Fabio Zuffanti -Sacre sinfonie. Battiato: tutta la storia-
-Editore IL CASTELLO-
Descrizione –Lo scrittore, critico musicale e musicista Fabio Zuffanti racconta Battiato in un’ampia biografia che si legge come un romanzo. Agevolato da una larga serie di interviste e dichiarazioni rilasciate da Battiato nel corso del tempo e dal contributo di diversi personaggi che lo hanno conosciuto e frequentato, il volume mostra l’evoluzione di un personaggio molto diverso dal “maestro” che tutti conoscono. Il viaggio comincia negli anni 40 del Novecento con l’infanzia in Sicilia, il rapporto con la famiglia e la scoperta della musica. Poi, nel 1964, il trasferimento a Milano, la gavetta, gli incontri, le grandi crisi e i pensieri suicidi, la sperimentazione, l’esperienza con le droghe, la scoperta del misticismo e della meditazione, le amicizie, l’affetto per la madre, la scelta di passare la vita da solo e il successo. Da qui tante altre esperienze lungo i decenni, con sfide sempre nuove che lo portano a confrontarsi con il cinema e la pittura, fino alla malattia e agli ultimi anni della sua vita.
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Il Castello è nata come derivazione della Menotti Libri, una agenzia libraria fondata nell’immediato dopoguerra da Aldo Menotti, che distribuiva le pubblicazioni di case editrici di Roma e del sud Italia.
Nel 1948 al figlio Mosè, che collaborava nell’agenzia, veniva l’idea di stampare un libro. Era l’epoca in cui si stava diffondendo il cinema passoridotto, e così nacque ilVademecum del cinedilettante, tradotto dall’inglese: 1000 copie (per prudenza), che furono vendute in 15 giorni. Un successo! E se ne fece una decina di ristampe.
Al Vademecum seguirono altri manuali di cinema, poi di fotografia e di pittura. Il Castello andava sempre più imponendosi perché non sbagliava un titolo.
Una nota curiosa che può spiegare il successo del Castello. Al signor Menotti furono preziosi l’esempio e i consigli di Italo Briano, un simpatico e validissimo editore genovese che stampava e legava i libri in casa, tutto da sé: titoli specializzati, poche copie, molto cari. “Tanto – diceva – , una tabella o una nozione di un mio libro valgono ben il suo prezzo! E poi vendo i libri al 25% di sconto, così i librai smetteranno di far sconti al pubblico! E per finire, regola base: qua le palanche, ecco il libro”. Che tempi!
Biografia di Anise Koltz è nata il 12 giugno 1928 nel quartiere Eich di Lussemburgo. Di nazionalità lussemburghese, unisce nelle sue vene ascendenze ceche, tedesche e belghe. La sua bisnonna materna, inglese, era lei stessa musicista e poetessa. A causa dell’occupazione nazista, Anise Koltz, all’epoca giovane laureata, fu spinta a orientarsi verso la cultura tedesca. Così le sue prime opere saranno scritte in questa lingua: Spuren nach innen e Steine und Vögel, le sue prime due raccolte, pubblicate nel 1960 a Lussemburgo e nel 1964 a Monaco. Dal 1966, tuttavia, i suoi testi fanno il loro ingresso nella prestigiosa collezione bilingue di poeti stranieri «Autour du monde» animata da Pierre Seghers: la raccolta, tradotta da Andrée Sodenkamp, ha per titolo Le cirque du soleil. Progressivamente, Anise Koltz passa al francese fino ad abbandonare del tutto, negli anni ‘80, la sua prima lingua letteraria. Con il succedersi delle raccolte – Den Tag vergraben, Nachahmung des Tages, poi Vienne quelqu’un, Fragments de Babylone, Le Jour inventé –, la sua voce poetica afferma la sua originalità. Nel 1963, Anise Koltz e suo marito, René Koltz, direttore della sanità pubblica del Granducato – che morirà prematuramente a causa delle torture inflitte dai nazisti –, hanno creato le Biennali di Mondorf: «L’esempio di questi Incontri, dice, mi è stato dato dalla mia famiglia, i Mayrisch di Saint-Hubert. Il loro scopo, come il nostro: essere un laboratorio, per quanto modesto, della costruzione di una società multiculturale.» Le Biennali, che dureranno fino al 1974, prenderanno un nuovo slancio dal 1995 al 1999 con le Giornate letterarie di Mondof. Esse si prolungano ancora oggi attraverso le manifestazioni organizzate dall’Académie Européenne de Poésie, presieduta da Anise Koltz, peraltro membro dell’Académie Mallarmé e dell’Institut Grand-Ducal des Arts et des Lettres.
Volo via
con i migratori
M’inserisco nel loro triangolo
Cacciate l’angelo al mio fianco
la sua ombra oscura la mia vita
Dietro il cielo
c’è un altro cielo
Je m’envole
avec les migrateurs
Je m’intègre dans leur triangle
Chassez l’ange à mes côtés
son ombre obscurcit ma vie
Derrière le ciel
il y a un autre ciel
*
Chi sono io?
non sono me
discendo da milioni di antenati
che vegetano nel mio sangue
Essi m’istruiscono
mi allenano a morire
respiro il loro respiro
Straniera per i miei genitori
il mio sangue si è caricato
di fantasmi
che guidano il mio destino
sperando
e disperando in me
Qui suis-je ?
je ne suis pas moi
je descends de millions d’ancêtres
qui végètent dans mon sang
Ils m’instruisent
ils m’entraînent à mourir
je respire leur souffle
Etrangère à mes parents
mon sang s’est chargé
de fantômes
dirigeant mon destin
espérant
et désespérant en moi
*
A volte le lettere cantano
nelle mie poesie
a volte accusano
o consolano
Immagini s’infrangono
si riformano
sogni che ci sognano
trasformando i nostri occhi
in laghi segreti
Parfois les lettres chantent
dans mes poèmes
parfois elles accusent
ou elles consolent
Des images se brisent
se refont
rêves qui nous rêvent
transformant nos yeux
en lacs secrets
*
Tra inizio e fine
la luce si è spenta
Un nome brucia da qualche parte
facendo vorticare il vento
che porterà via le mie ceneri
Entre commencement et fin
la lumière s’est éteinte
Un nom brûle quelque part
faisant tourbillonner le vent
qui emportera mes cendres
*
Il giorno inventa un altro giorno
spazio disseminato d’immagini
che si fanno e si disfano
Brandelli di sogni
strisciano sui nostri volti.
Avvenimenti hanno luogo
prima della loro comparsa
la realtà cambia giorno per giorno
Dove trovare il vero volto
del tempo?
Le jour invente un autre jour
espace parsemé d’images
qui se font et se défont
Des lambeaux de rêves
traînent sur nos visages.
Des événements ont lieu
avant leur apparition
la réalité change jour par jour
Où trouver le vrai visage
du temps ?
Anise Koltz
Biografia di Anise Koltz è nata il 12 giugno 1928 nel quartiere Eich di Lussemburgo.Di nazionalità lussemburghese, unisce nelle sue vene ascendenze ceche, tedesche e belghe. La sua bisnonna materna, inglese, era lei stessa musicista e poetessa. A causa dell’occupazione nazista, Anise Koltz, all’epoca giovane laureata, fu spinta a orientarsi verso la cultura tedesca. Così le sue prime opere saranno scritte in questa lingua: Spuren nach innen e Steine und Vögel, le sue prime due raccolte, pubblicate nel 1960 a Lussemburgo e nel 1964 a Monaco. Dal 1966, tuttavia, i suoi testi fanno il loro ingresso nella prestigiosa collezione bilingue di poeti stranieri «Autour du monde» animata da Pierre Seghers: la raccolta, tradotta da Andrée Sodenkamp, ha per titolo Le cirque du soleil. Progressivamente, Anise Koltz passa al francese fino ad abbandonare del tutto, negli anni ‘80, la sua prima lingua letteraria. Con il succedersi delle raccolte – Den Tag vergraben, Nachahmung des Tages, poi Vienne quelqu’un, Fragments de Babylone, Le Jour inventé –, la sua voce poetica afferma la sua originalità. Nel 1963, Anise Koltz e suo marito, René Koltz, direttore della sanità pubblica del Granducato – che morirà prematuramente a causa delle torture inflitte dai nazisti –, hanno creato le Biennali di Mondorf: «L’esempio di questi Incontri, dice, mi è stato dato dalla mia famiglia, i Mayrisch di Saint-Hubert. Il loro scopo, come il nostro: essere un laboratorio, per quanto modesto, della costruzione di una società multiculturale.» Le Biennali, che dureranno fino al 1974, prenderanno un nuovo slancio dal 1995 al 1999 con le Giornate letterarie di Mondof. Esse si prolungano ancora oggi attraverso le manifestazioni organizzate dall’Académie Européenne de Poésie, presieduta da Anise Koltz, peraltro membro dell’Académie Mallarmé e dell’Institut Grand-Ducal des Arts et des Lettres.
Alba de Céspedes – Portale Antenati e Dal registro alla Storia –
Alba de Céspedes (lba Carla Laurita de Céspedes )-nacque a Roma l’11 marzo 1911, da Laura Bertini Alessandrini, romana, e Carlos Manuel de Céspedes y Quesada, ambasciatore per Cuba in Italia.
Suo nonno era Carlos Manuel de Céspedes, un rivoluzionario che dal 1869 al 1873 fu presidente della Repubblica cubana e fautore dell’abolizione della schiavitù. A soli 15 anni, nel 1926, Alba sposò il conte romano Giuseppe Antamoro, per poi separarsene nel 1931.
Il contesto agiato e colto in cui crebbe le favorì un’educazione d’eccellenza, alimentando la sua vocazione per la scrittura e l’interesse per la politica, d’orientamento antifascista.
