Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo.
Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina.
Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura.
La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini.
Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Fonte-Nuova Rivista Letteraria
ANTONIA POZZI-PoetessaANTONIA POZZI-PoetessaANTONIA POZZI-Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIAAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Descrizione del libro di Han Kang “La vegetariana”-«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi.
Han Kang premio Nobel per la letteratura 2024–“La vegetariana”-
Figlia dello scrittore Han Seung-won[2], è nata a Gwangju il 27 novembre 1970. Dopo gli studi all’Università Yonsei di Seul (letteratura coreana)[3], esordisce pubblicando una serie di cinque poesie nella rivista coreana Letteratura e società[4] nel 1993.[5] L’anno successivo esce il suo primo romanzo[6] al quale ne seguiranno altri cinque. Dal 2013 insegna scrittura creativa al Seoul Institute of the Arts[7].
Han Kang premio Nobel per la letteratura 2024–“La vegetariana”-
Han Kang premio Nobel per la letteratura 2024
Il 25 maggio 2019 ha consegnato un suo manoscritto inedito intitolato Dear Son, My Beloved alla Biblioteca del futuro, un progetto artistico culturale ideato da Katie Paterson. Così come le altre opere di questa biblioteca anche il libro di Han verrà pubblicato e reso disponibile solo nel 2114, cento anni dopo l’avvio dell’iniziativa.[10]
Il 10 ottobre 2024 viene insignita del Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: “per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana”[11][12], divenendo il primo rappresentante del suo Paese a vincere un Nobel in questa categoria[13].
사랑과, 사랑을 둘러싼 것들 (letteralmente L’amore e le cose che circondano l’amore), 2003.
가만가만 부르는 노래 (letteralmente Una canzone cantata sottovoce), Bichae, 2007. ISBN 9788992036276 Il libro include un CD musicale di 10 brani in veste di autrice e cantante di canzoni.[15]
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Tristano e Isotta(Tristan und Isolde) è un dramma musicale di Richard Wagner, su libretto dello stesso compositore. Costituisce il capolavoro del Romanticismo tedesco e, allo stesso tempo, è uno dei pilastri della musica moderna, soprattutto per il modo in cui si allontana dall’uso tradizionale dell’armonia tonale.
Richard Wagner-
La trama è basata sul poemaTristan di Gottfried von Straßburg, a sua volta ispirato dalla storia di Tristano raccontata in lingua francese da Tommaso di Bretagna nel XII secolo. Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo schopenhaueriano.
Decisivo per la stesura dell’opera fu l’amore intercorso tra il musicista e Mathilde Wesendonck (moglie del suo migliore amico), destinato a restare inappagato. Wagner era ospite dei Wesendonck a Zurigo, dove ogni giorno Mathilde poteva ammirare pagina per pagina l’evolvere della composizione. Trasferitosi a Venezia per fuggire lo scandalo, Wagner si ispirò alle notturne atmosfere della città lagunare, dove scrisse il secondo atto e dove attinse l’idea per il preludio del terzo. Scrisse Wagner nella sua autobiografia:
«In una notte d’insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora, e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristano, e forse mi suggerirono i suoni strascicati del corno inglese al principio del terz’atto.»
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano venne inizialmente proposto al teatro di Vienna, dove però fu respinto in quanto giudicato ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta al Koenigliches Hof- und National- Theater (Opera di Stato della Baviera) di Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, diretta da Hans von Bülow con Ludwig e Malwina Schnorr von Carolsfeld nelle parti dei due protagonisti, e con il concreto sostegno del re Ludwig II.
La critica dell’epoca si divise tra coloro che videro in quest’opera un capolavoro assoluto e quelli che la considerarono una composizione incomprensibile. Tra questi ultimi figura il critico austriaco Eduard Hanslick, noto per le sue posizioni conservatrici in ambito musicale. Fu proprio l’atteggiamento di Hanslick a fornire a Wagner l’idea per il personaggio di Sixtus Beckmesser ne I maestri cantori di Norimberga.Il cosiddetto “accordo del Tristano“, che apre la partitura.Una copia del manoscritto originale . Finale.
Al Teatro alla Scala di Milano, il 29 dicembre 1900, andò in scena nella traduzione italiana di Boito ed Angelo Zanardini con la direzione di Arturo Toscanini. Nel 1902 avvenne la prima rappresentazione in concerto nel Théâtre du Château-d’Eau di Parigi di “Tristan et Isotte” nella traduzione francese di Alfred Ernst.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Musica
Nella musica del Tristano si è voluta vedere un’anticipazione del futuro.[1] Servendosi dell’uso ossessivo del cromatismo e della tecnica della sospensione armonica, Wagner ottiene un effetto di suspense che dura per tutto il corso dell’azione. Le cadenze incomplete del preludio non vengono risolte fino alla fine del dramma, che si chiude col canto di amore e morte di Isotta (Liebestod). Come dice il critico Rubens Tedeschi, il linguaggio musicale del Tristano deve farsi infinitamente duttile per dipingere – oltre il pochissimo che accade – il moltissimo che viene alluso. Il Leitmotiv deve quindi smussare la propria nettezza melodica a favore della massima incertezza. In questo sbiadire dei contorni melodici si insinua l’allentamento dei rapporti armonici, come l’ombra notturna dei due amanti contribuisce all’ambiguità dei significati. È una sorta di ondeggiamento perpetuo simile al movimento del mare. Hanslick stroncò il valore della partitura affermando che “contiene della musica ma non è musica” e denunciando “il fumo dell’oppio suonato e cantato”. Lo stesso Wagner, in una lettera a Mathilde Wesendonck, definì il proprio lavoro “qualcosa di terribile, capace di rendere pazzi gli ascoltatori”.
Particolarmente impressionanti per la loro modernità – al limite della dodecafonia – sono le variazioni del tema del Filtro d’amore e della Canzone mesta del pastore, a metà del terzo atto, che accompagnano il protagonista nella sua delirante allucinazione. Il cromatismo e il prevalere dell’armonia sulla melodia appaiono già evidenti fin dalle prime battute del preludio (tema del Desiderio). Carl Dahlhaus definisce queste battute come una serie informe e insignificante di intervalli se non fosse per gli accordi che sorreggono e determinano la condotta melodica. La condotta armonica del tema del Desiderio (ossia il famoso “accordo del Tristano”) acquista carattere motivico in proprio. Allo stesso modo, il motivo del Destino deve la sua inconfondibile fisionomia non tanto alla condotta melodica quanto al collegamento con una successione di accordi che ha l’evidenza inquietante dell’enigma. In altre parole, la condotta armonica (che se ascoltata autonomamente non avrebbe senso) scaturisce nel rapporto che intercorre tra il motivo melodico del tema del Destino e un contrappunto cromatico a suo modo integrato nel motivo stesso: affiora l’idea paradossale di un “motivo polifonico”.[2]
La prima rappresentazione del Tristano nel 1865 ebbe un effetto non indifferente sul pubblico dell’epoca. Rubens Tedeschi segnala che l’estetica del decadentismo europeo nacque in quel momento, sebbene all’interno di un processo che sarebbe accaduto anche senza il diretto intervento di Wagner. La “valanga intellettuale” investì letterati, pittori e musicisti preparando la ribellione della avanguardie novecentesche. Valgono tra tutte le parole di Giulio Confalonieri:
«Tristano non ha soltanto soddisfatto una sete e placato una febbre ormai brucianti nell’umanità intera, ma altresì infettato la musica di un bacillo che nulla, nemmeno le più moderne penicilline, sono ancor riuscite ad eliminare del tutto.»
Interpretazione
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Wagner all’epoca del Tristano.
Si dice spesso che nel Tristano Wagner abbia voluto mettere in scena la filosofia di Schopenhauer. In effetti, in una lettera spedita a Franz Liszt nel dicembre del 1854, Wagner scrisse che l’incontro col grande filosofo gli aveva rivelato un “accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. Ma (come nota il critico Petrucci nel suo Manuale wagneriano), se così fosse, Tristano e Isotta avrebbero saputo dominare la loro passione. Schopenhauer insegna che per raggiungere la serenità occorre accettare la sofferenza e rassegnarsi alla concezione pessimistica dell’impossibilità del desiderio. Tristano è invece letteralmente divorato dal desiderio. L’esaltazione della notte – cantata per tutto il secondo atto come brama irrisolta di fuggire la luce del giorno e con essa la vacuità del reale – trova nella morte la sua naturale conseguenza in quanto liberazione. Una liberazione, dunque, non pessimistica rinuncia ma simbolo (per metà ascetico, per altra metà panteistico) di unione cosmica. Per questo motivo, Tristano era addirittura venerato dal filosofo Nietzsche, anche in virtù delle sue ideologie dell’ateismo: “Vorrei immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo”.
Schopenhauer e la filosofia della pace dei sensi saranno piuttosto trattati nel mistico Parsifal, che decretò l’allontanamento di Nietzsche dalla concezione wagneriana. A proposito del presunto ateismo del Tristano, vale la pena di segnalare un’osservazione di Antonio Bruers: “A chi giudicasse esagerato l’uso della parola ateo, dobbiamo rilevare un fatto che non si discute: in tutto il Tristano non è mai nominato Dio.”
Un altro dubbio circa il legame con Schopenhauer arriva da Thomas Mann: “Tristano si rivela profondamente legato al pensiero del Romanticismo e non avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è il regno di ogni romanticismo; scoprendola esso ha sempre identificato in lei la verità, in contrasto con la vaga illusione del giorno, il regno del sentimento in antitesi a quello della ragione”.
In effetti Tristano racchiude in sé la percezione di un mondo misterioso e fantastico in cui esprimere la propria “eterna eccezionalità”; racchiude l’inconsapevole ricordo di eventi passati e fondamentali; racchiude l’individuo che per comprendersi si isola dalla società. Cos’altro simboleggiano, per esempio, i favolosi castelli che Ludwig II eresse tra i monti della Baviera? Lo stesso Ludwig che, un’ora dopo aver assistito alla prima rappresentazione, decise di ritirarsi da solo nella notte, cavalcando nel bosco in preda ad una fortissima emozione. Allo stesso modo farà Zarathustra di Nietzsche, che per ritrovare se stesso si ritira sulla cima di una montagna. Siamo già molto lontani dall’eroe medievale del soggetto originale. L’eroe è stato trasferito dalla dimensione dell’amore cortese alla tenebrosa atmosfera degli Inni alla notte di Novalis.
Del resto, come sempre capita in Wagner, non è possibile non rintracciare alcune latenti allusioni politiche che tanto fecero discutere in seno alla Tetralogia. Già il poeta Hölderlin aveva decantato la “grande missione” della Germania, situata al centro dell’Europa e considerata come il “cuore sacro dei popoli”. In questa direzione, Tristano e Isotta potrebbero forse simboleggiare la verità intima che la forza del filtro magico ha saputo rivelare contrapponendola al resto del mondo, all’apparenza delle convenzioni sociali. Tali allegorie (che in futuro avrebbero contagiato pericolosamente la politica intesa come purezza dello spirito tedesco) si associano però al costante desiderio di annullamento nutrito dai protagonisti. Il loro desiderio non è deputato a risolversi nell’opulenza della vita materiale ma in un’altra dimensione, simbolo metafisico della vita più autentica e segreta. Questo è il vero dramma dei due amanti: l’impossibile conciliazione della dicotomia in cui sono costretti a vivere, divisi come sono tra anima e corpo, tra essenza e apparenza, come rivela il tormento allucinato di Tristano nel terzo atto, mirabilmente reso nell’incisione discografica di Wilhelm Furtwängler.
Tristano e Isotta non vivono un amore normale ostacolato dalle avversità come accade in Romeo e Giulietta, bensì inappagabile per sua stessa natura, condannato a vivere nel finito e soddisfabile solo nella morte. È la verità più profonda che gli amanti avrebbero taciuto reprimendola nel subcosciente. Non c’è da stupirsi, quindi (anche se per altri comprensibili motivi) che Cosima Wagner ironizzò riguardo l’amore intercorso tanti anni prima tra suo marito e Mathilde Wesendonck. Nel suo libro La mia vita a Bayreuth, Cosima scrisse: “Poverina, si spaventerebbe se sapesse cosa c’è nel Tristano!”
