del canto nella seconda metà del ‘700[19]. L’opera fu ripresa a Vienna l’anno successivo, ma poi non fu più eseguita fino al 1769[20], quando ebbe luogo la prima italiana a Parma, con la parte del protagonista trasposta per il soprano castrato Giuseppe Millico, un altro dei cantanti favoriti di Gluck. Per le rappresentazioni che si tennero a Londra nel 1770, fu invece Guadagni ad eseguire ancora la parte di Orfeo, ma ben poco della partitura originaria di Gluck sopravvisse in questa edizione, avendo Johann Christian Bach[5] e Pietro Alessandro Guglielmi[21] provveduto a gran parte della musica nuova. Il compito di far ascoltare ai londinesi un’edizione più ortodossa dell’Orfeo gluckiano, toccò quindi, di nuovo, a Millico, il quale eseguì, nel 1773, al King’s Theatre, con scarso successo, la sua versione di Parma per soprano.[22]
Il successo dell’edizione parigina del 1774, integralmente rimaneggiata ed ampliata da Gluck in conformità con gli usi dell’Opéra ed i gusti del pubblico francese, e con la parte del protagonista conseguentemente trasposta per haute-contre ed interpretata dal primo tenore dell’Académie Royale de Musique, Joseph Legros, fu clamoroso e «molti influenti personaggi dell’epoca, tra cui Jean-Jacques Rousseau, ebbero commenti lusinghieri da fare nei suoi confronti. La sua prima uscita in cartellone durò per 45 rappresentazioni … Fu quindi ripresa per una ventina di stagioni con quasi trecento[23] spettacoli, tra il 1774 e il 1833, [anche se, poi] poté annoverare l’effettivo trecentesimo allestimento da parte della compagnia [dell’Opéra di Parigi] solo il 31 luglio del 1939 presso il teatro antico di Orange»[24]. Durante la prima parte del XIX secolo, si misero particolarmente in luce per le loro interpretazioni di Orphée, i due Nourrit, padre (Louis[25]) e figlio (Adolphe[5]), che si succedettero nell’incarico di primo tenore dell’Académie Royale, dal 1812 al 1837.
Se l’edizione parigina godé dunque di una particolare fortuna in patria, quella di Vienna incontrò più difficoltà nel resto d’Europa, anche per la concorrenza esercitata dall’omonima opera di Ferdinando Bertoni, andata in scena a Venezia, nel 1776, sempre con Guadagni come protagonista, e scritta sullo stesso libretto di Ranieri de’ Calzabigi. L’opera di Gluck fu comunque eseguita un po’ in tutto il continente[26], senza interruzioni, nel corso dell’ultimo trentennio del ‘700, con anche una rappresentazione curata da Haydn ad Eszterháza nel 1776[27]. Con il nuovo secolo le riprese si fecero però più sporadiche, anche se non si interruppero mai completamente: nel 1813, alla Scala, si ebbe probabilmente il primo caso di sostituzione del castrato con una cantante di sesso femminile, citata dalle cronache come “Demoiselle Fabre“[28]. Tale sostituzione sarebbe divenuta, di lì a pochissimi anni, la regola, in seguito all’estinzione dei castrati sui palcoscenici lirici. Nel 1854 Franz Liszt diresse l’opera a Weimar, componendo un suo proprio poema sinfonico in sostituzione dell’ouverture gluckiana originale[5].Stagione lirica 1961-1962, Teatro alla Scala, Milano. Giulietta Simionato, a destra, ed Elena Mazzoni in Orfeo ed Euridice.
Nel 1859 fu invece Hector Berlioz a cercare di attualizzare, per il Théâtre Lyrique di Parigi, la versione francese dell’opera, facendola in parte riorchestrare, introducendo alcune modifiche e soprattutto trasponendo per mezzo-soprano la scrittura per haute-contre del ruolo di Orfeo, divenuta ormai troppo difficoltosa per il nuovo stile realistico di canto dei tenori romantici. L’operazione fu concepita e realizzata grazie alla disponibilità sulle scene parigine della grande cantante Pauline Viardot, ultimo rampollo in attività della gloriosa dinastia canora dei García.