Sebbene fosse perfettamente bilingue in italiano e spagnolo, e conoscesse diverse altre lingue europee, per la sua produzione letteraria scelse l’italiano come lingua prevalente. Esordì nel 1935 con la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, L’anima degli altri, favorita anche dalla solida amicizia con Arnoldo Mondadori. Nel 1938, invece, pubblicò il suo primo romanzo, Nessuno torna indietro, con il quale vinse il Premio Viareggio l’anno successivo, che tuttavia le fu revocato per volere di Mussolini, a causa della sua militanza antifascista, che le era costata anche alcuni giorni di carcere.
I suoi scritti erano animati da un’attenta cura stilistica, tesa a una letteratura di qualità, in cui la forma era sempre accompagnata da uno spessore dei contenuti e una riflessione profonda su questioni etiche e sociali.
Durante la Seconda guerra mondiale, fu parte attiva della Resistenza partigiana operando con il nome di battaglia “Clorinda”.
A partire dal 1944, fondò e diresse la rivista Mercurio, che divenne un importante punto di riferimento per l’intellettualità italiana durante gli anni del dopoguerra, grazie anche alla collaborazione di penne di gran pregio. La rivista chiuse quattro anni più tardi, nel 1948. Da quel momento in poi, de Céspedes cominciò a collaborare con varie testate, come Epoca e La stampa di Torino.
Negli anni successivi, tra Roma, Cuba e Parigi, si dedicò intensamente alla scrittura, pubblicando numerosi romanzi, spesso ricchi di elementi autobiografici: l’insoddisfazione sentimentale, l’educazione femminile e la lotta per l’identificazione personale e collettiva. Tra i tanti titoli, si ricordano: Dalla parte di lei (1949), Quaderno proibito (1952), Prima e dopo (1955) e Il rimorso (1962).
L’ultimo suo lavoro, rimasto incompiuto, è un racconto autobiografico scritto tra gli anni Ottanta e Novanta, dedicato a Fidel Castro e alla Rivoluzione cubana, pubblicato postumo nel 2011 da Mondadori in occasione del centenario della sua nascita.
Alba de Céspedes morì a Parigi il 14 novembre 1997 dopo una lunga malattia.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma, Stato civile italiano, Roma, 1911
Il suo archivio personale (1876 – 1997), che consta 136 buste, circa 2100 fotografie e 4122 tra libri e opuscoli, è conservato presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori.
Fonte-Direzione generale Archivi – Ministero della Cultura
Descrizione del libro di Simona Colarizi per “Le smanie per la villeggiatura”Il caldo dell’estate del 1968 riusciva laddove aveva fallito la forza pubblica: alla spicciolata gli studenti lasciavano le aule dell’università dove si erano barricati dopo la prova di forza in difesa della facoltà di architettura a Roma. Sgomberata dalla polizia per ordine del rettore D’Avack e di nuovo rioccupata, per gli studenti era diventata un simbolo della contestazione che ormai da due anni aveva messo a soqquadro gli atenei di tutta Italia. Così nel marzo un corteo di 4000 giovani si avviava in due direzioni: una parte raggiungeva la Facoltà di Architettura a Valle Giulia, un’altra forzava i cancelli dell’Università centrale. Era però tra Villa Borghese e le vie adiacenti dei Parioli, il quartiere privilegiato dalla borghesia benestante della capitale, l’epicentro degli scontri con i “celerini”, i reparti della PS dalla mano pesante, i più odiati dagli studenti.
Nell’immaginario dell’epoca era stata una vera battaglia, la “battaglia di Valle Giulia”, con lanci di sassi e manganellate, cariche della polizia e fughe dei dimostranti. D’altra parte della città si scatenava la rissa nella sede centrale sotto le finestre di Giurisprudenza, occupata dagli studenti dell’estrema destra, e sulla scalinata della Facoltà di Lettere, quartier generale degli studenti di sinistra; gli uni e gli altri decisi a difendere i propri spazi che la fazione opposta voleva conquistare. Queste giornate della primavera 1968 avevano suscitato clamore in tutto il paese anche per la condanna contro gli studenti “figli di papà”, lanciata da Pier Paolo Pasolini nella famosa poesia “Il Pci ai giovani”. E tra quei giovani della sinistra c’erano ragazzi destinati a diventare intellettuali ed editorialisti di peso nella vita politica italiana nei decenni successivi.
Da mesi non c’era stato un giorno di tregua negli atenei di tutta Italia dove si sperimentavano lezioni alternative ai vecchi corsi, si sospendevano le sedute di laurea e gli esami, si mettevano al bando i professori che resistevano alle innovazioni didattiche imposte dagli studenti. Si chiedeva in sostanza un rinnovamento profondo nei saperi, un ricambio dei docenti, una trasformazione delle vecchie strutture insufficienti a contenere la crescita della massa studentesca, soprattutto si voleva abbattere il vecchio Gotha accademico che esercitava un potere assoluto, autoritario e opaco. Insomma, gli studenti chiedevano la riforma delle università rimaste quelle dell’epoca fascista, con le stesse regole e con gli stessi professori; università elitarie dove accedevano solo i figli della borghesia, mentre restava ferma al 3% la percentuale degli studenti provenienti dai ceti sociali più bassi.
Riforme non rivoluzione dunque: il cuore della contestazione sessantottina era ancora democratico, ottimista, dissacrante e allegro, una fase speciale nella vita delle giovani generazioni – e persino delle studentesse – che sperimentavano nuove libertà e trasgressioni, violando codici familiari e accademici consolidati nei secoli. Così sarebbe stata anche la lunga estate del 1968, “l’ultima estate dell’innocenza”, prima che prendessero la direzione del movimento i nuclei politici di estremisti votati alla rivoluzione e nell’estrema destra si cominciasse a teorizzare la strategia della tensione. In pochi si erano resi conto che i primi semi della violenza avevano già cominciato a mettere radici quanto più gli obiettivi della riforma universitaria si sommavano alla critica dell’intero sistema politico italiano e internazionale occidentale, quelle democrazie nate dopo il secondo conflitto mondiale ma rimaste prigioniere della guerra fredda; fredda in Europa, ma calda in altre parti del mondo, e le dimostrazioni contro l’intervento americano in Vietnam erano state l’incubatrice dell’aggregazione studentesca già negli anni precedenti il Sessantotto.
Al salto di qualità nella politica aveva concorso un evento chiave per capire l’evoluzione della contestazione. Nel 1968, due mesi dopo gli scontri a Valle Giulia, era esploso il “maggio francese” che aveva fatto del quartiere latino parigino la meta prediletta dei più avventurosi contestatori italiani ed europei. Un vero e proprio “pellegrinaggio”, in realtà l’anticipo di vacanze all’estero mai sperimentate fino a quel momento dai tanti giovani che si raccoglievano davanti a “Sciences Po” scandendo in una confusione di lingue gli stessi slogan: “L’immaginazione al potere”, “Tutto e subito”, “Joussiez sans entraves” e tanti altri dipinti a grandi lettere sulle pareti delle università, come la scritta “Il est interdit d’interdire” che campeggiava sulla facciata della Sorbonne.
Per quasi un mese agli occhi dei giovani, Parigi era apparsa l’epicentro di una vera e propria rivoluzione che aveva allarmato anche le autorità francesi già in allarme per le continue manifestazioni delle masse operaie alle quali si univano adesso i cortei degli studenti. Da tempo in Francia il mondo del lavoro era percorso da agitazioni sempre più incontenibili, culminate appunto nel maggio in uno sciopero generale di tale portata da riportare alla memoria i moti del ’34. Barricate per le strade, banlieue in rivolta, fabbriche chiuse da Calais a Marsiglia. Studenti e operai avevano sfidato insieme il potere del generale De Gaulle, il quale non sarebbe però arretrato di un passo, soffocando rapidamente le scintille incendiarie.
Col passare dei giorni l’ondata di protesta rifluiva ovunque pacificamente, complice l’arrivo dell’estate. I giovani partivano per i luoghi canonici di villeggiatura al mare, in montagna, in collina; ma questa volta in tanti sceglievano mete oltre frontiera, ancora largamente sconosciute dagli studenti italiani rimasti alquanto provinciali, come il resto della popolazione. Adesso però partivano in gruppo, quasi non volessero spezzare il filo di continuità con la vita collettiva sperimentata nelle occupazioni; una vita intensa e gioiosa, la stessa che avrebbe caratterizzato tutti i mesi estivi. Giugno, luglio, agosto e settembre – quella calda estate che sembrava non avesse mai fine – passavano così, all’insegna delle nuove amicizie strette nel corso delle lotte nelle università. Sarebbe stata per tutti una tappa importante nell’esistenza privata e nella crescita civile e culturale dei sessantottini che rompevano i rituali delle tradizionali vacanze trascorse con le famiglie nelle case al mare o in montagna. La parola d’ordine diventava il viaggio in Europa dove in tutto l’Occidente e persino a Praga nell’impenetrabile mondo sovietico, i loro coetanei stavano anch’essi ribellandosi contro il vecchio mondo accademico e più in generale contro l’intera struttura di società classiste, rimaste ancorate a poteri autoritari nel pubblico e nel privato.
Certo, il sogno sarebbe stato quello di varcare l’oceano e arrivare fino alla West Coast degli Stati Uniti, dove tutto aveva avuto inizio. Ma con un sacco a pelo sulle spalle si poteva arrivare ovunque nelle capitali europee e nei luoghi più ameni ancora sconosciuti, sentendosi un po’ hippies e un po’ i motociclisti di “Easy rider” – un film cult per la generazione del ‘68. In assenza della moto, c’erano i treni o le automobili dei compagni prestate dai papà dei più ricchi, che venivano caricate fino all’inverosimile: cinque sei persone, pigiate una sull’altra, insieme a poche magliette di ricambio e tanti viveri, in genere una quantità di pacchi di pasta che i compagni degli altri paesi imparavano adesso a gustare usando il cucchiaio, incapaci di arrotolare sulla forchetta i famosi spaghetti.
