Un classico da rileggere : “Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Non solo memoria, letteratura. Sembra paradossale, eppure la scrittura di Se questo è un uomo ci dice di Primo Levi quanto e più del suo contenuto. Accade perché è una scrittura a togliere, resa scarna dallo sforzo di tenere a bada il dolore, la tentazione dell’astio, per lasciar emergere un racconto nudo, tanto più potente quanto più depurato del giudizio. Uno sforzo, riuscito, il cui prezzo doveva essere inversamente proporzionale alla distanza. Si pensi che i primi appunti erano nati già dentro il lager, che la prima edizione era già pronta nel 1947, neanche due anni dopo la Liberazione. Primo Levi, mentre scriveva il capolavoro, che esce in edicola e in parrocchia con Famiglia Cristiana, in vista della Giornata della memoria, aveva tra i 26 e i 28 anni. Oggi lo diremmo ragazzo.
Abbiamo chiesto a Giovanni Tesio, fino a pochi mesi fa docente di Letteratura italiana all’Università del Piemonte orientale, che ha avuto modo di conoscere a fondo Primo Levi di persona oltreché da studioso dei suoi scritti, di aiutarci a tracciare un bilancio, a trent’anni dalla morte di Levi e a settanta dalla prima edizione, di Se questo è un uomo.
«Un autore imprescindibile, un classico del Novecento, che ha preso quota sia a livello europeo sia nazionale per la consistenza dei contenuti e per la ricchezza, la forza, la precisione del linguaggio. L’esperienza del lager ha fatto di Primo Levi inizialmente un testimone della Shoah, ma la sua testimonianza sulla ferita del nostro Novecento era tanto più forte per la parola che la comunicava. Primo Levi credeva nella chiarezza della scrittura,nella letteratura come comunicazione, capace di rendere accessibile a tutti anche il più tragico dei contenuti».
Il Levi che ha conosciuto corrispondeva all’idea che ne esce in Se questo è un uomo?
«Nel caso di Primo Levi la maschera è il volto, ma questo non deve sminuirne lo spessore, anzi. Da un lato c’è quasi l’identità tra lo scrittore e l’uomo, dall’altro c’è la complessità: se non ci fosse non ci sarebbero neppure la resistenza di Levi e la sua importanza. D’altro canto, non escluderei che la pretesa che la ragione potesse guidare ogni aspetto interpretativo abbia agito su di lui, un po’ come se la compressione dell’inconscio avesse poi generato una ribellione dell’istinto che lui pure diceva di avere (Primo Levi è morto l’11 aprile 1987 cadendo nella tromba delle scale della sua casa torinese, ancora si discute se sia stato suicidio, ndr)».
Trent’anni fa Primo Levi, nel 2016 Elie Wiesel: che cosa perdiamo quando muore un testimone?
«Un pezzo della nostra stessa vita, la parte che ci costringe a fare i conti con il saper fare, con le impurità che la vita comporta. La conoscenza vera non è mai solo intellettuale, implica un mischiarsi con le cose, un sapere delle mani. Al tempo di Internet diventiamo da un lato più ricchi di possibilità, dall’altro rischiamo di essere sempre più dei conoscenti in difetto, privi del dato dell’esperienza».
Nel 1947 Se questo è un uomo uscì per De Silva: come si spiega il rifiuto di Einaudi, che poi ci ripensò nel 1958?
«Einaudi stava andando in una direzione diversa, per scelte editoriali. Da un lato si era in un momento storico in cui determinate esperienze chiedevano di essere non testimoniate ma in qualche modo tenute a bada, dall’altro non dobbiamo dimenticare che Primo Levi era un esordiente. Oggi potremmo dire che ci sarebbe voluta maggiore tempestività, ma sarebbe ingrato, con il senno di poi, gettare la croce addosso a chi non la merita. Da studioso posso dire che l’edizione Einaudi del 1958, in tempi più maturi, ha consentito a Levi di lavorare ancora a un testo che sentiva urgente ma imperfetto: ha potuto aggiungere il capitolo Iniziazione, fondamentale, e alcuni dei ritratti più commoventi di Se questo è un uomo: la bambina Emilia, l’amico Alberto. Ha anche ripulito il testo dalle tracce dell’offesa recente, dimostrando un desiderio di precisione che è segno di un senso forte della scrittura che si salda con un contenuto che urge, che rugge direi. Credo che anche con questo ruggito controllato dalla scrittura si spieghi la fortuna mondiale di Levi, certo favorita da un editore come Einaudi e dalla traduzione in tedesco di Heinz Riedt, ma aiutata dalla capacità di raccontare senza astio una ferita ancora fresca».
Ogni volta che parliamo di “zona grigia” citiamo Levi: oltre a citarlo lo abbiamo letto abbastanza?
«Non lo abbiamo letto abbastanza, citiamo spesso per pigrizia. La citazione vera è lettura e rilettura. Primo Levi va riletto come si rileggono i classici. In lui la “zona grigia” era la zona di quel collaborazionismo che mette in guardia dai giudizi inappellabili. È chiaro che il sistema che porta al lager nazista vale la condanna inappellabile, ma dentro questo giudizio ci sono variabili che coinvolgono l’idea stessa di uomo. È l’idea manzoniana che se Renzo commette una violenza è perché qualcuno lo ha indotto a farlo, che non sempre chi commette un gesto nefando è colpevole quanto colui che lo induce a farlo».
Possiamo chiederle di suggerire negli scritti di Levi un percorso utile alla comprensione del nostro mondo scosso dai conflitti, tentato dalle intolleranze, disorientato nel lavoro?
«Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati sul tema del lager visto in chiave originale. La chiave a stella, sul tema del lavoro ben fatto, che è tema potenzialmente ambiguo perché anche Stangl, il carnefice di Treblinka, pensava di fare un lavoro ben fatto. Per questo diventa lettura necessaria la storia del montatore Faussone che incarna un’idea morale del lavoro che non è mai disgiunta dalla responsabilità: la chiave dei mestieri che deve agire sulla formazione stessa dell’uomo. Poi non dimenticherei Storie naturali, l’aspetto dell’umorismo di Primo Levi, la dimensione di gioco della sua fantascienza domestica. Escludendolo, dimenticheremmo la personalità multipla di Levi facendone un autore in una sola direzione. Vorrei concludere con La ricerca delle radici, con le righe che premette all’ultimo capitolo, Siamo soli, in cui a me sembra di vedere un invito a sperare».
Un anno fa lei ha finalmente pubblicato Io che vi parlo, l’esito degli incontri che avrebbero dovuto diventare, se ce ne fosse stato il tempo, una biografia autorizzata di Primo Levi: che cosa le ha lasciato di personale l’incontro con Primo, a parte il libro?
«Un incontro fondamentale, ma non dirò mai che sono stato amico di Primo Levi, semmai ne sono stato un indegno allievo. Era una persona
controllatissima ma capace di affettività e avevamo messo insieme una consuetudine che andava oltre le mie ricerche. Mi ha lasciato la lezione della parola che non deve mai essere “avventurata” ma sempre pensata. Mi colpiva nel suo parlare l’arrivare direttamente all’esattezza, senza bisogno dei “per così dire” cui ci appoggiamo tutti noi. Poteva farlo anche grazie al bagaglio di odori e di colori in più che gli dava la sua esperienza di chimico».
Mariangela Gualtieri- L’ incanto fonico. L’arte di dire la poesia
Giulio Einaudi editore
Descrizione del libro di Mariangela Gualtieri «Lei, essa poesia, ha ritmica, ha melodia, timbro. Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha». «Ogni poesia implora un respiro che la dica». Dire la poesia non avviene sempre. Eppure anche nel dire la poesia consiste, da sempre, la poesia. Lo sapeva Carmelo Bene con il suo personalissimo teatro della crudeltà, lo sapevano i Romantici e i Surrealisti, lo sapeva García Lorca, quando trovava il suo duende nella musica, nella danza e, appunto, nella poesia a viva voce (hablada), arti tutt’e tre, sosteneva, che hanno bisogno di un corpo vivo che le interpreti. Lo sa bene, benissimo, Mariangela Gualtieri, che da quarant’anni «dice la poesia in pubblico», avvolgendo chi la ascolta in un «mondo orale aurale» che non ha uguali. Sí perché «spesso», come dice Gualtieri, i professionisti, gli attori, leggono il verso puntando «sulla sua componente razionale e di significato, trascurando tutto il resto». Nella sua «arte di dire la poesia», Gualtieri ci parla invece solo del resto. E per farlo trova un linguaggio nuovo e sorprendente: non un discorso sul dire la poesia ma una scrittura con il dire la poesia. Non concetti astratti, ma figure, immagini, sensazioni fisiche, echi. E analogie, fino a costruire un libro di poesia saggistica, a opporre visione a discorso, a parlarci vicino e alto, lontani dalla chiacchiera. E così: «Formule magiche schiacciate nei libri – solo al pronunciarle si fanno efficaci. E formule mantriche, solo in voce trovano compimento. E spartiti di musica, tutti, chiedono fiato, gole, dita per farsi forma sonora. Così ogni verso. Ogni poesia implora un respiro che la dica. Essere detta. Detta per bene in sua ritmica e melodia e timbrica e interni silenzi».
Breve biografia di Mariangela Gualtieriè nata a Cesena nel 1951 ed è una delle voci poetiche piú apprezzate della scena contemporanea. Nel 1983 ha fondato insieme a Cesare Ronconi il Teatro Valdoca. Da Einaudi ha pubblicato le poesie di Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (2003), Senza polvere senza peso (2006), Bestia di gioia (2010), Le giovani parole (2015), Quando non morivo (2019). E, per il teatro, Caino (2011) e Paesaggio con fratello rotto (2021). Per Einaudi ha inoltre pubblicato L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia (2022).