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Trama
Antefatto
Per liberare la Cornovaglia da un ingiusto tributo imposto dagli irlandesi, Tristano ha ucciso il cavaliere Morold, patriota irlandese e fidanzato della principesse Isotta, figlia del re d’Irlanda. Ferito durante il combattimento, viene amorevolmente curato dalla stessa Isotta, la quale non conosce la sua identità. Soltanto il ritrovamento di un frammento della spada le fa capire di trovarsi davanti all’assassino del suo uomo; allora lo risparmia, facendosi promettere di sparire per sempre dalla sua vita. In seguito, Tristano infrange il giuramento e ritorna per portarla in sposa al Re di Cornovaglia, come pegno di riconciliazione tra i due paesi.
Atto I
Scena 1ª
La voce di un giovane marinaio si alza dal ponte di un vascello:
“Verso levante muove la nave, soffia il vento verso il nostro paese: e tu, bimba irlandese, dove rimani?…”
In rotta verso l’Inghilterra, Isotta sfoga la sua rabbia contro il giovane Tristano, cui la lega un confuso sentimento di amore e di odio. Lo fa chiamare affinché la venga a trovare ma Tristano, turbato, risponde di non poter abbandonare il timone della nave.
Scena 2ª
Isotta ricorda il passato, racconta alla sua ancella Brangania di essersi affezionata a un misterioso guerriero di nome Tantris, il giovane rimasto ferito nella battaglia, che lei raccolse curandone le ferite. In realtà, Tantris era Tristano, che presentandosi sotto falso nome era riuscito a scampare alla vendetta di Isotta grazie al suo sguardo supplicante.
“Con lucida spada mi presentai davanti a lui, per vendicare la morte di Morold. Dal suo giaciglio egli mi guardò: non sulla lama, non sulla mano, ma sui miei occhi egli alzò lo sguardo. Con mille giuramenti mi promise lealtà eterna ed ebbi pietà per la sua pena. Ma ben altro sfoggio fece Tristano di ciò che in me celavo. Colei che tacendo gli ridava la vita, colei che tacendo lo salvava dall’odio, tutto egli ha messo in mostra! Borioso del successo, mi ha additata quale preda di conquista. Sii maledetto, infame!…”
Reprimendo l’amore che li unisce, Isotta vorrebbe uccidersi con lui per cancellare l’affronto.
Scena 3ª
Tristano arriva e, in un impeto di rabbia, accetta di sacrificarsi con onore.
“La signora del silenzio, silenzio a me impone. Se comprendo ciò che ha taciuto, taccio ciò che non comprende.”
Entrambi credono di bere un potente veleno ma Brangania ha sostituito il veleno con un filtro d’amore. Nell’orchestra, ricompaiono i temi del Desiderio e dello Sguardo, che erano già apparsi nel preludio strumentale. Il loro sentimento si rivela con forza alla realtà, ogni incomprensione svanisce e il mondo circostante non ha più alcun significato. Quando lo scudiero di Tristano, Kurwenald, giunge ad avvertire dell’imminente incontro col Re, Tristano risponde: “Quale re?” ormai del tutto ignaro di ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui la nave approda nel porto, Tristano e Isotta si gettano l’uno nelle braccia dell’altro.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Atto II
Scena 1ª
Nel giardino del castello di re Marke, durante la notte, Isotta attende l’arrivo di Tristano. Brangania la avverte del pericolo che stanno correndo, sapendo che Melot, amico di Tristano, ma innamorato segretamente di Isotta, potrebbe rivelare al Re l’amore clandestino della coppia. Isotta non le crede. Tristano si precipita in scena con un abbraccio travolgente.
Scena 2ª
Incomincia la lunga notte dei due innamorati che è la vera protagonista del dramma, è l’oscurità che circonda i due amanti e li riassorbe in un’originaria, individuale armonia. Dice Isotta:
“Chi là segretamente celai, come mi parve malvagio quando, nello splendore del giorno, l’unico fedelmente amato sparve agli sguardi d’amore, e quale nemico s’erse dinnanzi a me! Trascinarti voglio laggiù, con me nella notte, dove il mio cuore mi promette la fine dell’errore, dove svanisce la follia del presentito inganno.”
Dice Tristano:
“Su noi discendi, notte arcana! Spargi l’oblio della vita!… Quel che là nella notte vegliava cupamente richiuso, quel che, senza sapere e pensarci, oscuramente concepii – l’immagine che i miei occhi non osavano osservare, ferita dalla luce del giorno – mi si rivelò scintillante.”
”Gloria al filtro e alla sua forza! Mi dischiuse le vaste porte dove solo in sogno ho soggiornato. Dalla visione celata nel segreto scrigno del cuore, esso cacciò lo splendore ingannevole del giorno, sì che il mio orecchio, penetrando la notte, potesse vederla davvero.
“Chi amoroso osserva la notte della morte, a chi essa confida il suo profondo mistero: la menzogna del giorno, fama e onore, forza e ricchezza, come vana polvere di stelleinnanzi a lui svanisce!…Fuor dal mondo, fuor del giorno, senza angosce, dolce ebbrezza, senza assenza, mai divisi, soli, avvinti, sempre sempre, nell’immenso spazio!..”
Ma nel momento più impetuoso della passione, quando le voci e la musica vengono sospinte dal motivo della Felicità, improvvisamente l’incanto si spezza. Arrivano il Re, Melot e i cortigiani del castello, che circondano inorriditi la coppia degli amanti. Il tema musicale del Giorno avverso invade la scena. Sorge l’alba.
Scena 3ª
Melot, tradendo Tristano, presenta al Re la sua vittima. Il magnanimo re Marke si perde allora in un lungo monologo cantato sul tema del Cordoglio, addolorato per il comportamento di Tristano e rievocando le vicende che li unirono in passato.
“A me, questo? Perché? Chi mi è fedele, se il mio Tristano mi tradì?… Se non c’è redenzione, chi può spiegare al mondo tale cupo immenso abisso?…”
Ma Tristano, come trasognato, non può fornire alcuna spiegazione. “Ciò che tu domandi non potrai mai comprendere”, e si volge quindi verso l’amata:
“Dove ora Tristano s’avvia, vuoi tu seguirlo, Isotta? È terra buia, muta, da cui mia madre m’inviò, quando mi partorì dal regno della morte…”
Mentre Isotta lo bacia, Melot incita il Re a reagire. Tristano sfida l’amico a duello e si lascia cadere sulla sua spada. Cade ferito tra le braccia di Kurwenald.
Atto III
Scena 1ª
Il castello di Tristano nel terzo atto.
Tra le rovine del suo castello, accudito dal fedele Kurwenald, Tristano riprende lentamente conoscenza. Ferito nel corpo e nell’anima, egli ha delle allucinazioni. Ciò che desidera gli è negato e il pensiero di Isotta, simbolo di quel desiderio, lo travolge. Immobile sul letto la cerca, in preda al delirio la invoca:
“Kurwenald, non la vedi?!”
Ma l’orizzonte del mare è completamente vuoto. Tristano, allora, maledice il filtro magico che gli rivelò l’amore e la verità:
“Il terribile filtro, che m’ha votato al tormento, io stesso l’ho distillato! Nell’affanno del padre, nel dolore della madre, nel riso e nel pianto, ho trovato i veleni del filtro!”…
Sono pagine molto drammatiche, dove la musica rompe definitivamente con la tonalità tradizionale anticipando per la prima volta il sistema dodecafonico. Ma intanto la nave di Isotta è apparsa davvero all’orizzonte, salutata da un’allegra cantilena del corno inglese. Tristano è fuori di sé dalla gioia. Egli segue l’arrivo del veliero e manda Kurwenald a ricevere l’amata. Rimasto solo, si strappa le bende della ferita e si alza in piedi sanguinante:
“O sangue mio, scorri giulivo!… Lei, che un dì mi guarì le ferite, a me s’avvicina per salvarmi!… Possa il mondo perir, dinnanzi alla mia esultante fretta!”…
Isotta entra in scena. Sulle grandi note del tema del Giorno avverso, i due amanti si abbracciano. Sul tema dello Sguardo, Tristano esala l’ultimo respiro.
Scena 2ª
Mentre Isotta piange la morte di Tristano, un’altra nave approda al castello. Si tratta di re Marke che, venuto a conoscenza del filtro magico e dell’inevitabile verità, è accorso con Melot a chiedere perdono. Ma Kurwenald, furibondo per la morte del suo padrone, si scaglia contro di lui. Appena Melot arriva lo uccide in un colpo; resta ferito a sua volta e muore egli stesso accanto al corpo di Tristano. Il Re, addolorato, cerca di spiegarsi con Isotta ma lei, ormai, non lo ascolta più. Nel suo canto supremo, Isotta invoca la celebre Liebestod, la “morte d’amore” che riunirà i due amanti:
“Son forse onde di teneri zeffiri? Son forse onde di voluttuosi vapori? Nel flusso ondeggiante, nell’armonia risonante, nello spirante universo del respiro del mondo, annegare, inabissarmi, senza coscienza, suprema voluttà!”
Sulle note della Felicità, Isotta cade trasfigurata sul corpo di Tristano. Il Re benedice i cadaveri. Si chiude lentamente il sipario.
Goethe J.W., Viaggio in Italia -Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
Goethe J.W., Viaggio in Italia -,Roman CampagnaGoethe J.W., Viaggio in Italia -William Stanley Haseltine-Morning LIght,Roman Campagna
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
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Biblioteca DEA SABINANatalia Ginzburg-Le voci della sera –
Einaudi editore
DESCRIZIONE-Le voci della sera (Einaudi, 2015) uscito per la prima volta nel 1961 della scrittrice Natalia Ginzburg pone sotto la lente d’ingrandimento la famiglia e le sue relazioni. La società e le sue aspettative sociali. Romanzo di gesta e di sottrazione del pensiero, narrato in prima persona ci fa immergere nell’egoismo di ciò che si vorrebbe per noi a dispetto di ciò che l’io individuale vorrebbe perseguire. La voce narrante è Elsa che scrive in prima persona – che potrebbe essere l’alter ego della scrittrice – che narra, racconta, invade, ma non di sé, di ciò che la circonda, di come va il mondo. Elsa è taciturna e da attenta osservatrice preferisce analizzare la realtà al di fuori da sé più che mettersi a nudo. Romanzo che vinse il Premio Strega nel 1961 risulta piacevole e sempre godibile, dove la malinconia, le difficoltà dei sentimenti e dei rapporti amorosi e la famiglia d’origine ne segnano le coordinate di lettura.
Camminiamo, interminabilmente, sul fiume. Lui si guarda intorno, dice: – Ma qui è proprio campagna. Veniamo in città, ma poi andiamo sempre in cerca della campagna, non è così?
Gli dico: – Perché facciamo finta di non conoscerci, quando siamo al paese?
Dice: – Perché siamo buffi.
Dice: – Per la tua reputazione. Non devo comprometterti, visto che poi non ti sposo.
Rido, e dico: – Della mia reputazione, me ne infischio, io.
S’attorciglia i capelli attorno alle dita, si ferma un poco a pensare.
– Al paese, – dice, – non mi sento libero. Mi pesa addosso tutto.
– Cosa ti pesa?
– Mi pesa, – dice, – tutto, il Purillo, la fabbrica, la Gemmina, e anche i morti.
– Mi pesano, capisci, anche i morti.
– Una volta o l’altra, – dice, – pianto lì e me ne vado.
E io gli dico: – Non mi porti con te?
– Crederei di no.
Camminiamo, per un poco, in silenzio.
– Tu, – mi dice, – devi trovarti uno che ti sposa. Non subito, magari, fra un po’.
Dice: – Non hai mica bisogno di sposarti subito. Che furia c’è?
– Anche con me, così, – dice, – stai bene.
– Con te, così? il mercoledì e il sabato? – dico.
– Sì, così, no?
– Adesso, – dico, – dobbiamo tornare, che presto sarà l’ora dell’autobus.
E torniamo, riattraversiamo il parco, costeggiamo le mura del castello, passiamo il ponte che vibra sotto le ruote dei tram.
– Non dico mica che sia l’ideale, per te, così, – dice.
Natalia Levi nacque il 14 luglio del 1916 a Palermo, figlia di Giuseppe Levi, illustre scienziato triestinoebreo, e di Lidia Tanzi, milanesecattolica, sorella di Drusilla Tanzi. Il padre era professore universitario antifascista e insieme ai tre fratelli di lei sarà imprigionato e processato con l’accusa di antifascismo. I genitori diedero a Natalia e ai fratelli un’educazione atea.