L’intero mondo della contestazione europea si incontrava in queste vacanze con gli stessi rituali già messi in atto nelle università occupate: discussioni interminabili in tutte le lingue alla ricerca di un idioma comune – in genere il francese, rimasta ancora la lingua più conosciuta in Europa come all’epoca delle generazioni precedenti; tante letture da condividere, ma soprattutto i testi marxisti diventati la nuova Bibbia, e i saggi dei sociologi di Francoforte e di Marcuse, eletto a vate dell’anti consumismo. Non tutti ne comprendevano il significato, ma nessuno voleva confessare di non averlo letto. Tutti invece conoscevano le canzoni intonate a sera negli accampamenti in riva al mare, nei boschi e nelle valli dove si alzavano le tende, si accendevano i fuochi e risuonavano alti i cori partigiani – su tutti “Bella ciao” – che davano l’illusione ai giovani di rinverdire la missione dei resistenti in lotta contro il nazi-fascismo.
Gli “spinelli” enfatizzavano l’allegria contagiosa e i tanti amori sbocciati nel clima gioioso e irresponsabile della nuova libertà sessuale. Le ragazze italiane misuravano la repressione subita da sempre guardando le coetanee dei paesi del Nord, così disinibite nei rapporti con i maschi. Le imitavano indossando jeans – da allora una divisa d’ordinanza – ma anche tuniche folcloristiche orientaleggianti dai mille colori; si mostravano senza reggiseno sulle spiagge in un estremo gesto di sfida al pudore che le voleva sottomesse alle regole dettate dai padri, dalle madri, dalla Chiesa. La rivoluzione femminista, anche se non ancora ufficialmente dichiarata, in Italia cominciava in questa estate del ’68 che nessuno avrebbe voluto finisse mai. In questi mesi i giovani avevano costruito in miniatura un mondo senza confini geografici, né barriere culturali dove regnava una nuova fratellanza e c’erano sempre sole e caldo, dove si viveva con poco, ci si divertiva un sacco e sembrava scomparso l’universo dei doveri, degli obblighi, delle responsabilità.
Eppure l’autunno si avvicinava inesorabile. Il 1969 non sarebbe stato identico all’anno precedente: il ricambio nelle file degli studenti è sempre rapido. La permanenza all’università per chi intendeva concludere i suoi studi, durava meno di cinque anni e i più maturi che da tempo guidavano la contestazione, si avviavano sulla strada del lavoro dove avrebbero portato il vento del cambiamento e della modernizzazione. Alcuni però restavano in campo, decisi a continuare una battaglia i cui connotati politici acquistavano una valenza ideologica sempre più estrema. Il mito della classe operaia rivoluzionaria che dopo il maggio francese si era diffuso oltre i circoli intellettuali marxisti-leninisti e operaisti, avrebbe alimentato nei gruppuscoli extra parlamentari l’illusione di una rivoluzione sociale possibile. Una sfida immediatamente raccolta dall’estrema destra che da tempo si preparava a una contro-rivoluzione preventiva, come già era affiorato nel ‘64 con la vicenda del SIFAR. Con il nuovo anno si sarebbe aperta un’altra stagione di cortei e di occupazioni nelle Università; ma qualcosa era cambiato: c’era più rabbia, meno allegria, meno improvvisazione. Il sole dell’estate si era oscurato, il freddo aveva cominciato a mordere, e, nel dicembre del ‘69, con la strage di Piazza Fontana a Milano iniziava la notte della Repubblica.
Simona Colarizi
Simona Colarizi è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue ultime pubblicazioni, Storia del Novecento italiano (Milano 2000). Per i nostri tipi, tra l’altro, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940 (a cura di, 1977), Dopoguerra e fascismo in Puglia. 1919-1926 (19772), Biografia della prima Repubblica (19982), L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943 (20002) e, con M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi , il partito socialista e la crisi della Repubblica (20062).
Cenni biografici di Claribel Alegría si laurea a Washington in filosofia e letteratura, poi torna nel suo Paese e aderisce al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, movimento di ispirazione marxista, partecipando alle manifestazioni non violente contro il dittatore Somoza.
Nel frattempo Claribel diviene poetessa e scrittrice, pubblicando opere tra raccolte poetiche, saggi, romanzi e libri per bambini, fino a essere considerata tra le maggiori esponenti della letteratura del Centro America e venendo candidata al premio Nobel nel 2016.
“Sua maestà, la regina della poesia” si spegne a Managua nel 2018.
Testamento-
Ai miei figli
“Vi lascio una scala
traballante
incompiuta
con qualche scalino rotto
alcuni marci
e più di uno
intero.
Riparatela
mettetela in piedi
saliteci sopra
salite
fino a toccare la luce.”
Da Alterità
(traduzione di Daniela Ruggiu)
Otredad
Me gustan los espejos
porque observo
a la otra
que se quita la máscara y me reta.
Alterità
Mi piacciono gli specchi
perché osservo
l’altra
che si toglie la maschera e mi sfida.
Lluvia
Te escucho
lluvia
te escucho
y sé que te escucharé
cuando empapes
mis cenizas
bailando sobre mi tumba.
Pioggia
Ti ascolto
pioggia
ti ascolto
e so che ti ascolterò
quando impregnerai
le mie ceneri
ballando sulla mia tomba.
Da Voci
(traduzione di Zingonia Zingone e Marina Benedetto)
La tortuga
En mi caparazón
llevo cincelado
el universo
me pesa tanto y más
apenas puedo dar
pasos cortitos
y hundo la cabeza
cuando pienso
que no tengo las llaves
para abrirlo
y escaparme lejos
y reírme desnuda
entre la hierba.
La tartaruga
Sul mio guscio
porto cesellato
l’universo
mi pesa così tanto
a stento posso fare
qualche passettino
e nascondo la testa
quando penso
che non ho le chiavi
per aprirlo
e fuggire lontano
e ridere nuda
in mezzo all’erba.
La rosa
No quiero desprenderme
de mi tallo
uno a uno
se me caen los pétalos
pero siempre hay perfume
en los que viven
y yo los desafío
desafío al perfume
a escaparse
a saturar el aire
a columpiarse
a ungir mi cadáver
mientras caigo.
La rosa
Non voglio staccarmi
dal gambo
uno a uno
cadono i miei petali
ma il profumo persiste
in quelli vivi
e io li sfido
sfido il profumo
a fuggire
a saturare l’aria
a volteggiare
a ungere il mio cadavere
mentre cado.
Testamento A mis hijos
Les dejo una escalera
tambaleante
inconclusa
tiene peldaños rotos
otros están podridos
y más de alguno
entero.
Repárenla
elévenla
suban por ella
suban
hasta tocar la luz.
Testamento Ai miei figli
Vi lascio una scala
traballante
incompiuta
con qualche scalino rotto
alcuni marci
e più di uno
intero.
Riparatela
mettetela in piedi
saliteci sopra
salite
fino a toccare la luce.
Claribel Alegría
Claribel Alegría è una delle voci poetiche più vitali, puntuali, chiare e belle del novecento ispanoamericano. Nata in Nicaragua nel 1924 e cresciuta in El Salvador, amava dirsi “salva-guense”, forse per non fare torti né alla madre salvadoregna né al padre nicaraguense. Fin da bambina sognava di diventare una scrittrice e in cuor suo sapeva che un giorno sarebbe stata famosa. Forse per questo, quando ha ricevuto a 93 anni, dalle mani della regina di Spagna, la più importante onorificenza poetica della lingua spagnola – il “Premio Reina Sofía de poesía iberoamericana” – la Alegría, conosciuta in Centro America come “Sua Maestà, la regina della poesia”, sorrideva soddisfatta e raggiante, e si muoveva a perfetto agio nel Palazzo Reale. Quel giorno nei suoi occhi brillava una luce fanciullesca, anche se sapeva già di aver compiuto la sua missione letteraria – con oltre 30 titoli pubblicati tra raccolte poetiche, romanzi, saggi e libri per bambini – e di vita, e che presto sarebbe tornata a casa sua, in Nicaragua, per affrontare il salto verso l’ignoto.
La vita di Claribel è stata sin dall’infanzia segnata da incontri con persone di grande statura intellettuale. La casa dei suoi genitori, nella macondiana cittadina di Santa Ana, era frequentata da personaggi di rilievo come il poeta e sacerdote nicaraguense Azarías H. Pallais e il filosofo messicano José Vasconcelos. Quest’ultimo, avvertendo il potenziale dell’irrequieta Claribel che declamava Darío e citava Rilke, convinse il padre a mandarla a New Orleans a completare gli studi liceali. In seguito, nel 1943 Claribel si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia presso la George Washington University dove si laureò nel 1948. Quello stesso anno, con l’aiuto del suo severissimo mentore, il Premio Nobel spagnolo Juan Ramón Jiménez, uscì la sua prima raccolta di poesie di stampo lirico intitolata Anillo de silencio. Sempre in quel periodo la Alegría conobbe il giornalista e diplomatico americano Darwin Flakoll, detto “Bud”, con il quale si sposò ed ebbe quattro figli. I giovani sposi abitarono in diversi paesi del Sudamerica e strinsero amicizia con i maggiori esponenti del mondo letterario contemporaneo, come ad esempio Julio Cortázar, Mario Benedetti, Juan Rulfo e Mario Vargas Llosa. Insieme, Claribel e Bud, detti “Claribud”, debuttarono come coppia letteraria raccogliendo queste ed altre voci promettenti in un’antologia bilingue che venne pubblicata con il titolo New Voices of Hispanic America (Beacon Press, 1962).