(comprese le Poesie incompiute mai edite in italiano)
Editore Bompiani è un marchio Giunti Editore
-Poesie e prose-Per la prima volta vengono pubblicate tutte le poesie di Konstantinos Kavafis (comprese le Poesie incompiute, mai edite in italiano) assieme alle sue prose più significative. Un volume – con il testo greco a fronte, corredato di ampi commenti, indici e una sezione iconografica – che permetterà di cogliere i molteplici aspetti di una straordinaria esperienza letteraria. Kavafis non volle mai raccogliere le sue poesie tutte assieme – ora annotate e tradotte da Renata Lavagnini, internazionalmente riconosciuta come una delle più importanti studiose del poeta greco – preferendo diffonderle di volta in volta in fogli volanti, su cui poteva intervenire con correzioni e varianti. Solo dopo la sua morte (quando ormai aveva acquisito, non senza contrasti, fama e riconoscimenti nell’ambiente letterario alessandrino e ad Atene) le 154 poesie edite furono riunite in volume nel 1935. Ma la sua opera è assai più vasta. Se le poesie giovanili, apparse su riviste e almanacchi tra il 1886 e 1898, vennero messe da parte e implicitamente rinnegate (Poesie rifiutate), altre furono portate avanti nel tempo ma abbandonate nel cassetto (Poesie nascoste, 1884-1923). Su altre ancora continuò a lavorare fino alla fine, lasciandole in stato di abbozzo (Poesie incompiute, 1918-1932). Kavafis parla direttamente al lettore di oggi. E anche in quelle poesie in cui sono più presenti i riferimenti colti (specialmente quelli storici, attinti al mondo greco, ellenistico e bizantino al quale consapevolmente apparteneva come epigono) è possibile cogliere messaggi di grande attualità. Nelle sue Prose – finalmente raccolte, per i lettori italiani, con accurata competenza dallo specialista Cristiano Luciani – si delinea una figura di intellettuale ed erudito, sempre in dialogo con gli autori e i temi più presenti del suo tempo: riflessioni che costituiscono la premessa e lo sfondo necessari per comprendere ciò che l’opera poetica lascia spesso solo intuire
Biografia di Konstantinos Kavafis
Konstantinos Kavafis è nato il 29 aprile 1863 ad Alessandria d’Egitto da una famiglia originaria di Costantinopoli. Nel 1872 ultimo di nove figli, dopo la morte del padre, autorevole membro della ricca colonia greca di Alessandria attivo nel commercio del cotone, si trasferisce con la madre in Inghilterra dove riceve la prima formazione in lingua inglese frequentando le scuole a Liverpool e a Londra. Rientrato in Egitto, è allievo, negli anni 1881-1882, del Liceo Ermìs, un liceo commerciale della comunità greca di Alessandria. Tra il luglio 1882 e l’ottobre 1885 il giovane Kavafis con la madre e i fratelli si rifugia a Costantinopoli, presso i nonni materni, per sottrarsi ai bombardamenti inglesi rivolti a sedare la ribellione di ‘Ora¯bı¯ Pascià. A Costantinopoli, allora capitale dell’Impero ottomano, dove ancora erano presenti le memorie del passato bizantino, Kavafis intreccia amicizie ed esordisce in poesia. Tornato nel 1885 ad Alessandria, dopo aver fatto il giornalista e il mediatore in Borsa, dal 1896 è impiegato all’Ufficio delle Irrigazioni presso il Ministero dei Lavori Pubblici. Vi resta fino al 1922, quando va volontariamente in pensione. Pochi i viaggi: nel 1897 a Parigi e Londra con il fratello John; ad Atene nel 1901, 1903, 1905 dove ha contatti con il mondo letterario della capitale greca; un ultimo viaggio, sempre ad Atene, nel 1932, qualche mese prima della morte, avvenuta ad Alessandria il 29 aprile 1933.
–Articolo scritto da Silvio Benco per la Rivista PEGASO N°7 del 1931
Biografia di Biografia di Arturo ONOFRI – Nacque a Roma il 15 settembre 1885 da Vincenzo, romano, e da Beatrice (Bice) Shereider, di origine polacca. – Nacque a Roma il 15 settembre 1885 da Vincenzo, romano, e da Beatrice (Bice) Shereider, di origine polacca.
Biografia di Arturo ONOFRI – Nacque a Roma il 15 settembre 1885 da Vincenzo, romano, e da Beatrice (Bice) Shereider, di origine polacca.
–Fonte Enciclopedia TRECCANI-
Il padre, possidente, poté accedere nel 1897 nei ruoli direttivi della Cassa di risparmio. Tra i componenti la famiglia Arturo ricorderà, nell’Abbozzo di un’autobiografia, una zia Raffaella, monaca a S. Susanna (Vecchio, 1978, p. 143), e uno zio Paolo, morto nel 1902 (ibid., p. 144).
Di estrazione borghese, ebbe un’infanzia agiata fra la capitale, dove frequentò le scuole elementari in via Montecatini, e Castelgandolfo, dove si recava per trascorrere le vacanze estive. Formatosi presso il ginnasio statale Ennio Quirino Visconti di Roma (Banfi et al., 1930, p. 23), si iscrisse al liceo classico di Tivoli nel 1901. Le cartoline e le lettere di questo periodo, indirizzate ai genitori e rimaste inedite, testimoniano la nostalgia di casa e comprendono richieste di libri scolastici, abiti e altro materiale necessario alla sua permanenza fuori porta.
Cominciò a scrivere fin da giovane e pubblicò i primi versi sulla Vita letteraria nel 1904, prendendo a frequentare i ritrovi romani più noti dei letterati dell’epoca, fra cui l’Aragno e il Caffè Greco. Nel 1906 fu a Cittaducale (all’epoca provincia dell’Aquila), poi presso il convento di Palazzolo (nella provincia romana). Nel marzo 1907 uscì la sua prima silloge poetica, Liriche, inclusiva di 31 componimenti scritti fra il 1903 e il 1906, all’insegna della Vita letteraria, ma per i tipi della Tipografia della Biblioteca di cultura liberale di Firenze (riedita nella collana «Opera prima» per Garzanti nel 1948).
Una copia fu spedita alla regina madre Margherita di Savoia, che tramite il suo intendente fece sapere a Vincenzo Onofri di averne gradito la lettura (Roma, Biblioteca nazionale, Fondo Onofri, A. 116: lettera di Vincenzo Onofri ad Arturo del 4 giugno 1907).
Fra le amicizie di quel periodo si segnala quella con il poeta crepuscolare Fausto Maria Martini, ricordato da Vincenzo in una lettera al figlio del 10 maggio 1908 (ibid., A. 119). Martini fu tra i primi a salutare l’esordio poetico di Arturo con uno scritto su La Provincia del 13 giugno 1907.
Nel 1908 pubblicò a Roma i 38 testi della raccolta Poemi tragici, suddivisi in quattro sezioni: Primi poemi tragici, Interludî e poesie, Secondi poemi tragici e Sonetti (più un Commiato non annunciato sul frontespizio). La raccolta, che includeva liriche composte fra il 1906 e il 1907, uscì a spese dell’autore. Canti delle oasi (ibid.), che seguì nel 1909, apparve anch’essa a sue spese: suddivisa in Preludio, Poemi del sole, Momenti varii, Preghiere e Commiato autunnale, includeva 45 testi composti fra il 1907 e il 1908 e fu recensita da Martini ne Il Resto del Carlino del 10 aprile 1909. A partire dallo stesso anno diede inizio alla stesura di un diario filosofico-letterario che, suddiviso in tre parti, Selva (1909-10), Pandaemonium (1910-13), Pensieri e teorie (1925-28), si protrasse fino alla morte e permette di individuare le diverse fasi della sua formazione culturale.
Al febbraio 1910 risale il primo scambio epistolare con Antonio Baldini (Fondo Onofri, A. 764); nell’aprile-maggio dello stesso anno fu a Siena; poco dopo dette avvio a una collaborazione con Nuova Antologia, nella quale pubblicò diversi testi: Promèteo (1° giugno 1910); Fra nuvole e rupi, All’ospite lontana, Epitaffio a mezzo la montagna, Alba alla stazione, A un neonato, Frammento, Primavera, Esasperazione, Nella tregua, Elevazione (16 febbraio 1911); La morte di Rama (16 giugno 1911); Notturni: raccoglimento, L’Angelo, Armonie cittadine, Mattutino, Impeto, Luce (1° gennaio 1912); e, infine, Mischiarsi alle ventate, Luce che sei vita, Piccoli cieli, In figure di mondo, Un profumo in fiore, Capriccio aereo, Sagra del sonno (16 gennaio 1927).
Al 1911 risalgono letture da Walt Whitman, Émile Verhaeren, Dante, Rudyard Kipling, Gabriele D’Annunzio e dalla Bibbia (soprattutto il Vangelo di Giovanni): delle letture whitmaniane, compiute durante una gita sul litorale laziale, diede notizia a Giovanni Papini in una lettera (15 giugno 1911) che segna l’inizio d’una relazione epistolare protrattasi fino al dicembre 1928.
Occasionata da un articolo di Papini, Le speranze di un disperato, apparso nella Voce (n. 24, 15 giugno 1911), la corrispondenza scandì alcune tappe dell’attività letteraria di Onofri (come, ad es., in Lacerba, n. 13, 27 marzo 1915).
Sempre nel 1911, in estate, si concentrò la corrispondenza con il letterato e amico Umberto Fracchia, che gli inviò cartoline e lettere da Costantinopoli, Beirut, Aleppo, Malatia (Fondo Onofri, A. 711-14) e avrebbe continuato a spedirgliene, assieme a sue prose poetiche, almeno fino al 1925 da varie città d’Italia. In particolare, gli autori letti da Fracchia, che si evincono dalle sue lettere, permettono di ricostruire una geografia culturale ‘tardodecadente’ – fatta del Satyricon, di Whitman, Dostoevskij, Walter Pater – cui lo stesso Onofri del resto fu debitore, almeno nella prima fase della sua attività letteraria (ibid, A. 725).
Nel 1912 fondò la rivista Lirica, di cui uscirono 13 fascicoli tra gennaio 1912 e dicembre 1913. La redazione responsabile era composta, oltre allo stesso Onofri, da Rosario E. Brizzi, Armando De Santis, Fracchia e Teofilo Valenti. Il fascicolo unico del 1913 includeva scritti di Onofri, Adolfo De Bosis, Pier Maria Rosso di San Secondo, Aurelio Saffi, Giuseppe Antonio Borgese, Baldini, Vincenzo Cardarelli, Nino Savarese, Giorgio Vigolo, Benedetto Codecasa, Armando De Santis e Fracchia. Su Lirica apparvero firmate da Onofri: Figurazioni del Paradiso: Il sogno, Trionfo di vita (gennaio 1912); Poemi: l’albero delle stelle, Preghiera nella Cappella Sistina (febbraio 1912); Studi spirituali: un esame di coscienza, Maestro e discepolo, Ora di combattimento (marzo 1912); La libertà del verso (aprile 1912); Giorni appassionati: Malinconia, Io, Meriggio d’estate, Addormentarsi, I morti, Ramingo, Gioconda, Grido notturno (giugno 1912); Disamore (luglio-settembre 1912, un lungo racconto composto due anni prima); Nuovi studi spirituali: il germe, Il nostro pane, Realtà e poesia, In chiesa dapertutto, Morbo salubre, Dialogo, Un corpo, Lo spettro indimenticabile, Pietà, Scandalo, Incesso, Gioia del dolore, Vecchio raccoglimento, Il luogo del convegno (ottobre-dicembre 1912); Nuova lirica: letargo, Sera, Città, Mattinata, Un’agonia, Alba (numero unico del Natale 1913).
