Roma- Il Premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse riceve la Lupa Capitolina,dal Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri-
Il Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri conferirà allo scrittore norvegese Premio Nobel Jon Fosse il più importante riconoscimento della Città di Roma, la Lupa Capitolina. La cerimonia si svolgerà in Campidoglio, dove al termine di un colloquio privato, alla presenza dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, Massimiliano Smeriglio, Jon Fosse sarà accompagnato a firmare il “Libro d’Oro Capitolino” nella Sala delle Bandiere per poi ricevere la Lupa.
Nello stesso giorno, alle ore 21, avrà luogo, con i saluti dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, un incontro aperto al pubblico e gratuito all’Auditorium Parco della Musica – Ennio Morricone in cui Jon Fosse dialogherà con la scrittrice Claudia Durastanti e il traduttore, Andrea Romanzi.
Si tratta del primo incontro delle Anteprime di Letterature Festival Internazionale di Roma, storica manifestazione letteraria promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, curata dal Dipartimento Attività Culturali con il coordinamento organizzativo di Zètema Progetto Cultura. Questo primo incontro è organizzato in collaborazione con l’Ambasciata di Norvegia.
Jon Fosse, nato a Strandebarm nel 1959, è scrittore e drammaturgo ed è universalmente considerato uno dei più importanti autori contemporanei. Attualmente vive nella residenza onoraria di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re per i suoi meriti letterari. Fosse è uno scrittore incredibilmente prolifico. Ha esordito nel 1983 e da allora ha pubblicato romanzi, raccolte di poesie, saggi e libri per bambini. Le sue opere – per cui è stato insignito di numerosi premi internazionali ed è stato più volte candidato al Premio Nobel – sono state tradotte in oltre 40 lingue. I suoi testi teatrali sono stati messi in scena in tutto il mondo. Presso La Nave di Teseo ha pubblicato Mattino e sera (2019), L’altro nome. Settologia I-II (2021), Io è un altro. Settologia III-V (2023) e Melancholia I-II (2023), Un bagliore (2024) e Un nuovo nome. Settologia VI-VII (2024). Settologia I-II – libro dell’anno per “The New Yorker” e scelto tra i 100 libri del secolo da “The New York Times” – è stato finalista nel 2022 all’International Booker Prize, al National Book Award e al National Book Critics Circle Award. Crocetti editore ha pubblicato nel 2024 l’opera poetica Ascolterò gli angeli arrivare.
Autore in lingua nynorsk, ottenne notorietà nel suo paese nel 1983, con la pubblicazione del romanzo Raudt, Svart (Rosso, Nero), il cui titolo è ispirato al romanzo Le rouge et le noir, dell’autore francese Stendhal. Nel 1993 ottenne anche notorietà internazionale, grazie alla sua prima opera teatrale, Nokom kjem til å kome (Qualcuno arriverà). Nel 2007 fu nominato cavaliere dell’Ordre national du Mérite in Francia, è considerato dal Daily Telegraph uno dei 100 geni viventi.[2] Il governo norvegese gli ha concesso, per meriti letterari, di risiedere nella residenza di Grotten, edificio risalente al XIX secolo situata nel cortile del Palazzo reale.[3]
Il 5 ottobre 2023 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura “per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile”.[4] Con Sant’Agostino ritiene che l’indicibilità sia la principale caratteristica con cui si esprime Dio e ciò che “la letteratura potente dice, o mostra”.[5]
Il 5 marzo 2024 al Teatro Carignano di Torino, in prima nazionale, diretto e interpretato da Valerio Binasco, ha debuttato “La ragazza sul divano”, affascinante opera introspettiva tra presente e passato di una donna di mezza età, intenta a dipingere il ritratto di una ragazza seduta su un divano.
Nel 2012 si è convertito dal luteranesimo al cattolicesimo.[6]
Opere
Prosa
Raudt, svart (1983).
Stengd gitar (1985).
Blod. Steinen er (1987).
Naustet (1989).
Flaskesamlaren (1991).
Bly og vatn (1992).
Dyrehagen Hardanger (1993).
To forteljingar (1993).
Prosa frå ein oppvekst (1994).
Melancholia I (1995).
Melancholia II (1996).
Melancholia, Postfazione e traduzione di Cristina Falcinella, Collana Mine vaganti, Roma, Fandango, 2009, ISBN978-88-604-4132-4. – Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2023, ISBN 978-88-346-1690-1.
L’altro nome. Settologia I-II (Det andre namnet – Septologien I-II, 2019), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2021, ISBN978-88-346-0457-1.
Io è un altro. Settologia III-V (Eg er ein annan – Septologien III-V, 2020), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2023, ISBN978-88-346-1512-6.
Un bagliore, traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2024, ISBN978-8834617687.
Un nuovo nome. Settologia VI-VII (Eit nytt namn – Septologien VI-VII, 2021), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2024, ISBN978-88-346-1869-1.
Teatro
Qualcuno verrà (Nokon kjem til å komme, scritto nel 1992–93, rappresentato nel 1996).
E non ci separeremo mai (Og aldri skal vi skiljast, 1994).
Teatro. E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome, a cura di Vanda Monaco Westerståhl, Collana I Testi, Imola, CUE Press, 2023, ISBN 978-88-551-0308-4.
Teatro, a cura di Rodolfo Di Giammarco, trad. di G. Perin e F. Ferrari, Collana Scritture, Roma, Editoria & Spettacolo, 2006, ISBN 978-88-890-3664-8. [contiene: Il nome, Qualcuno arriverà, E la notte canta, Sogno d’autunno, Inverno, La ragazza sul divano]
Tre drammi. Variazioni di morte, Sonno, Io sono il vento, trad. e cura di Vanda Monaco Westersthåhl, Collana Lo spirito del teatro, Siena, Titivillus, 2012, ISBN 978-88-721-8342-7.
Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-
Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-
Editori Laterza
Descrizione di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli-Storia della Resistenza in montagna e quella in pianura. La guerriglia nelle città. Il sostegno della popolazione e il rapporto con la ‘zona grigia’. La collaborazione con gli Alleati e la guerra civile con gli italiani in camicia nera. A 75 anni dalla Liberazione, finalmente una ricostruzione con l’ambizione di proporre uno sguardo complessivo su fatti, momenti e protagonisti che hanno cambiato per sempre il nostro Paese.
I due anni che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 rappresentano un momento cruciale della storia d’Italia. Sono gli anni della guerra mondiale, con le truppe straniere che occupano la penisola. Sono gli anni della guerra civile, con lo scontro tra italiani di diverso orientamento. Sono gli anni della guerra di liberazione, in cui si combatte contro il nazifascismo per far nascere un paese democratico e libero. È il ‘tempo delle scelte’ per una società italiana schiacciata sotto il tallone nazista e fascista. Una nazione divisa politicamente, militarmente e moralmente all’interno di un’Europa in fiamme. Per fare i conti con la storia della Resistenza italiana, il libro ripercorre le varie fasi delle diverse Resistenze: dalle specificità della guerriglia urbana all’attestamento nelle regioni di montagna. Affianca alla lotta armata le varie forme di supporto fornito ai ‘banditi’ dalle popolazioni e la conflittualità interpartigiana, si addentra nella cosiddetta ‘zona grigia’, evidenzia la peculiarità delle deportazioni politiche e razziali. Una ricostruzione nuova, originale, vivida, in cui lo sguardo d’insieme si alterna costantemente con l’attenzione a vicende personali e collettive poco conosciute o inedite. Un libro necessario oggi, quando il venir meno degli ultimi testimoni diretti di queste vicende lascia sempre più spazio a un uso politico della Resistenza che deforma e rimuove i fatti, le fonti e la storia.
Ferruccio Parri
Rifiutiamo per noi le penne del pavone.
Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice. Dietro di essi abbiamo vinto anche noi. Non è stato un miracolo, ma è stato il riscatto di fronte al mondo ed all’avvenire dell’onore nazionale; e questo riscatto, pagato col dono così grave del sangue più generoso, resta una cosa grande nella storia di un paese che pareva civilmente e moralmente paralizzato dall’inquinamento fascista.
Ferruccio Parri (1971)
Introduzione
La Resistenza, ancora oggi, rappresenta in Italia un fattore di divisione. Benché costituisca l’antefatto e il presupposto di quello che la volontà popolare sanzionò il 2 giugno 1946 – la nascita della Repubblica e l’avvio del percorso che un anno e mezzo dopo porterà alla promulgazione della Costituzione – essa non gode dell’ampio e condiviso riconoscimento che sia la Repubblica sia la Costituzione hanno saputo guadagnarsi, soprattutto nei decenni successivi, da parte di un’estesa maggioranza della popolazione.
A ben guardare, in realtà, la maggioranza degli italiani non nutre particolare interesse verso la Resistenza, se non in occasione delle ricorrenze, delle celebrazioni, delle memorie – e delle polemiche – che rivisitano ogni tanto questo o quell’evento a essa legato. C’è una forte minoranza, tuttavia, che ritiene giusto insistere nel richiamare la Resistenza non solo come prodromo della Repubblica e della Costituente, ma come momento formativo di quella nuova “morale politica” che si era manifestata e affermata proprio tra il 1943 e il 1945. Una politica che condannava senza esitazione il totalitarismo fascista, l’aver condotto l’Italia nella tragedia della guerra, la mancanza di libertà sofferta da tutti durante il regime e l’offesa alla dignità patita soprattutto dai suoi oppositori; e una morale che vedeva nella partecipazione e nell’impegno individuale – nella “scelta” di stare dalla parte di chi voleva riportare in Europa la libertà e la dignità sottomessa e calpestata dal nuovo ordine nazista – la possibilità di uscire da quello stato di passività, di inazione, di subalternità che si era diffuso e consolidato nell’ultimo decennio di vita del fascismo.
Una minoranza molto più contenuta, da parte sua, considera la Resistenza, se non un atto di tradimento verso la fedeltà all’alleato tedesco – e questi sono i pochi ma rumorosi “seguaci” della RSI che ancora ricordano Mussolini come il migliore degli italiani – come un inutile dramma, che ha anticipato di poco la liberazione del paese da parte degli eserciti alleati e ha offerto il destro per violenze suppletive che un’ordinata obbedienza ai voleri germanici avrebbe potuto evitare.
Tra queste tre posizioni, come naturale, sono presenti numerose sfaccettature, diversità, gradualità, che rendono l’atteggiamento nei confronti della Resistenza molto più frammentato e irriducibile a una casistica limitata. Il dibattito pubblico che si è sviluppato nel corso dei decenni, anche se a volte sollecitato da studi, memorie, approfondimenti, o dall’uscita di romanzi e film (alcuni dei quali capaci non solo di raggiungere un vasto pubblico ma anche di riassumere in modo chiaro ed esemplare problematiche complesse e argomenti controversi), ha fatto prevalere sull’elemento della conoscenza storica quello del giudizio (morale, politico, giudiziario), foriero inevitabilmente di polemiche e contrapposizioni il più delle volte sterili. La ricerca storica, nel frattempo, ha fatto passi da gigante, non solo raccogliendo una documentazione sempre più massiccia e articolata, ma contribuendo, soprattutto con studi a carattere locale, regionale, biografico, su singoli temi, a fornire narrazioni fattuali assai estese, che hanno permesso interpretazioni sempre più accorte e coerenti anche quando sono state fra loro diverse o addirittura controverse.
È in questo contesto, nell’approssimarsi del 75° anniversario della Liberazione e della fine della seconda guerra mondiale, che abbiamo deciso di proporre una narrazione globale e generale della Resistenza, che può fondarsi proprio sulla ricchezza documentaria e storiografica accumulatasi negli anni, e in particolare nell’ultimo quarto di secolo. Una narrazione che vuole al tempo stesso raccontare gli eventi e far parlare i protagonisti, suggerire nuove interpretazioni e individuare i problemi ancora aperti e gli aspetti più controversi, raccontare l’orizzonte ampio della guerra europea e le vicende singole e particolari di eventi che hanno riguardato un numero limitato di persone ma sono state il simbolo e il riassunto di una drammatica epopea collettiva.
È la guerra a creare le condizioni che permettono, sia pure non immediatamente, di rendere sempre più precario il potere di Mussolini e del fascismo. In un intervento profetico dell’ottobre 1943, Giaime Pintor – che morirà poco dopo, il 1° dicembre, dilaniato su una mina nell’attraversamento del fronte, per raggiungere Roma – scrisse:
La condotta rovinosa della nuova guerra diede il colpo definitivo a questo stato di cose, precipitando dalla parte dell’opposizione insieme a pochi fascisti delusi tutta la folla dei pigri e degli opportunisti. L’antifascismo dispose allora di una forza che non aveva mai posseduto prima; l’enorme maggioranza del popolo italiano, contrario al regime e alla guerra, si trovò schierata contro un’esigua minoranza di fascisti stretti senza più convinzione ai loro privilegi e alle loro prerogative.
Dopo aver fustigato senza attenuanti il comportamento di Badoglio e del re, ultimo segnale del fallimento completo di una classe dirigente, Pintor terminava il suo scritto con una forte affermazione:
Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione.
I protagonisti della Resistenza, e gli storici dopo di loro, hanno discusso a lungo se essa potesse essere considerata un «Secondo Risorgimento» (come sostenevano molti ufficiali inglesi che ne furono a contatto diretto). Lo fu, probabilmente, nella combattività di una minoranza capace di una «scelta inequivocabile», come proprio nel 1943 chiamò quella ottocentesca Leone Ginzburg (arrestato il 20 novembre 1943 e morto il 5 febbraio 1944 in seguito alle torture subite) in uno scritto pubblicato nell’aprile 1945.
Se era possibile apparentare gli antifascisti di lunga data o di più recente conversione ai patrioti del Risorgimento, per i giovani e giovanissimi che scelsero la via della montagna si trattava in molti casi di una scelta casuale – come scrisse Italo Calvino nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, uno dei primi romanzi sulla Resistenza pubblicato nell’ottobre 1947, scritto per «lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata» – ma anche di una «volontà di resistere», come scrisse Antonio Giolitti nella sua autobiografia: «Resistenza sì, anche alla tentazione di scappare, di andarsi a nascondere, a rifugiare in qualche asilo […]. Due concomitanti resistenze. Non subire, non sottomettersi, non fuggire. Questa secondo me è stata la moralità collettiva, unificante della Resistenza, almeno per quanto riguarda la guerra partigiana».
Abbiamo voluto raccontare la molteplicità della Resistenza, il suo essere costituita da tante spinte diverse, azioni differenti, partecipazioni ineguali ed eterogenee, ma convergenti – pur con motivazioni ideali e pratiche, individuali e collettive, dissimili – verso un unico fine, quello di riacquistare la libertà, sconfiggere il nazismo, disfarsi dell’eredità fascista che aveva oscurato per vent’anni l’Italia. Abbiamo insistito, più di quanto un coerente equilibrio avrebbe suggerito, su alcuni aspetti che hanno fornito le occasioni più numerose a polemiche e contrapposizioni (il confine orientale, la violenza partigiana e tra partigiani, i rapporti tra Resistenza e Alleati), nella speranza di contribuire a una maggiore conoscenza di realtà e fenomeni estremamente complessi e contraddittori. Abbiamo limitato, non certo con l’intento di sottovalutarne il rilievo, le pagine dedicate ai partiti, condividendo, però, la convinzione che «era stata la guerra a rompere la cappa fascista, insieme agli errori e ai fallimenti di quella classe dirigente, ma la forza dei partiti di massa fu quella di preparare con la guerra di resistenza anche questa nuova classe dirigente. E di riuscire a farlo additando nel fascismo il nemico da sconfiggere e da sostituire con una nuova classe politica antifascista e democratica». L’errore più grande, nel valutare la “politica” nel triennio 1943-1946, sarebbe quello di farlo utilizzando i criteri utili ad analizzare gli anni della guerra fredda se non addirittura quelli della “crisi” dello Stato dei partiti dagli anni Ottanta in avanti. Uno degli antifascisti che s’interrogò maggiormente sul ruolo dei partiti, Vittorio Foa – sui «Quaderni dell’Italia libera», nel marzo 1944, scrisse un lungo articolo su I partiti e la nuova realtà italiana (La politica del CLN) –, avrebbe più tardi ricordato la contraddizione di voler «riformare il vecchio stato centralistico» e doverlo «intanto difendere per non cadere nel caos», sostenendo che la crisi della Resistenza era «cominciata assai prima della Liberazione, del 25 aprile 1945».
Nel ventennale della Liberazione Norberto Bobbio, in un discorso tenuto a Vercelli, ricordava come nel resto d’Europa era esistito un movimento patriottico di guerra allo straniero, mentre solo in Italia «la Resistenza fu insieme un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno; ebbe il duplice significato di lotta di liberazione nazionale (contro i tedeschi) e politica (contro la dittatura fascista), per la conquista dell’indipendenza nazionale e della libertà politica e civile». Sulla stessa convinzione si mosse il lungo lavoro da storico che Claudio Pavone pubblicò nel 1991 – Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza – e che avrebbe segnato una data discriminante nella storia degli studi sulla Resistenza.
La nostra ispirazione, pur se aiutata dalla lunga serie di studi che da allora si sono mostrati capaci di apportare conoscenza e comprensione verso uno dei bienni più intensi della storia italiana ed europea, si muove in questa stessa direzione, inaugurata da due studiosi – uno filosofo della politica, l’altro storico – che appartenevano alla generazione, pur se con dieci anni di differenza tra loro, di chi alla Resistenza aveva partecipato direttamente. Il loro dialogo a distanza sulla Resistenza investiva anche, come ha ricordato David Bidussa, «l’immagine che ne ha la prima generazione di italiani postresistenziali (quelli che hanno vent’anni negli anni sessanta)» e che andava messa a confronto con «la memoria che ne hanno i protagonisti», proprio per accettare, «come sollecitazione a riflettere sul passato», quella «opposizione padri-figli alla fine degli anni sessanta» in cui i secondi erano «convinti che la Resistenza “celebrata” non coincida con l’evento storico».
Tra gli autori di questo libro c’è la stessa distanza di età che esisteva tra Bobbio e Pavone ma pensiamo, anche se con un’estensione cronologica dilatata, di appartenere, soprattutto per la memoria pubblica e il dibattito storiografico sulla Resistenza, a una stessa generazione: che ha vissuto gli slogan emotivi sulla “Resistenza tradita” ma ha cercato di contribuire, soprattutto con la professione di storico, a un orizzonte di conoscenza che potesse evitare di rimanere vittima di interpretazioni ideologiche che selezionavano, a proprio comodo, la realtà dei fatti. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che il nostro debito nello scrivere questo libro non va solo alla generazione dei nostri padri, di cui Bobbio e Pavone erano due straordinari esempi, ma anche a quelle più giovani che ci hanno seguito e che hanno costituito una spinta decisiva nel modernizzare, ampliare e approfondire gli studi sulla Resistenza.
Infine, un pensiero sui protagonisti di queste pagine. A differenza dei loro coetanei, ossessionati dal disvalore della morte eroica e tramutatisi in macchine da guerra di Mussolini e Hitler, hanno guardato verso un futuro libero da guerre e hanno operato conseguentemente:
Chi parla di soccombere eroicamente davanti a un’inevitabile sconfitta, fa un discorso in realtà molto poco eroico, perché non osa levare lo sguardo al futuro. Per chi è responsabile, la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi in un atteggiamento di concreta responsabilità.
Queste riflessioni, annotate nel 1942 in una prigione del Reich da un teologo destinato all’impiccagione, attestano la valenza liberatoria della lotta contro fascismo e nazismo, alla quale i resistenti italiani forniranno nel 1943-1945 un rilevante contributo, che ancora oggi vale la pena di conoscere e di considerare.
I.
La guerra fascista e i suoi avversari
La guerra aveva posto le premesse per la conquista del potere da parte del fascismo. La guerra prepara le condizioni per il suo tracollo e la sua sconfitta.
La situazione che si crea all’indomani della prima guerra mondiale – la grave crisi economica, i profondi e perduranti conflitti sociali, la volontà di partecipazione delle masse e l’incapacità del liberalismo di dare loro uno sbocco politico, il contesto di violenza diffusa che accompagna il mito della “vittoria mutilata” – costituisce il terreno su cui Mussolini riesce a prevalere sulle velleitarie ipotesi rivoluzionarie dei socialisti e a conquistare il potere con la complicità della monarchia, degli apparati statali, dei ceti imprenditoriali, e con il consenso crescente delle classi medie.
La partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale scatenata da Hitler nel settembre 1939 viene accolta con entusiasmo quando il duce dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna il 10 giugno 1940, ma già alla fine dell’anno le sconfitte in Africa e nei Balcani iniziano a creare una frattura con l’opinione pubblica che diventerà più marcata ed esibita nei due anni successivi. Dal novembre 1942 fino al marzo 1943 – mesi caratterizzati da massicci bombardamenti alleati sulle città italiane, dalla scomparsa di generi alimentari e dalla diminuzione delle razioni di pane, dalle notizie su Stalingrado e sullo sbarco americano in Nord Africa, sulla sconfitta di El Alamein e sulla disfatta dell’Armata italiana in Russia (ARMIR), dagli scioperi operai a Milano e Torino – il consenso nei confronti del fascismo crolla rapidamente e verticalmente, anticipando le manifestazioni di gioia che accompagnano la caduta di Mussolini il 25 luglio per mano del Gran Consiglio fascista e del re.
In Europa, la Resistenza era iniziata a ridosso delle vittorie militari compiute dalla Wehrmacht e della conquista nazista del continente. Hugh Dalton, il ministro dell’Economia di guerra britannico – la Gran Bretagna era rimasta sola nel combattere contro la Germania hitleriana – messo da Churchill nel luglio 1940 alla guida del SOE (Special Operations Executive), il nuovo organismo civile incaricato di favorire la ribellione e la guerra sovversiva nei paesi occupati dal nazismo, riteneva che fosse possibile avere
dalla nostra parte non soltanto gli elementi antinazisti in Germania e Austria, non solo i cechi e i polacchi, ma anche l’insieme del mondo democratico e amante della libertà in Norvegia, Danimarca, Belgio, Francia, Olanda e Italia. Inoltre, in tutti questi paesi tranne l’Italia, si farà un appello nazionalista che si può collegare agli ideali di democrazia e libertà individuale. Sono convinto che le potenzialità di questa guerra dall’interno siano davvero enormi. Si tratta oggi di una delle nostre migliori armi offensive se solo riusciremo a imparare ad usarla e costituirà una parte assolutamente essenziale di ogni controffensiva di terra che noi dovremo alla fine intraprendere.
Il rapporto tra gli Alleati e la Resistenza – che fu un problema europeo ma particolarmente complesso in Italia, un paese che per tre anni era stato in guerra insieme alla Germania – ha dato luogo negli ultimi anni a ricerche e interpretazioni che hanno messo in discussione i luoghi comuni sull’appoggio parziale e discutibile che soprattutto la Gran Bretagna avrebbe dato al movimento partigiano italiano.
La guerra parallela vagheggiata da Mussolini, da impostare con propri obiettivi e strategie, «non per la Germania, né con la Germania ma a fianco della Germania», diviene in realtà una guerra subalterna: l’ultima del fascismo, dopo le aggressioni all’Etiopia del 3 ottobre 1935, alla repubblica spagnola nell’estate 1936 e all’Albania del 7 aprile 1939. Che si tratti di guerra fascista – col suo carattere ideologico di avversione per le democrazie, propagandato da stampa, radio e cinema – lo conferma la concentrazione dei poteri nelle mani del dittatore, titolare dei ministeri dell’Interno, della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica. Mussolini si è pure attribuito il grado di Primo Maresciallo dell’Impero, ossia di ufficiale più alto in grado delle forze armate operanti.
L’antifascismo prebellico
Nel 1939 sono migliaia gli antifascisti in carcere o al confino, oppure – se liberi – strettamente controllati sotto minaccia di arresto alla minima infrazione. Vent’anni di persecuzione, ordinata dagli ispettorati regionali dell’OVRA, la polizia politica fascista, hanno distrutto le reti clandestine comuniste e gielliste, organizzate dai centri direttivi di Parigi con l’invio in patria di emissari sotto falso nome. Molti di loro vedono la sconfitta militare della Germania, dell’Italia e del Giappone (l’Asse Roma-Berlino-Tokyo) come un passaggio obbligato per il ritorno alla libertà. Questa visione antifascista globale si delinea nell’estate del 1936, come reazione al sostegno di Mussolini e Hitler alla ribellione militare franchista in Spagna. Volontari di cinquanta nazioni accorsero per entrare nelle Brigate internazionali, costituite da circa 40.000 combattenti, e tra di loro c’erano circa 3500 italiani, guidati dai repubblicani Mario Angeloni e Randolfo Pacciardi, dal giellista Carlo Rosselli, dall’anarchico Camillo Berneri, dai comunisti Luigi Longo e Palmiro Togliatti.
Tra i caduti vi è il professore triestino Piero Jacchia, cofondatore il 23 marzo 1919 dei Fasci italiani di combattimento e poi divenuto un avversario del regime. Angeloni, comandante della colonna italiana, è falciato da una mitragliatrice il 28 agosto 1936 mentre lancia una bomba a mano. Berneri viene sequestrato e ucciso a Barcellona nel maggio 1937 da agenti stalinisti, durante una delle fasi più acute delle divisioni intestine del fronte repubblicano. Gli italiani dell’esercito regio e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (che formano il Corpo truppe volontarie, cui parteciparono quasi 80.000 camicie nere) vengono sconfitti nella battaglia di Guadalajara proprio dagli italiani delle Brigate internazionali. È la prefigurazione della guerra civile, circoscritta per il momento allo scenario della penisola iberica. A Radio Barcellona, il 13 novembre 1936 Carlo Rosselli lancia lo slogan Oggi in Spagna, domani in Italia. Carlo viene assassinato, insieme al fratello Nello, in Normandia il 9 giugno 1937 da cagoulards assoldati dai servizi segreti di Mussolini; la loro morte provoca la crisi di Giustizia e Libertà.
L’unità faticosamente raggiunta dall’emigrazione politica italiana viene messa in crisi dal patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), preludio alla spartizione della Polonia tra nazisti e sovietici: le organizzazioni non comuniste respingono l’interpretazione proposta dal Komintern della guerra come scontro tra due imperialismi, egualmente nemici del proletariato, e i socialisti chiudono l’esperienza del patto di unità d’azione con il Partito comunista d’Italia (PCd’I).
Giustizia e Libertà, Partito repubblicano e Partito socialista costituiscono nell’autunno del 1939 il comitato promotore della Legione italiana, destinato – come nel 1914-1915 – a battersi contro i tedeschi in Francia e Belgio: in poco più di un mese si raccolgono 15.000 adesioni, ma il governo Daladier rifiuta di inserire reparti italiani nell’esercito, temendo ripercussioni sulla “non belligeranza”. I volontari sono così indirizzati alla Legione straniera, depoliticizzandone il reclutamento; a inizio giugno 1940, quando la situazione precipita, si liberalizzano gli arruolamenti e accorrono circa 7000 antifascisti, solidali con la Francia. Nell’aprile-giugno 1940, altre migliaia di esuli italiani si battono in Norvegia contro i tedeschi.
Tra gli antifascisti in esilio e gli oppositori del regime predomina lo sconforto. I dissidenti, al carcere e al confino, si sentono sempre più isolati. In Francia, dove è concentrato il grosso dell’emigrazione politica, socialisti e giellisti sono in piena crisi; i comunisti vengono arrestati in quanto considerati quinta colonna dell’Urss schierata con il Terzo Reich.
L’Italia in guerra e l’antifascismo
Dal 10 giugno 1940, quando Mussolini getta l’Italia in guerra contro Francia e Gran Bretagna, gli emigrati in quei paesi si ritrovano schedati e internati quali enemy aliens, ossia sudditi di nazione nemica. A Parigi, per reazione alla “pugnalata alle spalle”, assestata nel momento di massima difficoltà con i tedeschi in marcia verso Parigi, si scatena la caccia agli italiani: in un paio di mesi, se ne arrestano circa 2000. Eppure, molti di loro condannano l’avventura mussoliniana.
Il giellista Silvio Trentin considera Germania, Italia e Spagna come l’anti-Europa; prostrato dal crollo della Francia, rivive il naufragio della democrazia avvenuto nell’Italia del 1922 e si considera “un sopravvissuto”. Nonostante versi in pessime condizioni di salute, con problemi cardiaci, chiede l’arruolamento nell’esercito francese. L’anno successivo fonda a Tolosa il gruppo Libérer et Fédérer, aderente al movimento France Libre (costituitosi attorno al generale de Gaulle).
Il 22 giugno la Francia capitola e il maresciallo Pétain la subordina alla Germania. Dopo due giorni viene firmato l’armistizio con l’Italia. Agli esuli non rimane che passare in clandestinità e collegarsi alla nascente Resistenza francese, oppure riparare in Africa settentrionale o nelle Americhe. Il 5 ottobre, l’OVRA consegna alla polizia nazista lunghi elenchi di antifascisti da catturare e consegnare alla frontiera italo-francese. Nella seconda metà dell’anno, sono circa 40.000 i rimpatriati, volontari o forzati. I verbali degli interrogatori mostrano stati d’animo di cocente delusione: dopo anni di privazioni e lotte, ci si ritrova sconfitti, mentre l’Asse predomina e le masse plaudono al dittatore.
Eppure, nonostante tutto, molti partecipano alla “campagna di Francia” e poi passano nei maquis, convinti che contrastare la dominazione hitleriana in Europa significhi servire la causa della libertà italiana. Nel 1940, tuttavia, gli esiliati si ritrovano in piena crisi, con scarsi addentellati con la madrepatria. È questo, con tutta probabilità, il periodo più duro e ingrato dell’antifascismo. Gli stessi comunisti, meglio organizzati rispetto agli altri gruppi, devono dividersi e disperdersi per sfuggire alla repressione. La redazione della rivista teorica «Stato Operaio» si sposta a New York, con scarsi collegamenti con il nucleo allestito segretamente nella Francia di Vichy.
Il SOE e l’Italia
In Europa, ormai, il solo paese a resistere ai nazifascisti è il Regno Unito. Fin dal 1940 il governo Churchill cerca di dar vita, per quanto riguarda l’Italia, a un’“opposizione” indipendente e, su proposta di Hugh Dalton, acconsente nel gennaio 1941 alla creazione di un Comitato dell’Italia libera, affidato al cattolico Carlo Petrone, sconosciuto in patria e all’estero, giunto a Londra nel 1939, personaggio del tutto inadeguato, cui si contrappone nel luglio dello stesso anno un Movimento dell’Italia libera destinato ben presto anch’esso all’impotenza. L’illusione di Churchill di poter creare nella Cirenaica liberata nel gennaio 1941 dai britannici – che avevano catturato 100.000 soldati italiani – una «colonia dell’Italia libera» viene infranta dai successi di Rommel e dell’Afrikakorps che riconquistano la Cirenaica ai primi di aprile.
Si cerca, allora, di reclutare volontari tra i militari rinchiusi nei campi di prigionia in Africa settentrionale e in India; le adesioni si aggirano sul mezzo migliaio di unità, e si allestiscono due battaglioni di pionieri. Anche questa volta viene commesso un irrimediabile errore nella scelta del comandante, individuato nel generale Annibale Bergonzoli, già decorato con la medaglia d’oro nella guerra di Spagna (era comandante della 4a Divisione d’assalto “Littorio”), catturato il 7 febbraio 1941 in Africa settentrionale dopo il fallimento dell’offensiva italo-germanica in Egitto. Il generale Francis Davidson disapprova tale scelta perché Bergonzoli è «ritenuto dai bersaglieri un ciarlatano […] inadatto a diventare il capo di qualsiasi movimento dell’Italia Libera, essendo di temperamento esaltato e vagamente instabile. Ha probabilmente raggiunto il rango che ricopre sottomettendosi al Partito fascista». Il progetto, tuttavia, non prende corpo. Falliti i tentativi di costituire formazioni militari italiane da affiancare ai contingenti britannici, si ripiega su inserimenti individuali in reparti addestrati a colpi di mano e incursioni.
Per quanto riguarda l’Italia, l’attività del SOE si concentrò in gran parte sulla propaganda via radio, con le trasmissioni di Radio Italia (una costola di Radio Londra attiva fin dal 1935), inaugurata a metà novembre 1940. Le voci di Ruggero Orlando, di Umberto Calosso, di Paolo e Pietro Treves (figli dell’ex deputato socialista Claudio Treves) accennano alla presenza nel Regno Unito di esiliati politici, informano sull’attività della Resistenza sovietica, iugoslava e francese, ribadiscono – per esempio il 24 febbraio 1942, a opera del colonnello Stevens – che gli Alleati non prenderanno in considerazione l’Italia finché questa non avrà rovesciato la dittatura.
Il SOE si concentra sulla possibilità di una “guerra irregolare”, mediante incursioni dietro le linee da parte di piccole unità, con l’intento di distruggere infrastrutture civili e militari, e possibilmente collegarsi a nuclei di oppositori. Sono missioni della durata media di pochi mesi, prima dell’inevitabile cattura. Si spera, anche attraverso le operazioni speciali, di innescare ribellioni, ma è un obiettivo del tutto irrealistico per il contesto italiano, nonostante dall’agosto 1941 il Foreign Office studi possibili alternative politiche ai vertici del Regno d’Italia, per una fronda monarchico-militare o per la formazione di un governo in esilio. Un dirigente del SOE per l’Italia, il tenente colonnello Richard Hewitt, descrive una situazione deludente:
Fin dal 1940 la nostra politica mirava a proteggere e sostenere gli antifascisti in Italia e fuori. I primi contatti furono difficili: nel Paese gli elementi di opposizione comprendevano che il momento non era ancora giunto per affrontare rischi all’aperto; fuori del Paese gli antifascisti non erano ancora disposti a divenire volontariamente traditori formali della loro patria. L’opposizione in questo momento era in gran parte circoscritta entro teoria e propaganda e si limitava a sviluppare le cellule e le organizzazioni che un giorno sarebbero potute uscire all’aperto.
Il movimento maggiormente interessato alla collaborazione con gli Alleati è Giustizia e Libertà; chi più di tutti anela all’azione è Emilio Lussu, protagonista di una battagliera “diplomazia clandestina” e ideatore nella prima metà del 1942 di un piano insurrezionale che – coordinato con i progetti angloamericani di un fronte italiano – dovrebbe estendersi dalla Sardegna alla penisola. Egli si reca più volte in Corsica e riceve a Parigi emissari sardi, con i quali discute la fattibilità di un’iniziativa armata. Le trattative con gli inglesi si arenano dinanzi alle pregiudiziali di autonomia operativa e intangibilità dei confini italiani: «Faremmo un buco nell’acqua per la liberazione del nostro Paese se apparissimo venduti agl’inglesi. […] Il meno che possiamo chiedere è che all’Italia sia garantita l’integrità territoriale, metropolitana e coloniale, entro i limiti preesistenti all’avvento del fascismo».
L’opposizione inglese fa fallire anche il Congresso delle organizzazioni antifasciste delle due Americhe convocato a Montevideo il 14 agosto 1942 dalla Mazzini Society (fondata l’anno prima a New York su impulso di Gaetano Salvemini e presieduta da Max Ascoli), dove si annuncia la creazione di un organo politico diretto da Carlo Sforza e di una colonna militare che sotto il comando di Randolfo Pacciardi dovrà collaborare con gli Alleati. La pregiudiziale repubblicana non piace a Churchill, ma pesa anche lo scarso seguito che i promotori hanno presso la comunità italoamericana.
Traditori, o antesignani?
Naufragata l’intesa con le organizzazioni antifasciste, l’intelligence britannica ripiega sul coinvolgimento di singoli italiani nella guerra irregolare. Nel 1940-1943 sono decine i volontari arruolatisi nei servizi segreti angloamericani per missioni ad altissimo rischio, con l’obiettivo di costituire reti interne o per attuare sabotaggi. Sono forme di opposizione individuali alla guerra fascista, equiparate al tradimento e punite con la pena capitale. Chi prende in considerazione tale scelta è Leo Valiani, desideroso a fine 1941 di battersi «come soldato grigio e taciturno, nell’esercito sovietico o in un esercito alleato». Lascia il Messico per il Regno Unito, dove è addestrato dal SOE per l’invio ad Algeri, tappa intermedia della missione in Italia: «sapevano di mandarci allo sbaraglio; se fossimo stati arrestati, i fascisti ci avrebbero fucilati».
Tra i primi italiani inseriti nelle forze speciali del Regno Unito per missioni nella penisola, vi è il fiorentino Fortunato Picchi (Carmignano, 1896). Reduce della Grande Guerra, stabilitosi a Londra nel 1921, era divenuto vicedirettore di sala al Savoy Hotel. Schedato come antifascista all’entrata in guerra dell’Italia, Picchi viene internato sull’Isola di Man; trattato come un potenziale nemico, reagisce orgogliosamente, dichiarandosi disposto a combattere il fascismo al fianco delle forze armate britanniche. Nonostante sia quarantasettenne, il SOE gli assegna il nome di copertura di Pierre Dupont e lo include, con la mansione di traduttore, tra i 35 incursori di un commando del II Special Air Service.
È l’Operazione Colossus: partiti da Malta, gli incursori vengono paracadutati la notte del 10 febbraio 1941 sugli impervi territori dell’Avellinese. Viene fatto saltare il ponte-canale dell’Acquedotto pugliese, nei pressi di Calitri, per interrompere il rifornimento idrico alle città portuali di Bari, Brindisi e Taranto. Il SOE vuol far sentire alle popolazioni il peso della guerra, per acuire il malcontento contro Mussolini. Attuato il sabotaggio, gli incursori si dividono in tre gruppi e marciano verso la costa, dove li attende un sommergibile; individuati da alcuni cacciatori e segnalati ai carabinieri, si arrendono dopo una sparatoria, costata la vita a due persone. Dupont, imprigionato a Napoli con i suoi compagni, viene smascherato da agenti del controspionaggio e fucilato all’alba del 7 aprile in adempimento della sentenza del Tribunale speciale. Scrive alla madre: «Di morire non m’importa gran cosa, quel che mi dispiace è che io, che ho voluto sempre il bene del mio Paese, debba oggi esser considerato come un traditore».
Nel dopoguerra si accenderà una polemica giornalistica sulla figura dell’esule fiorentino e sarà il deputato inglese Ivor Thomas a criticare un articolo di Paolo Caccia Dominioni (già comandante del 31° Battaglione “Guastatori d’Africa” e poi esponente del Corpo lombardo volontari della libertà) apparso sul «Corriere d’informazione» il 16-17 aprile 1949 e intitolato Era un traditore oppure un eroe?. Thomas sosteneva infatti che «Picchi fu tra gli uomini più valorosi dell’età nostra. Amò la sua terra nativa e sacrificò la sua vita per contribuire a liberarla dalla tirannia fascista che la dominava. Credeva di esser fedele alla vera Italia nella sua stessa opposizione al regime fascista. M’inquieta vedere un Suo collaboratore bilanciare così equilibristicamente il problema se Picchi fosse un traditore o un eroe. Se Picchi fu un traditore, allora Mussolini fu un patriota». Quella di Fortunato Picchi fu una scelta estrema, presa in assoluta solitudine, dinanzi alla propria coscienza: «Fu un partigiano prima che in Italia esistessero i partigiani. Arrivò presto, forse troppo presto perché venisse riconosciuto il suo sacrificio (tanto che il governo della repubblica nata dalla Resistenza gli negò il riconoscimento postumo di combattente antifascista). Ebbe il destino degli idealisti solitari: una fossa comune, e l’oblio. Aveva fatto quello che riteneva giusto, senza chiedere il permesso a nessuno, senza porsi problemi troppo complicati».
La preparazione della campagna d’Italia
Nella prospettiva della campagna d’Italia gli Alleati inviano in Sicilia agenti segreti incaricati di raccogliere informazioni e predisporre reti d’appoggio al corpo di spedizione. Il compito, estremamente difficoltoso e a massimo rischio, è affidato a volontari reclutati tra disertori o prigionieri di guerra italiani di orientamento antifascista. Si tratta di incursioni suicide, che al più producono qualche messaggio cifrato prima dell’inevitabile cattura, determinata spesso da cittadini che segnalano ai carabinieri la presenza di estranei. Ogni missione – con base operativa a Malta – è costituita da un paio di elementi, uno dei quali specializzato nelle trasmissioni radiofoniche e l’altro con compiti operativi; quest’ultimo è originario della zona prescelta.
La spedizione che sbarca la notte del 14 ottobre 1942 sul litorale di Acireale si compone del trentaseienne catanese Emilio Zappalà e del trentunenne padovano Antonio Gallo, incaricati di raccogliere notizie sulle strutture militari nelle province di Catania e Messina: difesa costiera, aeroporti, sistemi di vigilanza, dislocazione dei reparti tedeschi ecc. Dopo una notte di marcia i due raggiungono Santa Venerina, paese natale di Zappalà, dal quale egli era partito quindici anni prima per la Libia, dove con alterne fortune aveva svolto attività commerciali, aderendo poi al movimento Libera Italia e impegnandosi nelle reti informative francesi e inglesi. Gallo, mobilitato per la campagna d’Abissinia, era rimasto in Etiopia sino al ritiro italiano, nel 1941, quando si era offerto all’Intelligence Service per missioni nel Regno: addestrato come sabotatore e marconista, deve trasmettere le notizie raccolte dal compagno. Ricostruirà così l’epilogo della missione:
Giunti finalmente alla periferia di Santa Venerina essendo già giorno fatto, lo Zappalà ad una donna che veniva dal paese disse che eravamo dei contrabbandieri e parlando in dialetto siciliano chiese se conoscesse qualcuno presso il quale potessimo lasciare in quei paraggi per poche ore le nostre valigie. La donna gli indicò un casolare poco distante dove essa era diretta e lo Zappalà la seguì, entrandovi mentre io aspettavo con le valigie al margine della strada. Essendo stata respinta l’ospitalità da lui chiesta, mi disse che sarebbe andato lui solo in paese per rivedere dei parenti e che sarebbe tornato dopo una mezz’ora. Prima di allontanarsi nascose le due bombe a mano in una buca presso di me. Rimasi nel posto da lui indicatomi ed attesi per circa mezz’ora che egli tornasse. Tornò in fatti e mi invitò a seguirlo in direzione del paese senza dirmi altro. Sennonché dopo pochi passi ci vennero incontro il maresciallo dei carabinieri con tre carabinieri ed un borghese e ci fermarono, traendoci poi in arresto.