Dopo aver girovagato per l’America Latina, la famiglia si spostò a Parigi, dove Claribel conobbe altri illustri scrittori come Carlos Fuentes, Octavio Paz e Italo Calvino, e in seguito a Mallorca, nel piccolo villaggio bohémien di Deià, residenza dello scrittore britannico Robert Graves del quale divennero vicini di casa. In seguito a questa amicizia, Claribel e Bud tradussero in spagnolo e una raccolta di cento poesie di Graves che venne pubblicata in Spagna.
La maggior parte degli intellettuali latinoamericani che frequentava la Alegría in Europa si trovava in esilio a causa delle dittature nei loro paesi. Questo la spinse ad interessarsi alla situazione cubana e a maturare convinzioni politiche di sinistra. La sua poesia abbandonò il lirismo a favore di uno stile più asciutto e tagliente, dai toni e contenuti engagé. Successivamente, in seguito al trionfo della rivoluzione sandinista in Nicaragua nel 1979, Claribel e Bud decisero di stabilirsi definitivamente in Nicaragua e scrissero di nuovo a quattro mani libri che narravano le tormentose vicende delle dittature centroamericane. Il periodo di lotta pacifica e intenso impegno politico e sociale, andò avanti fino alla morte di Bud, nel 1995. Questo evento scosse immensamente Claribel, la quale, nonostante l’assidua e amorosa presenza dei figli, si sentiva abbandonata e incapace di colmare il terribile vuoto che aveva lasciato il marito. Strinse a sé la poesia come una tavola di salvezza (Cerco / cerco / ricerco / e non so quel che cerco / ma è questo cercare / che mi mantiene viva / e mi sprona) e si tuffò a capofitto nei temi centrali dell’esistenza umana: l’amore, la perdita, il dolore, il desiderio, la morte e la speranza.
Circondata da figli, nipoti, pronipoti e amici, Claribel ha continuato a scrivere fino alla fine dei suoi giorni. Già nel 2015 pensava di aver concluso il suo lavoro con la pubblicazione di Voci (Samuele Editore), che contiene una poesia-testamento diretta ai figli, ma all’improvviso quello stesso anno si è trovata a scrivere un lungo poema dedicato a Bud, Amore senza fine (Fili d’Aquilone, 2018). Con questo libro Claribel si lancia oltre la morte alla ricerca dell’amato tra abissi, spettri e mostri, e nella speranza trionfa l’Amore. Così, il 25 gennaio 2018, Sua Maestà Claribel Alegría si è spenta a Managua, con il sorriso sulle labbra e i figli intorno al letto. Sul suo comodino dei fogli sparsi, forse l’abbozzo di una nuova poesia.
Quando mi ucciderai / Morte / tu / per me / sarai evaporata / per sempre / io / salterò sul mio corpo / e continuerò a vivere. Claribel lascia al mondo un’opera ricca, originale, profonda ed efficace; e il suo spirito ironico e vispo che balza fuori dai versi per ricordarci che la vita va vissuta fino in fondo e con coraggio.
Sono numerosissimi i premi internazionali ottenuti da Claribel Alegría durante la sua lunga carriera poetica. Spiccano, oltre al “Premio Reina Sofía de Poesía Iberoamericana”, il premio “Casa de las Americas” conferitole a Cuba nel 1978 e il “Neustadt International Prize for Literature” del 2006. In Italia si è aggiudicata il “Premio Camaiore Internazionale” nel 2016 ed è stata insignita della commenda dell’Ordine della Stella della Solidarietà nel 2010.
Daria Menicanti è stata una Poetessa, insegnante e traduttrice italiana. In lei si mescolano il registro sarcastico e ironico e quello più sottile della malinconia. Per Lalla Romano la sua era “una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
ESTIVA
*
Ogni sera le madri dai balconi
chiamano i figli con urli soavi.
Cadono i nomi gridati nel buio
come stelle filanti. Ad uno ad uno
tornano con le bluse a quadrettini
le gonnellette alte una spanna i teneri
re,le regine.
Daria Menicanti, il “grillo” che ha cantato Milano
“Io mi sento il palloncino fuggito dal suo grappolo”
Da bambina la chiamavano grillo, un soprannome che ha conservato per tutta la vita e che a volte disegnava accanto alla sua firma. Un nomignolo profetico per chi del canto ha fatto la sua voce. Daria Menicanti è una delle poetesse italiane dimenticate da riscoprire.
A Piacenza c’è nata “per caso” in quel 6 aprile del 1914 perché sentiva di avere un destino legato al mare viste le origini livornesi e fiumane dei genitori. Il padre aveva studiato con Pascoli che nutriva speranze nel promettente poeta. Lui scelse però di studiare legge e lavorare prima come assicuratore a Trieste e poi come bancario in diverse città del Nord. In seguito fu costretto a cambiare molti lavori per le difficoltà dovute al suo antifascismo e la famiglia si spostò spesso seguendolo.
Daria era la sesta figlia, l’ultima, la più vezzeggiata, la più capricciosa, mingherlina ma con un carattere molto risoluto. I rapporti con la famiglia furono sempre burrascosi, specie col padre spesso assente. Non disse a nessuno che si laureava e nessuno invitò al suo matrimonio, pochi mesi dopo. Dopo le nozze in Comune tornò semplicemente a casa, riempì una borsa e se ne andò dicendo “stasera non vengo a casa perché mi sono sposata”, ricorda la nipote Lucia.
A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dispari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.
Daria è una persona schiva e solitaria e i primi anni li vive nella stessa “campana di vetro” di cui parla Sylvia Plath, che avrebbe poi tradotto nel 1968. È di salute cagionevole perciò non va a scuola e studia a casa seguita dalla sorella maggiore Trieste. Inizia a frequentare la scuola pubblica solo alle superiori iscrivendosi al Liceo Ginnasio Berchet di Milano. Continua gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia e ha come compagni di corso Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Enzo Paci. Si laurea in estetica con Antonio Banfi e una tesi sulla poetica di Keats. Proprio quel Banfi che creerà intorno a sé la “scuola di Milano”.
Lo sbocco naturale della sua formazione è l’insegnamento e per tutta la vita Daria Menicanti insegna nella scuola media, diventando in seguito anche preside. Ma il suo lavoro culturale è più ampio. Dagli Anni 30 in poi compone poesie, scrive sulle riviste letterarie e traduce, traduce moltissimo, specialmente dall’inglese e dal francese: John Henry Muirhead, Paul Nizan, Betty Smith, Noel Coward, Nelly Sachs, Paul Geraldy, Sylvia Plath. Le traduzioni servono da laboratorio per la definizione della lingua poetica anche se Daria ha tradotto soprattutto prosa, e specialmente filosofia. “La vita dello scriba è una manciata / di sillabe e vocali e consonanti / e di allitterazioni”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Dopo tanto silenzio
mi arriva di lontano
festante, fragorosa
una banda di rime,
di assonanze.
Le corro incontro
felice
fino sull’angolo.
L’impronta filosofica resta sempre forte nella sua scrittura. La sua poesia non si lascia andare mai al sentimentalismo ma è sempre frutto della lucida riflessione propria della filosofia. Eppure non è mai fredda, distante, anzi si interessa alla più piccola realtà, inclusi animali e piante, tanto cari alla poetessa.
È ancora capace di infanzia
il tronco ficcato sul cuore
della città. Una luce d’alba gli esce
dai rami, ai piedi gli si affolla
un subbuglio di verde.
A un vento improvviso lo zampillo
della fontana gira verso il tronco
assentendo approvando: – D’accordo,
sussurra, la vita
può essere ancora bella
“Il razionalismo per me è sempre stata una vocazione. Pensa che tempo fa mi dicevo che ero una illuminista” dice in una intervista parlando della sua poesia come dell’“irrazionale espresso razionalmente”. A radicare la sua opera creativa nel razionalismo filosofico ha contribuito l’amore per Giulio Preti, anche lui filosofo della scuola banfiana. Si sposano nel 1937 ma il matrimonio è burrascoso. Finisce nel 1954 ma restano legati da una profonda amicizia.
Poeta
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice
Le amicizie di Daria si contano sulle dita di una mano ma sono per sempre. Lalla Romano, collega a scuola, diventa la sua più cara amica e di lei dice che “aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”. Anche Vittorio Sereni è un punto di riferimento importante, sia personale che professionale. Ogni domenica la poetessa va a pranzo dai Sereni e dà alle loro figlie lezioni private di greco e latino.
Alla poesia si avvicina già negli anni dell’Università ma è ancora qualcosa che tiene per sé. È negli Anni 50, e soprattutto dopo il definitivo trasferimento a Milano, che si dedica alla poesia innestandola a fondo nella sua città.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Nel 1964 esce per Mondadori la prima raccolta, Città come, che vince il premio Carducci. Nella prestigiosa collana Lo Specchio saranno pubblicate anche Un nero d’ombra nel 1969 e Poesie per un passante nel 1978. Il direttore della collana era Sereni e nel 1982 aveva già approvato un volume in attesa di pubblicazione, Ferragosto. Ma nel 1983 l’amico muore improvvisamente e Mondadori fa un passo indietro comunicandole per lettera che non sarà più pubblicata. Uno sgarbo che Daria non digerirà mai. Da allora in avanti la poetessa affida le sue raccolte a editori più piccoli: Altri amici, un bestiario poetico dedicato agli animali da Daria tanto amati, esce nel 1986; Ferragosto, considerata dall’autrice la sua opera migliore, vede le stampe nello stesso anno; Ultimo Quarto nel 1990.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Lucciola
Fu per come esitava che l’amai
subito
e colsi quel seme di luce
stringendo le due palme.