L’amicizia epistolare con Emilio Cecchi ebbe inizio nel maggio 1912 (sebbene si possa supporre che i due avessero avuto anche precedenti contatti) per concludersi il 20 ottobre 1921. Lo scambio di idee critico-letterarie, originate dalla differente valutazione del libro di Giulio Augusto Levi, Storia del pensiero di Giacomo Leopardi (1911), costituì uno degli argomenti delle prime lettere assieme alla richiesta di prestito, da parte di Cecchi, di alcune edizioni francesi possedute da Onofri. A sua volta Cecchi invitò l’amico a leggere i capitoli, che via via veniva scrivendo per la sua Storia della letteratura inglese nel secolo XIX.
La comune collaborazione a Lirica sancì inoltre l’amicizia fra Onofri e Cardarelli, testimoniata da uno scambio di lettere da cui emergono inizialmente, oltre alle difficoltà economiche di quest’ultimo (Fondo Onofri, A. 251: lettera a Onofri del 21 febbraio 1913), la sua insoddisfazione per quello che veniva componendo (ibid., A. 253: lettera a Onofri del 18 luglio 1913). Nelle missive del 1913 più volte Cardarelli chiese notizie della data di uscita dell’ultimo numero di Lirica, continuando a inviare suoi testi all’amico e mantenendo toni cordiali almeno fino al 1915.
Sempre nel 1913 Onofri aveva cominciato a pubblicare articoli per la Rassegna letteraria del quotidiano Il Popolo romano, dove apparvero Giovanni Pascoli postumo (21 aprile); Il nuovo romanzo di G. Ferrero (5 maggio); Mallarmé, poeta per poeti (19 maggio); D’Annunzio giornalista (2 giugno); Un poeta della natura (16 giugno); Walter Pater (30 giugno); Ricordi eroici (14 luglio); Paul Claudel (28 luglio); Versi liberi (12 agosto); I giardini di Adone (25 agosto); La disfatta (8 settembre); André Gide (22 settembre); Appunti su Flaubert (6 ottobre). Non vi segnalò, tuttavia, il Savonarola di Silvio D’Amico, che questi gli aveva fatto pervenire con preghiera di recensione (Fondo Onofri, A. 2109: lettera del 1° agosto 1913).
Nel maggio 1913 Onofri – che si trovava a Soriano nel Cimino – ricevette dal padre le bozze del secondo volume di Liriche: la raccolta, comprensiva di 69 testi (scritti fra il 1906 e il 1910) uscì a Napoli, per i tipi della Ricciardi, nel novembre successivo. Durante la lontananza da Roma – ove risiedeva già da qualche tempo al n. 61 di via di S. Chiara – fu il padre ad aiutarlo nella revisione delle bozze degli articoli che pubblicava in rivista.
Espletati gli obblighi militari nel 1915 come caporal maggiore nell’Ordine di Malta a Belluno, nel biennio 1915-16 collaborò con La Voce, aderendo se pur temporaneamente al frammentismo e tenendosi in corrispondenza con Giuseppe De Robertis, cui spediva suoi componimenti e dal quale riceveva le pubblicazioni della rivista.
In una delle prime lettere (Fondo Onofri, A. 428: 13 febbraio 1915), De Robertis lamentava le difficili condizioni economiche in cui versavano sia la rivista sia la Libreria della Voce e l’impossibilità di corrispondergli un’adeguata retribuzione. Fu ancora Onofri a introdurre Vigolo a De Robertis (ibid., A. 432: cartolina del 23 marzo 1915).
Nella Voce Onofri pubblicò Usignolo (n. 5, 15 febbraio 1915); Domenica (n. 6, 28 febbraio); Vocazione di morire (n. 7, 15 marzo); Silfo, Sboccio, Cattedrale, Ritratto alla ringhiera, Mattino (n. 9, 15 aprile); Romanzo (n. 10, 30 aprile); Tendenze (n. 12, 15 giugno); Oceanica (n. 13, 15 luglio); Orchestrine: Vendemmia, Acqua, Insonnia, Cortile, Piove, Partenza, Nord, Scampagnata, Pozza (n. 14, 15 agosto); Belvedere: Paesaggio, Luna, Lago, Serata, Fermata inutile, Nebbie, Dopo il bagno (n. 17, 15 novembre); Occhiate: Giuochi, A vista d’occhio, Concerto, Fra due stagioni, Lucertole, Settembre, Concordanze, Grandine, Verso la notte (n. 18, 15 dicembre); Arcipelago: Senz’alba, Cartone, Fine d’inverno, Gocciole, Musica, Notte, Giuochi (31 gennaio 1916); Gruppo: Capodanno, Dal letto, Ritratto, Inverno, Angoscia, Risveglio, Fra i monti, Dita, Astronomia, Indecenza (31 marzo). Fra il 31 gennaio e il 31 agosto 1916 pubblicò inoltre, sempre nella Voce, lo scritto pascoliano Saggio di lettura poetica, in più puntate. Il numero in cui apparve l’ultima ospitava anche un intervento antipascoliano di Cardarelli, che non mancava di lanciare una critica agli estimatori delle Myricae. Sentendosi colpito, Onofri inviò una lettera di protesta a De Robertis (riprodotta in un’epistola a Papini del 16 settembre 1916), cui fece seguire, dopo la breve risposta del direttore della Voce, un telegramma di diffida a pubblicare qualsiasi cosa recasse il suo nome. Nonostante il tentativo di Papini di placarne l’animosità (v. lettera del 22 settembre 1916), Onofri mantenne fermo (risposta in data 25 settembre) il suo atteggiamento di rottura nei confronti della Voce.
Nel progressivo deteriorarsi dei rapporti con la rivista fiorentina, aveva cominciato già da qualche tempo a stringere contatti con l’entourage che faceva capo alla rivista napoletana La Diana, in particolare con il fondatore Gherardo Marone e la direttrice Fiorina Centi.
Quest’ultima, una benestante insegnante di pedagogia, scrisse la prima lettera a Onofri il 31 gennaio 1916, dichiarandosi felice per l’interesse del poeta all’indirizzo della rivista e annunciando la pubblicazione di un suo scritto sul primo numero dell’anno (Fondo Onofri, A. 31).
Nella Diana apparvero: Sereno d’inverno (26 gennaio 1916), Un pino (25 marzo), Saluto di primavera (25 maggio), L’innocenza della natura (31 luglio), Zona di guerra, Sonno, Acquazzone (settembre-ottobre), Toletta, Campagna, Natività, Lago di Nemi (novembre-dicembre), Un bacio, Sera nel viale (marzo 1917). Sempre nel 1916 portò a termine una serie di traduzioni di poesie cinesi (cui aveva dato inizio nel 1914), basandosi su versioni contenute in antologie in lingua inglese (H.A. Giles, Chinese poetry in English verse, 1898) e francese (H. de Saint-Denys, Poésies de l’èpoque des Thang, 1862; J. Gautier, Le livre de Jade, 1867; A. Thalasso, Anthologie de l’amour asiatique, 1907).
Il 29 giugno 1916 sposò Bice Sinibaldi che, con il vezzeggiativo affettuoso di Bicetta, comincia a essere menzionata nelle lettere dei genitori già nel 1914. Da Bice, con cui visse fino alla morte nella sua nuova residenza romana di Lungotevere Castello 3, ebbe i figli Fabrizio e Giorgio.
Il primo, la cui nascita fu salutata in una cartolina di Vigolo del 28 agosto 1917 (Fondo Onofri, A.632), divenne nel secondo dopoguerra un esponente del Partito comunista italiano (PCI) e scrisse la sceneggiatura del film Sacco e Vanzetti (1971), diretto da Giuliano Montaldo.
Nell’imminenza del matrimonio, Onofri era stato costretto ad annullare un incontro, suggerito da Papini, con il matematico e sinologo Giovanni Vacca, dal quale auspicava un aiuto per tradurre alcune poesie cinesi. Ebbe inoltre inizio nell’ottobre 1916, per protrarsi fino al 1927, la corrispondenza fra Onofri e Giovanni Comisso. Quest’ultimo indirizzò le prime lettere da Manzano, dove si trovava al fronte, annunciando la ricezione di un numero della Diana (15 novembre 1916). In una delle sue ultime lettere (25 marzo 1927) Comisso riferì che Enzo Ferrieri, fondatore e direttore della rivista Il Convegno, poi divenuta circolo d’arte e di cultura, sarebbe stato lieto di ospitare Onofri in qualità di relatore a una conferenza, suggerendogli inoltre di inviare poesie da proporre alla rivista (16 aprile 1927).
A Napoli, nel maggio 1917, per le edizioni Libreria della Diana uscì Orchestrine. Inizialmente Onofri aveva pensato a una pubblicazione per i tipi della Voce; tuttavia, prima Papini (che, in lettera del 23 agosto 1916, gli ricordava le condizioni economiche incerte della casa editrice), poi la rottura definitiva con De Robertis, lo spinsero a scegliere un’alternativa. Una copia del volumetto, che comprendeva 95 testi in prosa (più una prefazione), datati fra il 1914 e il 1916, risulta spedita a Papini il 17 giugno 1917.
Intorno al 1918 scoprì l’opera del filosofo ed esoterista austriaco Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, da cui fu notevolmente influenzato per la successiva produzione poetica: l’adesione al pensiero steineriano è testimoniata, fra l’altro, da appunti autobiografici risalenti al 1920, Miracieli, storia dell’uomo nuovo (Fondo Onofri, GI.4f) e dalla prefazione al volume La scienza occulta nelle sue linee generali (Bari 1924).