Formazione e attività letteraria
Natalia trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Torino. Della sua prima giovinezza raccontò lei stessa in alcuni testi autobiografici pubblicati soprattutto in età avanzata, fra cui I baffi bianchi (in Mai devi domandarmi, 1970). Compì gli studi elementari privatamente, trascorrendo quindi in solitudine la sua infanzia; sin dalla tenera età si dedicò alla scrittura di poesie. Si iscrisse poi al Liceo – Ginnasio Vittorio Alfieri,[2] vivendo come un trauma il passaggio alla scuola pubblica. Già nel periodo liceale si dedicò alla stesura di racconti e testi brevi, primo fra tutti Un’assenza (la sua «prima cosa seria»), poi pubblicato sulla rivista Letteratura negli anni Trenta. Abbandonò invece la poesia; a tredici anni aveva fra l’altro spedito alcuni suoi componimenti a Benedetto Croce, che espresse un giudizio negativo su di essi.[3]
Esordì nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato dalla rivista “Solaria“, e nel 1938 sposò Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà in seguito tutte le proprie opere. Dalla loro unione nacquero due figli e una figlia: Carlo (Torino, 15 aprile 1939), che diverrà un noto storico e saggista, Andrea (Torino, 9 aprile 1940 – Bologna, 4 marzo 2018) e Alessandra (Pizzoli, 20 marzo 1943). In quegli anni strinse legami con i maggiori rappresentanti dell’antifascismo torinese e in particolare con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933.
Nel 1940 seguì il marito, inviato al confino per motivi politici e razziali, a Pizzoli in Abruzzo, dove rimase fino al 1943.
Nel 1942 scrisse e pubblicò, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il primo romanzo, dal titolo La strada che va in città, che verrà ristampato nel 1945 con il nome dell’autrice.
In seguito alla morte del marito, torturato e ucciso nel febbraio del 1944 nel carcere romano di Regina Coeli, nell’ottobre dello stesso anno Natalia giunse a Roma, da poco liberata, e si impiegò presso la sede capitolina della casa editrice Einaudi. Nell’autunno del 1945 ritornò a Torino, dove rientrarono anche i suoi genitori e i tre figli, che durante i mesi dell’occupazione tedesca si erano rifugiati in Toscana.
Nel 1947 esce il suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario “Tempo”.
In quello stesso periodo, come ha rivelato Primo Levi a Ferdinando Camon in una lunga conversazione diventata un libro nel 1987 e poi lo stesso Giulio Einaudi in una intervista televisiva, diede parere negativo alla pubblicazione di Se questo è un uomo. Il libro uscirà per una piccola casa editrice, la De Silva di Franco Antonicelli, in 2500 copie, e solo nel 1958 verrà riproposto da Einaudi diventando il grande classico che conosciamo.
Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra, con il quale concepirà la figlia Susanna (4 settembre 1954 – 15 luglio 2002) e il figlio Antonio (6 gennaio 1959 – 3 marzo 1960), entrambi portatori di handicap. Iniziò per Natalia un periodo ricco in termini di produzione letteraria, che si rivelò prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell’indagine psicologica. Nel 1952 pubblicò Tutti i nostri ieri; nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vinse il premio Viareggio,[4] e il romanzo Sagittario; nel 1961Le voci della sera che, insieme al romanzo d’esordio, verrà successivamente raccolto nel 1964 nel volume Cinque romanzi brevi.
Nel decennio successivo seguirono, nella narrativa, i volumi Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. In questo periodo Natalia Ginzburg fu anche collaboratrice assidua del Corriere della Sera, che pubblicò numerosi suoi elzeviri su argomenti di critica letteraria, cultura, teatro e spettacolo. Tra questi, una sua lettura critica, con uno sguardo al femminile, del film Sussurri e grida[6] ottenne un forte riscontro nel panorama letterario e culturale nazionale, divenendo un punto di riferimento per la critica bergmaniana.[7]
Nella successiva produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada di Swann di Proust, ripropose in modo più approfondito i temi del microcosmo familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del 1977, il romanzo epistolare La città e la casa del 1984, oltre al volume del 1983 La famiglia Manzoni, visto in una prospettiva saggistica.
È l’anno 1969 a costituire un punto di svolta nella vita della scrittrice: il secondo marito morì e, mentre cominciava in Italia, con la strage di piazza Fontana, il periodo cosiddetto della strategia della tensione, la Ginzburg intensificò il proprio impegno dedicandosi sempre più attivamente alla vita politica e culturale del Paese,[8] in sintonia con la maggioranza degli intellettuali italiani militanti orientati verso posizioni di sinistra.
Nel 1971 sottoscrisse, assieme a numerosi intellettuali, autori, artisti e registi,[9] la lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli,[10] documento attraverso cui si denunciano, riguardo alla morte di Giuseppe Pinelli, le presunte responsabilità dei funzionari di polizia della questura di Milano (con particolare riferimento al commissario Luigi Calabresi). Tale adesione verrà più volte ricordata dalla stampa in seguito al matrimonio della nipote della Ginzburg, Caterina, con Mario Calabresi, figlio del commissario nel frattempo assassinato. Nello stesso anno si unì ai firmatari di un’autodenuncia di solidarietà verso alcuni giornalisti di Lotta Continua accusati di istigazione alla violenza.[11]
Nel 1976 partecipò alla campagna innocentista in favore di Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono,[12] i due militanti di Potere Operaio che saranno poi condannati per i reati a loro imputati (tra cui l’omicidio dello studente nazionalista greco Mikis Mantakas).
Il 25 marzo 1988 scrisse per L’Unità un articolo divenuto famoso, dal titolo: Quella croce rappresenta tutti,[13] difendendo la presenza del simbolo religioso nelle scuole e opponendosi alle contestazioni di quegli anni.
Morte
Morì a Roma nelle prime ore dell’8 ottobre 1991. È sepolta al cimitero del Verano di Roma
I 7 libri di Charles Dickens da leggere assolutamente.
Scrittore ma anche giornalista, editore e persino attore: Charles Dickens è una vera star dell’Europa vittoriana. Secondogenito di undici figli, a dodici anni viene costretto a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe per ripagare i debiti del padre, finito in galera. Insomma, il grande narratore inglese non ha inventato nessuna delle disavventure occorse a Oliver Twist o David Copperfield: i suoi romanzi raccontano il lato oscuro di una Londra che lui conosce bene, in piena rivoluzione industriale, tra sfruttamento e progresso, miseria e prestigio.
Dickens è dunque il cantore di Londra, ma i suoi libri uscivano a puntate attesi con grande trepidazione in tutta Europa e in America. Prima di scrivere, era solito fare lunghe passeggiate, anche di notte, tra il rumore delle fabbriche e i quartieri ricchi. Per questo, come spiega George Orwell, le atmosfere cittadine dickensiane sono ancora così vivide: “Quando Dickens descrive una cosa una volta, la si ricorda per tutta la vita”. Oltre al lato socialmente impegnato dell’autore, Dickens è anche maestro di ironia e satira: indimenticabili le bizzarre caricature del Circolo di Pickwick e degli altri scritti d’esordio. La vera grandezza di Dickens sta però nell’attualità dei suoi romanzi e nella modernità dello stile narrativo. Bisognerebbe leggerli tutti, ma per chi vuole (ri)scoprire l’opera di un grande scrittore, ecco quelli che secondo noi sono i 7 libri di Charles Dickens da leggere assolutamente almeno una volta nella vita.
1) Il Circolo Pickwick –
Primo di una lunga serie di romanzi bestseller, Il Circolo Pickwick resta un capolavoro dell’umorismo. La trama funge da cornice per presentare gag memorabili e una miriade di personaggi bizzarri (a cominciare dalla strepitosa comitiva viaggiante composta da mister Pickwick, Sam Weller e soci) che mettono alla berlina la fragilità della morale inglese d’epoca vittoriana.
2) Le avventure di Oliver Twist
Le avventure di Oliver Twist è il secondo romanzo pubblicato da Charles Dickens. Sicuramente l’avrete incontrato per la prima volta a scuola, in un edizione per ragazzi o sull’antologia (o forse nella trasposizione cinematografica di Roman Polanski?). In verità questo libro è molto di più di un romanzo di formazione: la storia del giovane Oliver ha mille sfaccettature e rimane un superclassico che vale sempre la pena di custodire nella propria biblioteca e di annoverare tra i libri di Dickens da leggere assolutamente.
3) David Copperfield
Una delle commedie umane più lette d’ogni tempo. E difficilmente si trova in letteratura una descrizione più efficace del mondo visto dagli occhi di un bambino. “Di tutti i miei libri”, diceva Dickens, “amo soprattutto David Copperfield.” E si sa anche il perchè. Questo romanzo è considerato una sorta di fiction autobiografica: il racconto retrospettivo della vita di David ricorda da vicino molte delle peripezie vissute dal vero Dickens tra infanzia e maturità.
4) Canto di Natale
La più celebre delle storie sul Natale è un racconto dai profondi insegnamenti sul Bene e il Male, adatto a tutte le età, qui in una bella edizione con prefazione di Gianrico Carofiglio. Come noto, i tre fantasmi del Natale appariranno in infinite trasposizioni narrative, dal cinema al fumetto (lo stesso personaggio dello zio Paperone disneyano ha come prototipo l’avarissimo Ebenezer Scrooge). Con questo romanzo breve Dickens si consacra anche come l’inventore letterario della magia del Natale.
5) Una storia tra due città
Le due città di questo memorabile romanzo storico di Dickens sono Londra e Parigi, maestose scenografie su cui lo scrittore ambienta la sua era della Rivoluzione. Secondo alcuni sarebbe uno dei libri più venduti di tutti i tempi (con la bellezza di 200 milioni di copie). Comunque sia, resta una grande storia in cui il passato si sovrappone al presente e delinea inesorabile i rapporti tra i diversi e ancora una volta straordinari personaggi ideati da Dickens.
6) Tempi difficili
In una fittizia città industriale del tardo ‘800, papà Grandgrin, come molti suoi contemporanei, educa la famiglia a fuggire gli idealismi e la fantasia. Così spinge la figlia Louisa a un matrimonio senza amore ma assai economicamente vantaggioso. Si vedrà presto costretto a dover prendere le distanze dalle proprie convinzioni…
Il grande romanzo della maturità di Dickens: una macchina travolgente in cui ricorrono gli ingredienti consueti della sua scrittura, ma con in più un tono di favola che a tratti stempera gli eventi persino in chiave comica.
7) Grandi speranze
Grandi speranze è l’ultimo romanzo di formazione dickensiano, nonché un capolavoro assoluto del genere. Protagonista indimenticabile è il giovane orfano Pip nel suo sogno di far fortuna e salvarsi la vita. Molti critici vedono anche nella filigrana di Grandi speranze una traccia autobiografica: narratore e protagonista, Pip racconta da adulto il suo cammino di conoscenza e disillusione di fronte ai casi della vita in un misto di humour e compassione nel ricordare la propria ingenuità.
David Copperfield di Charles Dickens – Articolo di Giovanni Teresi-Fonte RAI Cultura-
David Copperfield di Charles Dickens
David Copperfield è l’ottavo romanzo dello scrittore inglese Charles Dickens e rientra nei romanzi sociali . L’opera, inizialmente, è stata pubblicata a puntate mensili tra il 1849 e il 1850 con il titolo originale The Personal History, Adventures, Experience and Observation of David Copperfield the Younger of Blunderstone Rookery (Which He Never Meant to Be Published on Any Account).
É il romanzo più popolare ed autobiografico di Dickens.
David Copperfield, dopo la morte della madre, lascia Blunderstone per Londra. Mr Murdstones, il patrigno, lo obbliga ad andare a lavorare al magazzino di vini di Murdstone and Grimby. All’ età di dieci David diventa un piccolo apprendista. Egli lavora insieme con altri tre o quattro ragazzi che lavorano sotto il controllo di un supervisore adulto. David descrive la miseria e la sporcizia del posto di lavoro. Così, sotto la sferza del tirannico maestro Creakle e la fatica del lavoro in fabbrica, sperimenta presto la durezza della vita.
Ma grazie alle cure della bizzarra zia Betsey, che lo aiuta a sistemarsi presso l’avvocato Wickfield e a terminare gli studi, David scoprirà la propria vocazione letteraria e riconquisterà il suo rango borghese. Impareggiabile nel raccontare paure ed emozioni dell’universo infantile, Dickens sfodera doti di acuto osservatore nel disegnare la galleria di tipi umani che ruota attorno al protagonista: da Mr. Micawber, sempre sull’orlo del fallimento ma capace del più genuino entusiasmo, all’ammirato compagno di studi Steerforth, che rivelerà da adulto la sua natura spregiudicata e viziosa, al servile e viscido Uriah Heep, il cattivo della storia. Alla fine del diciannovesimo secolo il lavoro minorile e le dure condizioni erano considerate una cosa normale e i piccoli lavoratori erano sottoposti a grossi rischi. Ma David non può esprimere la segreta agonia della sua anima. Egli vede il futuro in modo negativo e non ha speranza: nessuna possibilità di crescere e di distinguersi come individuo. La miseria del suo lavoro e la sua condizione sociale soffocano i suoi sogni e le sue aspettative.
