Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
Euridice
I
Così mi hai riportata indietro,
io che avrei potuto camminare con i vivi
sulla terra,
io che avrei potuto dormire tra i fiori vivi
finalmente;
così per la tua arroganza
e la tua spietatezza
sono riportata indietro
dove i licheni morti grondano
ceneri morte sul muschio del frassino;
così per la tua arroganza
io sono distrutta infine,
io che avevo vissuto incosciente,
che ero stata quasi dimenticata;
se tu mi avessi lasciata aspettare
sarei passata dall’apatia
alla pace,
se tu mi avessi lasciata riposare con i morti,
avrei dimenticato te
e il passato.
Giglio di mare
(da Sea Garden, 1916)
Giunco,
squarciato e strappato
ma doppiamente ricco –
le tue grandi cime
fluttuano sui gradini del tempio,
ma tu sei spezzato dal vento.
La corteccia del mirto
è punteggiata da te,
le squame sono distrutte
dal tuo stelo,
la sabbia spezza i tuoi petali,
lo solca con lamina dura,
come selce
su pietra brillante.
Eppure benché il vento
frusti la tua corteccia,
sei sollevato,
sì – benché sibili
per ricoprirti di schiuma.
Euridice (VII)
(da The God, 1913-17)
Almeno io ho i fiori per me stessa,
e i miei pensieri, nessun dio
me li può prendere,
ho il fervore di me stessa per presenza
e il mio stesso spirito per luce;
e il mio spirito con la sua perdita
sa questo;
benché piccola contro il buio,
piccola contro le rocce informi,
l’inferno deve spaccarsi prima che io sia perduta;
prima che io sia perduta,
l’inferno si deve aprire come una rosa rossa
per far passare i morti.
[31]
(The Walls Do Not Fall, in Trilogy, 1944)
Nostalgia, esaltazione,
nocciolo d’infuocate elucubrazioni,
appunti scritti in margine,
palinsesto indecifrabile, coperto di scarabocchi
con troppe emozioni in conflitto,
ricerca d’una definizione finita
dell’infinito, scivolando
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
troppo poroso per contenere il traboccare
dell’acqua-che-sta-per-divenir-vino
alle nozze; ricerca sterile,
arroganza, certezza, penosa reticenza,
presunzione, intrusione d’allusioni
improprie, forzate;
illusioni di dei perduti, di démoni;
gioco d’azzardo con l’eternità,
iniziata alla saggezza segreta,
sposa del regno,
miraggi, ritorno d’antichi valori,
interessa perduta, pazzia.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
[1]
(Tribute to the Angels, in Trilogy, 1945)
Ermete Trismegisto
è patrono degli alchimisti;
suo dominio è il pensiero;
scaltro, creativo, curioso,
suo metallo è il mercurio;
poeti, ladri e oratori sono i suoi clienti;
ruba, quindi, Oratore
e saccheggia, o Poeta,
prendi quel che l’antica chiesa
trovò nella tomba di Mitra,
candela, scritture, sonaglio,
prendi quel che la nuova chiesa ha disprezzato
rotto e frantumato;
raccogli i frammenti di vetro infranto
e col tuo soffio e il fuoco
fondi e integra,
re-invoca, ri-crea
opale, onice, ossidiana,
ora dispersi in schegge
calpestate da tutti.
[9]
(The Flowering of the Rod, in Trilogy, 1946)
Non è fantasia poetica
ma realtà biologica,
è un fatto: sono un’entità
come l’uccello, l’insetto, la pianta
o la cellula d’alga;
io vivo; io sono viva;
sta attento, ignorami,
rinnegami, non riconoscermi,
evitami; perché questa realtà
è contagiosa – estasi.
HEAT
O wind, rend open the heat,
cut apart the heat,
rend it to tatters.
Fruit cannot drop
through this thick air—
fruit cannot fall into heat
that presses up and blunts
the points of pears
and rounds the grapes.
Cut the heat—
plough through it,
turning it on either side
of your path.
CALORE
O vento, strappa il calore,
dividi il calore,
laceralo in stracci.
La frutta non riesce a cadere
attraverso questa aria densa―
la frutta non può cadere nel calore
che schiaccia e smussa
le punte delle pere
e arrotonda l’uva.