Per far fronte ad alcune esigenze economiche svolse, a partire dal 1920 e fino alla morte, il lavoro di impiegato presso la Croce rossa della capitale. In questo periodo conobbe anche Julius Evola, probabilmente alle riunioni del gruppo teosofico ‘Roma’ che si tenevano in via Gregoriana 5.
Una ritrovata tranquillità economica gli permise di dedicarsi con maggiore assiduità alla scrittura e nel 1921 uscì Arioso (38 testi, fra liriche e prose, scritti fra il 1917 e il 1920 e accompagnati da disegni di Deiva De Angelis) per i tipi della Casa d’Arte Bragaglia in Roma. Oltre a Papini, com’era divenuta consuetudine, cui il libro fu subito inviato, fra i destinatari del nuovo volume spiccano i nomi di Aldo Palazzeschi e di Comisso che, da Venezia, promise di consegnarlo a D’Annunzio, trasferitosi da poco al Vittoriale.
Nel 1921-22 Onofri pensò di riunire in un unico volume Orchestrine e Arioso. Durante la seconda metà del 1922 pubblicò una serie di articoli in Le Cronache d’Italia, ove apparvero Dove? e A proposito del «Notturno» di D’Annunzio (20 giugno); «Le Poesie» di G.A. Borgese (20 luglio); Risveglio notturno (5 agosto); Il mistero di Tristano e Isolda (20 agosto-5 settembre); Cronache di poesia: Luciano Folgore, Enrico Thovez (20 settembre-20 ottobre); Saluto a una nuova Italia (novembre); Cronache di poesia: U. Betti, T. Valenti, G. Vigolo (dicembre).
In quegli anni andò diradando le amicizie epistolari e le frequentazioni di circoli letterari. Nel 1923 tentò di accreditarsi, senza successo, per poter pubblicare presso Mondadori: l’amico Fracchia (Fondo Onofri, A. 761: lettera del 18 aprile 1923), all’epoca direttore editoriale, motivò il suo rifiuto con il limitato interesse per la scrittura poetica in Italia. La nuova raccolta – Le trombe d’argento (Lanciano 1924) – prima parte del ciclo antroposofico, uscì dunque per Carabba.
Oggetto di uno scambio epistolare fra Onofri e i due antroposofi Alcibiade Mazzerelli (ottobre 1924) e Lina Schwarz (novembre 1925), ottenne una recensione di Evola sul quotidiano Il Sereno (3 luglio 1924).
Alla luce delle recenti convinzioni steineriane, pianificò la riscrittura di alcuni brani di Orchestrine (prosecuzione del tentativo di riordinamento del 1921-22), tuttavia non diede mai alle stampe una nuova versione della raccolta. Si dedicò, invece, ad alcuni saggi di carattere musicale, che confluirono in Riccardo Wagner: Tristano e Isotta. Guida attraverso il poema e la musica (Milano 1924). Nella rivista di esoterismo Ultra del 27 aprile 1925 pubblicò l’articolo La morte di Rodolfo Steiner. Nello stesso anno uscì, per i tipi della Laterza, il saggio Nuovo rinascimento come arte dell’Io (Bari 1925), cui fece seguito la composizione delle prose liriche del Quaderno di Positano (pubbl., a cura di M. Vigilante, Pistoia 1999). Del 1927 è la pubblicazione dei 150 componimenti inclusi in Terrestrità del sole, che dà il nome al ciclo omonimo, il cui fine – nelle idee dell’autore – era la costruzione concreta di un ‘uomo universale’. La raccolta, edita a Firenze da Vallecchi, fu recensita da Evola sulla rivista di studi religiosi Bilychnis dell’agosto-settembre 1928.
Ennesima testimonianza dei suoi nuovi interessi, sul numero del maggio 1927 di Ur (rivista di scienze esoteriche diretta da Evola) Onofri pubblicò (con lo pseudonimo di Oso) lo scritto Appunti sul Logos. Sui numeri di marzo-aprile 1928 apparvero invece le liriche del polittico Una volontà solare. Nel medesimo anno uscirono suoi componimenti anche nella Fiera letteraria: Sera, Marzo, Una dea, O raggio nascosto!, Con te senza te, L’annunciatore, Tu in me, Notturno (11 marzo); Nove sonetti: Compenso di suoni, La morte del seme, Un teschio, Aria che vive, Bianco, In piccolo e in grande, L’unico, Tu!, Quel raggio (26 agosto).
Il 23 maggio 1928 scrisse a Eugenio Montale che si era detto disposto a fare da intermediario presso la casa editrice Ribet di Torino per la pubblicazione di Vincere il drago! ; nelle sue due repliche da Firenze (25 e 28 maggio) Montale scrisse di avere inoltrato la lettera di Onofri all’avvocato Mario Gromo, responsabile editoriale della Ribet, e che questi aveva accettato la pubblicazione della raccolta. Da parte sua Onofri scrisse a Gromo il 4 giugno, spiegando di non essere in grado di procurare le 50 prenotazioni del volume che il responsabile editoriale gli aveva richiesto quale contropartita per una migliore percentuale sulle vendite. Lo scambio epistolare fra Onofri e Gromo si protrasse fino al 12 giugno, e sancì l’accordo fra i due, sulla base di un’alea fissata ai due quinti per l’editore e ai tre quinti per il poeta. Quest’ultimo fu inoltre in grado di trovare lettori che prenotassero il volume, fra cui il padre, che sottoscrisse l’acquisto di 20 copie.
Il 6 ottobre la Ribet finì di stampare Vincere il drago!, contenente 151 componimenti, ultima opera pubblicata da Onofri in vita.
Morì a Roma il 25 dicembre 1928.
Postumi uscirono i 33 testi poetici di Simili a melodie rapprese in mondo (Roma 1929); le 152 liriche di Zolla ritorna cosmo (Torino 1930); i 164 testi di Suoni del Gral (Roma 1932), nonché gli 83 componimenti inclusi in Aprirsi fiore (s.l. 1935), che chiude il ciclo lirico della «Terrestrità del Sole». L’intero Ciclo lirico della terrestrità del Sole è stato riedito per cura di M. Albertazzi (I-III, Trento 1998-99).
Quasi tutta votata alla scrittura poetica e critica, in quanto non assillata da esigenze di carattere economico (se non nel periodo di impiego presso la Croce rossa), la vita di Onofri si svolse priva di eventi particolari. Una prima fase letteraria (dalle Liriche d’esordio ai Canti delle oasi), in cui sono individuabili qualche eco pascoliana nonché influssi dannunziani e crepuscolari, è distinta dal punto di vista critico dalle collaborazioni a Nuova Antologia e Lirica. Detta fase, già contrassegnata da una certa consapevolezza stilistica (v. l’articolo La libertà del verso), si caratterizza anche per la scoperta delle religioni dell’antichità, conosciute attraverso il volume I grandi iniziati di Edouard Schuré, uscito in traduzione italiana per Laterza nel 1906. Da esso Onofri poté apprendere i miti «di Rama, di Krishna, di Mosè, d’Orfeo, le cui leggende sono studiate e riscoperte secondo canoni esoterici» (Salucci, 1972, p. 57). Una prima fase di transizione coincide con la pubblicazione delle Liriche del 1914, in cui il crepuscolarismo di ascendenza romana (in partic. Sergio Corazzini e Fausto Maria Martini) appare «in netta regressione» (F. Livi, per cui si veda: Donati, 1987, p. 66), e con gli articoli del biennio 1915-16 per la Voce (fra cui quelli su Pascoli, riuniti diversi anni dopo la morte, con prefaz. di E. Cecchi: Lucugnano 1953). Tale fase precede quella di avvicinamento al frammentismo, che culmina con le prose poetiche e i bozzetti di Orchestrine. I testi di Arioso, che seguono, preludono già al ciclo della «Terrestrità del Sole», il grande progetto poetico in cui si individua la novità della produzione onofriana, che risente dell’interesse per la mistica antroposofica di Steiner, conosciuta durante le discussioni in casa di Emmelina De Renzis (una delle traduttrici de La scienza occulta nelle sue linee generali). Elemento dominante, la solarità (simbolo della potenza di Dio), calata sulla terra, diviene emblema di quel rinascimento che è oggetto del saggio del 1925. In esso, attuando una sintesi di neoplatonismo e spiritualismo evoluzionista, è propugnata l’idea che l’arte sia alla stregua di una forma di conoscenza: essa è l’attività più alta dello spirito umano, rivelatrice della natura divina in ogni individuo. Solo attraverso tale forma di conoscenza è possibile una sintesi reale di fede e scienza, di mistica e pratica. Anticipato da Trombe d’argento, che racchiude il «messaggio vibrante» (Fittoni, 1973, p. 56) di questa nuova poesia onofriana, il ciclo mira a esprimere, sin dal titolo della raccolta che gli dà il nome, l’unità del cosmo. Le altre sillogi sviluppano il concetto attraverso il tema della zolla che, «redenta dal sangue di Cristo e dall’azione spirituale dell’uomo», ridiventa «un elemento della divina cosmicità» (Lanza, 1973, p. 156); nonché i temi della lotta contro il male identificato nel mero materialismo (cui alludono eloquentemente i titoli Vincere il drago! e Suoni del Gral), dell’armonia cosmica (Simili a melodie rapprese in mondo) e della palingenesi spirituale (Aprirsi fiore).
Fonti e Bibl.: Dono di Bice, Fabrizio e Giorgio Onofri alla Biblioteca nazionale di Roma (1973), l’archivio del Fondo Onofri riunisce tutto il materiale, manoscritto e a stampa, appartenuto al poeta e ai suoi eredi. L’archivio è suddiviso in sezioni distinte da lettere dell’alfabeto (A: Epistolario; B: Scritti di A. O. dal 1903 al 1925; C: Ciclo lirico della Terrestrità del sole; D: Pubblicazioni letterarie in poesia e prosa su riviste e giornali; E: Studi critici; F: Traduzioni; G: Scritti vari; H: Occulta; I: Documenti e materiali appartenenti ad A. O.; L: Disegni di Antonio Baldini e di Cipriano Efisio Oppo; M: Scritti critici su A. O.). A Bice (morta nel 1976) si deve la trascrizione di Selva, Pandaemonium e Pensieri e teorie, nonché l’attribuzione del titolo all’ultima delle tre parti.