Di norma, a partire dagli anni ’20 dell’800 e per gran parte del ‘900, il ruolo di Orfeo fu quindi interpretato da cantanti donne, contralti tipici, come Guerrina Fabbri[29], Marie Delna[29], Fanny Anitúa[29], Gabriella Besanzoni[29] o le britanniche Clara Butt e Kathleen Ferrier, o mezzo-soprani, come Giulietta Simionato, Shirley Verrett, Marilyn Horne e Janet Baker[30]. La pratica, del tutto inusitata nei secoli precedenti, dell’impiego di controtenori nelle parti originariamente scritte per castrati, e quindi anche in quella di Orfeo, data solo a partire dalla metà del XX secolo[5]. All’occasione (soprattutto in area tedesca), il ruolo di Orfeo è stato anche trasposto per baritono, di solito abbassando di un’ottava la versione di Vienna o quella pubblicata da Dörffel (cfr. infra): Dietrich Fischer-Dieskau e Hermann Prey sono due baritoni di vaglia che hanno eseguito la parte in Germania (Fischer-Dieskau ne ha anche lasciato ben tre registrazione discografiche complete, Prey solo una parziale)[5]. Tra i direttori, Arturo Toscanini si distinse per le sue riproposizioni dell’opera nella prima metà del XX secolo[5]: la trasmissione radiofonica del secondo atto è stata alla fine anche riversata due volte in disco, sia in vinile che in CD.
Carattere sostanzialmente del tutto occasionale ha avuto infine, almeno inizialmente, l’accostamento alla versione parigina dell’opera, da parte della leva di tenori acutissimi che, a partire dall’ultimo ventennio del ‘900, ha invece consentito la rifioritura di tanta parte del repertorio rossiniano per tenore contraltino. Si ricorda solo qualche sporadica esecuzione: a puro titolo di esempio, William Matteuzzi a Lucca, nel 1984 (spettacolo in forma di concerto nel suggestivo cortile della Villa Guinigi), Rockwell Blake a Bordeaux, nel 1997, Maxim Mironov a Tolone nel 2007, o, infine, Juan Diego Flórez, al Teatro Real di Madrid nel 2008 (edizione questa che è stata anche riversata in un’incisione discografica completa). Una certa inversione di tendenza si è però verificata verso la fine del secondo decennio del nuovo secolo con due importanti produzioni, l’una europea, l’altra per due terzi americana, accomunate dall’ambizione di dare il giusto rilievo alle parti danzate. La prima è stata realizzata dalla Royal Opera House di Londra nella stagione d’autunno 2015-2016, per l’interpretazione dello stesso Florez, la direzione di John Eliot Gardiner e con coreografia e danze affidate all’artista israeliano Hofesh Shechter e alla sua compagnia.[31] Lo stesso spettacolo, su suggerimento di Florez, è stato poi portato con successo anche sul palcoscenico della Scala alla fine di febbraio 2018, per la direzione di Michele Mariotti,[32] ed anche riversato su DVD/Blu-ray. La seconda produzione è nata dalla collaborazione tra la Lyric Opera of Chicago, la Los Angeles Opera e l’Opera di Amburgo ed è stata ideata dal coreografo John Neumeier, responsabile anche della regia e del design, usufruendo della compagnia del Joffrey Ballet per quanto riguarda gli interventi di danza. La produzione ha visto materialmente la luce a Chicago nel 2017 con il tenore russo Dmitrij Korčak (Dmitry Korchack nella traslitterazione anglosassone) nei panni del protagonista,[33] ed è poi passata a Los Angeles nel marzo del 2018 con il già citato Maxim Mironov.[34] Nel febbraio del 2019 la produzione ha varcato l’oceano approdando alla Staatsoper di Amburgo (e poi nel settembre alla Festspielhaus di Baden Baden), di nuovo con Korčak e Mironov nei panni protagonistici maschili.[35] L’allestimento di Chicago è stato anch’esso riversato su DVD/Blu-day.