Taglia il calore―
apriti un varco attraverso di esso,
ruotandolo in ogni lato
del tuo cammino.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
LETHE
Nor skin nor hide nor fleece
Shall cover you,
Nor curtain of crimson nor fine
Shelter of cedar-wood be over you,
Nor the fir-tree
Nor the pine.
Nor sight of whin nor gorse
Nor river-yew,
Nor fragrance of flowering bush,
Nor wailing of reed-bird to waken you,
Nor of linnet,
Nor of thrush.
Nor word nor touch nor sight
Of lover, you
Shall long through the night but for this:
The roll of the full tide to cover you
Without question,
Without kiss.
LETE
Né la pelle né il cuoio né la lana
ti copriranno,
né la tenda cremisi né l’elegante
rifugio di legno di cedro sarà su di te,
né l’abete
né il pino.
Né la vista del ginestrone né della ginestra
né il tasso di fiume,
né la fragranza di un cespuglio in fiore,
né il pianto di una cannaiola a svegliarti,
né il fanello
né il tordo bottaccio.
Né la parola né il tocco né la vista
di un amante, tu
bramerai tutta la notte solo questo:
lo srotolarsi dell’alta marea che ti copre
senza dubbio,
senza bacio.
Traduzioni di Arianna Giovannini
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
L’evoluzione della poesia modernista: la visione poetica di Hilda Doolittle | L’Altrove
Hilda Doolittle, nota al mondo letterario come HD, è una figura fondamentale nel canone della poesia modernista, spesso trascurata nelle discussioni dominate dai suoi contemporanei maschi come EzraPound e TS Eliot. Tuttavia, i suoi contributi al movimento modernista sono profondi e trasformativi, catturando temi complessi di identità, genere e mitologia, nonché una distinta precisione linguistica che la contraddistingue. Questo saggio approfondisce l’opera poetica di HD, esaminando la sua voce unica, le preoccupazioni tematiche e le innovazioni stilistiche, che insieme illuminano la sua visione e consolidano la sua importanza nel panorama della letteratura del XX secolo.
Nata nel 1886 a Bethlehem, Pennsylvania, HD è cresciuta in una famiglia profondamente influenzata dal ricco arazzo della letteratura classica. La posizione di suo padre come professore di matematica e la discendenza di sua madre collegata all’influente poeta e critico, Theodore H. Doolittle, hanno fornito un ambiente stimolante per le sue ricerche intellettuali. Fu durante i suoi anni di formazione presso l’Università della Pennsylvania e in seguito nelle sue interazioni con i circoli d’avanguardia in Europa che HD avrebbe affinato la sua voce poetica. Divenne parte integrante del movimento Imagist, che sosteneva la chiarezza di espressione, la precisione delle immagini e l’economia ritmica, principi che risuonano attraverso il suo lavoro.
HD emerse nell’arazzo in divenire del modernismo insieme a una comunità di scrittori che cercarono di liberarsi dalle convenzioni della poesia vittoriana. Nei suoi primi lavori, in particolare nella raccolta Sea garden
(1916), esemplifica i principi dell’Imagismo attraverso il suo meticoloso uso di immagini e attenzione al mondo naturale. La poesia “Sea Iris” funge da prima illustrazione di questo aspetto. Attraverso il suo linguaggio preciso, cattura la tensione tra il fisico e il metafisico, illustrando come la natura possa evocare risonanze emotive più profonde:
Gli iris del mare sono di due colori; il bianco, luminoso nella luce dello scintillio dell’acqua, e il blu profondo, scuro, galleggiante, immobile.
In queste righe, HD evoca un immaginario vivido che invita il lettore a sperimentare la bellezza viscerale del mare, accennando anche alla dicotomia tra luce e oscurità, galleggiabilità e immobilità. Tali giustapposizioni riflettono le sue preoccupazioni per la dualità, un tema ricorrente che riecheggia in tutto il suo corpus di opere.