Si vedano, inoltre: A. Banfi et al., A. O., Firenze 1930; A. Luzzatto, Rimbaud, O.,Valéry, Genova 1933; G. Federzoni et al., A. O., in Vesuvio, 1939, febbraio-marzo; S. Salucci, A. O., Firenze 1972; V. Jemolo – M. Morelli, L’Archivio di A. O. presso la Biblioteca nazionale di Roma, in Acc. e Biblioteche d’Italia, XLI (1973), 3, pp. 181-205; M. Fittoni, La visione del mondo di A. O., Messina-Firenze 1973; F. Lanza, A. O., Milano 1973; A. Dolfi, A. O., Firenze 1976; A. Vecchio, A. O. negli scritti critico-estetici inediti, Bergamo 1978 (Abbozzo di un’autobiografia: pp. 143-146); Per A. O.: la tentazione cosmica, a cura di C. Donati, Roma-Napoli 1987 (contiene scritti di: F. Lanza, S. Salucci, M. Del Serra, F. Livi, O. Macrì, A. Dolfi, G. Bàrberi Squarotti); A. Onofri, Corrispondenze con Comisso, Montale, Palazzeschi, Banfi, De Pisis, Evola, Péladan, De Gubernatis, Gromo, Mazzerelli, Schwarz, a cura di M. Albertazzi – M. Vigilante, Trento 1999; Carteggi Cecchi – O. – Papini (1912-1917), a cura di C. D’Alessio, Milano 2000; J. Evola – A. Onofri, Esoterismo e poesia. Lettere e documenti (1924-1930), a cura di M. Beraldo, Roma 2001; M. Vigilante, «Temi e non poemi» di A. O.: il complesso passaggio verso l’ultima fase poetica, in Critica letteraria, 2001, n. 3, pp. 525-533.
di Gabriele Scalessa – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 79 (2013)
Descrizione del libro di Sandor Marai–Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: “una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione”. Tutto converge verso un “duello senza spade” ma ben più crudele. Tra loro, nell’ombra il fantasma di una donna.
Breve biografia di Sándor Márai, il patriota malinconico .
Articolo di Gian Paolo GRATTAROLA
Nel tracciare il profilo biografico di quello è stato indubbiamente uno dei più grandi scrittori del Novecento, ci si trova purtroppo a chiedersi chi era mai Sándor Márai. Perché è vero che, meritoriamente, l’editore Adelphi ha pubblicato in Italia tutte le sue principali opere; ma è altrettanto vero che egli rappresenta l’incarnazione di una concezione della letteratura troppo faticosa e impegnativa per essere digerita senza difficoltà dal lettore di oggi.
Nato nel 1900 a Kassa (oggi Košice), un estremo lembo dell’Impero Austroungarico ormai avviato al tramonto, da una famiglia ricca di passato e priva di avvenire, aveva nel sangue le radici di un’Europa che stava morendo per troppa nobiltà e troppo sapere, come racconterà tra il 1934 e il 1935 nel suo primo romanzo memoriale Le confessioni di un borghese. E ungherese lo resterà per sempre, sia quando si recherà in Germania allo scopo di frequentare la scuola universitaria di giornalismo, sia quando insieme con la moglie Lola sposata nel 1928 si trasferirà a Parigi e Londra in Italia e in Medio oriente come inviato del “Frankfurter Zeitung”. La percezione dolorosa che i cardini morali, che avevano sostenuto la civiltà aristocratica durante la stagione mitteleuropea, stanno per essere spazzati via dall’ansia di affermazione di una società borghese cinica e materialista innervano già le prime opere scritte in patria quali L’isola (1934), Divorzio a Buda (1936), La recita di Bolzano e Sindbad torna a casa (entrambi 1940), La donna giusta (1941) e La sorella (1946).
Quando, dopo essere sopravvissuto agli orrori della guerra e dell’occupazione nazista di cui fu fiero oppositore, assiste alle prime avvisaglie della non meno feroce dittatura sovietica, decide nel 1948 di lasciare l’Ungheria e inizia a girovagare tra Svizzera, Stati Uniti e Italia. Esule di un mondo in cui non riesce tuttavia a riconoscersi, la nuova forma di inquietudine di cui è prigioniero diviene il tratto essenziale e inconfondibile della psicologia dei protagonisti dei suoi più romanzi più importanti. Prima a San Diego, dove prende residenza, e più tardi a Salerno, dove si trasferisce quando il figlio János entra in rotta di collisione con i genitori assumendo la decisione di americanizzare il proprio nome rifiutando la sua discendenza ungherese, Màrai continua a scrivere nella lingua madre. In questo lungo periodo di esilio vedono la luce, tra le molte altre opere i capolavori che usciranno postume e faranno di lui uno dei maggiori romanzieri del secolo scorso: da Liberazione a Le braci, dal secondo romanzo memoriale Terra, Terra!… a L’eredità di Eszter, da Il sangue di San Gennaro a L’ultimo dono.
Romanzi che egli scrive non per comprendere la realtà, ma per fuggire da un presente che detesta e che non ci chiedono di comprendere l’autore, ma di seguirlo attraverso i suoi verbosi e interminabili monologhi, lungo le sue sfavillanti digressioni in cui si sofferma ad analizzare con grande finezza psicologica i personaggi in tutte le loro sfumature, a scrutare ogni increspatura dell’animo umano, a registrare ogni loro parola e ogni loro sospiro. Leggerlo e addirittura non cercar neanche di capirlo. Perché il chiedere risposte è la motivazione meno opportuna per andare a bussare alla porta della sua arte: si correrebbe inutilmente il rischio di non farsi aprire. E allora meglio ricorrere alle cinque dita dei sensi, affidandosi all’odore che si respira nelle abitazioni e per le strade delle sue storie, degustando i sapori delle sue trame, lasciandosi inebriare dalla musica e dall’eleganza di una scrittura sontuosa. Quando al duro fardello sopportato a causa delle sorti avverse della propria patria lontana si aggiunge il dolore della perdita della moglie e del figlio, Sándor Márai decide nel febbraio del 1989 di togliersi la vita. Mancano solo pochi mesi all’agognato crollo dell’impero sovietico e al definitivo affrancamento del popolo ungherese. Ma egli purtroppo non vi potrà assistere.
a cura di Maria Serena Sapegno-Viella Libreria Editrice Roma
Sinossi -Con questo libro viene fatto il punto sugli studi più recenti intorno a Vittoria Colonna, figura chiave della cultura italiana nel Cinquecento, protagonista della vita letteraria, religiosa e politica in Italia. Oltre a essere stata la prima italiana ‒ unica tra tutti i poeti, uomini o donne ‒ alla cui poesia sia stato dedicato un intero volume a stampa, fu anche la prima a beneficiare di un’edizione con commento mentre era in vita. Tuttavia non fu solo un’attrice di primo piano della scena letteraria del tempo. Vittoria Colonna fu, infatti, anche parte attiva delle controversie religiose e politiche del secolo XVI. Appartenente a una delle famiglie più potenti di Roma, amica tra gli altri di Bembo, Michelangelo, Pole, Ochino, la poetessa fu personalmente implicata in molte delle vicende più significative del periodo. E se la sua figura ha goduto del privilegio ‒ pressoché unico tra le letterate italiane ‒ di non scomparire mai del tutto dal canone, le interpretazioni che ne sono state date sono mutate molto nel corso del tempo. Questo libro, attraverso una disamina dell’intera produzione di Vittoria Colonna e un’analisi dello scenario più ampio, religioso e culturale, al quale partecipava, aiuta a comprendere tali interpretazioni in modo innovativo e a capire così anche tutta un’epoca.
– Religione soggettiva e oggettiva nel giovane Hegel –
Articolo di Renato CAPUTO-Ass. La Città Futura
La critica condotta da Hegel in questi anni al freddo intelletto raziocinante e calcolatore non è assimilabile a quella più tarda della scuola romantica, in quanto non comporta affatto un giudizio radicalmente negativo sull’illuminismo, la Rivoluzione francese o la modernità nel suo complesso.
È in nome della religione soggettiva che il giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel sviluppa la polemica contro il “freddo intelletto”, i cui astratti e morti dogmi non sono traducibili nella concretezza dell’agire morale e, incapaci di penetrare nell’intimo della soggettività, pretendono di ricondurre la multiforme ricchezza della vita etica, la spontaneità dei sentimenti vissuti a soffocanti schemi dottrinari, fondati unicamente sulla rivelazione positiva. “Nel concetto di religione – scrive Hegel – è implicito che questa non è semplicemente una scienza intorno a Dio, ai suoi attributi (…) il che in ogni caso o potrebbe essere appreso semplicemente con la ragione o esserci noto per altra via (…) ma interessa il cuore ed ha influenza sui nostri sentimenti e sulla determinazione della volontà. Ciò (…) perché i nostri doveri e le leggi acquistano maggior forza dal fatto che ci sono rappresentati come leggi divine” [1]. In questi anni si ripresenta costantemente la critica alla casistica, cui Hegel contrappone appunto la religione soggettiva: “con la raccomandazione di vari e diversi doveri si perde di vista nel singolo l’intero, il tutto, si confonde il sentimento delle molte cose che si dovrebbero fare, non si permette alla coscienza di pervenire alla sua forza e non la si radica nello spirito dalla cui pienezza deve scaturire la virtù ed ogni conformità al dovere” [2]. Il giovane Hegel tende a contrapporre la morale kantiana e gli ideali della Rivoluzione francese al rigido moralismo tardo illuminista e al dogmatismo protestante. Quest’ultimo, pure avendo purificato la religione, rispetto al cattolicesimo, a fede soggettiva, la ha poi costretta in una casistica arida e intellettualistica: “la riforma scoprì il valore della religione soggettiva e mirò a migliorare gli uomini, volendo tradurre quest’arte in un sistema di parole (…) ma oggigiorno si è trovato che la religione non si lascia racchiudere in una dogmatica, mentre la comporta più una religione oggettiva” [3].
La critica condotta da Hegel in questi anni al freddo intelletto raziocinante e calcolatore non è assimilabile a quella più tarda della scuola romantica, in quanto non comporta affatto un giudizio radicalmente negativo sull’illuminismo, la Rivoluzione Francese o la modernità nel suo complesso. Si tratta, del resto, di una tematica presente, in qualche modo, negli scritti hegeliani sin dall’epoca di Stoccarda e derivata in prima luogo dalla filosofia di Jean-Jacques Rousseau.