Con geniale esuberanza il romanzo intreccia commedia e tragedia sullo sfondo di una Londra prototipo della metropoli moderna e tetra incubatrice di miseria, solitudine, crimine.
Charles Dickens miscelando insieme una buona dose di dramma ma anche di ironia, riesce a trasmettere al lettore una miriade di emozioni, che passano dalla tristezza, alla gioia, dalle risate alle lacrime, dalla rabbia ai sospiri. Insomma, immergersi tra le pagine di David Copperfield equivale a vivere un vero e proprio viaggio non solo in un’epoca passata, ma anche in sensazioni molto forti, che rendono la lettura un’esperienza completa e piena.
Poesie di Giosuè Carducci -Nuove poesie edizione del 1873 – prima edizione del 1873-copia anastatica-
Giosuè Carducci – Nuove poesie – 1873 (prima edizione) Imola, Tip. d’Ignazio Galeati e figlio, 1873.
Nuove poesie di Enotrio Romano è la prima edizione della quarta raccolta di poesie di Carducci, contenente poesie mai apparse nelle precedenti raccolte.
Carducci è stato il primo italiano vincitore del Premio Nobel per la letteratura. Insieme a Camillo Golgi, è stato il primo italiano in assoluto insignito di tale premio nel 1906.
La consacrazione letteraria
Piano piano riuscì a riprendersi, usando le armi consuete: quelle dello studio e dell’insegnamento. Il 1º marzo 1872 la casa sarà poi allietata dalla nascita dell’ultima figlia, Libertà, che verrà sempre chiamata Tittì. Il Barbera intanto propose a Carducci di pubblicare un libro che raccogliesse tutte le poesie, dalle prime alle più recenti. Giosuè accettò, e nel febbraio 1871 apparvero le Poesie, suddivise in tre parti: Decennali (1860-1870), Levia Gravia (1857-1870) e Juvenilia (1850-1857). Nei Decennali confluirono le poesie politiche, ad eccezione di quelle precedenti a Sicilia e la Rivoluzione (così volle l’autore), mentre le altre due sezioni riproducevano sostanzialmente i testi del volume pistoiese.[117]
Continuò poi con la composizione di giambi (Idillio Maremmano il più celebre) ed epodi, sonetti (Il bove) e odi, unendovi la traduzione di composizioni di Platen, Goethe ed Heine mantenendone il metro originale. Questi e altri testi andarono a formare nel 1873 le Nuove poesie, 44 componimenti editi dal Galeati di Imola, inglobanti anche le Primavere elleniche che l’anno prima il Barbera aveva licenziato in un volumetto.
Il libro non risparmiava critiche dirette a uomini politici, e suscitò forti reazioni. Bernardino Zendrini e Giuseppe Guerzoni scrissero su Nuova Antologia e sulla Gazzetta Ufficiale articoli contro le Nuove Poesie, cui fece seguito la reazione carducciana sulle colonne de La voce del popolo, comprendente sette capitoletti di Critica e arte, saggio che entrerà a far parte dei Bozzetti critici e dei Discorsi letterari editi dal Vigo nel 1876. Nel complesso, però, l’Italia ne riconobbe il valore. Ancora maggiori furono i consensi provenienti dall’estero. L’editore della Revue des Deux Mondes e addirittura Ivan Sergeevič Turgenev ne chiesero una copia, ed entusiastiche approvazioni arrivarono dal mondo germanico.[118] La prima edizione fu subito esaurita e portò a esaurire anche quella delle Poesie edite da Barbera, il quale diede di queste ultime nuove edizioni nel 1874, 1878 e 1880, con la presenza nelle ultime due di una biografia del poeta scritta da Adolfo Borgognoni.[119]
In quegli anni non era possibile, per i letterati della città, non fare una tappa alla libreria Zanichelli. Il Carducci incominciò a frequentarla quotidianamente, nelle passeggiate che faceva prima di cena dopo un pomeriggio di studio o di lezioni universitarie. Nicola Zanichelli voleva avviare una casa editrice, e si fece promettere dal nuovo avventore uno studio sulle poesie latine dell’Ariosto, dato che, con un anno di ritardo, nel 1875 si sarebbe celebrato a Ferrara il quattrocentesimo anniversario della nascita del poeta reggiano. Iniziò così una collaborazione molto duratura. Nell’aprile 1875 Zanichelli pubblicò la seconda edizione delle Nuove Poesie, e il mese successivo il promesso studio ariostesco.
Dopo le Nuove poesie però il Carducci voleva abbandonare la poesia sociale e tornare al primo amore: la classicità. «Alle mie odi barbare pensai fin da giovane; ne formai il pensiero dopo il 1870, poi ch’ebbi letti i lirici tedeschi. Se loro, perché non noi? La prima pensata in quella forma e scrittene subito le prime strofi è All’Aurora; la seconda tutta di seguito è l’Ideale».[120] È un tuffo nel passato affrontato tuttavia con le armi di chi si è creato negli anni una precisa identità e non ha quindi intenzione di procedere a una pedissequa imitazione. Stimolato dall’esempio dei poeti tedeschi Carducci volle dimostrare che la poesia italiana poteva non solo riprendere le tematiche dei greci e dei latini, ma mantenerne il metro. Klopstock aveva riproposto in tedesco l’esametro latino, Goethe aveva risuscitato le forme greche, e la scuola teutonica si credeva la sola capace dell’impresa, in quanto le lingue romanze si erano allontanate troppo, attraverso la corruzione linguistica medievale, dal modello originario. Theodor Mommsen giurava che in italiano una simile operazione non fosse possibile.[121]
Tutto ciò non poteva che spronare Giosuè a tentare: «Non so perché quel che egli fece col duro e restio tedesco, non possa farsi col flessibile italiano», scriverà a Chiarini nel 1874 riferendosi alle Elegie romane del Goethe[122] e allegando l’asclepiadeaSu l’Adda, scritta l’anno precedente.[123]
La prima edizione delle Odi barbare
Nel 1873, quindi, uscirono dalla sua penna i primi componimenti di questo tipo, le prime Odi barbare, che avranno una prima edizione presso Zanichelli nel luglio 1877, e in concomitanza con Postuma di Lorenzo Stecchetti inaugureranno la famosa «Collezione elzeviriana». In Su l’Adda l’asclepiadea viene resa in quartine con due endecasillabi e due settenari, uno sdrucciolo e uno piano, e qualche mese dopo compirà All’Aurora – pensata e cominciata prima delle altre -, in distici elegiaci, e l’alcaicaIdeale. Per il distico, ora e in seguito, riesce a trasportare l’esametro e il pentametro nella poesia italiana combinando un settenario e un novenario per il primo, un senario sdrucciolo e un settenario piano per il secondo, mentre l’alcaica presenta due endecasillabi seguiti da un novenario e un decasillabo. Del 1875 sono le quattro quartine della saffica Preludio (la strofa saffica è costituita da tre endecasillabi e un quinario), concepita, come dice il titolo, come poesia introduttiva all’intera raccolta.
Le quattordici odi dell’edizione zanichelliana sono un vero e proprio manifesto della concezione carducciana del mondo, della storia, della natura. Gli eventi del passato non hanno potuto sconvolgere l’Adda che continua a scorrere ceruleo e placido (Su l’Adda), mentre «su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando/ con un sorriso languido di viola».[124] La natura continua imperturbabile il proprio corso, attraverso le aurore e i tramonti che costituiscono lo sfondo prediletto della raccolta.[125]
La storia, però, funge da maestra per i costumi degradati del presente che possono risollevarsi solo attraverso il maestoso insegnamento di un passato rievocato come una fusione della storia nella natura, spoglio ormai delle proprie componenti truci o barbare e materia prima della poesia, e come nel canto di Demodoco le fiamme di Ilio non bruciano più, ma vengono trasfigurate dal canto, che con totale serenità esplica la propria potenza, come una nave – leitmotiv della raccolta – che pacificamente risale la corrente del tempo.[126]
Non c’è quindi più furia politica in Carducci, non c’è rabbia né critica sociale. Le odi attaccano il cattolicesimo, esaltano l’impero romano ed esprimono la visione politica carducciana, ma essa perde la carica polemica precedente. Le odi si fissano su un particolare attuale – l’Adda che scorre, il sole che illumina il campanile della Basilica di San Petronio, il poeta che contempla le terme di Caracalla – per rievocare gli eventi storici trascorsi, e si chiudono nuovamente in una contemplazione solenne della natura, mentre il passato ormai andato non è più fonte di angoscia come in Leopardi, ma canto sempre attuale. La storia è regolata da un principio preciso e incontrovertibile.[127]
I modelli non possono che essere Omero, Pindaro, Teocrito, Virgilio, Orazio, Catullo, accanto a cui agiscono Dante, Petrarca, Foscolo, cui vengono fatti rimandi testuali piuttosto espliciti e seguiti anche nel frequente uso dell’inversione sintattica caro alla lingua latina.[128]
Le Odi, all’inizio, si scontrarono con lo scetticismo generale e presso il grande pubblico, voglioso di una poesia “leggera” dopo i recenti duri trascorsi storici, furono offuscate proprio dallo stile lineare e dal lessico semplice di Postuma. Non v’era un’immagine, nelle poesie dello Stecchetti, che non fosse chiara a tutti, né mancava certa licenziosità che attraeva il pubblico. Negli anni compresi tra il 1878 e il 1880Postuma ebbe sette edizioni, mentre le Barbare si fermarono a tre, e se furono lette e vendute è da ascriversi all’ormai indiscussa fama del loro autore.
Se è vero che Gaetano Trezza e Anton Giulio Barrili le lodarono, è da dire come la prima reazione della critica fu anche più severa di quella del pubblico. Il Carducci fu attaccato e stroncato da tutte le parti. Passata la tempesta, però, il valore dell’opera fu riconosciuto, e lo stesso Guerrini dovette apprezzarla dato che si dilettò poi anch’egli a restituire nei suoi componimenti la versificazione latina.[129]
Carducci però viveva un periodo affatto particolare, e le polemiche non turbavano più molto il proprio animo acceso e focoso. Aveva qualcosa che riempiva la sua esistenza, qualcosa di insperato e insospettato fino ad allora:
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Simone Belladonna “Gas in Etiopia” -NERI POZZA EDITORE
«La guerra d’Etiopia non è stata soltanto la più grande campagna coloniale della Storia contemporanea, ma anche, probabilmente, la miccia che ha fatto scoppiare la seconda guerra mondiale. Mussolini cominciò a prepararla…
SINOSSI-
Dall’introduzione di Angelo Del Boca: «La guerra d’Etiopia non è stata soltanto la più grande campagna coloniale della Storia contemporanea, ma anche, probabilmente, la miccia che ha fatto scoppiare la seconda guerra mondiale. Mussolini cominciò a prepararla sin dal 1925 e volle che fosse una guerra rapida, micidiale, assolutamente distruttiva. Per questa ragione mandò in Africa orientale mezzo milione di uomini armati alla perfezione, tanti aeroplani da oscurare il cielo, carri armati e cannoni in numero tale da sguarnire le riserve della madrepatria. E per essere sicuro della vittoria, autorizzò anche l’uso di un’arma proibita, l’arma chimica, sulla quale l’autore in questo libro ha raccolto con grande perizia tutte le informazioni possibili.
Per cominciare, ha esplorato, per primo, gli archivi americani del FRUS, dove sono raccolti i dispacci degli alti funzionari degli Stati Uniti sulla preparazione della campagna fascista contro l’Etiopia. Si tratta di documenti di estrema importanza, perché rivelano le mosse del fascismo in armi e ne analizzano, giorno dopo giorno, la pericolosità per la pace nel mondo.
Poiché il libro costituisce, in primis, la denuncia dell’impiego dei gas velenosi e mortali e di tutti gli inganni perpetrati negli anni per nascondere quei crimini, l’autore non ha trascurato dati accurati che offrissero un quadro completo dei diversi gas utilizzati, dei sistemi per utilizzarli, dei risultati ottenuti. Si tratta di migliaia di tonnellate di iprite e di fosgene scaricate soprattutto dagli aeroplani sui combattenti etiopici e sulle popolazioni indifese […].