Mentre HD continuava a sviluppare la sua voce, la sua poesia iniziò a riflettere un profondo impegno con i miti antichi e gli archetipi femminili come mezzo per esplorare identità e genere. Le sue raccolte, in particolare “Helen in Egypt” (1961), offrono un riesame delle narrazioni classiche, accostandole a temi contemporanei di agency e resilienza femminile. Qui, HD riconfigura il mito di Elena di Troia, che è stata storicamente ritratta come una vittima passiva del destino, in una figura di forza e autonomia. Intrecciando storie antiche con l’esperienza personale, HD trascende i confini tra lo storico e il personale, suggerendo che le storie delle donne sono state ampiamente emarginate o travisate.
Il rapporto di HD con il mito di Eco esemplifica ulteriormente la sua esplorazione tematica di voce e silenzio. In The Walls Do Not Fall (1944), che affronta l’impatto della seconda guerra mondiale, gli echi del passato diventano un motivo potente, suggerendo come la storia riverberi nel presente, in particolare per le donne le cui voci sono state soffocate o rese inudibili. Il suo desiderio di connessione e comprensione in mezzo al caos emerge in modo toccante in versi che riflettono sia disperazione che resilienza, utilizzando il motivo dell’eco per evocare un senso di continuità anche di fronte alla desolazione.
Nelle sue opere successive, HD ha ulteriormente interrogato la nozione di identità, spesso attingendo alle sue esperienze e lotte con la salute mentale, in particolare la sua battaglia contro la depressione e le conseguenze delle sue relazioni tumultuose. La raccolta “Trilogy”, composta durante i suoi anni in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, incarna la sintesi delle sue influenze eclettiche: mitologia, femminismo e traumi personali. Il verso è intriso di una cupa meditazione sulla perdita e il rinnovamento, ma conserva una qualità eterea che cattura il potenziale trasformativo dell’arte.
Stilisticamente, la poesia di HD è caratterizzata dalla sua fluidità e densità, caratterizzata da versi liberi e strutture frammentate che sfidano le forme convenzionali. Il suo uso dell’enjambement crea un senso di movimento e urgenza, costringendo il lettore a impegnarsi con il testo a un livello più profondo. Inoltre, la sua profonda attenzione al suono e al ritmo le consente di infondere le sue immagini con profondità emotiva, elaborando versi che risuonano con il lettore sia sensualmente che intellettualmente.
L’eredità poetica di HD è una testimonianza del suo spirito innovativo e del suo incrollabile impegno nell’esplorare le complessità dell’esperienza umana attraverso la lente del modernismo. Le sue opere sfidano i lettori a considerare l’intersezione tra identità, mito e memoria, mentre le sue immagini vivide e la sua voce unica continuano a parlare al discorso artistico contemporaneo. Mentre studiosi e lettori rivisitano i suoi contributi, diventa innegabilmente chiaro che HD non solo occupa il suo legittimo posto all’interno del canone modernista, ma funge anche da profonda influenza per le future generazioni di poeti che navigano nelle complessità delle loro narrazioni. Nel celebrare Hilda Doolittle, dobbiamo riconoscerla come qualcosa di più di una semplice partecipante al movimento modernista; è una forza fondamentale il cui lavoro ci invita ad approfondire l’interazione tra testo, identità e il potere duraturo dell’espressione artistica.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Ricordata prevalentemente per la sua partecipazione alla nascita del movimento imagista guidato da Ezra Pound, con il quale ebbe una relazione nell’adolescenza, si distaccò con la maturità dallo stile modernista per abbracciare temi mitologici e personali, influenzati in parte dalle teorie psicoanalitiche di Carl Gustav Jung.
Se la sua lirica Oread (“Oreade”) venne giudicata da Pound come il miglior esempio poetico imagista, già ai tempi della prima guerra mondiale le sue opere, sia per il linguaggio e per gli argomenti si accostarono ai modelli dell’antica Grecia. Dal 1918 H.D. tradusse classici greci, tra i quali l’Ippolito di Euripide.
Nel periodo londinese diresse brevemente la rivista letterariaThe Egoist, vicina alla poetica di Pound e T.S. Eliot, e nel dopoguerra intensificò la pubblicazione di raccolte poetiche, come Hymen (“Imene”) (1921) e Heliodora and Other Poems (“Eliodora ed altre poesie”) (1924).[1]
Scrisse inoltre testi teatrali, adattamenti del teatro greco fra cui Hippolytus temporizes (“Ippolito temporeggia”) (1927), e numerosi romanzi.