La critica all’intelletto colpisce, piuttosto, un certo indirizzo dell’illuminismo che ne stravolge gli intenti, accolto tanto nella teologia dogmatica del seminario teologico di Tubinga in cui Hegel si era formato quanto dalla concezione della religione fondata sui postulati della Ragion pratica [4]. Da ciò deriverà la decisa polemica hegeliana nei confronti del dualismo, sul piano storico-positivo, tra felicità e azione conforme all’imperativo categorico, in base alla quale la filosofia critica aveva recuperato la necessità della fede nel sovrasensibile. Come gli scrive Schelling: “è un piacere vedere come essi sanno trarre a proprio vantaggio la prova morale. In un battibaleno spunta fuori il deus ex machina, l’Ente personale, individuale, che siede in cielo!” [5].
Del resto, lo stesso interesse del giovane Hegel per il sentimento, lo spirito del popolo e la religione popolare sono riconducibili alla volontà di contrastare il tentativo della teologia dogmatica di recuperare la rottura prodotta dalla filosofia kantiana con la metafisica scolastica e l’ortodossia, proprio sulla base del secondo postulato della Ragion pratica – poi sviluppato nella Critica del giudizio e nella Religione nei limiti della sola ragione [6]. Proprio a partire dall’insanabile contrapposizione tra imperativo categorico e costituzione sensibile dell’uomo, tra azione morale e sensibilità, Kant aveva postulato la necessità di un garante sovrasensibile dell’unità tra questi due momenti [7]. Per ora, Hegel si limita a confutare la necessità dello scarto tra azione morale e conseguimento della felicità, riprendendo la tesi che l’illuminismo attribuiva a Socrate: “se si assume il soddisfacimento dell’impulso alla felicità come fine supremo della vita, purché lo si sappia ben calcolare, sortiranno, secondo l’apparenza esterna, i medesimi effetti di quando è la legge della ragione a determinare la nostra volontà” [8].
Tuttavia Hegel, riaccostandosi alla filosofia critica, rifiuta le estreme conseguenze di una tesi che, nel tentativo di stabilire a priori il comportamento corrispondente a ogni caso empirico, aveva condotto il tardo illuminismo a sviluppare una precettistica morale che finiva per essere agevolmente recuperata dal moralismo radicalmente antistorico dominante al seminario di Tubinga [9].
Da ciò deriva, nella riflessione hegeliana, l’esigenza di distinguere nettamente all’interno della tradizione illuminista le tendenze degne di essere sviluppate da quelle da accantonare. “Qualcosa di diverso dall’illuminamento – osserva Hegel – inteso come ragionamento, è la saggezza. La saggezza non è scienza; è un’elevazione dell’anima che, con l’esperienza legata alla riflessione, si è innalzata oltre la dipendenza dalle opinioni e dalle impressioni della sensibilità” [10]. Si tratta di una critica presente non solo in Rousseau, ma nello stesso Kant che, già nella prima Critica, aveva decisamente opposto la saggezza socratica all’intellettualismo della metafisica scolastica. Allo stesso modo non si dà, per Hegel, una semplice opposizione tra illuminismo e saggezza. “Se l’illuminamento – a suo parere – deve effettuare ciò che pretendono i suoi grandi esaltatori, se deve meritare i loro elogi, è vera saggezza, altrimenti rimane comunemente saccenteria” [11]. Così la critica all’intelletto non si pone come negazione semplice, ma determinata: “compito dell’intelletto illuminato – secondo Hegel – è il vagliare la religione oggettiva. Ma, come la sua forza non ha alcuna vera importanza quando si devono produrre il miglioramento degli uomini, l’educazione a grandi e forti pensieri, a nobili sentimenti e ad una decisa autonomia, così anche il prodotto, la religione oggettiva, non ha gran peso a tali fini” [12]. Tanto più che l’intelletto illuminista ha svolto un ruolo fondamentale nella critica rivolta a ogni forma feticistica della religione positiva, a ogni intolleranza fondata unicamente su ragioni storiche, che prescinde completamente dai princìpi universali, cosmopolitici della religione naturale. “L’intelletto – scrive Hegel – è al servizio solo della religione oggettiva. Col chiarire i principi, con l’esporli nella loro purezza, esso ha prodotto splendidi frutti, il Nathan di Lessing, e merita gli elogi con cui sempre lo si esalta” [13].
Note:
[1] Hegel, G.W.F., Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 85, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 171.
[2] Ivi, p. 78 e p. 164.
[3] Ivi, p. 76 e p. 160.
[4] A proposito di quest’ultima tendenza, scriverà polemicamente il giovane Schelling: “certo, voi ci dovete ringraziare assai per il rifiuto del vostro sistema. Ora non avete più bisogno di impegnarvi in dimostrazioni acute, difficili da comprendere: noi vi abbiamo aperto una via più breve. A ciò che non siete in grado di dimostrare voi imprimete il marchio della ragion pratica, con la certa sicurezza che la vostra moneta circolerà ovunque domini ancora la ragione umana” Schelling, F.W.J., Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, tr. it. di Semerari G., Laterza, Bari 1995, p. 15.
[5] Hegel, G.W.F., Briefe von und an Hegel a cura di Hoffmeister, 4 voll., Amburgo 1952 (2. ed. 1977-1981), p.14, tr. it. parziale di Manganaro P., Epistolario I(1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 107. Come è stato a ragione osservato: “si trattava di sciogliere l’equivoco logico del Dio morale, creato dai teologi tubinghesi col fraintendimento della Critica e col ricorso a una vuota rappresentazione antropomorfica” Semerari G., Introduzione a Schelling F.W.J., Lettere filosofiche…, op. cit., p. XIX.
[6] Ecco come argomentava a tal proposito Immanuel Kant: “senza dubbio questo lo riscontriamo soltanto nell’idea di un Oggetto, che riunisca in sé la condizione formale di tutti gli scopi, il modo secondo cui dobbiamo proporceli (il dovere) e, nello stesso tempo, tutto il condizionato, concordante con quegli scopi, che noi perseguiamo (la felicità commisurata all’osservanza del dovere): cioè l’idea di un sommo bene nel mondo, per la cui possibilità siamo costretti a supporre un Essere supremo morale, santissimo e onnipotente, solo capace di riunire i due elementi costitutivi” Kant, I., La religione entro i limiti della sola ragione [1793], tr. it. di Poggi A., riveduta da Olivetti M., Laterza, Bari 1995, p. 5. E ancora: “la morale conduce dunque necessariamente alla religione, per la quale si estende così all’idea di un legislatore morale onnipotente, al di sopra dell’umanità, nella cui volontà risiede quel fine ultimo (della creazione del mondo), che può e deve essere nello stesso tempo il fine ultimo dell’uomo” ivi, pp. 6-7.
[7] Lo stesso Johann Gottlieb Fichte, nella prima stesura del 1791 del Saggio in critica di ogni rivelazione aveva postulato, onde non rendere impossibile il sommo bene, “che la natura sensibile sia «sotto la giurisdizione di una qualche natura razionale, pur se non della nostra»; la comunanza di razionalità tra Dio e l’uomo morale permette di prospettarsi quel fine, il sommo bene, appunto” Cesa, C., Introduzione a Fichte [1994], Laterza, Roma-Bari 2001, p. 5.
[8] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, vol. I, p. 84; Scritti…, op. cit., p. 170.
[9] Hegel polemizza contro la trattatistica morale in quanto inefficace a un reale miglioramento dell’agire umano, ma funzionale unicamente a una maggiore avvedutezza, come diversa è la saccenteria rispetto alla saggezza: “quest’ultima consiste essenzialmente nella liberazione dal pregiudizio, che è intrecciato per lo più con la religione, e soprattutto col condurre gli uomini quanto più vicino è possibile a quei «principi universalmente validi» che sono «a fondamento della religione». Sono – è chiaro – i principi della morale” Mirri, E., Introduzione a Hegel, G.W.F., Scritti…, op. cit., p. 146.
[10] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, vol. I, p. 96; Scritti…, op. cit., p. 182.
[11] Ivi, p. 98 e p. 183.
[12] Ivi, p. 99 e p. 184.
[13] Ivi, p. 94 e p. 179.
Fonte- Articolo di Renato CAPUTO-Ass. La Città Futura-| Via dei Lucani 11, Roma
Sylvia Plath Poetessa americana Poetessa americana
Il 27 ottobre del 1932 nasceva a Boston, Sylvia Plath-La vita è cosi adesso o mai più, cosi prendere o lasciare! Tutto dipende da come la sistemi e la sincronizzi, in modo, che, quando l’occasione bussa alla porta , tu sia li in attesa, con la mano sulla maniglia.
Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poeta e scrittrice statunitense.Viene riconosciuta come una delle poetesse statunitensi più importanti di tutti tempi, capace di creare un genere come La poesia confessionale insieme alla Sexton. Scrisse anche capolavori come la Campana di vetro e i suoi Diari, dove descrisse la sua vita drammatica per via dei suoi disturbi depressivi, che la portò a momenti critici fino alla morte per suicidio avvenuta L’11 febbraio del 1963 a Londra. A causa dei suoi problemi depressivi, le sue opere furono quasi sempre con un pizzico di malinconia e solitudine. Il 27 ottobre del 1932 nasceva a Boston, Sylvia Plath da Aurelia Schober e Otto Emil Plath. Muore l’11 febbraio del 1963 a Londra. Il 16 giugno del 1956 sposò lo scrittore Ted Hughes.
Papaveri in ottobre
Nemmeno le nubi assolate possono fare stamane
gonne così. Né la donna in ambulanza,
il cui rosso cuore sboccia prodigioso dal matello-
Dono, dono d’amore
del tutto non sollecitato
da un cielo
che in un pallore di fiamma accende i suoi
ossidi di carbonio, da occhi
sbigottiti e sbarrati sotto cappelli a bombetta.
O Dio, chi sono mai
io da far spalancare in un grido queste tarde bocche
in una foresta di gelo, in un’alba di fiordalisi.
Poesie di Sylvia Plath-
Io sono verticale (1961)
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
.
Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire) –
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
.
Monologo delle 3 del mattino-
È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.
.
Papaveri a luglio –
Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.
.
Ariel –
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
Canto del fuoco-
Nascemmo verdi
a questo giardino in difetto,
ma nella spessura macchiettata, grinzosa come un rospo,
il nostro guardiano si è imboscato malevolo
e tende il laccio
che abbatte cervo, gallo, trota, finché ogni cosa più bella
arranca intrappolata nel sangue sparso.