Gli orrendi crimini del fascismo vennero, come è noto, cancellati dalla propaganda del regime, rimossi dai documenti e dai moltissimi libri pubblicati dai massimi protagonisti della guerra, come Badoglio, Graziani, Lessona, De Bono, dai gerarchi, dai giornalisti e da semplici gregari. Questa sconcertante autoassoluzione proseguì anche nel dopoguerra e nei decenni a seguire, mentre ogni tentativo di ristabilire la verità veniva prontamente ostacolato […].
Perché l’Italia venga a conoscere la verità su quei tremendi crimini bisognerà attendere il 1996, quando il ministro della Difesa, Domenico Corcione, farà alcune parziali ammissioni. Inutilmente, il governo imperiale etiopico ha cercato di trascinare Badoglio, Graziani e altre centinaia di criminali di guerra sul banco degli imputati. Tanto Londra che Washington hanno esercitato sull’imperatore Hailé Selassié ogni sorta di pressioni per dissuaderlo dall’istituire, come era giusto e legittimo, una Norimberga africana». Dall’introduzione di Angelo Del Boca
L’Autore-
Simone Belladonna
Simone Belladonna è laureato in Scienze Internazionali e Studi Europei. È da sempre appassionato di politica e storia. Fa parte del consiglio di redazione di Rivista Europae e lavora come Account Strategist a Google, in Irlanda. Gas in Etiopia è il suo primo libro.
Laura Frausin Guarino (Traduttore), Teresa Lussone (Traduttore)
Editore Adelphi
Descrizione-«Irène Némirovsky» ha scritto Pietro Citati «possedeva i doni del grande romanziere, come se Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Flaubert, Turgenev le fossero accanto e le guidassero la mano». Per tutti coloro che dal 2005 (anno della pubblicazione di “Suite francese” in Italia) hanno scoperto, e amato, le sue opere, questo libro sarà una sorpresa e un dono: perché potranno finalmente leggere la «seconda versione» – dattiloscritta dal marito, corretta a mano da lei e contenente quattro capitoli nuovi e molti altri profondamente rimaneggiati – del primo dei cinque movimenti di quella grande sinfonia, rimasta incompiuta, a cui stava lavorando nel luglio del 1942, quando fu arrestata, per poi essere deportata ad Auschwitz.
Una versione inedita, e differente da quella, manoscritta, che le due figlie bambine si trascinarono dietro nella loro fuga attraverso la Francia occupata, e che molti anni dopo una delle due, Denise, avrebbe devotamente decifrato. Qui, nel narrare l’esodo caotico del giugno 1940, e le vicende dei tanti personaggi di cui traccia il destino nel suo ambizioso affresco – piccoli e grandi borghesi, cortigiane di alto bordo, madri egoiste o eroiche, intellettuali vanesi, uomini politici, contadini, soldati –, Némirovsky elimina tutte le fioriture, asciuga e compatta; non solo: ricorrendo alla tecnica del montaggio cinematografico, limitandosi a «dipingere, descrivere», sopprimendo ogni riflessione e ogni giudizio, conferisce a questo allegro con brio un ritmo più sostenuto – e riesce a trattare la «lava incandescente» che ne costituisce la materia con una pungente, amara comicità.
Nata nell’impero russo, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irène Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morì un mese più tardi di tifo. Il marito, Michel Epstein, si attivò per cercare di salvare la moglie inviando un telegramma il 13 luglio 1942 a Robert Esménard (il suo editore del momento) ed a André Sabatier presso Albin Michel, proprietario della casa editrice Grasset che pubblicò molte opere di Irene, per chiedere aiuto:
“Irène partita oggi all’improvviso. Destinazione Pithiviers (Loiret)[1]. Spero che voi possiate intervenire urgenza stop Cerco invano telefonare”[2]. Anche il marito morì nel novembre dello stesso anno ad Auschwitz. Dal 2005 la casa editrice Adelphi ha iniziato a pubblicare le sue opere.
Biografia
Irène (in russo: Ирина Леонидовна Немировская, Irina Leonidovna Nemirovskaja) Némirovsky, nacque a Kiev, unica figlia di un ricco uomo d’affari e banchiere ebreoucraino, Leonid Borisovič Némirovsky (1868-1932) e di Anna Margoulis, detta Fanny (1887-1989). Trascurata dalla madre, Irène venne allevata dalla sua governante francese, soprannominata Zezelle, con la quale strinse un profondo legame e destinata ad avere un ruolo significativo nella sua formazione. Il francese, di cui apprese i rudimenti dalla governante, sarebbe divenuto la lingua dominante di Irène, ancor più del russo. Imparerà poi sia il tedesco che l’inglese. Nel 1913 la famiglia ottenne il permesso di trasferirsi a San Pietroburgo, che diventerà poi Pietrogrado. Nel gennaio del 1918 i soviet misero una taglia sulla testa del padre e, quindi, la famiglia fu costretta a scappare (si travestirono da contadini). Trascorse poi un anno in Finlandia ed un anno in Svezia. Nel luglio del 1919 i Némirovsky si trasferirono in Francia dopo un avventuroso viaggio su di una nave. A Parigi, Irène Némirovsky andò a vivere in un quartiere chic nel XVI arrondissement. Una governante inglese si occupò della sua educazione. Superò l’esame di maturità nel 1919, nel 1921 si iscrisse alla facoltà di lettere della Sorbona. Conosceva sette lingue. Aveva iniziato a scrivere in francese sin dai 18 anni, nell’agosto del 1921, quando pubblicò il suo primo testo sul bisettimanale Fantasio.
Nel 1923, Némirovsky scrisse la sua prima novella: l’Enfant génial (ripubblicata con il nome di Un enfant prodige nel 1992), che sarà pubblicata nel 1927 e che rivela una sorprendente fantasia e maturità di scrittura per un’autrice ventenne che non aveva ancora terminato gli studi. Irène riprese quindi a studiare ottenendo nel 1924 la laurea in lettere alla Sorbona. Nel 1926, nel municipio del XVI arrondissement prima e poi alla sinagoga di Rue de Montevideo, Irène Némirovsky sposò Michel Epstein, un ingegnere russo emigrato, divenuto poi banchiere, da cui avrà due figlie: Denise nel 1929 ed Élisabeth nel 1937. Il contratto matrimoniale stipulato le permetterà di ottenere i diritti d’autore fin dalla pubblicazione delle sue opere. La famiglia Epstein si trasferì a Parigi, dove Irène scrisse dei dialoghi per Fantasio e pubblicò il suo primo romanzo Le malentendu.
Irène Némirovsky divenne celebre nel 1929 con il suo romanzo David Golder. Il suo editore Bernard Grasset la introdusse subito nei salotti e negli ambienti letterari francesi. Lì incontrò Paul Morand, che pubblicherà presso Gallimard quattro delle sue novelle con il titolo Films parlés. David Golder fu adattato nel 1930 per il teatro e il cinema (David Golder fu interpretato da Harry Baur). Ne Le Bal1930 descrisse il passaggio difficile di un’adolescente all’età adulta. L’adattamento al cinema di Wilhelm Thiele rivelerà Danielle Darrieux. Di successo in successo, Irène Némirovsky diventò una promessa della letteratura, amica di Tristan Bernard e di Henri de Régnier.
Nel 1933 abbandonò la casa editrice Grasset per Albin Michel e cominciò a pubblicare alcune novelle sul Gringoire. Sebbene fosse una scrittrice francofona riconosciuta, membro totalmente integrato della società francese, il governo francese le rifiuterà la nazionalità, richiesta per la prima volta nel 1935. Si convertì al cattolicesimo il 2 febbraio 1939 nella cappella dell’Abbazia di Sainte-Marie a Paris, anche se la figlia Denise dice: Non parlerei di conversione, ma di “farsi battezzare cattolici”[3]. Scrisse poi per il settimanale di destra Candide, con il quale interromperà la collaborazione quando venne pubblicato il primo statuto degli ebrei, nell’ottobre del 1940, mentre Gringoire, divenuto apertamente antisemita, continuerà a pubblicarla, ma sotto pseudonimo.
Vittime delle leggi antisemite varate nell’ottobre del 1940 dal governo di Vichy, Michel Epstein non poté più continuare a lavorare in banca e a Irène Némirovsky fu proibito pubblicare. Dopo la primavera i coniugi Epstein si trasferirono a Issy-l’Évêque, nel Morvan, dove avevano messo al riparo nel settembre del 1939 le loro figlie. Némirovsky scrisse ancora diversi manoscritti. Fu considerata un’ebrea per la legge e dovette applicare la stella gialla sui suoi abiti. Le sue opere non furono più pubblicate. Solo l’editore Horace de Carbuccia, sfidando la censura, pubblicò le sue novelle fino al 1942. Il 13 luglio 1942 Irène fu arrestata dalla guardia nazionale francese. Michel Epstein mandò un telegramma il 13 luglio del 1942 a Robert Esménard e André Sabatier presso Albin Michel per chiedere aiuto:
«Irène partita oggi all’improvviso. Destinazione Pithiviers (Loiret). Spero che voi possiate intervenire urgenza stop Cerco invano telefonare»
Fu subito trasferita a Toulon-sur-Arroux, dove rimase imprigionata due notti. Il 15 luglio fu trasportata al campo d’internamento di Pithiviers. Némirovsky fu autorizzata a scrivere e spedì al marito una cartolina, in cui non si lamenta delle condizioni difficili. Fu deportata il giorno dopo a Auschwitz, dove venne trasferita nel Rivier (l’infermeria di Auschwitz in cui venivano confinati i prigionieri troppo ammalati per lavorare) dove muore di tifo il 17 agosto 1942. Suo marito (così come André Sabatier e Robert Esménard) intraprese numerosi procedimenti per farla liberare, ma fu arrestato a sua volta nell’ottobre del 1942, deportato ad Auschwitz assieme alla sorella e ucciso nelle camere a gas al suo arrivo, il 6 novembre 1942.
Le sue due figlie salvarono alcuni documenti e finirono sotto la tutela di Albin Michel e Robert Esmenard (che dirigevano la casa editrice) fino alla loro maggiore età. Denise conservò tali documenti in una valigia, la stessa in cui li aveva trovati e, per anni, non aprì neppure la valigia, forse per il rancore che nutriva nei confronti dei genitori che per salvarle le avevano affidate a un’amica francese, tale signora Dumas, di cui presero il cognome conservando il loro nome francese. Poi un giorno Denise aprì la valigia e vi scoprì un manoscritto della madre. Ne riconobbe la grafia, il colore azzurro dell’inchiostro preferito[4]. Lo lesse, erano i primi due tomi di un’opera in cinque volumi che resterà incompiuta: “Suite francese”. Tempo dopo Denise partecipò alla presentazione di un romanzo di una scrittrice francese. Le si avvicinò con in mano una copia del libro per chiederle un autografo. La scrittrice, come si usa per fare una dedica, le chiese: Come ti chiami?, “Denise Epstein”, Curioso, hai il nome della più grande scrittrice francese del secolo. “Era mia madre – disse subito Denise – posseggo anche un suo manoscritto inedito”. Fu chiamato l’editore, che decise di pubblicarlo senza neppure leggerlo e così Irène Némirovsky Epstein, scrittrice del tutto dimenticata, tornò a vivere riguadagnando un posto nella storia della letteratura francese del ‘900.
Riscoperta di una scrittrice
Dopo l’arresto dei loro genitori durante la guerra, Élisabeth e Denise Epstein si nascosero grazie all’aiuto di alcuni amici di famiglia, portando con loro i manoscritti inediti della loro madre, fra i quali Suite francese. Si tratta dei due primi tomi di un romanzo incompiuto, che doveva contarne cinque, avendo come cornice l’esodo del giugno 1940 e l’occupazione tedesca della Francia. Venne pubblicato in Francia soltanto nel 2004 dalle Edizioni Denoël. Questo romanzo ricevette il Prix Renaudot a titolo postumo, facendo eccezione al regolamento del premio che prevede la premiazione di soli scrittori viventi. Le fu invece negato il Premio Goncourt per il fatto di non essere francese[5].
Le due figlie hanno conservato la memoria della loro madre, con diverse riedizioni. Nel 1992, sua figlia Élisabeth Gille, che ha diretto per le Edizioni Denoël la collezione Présence du futur, pubblica una biografia, Le Mirador.