Ana Emilia Lahitte (La Plata, Argentina, 19 de diciembre de 1921 – Íd., 10 de julio de 2013). Poeta, novelista, dramaturga y periodista. Lic. en Psicología. Fue directora del Centro de Documentación e Información Pedagógica del Ministerio de Educación de la Provincia de Buenos Aires; Asesora literaria de Radio Universidad Nacional de La Plata; Secretaria técnica del Departamento de Teatro de la Escuela Superior de Bellas Artes; jurado de premios provinciales, nacionales y extranjeros.
DESERTI
Gli uomini blu
costeggiano le alte dune.
Non parlano di sete
con chi non la conosce.
Come cibo
condividono silenzi di sabbia.
Sembra che ci separino eterni
orizzonti.
Non sanno
che in loro vive un’altra sete.
Esangue
senza oasi.
Quella dei nostri deserti.
(da La notte e altre poesie, 1960)
.
.
DOLCEZZA
Com’è ardua… com’è serena
questa tristezza
di essere finalmente sola
con l’ombra.
O già senza di essa.
(da Legno e trasparenza, 1962)
Di Ana Emilia Lahitte sul Canto delle Sirene:
EL SUETER DE FEDORIO
En los bordes raídos del suéter
de Fedorio
se arremansa la vida y sus historias.
Jamás
me atrevería a proponerle restañar
esos hilos desgastados
reavivar los colores
las zonas percudidas como un abecedario
para ciegos.
Quitárselo
sería desollarlo.
El suéter de Fedorio
es una hogaza
un libro de bitácora un sol un campanario
alguna melodía que se canta
sin que nadie la escuche.
Su intemperie
anuda cuanto ha sido algo más
que un adiós
menos que un llanto
algo que sólo cabe en el hueco secreto
de la mano.
Si otra piel respira
debajo de mandala de su suéter gastado
será sólo un sudario
que busca convertirse en el revés cereal
de esa coraza
hilada por los pájaros.
ATRAPADOS
Sólo tengo de vos
una fotografía con pómulos rasantes
tu pelo de llanura sobre los hombros tensos
y sin brazos
-no he podido inventarlos todavía-
y tu extraña manera
de acompañarme a solas
de este lado del mar.
Vivías en París
(lo especifica el dorso de la fotografía)
ignoro si habrás muerto.
Importa
el desamparo de tu mirada inmensa
que me atraviesa
y sigue camino a mis espaldas
sin dejarme jamás.
Mirás hacia el vacío.
Un abrazo
sin tiempo que se abraza a sí mismo.
Mirás
como buscando la huella de un albatros.
Algo que implora
un límite para poder llegar.
///
Ni siquiera conozco tu sombra.
Sin embargo
regreso sin descanso
y me tiendo a tu lado en tu voz
en tu sed
en el tacto insaciable
con que rastreo a ciegas tus rasgos
con mis dedos.
Y te llevo a mi piel.
Y siento que tus muslos
aprietan con el celo de lo deshabitado.
Gozamos
el secreto pacto
de lejanías
que anuda nuestros cuerpos
en una memorable batalla despojada
de heridas y arrogancias.
Una trama ilesa
bellamente perversa insiste en atraparnos.
Y estamos atrapados
aquí
en el Sur más sur.
En esta factoría de la imaginación oculta
en el reverso
de los acantilados.
LOS CHICOS DE LA CALLE
Oh, niños asesinos, oh salvajes antorchas. Julio Cortázar
Ragazzi di vita
los llamó Pasolini
con su piedad adversa
desollada.
Y nos los deja así
sin otra identidad que la mugre
y la llaga.
Debajo
del abrigo de su costra de escaras
-cristos breves-
los chicos de la calle
no saben todavía que su sombra atrapada
crece
para la historia de la infamia.*
El dolor
nunca es niño.
Y en ellos ni siquiera es dolor.
Es una humillación
de la esperanza.
* Borges
T I G R E S
Dicen
que el territorio de las hembras
es menor.
Pero el olor a hembra atraviesa el verano
y el celo
es territorio prometido
para tigres
y albatros.