Ma come ci guardai gelosa, buio
era tornato il bel fuoco,
ombra con ombra
pace
Dopo l’ultima raccolta continua a scrivere anche se le sue condizioni fisiche e psichiche vanno peggiorando rapidamente, fino alla morte appena 5 anni dopo. Sulle poesie inedite ha lavorato febbrilmente, correggendo e limando continuamente i versi come testimoniano i taccuini scritti a matita. Un lavorio continuo che passa al setaccio della ragione tutti i moti dell’animo e li distilla.
Di qua la vita e da quell’altra parte
la morte e in mezzo l’uomo
in stato di assedio
La sua poesia si è nutrita di minime situazioni quotidiane, di silenzi e inquietudini, piccole epifanie, di vissuto cittadino popolato da personaggi che qualche volta Daria sembra orchestrare sulla scena come una abile regista. Quando parla di se stessa si definisce un “camaleont poet” come il suo amato Keats.
Ma sono – oltre che me – sono sul guscio
d’un fiore il mite grillo
dell’estate inquilino –
o l’urlo abbandonato dell’ossesso
sul marciapiede riverso –
Nella sua opera si passa dal tratto nostalgico e struggente a quello ironico e tagliente, dalla riflessione filosofica sulla vita al ritratto dei reietti metropolitani. La città è sempre presente, se non da protagonista come sfondo attivo.
Me ne vo con un gran coltello infisso
nel petto, il manico fuori.
Me ne vado tranquilla e bianca. Un vigile
col fischio mi richiama: – Il coltello,
mi grida, il coltello! –
Par proprio che la lama
superi le misure della legge.
Così mi fermo e pago
l’ennesima contravvenzione
E spesso presente è il cuore, anche se non viene quasi mai nominato direttamente ed è sempre mediato dall’intelletto. Non c’è sentimentalismo fine a se stesso ma riflessione lucida e acuta sulle ragioni del cuore.
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
L’hanno paragonata a Umberto Saba e Sandro Penna ma a lei piaceva di più far riferimento ai poeti classici, specialmente a Orazio e Marziale, a cui si ispirano anche i suoi fulminanti epigrammi.
Dopo tanto odio ti ricordo infine
con animo fraterno
e ti perdono
il bene che mi hai fatto
(Le poesie e le citazioni sono tratte da Il concerto del grillo: l’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, Mimesis)
poesia di Natalia Ginzburg–“Gli uomini vanno e vengono”-
Natalia Ginzburg-Era il dicembre del 1944 quando Natalia Ginzburg pubblicò questa poesia scritta in memoria di suo marito Leone Ginzburg morto nelle carceri di Roma il 5 febbraio 1944, ferocemente ucciso dalla Gestapo.
Gli uomini vanno e vengono
per le strade della città
Comprano libri e giornali,
muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso,
le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo
per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo
con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta.
Era il viso consueto,
solo un poco più stanco.
E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre.
E le mani erano quelle che
spezzavano il pane e
versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo
che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso
per l’ultima volta.
Se cammini per strada
nessuno ti è accanto
Se hai paura
nessuno ti prende per mano
E non è tua la strada,
non è tua la città.
Non è tua la città
illuminata. La città
illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno
e vengono comprando
cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco
alla quieta finestra
a guardare il silenzio,
il giardino nel buio.
Allora quando piangevi
c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi
c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera
s’apriva, resterà chiuso
per sempre, e deserta
è la tua giovinezza.
Spento il fuoco,
vuota la casa-
Biografia di Natalia Ginzburg
Natalia Ginzburg
Natalia Ginzburg,Scrittrice italiana (Palermo 1916 – Roma 1991); sposò in prime nozze L. Ginzburg, in seconde G. Baldini. Formatasi nell’ambiente degli intellettuali antifascisti torinesi, esordì nel 1942 con un racconto lungo, La strada che va in città, uscito, per ragioni razziali, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte; pubblicò poi altri racconti lunghi (È stato così, 1947; Valentino, seguito da Sagittario, 1957; Le voci della sera, 1961; poi raccolti, con il precedente, in Cinque romanzi brevi, 1964; Famiglia, 1977), alcuni romanzi (Tutti i nostri ieri, 1952; Caro Michele, 1973; La città e la casa, 1984), due volumi fra il saggio e il racconto autobiografico (Le piccole virtù, 1962; Lessico famigliare, 1963) e uno che si colloca invece tra il saggio e il romanzo (La famiglia Manzoni, 1983). La sua narrativa, che per qualche aspetto risente di quella di C. Pavese, mira a rendere con distacco oggettivo una realtà quotidiana, quasi di cronaca, colta nel suo fluire; ed è venuta approfondendo in senso psicologico il proprio campo d’osservazione etico-sociale, che ha al centro una o più figure di donne “sacrificate”, ma accettanti animosamente il loro destino. La G. scrisse anche per il teatro (Ti ho sposato per allegria, L’inserzione, La segretaria, Paese di mare, ecc., riunite nei voll. Ti ho sposato per allegria e altre commedie, 1966, e Paese di mare, 1973) e pubblicò raccolte di articoli e saggi (Mai devi domandarmi, 1970; Vita immaginaria, 1974). Dopo le Opere (2 voll., 1986-87), sono apparsi la commedia L’intervista (1989) e il breve saggio Serena Cruz e la vera giustizia (1990). Dal 1983 fu deputata della Sinistra indipendente. Nel 2016, nella ricorrenza del centenario della nascita, è stata edita a cura di D. Scarpa la raccolta di testi per lo più inediti Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988.Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana.
Leone e Natalia Ginzburg
Natalia Levi Ginzburg-Palermo 1916 – Roma 1991Articolo di Laura Balbo
La sua vita ha attraversato eventi storici difficili, pesantissime tragedie personali. Cresce a Torino in un ambiente intellettuale e antifascista: continui controlli della polizia, la prigione che tocca diversi membri della sua famiglia, tra cui il padre e alcuni dei fratelli. Sono anni che sintetizzerà bene, in seguito, nel suo Lessico famigliare (1963). Nel 1938 si sposa con Leone Ginzburg, che nel 1940 viene mandato al confino in un piccolo paese dell’Abruzzo, e con lui vivranno Natalia e i tre figli (Carlo, Andrea, Alessandra) fino al 1943. Ricorderà quel momento in un testo delle Piccole virtù (1962), un tempo vissuto come un passaggio scomodo e che si rivelerà essere invece il più felice.
Tra il 1943 e il 1944, i Ginzburg presero parte a diverse attività di editoria clandestina. Al loro ritorno a Roma, Leone fu arrestato e condotto in prigione, dove morì per tortura, senza poter rivedere la moglie ed i tre figli.
La scrittrice torna a Torino e, al termine della guerra, inizia a collaborare alla casa editrice Einaudi. Traduzioni, romanzi, saggi, opere di teatro: la sua attività di scrittrice riempie i decenni successivi. Si sposerà di nuovo, nel 1950, con Gabriele Baldini, che morirà nel 1969. E sarà anche parlamentare (1983 e 1987), eletta nella Sinistra Indipendente, attiva in iniziative per la difesa dei diritti e contro il razzismo.
È lì che io l’ho conosciuta.
Scrivere queste righe ha significato per me rendermi conto di qualcosa di inaspettato: come una persona che da tanti anni non è più con noi possa, a un tratto, essermi di nuovo vicina. Un’emozione profonda, che non conoscevo.
Natalia, nel ricordo, è proprio lei: affettuosa con le persone che le sono attorno, molto consapevole dei problemi umani e politici del mondo di cui siamo parte. Schiva e discreta. Silenziosa, in molte occasioni. Sempre attenta. La sua presenza non si deforma, non si appanna.
È la persona grazie alla quale ho capito come incontrare generazioni, esperienze, e pezzi di storia differenti da quelli che viviamo, possa costituire un “ponte” molto importante – se lo sappiamo utilizzare – per imparare, in qualche modo, a vivere: consapevoli, anche fiduciosi. Ci sono momenti e aspetti difficili, della vita e della storia; ma magari, andando avanti, di tutto questo capiremo il senso. Quel che succede attorno a noi, cercare di capirlo; e riuscire a fare la nostra parte. Non starne fuori, o ai margini. Un disorientamento estremamente attento, che sta tutto nella misura dell’umano. Questo c’è nei suoi scritti.
Il suo linguaggio è “umile”; lo sono i titoli dei romanzi, Le voci della sera (1961); Lessico famigliare (1963), Ti ho sposato per allegria (1966); La città e la casa (1984). Ci sono le “piccole cose”, la “vita quotidiana” (termini usati in alcuni filoni della sociologia: dunque, anche in questo c’è tra noi un legame).
I personaggi che nella sua scrittura arriviamo a conoscere come se davvero li avessimo incontrati, per quanto ci sono messi vicino, nei gesti semplici, nelle parole e anche in quello che non dicono, vivono negli anni del fascismo, delle leggi contro gli ebrei, di Mussolini e dell’Asse Roma-Berlino, della guerra. Ho chiara in mente (Tutti i nostri ieri, 1952) la descrizione del momento in cui si sparge la notizia della caduta del fascismo, e si parla dell’armistizio, e si spera che sia tutto finito. Ma poi arrivano i tedeschi, e invece «gli inglesi non arrivano mai».
Molti dei suoi libri sono costruiti attraverso lo sguardo di donne. C’è la vita di bambine (Natalia, in Lessico Famigliare), di giovani ragazze incinte, di vecchie (la «signora Maria»), di donne adulte con i loro figli (Lucrezia, La città e la casa) le contadine, le borghesi.