Irène Némirovsky
Cronologia
1868 – 1903 – La famiglia Némirovsky
Leon Némirovsky, padre di Irène, nasce nel 1868 a Elizavetgrad (oggi Kropyvnyc’kyj), città in cui si erano susseguiti diversi pogrom contro gli ebrei, fino al 1881. Il cognome Némirovsky proviene da Nemyriv, in russo Nemirov, cittadina ucraina che, durante il XVIII secolo, era un importante centro del movimento ebraico chassidico. La famiglia Némirovsky prospera nel commercio di cereali. Leon viaggia molto nelle province russe e ucraine, accumulando capitali che inizia a prestare e a far fruttare, fino a diventare un importante finanziere con una sua banca. Nel suo biglietto da visita scrive: “Némirovsky Leon, Presidente del Consiglio della Banca Commerciale di Voronež, Amministratore della Banca dell’Unione di Mosca, Membro del Consiglio della Banca Commerciale di Pietrogrado”.
Quindi, nonostante siano ebrei, i Némirovsky scalano il dislivello che li separa dall’aristocrazia russa e si mettono direttamente sotto la protezione dello zar. Irène parla francese prima di conoscere il russo: è la lingua della tata cui è affidata. Come molti cosmopoliti (parola spregiativa, all’epoca), anche Irène è poliglotta: padroneggia il polacco, il finlandese, l’inglese, il basco e lo yiddish. La madre Fanny (Faïga, in ebraico) nasce a Odessa nel 1887. Nel 1903 – l’11 febbraio, nel quartiere yiddish, nel cuore di Kiev, nasce Irène. È una bambina infelice e solitaria, nonostante gli sforzi dei precettori. Come spesso accadeva nelle famiglie ricche, i genitori facevano vita separata frequentando assai poco i figli, fino all’adolescenza. In questo caso Fanny rifiutò sempre di confrontarsi con la ragazza, che rischiava di oscurare la sua avvenenza.
Le due donne si odiano, Irène lo dice ne “Il vino della solitudine”, in “Jezabel”, ma è forse ne “Il ballo” che, nel finale, si definisce con maggior chiarezza il rapporto tra le due donne: — Ah! ma pauvre fille… Elle la saisit dans ses bras. Comme elle collait contre ses perles le petit visage muet, elle ne le vit pas sourire. Elle dit: – Tu es une bonne fille, Antoinette…et l’une allait monter, et l’autre s’enfoncer dans l’ombre. Mais elles ne le savaient pas. Cependant Antoinette répéta doucement: – Ma pauvre maman... (Ah, mia povera figlia… La strinse tra le braccia. Il piccolo viso schiacciato contro le perle della sua collana, non la vide sorridere. Sei una buona figlia Antoniette…mentre una stava per spiccare il volo, l’altra sprofondava nell’ombra. Ma non lo sapevano. Eppure Antoniette ripeteva con dolcezza: – Povera mamma.…)[6] In quel sorriso malizioso, reso ancor più perfido dallo scherzo crudele appena andato a segno c’è tutta l’ambiguità della relazione tra Irène e la madre[7].
1914 – 1919 – La fuga dal regime sovietico
Anche il padre, un uomo d’affari dai natali incerti, grande viveur, che accumula e scialacqua fortune, isolato e lontano dai figli, dedito ai giochi, alla finanza e al casinò, divenne il modello dei caratteri maschili di molti romanzi della scrittrice: il David Golder dell’omonimo romanzo. Mr. Kampf de “Il ballo”. Gli zii di Harry ne “I cani e i lupi“. Mentre Irène è ancora piccola la famiglia viaggia molto: dall’Ucraina a Biarritz, Saint-Jean-de-Luz, Hendaye e la Costa Azzurra. Fanny occupa solitamente ville o grandi alberghi. La piccola viene confinata con la governante in qualche modesta pensioncina nei paraggi. Si usava così all’epoca. Nel 1914 i Némirovsky si installano in una vasta proprietà, situata in una strada tranquilla, circondato da giardini di limoni, nella zona alta della città di San Pietroburgo (sarà il modello della casa di Harry ne “Il ballo”[8].
Nel 1917 muore la governante francese di Irene. La solitudine si intensifica, gli unici compagni sono i grandi scrittori russi che Irène cerca di imitare: Turgenev, Tolstoj, Čechov. Nel mese di ottobre del 1918, Leon subaffitta, da un ufficiale della Guardia imperiale, un appartamento a Mosca e vi trasferisce la famiglia. Irène – nella biblioteca di Des Esseintes – incontra Platone, “À rebours” di Huysmans, Maupassant e “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde, che resterà uno dei suoi libri preferiti. Nel mese di dicembre i Soviet prendono il potere. Tutti i beni dei privati devono essere confiscati, i Némirovsky fuggono in Finlandia. Solo Leon rientra clandestinamente in Russia per cercare di salvare parte delle sue fortune. Fuggono di nuovo: questa volta in Svezia, dove passano tre mesi a Stoccolma. Nel luglio del 1919, a causa di una tempesta, la nave che trasporta la famiglia Némirovsky, è costretta ad attraccare a Rouen. Da qui raggiungono Parigi dove si stabiliranno.
«”L’estate per me è Kiev, se l’inverno è la Finlandia e l’autunno è San Pietroburgo nelle nebbie gialle delle sponde della Neva. Non eravamo ancora molto ricchi quando vivevamo lì: solo benestanti. Mio padre ancora limitava i suoi affari alla città e spariva soltanto per brevi soggiorni a Odessa o a Mosca. Era già l’epoca dei piagnistei e delle liti, quella in cui mia madre vedeva in continuazione, al collo di un’amica, una collana più bella della sua, sulle spalle di un’altra una pelliccia più sontuosa, l’epoca in cui la casa le sembrava troppo piccola e scomoda, troppo buia, la cameriera maldestra e la cuoca incapace. A me piaceva quella casa, soprattutto dopo l’arrivo della governante francese, Mademoiselle Rose, che si occupava solo di me e mi proteggeva dalle urla di mia madre, dalle sue recriminazioni, dai suoi scoppi d’ira, dalle sue crisi di pianto. … “Quando cerco d’immaginarmi la mia prima infanzia, mi rivedo seduta su un seggiolone nella cucina annerita e piena di fumo in cui aleggiano gli effluvi di cavoli. All’estremità del lungo tavolo, la mia njanja discorre in una lingua incomprensibile con un uomo barbuto che indossa un camiciotto con la cinta di cuoio, forse il marito, venuto a trovarla. Il fuoco borbotta”[9]»
Anni ’20 – “Anni ruggenti“
Leon Némirovsky riesce a recuperare parte delle proprietà e apre un ufficio della sua banca a Parigi. Da questo momento il processo di assimilazione ha inizio e i profughi ebrei ucraini, si trasformano in alto borghesi parigini. Mai completamente e soprattutto mai irreversibilmente, sostiene Irène ne “I cani e i lupi“: – “Che il tuo cadavere sia fatto a pezzi! Non avrai pace né riposo né una morte serena! Sia maledetta la tua discendenza! Siano maledetti i tuoi figli!” – “La smetta!” esclamò con durezza Harry. “Non siamo in un ghetto dell’Ucraina qui!”. “Eppure è da lì che vieni, come me, come lei! Se sapessi quanto ti odio! Tu che ci guardi dall’alto in basso, che ci disprezzi, che non vuoi avere niente in comune con la marmaglia giudea! Lascia passare un po’ di tempo! Presto ti confonderanno di nuovo con quell’ambiente! Tornerai a farne parte, tu che ne sei uscito, che hai creduto di liberartene!”[10]. Sono gli anni ruggenti: lusso, feste, viaggi a Biarritz e a Nizza all’Hôtel Négresco naturalmente. Rolls che scorrazzano su è giù per la costa azzurra. Principi spiantati che fanno di mestiere i gigolò e giovani ereditiere (come Irène) che mettono in ombra le madri quarantenni e si scatenano. Così scrive da Nizza: «Mi agito come una pazza, che vergogna! Non faccio altro che ballare. Ogni giorno, nei vari alberghi, ci sono dei galà molto chic, e poiché ho la fortuna di poter disporre di qualche gigolò, mi diverto moltissimo». Poi, di ritorno da quella città: «Non ho fatto la brava… tanto per cambiare… Il giorno prima della partenza, al nostro albergo, il Negresco, c’era una festa. Ho ballato e mi sono scatenata fino alle due del mattino; dopo sono andata a flirtare bevendo champagne ghiacciato in mezzo a una corrente d’aria fredda»[11]
Irène Némirovsky
1926 – 1929 – I primi successi
Durante questo periodo, Irene continua i suoi studi di lettere, presso l’Università della Sorbona (dove si laurea con menzione d’onore) e invia i suoi “Piccoli racconti divertenti” alla rivista bimestrale Fantasio, che li pubblica e le paga 60 franchi al pezzo. Scrive anche su Le Matin e su Les Oeuvres libres, dove pubblica la sua prima novella: “Le Malentendu”. Ha diciotto anni. Conosce Michel Epstein (Mikhail in russo): “un omino piccolo, e moro di carnagione scura[12]“, ingegnere diplomato a San Pietroburgo e – come suo padre – ebreo e banchiere. Nel 1925 inizia a scrivere “David Golder” a Biarritz. Nel febbraio del 1926 pubblica su Oeuvres libres, “L’Enfant génial”, che poi prenderà il titolo di “Un Enfant prodige”. Irène e Michel Epstein si sposano e vanno a vivere al numero 10 di via Constant-Coquelin. Nel 1929Bernard Grasset riceve i manoscritti di “David Golder”. Entusiasta, l’editore Bernard Grasset lesse in una notte il manoscritto, mise un annuncio sul giornale per rintracciarne l’anonimo autore. Ma la Némirovsky non poté recarsi subito all’incontro perché, il 9 novembre, stava dando alla luce la sua prima figlia Denise.
Quando finalmente Grasset si vide davanti Irène Némirovsky, sulle prime non volle credere che fosse stata quella giovane spigliata ed elegante, figlia dell’alta borghesia russa, rifugiatasi a Parigi dopo la rivoluzione, a scrivere una storia tanto audace, insieme crudele e brillante – un’opera in tutto e per tutto degna di un romanziere maturo”[13]. Pieno di ammirazione ma ancora dubbioso, l’editore la interrogò a lungo per assicurarsi che la Némirovsky non stesse facendo da prestanome a un qualche scrittore più noto, che voleva restare nell’ombra. Appena uscì, “David Golder” fu elogiato all’unanimità dalla critica, tanto che Irène Némirovsky divenne subito celebre e fu lodata da scrittori di diversa estrazione, come Joseph Kessel, un ebreo, e Robert Brasillach, un monarchico di estrema destra e antisemita. Brasillach elogiò in particolare la purezza della prosa di quella nuova arrivata nel mondo letterario parigino[14]. Il regista Julien Duvivier adatta “David Golder” per il teatro e quasi contemporaneamente esce la pellicola tratta dal libro: – La beffa della vita[15]” (1931), regia di Julien Duvivier con Harry Baur nel ruolo del protagonista.
1930 – 1940 – Successi editoriali, la guerra e i nazisti in Francia
Finalmente è famosa e raccoglie i favori dei grandi dell’epoca: Morand, Drieu de La Rochelle, Cocteau, Brasillach e Kessel. La sua vita si divide tra la figlia Denise e personaggi del gran mondo, come Tristan Bernard, l’attrice Suzanne Devoyod o la principessa Obolensky con cui passa lunghi periodi alle terme per riprendersi dai suoi attacchi di asma. Nel 1930 pubblica “Il ballo”, adattato per il cinema nel 1931 da Wilhelm Thiele con una giovane e bellissima Danielle Darrieux, che qui debuttava. Scritto da Curt Siodmak, Ladislas Fodor and Henry Falk (dialoghi). Nel 1931 pubblica “Come le mosche d’autunno”. Nel 1933, quando Hitler sale al potere, nel mese di gennaio, Irène dice alla sua infermiera: “Mia povera cara, entro poco saremo tutti morti”[16]. Pubblica L’affare Kurilov. Inizia la collaborazione con l’editore Albin Michel, pubblica anche Le Pion sur l’échiquier e Le Vin de solitude. La Revue de Paris pubblica Dimanche. Gringoire pubblica Les rivages hereux. Nel 1936 La Revue des Deux Mondes pubblica Liens du sang. Lo stesso anno esce Jezabel. Nel 1937 la rivista Gringoire pubblica Fraternité. Il 20 marzo nasce Élisabeth, la seconda figlia degli Epstein. Nel 1938, Candide pubblica La femme de Don Juan. Gli Epstein chiedono la cittadinanza francese, convinti che la Francia difenderà “gli ebrei e gli apolidi”. Nel 1939 pubblica Deux.