Si sposò con Richard Aldington, ebbe una figlia, Perdita, da un’altra relazione, fu intima di D.H. Lawrence. Rimase permanentemente in Europa, ed ebbe una lunga relazione con la poetessa Bryher (pseudonimo di Annie Winifred Ellerman), con cui fondò la rivista cinematografica Close-up e la casa di produzione POOL. Di questa rimane solo il film Borderline, che annuncia i temi della produzione letteraria tardiva di H.D., quali l’inconscio e gli stati mentali.
Durante la seconda guerra mondiale la scrittrice raccolse le sue poesie di matrice religiosa nell’opera Tribute to the Angels (“Omaggio agli angeli”) (1945).
Si rivelò interessante anche il saggio psicoanalitico intitolatoTribute to Freud (1956), impreziosito dall’aggiunta delle lettere scambiate tra i due personaggi.
Opere
Poesia
Sea Garden (1916)
The God (1917)
Translations (1920)
Hymen (1921)
Heliodora and Other Poems (1924)
Hippolytus Temporizes (1927)
Red Roses for Bronze (1932)
The Walls Do Not Fall (1944)
Tribute to the Angels (1945)
Trilogy (1946), trad. Trilogia, a cura di Marina Camboni, Caltanissetta: Sciascia, 1993
Flowering of the Rod (1946)
By Avon River (1949)
Helen in Egypt (1961)
Hermetic Definition (1972)
Prosa
Notes on Thought and Vision (1919)
Paint it Today (scritto nel 1921, pubblicato nel 1992)
Asphodel (scritto nel 1921–22, pubblicato nel 1992)
Palimpsest (1926)
Kora and Ka (1930)
Nights (1935)
The Hedgehog (1936)
Tribute to Freud (1956), trad. I segni sul muro, con alcune lettere inedite di S. Freud all’autrice, trad. di Massimo Ferretti, Roma: Astrolabio, 1973
Visions and Projections (1982), trad. Visioni e proiezioni, a cura di Marina Vitale, Napoli: Liguori, 2006 ISBN 978-88-207-4014-6
Majic Ring (scritto nel 1943–44, pubblicato nel 2009)
The Sword Went Out to Sea (scritto nel 1946–47, pubblicato nel 2007)
White Rose and the Red (scritto nel 1948, pubblicato nel 2009)
The Mystery (scritto nel 1948–51, pubblicato nel 2009)
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
Fonte – Enciclopedia Treccani on line–Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
Breve biografia Corrado Govoni nasce a Tamara, in provincia di Ferrara, nel 1884. Vive per un breve periodo a Milano e poi stabilmente a Roma e muore ad Anzio nel 1965. Appena diciannovenne, esordisce con la raccolta Le fiale (1903). Seguono: Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Poesie scelte (a cura di A. Neppi, 1918), Tre grani da seminare (1920), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), La Trombettina (1924), Brindisi alla notte (1924), Il flauto magico (1932), Canzoni a bocca chiusa (1938), Pellegrino d’amore (1941), Govonigiotto (1943), Aladino. Lamento su mio figlio morto (1946), L’Italia odia i poeti (1950), Patria d’alto volo (1953), Preghiera al trifoglio (1953), Antologia poetica (a cura e con prefazione di G. Spagnoletti, 1953), Manoscritto nella bottiglia (con un saggio di G. Ravegnani, 1954), Stradario della primavera e altre poesie (1958), Poesie 1903-1959 (a cura di G. Ravegnani, 1961). È autore di numerosi libri in prosa, racconti, testimonianze, romanzi. Entrato in contatto con Marinetti, si avvicina al futurismo, collaborando ad alcune riviste come “Lacerba”, “La Voce” e “Poesia”, ma ritorna gradualmente alle forme più tradizionali, soprattutto nelle poesie dedicate al figlio, vittima dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.
Le cose che fanno la domenica
L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.
Il canto del gallo nel pollaio.
Il gorgheggio dei canarini alle finestre.
L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolìo della puleggia.
La biancheria distesa nel prato.
Il sole sulle soglie.
La tovaglia nuova nella tavola.
Gli specchi nelle camere.