DESIERTOS
Los hombres azules
frontera de las altas dunas.
No hablan de la sed
con quien la desconoce.
Como alimento
intercambian silencios de arena.
Parecen separarnos horizontes
eternos.
Ignoran
que con ellos convive otra sed.
Exhausta
Sin oasis.
La de nuestros desiertos.
LIBERACIÓN
Las manos.
Sometida extremadura
de la avidez y de la servidumbre.
Si pudiera
las dejaría partir
desarraigadas
sabiamente inexpertas
como el tacto feliz de los amantes
buscándose en la oscuridad.
SELLOS DE POSESIÓN
CUERPO DE MUJER
Conspiración del universo
para que el horizonte
se desnude.
QUASAR
Aquel falo de estrellas
que siempre pareció comenzar
en tu boca.
PECADOS
Hay pecados rebeldes
que no desaparecen hasta violar
alguna garza azul.
Ana Emilia Lahitte, poetessa argentina, nasceva il 19 dicembre di cento anni fa. Esordì a vent’anni con i poeti della “Generazione degli Anni ’40” differenziandosi subito per il tema della morte nel suo significato universale: “Il polso arduo della bellezza ferita, la sua denuncia testimoniale, la sua universalità a terra. Il passaggio fu arduo, ma il clamore del suo significato era chiarissimo” disse in un’intervista. Il suo stile con gli anni va condensandosi, si fa più nudo, con il minimo di parole si contrappone all’abuso del discorso perpetuato dai mezzi di comunicazione nel tentativo di “sintetizzare la chiarezza esistenziale del complesso che l’uomo di oggi comporta, senza spogliarsi della radice ancestrale che lo sostiene”.
Ana Emilia Lahitte (La Plata, 19 dicembre 1921 – 10 luglio 2013), poetessa e scrittrice argentina. Ha pubblicato 27 libri suddivisi tra poesia, narrativa, teatro e saggi. Ha collaborato con diversi ministeri alla diffusione della poesia argentina nel mondo.
Ana Emilia Lahitte (La Plata, Argentina, 19 de diciembre de 1921 – Íd., 10 de julio de 2013). Poeta, novelista, dramaturga y periodista. Lic. en Psicología. Fue directora del Centro de Documentación e Información Pedagógica del Ministerio de Educación de la Provincia de Buenos Aires; Asesora literaria de Radio Universidad Nacional de La Plata; Secretaria técnica del Departamento de Teatro de la Escuela Superior de Bellas Artes; jurado de premios provinciales, nacionales y extranjeros.
Lahitte publicó 24 libros (poesía, narrativa, ensayo ,teatro y periodismo).
Algunas de sus obras publicadas son : Sueño sin eco(1947), El muro de cristal(1952), La noche y otros poemas(1959), Madero y transparencia (1962), Al sur de marzo (1969), Los abismos(1979), Los dioses oscuros (1980),El tiempo, ese desierto demasiado extendido(1993),Insurrecciones (2000),Summa de poemas, 1947-1997 (antología, 2001), Memorias del Adiós (2004),Los abismos,El cuerpo, Cielos y otros tiempos,Sueños sin ecos, Los dioses oscuros, El padre muere (2006), Gironsiglos (2006).
Es importante destacar entre sus ensayos y compilaciones poéticas: Veinte poetas platenses contemporáneos (1962), María de Villarino (1966), Roberto Themis Speroni (1975), Cinco poetas capitales (Ballina, Castillo, Mux, Oteriño y Preler, 1995).
Obtuvo, numerosas distinciones, algunas de las cuales son: Pluma de Plata del PEN Club Internacional, Centro Argentino (1980), Puma de Oro de la Fundación Argentina para la Poesía (1982 y 2001), Primer Premio Nacional de Poesía, Región Buenos Aires (1983), Premio Konex (1994), Premio de Poesía “Esteban Etcheverría”, de Gente de Letras (1999), Premio Página de Oro y Letras de Oro de Honorarte.