E gli uomini: quelli in guerra, lontani per mesi e per anni; quelli di cui si sapeva solo che erano “in Russia”. Cenzo Rena e Franz che si consegnano ai tedeschi per salvare la vita di dieci ostaggi innocenti, e vengono fucilati: sono le ultime pagine dei “nostri ieri”.
Ho amato moltissimo l’invenzione (appunto nell’ultimo testo che ho citato) di mettere insieme le lettere di persone, familiari, amici, che si tengono in contatto o si ritrovano (e cambiamenti, sofferenze, il passare del tempo). Il tono, le parole sono quelle della vita di ogni giorno e delle “piccole cose”, che però sono parte di vicende storiche complesse, pesanti. Complesse e pesanti anche le sue esperienze, a partire dalla morte terribile di Leone Ginzburg, il marito torturato e ucciso in carcere nel ‘44. Di questo lei non parlava mai.
Ci siamo “viste” per la prima volta (entrambe come neodeputate elette nella Sinistra Indipendente, ed entrambe “nuove” dell’ambiente) nel corso di una affollata riunione, in una stanza di Montecitorio. Mi ero seduta vicino ad alcune altre persone del nostro “gruppo” quando è entrata, un po’ incerta tra tanta gente in quel contesto inconsueto. Sono andata verso di lei e le ho suggerito di venire dove già alcuni di noi erano seduti. Da allora, mi ha definito il suo “angelo custode” nelle prime esperienze parlamentari, quelle burocratiche in particolare: fare il tesserino di deputato, identificare la propria cassetta postale tra le molte centinaia disponibili, trovare l’ascensore giusto per salire ai piani superiori. Allora c’erano queste cose, poi certo molto sarà cambiato nel palazzo.
Abbiamo passato insieme molto tempo: le sedute durante i lunghi dibattiti parlamentari, riunioni di ogni tipo, convegni. Nel 1989 abbiamo costituito, insieme ad altri, l’associazione Italia/Razzismo. E momenti liberi: a casa sua a Roma; una volta a Sperlonga durante le vacanze e anche un’estate, chissà come, in Val d’Aosta, con Vittorio Foa. Voglio ricordare anche lui, che mi è altrettanto caro.
I figli, i nipoti. In un paio di occasioni anche Giulio Einaudi: lui mi sembrava poco contento che io fossi tra i piedi, proprio non c’entravo con il loro mondo. In effetti non ricordo che si sia mai parlato dei suoi romanzi o di letteratura in generale: forse avrei dovuto farlo.
Certe sue brevi frasi comunque mi sono rimaste in mente. Alcune dei suoi libri; altre, di momenti vissuti insieme: quelle dell’ultima volta che ci siamo viste. Abbiamo parlato di cose quotidiane, come sempre. Il giorno dopo mi hanno chiamato, e ho saputo che non c’era più.
Le tengo dentro di me: con gratitudine e un senso di profonda tenerezza.
Natalia Ginzburg
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Natalia Levi Ginzburg
(Per la bibliografia si rimanda alla voce, riportiamo qui alcuni testi non citati)
Natalia Ginzburg, La strada che va in città, Einaudi, 1942
Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970
Natalia Ginzburg, Caro Michele, Mondadori 19723
Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, Einaudi 1983
Referenze iconografiche: Leone and Natalia Ginzburg. Fonte: Biography of Natalia Ginzburg. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2012-Fonte- Enciclopedia delle donne-
Renato Caputo- Antonio Gramsci, il pacifismo e la non violenza
Fonte-Ass. La Città Futura
Fonte-Ass. La Città Futura -Il lemma pacifismo ricorre quattro volte nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, mentre tre volte s’incontra il termine “pacifista”. Solo cinque di questi testi sono degni d’interesse, dal momento che due ricorrenze sono presenti in dei testi A ripresi integralmente nei corrispondenti testi C, cioè nei quaderni tematici. Nel primo testo significativo, Gramsci critica il particolarismo nazionalista che pretende di incarnare “il vero universalista, il vero pacifista”, sulla base di una fraintesa considerazione di André Gide secondo la quale si servirebbe “meglio l’interesse generale quanto più si è particolari” [1]. A parere di Gramsci il fraintendimento è causato dal fatto che si finisce con il confondere l’“essere particolari”, con il “predicare il particolarismo. Qui – aggiunge acutamente Gramsci – è l’equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista” (3, 2: 284). Allo stesso modo, si finisce con il fraintendere il concetto universale di nazionale confondendolo con il particolarismo nazionalista. A tal proposito Gramsci presenta un esempio illuminante: “Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista” (ibidem).
Allo stesso modo Gramsci, nel secondo testo in cui ricorre il lemma, critica Curzio Malaparte che sosteneva essere vero pacifista il patriota “rivoluzionario”, cioè il fascista (cfr. 23, 22: 2210). In quest’ultimo caso si confonde o, anche in tal caso, si finge di confondere il rivoluzionario, con il suo esatto contrario, il controrivoluzionario e/o il reazionario, secondo un collaudato schema propagandistico fascista che, con una concezione come di consueto autocontraddittoria amava dipingersi come una rivoluzione conservatrice. D’altro canto questi aspetti contraddittori del fascismo da un lato sono tenuti insieme dal primato assolutistico di una prassi volutamente irrazionalista, sulla base della quale, a seconda del contesto storico si sarebbe stati favorevoli al progresso e addirittura alla rivoluzione o, piuttosto, alla conservazione e finanche alla reazione, in nome del più spudorato opportunismo trasformista. D’altro lato, questo apparentemente assurdo voler tenere insieme due termini palesemente in contraddizione l’uno con l’altro, per cui il primo necessariamente esclude il secondo e viceversa, corrisponde in pieno alla natura di classe del ceto sociale di riferimento del fascismo, cioè alla piccola borghesia in quanto tale socialconfusa in quanto in essa convivono e necessariamente si scontrano, al proprio interno, lo sfruttatore e lo sfruttato. Allo stesso modo nel rappresentante del ceto medio convive il lavoratore subordinato e sfruttato da quello stesso Stato di cui è esponente per antonomasia in quanto non solo cittadino, ma al contempo funzionario, quando non pubblico ufficiale.
Vi è poi un breve accenno, contenuto in un testo A e C, a una “mediocre” letteratura di guerra che si è affermata in Europa “col proposito prevalente di arginare la mentalità pacifista alla Remarque” (23, 25: 2213), prodottasi dopo il successo internazionale di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Da ciò si comprende bene il ruolo guerrafondaio dell’industria culturale, anche perché in paesi a capitalismo avanzato la guerra resta uno dei modi più efficaci per aggirare e rinviare la crisi di sovrapproduzione. Come osserva a ragione Gramsci: “questa letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello culturale, cioè come creazione pratica di «masse di sentimenti e di emozioni» da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra perfettamente nel tipo «brescianesco»” (ibidem). Dunque, dinanzi agli attacchi guerrafondai di conservatori e reazionari occorre difendere il pacifismo democratico.
Infine vi sono da ricordare due testi nei quali Gramsci prende posizione contro due specifiche concezioni, determinazioni o accezioni del concetto di pacifismo. La prima è sorta con il cristianesimo primitivo, si è sviluppata nel Medio Evo con il francescanesimo e ha conosciuto una significativa ripresa nel mondo moderno da parte di Gandhi, sino a divenire in India una “credenza popolare”. Tale concezione raggiunge la sua massima espressione con la “non resistenza e non cooperazione” di Gandhi. A tale proposito Gramsci osserva acutamente che “il rapporto tra Gandhismo e Impero Inglese è simile a quello tra cristianesimo-ellenismo e impero romano. Paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e militare) sebbene come numero di abitanti trascurabili. Che molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili, determina il rapporto cristianesimo primitivo – gandhismo” (6, 78: 748). La non violenza di una massa portatrice d’un principio spirituale superiore di fronte a una minoranza che la opprime “porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, (…) che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola” (ibidem). Analogo alle moderne lotte non-violente di ispirazione gandhiana era l’atteggiamento dei “movimenti religiosi popolari del Medio Evo, francescanesimo”. In effetti anch’essi, come la resistenza passiva degli indiani di contro al colonialismo imperialista inglese, “rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda «esposizione» della loro «natura umana» misconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio padre e di uguaglianza ecc.” (6, 78: 748-49).
Nel secondo caso il lemma pacifismo ricorre in una nota in cui Gramsci contesta le interpretazioni conservatrici di Georges Sorel. Sebbene Sorel, per l’“incoerenza dei suoi punti di vista”, possa “essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici” – dall’estrema destra all’estrema sinistra – “tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni”. In altri termini, sebbene “bizzarrie, incongruenze, contraddizioni si trovano nel Sorel sempre e ovunque”, “egli non può essere distaccato da una tendenza costante di radicalismo popolare”. Tanto più che il sindacalismo rivoluzionario di Sorel, per Gramsci, non può esser considerato “un indistinto «associazionismo» di «tutti» gli elementi sociali” (17, 20: 1923), avendo un chiarofondamento di classe. Egualmente “la sua «violenza» non è la violenza di «chiunque» ma di un [solo] «elemento» che il pacifismo democratico tendeva a corrompere” (ibidem), cioè il proletario moderno e, in primis, la classe operaia [2].
Note:
[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume I, p. 284. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e – dopo i due punti – il numero di pagina di questa edizione.
[2] Gramsci conduce a termine la sua disamina critica della stumentalizzazione da parte degli oppressori, a partire dai fascisti, del pensiero di Sorel, evidenziando il “punto oscuro” di questo pensatore e uomo politico consistente nel suo “antigiacobinismo” e nel “suo economismo puro; e questo, che è, nel terreno [storico] francese, da connettersi col ricordo del Terrore e poi della repressione di Galliffet, oltre che con l’avversione ai Bonaparte, è il solo elemento della sua dottrina che può essere distorto e dar luogo a interpretazioni conservatrici” (17, 20: 1923-924).