Il primo settembre, alla vigilia della dichiarazione di guerra, la famiglia decide di non fuggire in Svizzera, come alcuni amici avevano suggerito. Tuttavia, Irène e Michel portano le bambine dalla governante, Cécile Michaud a Issy l’Evêque nel Saône-et-Loire. Irène rientra a Parigi, ma appena può va a trovare le figlie in provincia. A settembre tutta la famiglia si converte al cattolicesimo. Vengono battezzati da monsignor Ghika, vescovo appartenente alla famiglia reale rumena dei Ghika che morì nel 1954 a seguito delle torture subite nelle carceri comuniste[17]. Gringoire pubblica Le Spectateur. Nel 1940 pubblica Le Sortilège. Nel mese di giugno, Irene, in vista della pubblicazione di Suite francese scrive a margine del manoscritto: “Dio Mio! Cosa mi fa questo paese? Mi rifiuta e – diciamolo francamente – perde ai miei occhi l’onore e la vita. E cosa fanno gli altri Paesi? Cadono gli imperi. Nulla importa. Osservandolo da un punto di vista mistico o personale, tutto è lo stesso. Manteniamo la testa a posto. Speriamo”[18] Candide pubblica M. Rose. Il 3 ottobre vengono promulgate le prime leggi razziali che definiscono lo status giuridico e sociale degli stranieri giudei in Francia. Perdono i diritti civili e vengono confinati in campi di concentramento o residenze coatte. L’editore collaborazionista Bernard Grasset rifiuta di pubblicare ulteriori scritti della Némirovsky. Il marito Michel Epstein non può più lavorare presso la “Banque des Pays du Nord”. Pubblicazione di “Les chiens et les loups“. La Revue des Deux Mondes pubblica “Aïno“.
1941 – 1942 – Scrive i primi due capitoli di Suite francese, si ritira in provincia
1941 Irène e Michel abbandonano Parigi e si ritirano con le figlie, Denise e Élisabeth, di tredici e cinque anni, all’Hôtel des Voyageurs di Issy-l’Evêque. Vivono sotto lo stesso tetto con i soldati e gli ufficiali della Wehrmacht, acquartierati nell’albergo. Michel fa da interprete e ci gioca a biliardo. Come nella seconda parte di Suite francese la presenza di questi giovani uomini, a volte ragazzi, che sono lontani da casa e devono partire per la guerra sul fronte russo, ispira alla famiglia Epstein più compassione che rancore. Irène pubblica due articoli su Gringoire con lo pseudonimo di Pierre Nérey: il 20 marzo La Confidente e il 30 maggio L’Honnête homme. Il 2 giugno esce una nuova legge che prevede per gli ebrei francesi la deportazione nei campi di concentramento nazisti fuori dalla Francia. Quando vanno a iscriversi alle liste comunali, cercando di far valere i certificati di battesimo vengono obbligati a portare la stella gialla. Il 24 ottobre Irène pubblica “L’Ogresse” con lo pseudonimo di Charles Blancat.
Dopo un anno di albergo si trasferiscono in un appartamento in affitto. Irène non ha dubbi sull’esito tragico della sua vicenda personale. Legge, fa lunghe passeggiate. In quei giorni sta scrivendo Suite francese e fa dire a Maurice Michaud: «La certezza della mia libertà interiore, » disse lui dopo aver riflettuto «questo bene prezioso, inalterabile, e che dipende solo da me perdere o conservare. La convinzione che le passioni spinte al parossismo come capita ora finiscono poi per placarsi. Che “tutto ciò che ha un inizio avrà una fine”. In poche parole, che le catastrofi passano e che bisogna cercare di non andarsene prima di loro, ecco tutto. Perciò, prima di tutto vivere: Primum vivere. Giorno per giorno. Resistere, attendere, sperare»[19]. In sintesi è il programma umano con cui Irène Némirovsky ha affrontato – con coraggio – fin l’ultimo brutale insulto che la storia le ha riservato. Senza però riuscire a sopravvivere alla catastrofe che l’ha travolta.
Alla fine della vita di Irène, ci troviamo in un paesaggio di tranquilla apocalisse, disabitato anche se apparentemente intatto, come dopo il passaggio di uno tsunami. Niente personaggi, ma una specie di organismo collettivo che reagisce a un’aggressione come un formicaio o un alveare: c’è una Parigi addormentata, in una calda giornata di giugno, un allarme, un bombardamento. Sempre da Suite francese, durante il bombardamento di Parigi: “Il sole, ancora tutto rosso, saliva in un cielo senza nuvole. Partì una cannonata così vicina a Parigi che tutti gli uccelli volarono via dalla sommità dei monumenti. Più in alto si libravano grandi uccelli neri, di solito invisibili, spiegavano al sole le ali di un rosa argenteo, poi venivano i bei piccioni grassi che tubavano e le rondini, i passeri che saltellavano tranquillamente nelle strade deserte. Su ogni pioppo dei lungosenna c’era un nugolo di uccelletti scuri che cantavano frenetici. Nelle profondità dei rifugi arrivò infine un segnale remoto, attutito dalla distanza, sorta di fanfara a tre toni: il cessato allarme[20]” In questo bel paesaggio urbano, deserto di presenze umane, sembra naufragare la dolce Francia amata da Némirovsky. E, due anni dopo, la sua vita. 1941-1942 A Issy-l’Évêque, Irène scrive “La vie de Tchekhov” pubblicata postuma nel 1946 e “Les Feux de l’automne” pubblicato nel 1948.
Gli ultimi giorni
L’11 luglio Irène lavora nel bosco a Issy-l’Evêque «in mezzo a un oceano di foglie morte, bagnate dalla tempesta della notte precedente, come se stessi seduta su una zattera con le gambe incrociate». «Sto scrivendo molto, immagino che saranno opere postume, però almeno mi fanno passare il tempo»[21]. Il 13 luglio arrivano i gendarmi per arrestarla. Michel cerca in tutti i modi di avere notizie dalla moglie, ma per quanto si adoperi non ottiene nulla. Si fa perfino firmare una lettera dai sottufficiali che aveva ospitato in casa: “Camerati! Abbiamo vissuto per qualche tempo con la famiglia Epstein e abbiamo avuto modo di conoscerla come una famiglia assai premurosa. Vi preghiamo pertanto di riservarle un trattamento adeguato. Heil Hitler!”[22]. Scrive lettere in cui ripudia l’origine ebraica e afferma “(Irène) è una donna che, pur essendo di origine ebraica, non ha – come dimostrano tutti i suoi libri – alcuna simpatia né per il giudaismo né per il regime bolscevico… mia moglie è diventata una rinomata scrittrice.
In nessuno dei suoi libri (che del resto non sono stati messi al bando dalle autorità d’occupazione) troverà una parola contro la Germania, e benché sia di razza ebraica mia moglie scrive degli ebrei senza alcuna simpatia. I nonni di mia moglie, così come i miei, erano di religione israelita; i nostri genitori non professavano alcuna religione; quanto a noi, siamo cattolici come le nostre bambine, che sono nate a Parigi e sono francesi”[12]. Riceverà solo le ultime due lettere da Irène, poi non avrà più sue notizie: “Giovedì mattina – luglio ’42 – Pithiviers [scritta a matita e non obliterata] Mio amato, mie piccole adorate, credo che partiamo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore, miei diletti. Che Dio ci aiuti tutti”[12]. Il 17 luglio viene deportata a Auschwitz nel vagone numero 6. Viene assegnata al campo di Birkenau. Debilitata, la fanno passare al Revier («Infermeria», dove i malati venivano assistiti). 17 agosto: Irène Némirovsky muore a causa di un’epidemia di tifo.
Antisemitismo
Le accuse di antisemitismo hanno perseguitato la Némirovsky scrittrice almeno quanto il nazismo ha perseguitato l’ebrea apolide che – nonostante tutti i tentativi di mascheramento – Irène è stata e sarà. Un grande numero di appartenenti all’ebraismo, presenti nei suoi romanzi, sono pesantemente caricaturali. Repellenti nell’aspetto e ripugnanti nella mentalità e nei sentimenti. Tra tutti spicca il carattere orribile di David Golder – eroe eponimo del romanzo – sia per i valori che persegue – i soldi per i soldi, senza un progetto di lungo periodo[23] – sia per il fisico repellente e la mente dominata dal risentimento e dall’avidità senza scrupoli. Il libro, in Francia, è stato accusato di essere anti-bolscevico e antisemita. Anche se scrittori come Robert Brasillach, Paul Morand o Jean-Pierre Maxence lo hanno apprezzato e difeso.[24] Quando fu criticata come scrittrice antisemita, Irène Némirovsky dichiarò candidamente: “Perché i francesi Israeliti si vogliono riconoscere in David Golder?”[25].
La figlia Gille nell'”autobiografia” di sua madre – Iréne Némirovsky, precisa che la scrittrice era un rampollo della borghesia ebraica russificata di Kiev e San Pietroburgo. La sua famiglia era riuscita a fuggire in Francia al tempo della rivoluzione bolscevica, mantenendo gran parte delle proprie ricchezze. Questo fatto, unito alla cultura e alle buone frequentazioni sociali, le permetteva di avere rapporti amichevoli con aristocratici impoveriti da cui, in Russia, sarebbe stata rifiutata. Data questa collocazione sociale e il desiderio di entrare a pieno titolo a far parte dell’alta borghesia parigina, attraverso un processo di assimilazione – molto diffuso tra gli ebrei del tempo[26] – i Némirovsky erano orgogliosi della propria distanza dall’ebreo tradizionalista (o semplicemente meno assimilato). Fatto sta che i libri della Némirovsky sono popolati di figure ebraiche – nel migliore dei casi ambigue – nel peggiore, che meriterebbero un posto nella nosografia ebraica dell’Ebreo che odia sé stesso di Theodor Lessing o Sander L. Gilman[27].
Nella “autobiografia” la figlia Élisabeth Gille immagina che sua madre, durante l’occupazione nazista, si penta dei propri ritratti al vetriolo di ebrei odiosi, in David Golder, e le fa dire: “Mi prende a volte una specie di vertigine, giacché mi pento di aver scritto quel libro. Mi chiedo se per condannare l’ambiente sociale da cui provenivo e che ho odiato così tanto, non abbia fornito ulteriori munizioni agli antisemiti. Temo di aver dato prova di leggerezza e di una volubilità suicida”[28]. D’altronde la stessa Némirovsky, in un’intervista (vera), rilasciata nel ’35 ha detto: “Sono assolutamente certa che se Hitler fosse già stato al potere, avrei notevolmente ammorbidito David Golder. Ma penso che sarebbe stato sbagliato farlo, che sarebbe stata una debolezza indegna di un vero scrittore”[29]. Il critico Paul La Farge, nota: ‘il “disagio” della Némirovsky nei confronti della sua stessa identità (ebraica) guasta il racconto della vita di David Golder[30]‘. E continua: David Golder abbonda di caricature che non sarebbe ingiusto definire antisemite: Simon ha “gli occhi assonnati e pesanti di un orientale” la moglie di Simon denti “lastricati d’oro, che brillavano stranamente nell’ombra.” ha un “viso magro con un naso grande e duro, a forma di becco … collocato in un modo strano, molto in alto.” E così via. Némirovsky difese queste caratterizzazioni dichiarando di averle tratte dalla propria esperienza. La stampa ebraica ha reagito al romanzo con sgomento, dichiarando che, se non proprio antisemita, (la posizione di) Némirovsky, “non era molto ebraica”[31].
Mirador
Élisabeth Gille scrisse la biografia della madre Irène dopo i cinquant’anni. La scrisse in prima persona – come se a parlare fosse la madre stessa – morta a 39 anni lasciando un corpus di lettere tanto vasto quanto disordinato. Una decisione difficile: riprenderle in mano, leggerle (per molti anni erano rimaste chiuse in un baule trascinato qua e là dalle figlie) e collazionarle, trasformandole in un racconto coerente. Affrontare temi proibiti: Auschwitz, i rapporti con i nonni (la nonna Fanny in particolare), le origini ebraiche negate con un frettoloso quanto inutile battesimo. Quando uscì Mirador, fu accolto come un importante contributo alla conoscenza di una vita, quella di Irène, una scrittrice di talento e grazia, per quasi un trentennio dimenticata nel limbo della letteratura minore. Poco dopo Élisabeth Gille morì: sapeva di essere malata.