Su obra ha sido incluida en diversas antologías y traducida al inglés, francés, alemán, italiano, catalán y portugués. Forma parte del Inventario de Poetas en Lengua Española -segunda mitad del siglo XX- trabajo de investigación realizado conjuntamente por la Universidad Autónoma de Madrid con la Asociación Prometeo de Poesía, de España y tambien ha sido incluida en el Breve Diccionario Biográfico de Autores Argentinos -desde 1940- realizado por Silvana Castro y Pedro Orgambide, Ed. Atril, 1999.
En 2001, la Municipalidad de La Plata la designó Ciudadana Ilustre.
Enrico Berlinguer-La pace al primo posto-Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984)-
A cura di Alexander Höbel- Donzelli Editore -Roma
Scheda del Libro-Enrico Berlinguer La pace al primo posto-Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984)-Passione, rigore, propensione ad anticipare i tempi e a superare steccati: ciò che ha segnato l’azione di Enrico Berlinguer nella politica italiana emerge con ancora maggior forza in campo internazionale. È quanto rivelano i discorsi, gli articoli e le interviste raccolti da Alexander Höbel in questo volume, a partire dal 1972, quando Berlinguer assume la guida del Pci. Sono gli anni degli euromissili, dell’invasione sovietica in Afghanistan, dell’escalation nucleare, della guerra in Libano; ma lo sguardo del segretario sa andare anche oltre e in profondità. Per la prima volta nella storia, intuisce, il mondo è strettamente interconnesso e il suo cuore non è più l’Occidente: è necessario cooperare con le nuove realtà emergenti, anche per il bene stesso dei paesi industrializzati, i quali solo in questo modo potranno uscire dalla crisi. Una capacità di visione che coinvolge la Cee e l’intera Europa («senza un contributo ai problemi dell’Est – afferma – non vi sarà sicurezza e sviluppo») e include l’Italia, per cui l’«austerità» qui invocata diventa strumento globale di efficienza e giustizia, per superare un sistema caratterizzato dall’individualismo più sfrenato, dal «consumismo più dissennato». Lo stesso Pci, di cui con orgoglio, in uno straordinario discorso pronunciato nel 1976 a Mosca, al congresso del Pcus, rivendica la storia all’insegna della democrazia e della libertà, deve intraprendere una «terza via» che vada oltre il modello socialdemocratico e il «socialismo reale», accogliere le spinte anticapitalistiche provenienti anche dai movimenti di ispirazione cristiana, aprirsi alle istanze ambientaliste, alle battaglie femministe. È la pace l’obiettivo su cui è costantemente focalizzato Berlinguer; una meta legata a multipolarismo e cooperazione, che si fa nelle sue parole tema spinoso e urticante, pungolo che sollecita all’azione, che impone una battaglia intransigente e a tutto campo contro le diseguaglianze, non solo economiche, perché «una pace non precaria, ma solida, duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia».
Autore-Enrico Berlinguer
Enrico Berlinguer-Uomo politico italiano (Sassari 1922 – Padova 1984). Segretario del Partito comunista italiano dal 1972, deputato dal 1968 per tutte le legislature, fu promotore dell’idea di un “compromesso storico” tra le due grandi forze popolari, quella comunista e quella democristiana, ma dopo la deludente esperienza dei governi di unità nazionale (1976-79) riportò il PCI all’opposizione; durante la sua segreteria guidò inoltre il partito verso il progressivo distacco dall’Unione Sovietica.