I due prigionieri sono interrogati personalmente dal colonnello dei carabinieri Candeloro De Leo, l’ufficiale più valido del Servizio informazioni militare (SIM), che redige un resoconto con cui il Tribunale speciale motiva le due condanne a morte, eseguite il 28 novembre 1942 con il rituale della fucilazione alla schiena (il colonnello De Leo, fervente mussoliniano, comanderà i servizi segreti della RSI).
A volte i patrioti che intendono contribuire alla sconfitta militare dell’Italia per affrettare il ritorno alla democrazia cadono vittime dell’azione del controspionaggio fascista. Tra quanti aderiscono inconsapevolmente a cordate clandestine le cui fila sono tirate dal Centro controspionaggio dei carabinieri vi è la maestra trentina Clara Marchetto (nata nel 1911 a Pieve Tesino): residente in Liguria, nella primavera copia su fogli lucidi documentazione sulla corazzata Littorio e su altre navi da battaglia, per poi affidarli a una persona che dovrebbe portarli oltre confine. In realtà i carabinieri controllano l’intera organizzazione e a metà maggio 1940 ne arrestano i 15 componenti (alcuni dei quali doppiogiochisti). Il capocordata Aurelio Cocozza e il marinaio Francesco Ghezzi vengono fucilati il 22 dicembre 1940, mentre a Clara Marchetto e a suo marito Giusto Gubitta, disegnatore dei Cantieri Ansaldo, si infligge l’ergastolo. Scarcerata a Perugia nel maggio 1944 per ordine del Comando alleato, Clara Marchetto è tra i fondatori del Partito popolare trentino-tirolese, che rappresenta nel 1948 in Consiglio regionale. Fa richiesta di revisione della sentenza del Tribunale speciale ma viene accusata di tradimento dal democristiano Flaminio Piccoli: il 2 febbraio 1949 è ricondotta nel carcere di Perugia per scontare il resto della pena, in quanto «illegalmente liberata» dagli Alleati; dichiarata decaduta dal mandato elettorale, a fine anno è rilasciata, in libertà provvisoria, in attesa di un nuovo processo, che la condannerà in contumacia a 15 anni per rivelazione di segreti di Stato e complotto politico. Per non perdere nuovamente la libertà, Clara Marchetto si stabilisce dapprima in Austria, quindi in Tunisia e infine a Parigi, dove morirà settantunenne il 17 settembre 1982.
A tradire una combattente per la libertà, “partigiana” prima che nascessero i partigiani, è questa volta lo Stato repubblicano nato dalla Resistenza, incapace di promuovere una forte discontinuità (di leggi, di sentenze ma anche di valori) tra il fascismo e la democrazia. L’idea che la “patria” non vada mai tradita, nemmeno quando si lotta per ridarle una libertà conculcata, sembra una sconfessione del sacrificio che i martiri del Risorgimento patirono da parte dei tribunali austroungarici (da cui vennero condannati nella maggior parte dei casi proprio per tradimento): una contraddizione profonda proprio negli anni in cui si iniziava a parlare della Resistenza come Secondo Risorgimento, ma in un paese in cui la cultura nazionalista era ancora profondamente radicata.
La prima Resistenza nella penisola
Il 18 novembre 1940, al Gran Rapporto ai gerarchi provinciali del PNF, Mussolini aveva annunciato: «Con certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia!», mentre le truppe italiane stavano già indietreggiando di fronte alla controffensiva ellenica che costerà, due settimane dopo, le dimissioni del generale Badoglio. Nel giro di qualche mese, nell’aprile 1941, l’esercito di Mussolini torna nei Balcani al seguito della Wehrmacht che ha deciso di invadere la Iugoslavia. Partite da Zara, le truppe italiane raggiungono a metà mese Sebenico e Spalato, Ragusa e Mostar. L’armistizio firmato in fretta il 17 aprile dal generale Danilo Kalafatovi porta alla divisione del regno iugoslavo tra la Germania (in misura preponderante), l’Italia, l’Ungheria e lo Stato della Croazia, satellite tedesco sotto la guida di Ante Paveli.
Una parte della Slovenia diventa così l’italiana provincia di Lubiana, mentre si amplia la provincia di Fiume e si crea il governatorato della Dalmazia. Già nel 1940 erano stati smantellati dall’OVRA diversi gruppi di antifascisti sloveni, sia comunisti sia nazionalisti e rivoluzionari. I brutali interrogatori, nei quali si distinse il commissario Gennaro Perla, condussero a centinaia di arresti: vennero denunciati in 73 al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, poi ridotti di una decina, inizialmente divisi tra comunisti e irredentisti ma poi riuniti tutti come terroristi. Due di loro – Ivan Marija ok e Danilo Zelen – riescono a fuggire anche se quest’ultimo viene ucciso il 13 maggio 1941 dai carabinieri vicino a Ribnica, nel primo scontro armato avvenuto nella nuova provincia di Lubiana tra forze italiane di occupazione e antifascisti sloveni.
Il 2 dicembre 1941 inizia al Palazzo di giustizia di Trieste il processo a 60 imputati, arrestati quasi tutti in seguito a delazioni di loro ex compagni di lotta, sottoposti a estenuanti torture. A presiedere il Tribunale speciale è il generale Antonino Tringali Casanuova, che sarà successivamente ministro di Grazia e Giustizia della RSI e morirà per cause naturali ricoprendo quella carica. Gli imputati sono divisi in tre gruppi: comunisti, intellettuali e terroristi, sono tutti italiani anche se uno non è nato in Venezia Giulia, e tra loro vi è una sola donna, Marija Urbani. Il 14 dicembre vengono pronunciate nove condanne a morte di cui quattro – contro gli “intellettuali”, che lo stesso Alto commissario civile della provincia di Lubiana chiede di salvare per opportunità politica – commutate in ergastolo. L’indomani, al poligono di Opicina, ha luogo l’esecuzione dei “terroristi” Pino Tommasi (Toma�i), Vittorio Bobek, Giovanni Ivancich (Ivani), Giovanni Vadnal, Simone Kos. Dalle carte del processo – ha scritto Marta Verginella – emerge «come la sottrazione dei diritti nazionali, la decapitazione del ceto medio sloveno con la sua esclusione dalle istituzioni statali e dall’amministrazione locale e il suo allontanamento dalla sfera pubblica abbiano prodotto nei superstiti il bisogno di una risposta forte e coerente all’ideologia dello Stato-nazione. Di fronte allo Stato italiano e alla sua politica di assimilazione e snazionalizzazione la rappresentanza politica slovena, non soltanto nella sua composizione liberal-nazionale, ma anche in quella cattolica e comunista, individuava nella comune azione di tutte le forze politiche slovene una scelta di sopravvivenza».
Il 24 ottobre 1942 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato aveva decretato la condanna a morte per Antonio Grzina e i suoi collaboratori Vincenzo Hrvatin, Giuseppe Roi, Francesco Vci e Giuseppe Zefrin, immediatamente eseguita a Trieste. Il “Gruppo Grzina”, composto da una decina di contadini e artigiani coordinati da un meccanico fiumano, annotava ubicazioni e caratteristiche di aeroporti, caserme e infrastrutture belliche, ma la sua attività era stata stroncata il 10 ottobre 1941 da una raffica di arresti.
Tra i casi più significativi di opposizione all’oppressione fascista, identificata con la dominazione italiana, vi è il tragico destino dei fratelli Amauri ed Egone Zaccaria (nati a Fiume nel 1913 e nel 1917), appartenenti a una famiglia di sinistra: la madre Maria Soucek a inizio 1941 viene internata nel campo di prigionia di Montefusco, mentre il padre Alessandro, organizzatore partigiano, sarà catturato nell’ottobre 1942 da poliziotti triestini, imprigionato nel Lager di San Sabba e fucilato dai tedeschi il 22 giugno 1944. Arruolati in un “battaglione allogeni”, costituito con reclute considerate infide, disertano e si recano avventurosamente al Cairo, per offrirsi all’Intelligence Service quali volontari per missioni in Italia. Dopo un sommario addestramento, la notte del 9 ottobre 1942 un sommergibile li sbarca al largo della costa campana, nei pressi di Licola, muniti di cifrari, radio ricetrasmittente e una grossa somma di denaro.
Avvistati dalla guardia costiera, sono catturati nel giro di poche ore. Dopo un mese vengono condannati «alla pena di morte con degradazione mediante fucilazione alla schiena». Sentenza eseguita il 10 novembre nella capitale, nel poligono di Forte Bravetta, da un plotone d’esecuzione di camicie nere. Vengono sepolti al cimitero del Verano, nel “riquadro dei traditori”, con false indicazioni nominative.
L’opposizione al regime spinge alcuni irredentisti slavi a raccogliere informazioni per lo spionaggio iugoslavo. Qui entra in gioco un fattore decisivo e innovativo rispetto alle adesioni individuali ai servizi segreti del Regno Unito: la dimensione collettiva, legata a un progetto politico condiviso.
Il 26 aprile 1941, intanto, era sorto l’Osvobodilna Fronta (Fronte di liberazione del popolo sloveno, OF), cui aderiscono tutte le forze che intendono combattere l’occupazione italiana, e che vede una progressiva egemonia del Partito comunista sloveno. La Resistenza cresce man mano che la violenza dell’occupazione fascista si manifesta con tutta la sua ferocia: uccisioni, arresti, massacri di civili, incendi di villaggi, migliaia di prigionieri. Il 1° marzo 1942 il generale Roatta, dopo aver assunto il comando della 2a Armata da cui dipendevano le unita dislocate nei territori ex iugoslavi annessi nella primavera del 1941 e in quelli appartenenti al nuovo regno di Croazia, emana la famigerata circolare n. 3 C, in cui sottolinea che tutti gli abitanti dei territori occupati devono essere ritenuti nemici, che si deve evitare di fare prigionieri, che non devono essere risparmiati i sospetti di favoreggiamento e le loro case. È in quel periodo che entrano in funzione i campi di concentramento di Gonars (costruito nell’autunno precedente nella prospettiva di mettervi i prigionieri russi), operativo dalla primavera, e di Arbe, creato in luglio, dove migliaia di arrestati conoscono condizioni di vita terribili, violenze continue e una forte mortalità.
Ai partigiani sloveni si aggiungono presto anche numerosi antifascisti italiani, delle province di Trieste e Udine. Uno di loro è Vincenzo Marcon, arrestato nel 1937 e inviato poi al confino alle Isole Tremiti, nel carcere di Lucera, sull’Isola di Ponza, nel carcere di Cerchiara in provincia di Cosenza, a Corigliano Calabro e infine a Castrovillari, dove gli viene concessa la libertà provvisoria il 22 dicembre 1941. Nell’aprile 1942 Marcon è a Trieste e insieme a Giovanni Zol si dedica a riorganizzare il Partito comunista e ad avviare una collaborazione con i partigiani sloveni. Con il nome di battaglia di Davilla partecipa a incontri nel maggio e luglio 1942 per collegare le iniziative di lotta tra italiani e sloveni, e reperire e costruire armi. Ondina Peteani, considerata la “prima” staffetta partigiana, così lo ricorderà:
Nella primavera del 1942, al ritorno dal confino, Davilla si mise in contatto con Vinicio Fontanot, abitante in quel periodo a Ronchi. A quei tempi io pure abitavo a Ronchi e avevo continui rapporti con la resistenza. Portavo di frequente materiale propagandistico a Trieste. In uno di questi passaggi incontrai Davilla ed ebbi subito un’impressione molto positiva di lui; essendo io appena diciottenne, Davilla mi pareva, ed ebbi più tardi conferma, un organizzatore indiscusso con una personalità molto forte. Era assai radicato nel suo lavoro politico. Con Vinicio Fontanot e altri compagni del cantiere di Monfalcone andava d’accordo sulle varie decisioni politiche e di lavoro in genere.
A fine dicembre 1942 sono attivi a Trieste una trentina di Comitati rionali sloveni e italiani impegnati nel sostegno alle formazioni combattenti, come risultato degli accordi raggiunti da Drago Maruši, Giuseppe Udovi, Agostino Trobec (in rappresentanza del partito sloveno e dell’OF) e Davilla, Rinaldo Rinaldi, Cesare Gorian (organizzatori della Federazione triestina del PCd’I).
Mentre numerosi comunisti italiani scelgono nel corso del 1942 in modo spesso spontaneo e individuale di aderire alla Resistenza slovena, l’attività dei partigiani sulle alture del Collio e nella Slavia veneta (Beneija) spinge la Federazione comunista di Udine, nell’estate del 1942, a riflettere sull’opportunità di una partecipazione alla lotta armata. La prima richiesta alla direzione del PCd’I viene fatta da Mario Lizzero (Lima), con la proposta di costituire un movimento armato, pronto a partecipare alla lotta assieme ai partigiani iugoslavi, definiti alleati. Il primo incontro tra Lizzero e Mirko Braii, comandante del Briško Beneški Odred (BBO) ha luogo a fine ottobre 1942. «In concomitanza o in conseguenza di questi incontri si verificò un sensibile afflusso di italiani e sloveni nelle formazioni partigiane, tanto che Lizzero si incontrò ancora con gli sloveni all’inizio del 1943, chiedendo che fosse facilitata la riunione in un unico reparto di tutti quei partigiani italiani che erano presenti nelle formazioni slovene: ciò avrebbe permesso di far affluire altri combattenti italiani».
Dal sabotaggio alla Resistenza
Come per tutti gli antifascisti in esilio, in prigione o al confino prima del conflitto, con lo scoppio della guerra chiunque collabori alla sconfitta dell’esercito fascista e per mettere in crisi il governo di Mussolini viene considerato un traditore della patria. «La figura del traditore, in un’epoca contrassegnata dalla guerra, tende a sovrapporsi e a coincidere con quella della spia, anche perché gli apparati di intelligence si sviluppano […] evidenziando una frattura fra lealtà alla nazione e allo stato e fedeltà verso i propri valori e i propri principi». Dallo scoppio della guerra e fino al settembre 1943, l’assenza di referenti nel territorio del Regno rende estremamente rischiose le missioni e, tranne un paio di eccezioni, i loro protagonisti vengono rapidamente individuati e neutralizzati. Traditori o precursori? Nel secondo dopoguerra un velo di silenzio avvolge gli italiani condannati – e in diversi casi fucilati – per spionaggio, ignorando il retroterra politico di scelte esistenziali arrischiate.
La continuità dell’azione antifascista dal 1940 al 1945, in sinergia con il SOE, attraverso le differenti fasi politico-militari della seconda guerra mondiale, è ben rappresentata da Giacomino Sarfatti e da Max Salvadori.
Dopo le leggi antiebraiche Giacomino Sarfatti (Firenze, 1920-Siena, 1985) emigra in Inghilterra e si iscrive alla facoltà di Agraria dell’Università di Reading. All’entrata italiana in guerra viene internato in quanto “straniero nemico” e nel novembre 1940 si arruola come volontario nelle forze armate britanniche. Addestrato nel SOE come operatore radio, è considerato un idealista, dotato di coraggio e autocontrollo, sebbene con qualche inibizione morale: «Come ebreo, è antifascista e non ha nulla in contrario ad attaccare qualsiasi bersaglio militare o fascista, ma ha grandi remore sulla possibilità di provocare la morte di altri italiani». Munito di falsi documenti, opera dapprima a Malta; nel dicembre 1942 entra in Italia dalla Svizzera, per stabilirsi a Milano e trasmettere notizie a John McCaffery, che da Berna dirige i servizi segreti inglesi. Prima della missione, Sarfatti redige il testamento e lascia oggetti personali da consegnare in caso di morte alla famiglia, che a Firenze ne ignora l’affiliazione militare. McCaffery ha affidato l’agente a Eligio Klein, un triestino che in realtà è assoldato dai servizi segreti italiani: per questo motivo Sarfatti sarà controllato passo passo e lasciato operare per l’interesse del SIM a conoscere codici e comunicazioni del SOE. Ritorna brevemente in Svizzera nell’ottobre 1943 per poi riprendere servizio in Italia settentrionale, stavolta a diretto contatto con i partigiani delle Fiamme Verdi operanti nelle valli bresciane. Ha potuto evitare l’arresto e la fucilazione, in realtà, soltanto perché lo si era ritenuto di maggiore utilità in libertà, nell’orbita del doppiogiochista Klein.
Cresciuto a Firenze, Max Salvadori (Londra, 1908-Northampton, 1982) completa gli studi in Svizzera, a causa dei frequenti scontri con squadristi che perseguitano anche suo padre, docente di filosofia morale. Rimpatriato nel 1929, conduce un’esistenza semiclandestina per organizzare il movimento Giustizia e Libertà. Arrestato nel 1932, torna libero dopo un anno grazie a un “rinsavimento” politico simulato, espatria e riprende l’agitazione antifascista. Nel 1938 svolge missioni antinaziste nel Mare del Nord, per conto dei servizi segreti inglesi; dopo aver vanamente proposto al SOE di essere inviato in Italia, recluta in Messico esuli antifascisti disposti a tornare in Europa per battersi nella guerra segreta contro l’Asse. Il 19 gennaio 1943 è accolto nell’esercito britannico, per fungere da elemento di punta nell’imminente campagna d’Italia. Il 25 luglio 1943 sbarca in Sicilia con una missione aggregata alla 7a Armata, effettua una puntata dietro le linee italo-tedesche, agevola l’arruolamento di antifascisti che si batteranno nella guerra di liberazione (tra gli altri: Alberto Cianca, Aldo Garosci, Leo Valiani, Alberto Tarchiani e Giaime Pintor). Partecipa agli sbarchi di Salerno e di Anzio, e svolgerà un ruolo decisivo nel rapporto tra Alleati e Resistenza.
Probabilmente, Max Salvadori è – nel periodo precedente all’armistizio dell’8 settembre 1943 – il solo membro italiano del SOE a non essere individuato, controllato o catturato dal SIM. Ciò è dipeso soprattutto dalla brevità del suo lavoro sul territorio del Regno e dalla decisione dei suoi superiori di non “bruciarlo” in missioni impossibili, come invece accade agli altri antifascisti tornati clandestinamente nella penisola per il desiderio di contribuire alla lotta contro la dittatura di Mussolini.
Testimonianza su Fortunato Picchi
Fu aggregato alla nostra unità nel Regno Unito alla vigilia della partenza per l’Operazione Colossus.
Effettuò i lanci previsti, sia di giorno che di notte, col minimo della preparazione, il che, tenuto conto della sua età, non fu cosa da poco.
Quando vennero impartite le istruzioni per l’Op., mostrò il massimo interesse, e si mostrò senz’altro pronto ad andare ovunque ed a fare qualunque cosa gli si richiedesse. Mezz’ora prima di lasciare la Base avanzata, i soldati coinvolti, incluso Picchi, seppero che l’obiettivo era in realtà in Italia e non, come si pensava, nelle colonie italiane in Africa. Picchi non mostrò apprensione nell’apprenderlo, il che non ci sorprese, perché durante la nostra breve conoscenza eravamo rimasti molto colpiti dalla sua sincera determinazione nel fare ogni sforzo necessario a rovesciare il fascismo.
Durante lo svolgimento dell’Op. in territorio italiano, agì con freddezza e abilità quando fronteggiò vari tipi di italiani, e tutti gli ordini impartitigli – sia che riguardassero il suo compito di traduttore sia che riguardassero l’azione – furono da lui eseguiti meticolosamente. Dopo che l’unità ebbe raggiunto il suo obiettivo, e mentre stava recandosi all’appuntamento prefissato, Picchi mi avvicinò e chiese di essere lasciato indietro, perché non poteva tenere il passo con gli altri e temeva così di mettere a repentaglio le loro possibilità di salvezza. Sapeva perfettamente quale sarebbe stato il suo destino se i fascisti l’avessero catturato. Comunque si decise che egli restasse con noi, e dimostrò rinnovato vigore quando seppe che la sua richiesta, pur essendo stata debitamente accettata, non era stata accolta.
Mantenne poi il morale sempre altissimo nel corso dei noti eventi che portarono alla nostra cattura e, quando lo vedemmo per l’ultima volta a Napoli, prima che subisse da parte degli ufficiali fascisti un interrogatorio simile a quello degli altri membri dell’unità, non mostrò segni di apprensione per le possibilità di sopravvivenza.
Secondo noi era un uomo estremamente coraggioso, animato da un gran bisogno di contribuire alla caduta del fascismo. Questo spirito bastò ad indurlo a tornare in Italia in un modo tanto rischioso, pur sapendo perfettamente cosa avrebbe significato per lui non riuscire a rientrare dalla missione.
Ten. col. Trevor Pritchard, 24 ottobre 1946
Documento presso The National Archives, Kew (London)
II.
Dal complotto monarchico alla fuga del re
(25 luglio-9 settembre 1943)
La seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943, e il conseguente arresto del duce, sostituito alla guida del governo dal generale Pietro Badoglio, testimoniano la debolezza del regime fascista dopo tre anni di guerra. Lo stesso Mussolini, del resto, «narrando l’incontro con Hitler a Feltre del 19 luglio, attribuiva esplicitamente la crisi del regime alle disfatte militari subite dall’Italia». Ed era ormai rassegnato, «fin dal colloquio col re, a considerare la sua destituzione da capo del governo come la fine del regime fascista».
Dalla crisi militare alla crisi politica
Il 1943 segna effettivamente una svolta decisiva nel conflitto: l’esercito tedesco è ormai sulla difensiva, la sua avanzata all’apparenza senza ostacoli è terminata. La radicalizzazione della guerra iniziata con l’aggressione all’Unione Sovietica (le deportazioni, lo sfruttamento economico dei civili oltre che dei prigionieri, l’annientamento degli ebrei) apre la fase della “guerra totale”, che prosegue inesorabilmente anche quando l’iniziativa è passata agli eserciti alleati. La battaglia di Kursk cominciata ai primi di luglio – il più grande scontro di mezzi corazzati mai avvenuto – e terminata dopo dieci giorni con la vittoria sovietica, accentua la nuova direzione del conflitto, già chiara con la vittoria britannica a El Alamein (ottobre-novembre 1942) e la sconfitta tedesca a Stalingrado (fine gennaio 1943).
L’Italia, considerata tra il 1941 e il 1942 dagli Alleati un mero satellite della Germania, da punire e ridimensionare, è oggetto di particolare attenzione alla conferenza di Casablanca del gennaio 1943, dove Roosevelt e Churchill, alla presenza dei generali francesi de Gaulle e Giraud, pianificano la “campagna d’Italia” e sperano di poter infliggere una resa senza condizioni alle potenze fasciste entro l’anno. Al disastro militare in Russia, con il dramma della ritirata, si accompagna l’intensificazione dei bombardamenti sulla penisola, soprattutto nel Meridione, preludio allo sbarco in Sicilia che le forze britanniche e statunitensi, sotto il comando unificato del generale Dwight Eisenhower, hanno messo a punto con l’Operazione Husky, programmata – in una riunione di inizio maggio ad Algeri – per il 10 luglio.
La campagna di Russia – mistificata nel dopoguerra come un’operazione umanitaria, quando invece fu una tipica invasione – si conclude con una “catastrofe”, come ricorderanno tutti i sopravvissuti. Le lettere scritte dai soldati alle famiglie non contengono alcuna «eco significativa dei presupposti ideologici della spedizione e della retorica bellicista di Mussolini», ma trasudano un familismo quasi infantile, e non sono del tutto immuni dalla propaganda fascista ma neppure coerentemente aderenti al regime. Le prime, in ordine di tempo, sono improntate all’ottimismo e a una certa spavalderia nei confronti del nemico: «Presto caro Papà anche la bella Stalingrado fa la morte del sorcio, se sapesti e vedesti quanti bombardieri ci volano sopra scaricando quintali di esplosivo che fanno tremare tutto il suolo russo, oh sì anche per Stalin è fatta non è tanto lontano il giorno che marceremo su Mosca». Quelle successive sprigionano nostalgia e pessimismo.
Sulla ritirata di Russia disponiamo di testimonianze letterarie che sono diventate ormai dei classici. Mario Rigoni Stern, sergente degli alpini mandato a combattere con il Battaglione “Vestone” della Divisione “Tridentina”, ricorda la battaglia di Nikolaevka del 26 gennaio 1943, mentre è in corso la ritirata, con i russi trincerati tra le case del paese. Entrato in un’isba affamato, vi trova soldati dell’Armata Rossa e una donna che gli dà da mangiare: «In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini». Nuto Revelli, ufficiale della “Tridentina” lui pure coinvolto nella battaglia di Nikolaevka, nella prefazione a La strada del davai, volume in cui ha raccolto le testimonianze di molti reduci, ricorda che essi «ignoravano tutto del fascismo. Nei tempi facili non appartenevano alla “gioventù del littorio”: vivevano liberi, lontano dai grandi fatti nazionali. Non avevano nemmeno la camicia nera; a malapena conoscevano poche frasi fatte, i miracoli di Mussolini e basta».
All’inizio del marzo 1943 l’Armir ha perduto il 97% dell’artiglieria, l’80% dei quadrupedi e il 70% degli automezzi, su 230.000 uomini sono caduti o dispersi in 85.000, 27.000 sono stati feriti o congelati, 70.000 fatti prigionieri, e di questi quasi un quarto morirà prima di giungere nei campi di prigionia e la metà nel corso della detenzione in Urss. Il giudizio di Revelli riassume un sentimento diffuso, non solo tra i sopravvissuti di quella tragica esperienza: «La colpa peggiore del fascismo non è di aver tradito la generazione del littorio, di aver tradito noi che abbiamo gridato “viva la guerra, viva il duce”. È di aver tradito questi poveri cristi, a cui la guerra è caduta sulle spalle come una epidemia».
Dall’inizio del 1942 si scatenano bombardamenti a vasto raggio sulle principali città italiane, per provocarne il “collasso morale” secondo l’obiettivo dello strategic bombing: in ottobre furono colpite Genova e Milano, in dicembre Napoli e Torino, mentre il 19 luglio 1943 sarà la volta di Roma, un evento destinato ad accelerare la crisi del regime e dei suoi rapporti con la monarchia. Accanto ai massicci bombardamenti è la situazione alimentare a modificare progressivamente e profondamente l’opinione pubblica, preda adesso di sconforto, paura, delusione e rabbia, sentimenti che accompagnano la caduta verticale del mito del duce.
Che effetto hanno i bombardamenti sulla popolazione? La scelta di compiere bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile, e non solo su impianti militari o obiettivi strategici, sembra produrre soprattutto depressione e paura, rassegnazione e fatalità, anziché spinta alla ribellione come era nelle intenzioni dei comandi alleati.
Le tessere alimentari si sono ormai ridotte a fornire 920 calorie, il livello più basso tra le potenze in guerra: una decina di milioni di italiani è costretta a vivere con una dieta “inferiore al minimo fisiologico”, come documentato da uno dei maggiori statistici, incaricato dal ministero dell’Agricoltura e foreste di uno studio sul problema del razionamento e dei prezzi.
Gli scioperi iniziati nel marzo 1943 alla Fiat costituiscono la prima manifestazione pubblica eclatante di frattura tra regime e popolo: «il primo atto di resistenza di massa di un popolo assoggettato a un regime fascista autoctono». Le autorità fasciste, spaventate dalla compattezza della mobilitazione e sconcertate dalla partecipazione di operai vicini al regime, non possono soffocare la protesta né reprimerla con violenza. Nella memoria successiva, e anche nelle prime ricostruzioni storiche, agli scioperi del marzo 1943 è stato attribuito un significato politico rilevante, giudicandoli con l’ottica dell’anno successivo o per enfatizzare la presenza e il ruolo dei quadri comunisti e alimentare il mito di una Resistenza operaia che si imporrà nei primi anni della guerra fredda.
In realtà (come lo stesso dirigente del PCd’I Umberto Massola rileverà nel 1973), il 5 marzo succede ben poco e il vero sciopero inizierà la settimana seguente. Come ben raccontato da Tim Mason, gli scioperi iniziati l’8 marzo alla Fiat si estendono rapidamente a tutto il Piemonte e in aprile coinvolgono numerose aziende di Milano e di varie città della Lombardia. Essi segnano una grave caduta nel consenso al regime già indebolito dalla guerra, ma tra le cause di questa non si può dimenticare l’impatto profondo dei bombardamenti, che avevano spinto a cercar riparo fuori Torino decine di migliaia di persone e tra loro molti operai, cui era stata concessa a febbraio un’indennità pari a 192 ore di lavoro proprio per questo motivo, e che con lo sciopero si intendeva estendere a tutti, non solo ai lavoratori evacuati. «Gli scioperi alla Fiat non furono la prima protesta contro il dominio fascista a Torino. Piuttosto, gli scioperanti riguadagnarono la fiducia nell’agire a causa di una rottura nello stato fascista e perché furono sostenuti da un movimento molto più diffuso di disordini popolari che si svolse dal novembre 1942. Prima di diventare politiche, le proteste erano “esistenziali”: in risposta a un regime che chiedeva sacrifici per vincere la guerra, i lavoratori cominciarono invece a sostenere che era necessario abbandonare del tutto la guerra».
L’occupazione della Sicilia e la “guerra totale”
È soprattutto nelle regioni vicine alla linea del fuoco, sottoposte a una crescente militarizzazione e a una forte presenza tedesca, che la crisi di consenso al regime si fa più evidente. La Sicilia ne è l’esempio più chiaro: l’attesa dell’arrivo angloamericano – e l’accoglienza delle truppe che il 10 luglio 1943 sbarcano tra Gela e Licata (quelle americane) e tra Pozzallo e Avola (quelle inglesi) – suscita speranze ed entusiasmo. La Sicilia, cioè la «parte più arretrata del Paese si è trovata a dover sostenere l’urto della guerra, dapprima come retrovia del fronte mediterraneo nella guerra “parallela”, poi come zona di guerra con l’intensificarsi della militarizzazione del territorio, delle privazioni, delle distruzioni dovute ai bombardamenti aerei, e infine con l’invasione». L’accoglienza largamente favorevole riservata agli “invasori” alleati si spiega con elementi prevalentemente sentimentali: l’angoscia della guerra, il terrore dei bombardamenti e delle violenze (nel gennaio 1943 erano sfollate da Palermo oltre 60.000 persone), la speranza che l’arrivo angloamericano ponesse fine a quella tragica realtà. I 150.000 uomini sbarcati in Sicilia furono una forza inferiore solo a quella che di lì a poco avrebbe invaso la Normandia.
All’indomani dello sbarco i fascisti attribuiscono la sconfitta alla dissoluzione dell’esercito, imputata ai militari. In realtà i soldati italiani «combatterono certamente meglio e di più di quanto ricordato», anche se questo «non vuol dire che non si registrarono sbandamenti gravissimi. L’episodio della resa della fortezza di Augusta-Siracusa, che tanto sconcertò l’opinione pubblica, al pari dell’elevato numero di prigionieri, specie siciliani, sta lì a ricordarci che vi fu un drastico mutamento di atteggiamento dei soldati italiani». Sulla base di un entusiasmo reale si è costruita successivamente una narrazione tesa a diminuire e ridimensionare il consenso degli italiani per il regime fascista, ma le ricerche più recenti hanno riproposto anche una posizione critica presente nei giorni successivi all’invasione. Non solo quella di fascisti convinti, o di persone danneggiate nelle distruzioni prive di scopi militari, ma di una popolazione che vede con timore la presenza di soldati di colore e racconta – paura o realtà è difficile dirlo, ma gli eventi successivi non possono escludere alcuna ipotesi – di violenze nei confronti delle donne rimaste sole dopo la partenza dei loro uomini per la guerra: «questi racconti ci confermano che l’immagine della “liberazione festosa” non è riuscita a cancellare del tutto le memorie meno concilianti con gli Alleati, che ora riemergono prepotentemente».
Insistere sul quadro della “guerra totale”, che ha preso piede anche per gli italiani nel 1943, permette di cogliere le fasi di passaggio, a volte molto rapide, tra una resistenza “istintiva” scaturita in quel contesto e le forme meno spontanee e più organizzate di una consapevolezza antitedesca e antifascista che crescerà nel tempo. L’attenzione recente per le stragi commesse in Sicilia dall’esercito americano contro soldati prigionieri o civili – quelle presso gli aeroporti di Biscari e Comiso o quella di Gela, quelle di Acate e Piano Stella – permette un confronto con le stragi tedesche che avvennero soprattutto nella prima metà di agosto nella zona etnea, nel momento dell’abbandono della Sicilia da parte dei tedeschi. Le prime portarono anche a condanne dei responsabili e alla critica dell’operato del generale George S. Patton, «propugnatore di una linea dura, in contrasto con le raccomandazioni dello stesso Roosevelt di adottare atteggiamenti amichevoli verso la popolazione», e contribuiscono a «definire meglio la politica da adottare nei confronti della popolazione italiana (oltre che a tentare di contenere comportamenti simili)»; le seconde – rimaste generalmente impunite, per ragioni legate alla guerra fredda – ci mostrano i primi segnali, in Italia, di una dinamica già sperimentata altrove e che porterà lutti e tragedie crescenti dal 1943 al 1945 in tutta la penisola.
Sullo sbarco in Sicilia ha pesato a lungo il mito della “liberazione mafiosa” dell’isola, oggetto di presunti accordi tra autorità americane e mafia siciliana negli Stati Uniti; un mito duro a morire, anche perché rilanciato da libri, articoli di giornale, film e addirittura da una relazione della Commissione antimafia del 1993. Eppure, la ricerca storica ha dimostrato l’inesistenza di un «progetto di collaborazione tra mafia e autorità militari statunitensi per agevolare lo sbarco in Sicilia grazie ad un’opera di spionaggio effettuato da mafiosi siculo-americani».
L’entusiasmo che accompagna la caduta e l’arresto di Mussolini in molte città italiane, soprattutto di chi si sente pienamente ostile al regime – «la gioia grande per aver potuto finalmente passare da una posizione teorica a una posizione pratica» –, è accompagnato da una maggiore prudenza in chi auspicava che la caduta del fascismo non avvenisse per congiura interna. Gaetano Salvemini già nel febbraio 1942, in una lettera a Max Ascoli, era giunto «alla conclusione, dopo molto dispiacere, che esiste un accordo preciso tra il Ministero degli esteri britannico e lo State Department sull’idea che l’Italia debba essere ceduta a fascisti moderati controllati dal Duca d’Aosta, da Papa Pio XII, da Grandi, Badoglio e altri simili mascalzoni».
La caduta di Mussolini non è il risultato di un piano alleato, e infatti Gran Bretagna e Stati Uniti ne sono colti di sorpresa, tanto che nell’incontro di Québec della seconda metà di agosto Churchill e Roosevelt assumono «l’impegno di un trattamento comprensivo verso il popolo italiano», pur senza sconfessare la richiesta di resa incondizionata. Anche se si era trattato di un fatto tutto interno al regime e al suo rapporto con la monarchia, l’antifascismo italiano vorrebbe approfittare della situazione per legittimare ed estendere la propria presenza politica, pur con una cautela maggiore di quello che le manifestazioni popolari di giubilo potevano far intendere. Da crisi militare ed economica, il 25 luglio trasforma l’emergenza – in atto ormai da diversi mesi – in irreversibile crisi politica, in cui prende presto il sopravvento la violenza nei confronti della popolazione.
In agosto, infatti, riprendono con forza i bombardamenti alleati, che ispirano a Salvatore Quasimodo – in riferimento ai raid aerei tra l’8 e il 16 su Milano – una poesia indimenticabile:
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
Già il 26 luglio il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Mario Roatta, dirama una circolare in cui ammonisce che «qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce tradimento» e pertanto ordina di sparare ad altezza d’uomo contro i manifestanti, senza preavviso: «siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani quali i cordoni gli squilli, le intimazioni e la persuasione. […] Contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento». Roatta, insieme a Badoglio, di cui è braccio destro, impersona il continuismo del potere: assunta nel 1934 la guida del Servizio informazioni militare, due anni dopo comanda i legionari fascisti nella campagna di Spagna, nel 1939 diviene addetto militare a Berlino e nel 1942 comanda l’esercito italiano nella provincia di Lubiana e poi guida la 2a Armata in Croazia, con il pugno di ferro contro partigiani e civili: «Non occhio per occhio e dente per dente! Piuttosto, una testa per ogni dente!».
In tre giorni le indicazioni di Roatta provocano diverse decine di vittime, quasi trecento feriti e oltre mille arresti. A Bari e a Reggio Emilia avvengono gli episodi più sanguinosi. Nel capoluogo pugliese l’esercito spara su pacifici dimostranti che, sotto le finestre della Federazione del Fascio, chiedono la rimozione dei simboli del regime: i feriti sono 60 e i morti 23 (incluso il figlio sedicenne del meridionalista Tommaso Fiore, detenuto per antifascismo nel carcere cittadino). A Reggio Emilia gli operai delle Reggiane, scesi in strada per chiedere la pace, sono mitragliati dai bersaglieri in servizio di ordine pubblico e da guardie giurate della fabbrica: i morti sono nove e decine i feriti. Manifestanti cadono anche a La Spezia, Volterra, Sesto Fiorentino, e rimangono feriti in moltissimi altri luoghi. Nelle stesse ore il generale Quirino Armellini, comandante della Milizia fascista inserita da Badoglio nell’esercito regio, deplora in un’altra circolare le manifestazioni “inconsulte” della “plebaglia”: «alcuni dei temi che saranno propri della propaganda della Repubblica sociale sono anticipati in questa circolare, mescolati ad altri che troveranno ospitalità nella stampa monarchica e reazionaria del sud» (Armellini diverrà elemento di spicco del fronte militare clandestino romano d’ispirazione badogliana).
L’armistizio e il crollo delle istituzioni
Le vicende che portano all’armistizio dell’8 settembre 1943 sono state ampiamente ricostruite e interpretate: Elena Aga Rossi ha parlato di «inganno reciproco» nelle trattative tra gli Alleati e il re e Badoglio, mentre Gabriele Ranzato ha intitolato «Il disonore e l’onore» il paragrafo in cui ne riassume le vicende. La posizione italiana è caratterizzata da titubanze, contraddizioni e comportamenti diversificati da parte dei principali responsabili, nell’assoluta incertezza su come trattare i tedeschi. La ridicola pretesa di Badoglio di porre condizioni agli Alleati (su luogo e tempo dello sbarco a Salerno, nonché sul numero delle divisioni) viene ovviamente respinta e il 3 settembre il generale Giuseppe Castellano e il generale Walter Bedell Smith firmano l’armistizio “corto”, mentre le clausole più draconiane di quello “lungo”, consegnato in quell’occasione, sono sottoscritte il 29 settembre da Badoglio e dal generale Eisenhower. Gli Alleati non rivelano i loro piani operativi, convinti «della poca serietà dei loro interlocutori e della scarsa o nulla volontà dell’Italia badogliana di affrontare i tedeschi».
Badoglio vorrebbe, al mattino dell’8 settembre, rinviare l’«accettazione dell’armistizio», ma alle 18,30 esso è annunciato dal Comando alleato e alle 19,45 Badoglio legge il comunicato radio che, ripetutamente trasmesso, è ascoltato con gioia e preoccupazione in tutta Italia. Alle 5 del mattino successivo il re, Badoglio, i generali Ambrosio e Roatta e diversi ministri e membri dello Stato Maggiore lasciano la capitale per l’Abruzzo e poi si imbarcano a Ortona su una corvetta che l’indomani approderà a Brindisi, sotto protezione alleata.
Le reazioni alla notizia dell’armistizio sono contraddittorie e spesso contrastanti, ma accomunate dalla consapevolezza che si è aperta una fase nuova, e nulla può più essere come prima. Confusione e sbandamento tra i soldati sono testimoniati da una straordinaria pagina di Beppe Fenoglio, con un animato dibattito attorno a un lacerante interrogativo: «Farsi ammazzare per chi?» (trascrizione al termine di questo capitolo).
Atteso e temuto, esso è accolto festosamente da soldati e cittadini come fine della guerra, ma anche con rabbia, umiliazione e paura per essere stati abbandonati da ogni autorità e dover fare da soli nel momento del “tutti a casa”. È questo secondo sentimento a prevalere, anche perché la rapidità con cui i tedeschi occupano e controllano il territorio spinge a scelte drammatiche e impreviste, che comportano – spesso per la prima volta – una presa di consapevolezza individuale.
Che cosa è successo, in sintesi, l’8 settembre 1943? Davvero si può ipotizzare che quel giorno sia avvenuta la “morte della patria”, espressione coniata dal giurista Salvatore Satta, che è sembrata a qualcuno l’espressione «più adatta per definire la profondità, la ricchezza d’implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dell’idea di nazione in conseguenza della guerra mondiale»? Quella data segna senza dubbio «la profondità del baratro in cui la nazione era precipitata», un baratro che era il risultato del fallimento del fascismo, della sua criminale alleanza con Hitler e dell’illusione di vincere la guerra, dell’opportunismo della monarchia e dei comandi militari, della loro vigliaccheria e incapacità di accettare la mano tesa degli Alleati con la proposta di armistizio, del loro rifiuto di incamminare il paese sulla strada della democrazia. Ma un baratro, anche, da cui nel giro di poche settimane il paese – o almeno una parte importante di esso – si risolleva, con la Resistenza.