Fonte-Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli- a cura di Riccardo Bigi e Enrica Talà-
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
A ottant’anni dall’arresto di don Roberto Angeli, avvenuto per mano della Gestapo il 17 maggio 1944, e dal suo ritorno a casa, nel maggio del 1945, dopo aver conosciuto i campi di concentramento di Gusen, Mauthausen, Dachau, Vangelo nei Lager viene riproposto adesso in una veste semplice: non solo come documento storico ma come racconto vivo, vibrante, ancora capace di toccare le corde del cuore a chi ci si avvicina per la prima volta, anche senza conoscere la figura di questo sacerdote livornese o senza sapere niente della realtà del Movimento Cristiano Sociale a cui la sua vicenda si lega. Una storia senza tempo che ci dice come l’umanità abbia trovato in se stessa, e quindi possa sempre trovare, l’antidoto a quel veleno che provoca odio, sopraffazioni, razzismo. Un racconto di come, nei campi di concentramento nazisti, sia nato – in mezzo alle torture e alle uccisioni di massa – il sogno di un’Europa, e di un mondo, senza più guerre né divisioni.
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Roberto Angeli –(Schio 1913 – Livorno 1978), sacerdote cattolico, fu attivo nella Resistenza livornese. Arrestato dalla Gestapo il 17 maggio 1944 fu trasferito nella famigerata Villa Triste di Firenze, poi nel campo di smistamento di Fossoli e infine nei Lager di Gusen, Mauthausen e di Dachau, dove venne liberato dalle truppe americane il 29 aprile 1945. Rappresentò i Cristiano Sociali nel Comitato di Liberazione Nazionale di Livorno e nel dopoguerra si occupò di una vasta opera di assistenza in tutta la Toscana, alternando l’attività pastorale con quella di giornalista e scrittore.
Riccardo Bigi Riccardo Bigi giornalista del settimanale Toscana Oggi, collabora con il quotidiano Avvenire. Ha pubblicato la biografia di Giorgio La Pira Il sindaco santo e i romanzi L’altra metà della medaglia e La ragazza della cupola. È autore di testi per il teatro tra cui Pietà. La notte di Michelangelo letto da Sergio Rubini nella cattedrale di Firenze.
Enrica Talà direttrice del Centro studi don Roberto Angeli di Livorno, consigliere nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici e formatrice.
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Le Edizioni di Storia e Letteratura, dopo oltre ottant’anni di attività, continuano a rappresentare un marchio di riferimento nell’editoria di cultura italiana e internazionale. Il catalogo si impernia sulle scienze umanistiche, spaziando dalla filologia, classica e umanistica, alla storia medievale, moderna e contemporanea; dalle scienze documentarie alla filosofia; dalla storia religiosa alle letterature europee.
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Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
Giorno della Memoria. Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Articolo di Alessandro Zaccuri venerdì 24 gennaio 2025 –Fonte-Avvenire giornale della CEI
Una volta gli occhiali scivolano nel fango, un’altra volano via per lo schiaffo di un ufficiale delle SS, sigla che nel peculiare gergo dei prigionieri non sta per Schutzstaffel, maper Societas Satanae. Il proprietario degli occhiali – rimasti abbastanza intatti, a dispetto delle ripetute peripezie – conosce bene il latino, essendo uno dei numerosi sacerdoti cattolici deportati dal regime nazista. Un «reduce», come lo stesso don Roberto Angeli si qualifica nel capitolo conclusivo di Vangelo nei Lager, ora ripubblicato da Storia e Letteratura (pagine 224, euro 16,00) con il sottotitolo Un prete nella Resistenza e per la curatela congiunta di Riccardo Bigi ed Enrica Talà, che del Centro studi intitolato al presbitero livornese è la direttrice. Già molto conosciuto in ambito locale, il libro di don Angeli ha tutte le caratteristiche per essere annoverato tra i classici della letteratura concentrazionaria. Uscì per la prima volta nel 1953 e da allora è stato più volte ristampato, anche per essere diffuso nelle scuole. Nella sua immediatezza, è un racconto che può essere veramente apprezzato da qualsiasi lettore, senza che questo vada a discapito di una testimonianza esemplare e profonda.
Scheda di registrazione di Roberto Angeli come prigioniero nel campo di concentramento nazista di Dachau
A fianco del più evidente elemento di interesse, costituito appunto dal resoconto dell’internamento in diversi campi, da Fossoli a Dachau passando per Mauthausen, ce n’è infatti un altro, che corrisponde alla pluralità di soluzioni politiche vagliate dal cattolicesimo democratico negli anni della guerra. Nato nel 1913 a Schio, in provincia di Vicenza, ma cresciuto a Livorno, dove viene ordinato sacerdote nel 1936, don Angeli focalizza la sua attività sulla formazione dei giovani, organizzando una serie di iniziative che, dottrina della Chiesa alla mano, mettono radicalmente in discussione i princìpi del regime fascista, peraltro sempre più compromesso con il paganesimo anticristiano del Terzo Reich. Matura in questo clima l’adesione del sacerdote al Movimento Cristiano Sociale, che nel pieno del conflitto si propone come alternativa alla nascente Democrazia Cristiana. I primi capitoli di Vangelo nei Lager lasciano intuire la complessità di un dibattito che, pur avviandosi alla convergenza tra i due diversi gruppi, è comunque destinato a lasciare una traccia negli assetti politici e civili del dopoguerra.
Non è l’argomento primario del libro, d’accordo, ma ne rappresenta ugualmente la premessa indispensabile. Come molti altri “ribelli per amore” (è la definizione dei partigiani cattolici), don Angeli si schiera contro la dittatura non per considerazioni ideologiche, ma per istintiva fedeltà al messaggio di Cristo. Il resto viene di conseguenza, ed è una conseguenza che porta a mettere in gioco la propria vita. Da questo punto di vista, è bene non lasciarsi distrarre dal tono scanzonato che la prosa di don Angeli conserva anche nelle situazioni più drammatiche. Escogitare trucchi sempre nuovi per nascondere gli ebrei perseguitati o per racimolare un po’ di provviste da distribuire ai fuggiaschi è una «operazione», come la chiama l’autore, che sembra sconfinare nella zingarata, ma resta sorretta dall’implacabile consapevolezza di chi ha scelto di non arrendersi davanti al male. In questa battaglia silenziosa, don Angeli può vantare su un alleato d’eccezione, conosciuto con il soprannome di «nonnino»: un uomo di una certa età, che fa la spola tra la Toscana e Roma per consegnare messaggi clandestini. Si tratta di suo padre, catturato poco prima che anche il sacerdote venga raggiunto dalla Gestapo nella villa di campagna in cui ha trovato rifugio.
Dal 17 maggio 1944, giorno dell’arresto, inizia la discesa di don Angeli nell’inferno dei Lager. Una discesa che, con la solita ironia, il diretto interessato descrive sotto forma di un paradossale avanzamento di carriera, dato che nel trasferimento da un campo all’altro l’internato si trova a portare un numero di matricola sempre più alto. La prima tappa è a Fossoli, che rispetto alle destinazioni successive appare come una specie di «villeggiatura». Per don Angeli, almeno, non per i tanti compagni di prigionia che transitano dal centro del Modenese per essere avviati alla morte. Tra di loro c’è anche Teresio Olivelli, il giovane alpino al quale si deve la formidabile preghiera («Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare. Se cadremo fa’ che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità») che don Angeli trascrive per intero.
La spiritualità ha un peso decisivo in questo resoconto. Se a Mauthausen non sopravvive che un unico sacramento – «l’unico ed il più necessario», annota il sacerdote –, e cioè la Confessione, la ripresa della pratica eucaristica coincide con l’approdo a Dachau, il Lager bavarese nel quale sono stati radunati i ministri del culto appartenenti alle varie confessioni cristiane. In maggioranza cattolici, sottolinea don Angeli, che non trattiene la commozione nel rievocare il momento in cui può finalmente tornare a ricevere la Comunione. È questione di umanità, non di devozione. «Negato un principio spirituale sussistente – argomenta l’autore, ricorrendo a un lessico teologico tanto tradizionale quanto efficace –, negata l’anima, l’uomo cessa di essere una persona con i suoi diritti ed i suoi doveri, per venire declassato al ruolo di semplice individuo, il cui valore si esaurisce in una funzione biologica, come tutti gli altri animali». Non per niente, nel libro è riservata una particolare compassione agli aguzzini, spesso giovanissimi, la cui umanità è stata compromessa dai dettami feroci del totalitarismo.
Il «reduce», alla fine, torna a casa, torna alla sua missione di sacerdote e di educatore. Don Angeli muore nel 1978. Sei anni prima, nel 1972, Paolo VI lo ha ricevuto in udienza privata insieme con altri dodici preti sopravvissuti a Dachau. Avranno parlato di Lager, senz’altro. Più ancora, avranno parlato di Vangelo.
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Nato a Schio da Maria Duranti ed Emilio Angeli, la madre morirà un anno dopo la sua nascita. Nel 1926 entra in seminario livornese. Nel 1936 è ordinato sacerdote, inviato nella parrocchia di Santa Giulia. Insegna in seminario. Nel 1942 è parroco a San Jacopo assistente assieme a don Tintori della FUCI, e fonda il Movimento cristiano sociale livornese.
Il periodo bellico e la deportazione
In seguito allo scoppio della Seconda guerra mondiale e al successivo armistizio si rese attivo nella Resistenzalivornese: negli ultimi anni del Fascismo organizzò pubbliche lezioni (“Lezioni di Santa Giulia”) in cui si oppose apertamente le teorie totalitarie. Rappresentò i “cristiano sociali” all’interno del CLN livornese, si impegno soprattutto nell’attività di assistenza dei partigiani trovando loro rifugi quando si rendeva necessario.