Nostro incarico è ora di strappare
una forma di angelo con cui ripararsi
da questo mucchio di letame dove tutto è intricato tanto
che nessuna indagine precisa
potrebbe sbloccare
la presa furba che frena ogni nostro gesto fulgente,
riportandolo alla fanga primordiale sotto un cielo guasto.
Dolci sali hanno attorcigliato i gambi
delle malerbe in cui ci dimeniamo instradati verso fine ammorbante;
bruciati da un sole rosso
leviamo destri la selce appallottolata, tenuti nei lacci spinati delle vene;
amore ardito, sogno nullo
il metter freno a tanta superba fiamma: vieni,
unisciti alla mia ferita e brucia, brucia.
(1956)
Nel paese di Mida-
Prati di polvere d’oro. Le correnti
d’argento del Connecticut si sparpagliano
e s’insinuano in dolci crespe sotto
le fattorie sulla riva dove imbianca la segale.
Tutto è liscio fino a un luccicare piatto
nel meriggio sulfureo. Con il languore
degli idoli ci muoviamo sotto
la larga campana di vetro del cielo e intagliamo brevi
le forme dei corpi in un campo di stoppie
e mazze dorate come su una foglia d’oro.
Forse è il paradiso, questa statica
pienezza: le mele indorano sul ramo,
cardellini, pesci dorati, un soriano biondo
fermo su un arazzo gigante –
e innamorati affettuosi, come colombi.
Ma ora sull’acqua sfrecciano gli sciatori,
a ginocchia tese. A un capo dei cavi invisibili
squarciano il velo verde del fiume:
lo specchio trema e si rompe.
Volteggiano come i pagliacci di un circo.
E così ci ritroviamo, pur volendo fermarci,
su questa sponda d’ambra dove l’erba discolora.
Il contadino pensa già al raccolto,
agosto cede il suo tocco di Mida
e il vento denuda un paesaggio più pietroso.
(1958)
Elettra sul vialetto delle azalee-
Il giorno che moristi andai nella terra,
nell’ibernacolo senza luce
dove le api, a strisce nere e oro, dormono finché cessa la bufera
come pietre ieratiche, e il terreno è duro.
Quel letargo andò bene per vent’anni –
come se tu non ci fossi mai stato, come se io fossi
venuta al mondo, dal ventre di mia madre, ad opera di un dio:
sul suo letto largo c’era la macchia del divino.
Non avevo nulla a che vedere con la colpa o altro
quando mi raggomitolavo sotto il cuore di mia madre.
Piccola come una bambola nel mio vestitino d’innocenza
me ne stavo sdraiata a sognare la tua epopea, immagine per immagine.
Non uno che morisse o sfiorisse su quella scena.
Tutto avveniva in una bianchezza durevole.
Il giorno che mi svegliai, mi svegliai a Churchyard Hill.
Trovai il tuo nome, le tue ossa e tutto
nelle liste di una necropoli gremita,
la tua pietra maculata di sghimbescio presso una ringhiera.
In questo ricovero, in questo ospizio, dove i morti
si ammucchiano piede a piede, testa a testa, non un fiore
a rompere il terreno. Questo è il vialetto delle azalee.
Un campo di bardana si apre a sud.
Sopra di te sei piedi di sassolini gialli.
La salvia rossa non si muove
nella vaschetta di sempreverdi di plastica posti
davanti alla lapide vicina alla tua, e neppure marcisce,
per quanto le piogge stingano un colore di sangue:
i petali finti gocciolano, gocciolano rosso.
C’è un altro rosso a incomodarmi:
il giorno che la tua vela rilasciata bevve il respiro di mia sorella
il mare piatto si fece di porpora come l’atroce panno
che mia madre aprì al tuo ultimo ritorno.
Prendo a nolo i paramenti di una tragedia antica.
La verità è che in una fine d’ottobre, al mio primo vagito,
uno scorpione si punse la testa, brutto segno;
mia madre ti sognò riverso nel mare.
Gli attori di pietra sostano, si riposano per riprender fiato.
Ho dato tutto il mio amore, e tu sei morto.
Fu la cancrena a mangiarti fino all’osso
mi disse la mamma; moristi come uno qualunque.
Come arriverò a far mio questo pensiero?
Sono lo spettro di un suicida senza onore,
il mio rasoio azzurro mi s’arrugginisce in gola.
Oh, perdona colei che batte alla tua porta a
domandarti perdono, padre – la tua cagnetta fedele, figlia e amica.
E stato il mio amore a dare la morte a entrambi.
(1959)
Lettera d’amore-
Non è facile spiegare il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
benché, come un sasso, non me ne preoccupassi
e me ne stessi dove mi trovavo d’abitudine.
Non ti limitasti a spingermi con il piede, no –
neanche lasciasti che il mio piccolo occhio nudo
si rivolgesse ancora al cielo, senza speranza, certo,
di capire le stelle o l’azzurro.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
camuffato da sasso nero tra sassi neri
nello iato bianco dell’inverno –
come i miei confinanti, senza cavare alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente scalpellate
che ad ogni istante s’appoggiavano per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si cambiavano in lacrime,
angeli in pianto su nature smorte,
ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
Ed io seguitavo a dormire come un dito piegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria pura
e le gocce catturate che in guazza si levavano
limpide come spiriti. Attorno tanti sassi
giacevano ottusi, senza espressione.
Io guardavo e non capivo.
Brillavo come scaglie di mica e mi spiegai
per rovesciarmi fuori come un fluido
tra le zampe di un uccello e i gambi delle piante.
Non mi sbagliai. Ti riconobbi immediatamente.
Albero e sasso risplendevano, senz’ombra.
La mia piccola lunghezza come un vetro diventò lucente.
Presi a fiorire come un ramo di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da sasso a nuvola, e così io in salita verso l’alto.
Ora assomiglio a una specie di dio
e galleggio nell’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E un dono.
16 ottobre 1960
Lettera di novembre-
Amore, il mondo
all’impovviso cambia, cambia colore. La luce
del lampione alle nove di mattina si sfrangia
oltre i baccelli coda-di-topo del laburno.
È l’Artico
questo piccolo cerchio
nero, con le erbe bronzee e di seta – capelli di bimbo.
Nell’aria c’è un verde,
tenero, incantevole.
Con amore mi protegge.
Mi son fatta calda e rossa.
Mi viene da pensarmi enorme,
sono stupidamente felice,
ho gli stivali di gomma
che sciabordano qua e là nel rosso bellissimo.
Questa, la mia proprietà.
Due volte al giorno
la percorro, fiutando
l’agrifoglio barbaro con i suoi ricami
verdeazzurri, ferro puro,
e il muro di cadaveri antichi.
Li amo.
Li amo come storia.
Indorano le mele,
pensa –
i miei settanta alberi
reggono i loro globi rosso oro
nella broda mortifera spessa e grigia,
le loro foglie d’oro metallo
a mi lionate con il fiato sospeso.
Oh amore, amore intatto.
Nessuno oltre a me
cammina su questo bagnato che arriva alla vita.
Ori insostituibili
fanno sangue e s’abbrunano, bocche delle Termopili.
11 novembre 1962
Sylvia Plath. L’altare scuro del sole (Edizioni della Sera, pp 200, euro 17) Un’icona dall’animo tormentato, una grande poetessa ancora oggi fonte di ispirazione: si intitola “Sylvia Plath. L’altare scuro del sole” il libro nel quale Gaia Ginevra Giorgi affronta la complessa figura della celebre autrice statunitense, nata a Boston nel 1932 e morta suicida a soli 31 anni. Con la prefazione di Roberto Coaloa, il libro offre un ritratto sfaccettato e non convenzionale della Plath: non si tratta infatti di una biografia classica, ma di un saggio che continuamente mescola le prospettive di analisi, passando dagli eventi della vita personale alle angosce, alla malattia mentale e alle frustrazioni della poetessa fino all’analisi delle opere.
Un intento ambizioso che stimola il lettore, genera domande e fa nascere suggestioni, ma più che altro una necessità chiaramente espressa dall’autrice già nell’introduzione: Giorgi infatti afferma di aver voluto seguire, nell’avvicinarsi alla vita e alla produzione letteraria della Plath, un duplice approccio, “uno poetico e uno politico”.
I due livelli di analisi sono in un certo senso “dovuti”, considerata la complessità di una figura come quella della poetessa così piena di sfumature e forse ancora mai compresa del tutto. Ecco allora che il libro nei 3 densi capitoli “procede per fotogrammi, zoom tematici, incursioni e continui ribaltamenti di prospettiva”: nell’inquadrare anche storicamente la Plath, l’autrice non può non considerare quanto la poetessa, le cui angosce sono perennemente riflesse in ogni suo scritto, manifestasse “un disagio di genere, un disagio sociale legato al sistema fortemente binario della società americana del secondo dopoguerra, che la voleva corpo femminile, normativo e convenzionalmente sottomesso”. Difficile, ed emozionante, anche l’analisi della produzione poetica, in cui Plath evidenzia un talento folgorante e un’ispirazione dolorosa e purissima: come scrive Giorgi, “c’è qualcosa nei suoi componimenti che resta alieno, misterioso e ineffabile, qualcosa che si svincola di continuo dalle gabbie ideologiche, le categorie estetiche e le etichette commerciali”.
Margaret Atwood Brevi scene di lupi. Poesie scelte (1966-2020)
a cura di Renata Morresi- Editore Ponte alle Grazie
Biografia di Margaret Atwoodè una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadesi. Laureata a Harvard, ha esordito a diciannove anni. Ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel perla Letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008), Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (vincitore del Booker Prize 2019), La donna da mangiare (2020), Lesioni personali (2021), e le raccolte di poesie Brevi scene di lupi (2020)e Moltissimo (2021), tutti usciti per Ponte alle Grazie. L’autrice vive a Toronto, in Canada.
Breve premessa-Per la prima volta Ponte alle Grazie offre al pubblico italiano una scelta delle poesie della grande scrittrice canadese, che abbraccia tutta la sua produzione, dal 1966 al 2020, ed è curata da Renata Morresi, una fra le più apprezzate poetesse italiane. «Essere accesa da dentro vena per vena essere il sole».
È pericoloso leggere i giornali
Mentre costruivo accurati castelli nel recintino di sabbia le fosse scavate alla svelta si riempivano di cadaveri spinti dai bulldozer e mentre andavo a scuola pettinata e linda, i miei piedi sulle crepe dell’asfalto detonavano bombe vermiglie.