Non si può dimenticare, comunque, quanto risulti difficile, soprattutto per gli alti ufficiali che hanno fatto carriera nell’esercito fascista, comprendere il ribaltamento di alleanza sancito dall’armistizio e comportarsi conseguentemente. C’è infatti chi mantiene – o addirittura intensifica – le pratiche autoritarie del passato, come mostra l’eccidio di Acquappesa, in provincia di Cosenza, avvenuto proprio l’8 settembre. Gli Alleati, sbarcati a Reggio Calabria, stanno risalendo la penisola quando, il 5 settembre, una ventina di soldati del 76° Battaglione di Fanteria costiera, di stanza ad Acquappesa, abbandonano la caserma per raggiungere le famiglie. Sono, in certo modo, sbandati in anticipo. Cinque di loro, tutti di Gioia Tauro, vengono arrestati il giorno dopo da una pattuglia italiana. Il colonnello Ambrogi propone al suo superiore, il generale Luigi Chatrian, comandante della 227a Divisione, di fucilarli senza processo per diserzione, e lo trova concorde sull’esecuzione capitale. Poi, grazie all’intercessione del cappellano, il provvedimento viene rinviato, finché un assembramento minaccioso di folla circonda la caserma ed esige la liberazione dei condannati. Alle ore 15 dell’8 settembre Chatrian rinnova l’ordine di fucilazione «entro 24 ore», e Ambrogi fa individuare il luogo adatto e preparare le bare. A fine pomeriggio, la radio del reggimento trasmette il messaggio di Badoglio sull’armistizio. «L’esultanza dei militari è enorme: soldati ed ufficiali urlano e saltano per la gioia, si abbracciano felici; i cittadini di Acquappesa scendono in strada e il parroco del paese fa suonare le campane a distesa. Tutti pensano che la fucilazione dei cinque commilitoni verrà definitivamente sospesa». L’ordine, invece, sarà eseguito dopo la mezzanotte, raggelando gli entusiasmi per quella che, nella regione, sembra davvero la fine della guerra. Il generale Chatrian diventerà sottosegretario alla Guerra (e poi alla Difesa) nei governi Bonomi, Parri e De Gasperi, venendo eletto all’Assemblea Costituente per la Democrazia cristiana. «La nascita del Regno del Sud preparata dalla fuga dei governanti, ha come viatico la fucilazione di cinque soldati-contadini».
Per molti antifascisti, militari ed ebrei la Svizzera rappresenta una possibilità di salvezza e una terra d’asilo. Quando a metà settembre Mussolini preannunzia da Radio Monaco la formazione di un governo collaborazionista, oltre 10.000 soldati e ufficiali varcano il confine italo-elvetico; nella metà dei casi, vengono respinti. Si presentano in divisa, con armi ed equipaggiamento personale.
A fine mese, giungono in Svizzera 22.000 militari e circa 4000 civili (1300 dei quali ebrei). In ottobre, giungono altri 3000 profughi. Gli immigrati vengono internati e godono di una relativa libertà. Tra di essi figurano l’economista Luigi Einaudi, il docente universitario Amintore Fanfani, il giornalista Indro Montanelli.
È un luogo comune, confortato da numerosi avvenimenti, ritenere che la Resistenza sia nata con l’8 settembre, quando anche l’Italia si trovò, sia pure in modo contraddittorio e controverso, occupata dalle truppe naziste, come era accaduto all’intera Europa nei tre anni precedenti, quando il nostro esercito aveva affiancato le truppe del Reich nel mettere il continente a ferro e fuoco. Rispetto alle altre nazioni, in Italia la Resistenza inizia più tardi e abbraccia gli ideali di libertà e democrazia con una spinta dal basso, dopo che per tre anni dall’alto i militari italiani avevano impedito, anche con violenza e ferocia inaudita, quella libertà nelle terre di Francia, di Grecia, di Iugoslavia, per non parlare del Nord Africa dove il fascismo costruì l’effimero impero che Vittorio Emanuele III – fuggitosene precipitosamente da Roma a Brindisi all’alba del 9 settembre – si era fino a quel momento intestato.
Anche se episodi di lotta e resistenza contro l’occupazione tedesca e italiana si erano già avuti, come si è visto, soprattutto sul confine orientale (nel Friuli Venezia Giulia e nella provincia di Lubiana), è dopo l’8 settembre che si moltiplicano e si diffondono comportamenti che assumono nel loro insieme un senso compiuto di Resistenza all’occupante tedesco e, successivamente, anche al nuovo regime collaborazionista – la Repubblica sociale italiana – creato al Nord da Mussolini dopo essere stato liberato dai tedeschi il 12 settembre.
È ormai largamente condivisa la convinzione che la Resistenza non fu solamente la lotta armata delle formazioni partigiane in montagna o dei nuclei guerriglieri nelle città, che ne costituirono la parte più evidente e combattiva, ma anche le molteplici “resistenze” che contribuirono alla vittoriosa avanzata alleata e al successo e all’estensione del movimento partigiano: quella dei militari combattenti, degli internati militari e politici, degli ebrei oggetto della persecuzione razziale, degli ex prigionieri alleati rimasti a combattere per la liberazione dell’Italia, di donne e famiglie più o meno attivamente impegnate nelle campagne e nelle città a ostacolare gli obiettivi dell’esercito occupante e delle milizie e istituzioni fasciste. Un’esperienza collettiva in cui una minoranza coinvolse, con consapevolezze diverse, strati sempre più ampi della popolazione abbandonata l’8 settembre dai governanti e dai vertici militari allo sbandamento e al disorientamento. L’ambiguità della formulazione usata da Badoglio nel radiomessaggio di annuncio dell’armistizio – «Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» – e la mancanza di ordini chiari consentono a ogni comando militare territoriale di decidere come agire.
I giorni attorno all’armistizio, e soprattutto quelli successivi, favoriscono la crescita e la diffusione di valori nuovi, simili a quelli rivendicati dai resistenti della Francia e della Grecia, oppure della Iugoslavia: che fino ad allora l’esercito del fascismo aveva indicato come banditi e sovversivi e che la circolare n. 3 C emanata nel marzo 1942 dal generale Roatta imponeva di distruggere ed estirpare.
Resistere o collaborare: l’occupazione tedesca
Nella maggioranza dei casi i comandanti decidono di cedere le armi ai tedeschi, vuoi per convinzione e per un frainteso senso dell’onore, vuoi per evitare uno scontro ritenuto già perso in partenza, ma soprattutto perché incapaci di assumersi qualsiasi responsabilità di fronte al silenzio e all’abbandono in cui erano stati lasciati dal re e da Badoglio. Già nelle prime ore di questa situazione si poteva intravedere in nuce la guerra civile che sarà innescata dalla formazione della Repubblica sociale italiana. A Torino, per esempio, il generale Enrico Adami Rossi rifiuta di incontrare gli esponenti dei partiti antifascisti e di distribuire armi alla popolazione per difendersi dai tedeschi, con cui sta già trattando la resa e con i quali continuerà a combattere nei ranghi della RSI. La mancanza di collaborazione, in questo caso, prefigura la collocazione in campi avversi dell’ufficiale collaborazionista e degli antifascisti (tra di essi Franco Antonicelli e Aurelio Peccei) che lo avevano sfidato a scegliere la democrazia. A Milano, il generale Vittorio Ruggero dialoga con gli antifascisti promotori della Guardia nazionale (Gasparotto, Li Causi, Grilli e Pizzoni) e tergiversa fino al 10 settembre, quando si accorda con i tedeschi e l’indomani scioglie la Guardia nazionale (viene peraltro internato in Polonia).
Grazie all’indecisione e alla codardia della monarchia e dei comandi militari – in molte realtà il numero dei soldati italiani era preponderante rispetto ai tedeschi – gli ufficiali superiori rifiutano di armare il popolo e permettono che l’esercito si decomponga e si sciolga in quarantott’ore. A morire non è la patria, ma le istituzioni che formalmente la rappresentano e che sono sempre più lontane ed estranee al paese reale, alla patria che cerca di svegliarsi e ricostituirsi. Anche se sono in minoranza, infatti, non manca chi intende portare alle estreme conseguenze quello che avrebbe dovuto essere per tutti – compresi il re e Badoglio – il senso dell’armistizio: combattere a fianco degli Alleati e accelerare la sconfitta della Germania.
È quanto accade a Roma dopo la precipitosa fuga di Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali Ambrosio e Roatta, disonorevole «perché essi avevano deciso, come risultava già dal testo letto da Badoglio alla radio, di rinunciare a qualsiasi organica operazione militare contro i tedeschi e di abbandonare a se stesse tutte le unità». Quella che dovrebbe essere una resa senza condizioni alle forze alleate, diviene in realtà una disfatta nei rapporti con l’ex alleato. Se per i soldati il “tutti a casa” significa ricercare, individualmente o in gruppo, il modo di sopravvivere e la responsabilità di porsi nella nuova condizione di occupati, ufficiali e sottufficiali in diversi casi guidano le proprie unità a resistere alla reazione tedesca.
A Roma le divisioni italiane – la motorizzata “Piave”, le corazzate “Ariete” e “Centauro”, quelle di fanteria “Piacenza” e “Granatieri di Sardegna” – hanno una superiorità numerica imponente ma i generali Roatta e Carboni decidono di non difendere la capitale, spingendo di fatto per una trattativa e per accogliere l’ultimatum tedesco, malgrado alcuni reparti abbiano già iniziato a difendersi dall’attacco germanico tra l’8 sera e il 9 mattina. «Roma, sebbene potesse contare per la sua difesa su un esercito con un numero di effettivi doppio – o quasi triplo secondo alcune fonti – rispetto a quello tedesco, certamente molto meglio armato, fu abbandonata al nemico senza che questo fosse costretto ad affrontare alcun combattimento contro forze veramente capaci di contrastarlo».
Reparti dei “Granatieri” e del reggimento dei “Lancieri di Montebello”, della “Sassari” e dei Carabinieri combattono con gruppi di civili attorno a Porta San Paolo e alla Piramide. «Sparano», ricorda Paolo Monelli, «questa gente nostra che nessuno ha pensato a inquadrare e a dirigere, con armi raccattate dai soldati in fuga, o distribuite da qualche sperduto gruppo di partiti; sparano da dietro gli alberi, stesi a terra, al riparo dei carri abbandonati, con una luce di febbre negli occhi, con manovre elementari e istintive».
Anche se ancora disorganizzato, caoticamente spontaneo, questo è l’inizio della Resistenza. E una delle sue prime vittime ne è, a suo modo, un simbolo. Insegnante di storia dell’arte, poi ufficiale dei granatieri, ferito e congedato, nel 1942 il ventisettenne Raffaele Persichetti aderisce al Partito d’Azione e all’annunzio dell’armistizio decide di agire. Il 10 settembre anima la Resistenza a Porta San Paolo; così lo ha ricordato Ruggero Zangrandi: «Giunse, con un gruppo di civili armati, all’altezza della Piramide di Caio Cestio (sarà stato mezzogiorno) e qui incontrò il comandante del suo reggimento, colonnello Mario Di Pierro, che dirigeva i combattimenti. Tolse a un soldato morto le giberne e le armi e così, vestito come un garibaldino o un brigante, prese il comando di un plotone di granatieri». Ferito a una spalla, continua a sparare contro i tedeschi, finché viene colpito a morte nel primo pomeriggio.
Si sentono patrioti gli ufficiali e soldati che cercano in situazioni spesso impossibili di contrastare l’occupazione tedesca e il disarmo delle truppe italiane, malgrado la mancanza di indicazioni chiare in tal senso. Ha scritto Zangrandi: «È strano: la storia d’Italia tra l’8 settembre ’43 e l’inizio della Resistenza organizzata, è ricca di fatti d’arme, rivolte popolari, casi minori, e non per questo meno eroici, di reazione alla prepotenza tedesca; tutti spontanei e quasi tutti poco noti». A Nepi (Viterbo) un carro armato ferma una colonna tedesca e provoca 40 vittime; a Valenza (Alessandria) artiglieri italiani impediscono ai tedeschi – che arrestano a decine – di passare il Po; a Barletta ha luogo una battaglia di ore, con la colonna motorizzata tedesca respinta; il porto di Bari viene difeso dalle truppe del generale Nicola Bellomo, che impediscono ai tedeschi di impadronirsene e lo consegnano intatto all’esercito alleato; a Luino (Varese) un tenente colonnello dei bersaglieri raccoglie attorno a sé quasi mille uomini: «Quando i tedeschi decisero di sbarazzarsi di quel nucleo di resistenza, impiegarono aerei, pezzi di artiglieria, lanciafiamme combattendo tre giorni. Ebbero 240 morti e un migliaio di feriti. Gli italiani persero 145 uomini, di cui 63 ancora sconosciuti; gli altri o furono catturati o riuscirono a raggiungere la Svizzera attraverso Ponte Tresa». Uno scontro ha luogo a Terracina, un combattimento all’Isola della Maddalena, un conflitto a fuoco davanti alla prefettura di Reggio Emilia anche se il comandante del presidio aveva consegnato le truppe in caserma, mentre il presidio di Piacenza, guidato dal generale Rosario Assanti, combatte per ore e si arrende solo per la minaccia di bombardamento della città e per le notizie che giungevano dal comando di piazza di Milano sull’intesa tra il generale Ruggero e i tedeschi.
È tutto il Meridione, e non solo la Sicilia, a essere coinvolto in ripetute ribellioni di civili e rappresaglie tedesche all’indomani dell’8 settembre, che segnalano come la vicinanza del fronte e il suo permanere costituiscano inevitabili premesse nella costruzione di azioni di resistenza. Qui, più che altrove, è vero che «la Resistenza non la organizza l’antifascismo: vi partecipa, la orienta e ne assume la direzione politica, ma lungo il percorso». Il rifiuto dell’occupazione e l’indisponibilità a collaborare con l’occupante costituiscono il contesto in cui hanno luogo gli eventi più disparati di quel terribile settembre. Anche qui vi sono occupazioni di terre che anticipano quelle degli anni seguenti, e che individuano un’unica battaglia: contro i tedeschi, i fascisti e i proprietari.
Ancor prima dell’armistizio vi sono episodi di resistenza vera e propria, come quello di Mascalucia, alle pendici dell’Etna, dove il 3 agosto 1943 il paese insorge contro le ruberie e angherie dei tedeschi, con l’aiuto di soldati italiani: un evento giudicato «l’unico episodio di resistenza armata di massa verificatosi in Italia prima dell’8 settembre» e che si imprime nella memoria cittadina come “le quattro ore di Mascalucia”.
Con l’armistizio avvengono episodi analoghi nel resto d’Italia. In Sardegna, per esempio, mentre alla Maddalena tra il 9 e il 13 settembre vi sono scontri tra militari tedeschi e italiani, che subiscono le perdite maggiori, e nelle acque al nord dell’isola il 9 viene affondata dalla Luftwaffe la corazzata Roma, provocando la morte di 1352 militari, il 10 vi è il tentativo del colonnello Alberto Bechi Luserna (già comandante del 187° Reggimento della Divisione “Folgore” a El Alamein e ora alla testa della Divisione paracadutisti “Nembo”) di bloccare due compagnie che hanno deciso di passare ai tedeschi, e che per questo viene ucciso a Macomer da un paracadutista insieme a uno dei due carabinieri della sua scorta.
Dopo l’8 settembre per le popolazioni della Sicilia e del Mezzogiorno si fa più confusa la percezione di quale sia l’esercito amico e quale quello nemico, della propria posizione nella tenaglia degli eserciti occupanti, con bombardamenti da una parte e dall’altra, che rendono improbabile la fine imminente della violenza. Molto presto ha luogo un’aggregazione di militari sbandati che avviene in forme spontanee o attorno a nuclei di ufficiali o di combattenti antifascisti – alcuni reduci della guerra di Spagna – i quali hanno deciso di entrare in azione. L’11 settembre a Rionero in Vulture (Potenza), patria di Giustino Fortunato, soldati tedeschi appoggiati dai fascisti locali occupano il paese e sparano il 16 contro la folla accorsa presso i magazzini viveri della 7a Armata, che i tedeschi sembravano intenzionati a distruggere prima della ritirata, uccidendo e ferendo numerose persone. Il 21 è la volta di Matera che si ribella e insorge contro il saccheggio e le violenze commesse dalle truppe germaniche: si tratta di una rivolta che «ebbe la configurazione di un moto spontaneo […]. Ma non va dimenticato che in città, e un po’ in tutta la regione, era rimasta memoria delle violenze dello squadrismo fascista».
A Moschito, un piccolo centro in provincia di Potenza, il protagonismo popolare porta alla deposizione del podestà fascista e all’instaurazione di una repubblica, che per tre settimane, dal 15 settembre al 5 ottobre, cercherà di promuovere misure democratiche – dalla equa tassazione alla distribuzione dei viveri – finché le nuove autorità badogliane non arresteranno gli organizzatori (in seguito tutti assolti).
Al confine opposto dell’Italia, in provincia di Cuneo, negli stessi giorni ha luogo quella che sarà spesso ricordata come la prima strage nazista dopo l’8 settembre (anche se violenze di tipo stragista c’erano già state soprattutto nel Mezzogiorno): quella di Boves. Sui monti che sovrastano la piccola cittadina si è formata una banda, guidata da un ex sottotenente della Guardia di frontiera, Ignazio Vian. Il 16 settembre il maggiore Joachim Peiper, al comando di un battaglione della Panzer Division Leibstandarte delle SS (la stessa che aveva occupato Milano), minaccia rappresaglie contro chiunque aiuti i militari italiani fuggiaschi. Il 19 due tedeschi vengono casualmente intercettati e catturati a Boves e in un successivo scontro a fuoco muoiono un partigiano e un milite tedesco. Peiper, giunto con il grosso del reparto, pretende che gli vengano riconsegnati i prigionieri, pena la distruzione del paese. Il parroco don Giuseppe Bernardi e l’ingegnere Antonio Vassallo, dopo l’impegno da parte del maggiore a non procedere a rappresaglie, negoziano con i partigiani la consegna del prigioniero e del corpo del tedesco morto. «Ottenuto il rilascio, le SS iniziano l’azione di rappresaglia: mentre i carri armati aprono il fuoco verso la collina contro le presunte basi dei resistenti, il paese viene dato alle fiamme e raffiche di mitra sparate a caso colpiscono gli abitanti. In poche ore vengono massacrati ventitré civili, tra cui gli stessi mediatori».
Le azioni con cui soldati italiani e civili resistono all’occupazione tedesca attorno all’8 settembre avvengono in ogni parte d’Italia, in forme largamente spontanee anche quando sono organizzate da ufficiali o da antifascisti di vecchia data tornati da poco in libertà. La maggior parte dei protagonisti di quelle giornate agisce d’impulso, anche se in molti casi consapevolmente e in modo calcolato. La Resistenza sta per nascere, per molti aspetti si può dire che sia già sorta, benché al momento nessuno sappia bene che cosa potrà essere e diventare. Probabilmente non lo sa nemmeno il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che si costituisce il 9 settembre sulle ceneri del Comitato delle opposizioni creato a Roma all’indomani del crollo del regime fascista e che chiama gli italiani «alla lotta e alla resistenza». Presieduto anch’esso da Ivanoe Bonomi, è costituito da rappresentanti del Partito democratico del lavoro (Meuccio Ruini), del Partito liberale (Alessandro Casati), della Democrazia cristiana (Alcide De Gasperi), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), del Partito socialista (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola).
Farsi ammazzare per chi?
Gridò: – Venti tedeschi hanno fatto arrendere una caserma con dentro tremila di noi! – Era un meridionale tarchiato e irsuto, una canottiera smagliata sui calzoni d’accatto e scarpe lampantemente militari.
– E gli ufficiali?
Esplosero tutti insieme: – Chiamali ufficiali. Non mi si parli mai più di ufficiali. Scapparono i primi, i bellimbusti, avevano il vestito borghese bello pronto e stirato nelle pensioni. […]
– Il comando non ci ha avvisati dell’armistizio, si sono completamente dimenticati di noi.
– Vedi lì i signori ufficiali. E che aspettate a mollar tutto e puntare a casa vostra?
– Ma ai tedeschi non potevate proprio resistere? Questo non comprendiamo. Se erano venti, hai detto?
– Farsi ammazzare per chi? Per il Re, o per il Principe o per Badoglio? Dovunque stiano, meglio di noi poveri cristi stanno. E poi, nemmeno l’ordine hanno saputo darci. D’ordini ne è arrivato un fottìo, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparate sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidete i tedeschi – auto disarmarsi – non cedere le armi. Tutti ci serravamo la testa tra i pugni, perché non ci scoppiasse. La truppa non ha tardato ad annusare il quarantotto completo, ha pensato alla pelle e a casa sua e ha mandato l’esercito a fare in culo. Voltavi gli occhi e di cento ne ritrovavi settanta, poi cinquanta, gli ufficiali rimasti allargavano le braccia o piangevano come bambini, i soldati saltavano il muro come tanti ranocchi. Io l’ho vista sì la bellezza di resistere ai tedeschi, ma mi son detto «Debbo crepare proprio io per le migliaia che già corrono verso casa? A casa, a casa! Se la sbrighino gli altri, finisca come vuole», e mi sono lanciato dalla finestra giusto mentre il carro armato tedesco svoltava nel viale della caserma. Io sto a Capua e non sogno altro che casa mia.
– Ce la farai?
– Dovrei, Dio benedetto. Tenendo sempre la campagna, viaggiando di notte e stando fermo e nascosto di giorno pieno. Questi cornuti tedeschi non saranno dappertutto. Son quattro gatti! […]
– Qui si finisce al muro. Abbandono di posto, di deposito munizioni, scherziamo?
– Alle conseguenze io nemmeno ci penso. Come ha detto il soldato, questo è il quarantotto completo. Non ci sarà mai più un esercito in Italia. Pallottola in canna, si rientra a Montesacro. Se arrivando troviamo il battaglione a ramengo, ciascuno se ne va alla sua ventura.
Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, a cura di Walter Pedullà, Einaudi, Torino 2015
III.
Resistenza e guerra civile
Diversamente dalla prima guerra mondiale, quando la difesa della patria risulta prevalente su ogni altra identità che possa venire rivendicata, nel secondo conflitto le cose mutano. La vittoria dei totalitarismi – la Russia comunista, l’Italia fascista, la Germania nazionalsocialista – crea un nuovo problema di fedeltà: Stato, nazione e patria non sempre si identificano e pongono a chi combatte i totalitarismi problemi di coscienza. «Alcuni tedeschi antinazisti hanno desiderato la sconfitta della propria patria e hanno perfino lavorato per favorire questa sconfitta fin quando non si è verificata. Erano traditori? Nei confronti dei nazionalsocialisti di sicuro. Nei confronti della loro coscienza certamente no. Nei confronti della classica nozione di patria forse, ma questa stessa nozione è messa in dubbio nell’epoca delle religioni politiche».
Chi tradisce chi: battaglia e strage di Cefalonia
Una discussione ancora più accesa di quella che ha segnato la “morte della patria” – rimasta per lo più nell’ambito accademico e storiografico – è quella sul presunto tradimento dell’Italia nel momento in cui, l’8 settembre 1943, ribalta le proprie alleanze di guerra.
«Gli italiani, per la loro infedeltà e il loro tradimento, hanno perduto qualsiasi diritto a uno stato nazionale di tipo moderno. Devono essere puniti severissimamente, come impongono le leggi della storia». Queste parole sono di Goebbels anche se presto la propaganda nazista accusa prevalentemente la monarchia, Badoglio e i gerarchi della congiura del 25 luglio, per cercare di riconquistare un consenso che in realtà solo gli aderenti convinti della Repubblica sociale potranno condividere. Claudio Pavone, che ha dedicato un intero paragrafo di Una guerra civile al tradimento, ricordava che «nella situazione italiana seguita l’8 settembre 1943 le contrapposte accuse di tradimento rimbalzavano, si intrecciavano e si contaminavano in vario modo perché tutte, o quasi, avevano in sé qualche frammento di verità». Anche un antifascista integerrimo come Salvemini, ad esempio, aveva dichiarato che «un malfattore non diventa un galantuomo quando tradisce un altro malfattore», ma si trattava di un giudizio morale che serviva a rimarcare la propria opposizione all’esperienza Badoglio nel suo insieme.
Il giuramento al re permette, soprattutto agli ufficiali e ai militari, di resistere con dignità alla prigionia e all’internamento, ma è certo che i conflitti di fedeltà si complicheranno quando la RSI e spesso anche le bande partigiane richiederanno fedeltà a una popolazione che fatica a scegliere la propria collocazione. La rivendicazione di non essere traditori, accusando i nemici di esserlo, non è un sintomo di “morte della patria” ma di quella frantumazione istituzionale in cui – in Italia, come già da tempo in Europa – le uniche identità forti sono costituite da valori politici e morali, primo fra tutti la libertà, che dividono inevitabilmente l’insieme della nazione. Dalla primavera del 1940, come testimonia l’articolo Quislings Everywhere pubblicato sul quotidiano londinese «The Times», esiste ormai anche un neologismo per connotare il tradimento:
Il maggiore Quisling ha aggiunto una nuova parola alla lingua inglese. Per gli scrittori la parola Quisling è un dono degli dei. Se fosse stato loro chiesto di inventare una nuova parola per traditore […] avrebbero difficilmente escogitato una combinazione di lettere più brillante. All’ascolto riesce a suggerire qualcosa al tempo stesso viscido e tortuoso.
Fondatore del partito fascista norvegese e primo ministro dal febbraio 1942, Vidkun Quisling è il prototipo del “collaborazionista” (sarà giustiziato a Oslo il 24 ottobre 1945).
In Italia – a seconda dell’angolo visuale – sono traditori Badoglio e il re, Mussolini e i gerarchi che l’hanno sfiduciato, gli ufficiali che combattono le truppe tedesche e quelli che si alleano con l’invasore tedesco. Molti antifascisti considerano traditori al tempo stesso Mussolini e Badoglio, anche se pochissimi tra loro hanno scelto dall’inizio della guerra di collaborare con gli Alleati in nome della libertà.
Da Monaco, Mussolini il 18 settembre annuncia il rientro sulla scena e la rinascita del suo movimento. Cinque giorni dopo, il primo Consiglio dei ministri del costituendo Stato si riunisce all’ambasciata tedesca, a Roma, dove il segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, rende omaggio al «Capo Supremo della nuova Germania nazionale Socialista, Adolfo Hitler». Una genesi rivelatrice dell’estensione collaborazionista della Repubblica sociale italiana, denominazione assunta a inizio dicembre, quando il governo si è insediato sulla sponda bresciana del lago di Garda, tra Salò e Gargnano, residenza del duce.
Goebbels riporta nel suo diario le impressioni di Hitler dopo il suo incontro con Mussolini liberato:
Il Führer si aspettava che, per prima cosa, il Duce si preoccupasse di vendicarsi ampiamente su chi l’aveva tradito. Ma Mussolini non ha mai dato a vedere di voler far nulla di simile, e con ciò ha dimostrato quali sono i suoi limiti oltre i quali non saprà mai andare. Non è un rivoluzionario come il Führer o Stalin. È così legato alla sua italianità che gli mancano le qualità del rivoluzionario e del sovvertitore mondiale.
Praticamente negli stessi giorni, il 17 settembre, Hitler ordinava alle truppe del maggiore von Hirschfeld, giunto il giorno prima a Cefalonia, di non fare prigionieri tra i soldati della Divisione italiana “Acqui”, considerato il suo «comportamento improntato al tradimento e alla perfidia». Nell’isola greca, occupata dal 1941, sono presenti più di 10.000 soldati e 500 ufficiali italiani, cui si sono aggiunti nell’agosto 1943 circa 1800 tedeschi. Nella primavera di quell’anno i comandi germanici hanno preparato il piano Alarich, che prevede l’occupazione dell’Italia in caso di rottura dell’alleanza, e nell’estate il piano Achse, che stabilisce il disarmo e la deportazione delle truppe italiane che non intendono continuare a combattere con la Germania.
Anche nella penisola i primi tentativi di resistenza sono condotti dai comandi inferiori, mentre quelli superiori si danno alla fuga o collaborano apertamente con i nazisti. In molti casi i tedeschi uccidono in modo illegittimo e vendicativo gli ufficiali che osano prendere alla lettera gli ordini di un governo in fuga derivati dall’armistizio. Soprattutto fra le unità militari fuori d’Italia muoiono «in stragi “sistematiche” uomini con gradi elevati ed elevate responsabilità e giovanissimi sottotenenti di complemento, militari di professione e soldati di guerra, a Kos, Leros, Spalato, Krujë, Kuç, Corfù e Cefalonia e in altri luoghi, la maggior parte dei quali mai entrati nella memoria collettiva del paese. A Cefalonia e non altrove, però, oltre all’eccidio metodico e organizzato degli ufficiali, accadde qualcosa in più, cioè la strage indiscriminata dei soldati che man mano si arrendevano durante i giorni della battaglia».
Sui combattimenti e sulla strage di Cefalonia non esiste ancora una narrazione storica pienamente condivisa, anche per le lunghe e complesse vicende giudiziarie che ne hanno accompagnato la memoria pubblica e per le testimonianze discordanti rilasciate dai sopravvissuti. Già il 10 settembre, comunque, l’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), l’alto comando delle forze armate tedesche, aveva dato l’ordine di fucilare gli ufficiali italiani che avessero resistito, considerandoli franchi tiratori, e l’11 e poi di nuovo il 15 settembre esso era stato trasmesso a tutti i reparti. A prevalere, tra i soldati e gli ufficiali italiani, era certamente «la volontà di tornare in patria con sicurezza, con le armi e con il proprio onore», ma la difficoltà di ottenere questo risultato «avrebbe trasformato il punto di svolta rappresentato dall’armistizio in una scelta di lotta».
L’11 settembre, lo stesso giorno in cui dal “Regno del Sud” si ordinava al generale Antonio Gandin di resistere alle forze tedesche, i reparti italiani si ritirano dall’altura di Kardakata, probabilmente per il calcolo dello stesso comandante Gandin di mostrare ai tedeschi la buona volontà di un’intesa: una decisione gravida di conseguenze, poiché «Kardakata avrebbe rappresentato il cuore strategico della battaglia di Cefalonia, e quindi della vittoria tedesca, insieme, ovviamente, al “monopolio” dell’arma aerea da parte delle forze del Reich». Due giorni dopo giunge a Cefalonia il comandante della 22a Armata tedesca, il generale Humbert Kanz, che impone a Gandin la consegna di tutte le armi. A propendere per la resa (in base a una valutazione militare di lunga prospettiva) sono il comandante e la maggior parte del comando di divisione; a volersi battere (sulla base della preponderanza numerica) i comandi di Marina, Artiglieria, Carabinieri e gli ufficiali inferiori. Questo è il motivo della consultazione tra i reparti, passato alla storia come un “referendum” tra i soldati, in ogni modo un «gesto irrituale da parte di un comandante, sensibile verso i sentimenti della truppa in una situazione eccezionale».
La risposta di Gandin, come risulta in quasi tutte le opere a carattere memorialistico e storico, è perentoria: «Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione “Acqui” non cede le armi». Ma questa risposta costituisce, ancora oggi, un interrogativo irrisolto sulle vicende di Cefalonia. Nell’unico documento disponibile, che è di parte tedesca (il Diario di guerra del 22° Corpo d’armata da montagna), la risposta sarebbe stata meno categorica e assai più articolata: «La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di radunarsi nella zona di Sami, poiché teme di essere disarmata contro tutte le promesse tedesche. La Divisione intende restare sulle sue posizioni fino a quando non otterrà assicurazione […] che essa possa mantenere le sue armi e che solo al momento dell’imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La Divisione assicurerebbe, sul suo nome, che non impiegherebbe le armi contro i tedeschi. Se ciò non accadrà la Divisione preferirà combattere piuttosto che subire l’onta della cessione delle armi ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia Divisione».
La sostanza, in ogni modo, è una risposta negativa all’ultimatum tedesco, anche se si tratta di una “comunicazione neutra” in cui il generale spiega «le ragioni del no alle condizioni tedesche e ribadendo le richieste italiane, ma il tono lasciava ancora aperta la possibilità di continuare le trattative». All’alba del 15 settembre, con un attacco aereo tedesco, inizia la battaglia. La prima fase sembra arridere agli italiani ma presto giungono sull’isola cospicui rinforzi, inclusi il 98° e il 724° Reggimento che, impegnati nella guerra antipartigiana in Iugoslavia e Grecia, avevano massacrato civili nell’ottobre 1941 (a Kragujevac, con centinaia di vittime) e nell’agosto 1943 (villaggio di Kommeno). Il 17-18 settembre inizia la seconda fase della battaglia, durante la quale centinaia di soldati fatti prigionieri vengono uccisi. Nell’ultimo attacco, il 21-22 settembre, massacri ed eccidi avvengono in circa quaranta località dell’isola: la Divisione “Acqui” si arrende e termina la prima fase della strage di Cefalonia. La seconda, quella più nota, è costituita dalla condanna a morte e dall’esecuzione degli ufficiali, in una «rappresaglia “canonica”, simile cioè alle tante che, in quel periodo, riguardarono gli ufficiali italiani ritenuti dai tedeschi colpevoli di avere loro resistito, e quindi traditori».
La tragica fine dei soldati italiani è strettamente connessa alla situazione confusa, sul piano militare come su quello diplomatico, che è conseguenza della gestione dell’armistizio da parte del governo, della monarchia e degli alti comandi militari.
Non è soltanto un episodio isolato, esso rientra nella più complessa e articolata dimensione europea della guerra condotta dal Terzo Reich alla quale non partecipano solo alcuni corpi speciali, ma anche la Wehrmacht, l’esercito tedesco […]. Le stragi, le rappresaglie, i paesi minati, non saranno soltanto l’espressione di una strategia bellica basata, da una parte, sul rallentare la marcia dell’esercito angloamericano e, dall’altra, sul fare terra bruciata attorno ai partigiani sterminando la popolazione civile che li sosteneva; le stragi sono soprattutto la conseguenza prioritaria dell’ideologia razzista del regime nazista e della sua applicazione sul piano militare.
La Resistenza degli internati militari
Quasi 700.000 soldati italiani, che si trovano nei Balcani e nel mar Egeo, all’indomani dall’8 settembre cambiano di stato, passando da militari occupanti a esercito sconfitto. La decisione, presa dal re, da Badoglio e dagli alti gradi militari, di non avvisare le divisioni di stanza all’estero dell’armistizio imminente e la scelta di non accordarsi con gli angloamericani per organizzarne la resistenza con un passaggio nel fronte di guerra ebbero come effetto prevalente la resa senza combattere di fronte all’occupazione da parte dei tedeschi dei territori dove essi fino a quel momento erano stati alleati degli italiani. Se si escludono poche eccezioni – di cui la più rilevante è Cefalonia – nelle regioni in cui il regio esercito era forza di occupazione non fu possibile, o fu impedita, la strada del combattimento e della resistenza contro l’esercito tedesco. Per molti soldati la scelta divenne quella tra la resa e l’internamento in Germania, la collaborazione con i tedeschi proseguendo l’alleanza e sconfessando la scelta del re e del governo, il passaggio tra le file dei partigiani locali (greci e iugoslavi) combattuti fino a quel momento con determinazione. In Montenegro, ad esempio, prevarrà la decisione di collaborare con i partigiani locali creando la Divisione Garibaldi che combatterà fino al 1945, come unità del regio esercito, nel 2° Korpus dell’Esercito popolare di liberazione iugoslavo.
È una sorte analoga a quella dei soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre, che in minoranza combattono o fuggono sui monti per creare le prime bande, in maggioranza cercano di nascondersi e in parte vengono disarmati e arrestati dall’esercito tedesco. L’accusa di tradimento mossa immediatamente da Hitler nei confronti degli italiani, la liberazione di Mussolini e la creazione della Repubblica sociale italiana si accompagnano – già dal 20 settembre 1943 – alla decisione di trasformare i prigionieri di guerra in “internati militari” (ItalianischeMilitärinternierten): una definizione priva di senso giuridico, che peserà profondamente sul loro destino.
Il numero complessivo dei militari italiani che si arresero fu di circa 400.000 nell’Italia centro-settentrionale, mentre altri 100.000 vennero catturati nella zona di Roma e nell’Italia meridionale. In Francia i soldati disarmati furono circa 60.000 e in Iugoslavia e Albania furono fatti prigionieri 165.000 militari mentre in Grecia e nelle isole dell’Egeo si arresero circa 265.000 uomini. In totale, quindi, nelle giornate successive all’8 settembre, furono complessivamente un milione circa i militari catturati dai tedeschi. Di questi, solo 190.000 decideranno di continuare a combattere con la Germania.
Tra gli internati vi sono noti intellettuali quali il giornalista Giovannino Guareschi, ufficiale d’artiglieria di sentimenti monarchici, e il vignettista Giuseppe Novello.
Un ufficiale del regio esercito deportato nel settembre 1943 è l’insegnante Paride Piasenti, che svolge nel Lager una funzione di coordinamento (nel dopoguerra fonderà l’Associazione nazionale ex internati e diverrà parlamentare democristiano).
Già all’indomani dell’8 settembre il comando della Wehrmacht, l’OKW, aveva emanato direttive lesive del diritto internazionale ispirando vendette e rappresaglie per il “tradimento” italiano che condussero in numerose località, nella penisola, in Grecia e nei Balcani, a stragi e violenze contrarie al diritto di guerra. Del milione di soldati italiani disarmati sono 650.000 i prigionieri rapidamente condotti nel Reich o nei campi del Governatorato generale che, per il governo nazista, costituiscono l’occasione per far fronte a una forte carenza di manodopera. Circa 100.000, invece, rimarranno nei Balcani e in Francia a lavorare per la Wehrmacht in fabbriche locali. Lo Stato Maggiore tedesco concorda con il ministro degli Armamenti Albert Speer l’utilizzo degli italiani rimasti fedeli all’alleanza non in unità militari, ma al massimo come ausiliari o lavoratori volontari. Il trattamento degli altri dipende dalla volontà di rappresaglia o di sfruttamento da parte dei tedeschi, che intendono far loro pagare il tradimento, senza considerarli prigionieri per sottrarsi agli obblighi che altrimenti avrebbero – sulla base delle convenzioni internazionali – nei loro confronti. La parvenza di un’alleanza rifondata con il nuovo governo mussoliniano legittima l’occupazione militare nel Centro-Nord e pone a tutti gli “internati” la scelta tra l’adesione alla RSI e il lavoro coatto nel Reich. Fino al marzo 1944 si reitera la proposta di scegliere l’alleanza fascista-nazista e sfuggire, così, alle terribili condizioni dei campi di prigionia e lavoro.
Gli internati militari italiani (IMI), sottratti al ruolo naturale di prigionieri di guerra, non erano più garantiti dal rispetto della convenzione di Ginevra e dal controllo della Croce Rossa. Le condizioni cui dovettero sottostare – mancanza di igiene, alimentazione scarsissima (tra 700 e 1000 calorie al giorno), lavoro duro per almeno dodici ore giornaliere, angherie e violenze di ogni genere, sovraffollamento nelle baracche, freddo eccessivo nei mesi invernali, mancanza di informazioni e contatti – dipendevano al tempo stesso dalla volontà di punire e dal suggerimento di cedere da parte dei tedeschi, ma la reazione largamente maggioritaria fu, invece, quella di una resistenza tenace e coerente. Si è calcolato che soltanto tra il 10% e il 20% dei soldati e degli ufficiali accolse l’invito a collaborare con la Wehrmacht o la RSI, mentre la maggioranza rimase fedele al giuramento fatto al re. Dalle tantissime testimonianze accumulate nel tempo emerge come il senso dell’onore patriottico abbia rappresentato la molla più significativa, almeno esplicitamente; insieme, però, a un deciso e crescente rifiuto del fascismo e della guerra che solo per una minoranza si manifestava con una scelta consapevole di antifascismo. Per tutti, comunque, può valere la sintesi lasciata da uno di essi, Giovannino Guareschi (uno degli scrittori più letti del dopoguerra):
Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire. Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, diecine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato.
Le ragioni del rifiuto a sottostare alle pressioni e alle minacce tedesche, estrapolate dalle memorie e testimonianze disponibili, sono state riassunte in una classificazione che vede prevalere (30%) le giustificazioni militari, seguite da quelle etiche (26%) e ideologiche (24%), cui si aggiungono per ultimi motivi legati all’antigermanesimo, alla diffidenza verso le promesse, al fatalismo. Il sentimento di onore militare e di rispetto del giuramento fatto al re risulta al primo posto, come è stato sempre ricordato, ma l’insieme di spinte etiche e ideologiche raggiungono complessivamente la metà delle motivazioni, contribuendo a dare un’immagine più complessa e compiuta della scelta antitedesca degli IMI. Motivi etici e ideologici certamente molto differenziati, ma che possono riassumersi in un ritrovato senso di autostima che la partecipazione alla guerra fascista aveva fatto perdere e che si intuiva dover essere recuperato con un comportamento coerente: «Esamino me stesso e constato che – più di altri – ho conservato, nonostante la fame, un fondo di dignità».
L’inserimento a tutti gli effetti degli IMI nell’ambito della Resistenza, cioè di chi in vario modo si oppose all’occupazione tedesca e fascista dopo l’8 settembre e si adoperò per la liberazione dell’Italia, è stato colpevolmente ignorato per alcuni decenni dopo la fine della guerra, a livello politico come sul piano storiografico. Il caso clamoroso delle memorie di Alessandro Natta – il quale aveva combattuto ed era stato ferito a Rodi e poi catturato e inviato in Germania nei Lager di Küstrin, Sandbostel e Wietzendorf – che nel 1954 vennero rifiutate per la pubblicazione da Rinascita, la casa editrice del Pci (di cui Natta era tra i principali dirigenti), indica come la mitologia della Resistenza “armata” nei confini italiani sia stata a lungo l’unica ammissibile all’interno del discorso pubblico; tant’è vero che solo nel 1998 verrà concessa dallo Stato italiano la medaglia d’oro all’“Internato ignoto” perché «per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera».
Basta pensare a cosa avrebbe potuto costituire l’oltre mezzo milione di internati che resistettero alle promesse e alle minacce tedesche, se avessero accettato di tornare in Italia inquadrati in reparti per proseguire la guerra dalla parte nazifascista. La resistenza degli internati bloccò, in un modo per loro foriero di sofferenze a lungo dimenticate, la possibilità che tanti italiani si schierassero dalla parte sbagliata. In modo analogo, in condizioni diverse, si comportarono coloro che evitarono di presentarsi ai bandi di arruolamento della RSI e che costituirono la larga maggioranza delle classi giovanili richiamate. Si trattò di una resistenza militare e politica al tempo stesso.
E se il no del primo periodo della prigionia aveva avuto soprattutto un significato e un sapore antitedesco, quello dell’inverno 1943-44 si configurò come una netta e vigorosa presa di posizione antifascista, come uno scacco dato al nemico “politico”. In questo mutare della prospettiva e dell’obiettivo principale si può misurare il cammino percorso dalla resistenza, il suo politicizzarsi, perché le ragioni iniziali non avrebbero mantenuto così saldo e compatto il fronte degli internati se esse non fossero state convalidate e inverate da più profondi e seri motivi politici.