Spinse nel Movimento cristiano sociale e da lì nella Resistenza attiva molti giovani cattolici livornesi e salvò molti ebrei e prigionieri politici, appoggiando le azioni dei partigiani livornesi. Con il padre tenne i contatti con il CLN fiorentino e con il Fronte Militare Clandestino di Roma.
Scheda di registrazione di Roberto Angeli come prigioniero nel campo di concentramento nazista di Dachau
Arrestato il 17 maggio 1944, dalla Gestapo, fu trasferito a Firenze, nella famigerata Villa Triste, dove fu duramente interrogato, senza risultato. Trasferito nel Campo di Fossoli successivamente Bolzano e infine nel lager di Mauthausen. Nel novembre assieme ad altri sacerdoti (tra cui Josef Beran[1]) viene trasferito a Dachau. Viene liberato con l’arrivo delle truppe americane il 29 aprile 1945.
Dopoguerra
Nel dopoguerra si occupò di una vasta opera assistenziale in tutta la provincia, diresse e scrisse articoli per il Fides, il settimanale diocesano.
Scrisse inoltre il libro Vangelo nei Lager che racconta la sua esperienza nella Resistenza e nei lagernazisti.[2]
^ Così scrisse ai giovani: “Vi offro in lettura queste pagine fiduciosi che non le accoglierete come un testo da studiare per gli esami, ma come una esperienza vitale cui partecipare; non cose passate da mandare a memoria, ma stimolo a ripensare il presente e a prepararsi per l’avvenire; contributo alla vostra maturazione“.
Audre Lorde -D’amore e di lotta- Poesie scelte- Testo inglese a fronte
Audre Lorde
Audre Lorde è nata a nord della metropoli come terza e ultima figlia di una famiglia di immigrati da Grenada (Caraibi). È stata una poeta militante che ha riempito i suoi versi della forza libera e denotatrice di Harlem e ha usato la sua poesia come uno stagno in cui far confluire e risuonare la sua lotta verso la piena aderenza di sé stessa in nome dell’uguaglianza.
Nata il 18 febbraio del 1938 nel periodo in cui la povertà per la Grande Depressione agitava le strade di Harlem, cresce in una casa sulla 155ma Strada davanti al fiume Hudson. La famiglia con grandi sacrifici la iscrive in una scuola per studentesse dotate di cui è l’unica ragazza nera. Agli occhi di mamma Linda e papà Frederich, Audre mostra precocemente la sua indole forte e indipendente: decide di troncare una parte del suo nome originale Audrey e recidere la lettera Y e lasciare il nome che le rimarrà appiccicato come segno di distinzione e autoaffermazione. Tra gli scorci di tutto quello che le succede, racconta anche episodi di odio metropolitano: come quando non la fanno sedere sul bus oppure come la osservano mentre attraversa l’incrocio per andare a scuola. Harlem rappresenta in quegli anni il teatro della lotta e protesta degli afroamericani: Malcom X con i suoi comizi riempie l’Apollo Theatre e le vie del quartiere. Lorde per continuare i suoi studi lavora come operaia e infermiera e comincia a frequentare gli ambienti letterari e omosessuali di New York. Negli anni sessanta l’omosessualità era considerata illegale; la comunità gay stanca del deprimente clima di repressione trova nei vecchi edifici industriali, come il Mount Morris di Harlem, un luogo dove esprimersi. In questo composito panorama metropolitano, incontra Edwin Rollins, avvocato bisessuale da cui avrà due figli Elizabeth e Jonathan.
Il matrimonio con Rollins non funziona e Audre si svela a sé stessa attraverso la poesia. Nel 1968 pubblica Two Cities prima delle undici raccolte poetiche. La poesia diventa lo specchio entro cui raccontare la propria diversità e da cui far partire un grido comune, libero, rivolto a tutte le donne. “La pelle nera è come il carbone rinchiuso nelle viscere della terra che si trasforma in diamante”.
Negli anni successvi Lorde viene anche operata per un cancro al seno e racconterà la sua lotta nei Cancer Journals pubblicato nel 1980. In quelle settimane si innamora di una giovane ragazza, Gloria Joseph, che diventerà sua compagna fino alla fine.
La poeta diventerà un punto di riferimento libero e ostinato per la lotta letteraria contro le diversità. Audre Lorde si è battuta perché la poesia diventasse una necessità per ridefinire le libertà e le identità delle persone. Ha costruito un ponte tra mondi diversi in cui affermarsi come donna, nera e omosessuale: il suo messaggio ha abbracciato lentamente tutto il globo, viaggiando assieme a lei dalla Nigeria a Cuba sino alla Nuova Zelanda. Ha saputo portare la sua battaglia femminista ovunque, permeata dalla sua immensa vitalità, documentando anche l’invasione di Grenada, stato insulare nel Mar dei Caraibi in cui è voluta tornare. Nel 1991 è stata nominata Poetessa dello Stato di New York rimanendo per sempre radicata alla sua lotta poetica e al quartiere di Harlem.
Al poeta che si dà il caso sia Nero e al poeta Nero che si dà il caso sia una donna I
Sono nata nel ventre della Nerezza
proprio da in mezzo alle cosce di mia madre
le si ruppero le acque sul linoleum a fiori blu
facendosi come neve sciolta nel freddo di Harlem
le 10 di una notte di luna piena
la mia testa spuntò rotonda come un pendolo
“Eri così scura”, diceva mia madre
“Credevo fossi un maschio”.
II
La prima volta che toccai mia sorella in vita
ero sicura che la terra prendesse nota
ma noi non eravamo intonse
la pelle posticcia si sfaldava come guanti di fuoco
fiamma aggiogata ero io
spogliata fino alla punta delle dita
la sua canzone scritta nei miei palmi le mie narici la mia pancia
benvenuta a casa
in una lingua che ero contenta di reimparare.
III
Nessuno spirito gelido mi ha mai attraversato le ossa
all’angolo di Amsterdam Avenue
nessun cane mi ha mai presa per una panca
o un albero o un osso
nessun’amante ha mai guardato alle mie braccia brune e grassocce
vedendo ali né mi hai mai chiamato condor per sbaglio
ma conosco a memoria
occhi
che mi cancellano
come un appuntamento indesiderato
posta a carico
timbrata in giallo rosso viola
ogni colore
eccetto Nero e scelta
e donna
in vita.
IV
Non so rammentarmi le parole della mia prima poesia
ma ricordo una promessa
fatta alla mia penna
di non lasciarla mai
giacere
nel sangue altrui.
Donna Madre Nera
Non riesco a ricordarti delicata
eppure attraverso il tuo pesante amore
sono diventata
immagine della tua carne un tempo fragile
spaccata da falsi desideri.
Quando sconosciuti si avvicinano per farmi i complimenti
il tuo spirito antico fa un inchino
e risuona d’orgoglio
ma una volta nascondevi quel segreto
al centro delle furie
soffocandomi
con seni profondi e capelli ruvidi
con la tua carne spaccata
e occhi da sempre sofferenti
seppelliti in miti di scarso valore.
Ma ho sbucciato la tua rabbia
fino al nocciolo dell’amore
e guarda madre
Io Sono
un tempio oscuro da cui si innalza il tuo vero spirito
bella
e dura come castagno
puntello al tuo incubo di debolezza
e se i miei occhi nascondono
uno squadrone di ribellioni in conflitto
ho imparato da te
a definire me stessa
attraverso i tuoi rifiuti.
Stazioni
Certe donne amano
aspettare
la vita un anello
nella luce di giugno un abbraccio
del sole che le guarisca di un’altra donna
la voce che le completi
che sleghi le loro mani
metta parole nelle loro bocche
dia forma ai loro percorsi suono
alle loro grida un’altra dormiente
che ricordi il loro futuro il loro passato.
Certe donne aspettano il treno
giusto nella stazione sbagliata
nei vicoli del mattino
il clamore del mezzogiorno
il calare della notte.
Certe donne aspettano che l’amore
faccia sorgere
il figlio della loro promessa
di raccogliere dalla terra
quello che non seminano
di reclamare dolore per travaglio
di diventare
la punta di una freccia per mirare
al cuore di un adesso
ma non sta mai fermo.
Certe donne aspettano visioni
che non si ripetono
dove non erano benvenute
nude
il rinnovarsi di inviti
in luoghi
che avrebbero sempre voluto
visitare.
Certe donne aspettano se stesse
dietro l’angolo
e chiamano pace quello spazio vuoto
ma il contrario di vivere
è solo non vivere
e alle stelle non importa.
Certe donne aspettano che qualcosa
cambi e niente
cambia veramente
perciò cambiano
se stesse.
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Per la prima volta in traduzione italiana, questa antologia dà spazio alle poesie di amore e di lotta di una poetessa, Audre Lorde, che ha saputo intrecciare le storie del proprio vissuto personale con le voci collettive dei movimenti femminista, Lgbt e delle persone di colore. Con il suo potente linguaggio poetico, Lorde ci regala istantanee della realtà filtrate attraverso uno sguardo acuto e mai distaccato. Nei suoi versi erompe il racconto di una donna Nera, lesbica, madre, guerriera, poeta, il cui linguaggio è intriso di ognuna di queste parti e dell’intersezione di tutte. Per questo il canto di Audre Lorde arriva a tutte e tutti noi, abbracciando la realtà da un punto di vista situato e proiettandosi oltre, fino a cambiare il nostro modo di guardare il mondo. Introduzione di Loredana Magazzeni, postfazione di Rita Monticelli.
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