I fiori nei bicchieri.
Il girovago che fa piangere la sua armonica.
Il grido dello spazzacamino.
L’elemosina.
La neve.
Il canale gelato.
Il suono delle campane.
Le donne vestite di nero.
Le comunicanti.
Il suono bianco e nero del pianoforte.
Le suore bianche bendate come ferite.
I preti neri.
I ricoverati grigi.
L’azzurro del cielo sereno.
Le passeggiate degli amanti.
Le passeggiate dei malati.
Lo stormire degli alberi.
I gatti bianchi contro i vetri.
Il prillare delle rosse ventarole.
Lo sbattere delle finestre e delle porte.
Le bucce d’oro degli aranci sul selciato.
I bambini che giuocano nei viali al cerchio.
Le fontane aperte nei giardini.
Gli aquiloni librati sulle case.
I soldati che fanno la manovra azzurra.
I cavalli che scalpitano sulle pietre.
Le fanciulle che vendono le viole.
Il pavone che apre la ruota sopra la scalèa rossa.
Le colombe che tubano sul tetto.
I mandorli fioriti nel convento.
Gli oleandri rosei nei vestibuli.
Le tendine bianche che si muovono al vento.
poesie di Corrado Govoni
Punta secca
Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell’uncino di riccio
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t’impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d’ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l’orchidea tu l’hai negli occhi.
Paesi
Esplodon le simpatiche campane
d’un bianco campanile, sopra tetti
grigi: donne, con rossi fazzoletti,
cavano da un rotondo forno il pane.
Ammazzano un maiale nella neve,
tra un gruppo di bambini affascinati
dal sangue, che, con gli occhi spalancati,
aspetta la crudele agonia breve .
Gettano i galli vittoriosi squilli.
I buoi escono dai fienili neri;
si spargono su l’argine tranquilli,
scendono a bere, gravi, acqua d’argento.
Nei campi, rosei, bianchi, i cimiteri
sperano in mezzo al verde del frumento.
Naufragio
Sul mio capo di naufrago
galleggiante sul mare nero della vita
afferrato a una tavola sfasciata
materna culla
vedo ancora ondeggiare le stelle
come un tenero ramo di mandorlo.
Luce di fuori mondo
o vertigine
degli abissi incantevoli del nulla?
Ne la corte.Tre stracci ad asciugare
– Ne la corte – Tre stracci ad asciugare
sul muricciuolo accanto il rosmarino.
Una scala seduta. Un alveare
vedovo, su cui giuoca il mio micino.
Un orciuolo che ha sede sul pozzale
di marmo scanalato da le funi.
Dei cocci gialli. un vaso vuoto. Un fiale
che ha vomitato. Dei fogliami bruni.
– Su le finestre – Un pettine sdentato
con due capelli come dei pistilli.
Un astuccio per cipria. Uno sventrato
guancialino di seta per gli spilli.
Una scatola di belletto. Un guanto
mencio. Un grande garofano appassito.
Una cicca. Una pagina in un canto
piegata, da chissà mai quale dito!
– Per l’aria – La docile campana
d’un convento di suore di clausura.
Una lunga monotonia di zana.
Un gallo. Una leggera incrinatura
di vento. Due rosse ventarole
cifrate. Delle nubi bianche. Un treno.
Un odore acutissimo di viole.
Un odore acutissimo di fieno.
Contro corrente come bionde trote
Contro corrente come bionde trote
fendevano la calca cittadina
due fanciulle insolenti di bellezza.
Curiosando strusciarono i musini
di maliziosa cipria qua a un acquario
di lusso di dormenti onde ravvolte
di stoffe per murene ed aragoste,
più in là a un brillante altar di calzature,
spume di cardi rossi per pianelle
di Cenerentola, lustrini e argenti
per taccuini da ballo. Scantonarono
a un tratto e una si chinò nascosta
dall’inquieta compagna ad allacciarsi
la giarrettiera a mezza coscia ignuda.
Le succhiò la corrente cittadina.
Vedo sempre la strada illuminata
da quel fulgore di carne di donna
nel marmo della pioggia settembrina.
Siepe
All’odore crudele
che viene dalle spine della siepe
il tuo sangue amareggia l’amore,
e ti diventan gli occhi
una luce cattiva pigiata.