È soprattutto tra questi uomini, militari legati a un senso dell’onore diverso da quello che aveva cercato di inculcare in loro il fascismo, che motivazioni ed esperienze differenti finirono per dar luogo a una comportamento condiviso che permise un comune atteggiamento di resistenza accanto ai tanti che, nello stesso periodo, maturavano e si manifestavano in Italia.
Ma a dare vigore e maturità alla resistenza nei lager, facendone un episodio vero e proprio della lotta di Liberazione, contribuì soprattutto l’opera di chiarificazione e di educazione politica e culturale che venne svolta tra gli internati, in particolare nei campi ufficiali. Un ricordo personale mi consente di mettere in luce l’origine e il senso di un’attività che acquistò, a partire dal primo inverno, un rilievo e un’importanza notevoli. La sera in cui il mio gruppo giunse a Mühlberg sull’Elba, dopo l’interminabile viaggio, il colonnello Imbriani mi pregò di fare una conferenza per “tenere su il morale” dei compagni di prigionia. Nella fredda baracca del nostro primo lager dissi tutto ciò che ricordavo di Carlo Cattaneo, delle 5 Giornate, del glorioso ’48. Ascoltarono quasi tutti e in tutti vi fu interesse e commozione.
La Resistenza nel confine orientale: la battaglia di Gorizia
Il problema della patria e del tradimento si pone – su un piano diverso – anche dove la Resistenza è iniziata precedentemente, nella zona della provincia di Lubiana, conquistata con la guerra, e in Istria e Venezia Giulia dove il fascismo ha oppresso per un ventennio con estrema spietatezza le minoranze slave. In entrambe le regioni, sia pure in modo differente, la lotta partigiana si manifesta già nel 1942. Tra il maggio e il dicembre si risponde con il metodo del terrore, rivendicato dal generale Taddeo Orlando, comandante della 21a Divisione fanteria “Granatieri di Sardegna” (successivamente sottosegretario e ministro della Guerra nei governi Badoglio e comandante generale dell’Arma dei carabinieri dal luglio 1944): «Dobbiamo ripristinare la supremazia e l’onore degli italiani, anche se per ciò dovessero scomparire tutti gli sloveni e la Slovenia fosse distrutta».
In Venezia Giulia il clima di “guerra totale”, divenuto dopo l’8 settembre esteso e permanente, imperversava da almeno un anno, a opera dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza, gestito con pugno di ferro da Giuseppe Gueli (che sarà in seguito al 25 luglio il responsabile della prigionia di Mussolini sul Gran Sasso) contro l’attività antifascista in genere e i partigiani slavi in particolare. Nello stesso periodo, la nuova provincia italiana di Lubiana è controllata da quasi 300.000 soldati; altrettanta violenza viene esercitata in Dalmazia, con eccidi e torture: a Podhum, che segna il culmine di una serie di crimini di guerra, in attuazione delle direttive del generale Roatta, vengono uccisi nel luglio 1942 tutti i maschi (circa 200) tra i 16 e i 55 anni, e il paese viene dato alle fiamme; nei campi di concentramento – tra i quali spicca quello dell’isola croata di Arbe, con 10.000 prigionieri in un anno e un tasso di mortalità del 15% – sono stipati oltre 30.000 deportati. Come ammetterà il generale Quirino Armellini, comandante delle truppe in Dalmazia, si era commesso «un grossolano errore» con la fascistizzazione e l’italianizzazione coatta e violenta, ottenendo invece «l’esasperazione degli animi, il rinfocolare dell’odio, il desiderio di rivolta».
Dopo il 25 luglio la Wehrmacht già assorbe nelle regioni balcaniche i reparti italiani, preparando il successo del piano Achse e il disarmo del regio esercito dopo l’8 settembre. L’occupazione dei grandi centri – Trieste, Monfalcone, Lubiana – è rapida e completa, con l’esclusione di Gorizia dove ha luogo tra l’11 e il 26 settembre uno dei primi e più importanti fatti d’arme legati all’armistizio, una battaglia che vede partigiani sloveni e italiani contrapposti alle forze armate germaniche. Alla vigilia dell’armistizio esisteva già il “Distaccamento Garibaldi” con circa una trentina di uomini, comandato dall’operaio di Muggia Piero Mercandel e con commissario politico Mario Karis, condannato dal Tribunale speciale nel 1930, che all’inizio del 1943 aveva creato nel Collio una base di aiuto per gli antifascisti italiani ricercati e di informazioni per i partigiani sloveni.
Si tratta del primo, ancora numericamente modesto, volontarismo partigiano della zona. È un pionierismo che stenta ancora ad incidere sull’opinione pubblica locale ma che ha un significato politico preciso. Con esso si apre una fase nuova per l’antifascismo italiano […]. La realtà partigiana slovena stimola la presa di coscienza della necessità di una lotta armata che ha i suoi precursori italiani sia nella Venezia Giulia che oltre confine.
Un’esperienza analoga, iniziata sul terreno logistico (invio di armi, aiuti, contatti, propaganda, reclutamento), è quella di Vinicio Fontanot, di Ronchi, che per sottrarsi all’arresto aveva raggiunto un reparto partigiano sloveno vicino a Ranziano e contribuito con Mario Lizzero alla creazione delle prime bande nel Friuli e nella Venezia Giulia. Il destino della famiglia Fontanot (il padre Giovanni morto a Dachau, due fratelli di Vinicio, Licio e Armido, morti nel corso della Resistenza nel 1944, due zii e un cugino morti tra i maquis francesi: una brigata del 7° Korpus sloveno nella provincia di Lubiana viene denominata “Fratelli Fontanot”) mostra l’importanza, soprattutto nella fase iniziale, dei legami familiari e amicali nello spingere i giovani a scelte politiche e militari consapevoli.
Dai cantieri di Monfalcone centinaia di giovani – alcune testimonianze parlano di quasi 2000 uomini – vanno a ingrossare le file degli insorti. Complessivamente
si calcolano a 3-4000 i volontari civili (tra cui numerosi ex detenuti politici sia italiani che sloveni, liberati dalle carceri a Trieste sotto la pressione popolare) che si uniscono alle formazioni partigiane in Istria, nel Triestino e nel Goriziano. La maggior parte di questi volontari costituisce gruppi autonomi o si aggrega alle formazioni italiane come la brigata Trieste e i gruppi “gappisti” di Muggia […]. Di queste formazioni non sono più rimasti neanche i nomi. La più celebre delle unità di quel periodo fu senza dubbio la brigata “Triestina”, cioè la “Proletaria”. Il nome di “Triestina” data alla “Proletaria” si spiega con la decisione di attuare una riorganizzazione generale dei reparti italiani e sloveni disposta dal comando sloveno alla vigilia del grande attacco tedesco del 25 settembre.
Alla costituzione della Brigata “Proletaria” partecipa Ondina Peteani – che aveva iniziato la militanza antifascista ai cantieri navali, dove faceva l’operaia, in contatto con il gruppo dell’Università di Padova guidato da Eugenio Curiel –, considerata la prima “staffetta” della Resistenza, poi arrestata e rinchiusa ad Auschwitz e Ravensbrück da dove riuscirà a fuggire nell’aprile 1945.
La “Proletaria”, comandata da Ferdinando Marega, è organizzata in tre battaglioni: alla loro testa ci sono lo sloveno Dušan Faganel, l’ufficiale Giuseppe Petroni e Vinicio Fontanot, che hanno come commissari politici Camillo Donda, Giovanni Calligaris e Valerio Bergamasco. Cerca di raggiungere, senza riuscirci, Gorizia prima dell’arrivo dell’esercito tedesco, secondo il piano preparato dal comando sloveno. Occupa allora la stazione della città e l’aeroporto militare e si posiziona dove riesce a interrompere i collegamenti tedeschi tra Gorizia e Trieste, facendo saltare alcuni ponti sul Vipacco, affluente dell’Isonzo. Anche soldati dispersi dell’esercito italiano si aggregano alla battaglia, che sul fronte goriziano coinvolge circa 5000 combattenti, 700 dei quali appartenenti alla “Proletaria”. Il generale Licurgo Zannini, comandante del 24° Corpo d’armata di stanza a Udine, mentre i partigiani tentano di difendere Gorizia raggiunge un accordo con i tedeschi permettendo loro di attraversare le zone controllate dai suoi uomini e riprendere così il controllo della città. Gli uomini della Divisione “Torino”, che per due giorni si sono opposti ai tedeschi, adesso sono divisi, non sanno se raggiungere i partigiani (alcuni lo hanno già fatto) o obbedire al nuovo comandante dopo che il generale Bruno Malaguti è stato destituito da Zannini perché ostile ai tedeschi. Malaguti riuscirà, prima di venire arrestato dai tedeschi e deportato in Polonia, a liberare i prigionieri politici e i detenuti nei campi di concentramento. Morirà nel dicembre 1945 per gli effetti delle privazioni patite in prigionia.
L’ingresso dei reparti germanici in città avviene tra applausi e lanci di fiori: «Era il segno di quel collasso politico e morale che le vicende armistiziali, la tradizionale ostilità e paura degli slavi, e l’identità fra italianità e fascismo predicata per anni, avevano provocato in alcuni strati della piccola e media borghesia urbana».
La battaglia presso la stazione ferroviaria di Gorizia rappresenta, probabilmente, il primo episodio di guerra civile tra italiani, alcuni dei quali, su versanti contrapposti, appartenenti fino a pochi giorni prima alla stessa divisione. Proprio alla stazione, infatti, che era occupata dal secondo battaglione della “Proletaria”, «in ottemperanza agli ordini di Zannini i carabinieri e la guardia di finanza si erano posizionati, in armi, con l’intento di attaccarla e liberarla dai ribelli». Un primo attacco condotto da tedeschi con l’ausilio italiano è respinto e per ben tre volte i partigiani prevalgono sugli assalitori. Poi, di fronte alla soverchiante forza nemica, decidono di ritirarsi, senza venire inseguiti perché ritenuti numerosi, bene addestrati e armati. La mattina del 14 settembre la bandiera tedesca sventola a Gorizia, anche se il circondario è ancora in mano ai ribelli e anche se vicino a Merna e a Peci, sul fiume Vipacco, i restanti battaglioni della “Proletaria” bloccano i tedeschi in arrivo da Trieste e Monfalcone.
Mentre iniziano le deportazioni di soldati e ufficiali della Divisione “Torino” (che resiste ai tedeschi sino all’11 settembre, ma deve poi cedere per ordine del comando della 24a Armata di Udine), tra il 12 e il 16 i combattimenti proseguono senza segnare la vittoria di uno dei contendenti; la “Proletaria” cerca di sabotare l’aeroporto riconquistato dai tedeschi e respinge gli attacchi lungo il Carso vicino a Merna. Tra il 18 e il 20 settembre la pressione tedesca aumenta, dopo l’ordine del Führer – registrato dal Diario dell’OKW alla data del 15 settembre – di combattere “le bande italiane” nell’Italia settentrionale, con chiaro riferimento ai partigiani operanti nella Adriatisches Küstenland, la zona di operazioni che include Venezia Giulia, Friuli e le province di Lubiana, Gorizia e Fiume, sotto il diretto controllo germanico.
La battaglia di Gorizia, tra circa 10-15.000 partigiani e 45-50.000 soldati tedeschi, termina il 26 settembre con la vittoria tedesca, ed è considerata «un episodio-chiave del ciclo operativo germanico nell’Italia del nord e la prima fase di una serie di operazioni predisposte da Rommel e collegate agli importanti settori sloveno e croato». Un rapporto dell’OF (Osvobodilna Fronta, Fronte di liberazione del popolo sloveno) afferma che la ritirata si è svolta in ordine e con scarse perdite; a fronte delle rappresaglie e degli eccidi di truppe tedesche e reparti fascisti contro i villaggi e le popolazioni locali, piccoli gruppi partigiani si mimetizzano in luoghi fuori mano, alcuni si sbandano e altri ancora occultano le armi per disseppellirle all’occasione propizia: «L’esperienza fatta, la forte coscienza antifascista, la presenza di unità partigiane sul Carso, sulle Prealpi Giulie, il germinare di gruppi “gappisti” quasi sempre di estrazione operaia, nel Monfalconese e nella Bassa friulana, indussero centinaia di uomini a riprendere la lotta». A fronte del centinaio di morti della Brigata “Proletaria” nei combattimenti contro i tedeschi, vi sono, in quella stessa zona, migliaia di soldati e ufficiali italiani arresisi e internati nei campi di prigionia e di lavoro della Germania.
Sul terreno militare si era trattato certamente di una sconfitta, ma i tedeschi avevano dovuto riconoscere – scrivendolo con preoccupazione sul proprio bollettino militare – che le bande nei dintorni di Gorizia erano numerose e agivano con determinazione. Considerando che prima dell’armistizio, tranne diversi casi individuali e piccoli gruppi, gli italiani non avevano mai accolto l’invito fatto loro dagli sloveni fin dal 1941 a imbracciare le armi, pur contribuendo in molte occasioni ad aiutare i partigiani dell’esercito di liberazione iugoslavo, si poteva sostenere che «la battaglia di Gorizia era stata un turning point della lotta antifascista nella regione, gli operai italiani avevano imbracciato le armi per la prima volta ma non sarebbe certo stata l’ultima».
Le foibe istriane del 1943
Mentre infuria la battaglia di Gorizia, in Istria il Comitato popolare di liberazione (CPL) proclama, il 13 settembre, l’annessione alla Croazia, confermata nelle settimane successive dal Consiglio antifascista di liberazione nazionale iugoslavo (AVNOJ), anche se questa notizia suscita una reazione negativa da parte di Tito. In una parte del territorio istriano, già prima dell’8 settembre privo di controllo, con l’armistizio si vive un vuoto di potere che favorisce l’emergere del potere partigiano e di rivolte rurali contro i possidenti. In questo clima e in questa situazione, mentre l’esercito tedesco procede a riconquistare quella che è diventata la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (OZAK), hanno luogo violenze contro i civili che coinvolgono il movimento partigiano: le “foibe istriane” del settembre-ottobre 1943. Il presidente del CPL istriano, Joakim Rakovac, aveva assicurato i comunisti italiani che dopo l’insurrezione i fascisti sarebbero stati sottoposti a processo impedendo vendette e procedimenti sommari.
L’insurrezione, accreditata poi come tale dalla storiografia ufficiale iugoslava, è in realtà un movimento spontaneo e poco coordinato che, in una prima fase, crea organismi provvisori di potere che solo in seguito – con il controllo militare e politico del Movimento popolare di liberazione iugoslavo e l’arrivo in Istria di quadri dirigenti del Partito comunista croato – troveranno una sia pur estremamente provvisoria sistemazione.
Sulla base della documentazione e dei contributi che storici croati, italiani e sloveni hanno prodotto nell’ultimo ventennio, si può sintetizzare il massacro delle foibe istriane in questi termini. Nella situazione di vuoto di potere si assiste parallelamente all’occupazione di cittadine e villaggi da parte dei partigiani iugoslavi, con rivolte popolari caratterizzate da violenze contadine contro i proprietari terrieri. L’anelito a lungo compresso alla libertà e il desiderio di vendetta per le sofferenze e i soprusi patiti da una popolazione che nell’entroterra è a maggioranza slava favoriscono l’intreccio tra spinte nazionalistiche e tendenze rivoluzionarie, tra il desiderio di cacciare gli invasori italiani e la volontà di eliminare la borghesia e far trionfare un progetto socialista.
La violenza si manifesta, inizialmente, contro gerarchi e funzionari civili e militari del governo fascista, ma anche contro possidenti e notabili che rappresentano, agli occhi degli insorti, gli elementi della minoranza nazionale italiana che hanno collaborato a opprimere la maggioranza croata e slovena della popolazione. A uomini del Partito fascista si affiancano soldati e ufficiali della Milizia, funzionari statali di vario grado, proprietari terrieri, farmacisti, insegnanti, commercianti. Le vittime di queste prime foibe sono – per quanto sia difficile fare un computo preciso – tra 500 e 700. Ad agire, in molti casi, sono “giustizieri improvvisati”, tra i quali figurano anche italiani, che si presentano come “guardie della rivoluzione” e danno un carattere al tempo stesso politico e sociale alla propria aggressività: «scene di violenza si ripetevano un po’ dappertutto a opera delle forze popolari improvvisate che s’impossessarono tra il 9 e l’11 settembre dell’intera penisola, a parte Pola, Dignano (Vodnjan), le isole Broni, Capodistria e Isola».
Il numero degli insorti si aggira attorno ai 12.000 uomini, guidati prevalentemente da quadri comunisti, anche se non sempre è così. Le direttive politiche di non procedere a esecuzioni sommarie sono spesso ignorate, anche per il carattere fluido dell’occupazione e la presenza di persone che, per ideologia politica o motivi personali, intendono procedere come “vendicatori” di un ventennio di angherie e persecuzioni. La 13a Divisione del NOVJ, dopo aver sconfitto un battaglione di alpini, tra l’11 e il 12 settembre occupa Pisino, quasi al centro dell’Istria, e istituisce nel castello di Montecuccoli un tribunale rivoluzionario, capeggiato da Ivan Matka, presidente della Commissione regionale del Fronte di liberazione nazionale per l’Istria.
Anni più tardi un esponente del Partito comunista della Croazia in Istria, Bo�o Kali, si vantò pubblicamente di avere “liquidato” 82 fascisti per vendicare le 82 vittime “cadute all’incrocio di Tina” (località dove si verificò uno scontro tra partigiani e tedeschi). Le prime esecuzioni ordinate dal Tribunale di Pisino furono eseguite il 19 settembre alle cave di bauxite locali; dato però che uno dei condannati riuscì a fuggire, si decise che in futuro le fucilazioni sarebbero avvenute nelle vicinanze di “foibe” dove seppellirli.
La giustificazione, data sin da allora, di «fenomeni marginali, dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili» o al carattere spontaneo di una reazione popolare alla lunga oppressione fascista, o alla presenza di «elementi estremisti e facinorosi o anche psicopatici» è accettabile solo in minima parte, sebbene vi fossero eventi ascrivibili a simili cause. Al di là delle uccisioni maggiormente “spontanee”, quelle stabilite dal Tribunale rivoluzionario giudicarono e giustiziarono gli arrestati sulla base del loro essere “nemici del popolo”, una categoria abbastanza ampia in cui far confluire non solo fascisti e collaboratori del regime ma chiunque non si schierasse apertamente con l’esercito partigiano. Una categoria, non va dimenticato, che aveva avuto soprattutto negli anni Trenta una sua grande rilevanza nella tradizione comunista sovietica, e che sarà ampiamente ripresa negli anni successivi alla fine della guerra.
A testimoniare la gravità delle violenze perpetrate nelle foibe istriane non vi è solo la ferocia ingiustificata e del tutto illegale di quelle azioni, ma la stessa riflessione che, poco più di un mese dopo, avviene all’interno del movimento partigiano croato e italiano. Il 6 novembre Zvonko Babi-�ulje relaziona al comando dell’Armata di liberazione popolare di Croazia: «La lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in modo diseguale, che in alcune località si è rivelata del tutto inadeguata e in altre è stata invece radicale. È sintomatico a riguardo il fatto che in molti luoghi gli istriani non volevano eseguire le esecuzioni […]. Non è stato costruito nessun campo di lavoro e i nemici nazionali sono stati puniti con la morte, fra loro anche alcuni sacerdoti».
La confessione di Anton Gregorovich, giudice istruttore presso il comando partigiano di Pisino, arrestato il 15 ottobre a Pola dai tedeschi, rievoca «lo stato di caos in cui versava il Movimento di Liberazione, l’improvvisazione e il potere arbitrario dei singoli, assetati di vendetta, ma anche la loro adesione al modello della “violenza rivoluzionaria” bolscevica, oppure a quella mussoliniana della “violenza militare”. In fin dei conti, questi erano gli unici due modelli cui potevano fare riferimento». Nella conferenza dei comunisti istriani tenutasi nel dicembre 1943, dopo che il Partito comunista italiano aveva espresso una protesta ufficiale, il dirigente di Rovigno Giuseppe Budicin, condannato due volte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato (e che sarà ucciso dai fascisti nell’aprile 1944), «rivolse un aperto rimprovero ai dirigenti del PCC in merito alle responsabilità sui fatti delle foibe e ad altri incidenti di stampo nazionalista verificatisi durante l’insurrezione, rinfacciando loro di avere mancato alla parola data: fatto che, a suo dire, stava causando un certo disorientamento tra l’elemento italiano e non pochi danni al Movimento di liberazione».
Tra le motivazioni della violenza, tanto nelle testimonianze quanto nella riflessione storica, permangono contrapposti, quasi si dovesse scegliere tra l’uno o l’altro, motivi di classe e di comportamento rivoluzionario, tipici della tradizione comunista dell’epoca che aveva alle spalle la vicina esperienza della guerra civile spagnola, e scelte di carattere nazionalistico ed etnico, tentativo di escludere, nella guerra di liberazione, la convivenza con chi aveva assunto complessivamente l’immagine e l’identità del nemico: «le azioni di polizia contro i “nemici del popolo” decise dal Comando di Pisino sono un’indicazione di percorso nella quale s’inseriscono le rabbie popolari, aprendo spazi di discrezionalità dove trovano posto le esecuzioni politiche mirate, ma anche gli odi personali e gli atti di criminalità comune». Non si può negare che la violenza, come accadde spesso e ovunque, «esercitava su molti combattenti una sua seduzione, anche se a posteriori venne giustificata come atto necessario, come risposta alla violenza altrui. L’esercizio della violenza diventava anche per numerosi combattenti una sorta di sfogo della pressione a lungo accumulata».
Le quattro giornate di Napoli
L’8 settembre nel Mezzogiorno è accompagnato da un elemento contrastante in modo palese con l’atteggiamento pavido, ambiguo o addirittura codardo mostrato dal re e da Badoglio in fuga proprio verso il Sud dell’Italia. Si è già visto come la resistenza mostrata a Barletta e a Bari, a Rionero in Vulture e poi a Matera, per non parlare della piccola “repubblica” di Maschito, costituissero momenti diversi di un fenomeno comune: la difesa contro la violenza dell’occupazione che le forze naziste stanno rapidamente imponendo in tutto il paese. «In Campania il lungo settembre del ’43 è scandito da eccidi, scontri a fuoco, rappresaglie, insorgenze popolari e assalti ai municipi».
La storia ha sempre ricordato quasi esclusivamente Napoli – e le sue “quattro giornate” – come centro di un episodio significativo di resistenza al Sud, di cui si è voluto spesso rimarcare la diversità e l’alterità rispetto alla Resistenza che avrebbe preso piede, negli stessi giorni, nel Centro-Nord della penisola. L’11 settembre a Castellammare di Stabia vengono giustiziati ufficiali e civili ribelli, incendiate le industrie della zona (Cirio, Voiello) e rastrellate migliaia di persone da deportare in Germania. La stessa violenza si manifesta a Napoli dopo la morte di sette tedeschi in una prima protesta popolare, mentre prefetto e commissario prefettizio collaborano con il comando germanico, e i generali Riccardo Pentimalli ed Ettore Del Tetto, dopo aver rifiutato di armare il popolo come richiesto dal Comitato dei partiti antifascisti, fuggono lasciando l’ordine di sparare sugli assembramenti di civili.
Il 12 settembre, debellata la resistenza di gruppi di militari e carabinieri, i tedeschi accerchiano e poi incendiano l’università: «Un’offesa certamente premeditata data la presenza, attestata da più testimoni oculari, di una macchina cinematografica montata su un camioncino parcheggiato dinnanzi all’ingresso dell’Ateneo». È da questo momento che le angherie e le violenze si susseguono e si moltiplicano: il 13 è affissa la proclamazione dello stato d’assedio e qualche giorno dopo si ordina lo sgombero della fascia costiera per trecento metri, lasciando senza casa 35.000 famiglie; vengono saccheggiati depositi militari e distrutti impianti industriali; si mettono a fuoco l’Ilva di Bagnoli ma anche i grandi alberghi del centro in via Partenope (Excelsior, Santa Lucia, Vesuvio, Royal, Vittoria). Le “quattro giornate” di Napoli, quindi, sono un evento assai più esteso cronologicamente: gli scontri dureranno tutto il mese.
Oggi si riconosce quasi unanimemente che, con questo evento, «si è in presenza di un episodio di lotta armata da inscrivere nella guerra partigiana. L’antifascismo propriamente inteso arriva dopo».
È naturalmente la guerra a catalizzare la ribellione, che coinvolge tutto il popolo, donne e uomini, ragazzi e anziani, impiegati e studenti, lavoratori e intellettuali, soldati e ufficiali. Le agitazioni si diffondono nei quartieri di antica tradizione antifascista e nei rioni borghesi. Già il 22 settembre al Vomero gruppi di civili si impadroniscono delle armi abbandonate dal regio esercito, e l’indomani solo 150 persone si presentano al servizio di lavoro obbligatorio imposto dal colonnello Walter Scholl con la minaccia di fucilare i 30.000 renitenti; il 26 sono le donne ad assaltare i camion che dovrebbero trasportare i rastrellati. Il terrore della deportazione forzata spinge all’insurrezione generalizzata.
Si insorge perché stanchi delle angherie dei tedeschi – dal 23 al 24 settembre oltre 200.000 napoletani si ritrovano senza casa per l’evacuazione forzata di alcuni quartieri –, ci si batte per impedire l’invio di migliaia di “schiavi” nelle officine belliche del Terzo Reich, per scongiurare la riduzione della città a “fango e cenere”, ma anche sotto la spinta di imperativi civili e politici, che ispirano la scelta di affrontare a viso aperto i “moderni unni meccanizzati” nonché i “cainifascisti”, sulla cui presenza – ci si riferisce soprattutto al ruolo dei cecchini – spesso è caduto il silenzio.
Sono 17 i gruppi rionali armati che si formano in quei giorni e tra essi ci sono oltre 700 militari e una cinquantina di ufficiali e sottufficiali. Si combatte dappertutto: al Vomero come a piazza Garibaldi, a piazza Trieste e Trento come a Capodimonte e nei sobborghi, a Ponticelli come a Piscinola, a Barra come a Soccavo. I cittadini coinvolti sono oltre 2000, in molti casi adottano tecniche di guerriglia che prendono alla sprovvista i tedeschi e li costringono alla ritirata; è la prima città europea a liberarsi da sola. Le quattro giornate di Napoli «nacquero come moto spontaneo ma svilupparono processi di organizzazione, nacquero come rivolta spontanea di resistenza civile e raggiunsero l’obiettivo di impedire la deportazione degli oltre ottomila napoletani rastrellati. Nel corso degli eventi acquisirono la configurazione di rivolta armata».
Tra i gruppi che partecipano alla battaglia si distingue il Fronte unico rivoluzionario – che ha sede nei locali del Liceo Sannazzaro – costituito dal professor Antonio Tarsia in Curia, ma tra i tanti protagonisti merita una speciale menzione Maddalena “Lenuccia” Cerasuolo, protagonista degli scontri armati al quartiere Materdei e in difesa del Ponte della Sanità – dove opera anche suo padre, sotto la guida del tenente colonnello Ermete Bonomi – e che da ottobre collaborerà con i servizi britannici del SOE partecipando a diverse missioni fino al febbraio del 1944. L’insurrezione del rione Materdei viene ricordata per lo scontro decisivo sul ponte, minato dai tedeschi, costretti a ritirarsi senza poter farlo esplodere, per i tram rovesciati a impedire l’avanzata dei carri Tigre che scendevano da Capodimonte, per il dodicenne Gennaro Capuozzo, ucciso dopo aver aiutato a sparare con un mitragliatore da un terrazzo, cugino di Lenuccia e medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
L’ultima rappresaglia tedesca viene attuata il 1° ottobre, con un fuoco di artiglieria da Capodimonte accompagnato da azioni isolate di nuclei fascisti. Con la ritirata germanica, la violenza si sposta altrove, mentre nello stesso giorno, nel primo pomeriggio, entrano a Napoli i reparti corazzati della 5a Armata, accolti da una folla in festa che aveva già reso onore ai propri caduti per la libertà.
Anche in una zona limitrofa, quella di Salerno, vi furono scontri, morti e feriti. Qui, accanto all’opera instancabile in aiuto di soldati sbandati e prigionieri alleati fuggiti (mentre soccorre un ferito, viene uccisa la crocerossina Filomena Galdieri), scoppiano rivolte contadine culminate nella proclamazione della Repubblica di Sanza, il 10 ottobre. «Un anziano contadino antifascista, Tommaso Ciorciari, fu nominato sindaco; i dipendenti comunali ritenuti responsabili di aver vessato i contadini vennero licenziati in tronco, mentre le terre del latifondista locale venivano occupate». Un mese dopo l’avventura finisce, e il sindaco e trenta braccianti verranno condannati dalla giustizia del Regno del Sud.
Negli stessi giorni dell’insurrezione di Napoli, in Abruzzo avviene uno scontro armato poi ricordato da Parri come il primo conflitto «nostro in campo aperto» contro i tedeschi. Ha luogo a Bosco Martese, a 1400 metri d’altezza e a 40 chilometri da Teramo, dove si sono radunati dopo l’8 settembre centinaia di giovani: «ci sono carabinieri, soldati, civili italiani, ex prigionieri alleati, slavi, apolidi, ex internati politici, comunisti, socialisti, monarchici, azionisti, borghesi, contadini, artigiani, intellettuali, operai. Uno spaccato di varia umanità accomunata dalla consapevolezza che il tedesco è il nemico di tutti». Il comando di questo insieme eterogeneo di gruppi è affidato al capitano dei carabinieri di Teramo, Ettore Bianco. Il 25 settembre, su segnalazione di una spia (linciata dalla folla senza che intervengano i tedeschi), una colonna motorizzata tedesca, che ferma alcuni patrioti incontrati casualmente, viene attaccata dai partigiani che distruggono venti autoblindo e catturano il maggiore Rhodas Hartmann, comandante della Wehrmacht. Le azioni di rastrellamento e rappresaglia, in seguito alle quali Hartmann verrà giustiziato, provocano alcuni morti, ma il grosso dei combattenti, divisi in gruppi, continuerà la lotta fino alla liberazione di Teramo nel giugno 1944.
Anche solo a scorrere nomi, luoghi, partecipanti e dinamiche delle azioni di lotta e di contrasto all’occupazione tedesca avvenute nel mese di settembre – e di cui qui se ne sono ricordate pochissime tra le più importanti – si può concludere con quella che oggi sembra una constatazione ampiamente condivisa: la Resistenza è stata molteplice, articolata, sfaccettata, è stata l’insieme di scelte e comportamenti differenti che si sono intrecciati e sommati in un arco di tempo molto compresso (venti mesi). Anche solo nel primo caotico mese essa ha avuto tappe e tipologie diverse, che si sono accavallate nel tempo con grande rapidità e che hanno mostrato la versatilità e l’ampiezza delle possibilità di lotta e di solidarietà nella battaglia contro il nazifascismo. Nei mesi successivi prevarranno tipologie più marcate e definite, che diventeranno più facilmente il simbolo – anche visivo, anche nell’immaginario – di tutta la Resistenza.
L’ampiezza e la diversità che si manifestano in questo primo mese, di reazione all’occupazione tedesca ma anche al ritorno in forma di regime collaborazionista di Mussolini e dei fascisti, e di lontananza, ostilità e disagio per il comportamento della monarchia e dei comandi militari, rimarranno comunque un segno distintivo che la Resistenza si porterà dietro in tutti i venti mesi che condurranno alla Liberazione. Ogni partigiano, patriota, armato o disarmato che sia, soprattutto in queste prime settimane, ha una propria idea di cosa significhi «resistere» al nazifascismo, all’occupazione, al disonore, alla vigliaccheria. Ma tutti hanno in comune un obiettivo semplice e chiaro: la riconquista della libertà, la fine dell’incubo totalitario in cui è precipitata l’Europa intera tra il 1939 e il 1943.
Esumazione e distruzione delle salme degli ufficiali trucidati a Cefalonia
Io sottoscritto Sabattini Alberto, dichiaro di aver personalmente assistito al trasporto di oltre 200 salme da San Teodoro al porto di Argostoli, e questo avvenne come segue:
La sera del 27 settembre 1943, verso le ore 21, fui chiamato da alcuni graduati tedeschi per seguire da vicino, con la mia automobile, una loro macchina; nei pressi di San Teodoro ci siamo fermati e subito dopo la macchina che mi precedeva partiva, mentre io fui trattenuto.
Davanti a me, un po’ a destra, da un’incavatura naturale abbastanza profonda, perveniva un grandissimo fetore. Nelle immediate vicinanze si trovavano un autotreno con un autista italiano, attorno al quale lavoravano in silenzio alcuni marinai italiani, mentre 7 o 8 tedeschi assistevano imperterriti, con le pistole in pugno, a quel macabro andirivieni.
Il mio compito – disse un ufficiale tedesco – era di proiettare la luce dei fari della mia auto carretta nell’interno delle buche e che scegliessi il posto migliore per tale scopo. Quando il posto fu illuminato, ciò che vidi mi impressionò talmente che mi imposi di non guardare mai più da quella parte. Ma involontariamente l’occhio scrutava: corpi inanimati, deformi ed irriconoscibili, giacevano senza ordine, senza posa, senza cura uno sopra l’altro, imbevuti nel sangue. Erano gli ufficiali italiani fucilati in precedenza.
I marinai, muniti di barelle, portavano i cadaveri dalla buca all’autotreno. Quando l’autotreno fu carico, venne fatto partire, accompagnato da due tedeschi. Ma un altro autotreno arrivava con la stessa missione, partito il secondo, arrivò di nuovo il primo e seppe dall’autista quanto segue: le salme dei nostri ufficiali venivano trasportate dal luogo della fucilazione al porto di Argostoli per essere caricate su uno zatterone tedesco; ogni autocarro ne trasportava 32-33. I marinai che lavoravano nella buca facevano parte della batteria marina costiera di Faraò. Quando il quarto autotreno fu ultimato, il lavoro fu cessato e con l’autocarretta io trasportai italiani e tedeschi alla casetta rossa, dove noi italiani siamo stati piantonati da due guardie tedesche: erano le 4 del nascente 28 settembre. […] I marinai rimasero al porto e da allora nessuno li ha più visti.
NB – Posso aggiungere che le fosse di San Teodoro contenevano 18 salme di marinai, esumate il 25 ottobre 1944 alla mia presenza. Ciò potrebbe spiegare perché quei marinai di cui parla il Sabattini non furono più visti.
24 ottobre 1944 Il cappellano militare p. Luigi Ghilardini
Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, Mursia, Milano 1968
IV.
Il tempo delle scelte
Gli sconvolgimenti dell’autunno 1943 pongono l’imperativo delle scelte, ossia la necessità di prendere posizione dinanzi all’occupazione tedesca, alla ripresa del fascismo in forma repubblicana, alle prime manifestazioni di resistenza. Fattori ambientali, appartenenze familiari, frequentazioni amicali, retroterra personali si intrecciano e si sovrappongono nel determinare atteggiamenti e coinvolgimenti nella fase di incubazione della guerra civile, sotto la pressione di circostanze imprevedibili e spiazzanti.
Tra quanti sciolgono pubblicamente questo nodo, vi è il magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova, Concetto Marchesi, che il 9 novembre 1943, nella cerimonia d’apertura dell’anno accademico, tiene un discorso ambiguo apprezzato anche dalle autorità della RSI, per poi passare alla clandestinità e rivolgere un fiero appello antifascista alla gioventù italiana (trascritto in chiusura del capitolo).
I due principali filoni alla base della Resistenza sono quello dell’antifascismo storico, sconfitto nella prima metà degli anni Venti e sopravvissuto – con qualche innesto – tra carcere, confino ed esilio, e quello di una parte della gioventù, indottrinata nel ventennio mussoliniano e gettata al macello nella seconda guerra mondiale, che passa risolutamente all’opposizione, sentendosi ingannata dal duce. La guerra disillude anche molti fascisti, alcuni dei quali – soprattutto quelli legati idealmente alla dimensione rivoluzionaria – passano dalla fronda al dissenso e infine alla contrapposizione.
Ernesto Rossi, resistente di lungo corso
Ernesto Rossi (1897-1967), prima di diventare un personaggio tra i più rappresentativi dell’antifascismo non comunista, vive e attraversa le contraddizioni di tanti giovani maturati anzitempo nelle tragedie della trincea, segnati nel corpo dalle ferite e nello spirito dalla morte di tanti amici. Partecipa volontario diciannovenne alla Grande Guerra, infervorato da idealità democratiche coniugate con le aspirazioni al completamento dell’unità nazionale, viene ridotto in fin di vita e rimane mutilato. Nell’immediato dopoguerra pubblica articoli di natura economico-finanziaria su «Il Popolo d’Italia», «l’Unità» e «La Rivoluzione Liberale». Si avvicina nel 1919 al nascente movimento dei Fasci italiani di combattimento, staccandosene però prima della marcia su Roma. Nel 1923 fonda con i fratelli Rosselli il Circolo di cultura di Firenze, la cui sede viene distrutta l’anno successivo dalle camicie nere. Svolge attività clandestina nel movimento Italia Libera e anima nel 1925 con Gaetano Salvemini il giornale murale «Non Mollare», stroncato dalla polizia dopo diversi mesi di indagini. Docente di economia in un istituto superiore di Bergamo, conduce una doppia vita e nel 1928 costituisce a Milano un gruppo clandestino repubblicano con Riccardo Bauer, Vincenzo Calace, Umberto Ceva, Ferruccio Parri, Dino Roberto e altri intellettuali di estrazione borghese. I cospiratori, legati al centro parigino di Giustizia e Libertà, da cui ricevono opuscoli e materiale propagandistico, estendono la loro rete in varie città centro-settentrionali, finché il 30 ottobre 1930 il tradimento dell’avvocato Carlo Del Re (che vende i compagni al capo della polizia, in cambio di grosse sovvenzioni) determina decine di arresti e lo sradicamento del Centro interno giellista. Imprigionato a Regina Coeli, Rossi rivendica la propria opposizione:
Sono nettamente e decisamente antifascista; gli stessi principi democratici liberali che già mi condussero a fare la guerra quale volontario nella ferma idea di combattere la Germania, nella quale vedevo una forma di oppressione anti-liberale, e che mi condussero ad oppormi al bolscevismo nel periodo immediatamente dopo la guerra, gli stessi principi demo-liberali, ripeto, mi hanno portato dalla marcia su Roma in poi ad assumere una posizione nettamente contraria al fascismo.
Condannato a vent’anni, subisce una carcerazione durissima, con periodi di isolamento e riduzione del vitto per l’irriducibilità alle soperchierie carcerarie. Assegnato nel novembre 1939 al confino quale “elemento socialmente pericoloso”, nell’isola di Ventotene approfondisce con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli l’analisi della situazione europea, scrivendo nel 1941 l’appello ai resistenti «Per un’Europa libera e unita», poi divenuto noto come Manifesto di Ventotene.
Nel 1942 anche sua moglie Ada, docente di matematica a Bergamo, finisce al confino. A inizio luglio 1943 viene ricondotto da Ventotene a Regina Coeli in regime di isolamento con Riccardo Bauer e Vincenzo Calace, nell’ambito di una montatura per attribuire ai giellisti la strage della Fiera campionaria di Milano del 12 aprile 1928. Crollato il regime, il 30 luglio torna libero e si reca nell’abitazione della madre di Altiero Spinelli, dove trova Colorni e altri federalisti, che redigono il secondo numero del giornale «l’Unità Europea», critico del governo Badoglio e della prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti: Rossi vi pubblica uno scritto intitolato Le tendenze federaliste. Viene poi preparato un volantino con la richiesta di abdicazione del re e l’appello alla mobilitazione antitedesca: è il primo documento pubblico distribuito in Italia evocante la Resistenza. In serata Rossi viene imprigionato con due compagni per la distribuzione di questo volantino, ma, dopo averne verificato la recentissima scarcerazione, lo si libera per la seconda volta nel giro di poche ore.
I quaranta giorni del governo Badoglio sono vissuti in un vorticoso susseguirsi di riunioni private e di attività pubbliche tra Roma, Firenze, Torino e Milano, per recuperare i 12 anni di segregazione inflittigli dal regime. Dopo alcune titubanze aderisce al Partito d’Azione, sostenendovi la linea di incompatibilità con il Partito comunista, nell’ottica di una coalizione democratico-socialista-repubblicana che respinga l’egemonia comunista sull’antifascismo, con un programma che coniughi in una prospettiva federalista l’opposizione al nazifascismo. Trova affinità, tra gli altri, con Enzo Enriques Agnoletti, Piero Calamandrei, Eugenio Colorni, Leone Ginzburg, Ada Gobetti, Mario Alberto Rollier. Riprende i contatti epistolari con Altiero Spinelli, liberato a inizio agosto 1943. Condivide il progetto di Colorni, entrato nel Partito socialista per condizionarlo in senso federalista. È invece distante da altri azionisti, per esempio Ugo La Malfa, critici della priorità federalista, concepita da Rossi quale piattaforma su cui fondare il nuovo assetto continentale, in un’Europa pacificata e senza nazionalismi. A metà agosto organizza una riunione a Monte Oriolo, in una casa di parenti, sulle colline di Firenze, per discutere della fondazione del movimento federalista; vi partecipano anche Colorni e Rollier, che il 28 agosto sono a Milano, con Altiero Spinelli e una ventina di altri militanti.
A inizio settembre Rossi partecipa a Firenze al congresso costitutivo del Partito d’Azione, poi si reca a Bergamo, dove incontra un gruppo di giovani sensibilizzati al federalismo da Ada Rossi.
La sera dell’8 settembre, pur febbricitante e afflitto da esaurimento psicofisico per il peso degli anni di prigionia e confino, e per l’intenso impegno profuso nelle settimane trascorse in libertà, è l’oratore al raduno popolare tenutosi alla Torre dei Caduti alla notizia dell’armistizio. Invita alla lotta antinazista in corso in tutta Europa e addita quale obiettivo politico la formazione degli Stati Uniti d’Europa. Rielabora quel discorso – intitolato Guerra al nazismo – per la pubblicazione sul terzo numero dell’«Unità Europea», edito clandestinamente a Bergamo.