Ora sono adulta e alfabetizzata, e siedo sulla mia sedia placida come un fuso
e si incendiano le giungle, il sotto- bosco si fa pesante di soldati, i nomi sulle mappe complicate salgono in fumo.
Sono io la causa, sono una massa di giocattoli chimici, il mio corpo è un congegno mortale, mi protendo con amore, le mie mani diventano pistole, le mie buone intenzioni sono del tutto letali.
Persino i miei occhi passivi trasmutano tutto ciò che guardo in una foto di guerra in bianco e nero come posso fermarmi?
È pericoloso leggere i giornali.
Ogni volta che batto un tasto su questa macchina elettrica per parlare di un placido albero
esplode un altro villaggio.
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Questa è una mia fotografia
È stata scattata qualche tempo fa. A prima vista sembra una copia sciupata: contorni sfocati e chiazze grigie fuse nella carta:
poi se la esamini, vedi nell’angolo a sinistra qualcosa come un ramo: parte di un albero (balsamina o abete) che affiora e a destra, a metà di quello che appare un dolce declivio, una piccola casa di legno.
Sullo sfondo vi è un lago, e oltre questo, basse colline.
(la foto è stata scattata il giorno dopo che annegai.
Io sono nel lago, al centro dell’immagine, appena sotto la superficie.
È difficile dire dove con precisione, o dire quanto grande o piccola io sia: l’effetto dell’acqua sulla luce inganna
ma se guardi abbastanza a lungo, alla fine riuscirai a vedermi).
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Moltissimo
È na parola antica, che va sbiadendo. Moltissimo volli. Moltissimo pregai. Io lo amai moltissimo.
Mi faccio strada camminando con attenzione, per via delle ginocchia malandate di cui mi frega assai meno di quanto possiate immaginare visto che esistono altre cose un pelino più importanti (aspetta e vedrai).
Ho in mano un mezzo caffè in una tazza di carta con – me ne rammarico moltissimo – un coperchio di plastica, cerco di ricordare cos’erano quelle parole un tempo.
Moltissimo. Com’era usata? Moltissimo amati. Moltissimo amati, siamo riuniti. Moltissimo amati, siamo oggi qui riuniti in questo album di foto dimenticate che ho ritrovato di recente.
Sbiadite ormai, color seppia, in bianco e nero, stampate a colori, ognuno di noi così tanto più giovane. Le Polaroid. Cos’è una Polaroid? Chiede il neonato. Neonato da un decennio.
Come spiegarlo? Tu scatti e la foto esce dalla parte rialzata. Alzata sopra cosa? Con quello sguardo perplesso che vedo di continuo. Così difficile da descrivere i dettagli più minuti di come – tutti questi moltissimo amati qui riuniti – di come vivevamo un tempo. Si incartava l’immondizia con la carta del quotidiano legata con un filo. Cos’è un quotidiano? Voi capite cosa intendo.
Il filo però, di filo ne abbiamo ancora. Lega le cose insieme. Un filo di perle. Ecco cosa ti dicono. Come tenere traccia dei giorni?
Ognuno splendido, ognuno separato, ognuno unico e finito. Li ho tenuti sulla carta in un cassetto, quei giorni, adesso svaniti. Le perle possono essere usate per contare. Come nei rosari. Ma non mi piace avere pietre intorno al collo.
Lungo questa strada ci sono molti fiori,
sbiaditi adesso ché è agosto, polverosi e diretti verso l’autunno. Presto i crisantemi fioriranno, i fiori dei morti, in Francia. Non pensare che questo sia morboso. Sono le cose come stanno.
Così difficile descrivere i dettagli più minuti dei fiori. Ecco gli stami, niente a che fare con gli umani. Ecco i pistilli, niente a che fare con le pistole. Sono i dettagli più minuti a ostacolare i traduttori e anche me, quando provo a descrivere. Capite cosa intendo dire. Tu puoi deviare. Tu puoi perderti. Lo stesso accade alle parole. Moltissimo amate, riunite qui insieme in questo cassetto chiuso, ormai sbiadite, mi mancate. Mi manca chi è mancato, chi è partito troppo presto. Mi mancano anche quelli che sono ancora qui. Mi mancate tutti moltissimo. Moltissimo rimpianto ho di voi.
Rimpianto: ecco un’altra parola che non senti più tanto spesso. Io rimpiango moltissimo.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Poesie tarde
Queste sono le poesie tarde. Quasi tutte le poesie sono in ritardo, ovvio: troppo tardi, come una lettera spedita da un marinaio che arriva dopo che è annegato.
Troppo tardi per essere di aiuto, certe lettere, e le poesie tarde non sono diverse. Arrivano come via mare.
Di qualsiasi cosa si tratti è già accaduta: la battaglia, il giorno di sole felice, il chiaro di luna che diventa voglia, il bacio d’addio. La poesia si arena sulla riva come un detrito.
Oppure tardi e la cucina è chiusa: tutte mangiate o fredde le parole. Galeotto, sorte e disfatto, o sospesi, attese e un poco, pensoso, dolente, desolata. Persino amore e gioia: vecchi canti pluri-masticati. Sortilegi arrugginiti. Ritornelli consunti.
È tardi, è molto tardi; troppo tardi per ballare. Allora, canta quel che puoi. Accendi la luce: canta ancora, canta: Ora.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Biografia di Margaret Atwoodè una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadesi. Laureata a Harvard, ha esordito a diciannove anni. Ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel perla Letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008), Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (vincitore del Booker Prize 2019), La donna da mangiare (2020), Lesioni personali (2021), e le raccolte di poesie Brevi scene di lupi (2020)e Moltissimo (2021), tutti usciti per Ponte alle Grazie. L’autrice vive a Toronto, in Canada.
Descrizione del libro di Lu Xun -Celebrato libro come il massimo scrittore cinese del Novecento e fra i creatori della lingua scritta contemporanea, Lu Xun è il più rappresentativo fra gli uomini colti che si riconoscono nella rivoluzione popolare. La presente raccolta costituisce un condensato della sua estesa produzione saggistica (sedici volumi di saggi e discorsi) e comprende testi scritti fra il 1918 e il 1936, anno della sua morte. I testi si situano in un periodo di profonde trasformazioni: la modernizzazione della società, la nuova centralità politica delle masse contadine e l’avanzare della rivoluzione socialista. Legati al tempo e all’occasione quotidiana (il trasformarsi dell’istituzione familiare, una descrizione di Shangai, il teatro moderno, i costumi sessuali, l’avvento della fotografia…), fanno emergere le contraddizioni fra realtà privata e condizione storica, fra l’esigenza immediata di felicità e la lotta sanguinosa «per il futuro», fra tradizione e distruzione, tipicità cinese e dimensione universale. Non solo, dunque, questi scritti sono un viatico prezioso per comprendere l’evoluzione della Cina nel Novecento; nella loro acutezza, essi acquistano altresì un’ampiezza di significato che va oltre i confini di un paese e di un periodo determinato: è nella contraddittorietà della vita, nella miseria, nell’oscurità di un mondo che cambia, che si definisce il rapporto reale tra la modernità e la tradizione cinese, per cui questa può rimanere viva solo a misura che se ne distrugga il dominio, solo nel dare a sé e alle cose nuova forma.
Indice
«Salvae i bambini» di Edoarda Masi
Nota biografica
Nota biobibliografica
Nota sulla pronuncia
Tavola cronologica sulle dinastie cinesi
La mia opinione sulla castità – Come oggi essere padri – Che cosa accade dopo che Nora se ne è andata – Prima che arrivi il genio – Il crollo della pagoda di Leifeng – Fotografie – I nemici della poesia – Il proposito di sacrificarsi – Note scritte sotto la lampada – A proposito di «Di sua madre!» – Del guardar le cose a occhi aperti – Lo «studio dei classici» del quattordicesimo anno – Di come si debba rimandare il fair play – Rose senza fiori – Rose senza fiori II – In memoria della signorina Liu Hezhen – Rose senza fiori III – Cina muta – Breve saggio sulla faccia dei cinesi – La letteratura di un’epoca rivoluzionaria – Qualche chiacchiera sulla lettura – Risposta al signor Youheng – Come scrivere – Noterelle – Sulla classe intellettuale – Sulla torre – Divergenza di letteratura e politica – Letteratura e rivoluzione – Scambio di lettere – Opinioni sulla nuova letteratura di oggi – La non rivoluzionaria fretta di rivoluzione – Opinioni sulla Lega degli scrittori di sinistra – Lo stato attuale del mondo letterario nell’oscura Cina – Compiti e destino della «letteratura nazionalista» – Sul soggetto nella narrativa. Lettera – Evviva i «lavoratori intellettuali» – Ricordo per dimenticare – Dalla satira allo humour – Dal piede delle donne cinesi si induce che i cinesi mancano al giusto mezzo. E da ciò si induce che Confucio aveva una malattia – Come cominciai a scrivere racconti – Ode alla notte – Ragazze di Shanghai – Passeggiata in una sera d’autunno – Su due o tre cose cinesi – Su delle fotografie di bambino – Che strano! – Che strano! II – Chiacchiere di un profano sulla scrittura – Caratteri cinesi e latinizzazione – Confucio nella Cina moderna – Su Dostoevskij – A proposito del nostro movimento letterario oggi – Risposta a Xu Mouyong e sul fronte unito antigiapponese – «Anche questa è vita»… – Morte
Indice storico
Indice dei nomi non cinesi
L’autore Lu Xun
Lu Xun, pseudonimo di Zhou Shuren (Shaoxing, Zhejiang, 1881 – Shanghai, 1936) narratore e poeta, saggista e critico letterario, è considerato il padre della letteratura cinese contemporanea, il primo ad aver scritto un racconto (Il diario di un pazzo) in cinese moderno, attingendo largamente dalla lingua parlata. Tra le sue opere ricordiamo Alle armi (1923), Errare incerto (1926), Storie rivisitate (1935). Oltre alla Falsa libertà, Quodlibet ha pubblicato Erbe selvatiche (2003), una raccolta di brevi testi riconducibili al sanwen, uno dei numerosi sottogeneri della vastissima tradizione letteraria cinese, al confine tra la prosa e la lirica.
Quodlibet srl via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi 23 62100 Macerata tel. +39 0733 26 49 65 / fax 0733 26 73 58
Sede di Roma: via di Monte Fiore, 34 00153 Roma tel. +39 06 5803683 / 06 5809672
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