Il tono del libro, comico, acerbo, violento, che non dava spazio né alla compassione né alla lamentela stupì la critica. In fin dei conti era la vita della sua famiglia. Élisabeth si schermì sempre affermando di non essere una scrittrice: facendo così emergere il talento della madre. Nella scelta di usare la prima persona della madre per scrivere un'”autobiografia” c’è anche la volontà di nascondersi, lasciando la scena intera alla personalità letteraria della madre. Mirador ripercorre le tappe della carriera letteraria di Irène, puntualizzando le grandi accoglienze e il rapido oblio che ricevette dalla comunità di autori ed editori della Francia occupata, in parte costretti, in parte propensi, a una forma di asservimento all’invasore che – ad un certo punto, sotto la guida di Petain – prese la forma del collaborazionismo aperto: “Vi è un abisso fra la casta dei nostri attuali dirigenti e il resto della nazione. Gli altri francesi, avendo ben poco da perdere, hanno meno paura. Quando la vigliaccheria non soffoca più negli animi i buoni sentimenti, questi (patriottismo, amore per la libertà, ecc.) possono fiorire. Certo, negli ultimi tempi anche il popolo ha accumulato dei capitali, ma si tratta di denaro svalutato che è impossibile trasformare in beni reali, terre, gioielli, oro e così via… “Da qualche anno tutto quello che si fa in Francia nell’ambito di una certa classe sociale ha un solo movente: la paura. È stata la paura a provocare la guerra, la sconfitta e la pace attuale. Il francese di questa casta non odia nessuno; non nutre gelosia né ambizione delusa, né un vero desiderio di vendetta. Ha una fifa blu. Chi gli farà meno male (non nel futuro, non in senso astratto, ma subito e sotto forma di ceffoni e calci nel sedere)? I tedeschi? Gli inglesi? I russi? I tedeschi lo hanno sconfitto, ma la punizione è presto dimenticata e i tedeschi possono difenderlo”[32].
Del resto la stessa Irène, commentando il successo di David Golder, che lei stessa definiva, senza falsa modestia, «un romanzetto», il 22 gennaio 1930 scriveva a un’amica: «Come puoi credere che possa dimenticare le mie vecchie amicizie a causa di un libro di cui ora si parla, ma che tra una quindicina di giorni sarà già finito nel dimenticatoio, come tutto a Parigi?»[33]. Più recentemente, Rosetta Loy nei suoi saggi, racconti e romanzi ha tracciato un quadro sociale dell’Italia dell’anteguerra simile a quello che Élisabeth Gille mette in scena attraverso la madre. Una borghesia colta ma ingenua, ben presto irresponsabile a furia di non leggere i segni premonitori. Ma anche un ambiente intellettuale di un’inerzia enorme. Sicuramente Irène Némirovsky tardò a rendersene conto, poiché, come ricorda Élisabeth, non seppe mostrarsi abbastanza attenta all’evoluzione di un Paul Morand, di un Jean Cocteau e, cosa in un certo senso ancora più grave, alle incoerenze ingenue o cieche di un Daniel Halévy e di un Emmanuel Berl[34]. Élisabeth Gille dovette affrontare un altro tema che la metteva di fronte al suo ruolo di figlia: il rapporto tra Irène e sua madre Fanny.
“Oltre a quelli già citati, ovvero l’esordio letterario, la fama e le sue illusioni, il giudaismo e la Shoah, c’era il tema fondamentale della maternità e della filiazione. I grandi libri di Irène Némirovsky pongono l’accento su una figura materna detestata. La nonna di Élisabeth, che si rifiutò di riconoscere le nipoti sopravvissute allorché la donna che le aveva salvate gliele riportò, era un personaggio odioso sul quale Irène Némirovsky si dilungò parecchio e che le ispirò la maggior parte dei suoi personaggi femminili futili, venali ed egoisti, in particolare in David Golder, nel Ballo o in Jezabel, in cui è l’unico tema. Mirador richiama in più punti quel conflitto ossessivo nel quale Élisabeth, senza dubbio, vede uno degli impulsi della carriera della scrittrice. Una scena importante del libro riunisce madre e figlia riflesse in uno specchio e concentra l’opposizione delle due donne che non si troveranno mai d’accordo”[35].
“È stupefacente constatare come Irène Némirovsky descrivesse, nel cuore della bufera che l’avrebbe poi travolta, l’indifferenza stessa che l’aveva resa possibile. La morte alla quale anche lei sarebbe andata incontro era stata preannunciata al mondo da segni molto chiari che nessuno aveva voluto leggere o che pochissimi avevano saputo leggere. Probabilmente, nelle ultime pagine di queste “Memorie sognate”, Élisabeth ha attribuito alla madre una consapevolezza più grande di quella che Irène aveva avuto. Ma i testi di Irène Némirovsky portano qua e là il marchio del terrore”[12].
Suite francese è il titolo dei primi due “movimenti” di quello che avrebbe dovuto somigliare a un “Poema sinfonico” di Irène Némirovsky, composto da cinque parti, di cui solo le prime due sono state completate e pubblicate: Tempête en juin (Tempesta in giugno)- Dolce. Le altre: Captivité (Prigionia) – Batailles? (Battaglie) – La Paix? (La Pace) sono solo abbozzi. È il romanzo della riscoperta della Némirovsky che, dopo circa cinquant’anni di oblio – grazie a Suite francese – viene ripubblicata in 38 lingue. La figlia maggiore, Denise, ha conservato il quaderno contenente il manoscritto di Suite française, assieme ad altri scritti della madre, per cinquant’anni senza guardarlo, pensando che fosse un diario, che sarebbe stato troppo doloroso da leggere[36]. Alla fine del 1990, tuttavia, prende accordi per donare tutti gli scritti della Némirovsky ad un archivio francese. Dopo aver scoperto cosa contenevano i quaderni, Suite francese fu pubblicato in Francia nel 2004, e divenne presto un best seller. Da allora è stato tradotto in 38 lingue e dal 2008 ha venduto due milioni e mezzo di copie.
La prima parte “Temporale di giugno” racconta l’esodo di massa dei francesi che, all’arrivo delle truppe naziste, si sono spostati con figli, vecchi, malati e intere case caricate su veicoli di fortuna, rimasti poi senza benzina e abbandonati lungo il cammino. In questo grande affresco corale si distinguono quattro gruppi familiari: la famiglia Péricand, molto ricca, imparentata con altre famiglie altoborghesi di provincia. La casa è gestita dalla madre, Charlotte “La signora Péricand apparteneva a quel tipo di borghesi che hanno fiducia nel popolo. «Non sono cattivi, basta saperli prendere» diceva con il tono indulgente e un po’ sconsolato che avrebbe usato per parlare di una bestia in gabbia”[37]. Gabriel Corte scrittore, è un accademico di Francia, quindi fa parte dei quaranta “immortali”, come sono chiamati i membri a vita di quel sublime consesso. Deve prepararsi a lasciare Parigi per rifugiarsi a Vichy, con la sua amante, Florence. La famiglia Michaud formata da una coppia piccolo-borghese: Maurice e Jeanne Michaud che lavorano presso la Banca del signor Corbin. Charlie Langelet, sessantenne, benestante, vecchio scapolo la cui grande passione è una collezione di porcellane. Si annovera tra gli “happy few“. È molto snob, evita l’eccessiva vicinanza del prossimo, per cui prova un generico disprezzo.
Il secondo pezzo, “Dolce”, è ambientato in una piccola città della campagna francese, Bussy (nella periferia ad est di Parigi), nei primi mesi, stranamente tranquilli, dell’occupazione tedesca. Qui vivono due donne: la vedova Angellier e Lucile sua nuora. Un ufficiale tedesco, Bruno von Falk, viene acquartierato in casa Angellier. Tra il giovane ufficiale ventiquattrenne e la sconsolata Lucile, scocca una scintilla di comprensione che presto diventa amore. I due non osano però incontrarsi e parlarsi. La suocera tiranneggia Lucile e la costringe a nascondersi, fino a che, un giorno che rientra inaspettata, coglie i due in atteggiamento affettuoso, coinvolti dalla dolcezza della musica suonata dall’ufficiale sul pianoforte di famiglia. È troppo: la vecchia si ritira nelle proprie stanze e dichiara di non volerne uscire più. Bruno mormora “Finalmente, sarà il paradiso”[37]. Lucile non ha ceduto ma, tutto intorno a lei, il paese ha finito per accogliere i soldati tedeschi come uomini, dimenticando che sono nemici – “Da lungo tempo il paese mancava di uomini, cosicché perfino questi, gli invasori, parevano al posto giusto. Loro lo intuivano e si crogiolavano beatamente al sole; vedendoli, le madri dei prigionieri e dei soldati uccisi in guerra invocavano sottovoce su di loro la maledizione del Cielo, ma le ragazze se li mangiavano con gli occhi… Nel cortile della scuola che hanno occupato prendono i pasti a torso e gambe nudi, solo con una specie di cache-sexe! Nella classe delle grandi che dà proprio su quel cortile siamo costretti a tenere le imposte chiuse per evitare che le bambine vedano…”[37].
Il 12 giugno 1942, pochi giorni prima del suo arresto, dubita di avere il tempo necessario a concludere la grande opera intrapresa. Ha il presentimento che le resti poco da vivere, ma continua a redigere i suoi appunti, parallelamente alla stesura del libro.
«Il libro in sé deve dare l’impressione di essere semplicemente un episodio… com’è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque… ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico… collegamenti delle parti fra loro. Tempête, Dolce, dolcezza e tragedia. Captivité? Qualcosa di smorzato, di soffocato, il più possibile cattivo. Dopo non so. L’importante – i rapporti fra le diverse parti dell’opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile.[38]»
Laure Murat-Proust, romanzo familiare- Sellerio Editore-
Descrizione del libro di Laure Murat– «Come fa Proust ad affascinare i suoi lettori, senza distinzione di classe, raccontando microscopiche peripezie dell’alta società parigina?». E perché la ricorrente lettura della Recherche, l’analisi proustiana dell’aristocrazia «faceva luce sul mio ambiente d’origine più dell’esperienza personale vissuta dall’interno»?
Due domande che si inseguono e si scambiano i ruoli dentro le pagine di questo romanzo familiare: ricostruzione di memorie e sentimenti legati a un’infanzia-adolescenza cresciuta tra gente titolata, domestici e governanti, in cui quello che si doveva imparare non poteva essere insegnato. Una ricostruzione che è insieme altro. Senza netto confine, si mescola con l’analisi del metodo Proust, il meccanismo crudele messo in atto per muovere un mondo di pure forme in cui ogni personaggio vivo che c’è dietro alla fine si rivela tutto il contrario di come sembrava («Dietro il sadico, si scopre il tenero. Dietro l’uomo di mondo, lo zotico. Dietro una leggendaria duchessa, una donna ordinaria. Dietro un uomo virile, un effeminato». Insomma: dietro il nobile, l’ignobile).
Laure Murat-Proust, romanzo familiare
E si mescola ancora con un’esplorazione sociale, eseguita indirettamente sprofondando negli intrecci tra persone vere e personaggi inventati che legavano i fili della grande ragnatela alla famiglia principesca dell’autrice.
L’autrice, Laure Murat, figlia di un discendente diretto del maresciallo napoleonico e re di Napoli e di una duchessa di altissimo lignaggio, dichiara di avere avuto con le sue origini e con i suoi anni d’infanzia un rapporto ambiguo e irrisolto di repulsione e fascino. Una forma di alienazione dal passato, aggravata dal fatto che la sua omosessualità risultava inaccettabile sia in famiglia sia nel suo ambiente sociale («Proust è stato il primo a prendere sul serio l’omosessualità»). La trentennale lettura e rilettura della Recherche le ha fornito una via di disalienazione. E il percorso seguito, che questo libro racconta, è una storia privata come ogni memoir. Ma porta a mostrare in che cosa consiste «il potere liberatorio» della grande cattedrale di Proust: fare di ognuno, «di quest’essere plurale, misterioso, un soggetto universale».
Traduzione dal francese di Marina Di Leo, Giulio Sanseverino
Titolo originale: Proust, roman familial
Con la sua prosa scorrevole e piena di riferimenti letterari, Proust, romanzo familiare è al contempo un saggio colto e un memoir, a metà tra Annie Ernaux ed Emmanuel Carrère. Ma è anche, e soprattutto, un inno al potere emancipatorio della letteratura e un invito a (ri)leggere alcune tra le pagine più importanti della letteratura mondiale.
Finalista al Premio Goncourt e vincitore del Prix Médicis Essai 2023.
«Uno dei migliori libri su Proust che si possano sognare».
Le Monde des Livres
18Febbraio2025
La memoria n. 1332
304 pagine
EAN 9788838947803
Formato e-book: epub
Protezione e-book: acs4
Autore
Laure Murat (Parigi, 1967), storica e scrittrice, insegna Storia della letteratura alla UCLA di Los Angeles. Con La casa del dottor Blanche (2001) ha vinto il Premio Goncourt per le biografie.
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