L’esposizione pubblica pregiudica la sua permanenza a Bergamo, dove è in testa alla lista degli antifascisti da arrestare. Recatosi a Milano per collegarsi ai primi nuclei di resistenti, si ritrova isolato e ripara in Svizzera, per riprendere le fila dell’azione federalista. Il 17 settembre partecipa a Lugano al primo incontro tra emissari della Resistenza italiana e Alleati, alla presenza dei direttori dello Special Operations Service (SOE) John McCaffery e dell’Office of Strategic Services (OSS) Allen W. Dulles. Al secondo appuntamento, il 3 novembre, intervengono anche Ferruccio Parri e Leo Valiani; in quell’occasione viene distribuito agli angloamericani un memoriale elaborato da Rossi, ispirato alle posizioni azioniste e con riferimenti alla visione postbellica di «un nuovo ordine europeo che consenta il pacifico sviluppo dei diversi Paesi del continente entro le direttive generali espresse dalla carta Atlantica».
In ottobre si stabilisce con la moglie a Lugano e nel marzo 1944 a Ginevra. Insieme a Spinelli svolge un’intensa opera propagandistica e organizzativa federalista, con interlocutori quali Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Ignazio Silone e Umberto Terracini. Scambia con Gaetano Salvemini – in esilio negli Stati Uniti – lunghe lettere e densi memoriali sulla situazione politica. Nell’estate 1944 cura per «l’Unità Europea» la Dichiarazione federalista internazionale dei movimenti della Resistenza Europea. Lavora intensamente tra Lugano e Ginevra, a contatto con la delegazione elvetica del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI), finché il 19 aprile 1945 rimpatria e si stabilisce a Milano, collegandosi al partigianato azionista. Il suo sguardo si spinge costantemente ai futuribili assetti del dopoguerra, che vorrebbe fondati sui valori della pace e della collaborazione tra i popoli, cui dedica L’Europe de demain (revisione e traduzione di Gli Stati Uniti d’Europa, saggio apparso qualche mese prima in italiano). Si rende peraltro conto della divaricazione esistente tra gli ideali federalisti e le logiche di potenza sottese ai rapporti politico-militari tra gli stessi Alleati. Nonostante comprenda che la rivoluzione democratica da lui auspicata sia lungi dal realizzarsi, è tra i promotori a Ginevra di organismi quali il Comité provisoire pour la Fédération Européenne (giugno 1944) e il Centre d’action pour la Fédération Européenne (dicembre 1944) che, nati dopo gli incontri ginevrini tra i movimenti della Resistenza europea, consentono di mantenere vive le relazioni con i federalisti elvetici e gli emissari del maquis francese, in preparazione del primo Congresso federalista internazionale, svoltosi nel marzo 1945 nella Francia liberata, a Parigi, presso la Maison de la Chimie.
Il socialismo come redenzione: l’architetto Giuseppe Pagano
Vi sono personaggi essenziali per comprendere le contraddizioni e le ricchezze, le varie fasi sperimentate in una vita, nell’Italia tra la prima e la seconda guerra mondiale. Uno di essi è sicuramente l’architetto Giuseppe Pagano Pogatschnig (Parenzo, 1896-Melk, 1945), la cui esistenza, straordinariamente avventurosa e significativa, si dipana dalla Grande Guerra al fascismo, dalla campagna di Grecia alla guerriglia partigiana, dal carcere alla deportazione, con un eccezionale lavoro nei campi dell’architettura e dell’urbanistica, segnato da linearità e discontinuità, da compromessi anche dolorosi – in particolare il rapporto con Marcello Piacentini –, atteggiamenti in parte connaturati al suo temperamento irruente e in parte condizionati dai processi storici. Il rapporto con il fascismo passa dall’adesione giovanile all’impegno politico durante gli anni Trenta in battaglie culturali coniugate con una forte sensibilità sociale; alla disillusione segue – quale logica conseguenza – la lotta aperta.
Originario dell’Istria, si batte per il compimento dell’unità nazionale, nella posizione di “traditore” vissuta da Cesare Battisti e da altri intellettuali di nazionalità austroungarica. A inizio 1915 varca illegalmente il confine per arruolarsi nell’esercito italiano; in quella circostanza cambia il cognome da Pogatschnig in Pagano. Ferito in combattimento, viene catturato due volte e per due volte fugge dai campi d’internamento. Nel dopoguerra è tra i fondatori del fascio del suo paese natale, Parenzo; partecipa all’occupazione dannunziana di Fiume.
Laureatosi nel 1924 al Politecnico di Torino, intraprende un’attività professionale che dal 1927 – con la nomina a capo dell’Ufficio tecnico dell’Esposizione internazionale di Torino – lo vede impegnato a promuovere un’architettura razionale. Un’attività che, affiancata alla collaborazione alla rivista «La Casa Bella» (di cui è redattore dal 1930, direttore dal 1939), lo schiera contro monumentalismo e accademia, per un’architettura aperta alla tradizione modernista europea e al servizio delle esigenze sociali, per il miglioramento della qualità della vita. Individua in Mussolini l’artefice del rinnovamento nazionale ed è direttore artistico della Scuola di mistica fascista.
Secondo il suo collega Ernesto Nathan Rogers: «La fede nell’architettura spinse e guidò Pagano nella pericolosa strada del collaboratore prima, del dissidente poi e infine dell’avversario del fascismo». Il distacco avviene anzitutto sul terreno dell’architettura, con il rifiuto del concetto di romanità esaltato dal duce e il sequestro della rivista «Costruzioni-Casabella» per scritti politicamente scorretti.
Pagano partecipa come volontario alla campagna di Grecia. Richiamato alle armi nel 1942 con il grado di colonnello, esce dal Partito nazionale fascista e dalla Scuola di mistica fascista. È la formalizzazione della fine del lungo viaggio dentro il fascismo. Inadatto a mediazioni e mezze misure, diviene un risoluto oppositore, con il risentimento accumulato in anni di frustrazioni. Nel periodo badogliano diffonde il giornale clandestino «Avanti!» e svolge azione propagandistica nell’esercito. Su «Costruzioni-Casabella» dell’agosto 1943 invita gli artisti italiani
a quell’azione pratica e personale che si svolgerà in circostanze certamente eccezionali e che richiederà ad ognuno di noi un impegno morale elevatissimo, un’obbedienza assoluta alla voce della coscienza, una coerenza rigorosa con la missione che ognuno di noi si è prescelta, impegnando tutta la nostra vita e la nostra arte a quel bel modo di pagar di persona che i nostri uomini del risorgimento, da Cattaneo e Pisacane, ci hanno opportunamente insegnato.
L’8 settembre 1943, quando la divulgazione dell’armistizio senza direttive chiare getta le forze armate italiane nel caos, Pagano si trova a Milano e propugna l’azione armata contro i tedeschi. L’esperienza si dimostra poco produttiva, in quanto il comandante della Piazza, generale Vittorio Ruggero, promette agli antifascisti la distribuzione delle armi ma poi le consegna ai tedeschi. Dopo aver organizzato in Lombardia i primi nuclei delle Brigate Matteotti, Pagano ritorna a Carrara, dove aveva prestato servizio militare, per allestire una rete clandestina nelle caserme; la sera del 9 novembre viene catturato all’esterno di una postazione della Milizia, armato di pistola. Deferito al Tribunale speciale, nell’attesa del processo è trasferito al carcere di Brescia, dove rimane otto mesi. Il curriculum combattentistico e la trascorsa militanza fascista potrebbero fargli ottenere la liberazione, al prezzo di un adattamento opportunistico, tanto più che qualche gerarca – segnatamente l’ex segretario fascista Scorza – vorrebbe giovargli in nome della vecchia amicizia, ma Pagano scarta questa strada: «Non posso né voglio assolutamente nessuna soluzione di compromesso. Preferisco prendermi i miei trent’anni di galera piuttosto che dichiararmi pentito o magari filofascista. Ormai Basta! con queste porcherie!». Durante la prigionia studia un sistema di prefabbricazione della casa, documenta con tre rullini fotografici la condizione carceraria e commenta nel suo diario il tentativo di legittimare il fascismo di Salò con l’appello ai programmi socialistoidi del 1919:
Chi comanda ha confusa la responsabilità morale del potere con la libidine di un arbitrio assurdo, pazzescamente illusi di essere investiti da un destino grottesco di dominio su tutti e su tutto, come se non bastasse l’evidente sfiducia di tutta la maggioranza degli italiani per questo regime di volta-gabbane che si trasforma adesso in un grande stato socialista e repubblicano, copiando come gli scolaretti testoni quel che non vollero capire in tempo utile.
Durante un bombardamento notturno, alle tre di mattina del 13 luglio 1944, evade con circa duecento detenuti. Riacquistata la libertà, torna a Milano, dove prende la direzione delle Brigate Matteotti. Nei primi giorni di vita clandestina si fa fotografare in posa sarcastica, con un gesto di sfregio per i suoi ex carcerieri.
Scrive per la stampa clandestina Reazione artistica in berretto frigio, contro Ugo Ojetti (vicepresidente dell’Accademia d’Italia) e gli intellettuali collaborazionisti, suggellato da una frase emblematica: «Ormai tutto è chiaro: da una parte il nazismo con la sua corte di sguatteri nostrani; dall’altra la gente che non vende la propria coscienza e che lavora e sogna e opera “come ditta dentro”». Un breve e intenso interludio di libertà. La sera del 5 settembre partecipa a una riunione del Partito socialista e concorda per l’indomani mattina un appuntamento cospirativo, ma tre traditori informano la Banda Koch – formazione di polizia speciale al servizio dei nazisti – che lo cattura. Imprigionato nella cella n. 4 della palazzina di via Paolo Uccello n. 17-19 (Villa Triste), viene ripetutamente torturato. Rilasciato a fine mese sulla parola con Eugenio Dugoni (futuro deputato socialista alla Costituente e sindaco di Mantova) e Alessandro Nardini, per trattare con i dirigenti socialisti milanesi la liberazione di alcuni prigionieri in cambio dell’incolumità per Pietro Koch, quando l’iniziativa si rivela infruttuosa rientra nella prigione, per evitare rappresaglie sui suoi compagni (differentemente da Dugoni e Nardini, che scelgono la libertà).
L’atmosfera di terrore respirata a Villa Triste è descritta nel memoriale elaborato da Pagano nell’autunno 1944, appena uscito da quell’esperienza:
Lo sgomento che afferrava immediatamente ogni detenuto, era lo stato d’animo che regnava nei sotterranei: disperazione di non potersi difendere; inutilità di ogni tentativo di sincerità; panico continuo per ogni rumore e per ogni passo che rimbombava sulle nostre teste; disagi continui di chi doveva dormire sul cemento, a mucchi, con un solo materasso ogni 8 prigionieri. E per di più i lamenti dei feriti febbricitanti, parecchi con costole rotte; allucinanti angosce dei più terrorizzati e disperate paure per le probabili future torture che si sarebbero svolte nella notte. Era difatti la notte che si raggiungeva il colmo delle nostre sofferenze. Non si poteva dormire: sopra di noi, al piano rialzato, si svolgevano gli “interrogatori”: si sentivano i colpi delle cadute, l’urto dei corpi sollevati e buttati a terra; rimbombavano nel sotterraneo gli urli e le minacce, e ognuno di noi viveva le stesse sofferenze del compagno che era “di sopra”.
Durante la carcerazione, anima il collettivo dei detenuti con utopiche descrizioni della città del futuro, in conversazioni che si sviluppano con il contributo dei compagni di pena, molti dei quali avvocati e insegnanti di fede socialista. L’ex deputato bresciano Guglielmo Ghislandi descriverà quei momenti di vita comune, sospesi tra l’incertezza del presente e la fiducia nell’avvenire:
L’architetto amava portare la conversazione sulla sua arte e descrivere a se stesso e a noi la visione di un’Italia nuova e rinnovata anche nelle sue esigenze edilizie ed urbanistiche. Ci parlava di un suo progetto di città-giardino, a immagine e somiglianza di quanto egli aveva visto ed ammirato nei suoi viaggi nei più progrediti paesi di Europa, specialmente in Svezia: case ampie, chiare di pitture esterne ed interne, con locali razionalmente disposti, secondo la tecnica più moderna, accoppiata a opportuni ma non ristretti criteri di economia, finestre amplissime da cui entrasse il beneficio dell’aria purificata dal verde tutt’attorno e dove la luce, la luce, la luce dominasse risanatrice sovrana.
Pagano aveva chiamato quel suo progetto Città Verde; qualcuno di noi disse: «Meglio forse Città Luce, perché, ancora più del verde, pur tanto necessario ed augurabile, la luce costituirebbe la caratteristica più significativa in quelle case e città di un’Italia futura, finalmente libera e redenta». «Luce» aggiunse altri «che non sarà dunque soltanto di sole, ma di nuova civiltà e di nuova storia». «Luce» concludemmo quindi, tutti o quasi tutti, «di socialismo, perché soltanto in una società socialista sarebbero possibili iniziative tanto grandiose e concrete di rinnovamento della nostra terra e della nostra gente».
Ed ecco Città Luce significare per noi, dopo di allora, qualche cosa di assai più vasto che non il geniale, ma limitato, progetto di un architetto urbanista, e cioè la visione non di una sola città-modello, ma di tutta una nazione risorta sulle vie del più luminoso progresso e benessere civile e sociale; la realizzazione concreta di un ideale e, in definitiva, l’ideale stesso della nostra fede, della nostra lotta, del nostro sacrificio. Insomma: Città Luce = Socialismo.
Pagano prepara un piano di fuga, fallito a causa del trasferimento dei prigionieri a San Vittore. Il 9 novembre viene internato nel campo di Gries, alla periferia di Bolzano, e il 22 novembre è deportato a Mauthausen. Dopo un paio di settimane è assegnato al sottocampo di Melk, vicino a Linz. Il lavoro coatto nelle miniere è inasprito dalle percosse di un guardiano, che gli provocano broncopolmonite traumatica e febbre alta.
Ricoverato nell’infermeria in condizioni disperate, scrive un testamento morale sui due lati di un foglietto, ricoperto con grafia fitta e irregolare, affidato a Alessandro Nardini (al termine della guerra, lo consegnerà ai familiari). «Non piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa. Pago di persona», scrive alla moglie Paola, sintetizzando le contraddizioni del proprio itinerario esistenziale. «Ricordatemi bene uomo vivo e pieno di volontà. Sono stato stroncato di violenza», confida al fratello Zanetto, mentre il suo tempo si consuma: «Non posso né voglio scrivere di più». All’architetto Palanti affida la propria eredità spirituale. Le righe finali, leggibili solo a tratti, ribadiscono la fede socialista e la propria dignità: «Ho dato la vita per il Partito e ne sono fierissimo. Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A Voi continuare bene e meglio. Addio». Si spegne il 22 aprile 1945. In un altro sottocampo di Mauthausen, Gusen, erano morti due suoi amici e collaboratori: in gennaio il critico Raffaello Giolli, a inizio aprile l’architetto Gian Luigi Banfi.
Teresio Olivelli, da littore della razza a Fiamma Verde
Negli anni Trenta, gli ecclesiastici sono un vettore di consenso al regime. Dal rettore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, Agostino Gemelli, all’influente gesuita Pietro Tacchi Venturi, dall’arcivescovo di Milano cardinale Schuster al più umile parroco di campagna, il clero italiano omaggia “l’uomo della Provvidenza”, che ha riconciliato Chiesa e Stato con il Concordato del 1929 e schierato l’Italia nella crociata antibolscevica in terra di Spagna. Il clerico-fascismo è un tratto distintivo della pedagogia del regime, che condiziona profondamente la gioventù.
Teresio Olivelli, nato nel 1916 a Bellagio (Como) in una famiglia di commercianti, dispiega un notevole attivismo nelle organizzazioni cattoliche e in quelle di regime. Crede che nell’Italia di Mussolini si costruisca una nuova civiltà rispettosa dei valori comunitari cristiani, alternativa a quella basata sui precetti dell’individualismo liberale e pure al modello collettivista sovietico.
Laureatosi in Giurisprudenza a Pavia nel 1938, attivista della Gioventù universitaria fascista (GUF), l’anno successivo vince con una dissertazione sul razzismo il concorso di Dottrina del Fascismo ai Littoriali della cultura. La sua concezione della “razza italiana” si richiama alla Roma imperiale e alla tradizione della Chiesa cattolica.
Nel maggio 1940 diviene segretario dell’Ufficio studi e legislazione del Partito nazionale fascista, nonché delegato del PNF nel Consiglio superiore della demografia e della razza presso il ministero dell’Interno. Quell’estate frequenta a Berlino il corso di politica nazionalsocialista per stranieri. In ottobre, quando l’Italia combatte al fianco della Germania, è relatore al primo Convegno interuniversitario italo-tedesco di studi politici. Nel febbraio 1941 torna a Berlino per un nuovo corso di politica nazionalsocialista.
Alberto Caracciolo, suo primo biografo, crede che il fascismo di Olivelli non si possa spiegare come un tentativo di influenzare il regime in senso cattolico:
Bisogna anche dire che questo sforzo egli non [lo] compì dall’esterno, che il tentativo di modificare segue a una reale immedesimazione in quel mondo: in altre parole, mentre tenta di trasformare il fascismo, egli ne assorbe le idee, lo spirito, lo stile stesso. Sarebbe errato pensare il suo fascismo come una posizione puramente strumentale rispetto al suo cristianesimo.
L’esigenza etica di coniugare idee e comportamenti concreti lo spinge a presentarsi volontario di guerra, per il fronte russo, dove entra in azione nel luglio 1942, rimpatriando il 20 marzo 1943.
Torna dalla guerra profondamente disilluso e ora valuta il fascismo come un’infausta dittatura, i cui danni vede rispecchiati nelle città semidistrutte dai bombardamenti e nel dilagante deficit morale.
Inviato in licenza da aprile a luglio, ottiene dal ministro Bottai l’incarico di rettore del Collegio “Ghislieri” di Pavia.
Tornato al suo reparto, dislocato a Vipiteno, in Sud Tirolo, a metà settembre è catturato e internato nei pressi di Salisburgo. Evade il 20 ottobre 1943 e l’11 novembre giunge a Brescia, dove contatta alcuni intellettuali cattolici promotori del movimento delle Fiamme Verdi e dopo una decina di giorni si trasferisce a Milano presso l’ingegner Carlo Bianchi (titolare di un’azienda cartografica), accanto al quale esplica un rilevante lavoro organizzativo in Lombardia. Con Bianchi – figura chiave della Resistenza cattolica lombarda, ancorché trascurato dalla storiografia – nel febbraio 1944 promuove il giornale clandestino «il Ribelle», distribuito clandestinamente a inizio marzo e che sul numero d’esordio riporta il motto «Insorgere per risorgere». Sul secondo numero Olivelli spiega il programma dei ribelli («così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo»), chiarendo che l’8 settembre 1943 è nata l’autentica Patria, aperta all’umanità decisa a strappare le catene delle dittature:
L’8 settembre è uno spartiacque: di qui rampolla e dirompe la vita nuova della nazione che ci divampa nello spirito, s’illumina di verità, freme nell’azione. Per chi non ne sente il flusso suggestivo e possente e lo disperde nei fondigli dell’animo o nell’impotente pettegolezzo, per i complici, i titubanti, i frigidi, non c’è posto. […] Uno è il dato di partenza nella sua crudezza veritiera: niente più c’è da salvare. La parola d’ordine è ricostruire, scartando le ambigue esitazioni. […] Lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non ci sono “liberatori”. Solo uomini che si liberano. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti e del lavoro, nei popoli e fra i popoli, anche quando le scadenze paiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti, anche se il successo immediato non conforta il teatro degli uomini, perché siano consapevoli che la vitalità d’Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di resurrezione, di combattimento, nel nostro amore.
Al giornale è allegata la Preghiera del ribelle, nella quale traspare l’ispirazione cristiana che sorregge Bianchi e Olivelli:
Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa, a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita, dà la forza della ribellione. […]
Tu che dicesti: «Io sono la resurrezione e la vita» rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie!
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.
Il 26 aprile 1944 l’arresto di un collaboratore della rete partigiana cattolica, il medico Giuseppe Jannello, da parte dell’Ufficio speciale di polizia, organizzato da Luca Osteria sotto protezione tedesca, si rivela gravido di conseguenze. Il prigioniero cede al ricatto di ritorsioni contro sua madre e – lusingato dalla prospettiva della liberazione – attira con una telefonata Bianchi e Olivelli a un appuntamento, nel quale l’indomani saranno entrambi catturati. Le prove raccolte dagli investigatori contro i dirigenti del «Ribelle» convince don Giuseppe Bicchierai, elemento di raccordo tra l’arcivescovado e il comando germanico, a raccomandare al cardinale Schuster la massima prudenza, cioè a evitare un forte intervento in favore degli arrestati, rinchiusi nel frattempo a San Vittore (tra di essi figurano i tipografi Luigi Monti e Franco Rovida, e l’ex militare Rolando Petrini che – come Bianchi e Olivelli – verranno uccisi dai nazisti).
Dopo pochi giorni Olivelli invia di nascosto a Claudio Sartori (nuovo direttore del «Ribelle») un messaggio a tratti ironico e allusivo delle torture subite, indicandogli come limitare i danni inflitti dalla polizia alla rete partigiana.
Il 9 giugno è trasferito nel campo di Fossoli; l’11 luglio, selezionato per la fucilazione con una settantina di compagni, si nasconde arrampicandosi sulle travi del capannone; grazie alla copertura di alcuni internati si sottrae alle ricerche, ma viene scoperto durante la smobilitazione del campo. Il 5 agosto è trasferito a Bolzano e un mese più tardi deportato al sottocampo di Hersbruck. Oltre a lavorare nello scavo e nella sistemazione delle fognature del Lager, svolge mansioni di interprete e scrivano del blocco degli italiani. Muore il 17 gennaio 1945, per le conseguenze delle percosse inflittegli da un kapò polacco, irritato da un gesto di solidarietà verso un prigioniero ebreo. Il cadavere viene cremato e le ceneri disperse.
Come ha rilevato uno studioso della gioventù italiana tra dittatura e democrazia, «non solo la maturazione di una nuova coscienza critica, ma, soprattutto, la tragica e altruistica fine del giovane intellettuale cattolico valevano indubbiamente a riscattare gli errori e le ingenuità degli anni precedenti». Secondo la tradizione cattolica, molti biografi hanno evitato di confrontarsi con il problema della continuità esistenziale, contrapponendo la prima e la seconda vita di Olivelli, nel segno della conversione e del martirologio. E, per meglio esaltarne la figura, hanno sminuito se non ignorato il ruolo dell’altro artefice del «Ribelle», Carlo Bianchi, di cui Olivelli fu intimo collaboratore. Decorato con medaglia d’oro al valor militare alla memoria, il 3 febbraio 2018 Teresio Olivelli è stato proclamato beato ed è attualmente in corso il processo di santificazione.
La dimensione solidarista: Maria e Delfina Borgato
Nelle giornate caotiche seguite all’armistizio, quando ancora non si è delineata un’organizzazione resistenziale e sembra non esservi alternativa al predominio tedesco, vi sono migliaia e migliaia di persone solidali che, ognuna nel proprio ambiente, spesso in modo volontaristico e non coordinato, soccorrono i soldati fuggiaschi, li riforniscono di abiti borghesi e li ospitano, esponendosi in tal modo a forti rischi. Nella stragrande maggioranza si tratta di donne, spesso a loro volta madri, mogli o sorelle di soldati disseminati su fronti lontani dalla patria. Sono interventi spontanei, immediati e prepolitici, prestati per un senso di umanità a chi è braccato e ricerca vie di fuga. L’ambiente è costituito solitamente dalle vallate montane e dalla dimensione urbana, dove le caserme si svuotano l’8 settembre in una fuga generalizzata o divengono una trappola per chi vi si ferma. Non di rado le catene solidaristiche sono prestate da gruppi familiari di tradizione contadina.
Forme consimili di solidarietà, con grande esposizione a rischi, si attuano a favore degli Alleati prigionieri di guerra, fuggiti a migliaia dai campi di internamento, nelle giornate caotiche del post-armistizio.
Tra i tanti nuclei parentali espostisi in iniziative solidaristiche vi è la famiglia Borgato, residente nella borgata agricola di Saonara (una ventina di chilometri a est di Padova), dove è affittuaria di alcuni campi.
L’esistenza di Maria Borgato, nata nel 1898, prima di quattro figli, è segnata da una malformazione alla gamba destra, che la rende zoppicante e le impedisce di realizzare il sogno della sua vita: divenire suora. La sua tensione religiosa la porta tra le figlie di Sant’Angela Merici, come suora laica. Per mantenersi, ricama corredi e tovaglie, aiutando come può i familiari nei lavori campestri.
Nella temperie del settembre 1943, trova un’intesa operativa con il fratello Giovanni e con sua figlia Delfina, sedicenne cresciuta nei valori evangelici. L’abitazione dei Borgato si trasforma in ospitale rifugio per ex prigionieri alleati e soldati italiani sbandati. Zia e nipote li accompagnano nottetempo a Padova, da padre Placido Cortese, direttore del «Messaggero di Sant’Antonio», che alla Basilica del Santo produce documenti falsi e affida i fuggiaschi alla rete clandestina Fra-Ma per il trasferimento verso il confine elvetico, in contatto con i professori Ezio Franceschini dell’Università Cattolica di Milano e Concetto Marchesi dell’Università di Padova.
Dai Borgato, passano prevalentemente ex prigionieri inglesi, australiani e neozelandesi, che in numero di 2000 erano stati internati in provincia di Padova per essere impiegati in lavori agricoli: c’è chi chiede asilo per una notte e chi si ferma più a lungo per essere affidato alla rete Fra-Ma. Anche qualche ebreo usufruisce di analogo sostegno, con il fattivo aiuto delle studentesse universitarie Teresa e Liliana Martini, due sorelle antifasciste, allertate da Maria Borgato che dal posto telefonico pubblico le informa: «Sono pronti due o tre polli». Varie altre famiglie padovane forniscono punti d’appoggio, nonostante dall’ottobre 1943 il comando germanico alterni punizioni a lusinghe, prevedendo l’incendio delle case ospitali con i ricercati, e promettendo 1800 lire o il rilascio di un parente internato nel Reich a chi denunci il nascondiglio di un ex prigioniero.
Alla cognata (madre di dieci figli), che la sconsiglia di esporre la famiglia ai rischi della ritorsione tedesca, risponde: «Un giorno anche i tuoi figli andranno per il mondo, e non sai che sorte avranno: saresti contenta che fosse fatto per loro quello che si fa ora per questi poveretti». Grazie alla famiglia Borgato, oltre 200 persone sfuggono alle ricerche dei nazifascisti.
La notte del 13 marzo 1944 le SS – informate da un altoatesino presentatosi ai Borgato come disertore – catturano Maria, il fratello Giovanni e la nipote Delfina, devastando abitazione, stalle e fienili. Le due donne vengono picchiate dinanzi ai familiari attoniti. La retata include anche le sorelle Martini.
Anche padre Cortese è catturato: trasferito nella sede della Gestapo di Trieste, sarà ucciso verso la fine del 1944, dopo prolungate sevizie.
I tre Borgato vengono condotti nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore; al momento della separazione, Maria dice al fratello: «Ho una sola preoccupazione: la sorte tua e di Delfina, perciò ti scongiuro di accusare me, di’ che sono stata io!». Rinchiusi in rigido isolamento per una quarantina di giorni, i tre prigionieri sono percossi per far loro confessare i complici e distruggere l’intera organizzazione clandestina.
Maria si assume ogni responsabilità per le azioni illegali e il fratello riacquista la libertà. Delfina rivede la zia a metà luglio 1944 in occasione del loro trasferimento nel Lager di Bolzano e la trova patita, smagrita. Maria invia ai parenti quattro lettere, improntate a spirito di sacrificio e profonda religiosità.
Il 5 agosto Delfina (di cui si riproduce la fotografia nel documento d’identità fornitole dai nazisti) è deportata a Mauthausen. La zia vorrebbe lei pure essere inserita nel numero dei partenti, ma la menomazione fisica la fa giudicare inadatta al lavoro coatto.
Tre giorni più tardi, scrive ai familiari: «iò fatto il posibile per seguirla mamie stato respinta ma con molta bontà dal Comando Tedesco per letà e per lemie condizione fisiche che voi gia micomprendete». La sua insistenza per condividere il destino della nipote le vale, dopo un paio di settimane, l’invio a Ravensbrück, nel blocco 17, dove però non ritrova Delfina, deportata a Mauthausen. Una compagna di deportazione ha ricordato che ogni mattina alle 4 Maria si alzava e, inginocchiata accanto al pagliericcio, recitava la Messa; durante il giorno rammendava le uniformi delle compagne, lieta di poter servire il prossimo; in una sola occasione si mostrò addolorata: «Un giorno fu detto alle prigioniere di spogliarsi perché dovevano passare una visita medica; Maria, con le altre, si spogliò; poi, una alla volta, in fila, attraversammo un corridoio per recarci alla visita. Maria veniva avanti lentamente, zoppicando, con le braccia incrociate sul petto, per coprirsi, mentre lunghe lacrime le rigavano il volto: fu l’unica volta che la vidi piangere». Maria porta sulla casacca il triangolo rosso dei politici, ed è munita di un cartellino rosa per indicarne l’inabilità al lavoro a causa dell’handicap fisico.
Destinata all’eliminazione, viene inviata nella camera a gas in data imprecisata. A casa, ci si aggrappa a un filo di speranza e si continua a tenere in ordine la sua stanza, nel miraggio della sua ricomparsa. Un giorno l’anziana madre confida alla nipote Delfina (rimpatriata il 29 giugno 1945): «È meglio che sia tornata tu che lei…». Alla fine, ci si deve arrendere all’evidenza e viene compilato l’atto di morte presunta.
Ludovico Ticchioni, patriota diciassettenne
Nella Resistenza confluisce con impeto una parte della gioventù, risoluta a battersi per la liberazione della patria da tedeschi e fascisti. Al fattore ideale si somma per molti la volontà di sottrarsi all’arruolamento nelle costituende forze armate fasciste. L’impatto con guerra civile e occupazione straniera è condizionato da fattori amicali e dall’inserimento in gruppi ove elementi più attempati ed esperti esercitano un richiamo su personalità ancora in formazione. Le prime difficoltà consistono nello stabilire un rapporto continuativo con nuclei mobili, i cui organici si espandono o restringono a seconda dei fattori ambientali e delle fasi della lotta. Laddove precarietà e labilità delle bande espongono a rischi imprevisti (violente repressioni, o soprassalti di conflittualità interpartigiana), sono i più giovani a pagare il prezzo maggiore, a causa dell’inesperienza e dell’idealismo.
La sorte del liceale ferrarese Ludovico Ticchioni (Mestre, 1927-Codigoro, 1945) è rivelatrice di slanci, impegno, delusioni e tragedie di chi, adolescente, si gettò nella temperie del 1943-1945 animato da amor patrio.
Figlio di un colonnello del regio esercito, Ludovico assorbe dal padre idealità liberal-democratiche, l’attaccamento ai Savoia e la convinzione che il maresciallo Badoglio sia l’uomo giusto per risollevare il paese dal baratro in cui lo aveva spinto Mussolini. Gli bruciano le modalità dell’armistizio, aggravate dalla contestuale fuga da Roma del re e dei ministri militari: «Questa guerra ha dato una dolorosa smentita a quella che era sempre stata la mia illusione, la mia fierezza di essere Italiano. Ma il massimo di questa delusione si è manifestata per me dopo l’8 settembre, durante il periodo della repubblica», annota nel suo diario, che sulla prima pagina riporta la frase di Metastasio «La patria è un nume a cui sacrificar tutto è concesso».
Al giovane studente – che vive a Ferrara con madre e sorelle – pesa l’inazione. Vorrebbe attraversare le linee e combattere nell’esercito monarchico insieme al padre, comandante del Raggruppamento speciale “Granatieri di Sardegna”, formazione scontratasi con i tedeschi nei giorni successivi all’armistizio, e successivamente inquadrata nel Gruppo di combattimento “Friuli”, a fianco degli Alleati nella campagna d’Italia. Compie per suo conto arrischiate iniziative propagandistiche come scritte murali e compilazione di volantini. Iniziative minime, ma che lo segnalano ai fascisti, i quali a metà dicembre 1943 lo includono tra i predestinati alla fucilazione per rappresaglia in seguito all’uccisione del segretario federale Ghisellini; a salvarlo è il vicequestore Poli, amico di famiglia, che confida alla signora Ticchioni: «Io ho fatto tutto il possibile; ora dica a suo figlio di stare attento».
Al termine dell’anno scolastico 1943-1944 Ludovico rompe gli indugi: «Finalmente il mio sogno di poter fare qualcosa per la cacciata del tedesco dall’Italia, si è avverato! […] Chi comanda qui è un sergente maggiore, un ragazzo sulla trentina, molto in gamba e pieno di entusiasmo giovanile. Lui è del Comitato Nazionale di Liberazione e riceve ordini direttamente da un capitano che a sua volta è comandato dalla Romagna» (annotazione diaristica del 30 agosto). Vede la militanza partigiana come preludio alla carriera militare che vuol intraprendere nel dopoguerra, anche se mette in conto la possibilità di una fine tragica: «Per quanto son giovane non temo la morte: è l’incoscienza della gioventù che mi fa dire questo. Se devo morire, pazienza! Fatto sta che mi dispiacerebbe finire tutto adesso a soli 17 anni di vita!».
Appartiene al “Gruppo del Gatto”, nucleo garibaldino aggregatosi nella zona di Serravalle attorno all’operaio ventitreenne Olao Pivari (nome di battaglia “Gatto”), già sergente di un reparto costiero, cui i fascisti avevano bruciato l’abitazione per punirne la diserzione. I suoi uomini disseminano chiodi a tre punte prima del passaggio di colonne nemiche e disarmano qualche milite della RSI poco propenso al combattimento. Ticchioni sceglie come nome di batta
Altiero Spinelli e l’Europa-MANIFESTO di VENTOTENE-
Il 23 maggio 1986 moriva a Roma Altiero Spinelli, tra i padri dell’Unione Europea. Nato a Roma nel 1907, militante comunista, viene arrestato dalla polizia fascista e condannato a 16 anni di reclusione. Durante la detenzione matura il suo distacco dal Pci e dopo il carcere, confinato a Ventotene, scrive, fra il 1941 e il 1942, in collaborazione con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il Manifesto per un’Europa libera e unita.
Noto come il Manifesto di Ventotene, considerato il documento di base del federalismo europeo.
Caduto il fascismo, liberato il 19 agosto 1943, dieci giorni dopo Spinelli fonda a Milano, insieme a una trentina di reduci dal confino, dal carcere e dall’esilio, il Movimento Federalista Europeo. Nel luglio del 1980 promuove l’iniziativa che porterà al trattato di Unione Europea, approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento Europeo il 14 febbraio 1984.
Altiero Spinelli è stato un politico anomalo, ricorda in Altiero Spinelli, lo storico Pietro Graglia: «prima giovane militante comunista, poi, durante la Resistenza e dopo la guerra, profeta dell’unità federale dell’Europa. Combattente indomito, quasi sempre controcorrente, oggi egli appare sempre più una delle figure di rilievo assoluto del Novecento europeo. Della sua vita privata e pubblica Spinelli ha lasciato testimonianze numerose: le memorie, i diari (tutti pubblicati dal Mulino), un ricchissimo archivio».
Sulla base di questi documenti e grazie a una paziente ricerca condotta in archivi europei e americani, Graglia con questo volume ha tracciato per la prima volta un profilo completo della vita e dell’azione politica di Spinelli, soffermandosi in maniera speciale sui decenni dell’impegno federalista e del lavoro nelle istituzioni europee. Minuziosa e appassionata, questa biografia ci porta a contatto diretto con una vicenda umana e politica fuori dal comune e ne conferma a un tempo l’importanza e il fascino.
Un altro libro dopo oltre un settantennio dalla fine della Seconda guerra mondiale e dall’avvio della storia repubblicana: L’Italia e l’Europa di un pessimista attivo – Stati Uniti d’Europa e altri scritti sparsi (1930-1976), edito da Il Mulino, è «il pensiero di uomini e donne del nostro antifascismo, come i valori e le battaglie di quelle generazioni, che costituiscono un patrimonio comune della nostra recente storia democratica ed europea», una fonte d’ispirazione per riflettere sulla condizione presente.
Sono gli scritti di Mario Alberto Rollier raccolti in questo volume, redatti fra gli anni Trenta e Settanta del secolo scorso e affrontano con sorprendente attualità alcune questioni centrali del Novecento che ancora oggi si pongono alla nostra attenzione: l’ecumenismo cristiano e il desiderio di rinnovamento evangelico, l’antifascismo e la Resistenza, la difesa della laicità dello Stato e l’esperienza costituente, il federalismo interno e sovranazionale, il sogno degli Stati Uniti d’Europa, fino alle problematiche di carattere scientifico sull’impiego civile dell’energia nucleare.
La vita di Rollier traccia, con una prospettiva inedita, il quadro di un’epoca della storia europea caratterizzata dalla profonda crisi dei valori cristiani, sopraffatta dagli egoismi nazionali e dalla ferocia dei totalitarismi, ma anche carica di forti tensioni morali, di attese, di entusiasmi e di impegno civile e politico.
Mario Alberto Rollier (1909-1980) nasce a Milano in una famiglia valdese aperta alla cultura liberale europea. Influenzato da Karl Barth e dal movimento ecumenico, partecipa alla stagione di rinnovamento dell’evangelismo italiano. Antifascista, azionista ed europeista è tra i fondatori del Movimento federalista europeo con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli e tra gli estensori della Carta di Chivasso insieme a Émile Chanoux. Chimico di fama nazionale, è stato direttore del Centro sperimentale Lena di Pavia che ha ospitato il primo reattore nucleare italiano.
FONTE-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Altiero Spinelli
Biografia di Altiero SPINELLI-Uomo politico italiano, nato a Roma il 31 agosto 1907, morto ivi il 23 maggio 1986. È stato il massimo sostenitore dell’ideale europeista nell’Italia del secondo dopoguerra. Aderì giovanissimo al Partito comunista e partecipò all’attività clandestina antifascista. Nel 1927 fu arrestato a Milano e condannato a sedici anni di carcere. Nella primavera del 1937 fu inviato al confino di Ponza e, nel luglio 1939, a quello di Ventotene. Nel frattempo, nel 1937, a causa degli orrori della politica staliniana, aveva abbandonato il partito. A Ventotene si convertì al federalismo e scrisse, insieme a E. Rossi, Per una Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (1941), noto anche come Manifesto di Ventotene, da cui emergeva come la migliore organizzazione politica per l’Europa democratica che stava per nascere dalla guerra fosse l’unità federale dei suoi popoli liberi. Liberato nell’agosto 1943, fondò a Milano il Movimento federalista europeo, di cui fu segretario generale dal 1947 al 1963. Nel 1945-46 entrò nella segreteria politica del Partito d’Azione, che lasciò nel febbraio 1946 quando, insieme a U. La Malfa e a F. Parri, costituì il Movimento della Democrazia Repubblicana (MDR). Abbandonato anche questo raggruppamento politico, si dedicò esclusivamente all’impegno del Movimento federalista, e dopo la mancata ratifica, da parte dell’Assemblea nazionale francese, della CED (Comunità Europea di Difesa) che avrebbe costretto gli stati nazionali ad avere un esercito comune e quindi, in prospettiva, una politica comune (1954), si convinse che non si sarebbe mai raggiunto l’obiettivo di un’Europa federale se non si fosse passati da una politica di vertice a un’azione di mobilitazione popolare. Nel 1965 fondò a Roma l’Istituto di affari internazionali, un centro che doveva favorire, attraverso la conoscenza dei problemi della politica internazionale, un’evoluzione di tutti i paesi del mondo verso forme di organizzazione sovranazionale. Dal 1970 al 1976 fu nominato membro della Commissione esecutiva della Comunità europea, e nel giugno 1976 fu eletto deputato come indipendente nelle liste del PCI. Nello stesso anno divenne deputato europeo, poi confermato nelle elezioni del 1979 e del 1983. Nel 1983 scrisse il ”Trattato di Unione europea”, poi fatto proprio dal Parlamento europeo.
Tra i suoi scritti citiamo: L’avventura europea (1972); Come ho tentato di diventare saggio. 1. Io, Ulisse; 2. La goccia e la roccia (1984); Il progetto europeo (1985); Discorsi al Parlamento europeo 1976-1978 (1986); Diario europeo (1989).
Bibl.: E. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Bologna 1987; Altiero Spinelli and federalism in Europe and in the world, a cura di L. Levi, Milano 1990.
FONTE-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani-
Carlo Greppi -Storia di Lorenzo, che salvò Primo Levi-Editori Laterza
Descrizione del libro di Carlo Greppi-In Se questo è un uomo Primo Levi ha scritto: «credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi». Ma chi era Lorenzo? Lorenzo Perrone, questo il suo nome, era un muratore piemontese che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz. Un uomo povero, burrascoso e quasi analfabeta che tutti i giorni, per sei mesi, portò a Levi una gavetta di zuppa che lo aiutò a compensare la malnutrizione del Lager. E non si limitò ad assisterlo nei suoi bisogni più concreti: andò ben oltre, rischiando la vita anche per permettergli di comunicare con la famiglia. Si occupò del suo giovane amico come solo un padre avrebbe potuto fare. La loro fu un’amicizia straordinaria che, nata all’inferno, sopravvisse alla guerra e proseguì in Italia fino alla morte struggente di Lorenzo nel 1952, piegato dall’alcol e dalla tubercolosi. Primo non lo dimenticò mai: parlò spesso di lui e chiamò i suoi figli Lisa Lorenza e Renzo, in onore del suo amico. Questo libro è la biografia di una ‘pietra di scarto’ della storia, di una di quelle persone che vivono senza lasciare, apparentemente, traccia e ricordo di sé. Ma che, a ben guardare, sono la vera ‘testata d’angolo’ dell’umanità.
Carlo Greppi-
L’autore Carlo Greppi
Carlo Greppi, storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento. Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente(2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018), Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo(2023,Premio TIR-The Italian Review, tradotto in spagnolo, olandese e francese e in corso di traduzione in inglese e russo).