Sulla tua statua che cammina
aprendo una nuova strada nel vento
invano battono le mie parole
come gocce di rugiada da me scossa.
Prego l’erba dell’argine ti venga incontro
con la lampada avvelenata del gigaro
per far soffrire la tua bocca rossa.
Il lampione
Il crepuscolo si sfogliò
su i tegoli muscosi;
l’ultimo suono di campana si smorzò
ne l’abbandono dei sagrati erbosi.
In una svolta, un fanale
notifica! la sua vittoria
sopra l’ombra cocciuta.
La sua fiamma claustrale
sembra una fiamma provvisoria
ed instabile. Si direbbe che sternuta.
Il fanale s’illude d’essere un sacro lampadario
che nel suo cuore chiude
come in un vaso un elettuario
infiammabile.
Ma il vento precario
lo prende per un disadorno e vitreo erbario
con un gìgaro
friabile che si diverte a gualcire.
Ed il fanale si rassegna
a la notturna passione
senza imbroncire.
Il silenzio, come un cane,
segue le pestè dei rumori.
Il sonno sente a gli occhi dei pizzicori.
E l’alba soffia il dente di leone
del lampione.
Il palazzo dell’anima
Triste dimora! Aborti nelle fiale,
rachitici e verdastri. Sorridenti
bambole sparse ovunque. Sofferenti
in vasi d’ambra fior di digitale.
Campane di cristallo su agonie
di cera, rosee maschere di seta
annegate nell’acqua ovale inquieta
degli specchi, malinconie impagliate.
Laggiù la città bianca col suo rombo
d’api e il suo fiume di ardente piombo,
come un pallido sogno di morfina.
Oh i crepuscoli tristi d’anilina
sulle mura echeggianti di fanfare!
Da una finestra si scorge il mare.
Crepuscolo ferrarese
Il mao si stira sopra il davanzale
sbadigliando nel vetro lagrimale.
Nella muscosa pentola d’argilla
il geranio rinfresca i fiori lilla.
La tenda della camera sciorina
le sue rose di fine mussolina.
I ritratti che sanno tante storie
son disposti a ventaglio di memorie.
Nella bonaccia della psiche ornata
il lume sembra una nave affondata.
Sul tetto d’una prossima chiesuola
sopra una pertica una ventarola
agita l’ali come un uccelletto
che in un laccio per i piedi sia stretto.
Altissimi, per l’aria, dai bastioni,
capriolano fantastici aquiloni.
Le rondini bisbigliano nel nido.
Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.
Il cielo chiude nella rete d’oro
la terra come un insetto canoro.
Dentro lo specchio, tra giallastre spume
ritorna a galla il polipo del lume.
La tristezza s’appoggia a una spalliera
mentre le chiese cullano la sera.
Chimerica corriera
Mi sfiorò la corriera all’improvviso,
e prima che pensassi di gridare:
«Ferma! vengo pure io oltre frontiera!».
era passata a volo, sollevando
un turbine di opaco polverone,
scomparendo alla vista: belle ignote,
contro i vetri di bambole le gote,
e il postiglione con la lunga frusta
che fulminava a fuoco la quadriglia…
Passò ancora in un vortice di neve,
e passò nell’estivo polverone.
Poi si fece vederesernpre più rararnente,
con i cavalli alati e il postiglione
un’ornbra con la frusta alta nel cielo;
e quando la rnia voce
fu così forte da coprir le ruote
la frusta e le cantanti sonagliere,
non passò più né lenta né veloce…
Eppure certe sere,
quando sono più stanco e ancor più bianco
e l’antica ferita
rni si torna ad aprire ed a dolere;
se aguzzo un po’ le orecchie
odo ancora venire da lontano,
rna è un sussulto del sangue o forse il tuono,
corne un fievole suono,
dal fondo della via o della rnia vita
che senza averla rnai raggiunta
ho per sernpre srnarrita:
non può esser che il vostro, sonagliere,
in viaggio per chirneriche frontiere.