Vita e attività
In contatto dal 1937 con gruppi antifascisti, nel 1943 aderì al Partito comunista italiano. Nell’immediato dopoguerra diresse il Fronte della gioventù prima a Milano e poi a Roma, entrando poco dopo nel Comitato centrale del PCI e nel 1948 nella direzione; dal 1949 al 1956 fu segretario generale del movimento giovanile comunista. Deputato dal 1968, fu eletto vicesegretario del PCI nel 1969 (XII congresso) e segretario generale nel marzo 1972 (XIII congresso). La sua linea, basata sul perseguimento dell’alleanza tra classe operaia e ceti medî, sull’affermazione del carattere laico del partito e, soprattutto, sulla proposta del “compromesso storico”, si concretizzò, dopo i successi elettorali del PCI nel 1975-76, nella politica di unità nazionale (ag. 1976-genn. 1979). Dopo la conclusione negativa di tale esperienza e il ritorno dei comunisti all’opposizione (1979), B. cercò di far fronte alla difficile situazione in cui si era venuto a trovare il PCI, accentuata dalla crisi sociale e politica dei primi anni Ottanta, con una riaffermazione del suo carattere alternativo alla Democrazia cristiana (proposta di “alternativa democratica”, del nov. 1980) e la prosecuzione del suo rinnovamento interno. In campo internazionale, la segreteria B. si è caratterizzata per il crescente distacco del PCI dall’Unione Sovietica (dall’esperienza eurocomunista degli anni Settanta alla dichiarazione del genn. 1982 circa l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione d’ottobre) e il perseguimento di una sua maggiore integrazione nell’ambito della sinistra europea occidentale.Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
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-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore Milano 1934-
-Articolo di Guido Piovene per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Guido Piovene-Scrittore e giornalista italiano (Vicenza 1907 – Londra 1974). Formatosi all’incrocio di un cattolicesimo sensuale con un illuminismo attinto ai moralisti francesi del Sei-Settecento, aperto alle influenze del freudismo e dell’esistenzialismo, P. indagò le passioni e i vizi umani. Tra i romanzi più noti: Le furie (1963), in cui ha tentato di applicare la tecnica del nouveau roman, dando particolare rilievo alla memoria di un mondo in decadenza di fronte al quale lo scrittore subisce rimorsi e inibizioni, non senza però lasciare nel lettore un sapore di ambiguità; e Le stelle fredde (1970, premio Strega), in cui ritorna con gli stessi simboli la materia autobiografica.
Vita e opere
Nel 1935 entrò a far parte del Corriere della sera per poi passare a La Stampa, della quale fu collaboratore fino alla fondazione, con I. Montanelli e altri, del quotidiano milanese Il Giornale (1974). La sua opera, che varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione, al racconto, al romanzo, è quella di un saggista formatosi all’incrocio di un cattolicesimo morbido e sensuale, di tradizione vicentino-fogazzariana, con un illuminismo attinto soprattutto ai moralisti e romanzieri francesi del Sei-Settecento; ma aperto alle suggestioni del freudismo e dell’esistenzialismo. Un saggista inteso all’esplorazione lenta, minuta delle passioni, dei vizi umani, colti nel loro sinuoso trasformarsi o dissimularsi in virtù (a cominciare dall’egoismo così spesso atteggiato a pietà); un osservatore e descrittore di «caratteri», il quale, come narratore, rivela, sotto il lucido intellettualismo della sua indagine e delle sue invenzioni, l’ansia di una ricerca soggettiva, di un personale riscatto. Ne è testimonianza, nei suoi racconti (La vedova allegra, 1931; Inverno di un uomo felice, post., 1977; Spettacolo di mezzanotte, post., 1984) e nei romanzi (Lettere di una novizia, 1941; La gazzetta nera, 1943; Pietà contro pietà, 1946; I falsi redentori, 1949; Le furie, 1963; Le stelle fredde, 1970; Verità e menzogna, post., 1975; Romanzo americano, post., 1979), quel procedere della narrazione, entro una cornice apparentemente oggettiva, per monologhi – in forma epistolare, di diario, di confessione, ecc. – dei protagonisti, che permette allo scrittore di eludere, come in un gioco o finzione scenica, quanto di troppo autobiografico urge al fondo della sua arte. Accanto alla produzione saggistica (Lo scrittore tra la tirannide e la libertà, 1952; Idoli e ragione, post., 1975), poi raccolta in Saggi (2 voll., post., 1986-90), e ai notevoli libri di reportage, di viaggio e di costume (De America, 1953; Viaggio in Italia, 1957; Madame la France, 1966; L’Europa semilibera, 1973; ecc.) è da ricordare il discusso La coda di paglia (1962), in cui P. rievocò i propri rapporti col fascismo. Al genere fiabesco appartiene Il Nonno Tigre (1972).
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