Editori Laterza | Sede legale Piazza Umberto I n. 54, 70121 Bari | Ufficio Via di Villa Sacchetti 17, 00197 Roma
Prologo
E io gli ho detto: “guarda che rischi a parlare con me”.
E lui ha detto: “non me ne importa niente”.
Primo Levi, novembre 1986
Un giorno di dicembre di diversi anni fa mi trovai a dover guardare un documentario intitolato Il coraggio e la pietà, che descrive la solidarietà – vera e presunta – degli italiani nei confronti degli ebrei perseguitati che permise alla maggior parte di loro, al di qua delle Alpi, di salvarsi, a differenza degli oltre settemila che svanirono nella Shoah. Il documentario era andato in onda nel novembre 1986, cinque mesi prima della morte di Primo Levi. Tra le poche scene che mi colpirono ce ne fu una in cui lo stesso Levi raccontava, con la sua consueta pacatezza, quanto fu un uomo silenzioso a permettergli di salvarsi. Era un umile muratore, non un prigioniero di Auschwitz. Era un lavoratore civile piemontese, di Fossano, che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz, con il quale Levi si incontrò per diversi mesi, compensando la malnutrizione del Lager con zuppe di brodaglie che quest’uomo gli portava con regolarità. Tutti i giorni, per sei mesi. L’unico compenso che quest’uomo accettò, se così lo possiamo chiamare, fu di farsi riparare dai ciabattini di Monowitz le scarpe di cuoio, camminando per quattro giorni con gli zoccoli di legno di Levi, per poi scambiare nuovamente le rispettive calzature. Non volle nient’altro.
Non era la prima volta che sentivo parlare di Lorenzo Perrone, perché il chimico torinese sopravvissuto ad Auschwitz ne scrisse innanzitutto in Se questo è un uomo fin dal 1947, poi in una manciata di pagine di Lilìt e altri racconti e inoltre in due passi de I sommersi e i salvati – sempre omettendone il cognome – e perché già sapevo che entrambi i figli di Levi (Lisa Lorenza, nata nel 1948, e Renzo, nato nel 1957) dovevano il loro nome a quest’uomo enigmatico; cosa che, come avrei scoperto in seguito, dichiarò anche pubblicamente. Ma sentire che Lorenzo rischiò di finire ad Auschwitz per i suoi gesti, sentirlo dire intendo – e non leggerlo – smosse in me qualcosa di profondo, toccò una parte di me che era addormentata, forse assuefatta, da tempo.
In quello stesso frangente, ed era sera tardi di un giorno compreso tra l’8 dicembre e Natale del 2014, prima di andare a dormire misi nel lettore un dvd che da quasi tre anni mi riproponevo di guardare e finiva sempre in fondo alla lista: si intitola Il Giudice dei Giusti. Ebbene, nella prima scena – la prima – vediamo Mordecai Paldiel, all’epoca direttore del dipartimento che all’interno del museo della Shoah di Gerusalemme (lo Yad Vashem) si occupa del riconoscimento dei “Giusti tra le nazioni”, i non ebrei che salvarono gli ebrei, prendere un faldone tra le mani. Ed è quello di Lorenzo Perrone, il dossier n. 8157.
A quel punto andai sulla sezione del sito di Yad Vashem dedicata ai 25.271 “Giusti”, 610 dei quali erano italiani (nel 2021 sono diventati 27.921, e 744 gli italiani), e trovai, come epigrafe in inglese che apre la pagina, proprio un estratto del passo che in Se questo è un uomo descrive Lorenzo, cioè questo (otto anni dopo è ancora lì):
Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
Primo Levi, forse il più grande testimone del Novecento, ha scritto e detto in più occasioni – ben al di là di quelle finora citate, lo vedremo – di dovere a Lorenzo non solo la vita, ma qualcosa di più, e per l’istituzione che si occupa della cura della memoria dei gesti che salvarono i perseguitati Lorenzo Perrone è senza ombra di dubbio il più importante tra loro, ai livelli dei ben più noti Oskar Schindler e Giorgio Perlasca – resi celebri dal film Schindler’s List di Steven Spielberg (1993), tratto da un libro del 1982 di Thomas Keneally, e da un bestseller di Enrico Deaglio, La banalità del bene (1991), diventato a sua volta un prodotto audiovisivo, lo sceneggiato Perlasca. Un eroe italiano di Alberto Negrin (2002) –, seppur proveniente da un contesto sociale completamente differente. Questo personaggio povero e burrascoso, “quasi analfabeta” e taciturno, “era un uomo – ha scritto ancora il chimico torinese –; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”. I suoi gesti semplici e quotidiani sono diventati con ogni probabilità la radice della testimonianza di Levi, e la sua indelebile solidarietà è impressa nei libri che hanno formato la parte sana della cultura del mondo occidentale degli ultimi decenni. Libri che ancora oggi sono un passaggio obbligato nella formazione di ogni studente delle scuole, in Italia e non solo.
Ma chi era, Lorenzo Perrone? In questi anni ho raccolto materiale sulla sua vita prima, durante e dopo “Suiss” (così lui chiamava Auschwitz), dagli archivi di Fossano – si chiamava Perrone o Perone? Questo è il primo inciampo della nostra storia – alle testimonianze dei due nipoti ancora in vita, dal tentativo impraticabile del carotaggio sistematico di ogni possibile accenno nelle biografie di Primo Levi, nelle sue interviste (oltre trecento quelle finora censite) e nelle migliaia di libri a lui o alla sua opera dedicati (circa 7.000 quando sto scrivendo questo libro) al faldone ancora conservato allo Yad Vashem della pratica istruita nel 1995 grazie alla biografa Carole Angier, tutto questo solo per cominciare; ma una porzione considerevole di quello che possiamo dire intorno a quest’uomo straordinario che rese possibile “la storia stupefacente della sopravvivenza” di Levi è già incardinata nei testi di quest’ultimo. È quanto di più straordinario uno storico possa desiderare di avere tra le mani, nell’avviare una ricerca che punti al cuore dell’umanità: le pagine di uno dei più esatti indagatori dell’animo nostro. Ma non è tutto, naturalmente: “la realtà degli uomini non è la stessa della realtà degli uomini raccontata dagli scrittori”, mi dice Alberto Cavaglion, tra i più fini conoscitori dell’opera leviana, nonché curatore dell’edizione commentata del 2012 di Se questo è un uomo; Primo Levi stesso ne ha parlato sovente, dell’arte di “arrotondare”, facendo perno sull’immaginazione, perché “la realtà è sempre più complessa” e “più ruvida”.
È fisiologico che una nuda vita così umile – così ordinaria, fino a “Suiss” – che oltretutto, come si vedrà, arriva a inabissarsi prima che il suo punto più alto venga alla luce, lasci molti vuoti da colmare, ma la coltre di oblio che è calata su gran parte dell’esistenza di quest’uomo di poche parole la si può perforare. Ci si deve almeno provare. Ed è naturale che questa storia, per iniziare, parta dal primo incontro in cui levò lo sguardo e poi torni sui suoi piedi, che hanno fatto centinaia e centinaia di chilometri, prima di approdare al lascito profondo racchiuso in questa storia di dannazione e salvezza che parla a tutti e a ognuno.
Gli ultimi
[…]
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
[…]
Primo Levi, Agli amici, 16 dicembre 1985
Tacca dal Burgué
Quando ha conosciuto il prigioniero 174 517, Lorenzo stava tirando su un muro con un altro tizio della sua ditta, anch’egli di lingua italiana, e com’era prevedibile nonostante e forse proprio per gli schiaffi che la vita gli aveva dato, ne parleremo, anche laggiù lui i muri “li faceva diritti, solidi, con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale” – è Primo Levi che ne parla, ne I sommersi e i salvati. Quando vide per la prima volta quel minuto torinese, Lorenzo giunto dal Burgué, il borgo vecchio di Fossano, non si stava chiedendo a cosa e a chi avrebbe giovato il suo faticare come un mulo: un bombardamento alleato aveva appena sconvolto “quello sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo” che era la “Buna”, il grande progetto della Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie AG – meglio nota come I.G. Farben – fondato a Monowitz, a sei chilometri da Auschwitz I, e dopo aver zigzagato tra i calcinacci che scricchiolavano sotto il cuoio delle sue scarpe da lavoro, lui era giunto con il suo collega e connazionale nei pressi dei macchinari più preziosi, per proteggerli con alte e robuste tramezze, senza troppo arrovellarsi.
Metteva giù mattoni da un’impalcatura, muto, e quel prigioniero 174 517, che poi avrebbe saputo chiamarsi Primo, il numero tatuato sul braccio sinistro – un Häftling scialbo, un detenuto quasi invisibile tanto ansimava tra i morsi della fame –, era sotto e a un certo punto Lorenzo gli aveva parlato in tedesco avvertendo “che la malta stava per finire”, e di portare dunque su il bugliolo. Quel ventiquattrenne mingherlino che era ancora solo un numero aveva provato ad allargare le gambe, ad afferrare il manico del secchio con entrambe le mani, a sollevarlo e a imprimergli un’oscillazione di modo da poter sfruttare lo slancio e portare il carico in avanti e, da lì, sulla spalla. Ma i risultati s’erano rivelati a dir poco patetici, e il secchio era ricaduto in terra rovesciando metà della malta. A Lorenzo non era scappato da ridere ma aveva pronunciato otto parole, le prime della parte che più conta di questa storia, che sarebbero rimbombate in testa a Primo, non è difficile da immaginare, per interminabili ore di un giorno di inizio estate del 1944, che è da collocare tra il 16 e il 21 giugno, date in cui entrò in allarme la parte occidentale dell’Alta Slesia, che dai mesi successivi sarebbe stata sistematicamente bombardata da raid sempre più imponenti.
“Oh già, si capisce, con gente come questa”, aveva detto Lorenzo accingendosi alla discesa dalla sua posizione, prima di portarsi al medesimo livello della malta rovesciata che già s’induriva tra i calcinacci del cantiere piegato dalle bombe degli Alleati, che colpivano gli impianti industriali – scattando poi fotografie al “pianeta Auschwitz” dal cielo – senza però liberare i prigionieri dalla condanna del gas. A cosa si riferiva, con quel “gente come questa”? Intendeva gli “schiavi degli schiavi”, “lo scalino più basso” della gerarchia di Monowitz, o intendeva i borghesi incapaci di tenere in mano un secchio di malta, privilegiati fino all’ingresso in quel mondo alla rovescia, divenuti a quel punto gli ultimi degli ultimi? Comunque la si voglia leggere, questa frase trasuda disprezzo, o commiserazione: ed è lo stesso Levi a dircelo; e al contempo è a sua volta un cortocircuito; chissà quante volte, suppongo non poche, Lorenzo se l’era sentita dire. Lui, e lo vedremo, era un poveraccio, alcolizzato, rissoso; sarà anche stato uno che faceva bene il suo lavoro, ma della “gente come questa” non è che ci si possa fidare. La sfrutti, finché, a quarant’anni, inizia a perdere vigore e concentrazione – poi, quando non serve più, la butti via.
Ad ogni modo non fu certo un primo impatto raccomandabile, tra loro due, considerato il disastro compiuto da quel manovale 174 517; Primo Levi si era imposto tuttavia alla vista di Lorenzo per la sua curiosa reazione a sentir parlare italiano, dopo quell’ordine burbero da lui intimato in pessimo tedesco, per di più con riconoscibilissimo accento piemontese, creando così un varco in quella sorta di incantesimo che inchiodava ogni essere umano al suo posto, nell’universo ferocemente grottesco che era il Lager. Lorenzo la aveva riconosciuta particolarmente prossima, quella manodopera maschile non qualificata, e tanto poteva bastare, sebbene spesso non fosse sufficiente affatto. Nonostante anche internati di altre nazionalità avessero avuto l’occasione di stabilire un contatto con il mondo esterno, ad esempio tramite i lavoratori forzati del Servizio obbligatorio del lavoro francese, gli schiavi erano infatti per i civili – compresi i lavoratori come Lorenzo, s’intende – “intoccabili”. E tali dovevano restare, non importano le circostanze: “I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa”, avrebbe ricordato Primo Levi.
Lorenzo lo pensava, nell’attimo in cui lo notò? Non credo, perché lui non stava a distribuire colpe a cuor leggero, perché sapeva che quelli in catene sono quasi sempre i miseri, mentre il potere cambia scarpe ogni tre settimane – e perché nulla so di quello che eventualmente disse nelle ore seguenti, e ritengo impossibile lo si possa sapere. Azzardo l’ipotesi, avendo intuito qualcosa della sua personalità grazie a una discreta quantità di fonti, che non volle cercare le parole neanche nei due o tre giorni successivi: stava più probabilmente a macinare pensieri con lo sguardo tra il perso e l’arcigno, indecifrabile, come quello che svelano le sue fotografie giunte fino a noi – mi risulta che siano solamente due. La prima la vedremo a breve; l’altra è questa.
Lo disprezzava, quell’uomo che quasi svaniva, morente? Lo commiserava? Lo temeva? Sembra quasi di sentire l’inquietudine che scaturì già con le leggi razziali del 1938, che Primo Levi avrebbe raccontato ne Il sistema periodico, nel 1975, rievocando quel primo “lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto”: “Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te?”.
Servono ancora – sempre – scorci di Levi, che avrebbe saputo sapientemente intessere le parole e i concetti utili a comprendere l’animo umano; qui riferendosi proprio allo sguardo dei lavoratori civili sugli “schiavi degli schiavi”, i prigionieri ebrei che poi, tramite ordinatissime marce con divisa a righe sbrindellata e berretti, andavano alla Buna a lavorare, ammesso che di lavoro si possa parlare:
Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione.
Fotografando il momento in cui questa storia si innescò per divenire qualcosa di più di una riga in un archivio sepolto, per quanto si possa tentare di unire in un unico disegno i chilometri percorsi a capo chino fin da ragazzo e quel momento in cui lo sguardo di Lorenzo cercò al contrario di dare un senso e vagò in cerca delle parole giuste per poi dirlo, bisognerebbe innanzitutto ammettere che poi nelle vite randagie, forse più che nelle altre, è il caso a giocare le sue carte migliori. Un’immagine allora si impone: Lorenzo e Primo appartenevano, semplicemente, “a due caste diverse”, e avrebbero potuto, altrettanto semplicemente, non guardarsi mai. Nella vita precedente, innanzitutto, e poi lì dove il privilegio era la chiave di volta di ogni giorno, in termini completamente ribaltati. Primo era destinato a morire, se non si fosse ingegnato ogni minuto; Lorenzo a vivere, se non si fosse messo nei guai.
La posizione di superiorità nella disposizione spaziale di quel momento e nella gerarchia del Lager, in quel lungo tempo passato a distanza ravvicinata senza essere a conoscenza l’uno dell’esistenza dell’altro, era per così dire un contrappasso, considerati i reciproci trascorsi, nel mondo di prima e di lassù. Mentre laggiù nel 1944 il privilegio era sul suolo che calpestava lui che tanto aveva sputato polvere, ora, il prigioniero 174 517 che nella vita svanita era il borghese dotato di discreta fortuna, il laureato chimico in erba Primo Levi, laggiù sul fondo dello spirito umano era schiavo come migliaia d’altri. Come altri 11.600 lavoratori della I.G. Farben in quell’anno, eseguiva ogni sorta di impiego sfibrante per costruire la Buna-Werke, la fabbrica di prodotti chimici del campo; ma era sovente un lavorare “senza scopo”, il suo, il loro, uno sgobbare per esaurire ogni fibra vitale, fino a morirne. Che piovesse a dirotto o nevicasse sottile, che il vento soffiasse via la cenere o il sole quasi desse l’impressione di poterla ravvivare, come migliaia d’altri lui spalava, interrava, sollevava, cadeva, smistava, assembrava fino a che vene e arterie non erano prossime allo scoppio, e prendeva badilate in testa da un Kapò o da un qualunque prominente se non riusciva a proseguire. Andava ribadito, il potere; e andava annientato, ciò che ci rende uomini e ci fa credere di poterci non piegare. Ma non chiese aiuto a Lorenzo quel giorno, Primo, suppongo perché non aveva, all’epoca dei fatti d’estate del 1944, “un’idea chiara del modo di vivere e delle disponibilità di questi italiani”, prevalentemente dei poveracci nel mondo di prima, ma che lì stavano in superficie mentre lui sprofondava con migliaia di altri pezzenti della storia e nella storia essa stessa. Eppure bastava una manciata di parole, appena misurate sulla bilancia del comune linguaggio, per rompere il sortilegio e spezzare le catene del contagio del male: è così che “si spuntano le armi della notte”, direbbe la sapienza di Levi.
Ebbene Lorenzo le parole le centellinava, è vero – ma queste le pronunciò dopo quell’iniziale e goffo malinteso.
“Guarda che rischi, a parlare con me”, disse Primo.
“Non me ne importa niente”, gli rispose Lorenzo.
Un muratore, uno che sa fare il suo mestiere, costruisce.
Non è detto che abbia la visione d’insieme, quella ce l’ha chi lo comanda, chi lo istruisce, ma lui fa la sua parte. La visione d’insieme ce la si ha alla fine, di solito. O almeno così dovrebbe essere. Mi verrebbe da azzardare l’ipotesi che Lorenzo sia stato uno dei pochi, nella storia, che quella visione ce l’ha avuta dall’inizio, ma risulta impossibile scovarne una prova, ed è difficile trovare qualcuno che possa sostenere di averlo conosciuto per davvero.
Era un uomo di poche parole, Lorenzo. E doveva sempre partire. Attraverso il Colle delle Finestre, negli anni Trenta, a partire dal 1935 o dal 1936 secondo i suoi parenti, andava in Francia a lavorare illegalmente, passando il confine in clandestinità con altri poveracci come lui – i palmi callosi, i piedi nodosi raggrinziti da tanto andare – e come il fratello maggiore Giovanni, due anni scarsi più vecchio di lui, gli occhi sottili e la capigliatura folta, che lo affiancava a passo spedito, sui valichi del contrabbando. Capitava che camminassero una settimana filata: andava così. Mi pare quasi di intravedere i contrabbandieri con cui Lorenzo e Giovanni condividevano brandelli di strada dire loro qualche parola in piemontese: ’ndôma, ’mpresa, le sillabe di rito insomma, quelle che sorvolano la testa di chi procede a capo chino, risparmiando energie per il lavoro che lo aspetta al di là di quella linea tracciata dagli uomini su una carta. Su quelle rotte, in cui potevi essere frontaliero o contrabbandiere a seconda delle circostanze ed era molto sfumata la distinzione tra regolari e irregolari, illecito e lecito, si incontravano persone di ogni età che dalla Francia venivano in qua, in Italia; parlavano la medesima lingua, quella degli sbandati del mondo, dei dannati dei monti. Che si fanno un culo così, con il sole e l’alluvione, per un piatto di polenta concia; ma che se si tratta di sdraiarsi senza se ne fanno in fretta una ragione. Suo fratello Giovanni, detto barba Giuanin, dall’agosto del 1931 era certamente in Francia dove viveva loro zio, “Jean”.
Andavano in Costa Azzurra, dove “lavoro ce n’era sempre” come avrebbe ricordato Levi, probabilmente a Tolone o in altri centri abitati del sud-ovest francese; più precisamente a Embrun, un comune a una sessantina di chilometri dal confine, e quando passava il Giro d’Italia sul Colle della Maddalena, con i controlli più blandi, i vecchi approfittavano dell’occasione per andare su in taxi a salutarli, e forse bere un bicchiere o due. Me lo racconta a gennaio del 2020 il nipote Beppe, figlio di un altro fratello (Michele, otto anni più giovane di Lorenzo), spiegandomi che ogni categoria aveva il suo gergo: non avrebbe senso immaginarli a discutere in italiano, ma nel loro criptico magüt.
A pranzo Lorenzo tirava fuori la sua gavetta d’alluminio, due uova, la buta di vino nero, le croste di pane, e piegava la testa sul suo corpo imponente di un uomo già anziano anche se navigava fra i trentuno e i trentacinque anni, allora. Il cucchiaio di legno sembrava una protesi delle sue braccia, il suo busto pareva ancorato sulla terra, un marcantonio di pelle coriacea emersa dal Burgué, il borgo vecchio dei muratori e dei pescatori – i pescau – che si guadagnavano il pane sul fiume Stura, divorati da zanzare spesse come conigli. Il Burgué era proprio come lo si può visualizzare sforzandosi appena, ripescando in un immaginario arcaico che arrancando si affaccia alla modernità, e aiutandosi con le fotografie dell’inizio del ventesimo secolo. Tutte le porte aperte, le sedie tarlate a ridosso del muro pericolante a incassare il vento e il gelo e il bel tempo del fine settimana, quando il cielo lo regalava – le giornate che iniziano con il buio e finiscono che c’è ancora un po’ di chiarore, per chi riesce a tornare a casa a dormire. Oggi è diverso, ma di quel vecchio borgo si intravedono le tracce, tra i muri ridipinti a nuovo e orientandosi tra le vie con i vecchi nomi e le numerazioni nel frattempo scalate.
Lorenzo viveva a circa un chilometro da dove è stata scattata la prima di queste fotografie, e a pochi metri da dove è stata scattata la seconda, e per la precisione in via Michelini 4 e 6, che oggi corrisponde al civico 12: tre stanze per otto persone, una per stracci e ferri vecchi, e una per il mulo e per il carretto, come avrebbe raccontato Carole Angier, biografa di Levi che un quarto di secolo fa ebbe modo di intervistare tre suoi parenti, tra cui lo stesso Beppe. La notte gli uomini allevavano anguille per mezzo delle dighe e pescavano a Stura con reti e filari; all’alba le donne caricavano quel ben di dio sui carretti e vendevano il frutto del duro lavoro a povera gente come loro. “Si faceva quel che si poteva, si vendeva quel che si faceva”, si cercava di stare alla larga dai guai, salvo qualche rissa di tanto in tanto per assaporare la propria mortalità, forse, o per scordar la fame. Nel Burgué, ancora lo ricorda novant’anni dopo, con malcelata nostalgia, la gente del posto, gli uomini erano tutti pescatori, o lattonieri, o muratori come Lorenzo e Giovanni, e tornavano nel Burgué a dormire in una Fossano che solo nel 1936 avrebbe visto asfaltate le principali strade cittadine. Quando passavano loro due tra le case dove all’epoca non si vedeva mai il sole, oscurato dalla caserma Umberto I che ora non c’è più, lo sguardo sulla polvere o sul fango che sempre accompagna chi non ha, qualcuno si scostava dicendo “Eccoli, i giganti”, così mi racconta Beppe. “Eccoli, i Tacca”.
Lorenzo era il secondo, i genitori – Giuseppe e Giovanna Tallone, sposati nel 1901 – vivevano di ferri vecchi e stracci, anche se i loro mestieri ufficiali erano “muratore” e “operaia”. Aveva altri due fratelli lattonieri: Michele, il padre di Beppe, e Secondo, che era in realtà l’ultimo e il quarto tra i maschi; e due sorelle di nome Giovanna e Caterina, rimasta “da sposare”, che avrebbe poi vissuto con lui e Giovanni, barba Giuanin. E tutti li chiamavano Tacca, nel borgo vecchio dei pescatori di Fossano, probabilmente per via del fatto che erano degli attaccabrighe, anche se si sa che poi i soprannomi – detti “stranomi”, da quelle parti – prendono la loro strada e ci si dimentica perché, soprattutto nelle parabole familiari che fanno di tutto per passare inosservate, agli occhi di chi registra ciò che è degno di essere raccontato, con le fisiologiche dispersioni della storia. Il primo a vedersi affibbiato questo stranome dovrebbe essere Giuseppe, ma forse la storia è più antica.
Tutti i maschi della famiglia, anche Tacca el tulè bel, Michele “il lattoniere bello”, parlavano poco, ed era una caratteristica che avevano preso dal padre, “chiuso in se stesso e preda di oscure depressioni” secondo Angier. Il ritratto fotografico che campeggia ancora oggi sulla sua tomba esibisce uno sguardo arcigno: le sopracciglia visibilmente corrucciate, i baffi curati appena, gli occhi gelidi – difficile immaginare un sorriso uscire da quel volto.
Giuseppe era un genitore “brutale e tirannico, litigioso e violento quando si ubriacava”, un padre padrone, e l’infanzia di Lorenzo, Giovanni e di tutti gli altri della nidiata era stata accompagnata dalle valanghe di botte che avevano preso a casa e poi, in maniera del tutto naturale, da quelle che avevano dato fuori dal “Pigher” – l’osteria “Pigrizia” dei pescatori e dei muratori all’incrocio tra via Don Bosco e via Garibaldi, a pochi passi da casa loro, chiusa da anni. Ora l’edificio in cui stava non ha più neanche vagamente l’aspetto dell’epoca: il palazzo è dipinto di rosso argilla, e le quattro arcate che ospitavano Lorenzo e quell’umanità rocciosa e rissosa sono state tirate a lucido; persino la targa “Terziere del Borgo Vecchio – Via Del Borgo Vecchio” sull’angolo quasi luccica, ad abbellire l’immagine di un’epoca antica più arrotondata di quanto in realtà non fosse. Lo scorrere del tempo a volte parla a gran voce; altre mette tutto a tacere. La famiglia di Luisa Mellano, presidentessa dell’Anpi di Fossano e pronipote del mitico partigiano Piero Cosa, all’epoca abitava davanti al “Pigher”, e il suo bisnonno pescatore, come decine d’altri, passava la sua vita lì a bere, mi racconta lei; d’inverno gli uomini, allora usava, indossavano le mantelline. Sono da immaginare piegati sui loro fegati, in serate interminabili condite da mugugni e bestemmie, in quei luoghi dove prende fiato chi nel corso della giornata va a essere spremuto per potersi permettere un pasto caldo o due; talvolta tra loro c’erano persino dei preti. Immagino che questi uomini tarchiati con la mantellina dicessero, magari citando testualmente una canzone popolare fossanese del 1870, I Mônarca: “Sôma busse ’n po’ ’d barbera”, andiamo a berci un po’ di Barbera, e la ciucca generale – “una ciôca general”– era assicurata.
I “Tacca” stavano per lo più zitti forse anche in ragione di tutto quello che scolavano, Lorenzo e Giovanni che marciava con lui su per i monti, bruciando suole e confini. Dio se bevevano, quei due, probabilmente fin da quand’erano ragazzini, sebbene per legge fosse già vietato. Tutti loro padre; anche se il loro vero padre era il bisogno, familiare quanto il colore nero acre del vino che scandiva le loro stagioni.
Per quanto ne sappiamo, Lorenzo tirava a campare in molti modi: il pensiero che scacciava gli altri era sempre, o quasi, andare avanti, e si comprava e vendeva di tutto, all’epoca, con una cifra sussurrata e una stretta di mano – “se truciavu la man, ’l cuntrat era fat”, come racconta un contadino ne Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. Sulle orme del padre da ragazzino Lorenzo, sempre con barba Giuanin, s’improvvisava feramiù, robivecchi: staccava il pezzo inferiore delle grondaie, che era di ghisa, e poi si affacciava alla finestra di casa sua al piano terra a venderla a chi passava. Come Bartolomeo Vanzetti, l’anarchico assassinato negli Stati Uniti nel 1927 di una dozzina d’anni più vecchio e nato e cresciuto a dieci chilometri da Fossano, che a quindici anni già scriveva che alla sera, “dopo diciotto ore di lavoro […] mi pare di avere i piedi nella brace tanto mi bruciano”, anche Lorenzo era vissuto “col sudore della [sua] fronte fin da bambino”. E ci voleva una costante, e rinnovata, inventiva – naturalmente non si può escludere che questo accadesse anche ai margini della legalità.
Era nato “Perone” (con una “r”) in via Ospizio 28 alle “undici antimeridiane” di domenica 11 settembre 1904, quando lo stomaco comincia a fartela sentire, la fame: forse anche per questo era sempre lei che guidava lui. La notizia, naturalmente, non ebbe alcuna rilevanza sui giornali locali, se non sul piano statistico: Lorenzo era uno tra gli otto maschi e le cinque femmine fossanesi nati in quella settimana. All’Ufficio di stato civile il padre Giuseppe – “di anni ventisette, muratore” – il giorno successivo aveva portato tra i testimoni il fratello Lorenzo “di anni ventitré, operaio”, ed entrambi si erano firmati “Perrone” con due “r”; probabilmente è per via dell’inflessione dialettale data al cognome “Perùn” che gli analfabeti e i semianalfabeti marcavano la “r” al punto da raddoppiarla; vedremo che per delle zie di Levi il cognome “vero” era senza ombra di dubbio “Prùn”.
Anche Lorenzo, omonimo del nonno materno e dello zio, suo padrino al battesimo il giorno successivo, sarebbe incorso nello stesso errore – era un errore? – firmandosi “Perrone”: non era andato oltre la terza elementare, come certifica il suo libretto di lavoro intestato a Lorenzo “Perone”. Pur battezzato, non era religioso né conosceva il Vangelo secondo Levi; scriveva a fatica ma camminava molto, e aveva iniziato a lavorare a dieci anni, come avrebbero testimoniato i suoi parenti per la pratica dello Yad Vashem, presumo nei mesi del 1914 in cui scoppiava la Grande guerra: non ho però idea di che aspetto avesse durante la sua infanzia.
Suo fratello Secondo – quello arrivato per ultimo – avrebbe raccontato a un altro biografo di Levi, Ian Thomson, che Lorenzo era un “pessimista nato”, ma è evidente come si sia influenzati dal senno del poi, nel tentativo di ricostruirne la vita, considerando che una delle ultime immagini che possiamo reperire di lui è quella raccolta dallo stesso Thomson, grazie a un’intervista del 1993 all’ex parroco di Fossano, don Carlo Lenta: negli ultimi anni di vita Lorenzo vendeva rottami nella neve, “senza giacca e con il viso livido”. Perché non ha mai saputo come si dimentica, lui, questa è una certezza; ma se già a dieci anni covasse rabbia e rancore non lo possiamo sapere.
Coltelli, bestemmie
Il primo ritratto fotografico di Lorenzo che mi risulti, come peraltro il secondo che già abbiamo visto, non ha niente di fiabesco; è anzi austero. È quello del suo servizio militare del 1924-25, iniziato a diciannove anni, numero di matricola 29439, bersagliere con il 7° Reggimento di Brescia, da poco trasformato in Reggimento ciclisti e oggi di stanza in Puglia. Arruolato (“Perone” con una “r” sola) il 25 aprile del 1924, venne ricoverato meno di tre mesi dopo: fu congedato infine a ottobre del 1925, e tornò a casa. “Durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà e onore”, dichiarò il suo capitano.
La sua Fossano in quei due decenni era cambiata profondamente: sotto l’amministrazione degli avvocati Antonio Della Torre e Luigi Dompé, che avevano diretto la vita cittadina dal 1899 al 1914, si era arrivati alla luce elettrica, alla tanto agognata distribuzione dell’acqua potabile ai cittadini e alla prima pietra del nuovo edificio scolastico, mentre la storica industria cartaia e la forte presenza dell’industria serica sul territorio erano state affiancate da quella metallurgica, potenziata a partire dal 1907, anno in cui si erano fatte sentire le prime agitazioni sociali per il miglioramento delle condizioni lavorative e della retribuzione, e per il riconoscimento di una rappresentanza sindacale. Dopo la Grande guerra e i suoi 312 morti fossanesi, l’espansione economica aveva vissuto oltretutto una drammatica contrazione, come rilevava il giornale locale “Il Fossanese” il 7 settembre 1918, quando Lorenzo aveva quattordici anni: “La vita cittadina è una vita di vera indolenza generale […] Si dirà: ma nelle osterie e nei caffè vi è sempre gente! […] Date invece uno sguardo al lavoro, alle industrie: l’arte muraria si può dire morta e sepolta, tanto [è] vero che i muratori han dovuto cambiare mestiere; e la crisi muraria la risentono di conseguenza fabbri, falegnami, lattonieri, verniciatori etc. Delle altre professioni non parliamone: magrezza più o meno eguale”.
È in questo contesto che si sarebbe imposta la marea montante del fascismo, nel “biennio nero” che nella percezione dei contemporanei corrispose a uno stato di guerra civile: l’offensiva contro le classi lavoratrici, presto sostenuta dall’azione reazionaria dello Stato liberale, da industriali, da latifondisti e dalla borghesia, e infine dalla monarchia, si sarebbe rivelata letale. Tra le altre cose, nel primo semestre del 1921 i fascisti operarono una distruzione sistematica di Camere del Lavoro, circoli di sinistra, Case del popolo, sedi di sindacati e così via – 49 azioni nel solo Piemonte, come ricostruito in presa diretta da Angelo Tasca – e il 4 maggio e il 3 giugno del 1921 nelle vicine Mondovì e Dronero vennero assassinati quattro e due socialisti dalle squadre d’azione fasciste. Il barbiere fossanese Angelo Suetta, classe 1901 (tre anni più vecchio di Lorenzo), avrebbe ricordato che al 1° maggio del 1921, festa dei lavoratori, era salito “dal Borgo [Vecchio] verso piazza Castello, dove c’era la sede alla Camera del lavoro, per prendere parte al corteo… Ma la città sembrava quasi assediata: fascisti, carabinieri e guardie regie da ogni parte, armati fino ai denti”; c’erano già stati subbugli e tumulti e lui si era precipitato alla Camera del lavoro per nascondere il registro degli operai iscritti al sindacato. Questa cronica violenza politica, che secondo le stime dell’epoca e successive lasciò 3.000 morti sul terreno in tutta la penisola, non può essere passata inosservata agli occhi di Lorenzo. Con la presa del potere del fascismo si sarebbe proceduto alla “normalizzazione”, particolarmente evidente a Fossano dopo l’allontanamento del militante socialista Giovanni Germanetto alla fine del 1922, e il suo arresto nella primavera del 1923. Come scrive lo storico Livio Berardo, già negli anni precedenti il carcere Santa Caterina di Fossano aveva ospitato oltre venti tra comunisti, socialisti e anarchici, e il direttore all’inizio degli anni Trenta “pur avendo indagato con la ‘massima diligenza’, non riuscì a scovare negli elenchi neppure un detenuto che avesse avuto precedenti squadristici”. Non è difficile ipotizzare quello che Lorenzo, all’epoca della marcia su Roma diciottenne, possa aver pensato della sua comunità cittadina, nella quale gli oppositori e i contestatori finivano in galera, i fascisti giravano impuniti, e lo Stato non interveniva a placare la violenza sistemica su operai e contadini. A scanso di equivoci non risulta che avesse la tessera del Partito nazionale fascista, né che abbia mai manifestato alcun tipo di adesione al regime. Sebbene non sarebbero stati solo i poteri locali e i borghesi a farsi attrarre dal fascismo, ma anche contadini e operai, tra le classi lavoratrici e in particolare tra i frontalieri serpeggiava un’ostinata avversione al regime – spesso si migrava anche perché era divenuto sempre più difficile trovare lavoro in una città fascista –, non ci sono riscontri documentari per poter ipotizzare che Lorenzo abbia avuto dei guai per la sua eventuale opposizione politica ai fascisti o al notabilato locale. Né compare tra i 670 antifascisti finiti nel Santa Caterina di Fossano durante il ventennio, fra i quali troviamo detenuti “illustri” come l’operaio comunista Remo Scappini, poi protagonista dell’insurrezione di Genova, al quale si sarebbe arreso un generale tedesco ad aprile del 1945. Questo non significa che Lorenzo, che viveva a meno di duecento metri dal Santa Caterina, non desse rogne alla sua comunità, anzi.
Pugni e pedate Lorenzo, e con ogni probabilità relativamente spesso, ne dava: ma soprattutto al “Pigher”, a quanto si sussurra ancora adesso in quel che rimane del Burgué, o quando riteneva si fosse ampiamente superata la sua capacità di sopportare. Oscuro rimane il modo in cui faceva a botte, che a quanto si percepisce incalzando in superficie la labile memoria della comunità cittadina forse era una delle sue attività principali, o comunque più evidenti, prima della sua partenza per Auschwitz; ma non riesco ad accedere ad alcun tipo di fonte che ci permetta di inquadrare uno di questi momenti, e non saprei come fare, se non scandagliando il suo flebile ma arroccato ricordo tra chi inloco ha indagato la sua storia o fonti e ricostruzioni che ci avvicinano al contesto in cui visse.
“L’essere in conflitto con qualcuno […] era una sorta di stato d’animo, un modus vivendi che esprimeva una certa normalità di rapporti, sia tra singoli che tra comunità”, ha scritto la studiosa Alessandra Demichelis in un saggio intitolato “Il buon tempo antico”. Cronache criminali dalle campagne cuneesi nel Novecento, che ci aiuta a colmare in parte questo vuoto documentario. In quella provincia e all’epoca dilagava “l’uso smodato di vino”, considerato un “nettare riparatore”, e favoriva furibondi litigi in cui non mancavano le bastonate, i coltelli e i coltellacci, i cutlass – i tajun de Il mondo dei vinti –; a partire dalla fine della Grande guerra fecero la loro apparizione, sempre più spesso, anche le armi da fuoco. In quel mondo rurale essere “pronto” significava essere “reattivo alla lite”, e le retate nelle osterie erano uno spettacolo frequente. Lesioni personali, diffamazioni, ingiurie, e la stessa ubriachezza erano tra i delitti più ricorrenti già all’inizio del Novecento: era un mondo, questo, “percorso da accattoni, ubriachi, folli, ciarlatani, truffatori e in cui i più deboli erano destinati a soccombere. Ogni villaggio aveva il suo ‘scemo’, deriso e maltrattato perché malato di mente o semplicemente ‘strano’, fuori binario”. Come ebbe modo di scrivere Nuto Revelli, “nell’arco delle nostre valli si contano a centinaia i ‘fragili di nervi’, gli alcolizzati, i misantropi: un mondo che i sani ignorano o temono o disprezzano”. Un mondo violento, brutale, dove l’uomo è il lupo dell’uomo: con o senza coltello e con o senza bastone – mi sento di escludere che Lorenzo possedesse un’arma da fuoco –, ci si doveva proteggere. E a volte, come recita l’adagio popolare, la miglior difesa è l’attacco.
Come scriveva il “Corriere Subalpino” nel 1914 (Lorenzo aveva dieci anni), “Fino a qualche anno fa buona parte del volgo in buona fede credeva che non potesse celebrarsi una festa campestre senza che la sagra fosse commemorata dalla distribuzione di qualche sacco di legnate…”: nelle risse a calci, pugni, morsi e bastonate per le quali non erano necessari neanche particolari pretesti talora, però, in questa “litigiosità diffusa a tutti i livelli” per la quale “ogni oggetto a portata di mano poteva trasformarsi in arma” (una bottiglia, una pietra, un falcetto, un bastone), “scappava” il morto. È ancora Demichelis che ne scrive:
L’alcol e il suo abuso […] era presentissimo sulle pagine dei giornali e nelle aule dei tribunali. Non c’era festa laica o religiosa, cerimonia o convivio che non si concludesse con colossali bevute cui seguivano, spesso, fatti delittuosi. L’osteria era il luogo del conforto e dello svago dove si cantava, si giocava a carte o alla morra, si discuteva. Sempre bevendo. I verbali delle forze dell’ordine forniscono conteggi sul quantitativo di vino consumato ed erano sempre litri “pro capite”. Bastava quindi una parola di troppo, chiamarsi a mò di scherno con nomignoli appiccicati e mal tollerati, bastava un disaccordo su un soldo non pagato.
“Oh Duro”, uno dice in un’osteria di Limone, e l’altro risponde “Oh Ver”, e si scatena una rissa furibonda a colpi di calci, pugni e coltellate. I delitti si consumavano dentro l’osteria ma soprattutto fuori, appena usciti o nelle ore successive. Non più lucidi e senza freni la rabbia esplodeva anche contro chi magari fino a pochi minuti prima stava seduto allo stesso tavolo.
[…] Le notizie su risse finite in tragedia sono così numerose che non si riesce a contarle, moltissime provocate dall’uso di armi bianche, specie coltelli con lame di lunghezza non consentita. Compagno inseparabile, quasi un prolungamento della mano dell’agricoltore, del pastore, dell’artigiano, il coltello era così diffuso che a più riprese si tentò di regolamentarne il possesso e l’utilizzo, vista la facilità con cui veniva sfoderato.
Nel saggio Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, un lavoro fondamentale dello storico Cesare Bermani, tra i pionieri di un uso sistematico della storia orale e “dal basso” in Italia e che ci sarà di notevole aiuto, si possono intercettare nudi dati e testimonianze che corroborano l’ipotesi che questo modusvivendi fosse stato spesso, com’è prevedibile, semplicemente esportato. Se l’amministratore di una fattoria nei pressi di Zossen nel 1941 avrebbe notato che gli italiani lavoravano “avendo sempre un randello a portata di mano”, che erano “indisciplinati e sfacciati” e che un sorvegliante era stato assalito e preso a pugni in faccia tre volte in un solo giorno; l’emigrato italiano Gino Vermicelli, che dalla Francia andò in Germania, avrebbe raccontato a Bermani che “questa gente che parte è sempre la più avventurosa e spregiudicata, quindi anche la più combattiva”:
Spesso sono anche delle “teppe”, nel senso che è gente che se ne fotte, di solito sono i timorati di Dio a starsene a casa, ed è naturalmente quella che ti pianta più grane, che fa borsa nera ecc. Questo è comunque il tipo di umanità che emigra allora, e che poi naturalmente può essere in parte simpatica e in parte no. Perché in queste emigrazioni tiri fuori la schiuma.
O ancora: non fosse che stentiamo a pensarlo così rumoroso e loquace, in una sorta di testacoda che ci porta dai primi decenni del Novecento al momento del “ritorno”, verrebbe da affiancare a Lorenzo l’immagine del Moro di Verona che Levi avrebbe incontrato ne La tregua, l’anziano compagno di camerata “di maggior formato” con un “petto profondo [che] si sollevava come il mare quando gonfia in tempesta”. Ecco l’istantanea di un momento del suo picaresco viaggio di ritorno:
Doveva discendere da una stirpe tenacemente legata alla terra, poiché il suo vero nome era Avesani, ed era di Avesa, il sobborgo dei lavandai di Verona celebrato da Berto Barbarani. Aveva più di settant’anni, e li dimostrava tutti: era un gran vecchio scabro dall’ossatura da dinosauro, alto e ben dritto sulle reni, forte ancora come un cavallo, benché l’età e la fatica avessero tolto ogni scioltezza alle sue giunture nodose. Il suo cranio calvo, nobilmente convesso, era circondato alla base da una corona di capelli candidi: ma la faccia scarna e rugosa era di un olivastro itterico, e violentemente gialli e venati di sangue lampeggiavano gli occhi, infossati sotto enormi archi ciliari come cani feroci in fondo alle loro tane.
Nel petto del Moro, scheletrico eppure poderoso, ribolliva senza tregua una collera gigantesca ma indeterminata: una collera insensata contro tutti e tutto, contro i russi e i tedeschi, contro l’Italia e gli italiani, contro Dio e gli uomini, contro se stesso e contro noi, contro il giorno quando era giorno e contro la notte quando era notte, contro il suo destino e tutti i destini, contro il suo mestiere che pure aveva nel sangue. Era muratore: aveva posato mattoni per cinquant’anni, in Italia, in America, in Francia, poi di nuovo in Italia, infine in Germania, e ogni suo mattone era stato cementato con bestemmie. Bestemmiava in continuazione, ma non macchinalmente; bestemmiava con metodo e con studio, acrimoniosamente, interrompendosi per cercare la parola giusta, correggendosi spesso, e arrovellandosi quando la parola giusta non si trovava: allora bestemmiava contro la bestemmia che non veniva.
Sono suggestioni che percorrono le campagne mediterranee ed europee dove erano di casa vino, imprecazioni, coltelli, bastoni; brandelli di esistenze strappati al contesto in cui Lorenzo nacque e crebbe, a quello in cui imparò a fare a botte con la vita e al luogo da cui fu capace in qualche modo di uscire, e non da solo; ma sono immagini che appartengono in parte alla storia, in parte alla cronaca e in parte al mito ribilanciato del “buon tempo antico”, appunto. Questi spunti fugaci eppur concreti, accostabili ma fino a un certo punto alla biografia di Lorenzo, possono farcelo intravedere, il muradur di Fossano? Possono riempire i decenni di silenzio – chissà, forse condito di bestemmie – che ci ha lasciato in eredità?
Sebbene negli anni del fascismo – tra la violenza degli esordi e la “normalizzazione” del regime – Fossano avesse visto impiantarsi l’industria casearia e rafforzarsi anche quella dei concimi chimici, e sebbene negli anni Trenta fosse aumentata la produzione agricola del territorio circostante anche in virtù di imperiosi diktat del regime, questo non aveva scalfito se non in superficie l’imponente flusso migratorio, onnipresente da secoli ma intensificatosi nel tardo Ottocento prevalentemente come movimento stagionale, e diventato via via più definitivo nel periodo tra le due guerre mondiali. Quella che tra gli anni Venti e Trenta accalcava le frontiere tra il nord-ovest dell’Italia e il sud-est della Francia era un’umanità vivace e sofferente: da decenni quel confine poroso era percorso da pastori e colportueurs – gli ambulanti –, da mendicanti che nelle fiere facevano ballare le marmotte, dai cavié che commerciavano capelli femminili per i fabbricanti di parrucche parigini, da venditori di botti, maglie di lana, tele. Il legame che unisce “La Granda” – la provincia di Cuneo di cui Fossano fa parte – e la Francia mediterranea e alpina è antico e radicato in profondità; e nel primo scorcio di Novecento era emersa sempre più chiara la disparità di bisogni e possibilità, dal momento che in Italia mancava il pane, e alla Francia servivano braccia. Anche l’annata agricola era complementare: da novembre a marzo sul territorio francese servivano sempre uomini per il raccolto – delle olive, dei fiori, delle primizie –, per i grandi alberghi della Costa Azzurra e per i lavori di scasso e preparazione dei terreni. E così, ha scritto la storica Renata Allio, “braccianti, terrazzieri, spaccapietre, portuali, facchini”, e con loro molte donne che andavano a fare le domestiche, le cameriere o a raccogliere fiori o olive, quando arrivava il freddo “scendevano” in Francia e lo facevano per lo più in clandestinità. L’emigrazione temporanea dei cuneesi della montagna e di quelli della pianura li portava a condurre una vita di stenti pur di risparmiare qualcosa, e a infittire le fila dei “giavanesi”, come erano definiti in generale i migranti di mezzo mondo che affollavano la Provenza degli anni Trenta rendendola un’isola di Giava, “sprofondata in un concerto tutto suo di voci bisbetiche, di bestemmie e di mugugni” nella vivida descrizione dell’omonimo romanzo del 1939 dell’ebreo polacco Jan Malacki, che adottò lo pseudonimo Jean Malaquais. Gli italiani in particolare erano agli occhi di molti locali dei “rospi” – babi –, come a Marsiglia, o dei veri e propri nemici, come l’eccidio del villaggio occitano di Aigues-Mortes del 1893 già aveva dimostrato. Come sempre accade, chiusure e rifiuti si accompagnavano a contaminazioni virtuose: il romanzo xenofobo di inizio Novecento L’Invasion del prolifico autore ultranazionalista Louis Bertrand, ambientato proprio a Marsiglia – a poco più di duecento chilometri da Embrun –, pur trasudando disprezzo per gli immigrati italiani ammetteva che i provenzali si capivano “a metà” con i piemontesi, ormai parecchie migliaia da decenni, da quando era terminata la Grande Migrazione.
Stiamo parlando di un rigagnolo all’interno di una vera e propria emorragia inarrestabile: tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana il fenomeno migratorio interessò ogni anno almeno l’1% dei piemontesi, e tra il 1916 e il 1926 i numeri ufficiali parlano di 402.079 piemontesi e valdostani che emigrarono, andandosi a sommare al milione e mezzo abbondante di persone partite dalle medesime regioni nei quarant’anni precedenti. Molte di loro andavano nel sud della Francia, e in alcune regioni nel primo decennio del dopoguerra gli arrivi si impennarono addirittura fino a quasi quaranta volte tanto, come ammoniva un articolo allarmista uscito su “Le Matin” nel 1928, quando Lorenzo di anni ne aveva ormai ventitré e aveva da poco terminato la naia.
Negli anni Venti e Trenta l’immigrazione clandestina in Francia era diventata un fenomeno di massa, e il regime fascista aveva tentato di porle un freno, stimolando esclusivamente l’emigrazione temporanea e reprimendo poi quella irregolare: le leggi fasciste che dal 1927 puntavano a restringere le maglie dell’emigrazione endemica, pur inceppando in parte il meccanismo dei frontalieri, avevano però ottenuto l’effetto opposto a quello auspicato. Molti migranti, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, avevano infatti scelto di radicarsi stabilmente in Francia. Nonostante le tensioni inevitabili in presenza di cospicui flussi, però, come ha rilevato ancora Allio, “l’assimilazione fu rapida e oggi i nipoti degli immigrati piemontesi sono perfettamente integrati e indistinguibili dalla popolazione autoctona. Spesso abitano ancora nella casa costruita dai nonni. Percorrendo la periferia collinare di Nizza, Cannes, Vallauris o la piana di Grasse, sulle targhette dei campanelli delle case mono-famigliari con giardino si leggono tuttora in prevalenza cognomi piemontesi e per la maggior parte cuneesi”.
E venne la notte
Lorenzo “Il Tacca”, insomma, non era certo l’unico che stava più di là che di qua, non era l’unica vita randagia che partiva d’inverno e tornava in primavera, e molti stavano e basta e forse erano più francesi che altro, ormai. Alla metà degli anni Quaranta c’erano 437.000 lavoratori italiani in Francia, 120.000 dei quali erano edili (muratori e manovali in particolare), e se si calcolano le famiglie e i molti naturalizzati francesi – non meno di 150.000 agli inizi del decennio secondo l’ambasciatore Raffaele Guariglia – ci si avvicina al milione di presenze su suolo transalpino. È difficilmente ipotizzabile che questa popolazione per lo più di estrazione popolare fosse fascista. In primis perché – l’ho accennato – non di rado ci si spostava proprio in ragione del fatto che la vita era divenuta più complicata a causa del proprio atteggiamento tiepido o maldisposto nei confronti del regime; un cappellano tra i lavoratori agricoli italiani in Alta Slesia e poi in Austria avrebbe detto a Bermani che “chi va via, spesso lo fa perché non è riuscito a farsi assumere, e le ragioni possono essere varie, anche politiche”. In secondo luogo perché la presenza di antifascisti nella comunità italo-francese era imponente: insistendo sulla difficoltà di distinguere gli uni dagli altri, Bermani arriva a sostenere che “quasi tutti gli italiani in Francia [fossero] quindi in posizione critica od ostile verso il fascismo”, considerato anche il fatto che i “fuoriusciti” politici – pur non essendo dotati di un organismo di propaganda unitario – erano in larghissima parte lavoratori.
Resta un fatto che nel 1940 gli italiani e gli italo-francesi, a prescindere dalle loro convinzioni più o meno marcate, divennero ufficialmente nemici: il loro paese d’origine aveva attaccato la Francia attraversando l’arco alpino occidentale per la pugnalata alle spalle, le coup de poignard dans le dos, in seguito all’offensiva dell’alleato nazista. È ancora l’emigrato Vermicelli, all’epoca in Francia da dieci anni, a raccontare:
Arriva la guerra, la Francia è in guerra con la Germania, tu sei un operaio originario di un paese neutrale e fai il tuo lavoro. Non appena la radio ha comunicato che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia – io lavoravo alla fabbrica Licorne, faceva dei fuoristrada per l’esercito francese – mi ha chiamato il caporeparto: “Vai in ufficio”. M’han dato i miei quattro soldi e m’han mandato a casa. E così han fatto con tutti gli altri italiani che lavoravano lì, perché ovviamente non era possibile che in una fabbrica militare lavorasse un cittadino di un paese nemico. Arrivato a casa, mi collego con gli antifascisti che conoscevo e la direttiva che viene è questa. “Andiamo tutti ad arruolarci nell’esercito”. Si sapeva benissimo che non ci avrebbero mai chiamati a fare il soldato. Ma si sapeva anche che ci poteva essere un qualche stupido prefetto che ti mandava in campo di concentramento. Infatti i francesi, subito dopo la dichiarazione di guerra, avevano messo qualche decina di migliaia di italiani in campo di concentramento.
Un’altra guerra mondiale, una seconda, iniziava così per quei poveracci come Lorenzo che avrebbero dovuto far grande l’Italia, nelle intenzioni di chi mandava gli uomini a uccidere e a morire in Francia, e poi in Grecia, in Jugoslavia, in Unione sovietica. Da Fossano, e anche dal Burgué, erano partiti in centinaia, a fare le guerre del duce: l’elenco dei caduti lo si trova ancora oggi dietro al monumento nei pressi del Bastione del Salice, il residuo della cinta bastionata del XVI secolo. Risulterebbe invece (di nuovo) titanica – un ago in decine di pagliai – l’impresa di rintracciare la presenza di Lorenzo nel 1940 in un triangolo immaginario tra Nizza, Tolone e Embrun (Levi in un’intervista uscita postuma avrebbe parlato anche di Lione e Tolosa, ammettendo di non ricordare); un percorso di quasi 400 chilometri considerando solo il perimetro. Ma lui era una di quelle migliaia di persone – non meno di 8.500 –, stando a quanto ricostruito da Levi e da Angier, che erano state imprigionate: quando il colpo di pugnale era stato metaforicamente sferrato, i francesi si erano difesi come lo si fa nel momento in cui il nemico varca la soglia di quella che percepisci come “casa” e si diffida di ciascuno, in base al nome che porta, al luogo in cui ha cominciato a faticare. Mentre gli italiani subivano una delle battute d’arresto più umilianti della loro storia militare, Lorenzo aveva tirato il fiato. In gabbia gli uomini con i calli alle mani e ai piedi sopravvivono quasi sempre – almeno così credeva anche lui, prima di “Suiss” – e si mangia pure meglio che fuori, ma era durata solo qualche giorno, la tregua dal tanto andare chini. Perché quando i nazisti, anche per conto degli italiani inchiodati a ridosso delle frontiere dopo qualche passo, avevano annientato la Francia e avevano preso Parigi, il 14 giugno, Lorenzo era stato liberato, e con lui tanti compagni, braccia necessarie all’economia dell’Asse; a inizio luglio era certamente già a Fossano, all’ufficio di collocamento, a chiedere un sussidio di disoccupazione. Lavorare di nuovo in Francia sarebbe stato più ostico, di lì in avanti.
In quella regione di contaminazioni e contatti il vicino e lo straniero, l’italiano, aveva infatti ormai acquisito anche agli occhi della gente comune lo status di nemico: in seguito a una meticolosa preparazione, la frontiera si era irrigidita, trasformandosi letteralmente in un fronte. Gli italiani come Lorenzo, anche se avversi al fascismo, erano nati nella patria dei futuri dominatori, che negli anni seguenti avrebbero occupato un’ampia area del sud della Francia, in buona parte corrispondente proprio alle zone in cui lui si recava a lavorare. L’Asse voleva conquistare il mondo, si partiva dall’Europa che si sarebbe ridotta in macerie, nella quale si sarebbe comunque trovato di che campare; e come Primo Levi fa sostenere al suo alter ego Libertino Faussone ne La chiave a stella, “a dire di no a un lavoro uno impara tardi”. E ce ne sarebbe stato, da marciare, con o senza una divisa. Non posso sapere quante volte Lorenzo sia tornato in Francia irregolarmente nei primi anni Quaranta: anche se mi sento di escluderlo, potrebbe essere addirittura partito da lì attraverso un canale – inizialmente volontario, poi sempre più forzato – che portava migliaia di lavoratori italiani in Germania direttamente dal territorio francese; a nulla sarebbero valse, ad esempio, le pressioni del governo fascista perché gli operai italiani venissero rimpatriati prima di essere inviati nel Terzo Reich. In qualunque dei tre territori uno fosse impiegato, c’è da dire, lavorava comunque per l’Asse; tornare in Italia oltretutto poteva essere rischioso, e in effetti la sua classe di leva venne mobilitata. Una parte dei 178.674 lavoratori rientrati dalla Francia in Italia tra il 1937 e il 1942, in ogni caso, ripartì verso la Germania con dei contratti collettivi a termine: ritengo che Lorenzo fosse tra questi. Come certifica il suo libretto di lavoro, riprodotto parzialmente anche nel fascicolo di Yad Vashem, il muratore di Fossano ad Auschwitz ci arrivò infatti con la ditta italiana “G. Beotti”, purtroppo sempre sprovvista di altri estremi che aiuterebbero a individuarla, e questo dovrebbe essere accaduto tramite uno zio che lo fece chiamare a Embrun, oppure tramite suo fratello Giovanni, barba Giuanin. Primo Levi era stato più vago, scrivendo in Lilìt e altri racconti che “la sua scelta era stata ben poco volontaria” (tornerò su questo aspetto), perché quando i tedeschi erano arrivati in Francia, dopo il suo breve internamento, “avevano ricostituito l’impresa e l’avevano trasferita in blocco in Alta Slesia”. Non è da escludere che sia andata in effetti così, naturalmente, ma il libretto di lavoro di Lorenzo rivela come impiego immediatamente precedente alla partenza per “Suiss” oltre un mese presso una ditta di Tradate, comune del Varesotto, in un cantiere a Levaldigi, frazione di Savigliano ancora oggi nota per l’omonimo aeroporto, che proprio in quei mesi si stava ampliando massicciamente a uso militare, espropriando diverse proprietà del circondario: la committenza infatti era l’aeronautica, come rivela l’archivio storico della ditta.
Le parole di Levi lasciano aperta una pista: sembrano suggerire che Lorenzo avesse intrapreso il percorso più rapido, risparmiandosi perlomeno qualche decina di chilometri a piedi. Lui, che tanto marciava: tolti i continui andirivieni da frontaliero sappiamo con certezza che Lorenzo di chilometri ne avrebbe fatti millequattrocentododici in quattro – o più probabilmente cinque – mesi, seguendo la ferrovia, nel 1945. Ma questo è il capolinea di questa storia, o quasi, e per capirla serve mettere ordine e imparare a conoscere Lorenzo anche e innanzitutto come è stato dato in sorte a Primo.
“Se un capomastro gli faceva un’osservazione, anche con il migliore dei modi, lui non rispondeva, si metteva il cappello e se ne andava”: Levi avrebbe ricordato così gli anni che precedettero il suo incontro con Lorenzo; suppongo che si tratti di un’immagine ricavata di prima mano da lui stesso, o forse per altre vie, a partire dai suoi familiari che avrebbero confermato queste informazioni ad Angier. La scena è ampiamente verosimile, dato il noto carattere irascibile di Lorenzo, sebbene ammantata da un’aura ieratica forse mitizzante, e dalla formulazione scelta da Levi deduco con cautela che questo fosse accaduto più di una volta tra la metà degli anni Trenta e il 17 aprile del 1942, quando infine il muradur di Fossano giunse ai margini di Auschwitz, dove avrebbe lavorato alla “Buna”, fondata nell’ottobre di quell’anno con l’obiettivo di produrre gomma sintetica – la “buna”, per l’appunto, acronimo di Butadien-Natrium-Prozess – e benzina sintetica e coloranti e altri sottoprodotti del carbone.
traduzione e introduzione di Franco Fortini, Oscar Mondadori, Milano, 1985
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Poesie di Paul ELUARD, Poeta francese
Novembre 1936
Guardateli al lavoro i costruttori di macerie
Sono ricchi pazienti neri ordinati idioti
Ma fanno quel che possono per esser soli al mondo
Sono agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco
Piegano fino a terra palazzi senza capo.
*
A tutto ci si abitua
Ma a questi uccelli di piombo no
Ma non al loro odio per tutto quel che luccica
Non a lasciarli passare.
*
Parlate del cielo e il cielo si vuota
Poco c’importa l’autunno
I nostri padroni hanno pestato i piedi
Noi l’abbiamo dimenticato l’autunno
Dimenticheremo i padroni.
*
Città in secca oceano d’una goccia scampata
Di un unico diamante coltivato alla luce
Madrid città fraterna a chi ha patito
Lo spaventoso bene che nega essere esempio
A chi ha patito
L’angoscia indispensabile perché splenda quel bene
*
E alla sua verità salga la bocca
Raro alito sorriso come rotta catena
E l’uomo liberato dal suo passato assurdo
Levi innanzi ai fratelli un volto uguale
E alla ragione dia vagabonde ali.
Da « Cours naturel » (1938)
Paul Éluard
La vittoria di Guernica
1
Bel mondo di tuguri
Di miniere e di campi
2
Visi buoni al fuoco visi buoni al freddo
Ai rifiuti alla notte agli insulti alla frusta
3
Visi buoni a tutto
Ecco il vuoto vi fissa
La vostra morte servirà d’esempio
4
Morte cuore rovescio
5
Vi han fatto pagare il pane
Il cielo la terra l’acqua il sonno
E la miseria
Della vostra vita
6
Dicevano di volere il buon accordo
Razionavano i forti giudicavano i pazzi
Facevano l’elemosina spartivano in due un soldo
Salutavano i cadaveri
Si colmavano di cortesie
7
Perseverano esagerano non sono del nostro mondo
8
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Di primavera verde e latte puro
E di durata
Nei loro occhi puri
9
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Negli occhi
Gli uomini come possono lo difendono
10
Le donne e i bimbi hanno negli occhi
Le stesse rose rosse
Mostra ognuno il suo sangue
11
La paura e il coraggio di vivere e morire
Tanto difficile la morte tanto facile
12
Uomini per cui questo tesoro fu cantato
Uomini per cui questo tesoro fu sprecato
13
Uomini reali cui la disperazione
Alimenta la fiamma divorante della speranza
Apriamo insieme l’ultima gemma dell’avvenire
14
Paria la morte la terra l’orrore
Dei nemici hanno il colore
Monotono della nostra notte
E noi li vinceremo.
Da « Cours naturel » (1938)
Dubitare del delitto
Una corda una torcia un sol uomo
Strangolò dieci uomini
Arse un villaggio
Avvilì un popolo
La dolce gatta acquattata nella vita
Come una perla nella sua conchiglia
La dolce gatta ha mangiato i gattini
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Paul Éluard
Far vivere
Erano pochi uomini che vivevano nella notte
Sognando del cielo materno
Erano pochi uomini che amavano la selva
Credendo al legno ardente
Fin da lontano beati al profumo dei fiori
La nudità dei desideri li velava
Il respiro ritmato univano nel cuore
All’ambizione minima di vita naturale
Che nell’estate cresce come estate più forte
Alla speranza del tempo venturo
E che pur da lontano altro tempo saluta
Univano nel cuore
Amori più ostinati del deserto
Pochissimo sonno bastava
Per renderli al sole futuro
Duravano sapevano che vivere fa eterni
Dal buio dei sogni generavano luce
*
Erano pochi uomini
Furono folla a un tratto
Sempre è stato così. Da « Au rendez-vous allemand » (1942-1945)
I
Tutte le donne felici hanno
Ritrovato il loro marito egli torna dal sole
Tanto è il calore che porta.
Ride e piano saluta
Prima di dare un bacio alla sua meraviglia.
II
Splendida, il seno teso leggermente,
Santa mia donna, sei mia più di quando
Con lui, e lui e lui e lui e lui,
Io reggevo un fucile, un bidone – la vita!
VII
Per molto tempo ho avuto un volto inutile
Ma ora
Ho un volto per essere amato
Un volto per essere felice.
X
Sogno di tutte le belle
Che di notte vanno in giro,
Lente e calme,
Con la luna che viaggia.
XI
Tutto il fiore dei frutti m’illumina il giardino,
Gli alberi di bellezza e gli alberi da frutta
E io lavoro e sono solo nel mio giardino,
E il Sole cupo fuoco arde sulle mie mani.
Da « Poèmes pour la paix » (1918)
Zampa
Il gatto nella notte si fissa per gridare,
Nell’aria libera, nella notte, il gatto grida.
E triste, a altezza d’uomo, l’uomo ode quel grido.
Da « Les animaux et leurs hommes » (1920)
L’innamorata
Mi sta dritta sulle palpebre
E i suoi capelli sono nei miei,
Di queste mie mani ha la forma,
Di questi miei occhi ha il colore,
Dentro l’ombra mia s’affonda
Come un sasso in cielo.
Tiene gli occhi sempre aperti
Né mi lascia mai dormire.
I suoi sogni in piena luce
Fanno evaporare i soli,
E io rido, piango e rido,
Parlo e non so che dire.
Senza rancore
Lacrime delle palpebre, dolori dei dolenti,
Dolori che non contano e lacrime incolori.
Non chiede nulla, lui, non è insensibile,
Triste nella prigione e triste quand’è libero.
È un tempo tetro, è una notte nera
Da non mandare in giro nemmeno un cieco. I forti
Siedono, il potere è in pugno ai deboli,
E in piedi è il re, vicino alla regina assisa.
Sorrisi e sospiri, insulti imputridiscono
Nella bocca dei muti e negli occhi dei vili.
Non toccar nulla! Qui brucia, là arde;
Codeste mani son per le tasche e le fronti.
*
Un’ombra…
Tutta la pena del mondo
E il mio amore addosso
Come una bestia nuda.
Da « Mourir de ne pas mourir » (1924)
Paul Éluard
Non smetto ma per così dire di parlare di te eppure l’essenziale è presto detto.
Quando l’alba leva gli artigli
E il primo versante di selva
Tra riflessi di brividi
L’abisso delle vette s’apre
Quando a picco ti s’apre la veste
E dà alla luce il corpo tenero
E offre il seno lustrato docile
Seno che mai ha lottato
Ranuncoli tigrati di piombo
Eclissi fatali a chi è forte
Gradi di ermellino immolato
O quando in volto ti turbi
Quel che mi piace del tuo volto è l’apparire
D’un lume ardente in pieno giorno.
Da « La rose publique » (1934)
Nessuno può conoscermi
Nessuno può conoscermi
Come tu mi conosci
Gli occhi tuoi dove dormiamo
Tutti e due
Alle mie luci d’uomo han dato sorte
Migliore che alle notti della terra
Gli occhi tuoi dove viaggio
Han dato ai gesti delle strade un senso
Separato dal mondo
Negli occhi tuoi coloro che ci svelano
La solitudine nostra infinita
Non sono più quel che credevan essere
Nessuno può conoscerti
Come io ti conosco.
Da « Les yeux fertiles » (1936)
Un lupo
La buona neve il cielo nero
Le rame morte lo squallore
Della selva piena d’insidie
Onta alla bestia inseguita
La fuga in freccia nel cuore
Tracce d’una atroce preda
Dàgli al lupo e quello è sempre
Il lupo più bello ed è sempre
L’ultimo vivo sotto la minaccia
Dell’assoluta massa di morte.
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Sorelle di speranza
Sorelle di speranza o donne coraggiose
Contro la morte avete stretto un patto
Quello di unir le virtù dell’amore
Sopravvissute sorelle
Vi giocate la vita
Perché la vita vinca
Vicino è il giorno o mie sorelle di grandezza
Che delle parole guerra e miseria noi rideremo
Di quanto fu amarezza nulla resisterà
Ogni viso avrà diritto alle carezze.
Da « Poèmes politiques » (1948)
Buona giustizia
È la calda legge d’uomini
Con le uve fanno vino
Col carbone fanno fuoco
Con i baci fanno uomini
È la dura legge d’uomini
Rimanere integri contro
E la guerra e la sciagura
Contro i rischi della morte
È la dolce legge d’uomini
Tramutare l’acqua in luce
Ed i sogni in realtà
E in fratelli i tuoi nemici
Una legge antica e nuova
che si va compiendo e va
Dal cuore infante che non sa
Fino alla ragion suprema.
Da « Tout dire » (1951)
AVVERTENZA:tutti i testi qui presentati sono tratti da:
Paul Éluard POESIE traduzione e introduzione di Franco Fortini Oscar Mondadori Milano, 1985
Antonino Caponnetto
Pubblicato da Antonino Caponnetto venerdì 13 aprile 201
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Antonia Pozzi: la drammatica fine della Poetessa dell’Anima-
Articolo di Giovanna Potenza
Antonia POZZI
ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … …
È strana, a volte, la vita. Se osserviamo dall’esterno, alcune persone sembrano insolitamente privilegiate e la loro esistenza fluisce serena, senza ostacoli, come un fiume che scorre inarrestabile. Eppure, talvolta, quel moto lento e inesorabile si interrompe bruscamente, magari per una casualità o per un intervento volontario, e noi restiamo attoniti e smarriti ad interrogarci sul perché. Cosa può aver spinto, a soli 26 anni, Antonia Pozzi a compiere il suo tragico gesto in una gelida giornata decembrina di tanti anni fa, quando sull’Europa si addensavano minacciose le nubi di guerra? Forse non sapremo mai se le ragioni del suo suicidio sono da ricercarsi in un oscuro “male di vivere”, oppure in un sentimento di disperazione fatale. Possiamo asserire con certezza però che il panorama letterario italiano ne risultò impoverito perché, come ebbe a commentare Dino Formaggio, un famoso filosofo legato da profonda amicizia con la donna: “la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo“. Una voce isolata e solitaria, quella della Pozzi, a lungo poco nota, fino alla “riscoperta” da parte di Montale, che ne decretò la fama definitiva. Milanese, nata nel 1912 da una facoltosa famiglia alto-borghese (il padre era un noto avvocato, la madre, una nobildonna nipote di Tommaso Grossi, scrittore amico di Carlo Porta e del Manzoni), Antonia Pozzi studia al liceo classico “Manzoni”, nella sua città, e intreccia ben presto una relazione con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, relazione fortemente avversata dai genitori, terminata nel 1933, con il trasferimento dell’insegnante a Roma. L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935. Viaggia in Italia, Austria, Germania e Inghilterra, ma visita anche le periferie della sua città, un mondo per il quale prova compassione, sentendosi quasi in colpa per i suoi natali privilegiati. Non a caso preferisce all’elegante mondanità milanese la solitudine della vita immersa nella natura incontaminata di Pasturo, presso Lecco, dove si erge la settecentesca villa di famiglia. Antonia fa lunghe escursioni a piedi o in bicicletta, ama la selvaggia bellezza di quei paesaggi ricchi di picchi innevati, di torrenti e di crepacci. Trae fonte di ispirazione dalla natura, è il silenzio delle alture che la induce alla meditazione sulla finitezza umana. Scatta fotografie ai luoghi ed agli abitanti, colti nelle loro umili mansioni quotidiane. Solo in alcuni e brevi momenti la giovane riesce a sentirsi in pace con se stessa. Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: <<l’età delle parole è finita per sempre>>. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce. “Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo. Le sue prime opere vengono pubblicate postume, dalla Mondadori, un anno dopo la sua morte, dopo essere state revisionate dal padre, che modifica soprattutto quelle dai contenuti amorosi. Ma, a dispetto delle manipolazioni subite, la produzione lirica della Pozzi affascina tuttora generazioni di lettori per la modernità e per la scarna essenzialità dei suoi versi soffusi di tristezza, debitori del crepuscolarismo e dell’espressionismo tedesco.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Dopo un lungo periodo di oblio, persino il cinema si è interessato ad Antonia e la sua vita è stata ricostruita nel cine-documentario della regista Marina Spada in “Poesia che mi guardi”, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 2009. In occasione del centenario della sua nascita, i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno, poi, realizzato un film-documentario dal titolo “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” e nel 2016 è stato proiettato, al Cinema Mexico di Milano , un film sulla sua vita intitolato “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino. Oggi ella riposa nel cimitero di Pasturo, e la sua tomba è vegliata dal monumento funebre dello scultore Giannino Castiglioni, un “Cristo Giovane” che ha lo sguardo rivolto alla Grigna, alle amate montagne testimoni silenti e imperturbabili della “breve sosta” di Antonia nella nostra dimensione terrena.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Articolo di Giovanna Potenza , è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.
Fonte- Vanilla Magazine-
VOCE DI DONNA 18 settembre 1937
Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
PRATI Milano, 31 dicembre 1931
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l’abbaglio estremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
Antonia POZZI
INCANTESIMI 22 dicembre 1935
Alti orli ghiacciati
si disfecero al mondo.
Solcava
lenta e lieve la barca
laghi d’oro,
andando così noi nel sole
abbracciati.
Gracili reti bionde
imprigionavano l’ora.
E nacquero brividi;
crebbero
voci tristi;
fischiò
a sponda il dilacerarsi delle canne.
Belve chiare
guardarono dal folto
a lungo
il tramonto nell’acqua,
andando così verso l’ombra
io libera
e sola per sempre.
ANTONIA POZZI-Bambina
Lampi
Stanotte un sussultante cielo
malato di nuvole nere
acuisce a sprazzi vividi
il mio desiderio insonne
e lo fa duro e lucente
come una lama d’acciaio.
Margherita, 23 giugno 1929
ANTONIA POZZI-Poetessa
Sfiducia
Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggére
per lasciare un’impronta –
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
– altre cose intendendo –
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.
16 ottobre 1933ù
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Pensiero
Avere due lunghe ali
d’ombra
e piegarle su questo tuo male;
essere ombra, pace
serale
intorno al tuo spento
sorriso.
maggio 1934
Antonia Pozzi
Convegno
Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –
sul mio volto.
29 maggio 1935
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Brezza
Mi ritrovo
nell’aria che si leva
puntuale al meriggio
e volge foglie e rami
alla montagna.
Potessero così
sollevarsi
i miei pensieri un poco ogni giorno:
non credessi mai
spenti gli aneliti
nel mio cuore.
8 giugno 1935
Antonia Pozzi
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
ANTONIA POZZI-Poetessa
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Ferruccio Parri-Come farla finita con il fascismo-
Editori Laterza
Ferruccio Parri :«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
Ferruccio Parri
DESCRIZIONE-INTRODUZIONE-RASSEGNA STAMPA
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. Ferruccio Parri, vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Ferruccio Parri
Introduzione.
Cosa resta
di David Bidussa e Carlo Greppi
Abbiamo già detto tante volte che noi non vogliamo fare una storia idealizzata, né credere e far credere quello che non c’è, o presentare gli attori di questi fatti per quello che non sono o non sono stati; essi furono modesti uomini come tutti.
Ferruccio Parri (1961)
Del fascismo Parri è stato uno dei più irriducibili avversari nel corso della sua lunga vita adulta, che percorre integralmente la storia dell’ideologia che ha insanguinato l’Italia, l’Europa e il mondo. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla presa del potere, Parri sente, «come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio» [infra, p. 6], ed è lui il primo a fare della sua «avversione morale», che è «perentoria ed irriducibile», appunto, la cifra con cui affronta la dittatura prima, l’occupazione e la guerra civile poi, e, infine, il costante riemergere del neofascismo in incalcolabili forme, i cui echi arrivano fino all’Italia di oggi, un paese le cui stesse premesse democratiche scricchiolano in maniera preoccupante. Ed è utile, in questo tempo di crisi profonda, ripercorrere i passi di una generazione che ha in gran parte voluto – e in questo Parri è stato maestro – sentirsi «ordinaria».
È quando il fascismo si fa regime, ricorderà Parri, che i giovani d’allora scoprono la democrazia: «Si avverte che al fascismo non è possibile opporre soltanto la polemica antifascista, se la polemica antifascista non riposa sui principi, su una costruzione politica superiore, atti a soddisfare le esigenze primarie di libertà e di giustizia. È dunque allora che si crea, soprattutto fra gli intellettuali – ciò che è essenziale per comprendere la lotta di poi – una prima convergenza di forze, fondamentale a spiegare la storia successiva». Convinto che la vittoria sul fascismo si sia costruita passo dopo passo, in oltre vent’anni di lotte e sacrifici, Parri si oppone in diverse occasioni alla «spiegazione poetica che piaceva al nostro sempre compianto Calamandrei», per la quale di colpo, come per delle «misteriose leggi di natura», era gemmata e può gemmare la Resistenza. Dalla svolta con cui Mussolini instaura di fatto il regime, Parri aveva imparato «che la sconfitta si riparava cercando una soluzione superiore; che contro il fascismo non si combatteva più sulla base del diritto formale della società precedente al fascismo; che le vecchie classi dirigenti erano crollate, erano cadute», e che «occorreva una soluzione diversa, una visione più avanzata».
Queste, come quelle che ritroverete in queste pagine, sono parole di un’attualità a dir poco sconcertante, che ripercorrono la presa di coscienza di un uomo «come tutti» che, poco più che trentenne, si rese conto che quella che riteneva essere la sua ordinarietà diventava di colpo speciale, rara, necessaria, da coltivare in un’Italia che sprofondava nel baratro della dittatura. Un uomo che si rese conto, fin dagli anni Venti, che bisognava disobbedire – e rivendicarlo pubblicamente – e poi combattere: «al nemico non si doveva conceder tregua», ricorderà, «sapevamo che la guerra era necessaria e che una volta iniziata non si poteva più tornare indietro» [infra, p. 22].
Accomunati da questa sua tormentata e costante attenzione per una vision – si direbbe oggi – antifascista, fondamentale e fondante in tempo di crisi, sono tre gli aspetti che ritornano più volte nelle parole di Ferruccio Parri e che a vario titolo lo accompagnano nei momenti salienti della propria vita, tanto da definire il suo vocabolario politico.
Il primo aspetto riguarda una dimensione laica della politica. Il secondo nasce dalla convinzione di dover trovare significati e immagini che parlino a generazioni anche lontane dalla sua, consapevole della consunzione non solo delle parole, ma anche dei sentimenti e delle esperienze se non corroborate da una volontà di rimetterle costantemente tra le cose della propria quotidianità, e dunque non proporle come sacre. Il terzo aspetto, infine, consiste nell’essere consci del fatto che scommettere sul futuro ogni volta significa riprendere in mano il passato.
Veniamo dalla polvere e dobbiamo tornare, tutti, nella polvere. Lo spirito che ci rende uomini, soffia quando vuole e dove vuole. La sua brezza ha animato Ferruccio Parri durante tutta la sua lunga vita. Egli era laico, intellettualmente e politicamente […] ma pochi più di Parri possedevano, fra i suoi ed i nostri contemporanei, le doti cristiane della devozione al dovere, dell’obbedienza ai 10 comandamenti, dell’amore della famiglia e dell’umanità, dello spirito di sacrificio, dell’umiltà.
Sono le parole con cui Leo Valiani, il 9 dicembre 1981, apre la sua orazione funebre per Ferruccio Parri. Un addio tra due amici di vecchia data che si erano da tempo divisi sulle scelte politiche, dopo la prima stagione del Partito radicale, quando Ferruccio Parri dava vita al primo nucleo della «sinistra indipendente».
In quelle parole tuttavia non sta solo il rispetto o l’affetto verso «Maurizio» – il mitico nome di battaglia di Parri nella lotta partigiana – o verso la Resistenza, anche se certamente c’è anche quello, memore di quanto Valiani scriveva nel 1947 quando ricordava, nell’inizio incerto della guerra di liberazione, «Tutti vanno pazzi per lui». Quelle parole non sono solo un sincero riconoscimento della capacità che Parri aveva avuto di tenere insieme le molte anime e i molti protagonisti del movimento resistenziale, che avevano accettato come «linguaggio comune» le «semplici parole di libertà e giustizia» [infra, p. 44], che avevano scelto di stare uniti. La commossa orazione funebre di Valiani svela un lessico laico che in Italia non è mai stato linguaggio condiviso, o comunque mai di maggioranza. Laddove con «laico» si intende il riconoscimento del nesso doveri/diritti nonché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano, ovvero il proseguimento del progetto illuminista enunciato da Kant all’inizio del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? «L’illuminismo – scriveva il filosofo tedesco – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque l’essere laico, nelle parole di Valiani e nella biografia di Parri, indica una tendenza continua a uscire dallo stato di minorità in cui ci si trova e a «camminare con le proprie gambe», non confondendo, come sottolinea Michel Foucault, quella condizione di minorità «con uno stato di impotenza naturale». Dunque pare che compito dell’intellettuale e del politico sia essere ottimisti, laddove, con Johan Huizinga, ottimista non è colui che sottovaluta i pericoli gravi sostenendo che tutto finirà per il meglio, bensì colui il quale, pur valutando in tutta la sua portata la minaccia dell’imminente tracollo, tiene alta la speranza, anche qualora non si scorga all’orizzonte una via d’uscita. Ottimista è chi si sforza costantemente di ricomporre un quadro, ma anche di dare il valore alle cose per poterlo sostenere. In altre parole, riprendendo le azioni che nel pensiero di Parri appaiono necessarie per «farla finita con il fascismo», essere laico significa non cedere il passo, saper progettare e saper trainare. Al primo posto, sostiene Parri all’apertura dei lavori della Consulta [infra, pp. 55 sgg.], ci deve essere «la difesa dell’ordine morale» dell’Italia – e della «Giovane Europa» – di domani, in continuità con lo «spirito di concordia» della lotta di liberazione. Senza impantanarsi, invischiarsi, soffocarsi, rischiando così di favorire il ritorno «a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia» [infra, p. 80].
È un profilo che «Maurizio» ha costantemente presente nella sua riflessione e che nella lezione che tiene nel 1960 – Il CLN e la guerra partigiana –, che abbiamo volutamente sintetizzato con la parola chiave «trasmettere», assume una dimensione paradigmatica. «Trasmettere», infatti, non è solo raccontare perché altri ereditino, ma è soprattutto non celare, non costruire una versione mitizzata del passato per timore della sua dissoluzione, che invece sarà conseguente e logica proprio se quel passato dovesse essere raccontato in versione «eroica». In quell’occasione, in apertura del suo intervento, Parri dice:
Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han da temere della sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo [infra, p. 96].
Del resto, anni prima, lo stesso Parri non aveva taciuto sulla dimensione geograficamente contenuta della Resistenza: «Solo una parte del paese, territorialmente parlando, è stata toccata profondamente dalla Resistenza, e solo una parte della società italiana vi partecipa o l’accetta», aveva detto in un’intervista nel 1957, precisando che Resistenza non era stata la ripetizione del moto solo urbano ed elitista del Risorgimento, al quale non manca mai di riferirsi, ma qualcosa di più profondo e partecipato.
In quella stessa intervista, tuttavia, indica una questione molto importante che spiega l’insistenza di parlare della Resistenza, in particolare rivolta alle generazioni anche lontane da quell’esperienza diretta:
il crollo del fascismo – precisa – ha aperto situazioni e vuoti di portata assai più ampia. È crollata l’impalcatura del regime fascista; non sono stati arrestati gli effetti della sterilizzazione dei cervelli. E così un fondo materasso di conformismo e qualunquismo, che è lo stato psicologico di riposo di un paese senza educazione e di scarsa coscienza democratica, fa da supporto alle vendette, alle paure postume, alle restaurazioni conservatrici, alle pressioni retoriche e clericali.
La sua convinzione è che «non si ama quello che non si conosce», e la prima cosa che si ignora, ripete più volte, è la rilevanza del fatto resistenziale, come scelta – un aspetto su cui avrebbe scritto Claudio Pavone nel 1991 proprio su sollecitazione di Parri –, come condizione straordinaria nella storia italiana. Un fatto eccezionale a opera di uomini per lo più, appunto, «ordinari». È un’osservazione che ripete spesso a partire dal 1949, ogni qualvolta riflette sul significato della esperienza resistenziale nella storia degli italiani: vi ritorna nel 1960 nelle lezioni sull’antifascismo [infra, pp. 93 sgg.], poi nel 1963 in un’intervista che dà all’«Avanti!», poi di nuovo nel 1972 ripercorrendo la scena della caduta del governo da lui presieduto [infra, pp. 37 sgg.]. D’altronde lo diceva già nel 1945, descrivendo il «momento psicologico politico» dell’immediato dopoguerra, tratteggiando quella «marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti», della quale «non ci si deve meravigliare», anche perché tra le miserie, i dolori, le inquietudini e «un così diffuso stato di insicurezza», vanno aggiunti «i delusi, gli spostati, gli avventurieri» e «lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti», dei fascisti [infra, p. 79]. La Resistenza aveva visto una partecipazione popolare senza precedenti, è vero, ma restava un’esperienza di una vasta minoranza, che sarebbe tornata a fronteggiare «l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia» [infra, p. 53].
Accanto a quella preoccupazione sta una convinzione: da una dittatura non si esce solo per crollo del sistema e ripristino delle regole democratiche. I conti con le dittature impegnano anche le generazioni successive se non si affrontano le mentalità che hanno fatto sì che quelle dittature durassero nel tempo.
In breve, anche se Parri non usa questa espressione – lui parla di «sagomatura mentale» –, l’Italia del secondo dopoguerra ha appunto un problema di «mentalità fascista» non affrontata e, dunque, rimasta nel codice culturale, nel senso comune. Per questo è necessario coinvolgere e motivare le giovani generazioni: non per un vago rispetto alla memoria del passato, ma alla rovescia, perché quel tempo possa archiviarsi come passato. In Italia, invece, sostiene Parri, quel processo di liberazione culturale, mentale, linguistico, non ha avuto luogo. Per questo, sostiene, ci troviamo a misurarci con la «continuità dello Stato», espressione che significativamente Parri introduce nel gennaio 1972 [infra, p. 46] e che Claudio Pavone assumerà come parola chiave di lavoro, nel 1973, per profilare il tema del passaggio claudicante tra dittatura e repubblica democratica, in un contesto in cui aveva «ripreso fiato» quell’Italia «maggioritaria, piallata, abbeverata da venti anni di regime» [infra, p. 86].
Tuttavia, dichiarare o riconoscere che quel passaggio sia avvenuto in maniera incerta, che spesso sia stato più formale che reale, non implica scegliere la strada del ripiegamento o della delusione, comunque del mesto «ritorno a casa» o, peggio, a una scelta tutta rivolta al «culto del privato».
C’è una dimensione pubblica su cui Parri insiste, soprattutto guardando al passato da dare in consegna alle nuove generazioni. La sconfitta è prima di tutto rivendicazione dei principi della propria azione, è non venire a patti col nemico, anche quando il nemico domina. È il senso della lettera al giudice nel 1927 [infra, pp. 3 sgg.], un testo che verrebbe da definire profetico e che per molti aspetti ha scolpito l’immagine pubblica di Parri, spesso trasformandolo in un’icona.
Ma Parri non ha nessuna intenzione di rimanere avvolto nella leggenda. Per questo il punto che egli sottolinea ogni volta è ricominciare, con pazienza, si potrebbe dire con tenacia. E dunque la logica non è mettere le lapidi o porre il problema della liturgia dell’eroe. Parri, a differenza di Calamandrei, ragiona sul fare la propria parte, evita cioè l’elemento eroico e retorico del martire e ragiona sulla possibilità di azione che ci è data, e anche sul ricominciare daccapo.
È un criterio che appare con nitidezza nel 1933, quando Parri scrive un saggio su Carlo Pisacane. Come è stato sottolineato dallo storico Guido Quazza, Parri in Pisacane legge e trova una parte di sé: sono soprattutto i temi ad attirarlo, quelli cioè legati al dopo 1848, al tempo della sconfitta e dell’esilio di un protagonista assoluto del Risorgimento, agli incontri che l’esule Pisacane fa, alle conversazioni che si hanno tra sconfitti, come scrive Gramsci. Avvicinandosi a un uomo del passato, Parri riflette sull’esperienza dell’esilio come opportunità «per crescere» anziché condizione «per piangere». Invito su cui, significativamente, in anni a noi vicini ha proposto pagine di grande spessore Edward Said.
Ne discende che porgere il testimone della storia non è consegnare il fardello del passato, ma è un modo di fare catena generazionale, e dunque di dare senso alla storia. In questo c’è un superamento della dimensione del militante rivoluzionario e del combattente che Jean-Paul Sartre inquadra nel personaggio di Goetz nel dramma Il diavolo e il buon Dio; e c’è, in parallelo, la dimensione della caparbietà con cui Albert Camus descrive Sisifo, non già nella disperazione dell’attimo successivo alla caduta, ma nella determinazione di Sisifo a scendere di nuovo negli inferi per tentare di nuovo la lotta all’oppressione. «In ciascun istante – scrive Camus – durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
Così era stata, in fondo, la Resistenza armata, che stabilì «vincoli di solidarietà morale, che sopravvivono ai litigi e non si cancellano mai», scrive Parri [infra, p. 125]. Così erano stati gli «uomini di allora» che «non hanno meriti speciali, ed hanno commesso gli errori che commettono gli uomini, anche se in buona fede; ma qualche merito deve essere rivendicato, soprattutto in difesa e a onore dei caduti. Il principale di questi meriti è forse la chiarezza della visione di quel momento». Sono parole che «Maurizio» pronuncia quasi vent’anni dopo la Liberazione, evocando una determinazione e una chiarezza di vedute che forse in molti casi sono poi mancate, al momento della sconfitta, quando il vento della restaurazione e della reazione è tornato a soffiare con arroganza. Ed è questo, crediamo, uno dei pericoli che nel nostro tempo rendono così urgenti le parole e gli scritti di Ferruccio Parri: lo spaesamento che rende una chimera la laicità – nella sua accezione più nobile – della politica, il non trovare più significati che possano percorrere quelle catene generazionali che lui aveva immaginato con forza, il non essere più in grado di impugnare il nostro passato per dotarci di nuove parole chiave, necessarie a farla finita, una volta per tutte, con il fascismo. All’inizio degli anni Sessanta, ricordando di aver presentato una legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano, Parri sosteneva di non essere stato mosso dalla preoccupazione per il fenomeno politico del neofascismo in sé, ma per «i problemi morali dei giovani»: «Sono questi movimenti giovanili che si ripetono, è questa facilità di propaganda che ci impensierisce: questo periodico ritorno a sistemi, a ideologie di violenza, che non vogliamo e che non dobbiamo volere».
Ideologie di violenza che dobbiamo, a tutti i costi, sgominare.
Riferimenti bibliografici
Il brano in esergo è tratto dalla relazione «Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione» tenuta da Parri il 26 giugno 1961 e pubblicata in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, p. 615, così come le due citazioni seguenti nel secondo capoverso (ivi, pp. 613-614) che evocano quelle qui in Il CLN e la guerra partigiana [infra, pp. 93 sgg.]; mentre la prima riflessione sulla sconfitta citata è in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200.
Il testo dell’orazione funebre di Valiani si trova in Parri la religione laica del dovere. Testimonianze di Riccardo Bauer, Arturo Colombo, Giovanni Spadolini, Leo Valiani, in «Nuova Antologia», n. 2141, gennaio-marzo 1982, pp. 19-25 (il passo citato è a pp. 19-20). L’espressione «Tutti vanno pazzi per lui» è in Leo Valiani, Tutte le strade conduconoaRoma, introduzione di Claudio Pavone, il Mulino, Bologna 1995 (I ed. 1947), p. 104.
Il testo di Kant è ripreso da Immanuel Kant, Antologia degli scritti politici, selezione italiana di scritti a cura di Gennaro Sasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 47-55 (la citazione è a p. 47, i corsivi sono nel testo); le parole di Foucault sono in Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2017, p. 36 (ed. or. Le Gouvernement de soi et des autres, Seuil/Gallimard, Paris 2008); per Huizinga si veda Johan Huizinga, Nelle ombre del domani,a cura di Rodolfo Lancia, Aragno, Torino 2019, p. 3 (ed. or. In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, H.T. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem 1935).
L’intervista di Ferruccio Parri ad Antonio Spinosa Solo una parte…, del dicembre 1957, è in «Resistenza», poi in Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 232-236 (i passi citati sono a p. 233 e a p. 234).
Il libro di Claudio Pavone cui si fa riferimento è Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. I testi di Parri del 1949 e del 1963 sono ricompresi in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 512-528 e pp. 530-534. Per una scelta dei testi di Claudio Pavone dedicati al tema della «continuità dello Stato» si veda il suo Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg., nonché la bibliografia ivi citata.
Il saggio su Pisacane, lunga recensione alla monografia di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932, poi Einaudi 1980) è ora in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 74-98 (si veda anche Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi [1931], ora in Id., Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1973, pp. 511-525); il giudizio di Quazza su Parri è in Guido Quazza, Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Rochat, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Ferruccio Parri. Sessant’anni di storia italiana, introduzione di Luigi Anderlini, De Donato, Bari 1983, p. 43. Il riferimento a Gramsci è in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1816. Il riferimento a Edward Said è al suo Riflessioni sull’esilio, ora in Id., Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-231. Per Jean-Paul Sartre si veda Il diavolo e il buon Dio, Mondadori, Milano 1976 (ed. or. Le Diable et le Bon Dieu, Gallimard, Paris 1951); per Albert Camus, Il mito di Sisifo (ed. or. Le Mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942), in Id. Opere, Bompiani, Milano 2000, pp. 316-317.
Le ultime due citazioni sugli uomini della Resistenza e quelle sull’MSI sono in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Arbizzani, Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano cit., p. 205 e p. 214.
Gli otto scritti di Parri riprodotti nel volume sono ripresi da: Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 63-65, 132-142, 110-113, 566-576, 179-193, 576-582, 547-566, 582-588.
Salvo indicazione contraria, le note a piè di pagina sono presenti nell’edizione originale.
Ferruccio Parri -foto segnaletica-
Disobbedire.
Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
Nel dicembre 1926 con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti, Ferruccio Parri prepara e realizza l’espatrio di Filippo Turati, con un motoscafo, da Savona a Calvi in Corsica. Mentre Turati, Pertini e Oxilia proseguono per Nizza, Parri e Rosselli, ritornati con il motoscafo a Marina di Carrara, vengono arrestati, nonostante tentino di sostenere di essere reduci da una gita di piacere.
La lettera al giudice di Ferruccio Parri, all’epoca trentasettenne, è datata 18 febbraio 1927 ed è la dichiarazione di assunzione di responsabilità per un atto, ma soprattutto per una decisione che voleva dire disobbedire, venire meno agli ordini del regime in cui ormai era permessa un’unica voce, quella del fascismo. Ma il documento non ha valore solo per questo. Parri insiste, nella sua lettera, sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi. È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.
Illustrissimo signor Giudice istruttore
La mia volontaria e meditata partecipazione all’espatrio clandestino dell’onorevole Turati è stata determinata – come già le dichiarai, signor Giudice – da moventi strettamente politici. I quali tuttavia dalla deposizione che ho già reso in sue mani – su questo punto necessariamente sommaria – non risultano con quella assoluta chiarezza che deve essere attributo e privilegio di un atto di così piena consapevolezza. Mi consenta pertanto, signor Giudice, di completare per questa parte le mie dichiarazioni.
Non mi hanno guidato ragioni di personale rancore verso il regime; non ambizioni o delusioni o vendette da soddisfare: insisto nel definire motivi strettamente secondari lo stesso sdegno del momento e la sollecitudine per l’uomo nobilissimo minacciato.
Mi onoro di aver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione – cui non son mancati riconoscimenti ed elogi –; non ho mai seguito – come le dissi – movimenti di estrema; alieno in genere dalla vita politica, e per questo rimasto sempre estraneo ai partiti, nessuna responsabilità ho certo da rimproverarmi rispetto agli anni torbidi del dopoguerra.
Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista.
Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettissimo conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali calpestati, della nazione lacerata.
Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, alla loro coscienza è affidata per le speranze dell’avvenire la tradizione del passato.
Questa tradizione è nell’aspirazione, perenne nella nostra storia migliore, alla libertà ed alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia nella storia del mondo.
Chi, come il fascismo ha fatto, oblia e – cieco – rinnega questa eredità ideale, perduti insieme freno e timore, fatalmente degrada il suo dominio politico a sopraffazione: menzogna ed ipocrisia si fanno strumenti di governo e ragioni di corruzione e corrosione, cade ogni norma e limite di moralità pubblica, è consentita ogni offesa alla dignità personale, si disfrena, serva e padrona dei potenti, la bestialità umana.
Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che l’esperimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia maturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, restituendogli ansiosa sete dei beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di difesa. Secondo Risorgimento di popolo – non più di avanguardie – che solo potrà riallacciare il passato all’avvenire.
È in noi la certezza che libertà e giustizia,idee inintelligibili e mute solo a tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di classi e di popolo.
Nella fede in queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo.Contro le nostre persone esso ha bastone e manette, contro la nostra fede è inane. Non ha invero che i sofismi dei suoi retori e servi.
Esso ci bestemmia, ebbro, antinazione. Ma io, signor Giudice, che credevo al valore civile della storia nazionale che insegnavo in scuola, io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi.Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio.
Quando il novembre ha portato la totale sommersione di ogni traccia e modo, nonché di resistenza, di vita pubblica, nello sconforto e nell’accasciamento generale ho sentito degno e doveroso dar opera ad una protesta non sterile e non effimera, che rompendo il silenzio plumbeo fosse viva riaffermazione di fronte all’avvenire di un’Italia migliore. Protesta e riaffermazione che ormai potevano vivere solo oltre confine, mentre la paura del regime con la minaccia delle sue leggi pretendeva vietare ciò che la sua stessa violenza rendeva necessario. Leggi nate dalla paura e dalla violenza, senza radici perché nella coscienza civile, senza diritto quindi al rispetto, persuadenti anzi alla ribellione.
È da questa posizione di spirito, signor Giudice, che deriva il mio atto, è questa diretta e consapevole coerenza con il mio passato che gli conferisce – io credo – una significazione particolare.
Ho invero con l’onorevole Turati un legame che vince ogni diversità di origine ed ogni possibile discordanza del passato: un legame per oggi e per domani essenziale, quale è quello della devozione a quelle idee, dell’avversione a questo clima. L’onorevole Turati per l’altezza del suo animo e per l’onoranda dignità della sua vita poteva a buon diritto rappresentare, sopra ogni divisione e tendenza, di fronte alla civiltà europea, la condanna dell’ottenebramento italiano,la riaffermazione di quei principi ideali nei quali la storia moderna si riconosce, riaffermazione anche di un’Italia che sia patria libera ed equa a tutti gli italiani.
Nessuna jattanza e nessuna libidine di facile martirio da parte nostra.
Ma poiché ora la legge fascista ci chiama a rispondere del nostro atto, con orgoglio ne rivendichiamo la prima e più diretta responsabilità,con tanto più orgogliosa coscienza oggi che nulla più si oppone ai trionfatori; oggi che è pregio delle coscienze più diritte percuotere l’accidia e la ipocrisia della vita pubblica con l’esempio del sacrificio, se anche modesto; oggi che più bisogna sferzare la generale flaccidità e schiaffeggiare la viltà delle classi dirigenti con un esempio di fedeltà alle idee, oggi che è più veemente in noi di fronte all’orizzonte più chiuso la certezza dell’avvenire. Signor Giudice, la legge della fazione colpendoci ci onorerà.
Ferruccio Parri
Combattere.
Venti mesi di guerra partigiana (1945)
Testo del discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945, nel corso di una manifestazione organizzata dal Partito d’Azione per presentare Parri e Leo Valiani, segretario del partito per l’Alta Italia, venuti a Roma in rappresentanza del Comitato Nazionale di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI). Oltre a Valiani ci sono anche il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), e Luigi Longo, vicecomandante come «Maurizio» ed ex ispettore generale delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna.
Il discorso è forse il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano, e costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri» (come si scrive già all’epoca), del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea, al contrario del Risorgimento, è che gli italiani c’erano e che dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva che possa guardare al futuro democratico all’orizzonte.
I morti ci comandano
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico Valiani. Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate, per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola; per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato… a tradimento a raccontarvi qualche cosa del movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento, un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
Voi vivete da qualche tempo in un regime (come dire?) di inflazione declamatoria; e permettete allora che vi faccia un rapporto in uno stile da ragioniere, togliendo da esso tutto quanto possa sollecitare i vostri applausi.
Nascita del movimento partigiano
Immagino che voi possiate facilmente comprendere come sia nato il nostro movimento partigiano: nacque per germinazione spontanea nei giorni del collasso, dello sfacelo. Molti furono i soldati che allora si diedero alla macchia e ad essi si aggiunsero pochi ufficiali che avevano lo stesso spirito di indipendenza. A questi primi nuclei si sono aggiunti poi professionisti, studenti, operai spinti tutti dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare con le armi per lavare una vergogna, una vergogna nazionale. Si sono formate in questo modo le prime bande nelle valli alpine e si formarono i primi Comitati di liberazione nazionale che ebbero il loro punto di unione nel CLN di Milano: questo decise di darsi un ordinamento militare e un comando militare del quale feci parte anch’io.
La stessa cosa, in maniera forse meno programmatica, avvenne nelle altre regioni, soprattutto in Piemonte dove il movimento della resistenza prese subito un grande impulso e fu diretto con molto vigore.
Cominciarono subito i primi scontri. E i primi scontri sono stati atroci. Nella provincia di Cuneo si ebbero rappresaglie feroci. Nei tedeschi vi fu immediatamente il freddo, crudele proposito di estirpare sul nascere e dalle radici questo movimento partigiano. Nel Novarese, nel Bresciano, vi sono stati combattimenti accaniti, nei quali i nostri si sono portati generalmente bene e in alcuni punti molto bene. Avemmo perdite crudeli, ma acquistammo la convinzione che c’era in tutti una capacità combattiva ragguardevole e che il movimento insurrezionale, che si prevedeva immancabile, ci avrebbe trovato con le armi impugnate. Questa sensazione ci fece superare le prime incertezze e le grandi difficoltà incontrate e, passata questa prima fase di incertezze e di disorientamento, abbiamo cominciato il lavoro di organizzazione. Questo lavoro ha marciato piuttosto lentamente nell’inverno, per le difficoltà del soggiorno e della lotta sulle montagne. Non ci scoraggiammo e ci parve di aver raggiunto un risultato veramente notevole quando, nel febbraio ’44, potemmo annoverare circa novemila uomini raccolti in formazioni, per modo di dire, regolari. Da noi questi uomini erano male armati, meglio armati erano in Piemonte, dove i partigiani avevano potuto con maggiore facilità impadronirsi di armi. Ci pareva di avere già un esercito di una certa importanza, ma, passato l’inverno e divenuta più facile la vita dei partigiani nelle vallate, e avuti i primi lanci di armi e di equipaggiamenti dagli alleati, potemmo organizzarci meglio e le nostre file si accrebbero con rapidità.
Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col richiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l’afflusso di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità. Disponemmo allora che si formassero nelle vallate dei campi di istruzione, ma questo nostro desiderio fu fortemente inceppato dal nemico che intensificò la lotta contro i partigiani. Fascisti e tedeschi, passato il primo momento di incertezza in cui non riuscivano ad afferrare il bandolo del movimento partigiano, si gettarono poi risolutamente alla offensiva con rastrellamenti su vasta scala e battute nelle montagne con reparti molto forti, provvisti di autoblinde e anche di cannoni. I risultati di queste offensive furono per noi disastrosi, ma il movimento partigiano era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa, tanto che nell’estate del ’44 potevamo contare su di un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino ad un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine.
Organizzazione militare del movimento partigiano
Eravamo intanto riusciti a dare una forma quasi regolare all’organizzazione militare. Il Comitato militare che si era costituito in un primo tempo fu da noi trasformato in Comando militare provvisto di regolari servizi: un ottimo servizio di informazioni degno di un esercito regolare, organizzato con grande ……….
Ferruccio Parri
…
BIOGRAFIA
Fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo in Italia. Rifiutata la tessera del PNF fu costretto a lasciare l’insegnamento e si dedicò subito all’attività di antifascista, per la quale fu più volte arrestato. Insieme ai Rosselli organizzò l’espatrio di Filippo Turati e Sandro Pertini. Negli anni Trenta mantenne i contatti con i gruppi antifascisti italiani che si erano formati in Francia, in particolare con Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio del 1943, con l’invasione dell’Italia da parte dei nazisti, fu uno dei capi e organizzatori della resistenza all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Diventò il leader del Partito d’Azione e nel 1945 fu Presidente del Consiglio. Il suo governo di unità nazionale però, lacerato dai contrasti tra partiti eterogenei, durò poco. Nel 1946 uscì dal Partito d’Azione e con La Malfa fondò il Partito della democrazia Repubblicana, che poi in seguito confluì nel Partito Repubblicano, e venne eletto come deputato nell’Assemblea Costituente. Fu senatore di diritto nella prima legislatura appoggiando il primo governo De Gasperi. Nel 1953 abbandonò il PRI, in contrasto con la decisione di votare la nuova legge elettorale definita poi “legge truffa”, e diede vita con Calamandrei al Movimento di Unità Popolare che, pur ottenendo un risultato elettorale deludente fu determinante per far mancare il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Nel 1963 venne nominato senatore a vita.
A cura di Alessandro Banfi, Gian Corrado Peluso, Giampaolo Pignatari, Fabrizio Sinisi-
Con la collaborazione di Maria Bertaggia, Maddalena Catani, Matilde Fiorini, Mattia Gennari, Luca Maggi, Giuseppe Vitali, Mattia Savia, Andrea Siciliano, Alessandro Vaghi
ITACA, Milano 2015, Pro Manuscripto
La realtà del tempo, gli eventi della storia e della memoria, il desiderio dell’uomo nelle vicende della storia, sono la materia viva sella poesia, della scrittura, del teatro, del cinema dello scrittore che più di chiunque ha raccontato il nostro Paese. Pasolini, in un tempo molto diverso ma molto preparatorio del nostro, ha sfidato il nulla, quella riduzione dell’io che proviene dal suo interno e dall’esterno, iniziando dalla separazione tra credere e sapere, che lo lascia solo di fronte a un potere che non sa che farsene del volto umano per la sua programmazione del mondo. Una situazione analoga, con altri attori, che anche oggi si verifica di fronte alle sfide di una nuova realtà e sembra offuscare quell’esperienza umana, elementare e costitutiva, che si esprime nelle esigenze della felicità, della giustizia e dell’amore. Leggere Pasolini fa intuire l’esistenza di alcuni punti dai quali egli ha tratto il suo paragone e il suo impegno, insomma, la sua poetica. È interessante perciò vedere la consistenza e attualità di Pasolini, verificare quella sua profezia sulla società moderna e contemporanea, le cui conseguenze oggi stiamo vivendo, come occasione per costringere noi stessi ad andare al fondo di quelle stesse domande ed esigenze.
Santa Spanò:”La voce di Nadia Anjuman diventa così la voce di tutte le donne note e sconosciute, uccise e suicide, ferite e umiliate, usate e cancellate”.
Il diritto di gridare
Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore non può che parlare del lutto
nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo che trema nell’aria
sono una figlia afgana, con il diritto di urlare.
Imprigionata in quest’angolo
Sono imprigionata in questo angolo
Piena di malinconia e di dispiacere.
Le mie ali sono chiuse e non posso volare.
Il canto più triste.
Divento fumo nello spazio del mio credo
Lentamente mi avvolgo e mi anniento
Finché vengo allevata dalle mani dell’ansia
Nell’abisso del cuore i miei battiti aumentano
E quel battito intende conoscere la terra della fossa del tardi
Mi preparo al momento trascorso
A volte dall’amore arido e dal buon miraggio di una nuvola
Mi trasformo nel più arido deserto salato
Ma l’immaginazione dei miei occhi mi trasforma in acqua
Nel letto della morte per sete, mi trasformo in ruscello
Se arriva a me il capo di uno dei fili della speranza
Divento l’ordito nella sottile trama del cuore
Questo se n’è andato senza commiato, l’immaginazione mi porta via
Sono ancora io che mi riempio di ricordi
Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio.
(Nadia Anjuman, Il canto più triste. Raccolte Come un uccello in gabbia e Elegia per Nadia Anjuman, a cura di I. Scarparolo e C. Contilli -Ed. Carta e Penna- Torino)
Nessuna voglia di parlare
Che cosa dovrei cantare?
Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.
Perché dovrei parlare di dolcezza?
Quando sento l’amarezza.
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?
Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Soltanto io e la mia forzata solitudine
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.
Sono stata silenziosa troppo a lungo.
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore
Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia
Per volare via da questa solitudine
E cantare come una persona malinconica.
Io non sono un debole pioppo
Scosso dal vento
Io sono una donna afgana
E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi.
Magari
A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida.
(Nadia Anjuman, da Poesie scelte, Torino, Edizioni Carta e Penna, 2008)
Nadia Anjuman (Herat, Dicembre 1980 – Herat, Novembre 2005) è stata una poetessa afghana.
Il 4 novembre 2005, ad Herat nel centro occidentale dell’Afghanistan, Nadia Anjuman, poetessa, è morta massacrata di botte dal marito: aveva appena 24 anni e da 6 mesi era diventata madre di una bambina.
Una breve premessa è necessaria, è necessario ricordare che il territorio afghano si è guadagnato il soprannome di “tomba degli imperi”, direi di aggiungere anche “tomba delle donne”, dopo una parentesi durata vent’anni, i talebani hanno riconquistato l’Afghanistan (da qui si capisce il soprannome). Con il ritiro dei vari organismi internazionali i diritti civili a fatica conquistati, soprattutto dalle donne, con tutta probabilità diventeranno fumo. Per le donne lo sport in pubblico è già vietato, le scuole per le donne, separate dagli uomini, diventeranno una sorta di seminari religiosi e comunque studi o non studi, le donne non le cariche pubbliche se le potranno scordare, frustate a chi indossa abiti occidentali, le donne saranno costrette a indossare il burqa, sarà vietato uscire di casa senza il marito o un mahram (parente), sono ripresi i rapimenti di donne ridotte a schiave sessuali, future mogli promesse a chi si arruola, fustigazioni pubbliche, lapidazione, amputazione di arti e mani ed esecuzioni sommarie (da qui si capisce anche il soprannome che ho suggerito io).
Il titolo “Ritorno al futuro” – ricorderete sicuramente questa pellicola degli anni ’80 con Michael J. Fox e Christopher Lloyd – è una sintesi perfetta di quanto accaduto, la sensazione è proprio questa, come se tutti questi anni fossero trascorsi invano mentre i talebani viaggiavano indisturbati nel tempo per far in modo che in questo territorio martoriato, oggi ribattezzato Emirato islamico dell’Afghanistan, tutto tornasse al periodo 1996-2001.
E nel loro “ritorno al futuro” avranno attraversato anche la vita di Nadia Anjuman che nella sua autobiografia scriveva […]“Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia. L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia… ma… ahimè… tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso”…
Nadia gli anni del regime talebano li ha vissuti in pieno, in quell’età, l’adolescenza, in cui le ragazze vogliono sentirsi subito grandi, fanno tardi la sera, s’innamorano perdutamente, leggono e scrivono poesie, sognano ad occhi aperti e fanno un mucchio di sciocchezze, le ragazze, ma in Afghanistan in quegli anni non sono esistite le “ragazze”, né l’adolescenza delle ragazze.
Alle donne era vietato persino ridere ad alta voce, figurarsi andare a scuola, a loro era vietata qualsiasi forma di istruzione, si poteva studiare solo clandestinamente, col rischio di essere arrestate e impiccate. Tra le poche concessioni del fondamentalismo islamico: i corsi di cucito.
La “Scuola di cucito l’ago d’oro” di Herat accoglieva le ragazze desiderose d’imparare a cucire, ufficialmente, clandestinamente era un circolo letterario, le lezioni tenute da professori di letteratura della locale università aprivano alle donne la possibilità di studiare i grandi autori, di approfondire la lettura e la scrittura, tutto questo a costo della vita.
Nadia Anjuman era una delle allieve del “l’ago d’oro”, e non tardò a farsi notare per stile e talento, l’amore per la poesia, come lei stessa scrive nell’autobiografia, le consentì di “appoggiarsi alla penna” e scrivere, tanto che uno degli organizzatori del circolo, il professore Muhammad Ali Rahyab iniziò a guidare l’allora sedicenne Anjuman, e “la aiutò a trovare la voce che presto avrebbe affascinato migliaia di lettori”.
Nel 2001 l’Alleanza del Nord appoggiata dagli Stati Uniti liberò l’Afghanistan dalla dittatura talebana, Anjuman aveva 21 anni e finalmente, cessate le criminali limitazioni imposte dai religiosi integralisti, era libera di seguire il proprio percorso di studi iscrivendosi al corso di laurea di Letteratura e Lingue Farsi all’Università di Herat, dove si è immatricolata nel 2002.
La situazione socio-politica si rinnova con l’entrata in vigore della nuova Costituzione dal 26 gennaio 2004, rifacendosi a quella del 1964, alle donne vengono (sulla carta) riconosciuti gli stessi diritti degli uomini, di fatto la condizione della donna, soprattutto nelle aree rurali e nelle famiglie conservatrici non muta (e non è mai mutata), le mentalità misogine e patriarcali, una cultura oramai radicata, continuano a considerare le donne sottoposte agli uomini, oggetti, incubatrici, domestiche, schiave, appendici di servizio.
In mezzo a tanto fermento anche la nostra giovane promessa Nadia Anjuman compie con tenacia la sua personale “rivoluzione”, si laurea in letteratura e pubblica il suo primo libro di poesie “Gul-e-dodi” (“Fiore di fumo”), libro che divenne molto popolare anche fuori dei confini afgani, in Pakistan e anche in Iran.
Nel frattempo non si sottrasse ai suoi doveri filiali e sposò Farid Ahmad Majid Neia, laureato anche lui in lettere all’Università di Herat e direttore della locale biblioteca. Neia e la sua famiglia consideravano le pubblicazioni di Nadia imbarazzanti, che leggesse in pubblico e avesse tanto seguito una vergogna per la loro reputazione.
Nonostante la difficile situazione familiare Nadia Anjuman continuò a lavorare al secondo volume di poesie che sarebbe andato in stampa nel 2006 intitolato “Yek sàbad délhoreh” (“Un’abbondanza di preoccupazioni”), la sua voce sul registro della sincerità nel raccontare il suo isolamento e la tristezza del matrimonio.
Non riuscì a vederlo pubblicato, il 4 novembre 2005, a pochi mesi dalla nascita della sua bambina, e dal suo compleanno, il 27 dicembre avrebbe compiuto 25 anni, il marito Farid Ahmad Majid Neia la picchiò a morte.
Se per sopraffare un “nemico” occorre un M4, per sopraffare una donna sono sufficienti schiaffi, pugni e qualche calcio ben assestato, questo il destino di Nadia Anjuman, secondo alcune fonti tutto iniziò con un litigio, per il fratello di Nadia il vero movente dell’omicidio fu il rancore. Il marito non poteva sostenere il confronto con la moglie diventata una delle voci più apprezzate della poesia, non poteva tollerare una moglie con il vizio della notorietà, brava, seguita e amata, e la uccide fracassandogli la testa.
Per le autorità si tratterà di infarto o suicidio. Le autorità in un primo tempo avalleranno le dichiarazioni di Farid Ahmad Majid Neia che la giovane dopo la loro lite prese del veleno, nessuna autopsia venne eseguita per espresso divieto del marito e della sua famiglia. L’intervento delle Nazioni Unite, l’evidente morte per trauma cranico dovuto alle percosse, portarono in un secondo tempo all’arresto del marito, arresto che durò qualche mese, i capi tribali del distretto di Herat fecero pressione sul padre di Nadia perché perdonasse pubblicamente il genero, assicurando che l’uomo sarebbe rimasto in carcere per almeno cinque anni. Farid Ahmad Majid Neia grazie al perdono dopo un solo mese di detenzione ritornò alla sua vita e l’omicidio della poetessa Nadia Anjuman archiviato come suicidio.
Oltre ogni dibattimento, il movente di questo efferato assassinio resta uno: essere donna.
E non è certo il solo, l’Afghanistan non è un paese per donne, anche la legge sull’Eliminazione della Violenza sulle Donne nel 2009, riconfermata poi nel 2018, ha potuto poco nelle aree interne del Paese, dove gli uxoricidi, le violenze domestiche sono di fatto fatti privati. Una maggiore consapevolezza e miglioramento delle condizioni lo si è avuto in questi vent’anni soprattutto nelle grandi città, non senza dimenticare le uccisioni e le aggressioni di donne che si sono impegnate per l’emancipazione e il miglioramento delle condizioni di vita della donna. Oggi con il ritorno al potere dei Talebani il timore che delle donne ci si dimenticherà dei diritti, ma ancora più straziante anche del volto, segregato sotto un manto o dietro i vetri oscurati, è quasi certo, lo testimoniano le prime 300 “vittime” ufficiali, 300 donne afghane filo-talebane che l’11 settembre hanno partecipato a una conferenza all’Università di Kabul indossando il velo integrale a sostegno delle politiche sulla segregazione delle donne. Coperte integralmente, finanche le mani con guanti neri, in conformità con le nuove rigorose politiche di abbigliamento per l’istruzione, hanno sventolato le bandiere bianche dei talebani felici di non esistere più.
La voce di Nadia Anjuman diventa così la voce di tutte le donne note e sconosciute, uccise e suicide, ferite e umiliate, usate e cancellate.-
Fonte –La Bottega del Barbieri
COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE Onlus Via dei Transiti 1 – 20127 Milano
Codice Fiscale 97381410154
Le donne del CISDA sono attive nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 1999. Il nucleo iniziale è stato costituito da un gruppo di “Donne in Nero” che ha invitato le donne afghane di due associazioni (RAWA e HAWCA) all’Onu dei Popoli di Perugia.
Da allora, questo nucleo di donne ha continuato la sua attività, collaborando con altre associazioni.
Dal 2014, su sollecitazione degli attivisti afghani, l’attività di sostegno del Cisda si è rivolta anche alla resistenza curda.
Le finalità del CISDA si collocano nell’ambito della solidarietà sociale, della formazione, della promozione della cultura, della tutela dei diritti civili e dei diritti delle donne in Italia ed all’estero.
L’Associazione ha come fondamento la condivisione dei valori umani di ogni persona quali ne siano religione, origine, cultura e nazionalità; lo scopo prioritario è la promozione di iniziative di carattere politico-sociale sia a livello nazionale che internazionale, sulla condizione delle donne che si trovano in situazioni svantaggiate dal punto di vista familiare, economico, sociale e politico, con particolare riferimento alle donne afghane.
All’interno del tessuto sociale CISDA intende, promuovendo la diffusione di una cultura e di una prassi di solidarietà:
contribuire al superamento di atteggiamenti emarginanti, con l’apertura all’accoglienza e all’integrazione e per l’educazione a una convivenza sociale multi razziale, in spirito di fraternità e di non violenza
favorire l’eliminazione dei fattori che ostacolano il pieno e libero sviluppo umano, sociale ed economico
realizzare una crescita e uno sviluppo, sia a livello locale che internazionale, nella ricerca di una maggiore giustizia tra i popoli, nel rispetto del razionale sfruttamento delle risorse e dei limiti ambientali del pianeta
La nostra attività si svolge a stretto contatto con i nostri partner afghani, con cui condividiamo progetti concreti, lettura della realtà locale e internazionale, con uno scambio continuo di visioni ed esperienze. Queste le organizzazioni di riferimento: [
RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan)
HAWCA (Humanitarian Association of Women and Children of Afghanistan)
OPAWC (Organization Promoting Afghan Women Capabilities
SAAJS (Social Afghan Association of Justice Seekers);
AFCECO (Afghan Child Education and Care Organization).
Il CISDA è oggi attivo nelle città di Milano, San Giuliano Milanese, Sesto San Giovanni, Cologno Monzese, Firenze, Como, Roma, Torino, Piadena, Verbania e nel Tigullio. Periodicamente invitiamo in Italia delegate delle organizzazioni afghane e curde con cui collaboriamo per tenere conferenze e incontri sulla situazione del loro paese e sulle loro attività.
Promuoviamo delegazioni in Afghanistan e in Kurdistan, quando possibile.
Organizziamo incontri pubblici, presentazioni di libri e filmati, incontri nelle scuole, cene di solidarietà, raccolte fondi a sostegno dei progetti.
In Italia collaboriamo con varie associazioni e reti tra cui: Insieme si puo’ di Belluno, Emmaus di Piadena, “La Sosta” di Roma, “Liberi Pensieri” di S. Giuliano Milanese, La Casa in movimento di Cologno Monzese (MI), Da donna a donna, di Sesto san Giovanni (MI), Casa delle donne di Viareggio, Milano, Torino, Roma e altre città, Trama di terre di Imola, Centro Balducci di Zugliano (Udine), Donne in Nero, Circoli Arci
CISDA ha pubblicato libri e filmati che potete trovare nella sezione multimedia.
Kappler-faccia tagliata venne per testimone a raccontarci il massacro. Si disse fanatico e sacro nella sua grande fatica d’abbattere ostaggi, un portone di buio aperto dai fari la cava di Roma antica.
Su quel trofeo di vendetta – sempre più deboli i forti ciechi nel giallo alone del tufo in polvere – in vetta lui solo a sparare per tutti i carnefici arresi all’orrore, lui solo totale furore di mazza sugli innocenti. E tacquero i venti, il silenzio non era del mondo ma di quel sangue assetato.
Kappler-faccia tagliata parlava in tedesco, il pubblico zitto l’interprete muto. Nessuno guardava più in giro, tutti fissi in un punto, quel punto: Kesselring, il viso compunto nell’ordine, il fatto compiuto. E nulla andò perduto di quelle parole, io non le riesco a staccare da me – e non da me, ma dal fitto del petto con cui le respiro. Blut diceva il sangue e tu-fo il tufo come noi, mostrando fra le sue dita la gialla arenaria che frana su quella morte impaurita, sulla giustizia vana che lascia parole.
All’Appia antica se il sole rallegra la via e s’odono i passi perduti dei morti cristiani, ricorda gli eterni minuti di questo supplizio. Domani i giusti saranno con noi nel tempo che i morti non hanno. Or la pietà dell’inganno vi chiude le tombe già aperte perché la morte vi opprima col peso di tutte le offerte, col senno di poi. Per altri innocenti, per altro furore s’accenda la prima la stessa parola d’amore che ci fu tolta: domani.
(da La storia delle vittime, 1966)
.
ALFONSO GATTO
“Ad ascoltarlo [Kappler] erano tutti fissi dai propri banchi: egli descriveva la scena delle esecuzioni, esaltandosi alle sue stesse parole, stancandosi della fatica del massacro come allora, ma senza rompere l’equilibrio necessario… Erano queste stesse precisazioni che spiegavano l’episodio del massacro nel suo svolgimento e lo rendevano terribilmente vero”:Alfonso Gatto (1909-1976) seguì come giornalista del Mattino del popolo di Venezia il processo ad Albert Kesselring e Herbert Kappler, responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto come rappresaglia dai tedeschi il 24 marzo 1944, all’indomani dell’attentato di Via Rasella nel quale i partigiani uccisero 33 soldati nazisti. Fu una vera e propria strage a sangue freddo: i tedeschi, dopo averli portati nelle cave di pozzolana sull’Ardeatina, uccisero dieci italiani per ogni loro soldato, sbagliando anche i calcoli poiché le vittime furono 335, rastrellate nelle carceri di Via Tasso e di Regina Coeli – in particolare partigiani, monarchici, massoni ed ebrei – e tra i detenuti in attesa di giudizio anche per reati non politici. Poi fecero saltare la cava con le mine per sigillarla. Fu una delle crudeltà più impressionanti e gratuite dell’intera guerra, che lasciò un segno profondo nella coscienza della nuova Italia.
Mausoleo delle Fosse Ardeatine Il 23 marzo 1944, in un’azione di guerra in via Rasella a Roma, un gruppo di partigiani uccideva 33 soldati nazisti e ne feriva 38. Pronta la risposta tedesca: per ogni soldato ucciso sarebbero stati eliminati dieci italiani. Il giorno dopo, 24 marzo, 335 uomini, scelti a caso dalle truppe di occupazione tedesca tra prigionieri politici, tradotti dal carcere di via Tasso, ebrei e civili furono giustiziati. Le vittime vennero poi gettate nelle antiche cave di pozzolana situate a ridosso di via Ardeatina che vennero poi fatte brillare su ordine di Kappler per occultare la carneficina.
I movimenti di automezzi nei pressi del luogo dell’eccidio e le successive esplosioni furono però uditi da alcuni religiosi che si trovavano nelle vicinanze in qualità di guide alle catacombe. Durante la notte, i frati entrarono nelle cave e scoprirono i corpi ammassati uno sull’altro.
Per commemorare il tragico evento, e offrire degna sepoltura ai martiri della resistenza, il governo post-liberazione decise di “erigere sul luogo della vendetta tedesca un monumento a perenne ricordo dei Martiri e di tutti i caduti della guerra di Liberazione”. A questo scopo, nel settembre 1944, il Comune di Roma indisse un concorso – il primo dell’Italia democratica – per l’edificazione di un mausoleo da consacrare simbolo della Resistenza alle violenze del Reich.
I vincitori del concorso, gli architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentini, progettarono un semplice parallelepipedo cavo in cemento a protezione dei sacelli dei martiri posti fuori terra ma in stretto collegamento con il luogo dell’eccidio.
La costruzione del sacrario iniziò il 22 novembre 1947. Nel 1949, il Mausoleo fu inaugurato solennemente in occasione del quinto anniversario della strage. Da allora, ogni 24 marzo, l’evento viene commemorato al cospetto di autorità, associazioni partigiane e di deportati, studenti e comuni cittadini, mentre i nomi delle 335 vittime vengono scanditi ad alta voce.
La suggestiva cancellata da cui si accede al mausoleo è opera dello scultore e pittore Mirko Basaldella. Il senso che assume è altamente simbolico di una scena di feroce massacro tratteggiato dalle figure disperatamente contorte che vi sono rappresentate.
L’imponente gruppo scultoreo in travertino posto sul piazzale è opera dello scultore di Francesco Coccia, e rappresenta tre personaggi a simbolo delle tre età. I corpi ritratti sono orientati rispettivamente verso le cave, verso il luogo delle sepolture e verso il piazzale, come a indicare il percorso al visitatore.
Il film Roma città aperta, struggente capolavoro diretto da Roberto Rossellini nel 1945, con Anna Magnani e Aldo Fabrizi ricorda quei tragici avvenimenti. Aldo Fabrizi è don Pietro, figura che ricorda i due religiosi, Don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta, e Don Pietro Pappagallo, ucciso nelle Fosse Ardeatine. Anna Magnani, invece, è Pina, la moglie incinta di Fabrizio, uno dei prigionieri condotti alle Fosse Ardeatine. Per cercare di salvarlo, insegue il camion sul quale è stato caricato, ma viene falciata da una raffica di mitra.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.