Corrado Govoni
Breve biografia Corrado Govoni nasce a Tamara, in provincia di Ferrara, nel 1884. Vive per un breve periodo a Milano e poi stabilmente a Roma e muore ad Anzio nel 1965. Appena diciannovenne, esordisce con la raccolta Le fiale (1903). Seguono: Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Poesie scelte (a cura di A. Neppi, 1918), Tre grani da seminare (1920), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), La Trombettina (1924), Brindisi alla notte (1924), Il flauto magico (1932), Canzoni a bocca chiusa (1938), Pellegrino d’amore (1941), Govonigiotto (1943), Aladino. Lamento su mio figlio morto (1946), L’Italia odia i poeti (1950), Patria d’alto volo (1953), Preghiera al trifoglio (1953), Antologia poetica (a cura e con prefazione di G. Spagnoletti, 1953), Manoscritto nella bottiglia (con un saggio di G. Ravegnani, 1954), Stradario della primavera e altre poesie (1958), Poesie 1903-1959 (a cura di G. Ravegnani, 1961). È autore di numerosi libri in prosa, racconti, testimonianze, romanzi. Entrato in contatto con Marinetti, si avvicina al futurismo, collaborando ad alcune riviste come “Lacerba”, “La Voce” e “Poesia”, ma ritorna gradualmente alle forme più tradizionali, soprattutto nelle poesie dedicate al figlio, vittima dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.
Bianca Bianchi, storia di una costituente- di Giulia Vassallo
Biblion edizioni
Descrizione-La costituente Bianca Bianchi (1914-2000), protagonista di questa narrazione, fu una donna eccezionale. Perché fu antifascista coraggiosa, tanto da preferire l’esilio in Bulgaria alla soggezione intellettuale al diktat del regime; perché fu militante attiva nella Resistenza toscana, ma anche per la sua esperienza di parlamentare eletta nella prima legislatura repubblicana, con oltre 20 mila preferenze. Volitiva e naturalmente incline a battaglie scomode e scelte impopolari, tra cui quella di appartenere a un partito variamente screditato dai rivoluzionari, si allontanò presto e non senza amarezza dai riflettori di Montecitorio, scegliendo di dedicarsi alla «cura dei più bisognosi» e alla promozione di una cultura laica, socialista e soprattutto europea.
L’instancabile e variegata biografia, le carte d’archivio e le lettere alla grande socialista russa Angelica Balabanoff, come pure le testimonianze rese da colleghi e collaboratori, ovvero gli elementi che compongono il presente volume, contribuiscono a restituire per la prima volta il profilo di Bianca Bianchi in tutta la sua complessità. Emerge così dall’oblio storiografico una personalità versatile e non certo aristocratica; una scrittrice, un’insegnante e la promotrice della prima legge contro la discriminazione dei figli illegittimi; una figura femminile di indiscutibile caratura personale, ma soprattutto con una dimensione pubblica di grande spessore, che merita di essere conosciuta.
Giulia Vassallo (Roma, 3 febbraio 1977) è assegnista di ricerca presso la “Sapienza”, Università di Roma. Dal 2006 ad oggi è redattore editoriale della rivista online «EuroStudium3w», di proprietà dell’Ateneo “Sapienza” di Roma. È inoltre autrice del volume Lilliput o Gulliver? Il contributo olandese all’unificazione europea (1945-1966), Bulzoni 2020. Su Bianca Bianchi, sempre per i tipi di Bulzoni, ha precedentemente pubblicato, con Davide Di Poce e Elisiana Fratocchi, il libro Il pane e le rose. Scritture femminili della Resistenza.
Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”
Francesca Gori
A cento anni dalla nascita il ricordo del percorso etico-politico della “ragazza di campagna” da Vicchio alla Costituente.
Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.
Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.
Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata. nizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.
Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.
È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.
Bianca Bianchi
Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.
Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.
Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.
Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.
Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.
Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.
Si è infine spenta il 9 luglio 2000.
Fonte-ToscanaNovecento – (Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea)
Rossella Renzi, laureata all’Alma Mater di Bologna con la testi su Eugenio Montale e la poesia del secondo Novecento, è nata Castel San Pietro Terme nel 1977, vive in provincia di Ravenna, insegna materie letterarie negli Istituti superiori. In poesia ha pubblicato: I giorni dell’acqua (L’arcolaio 2009), Il seme del giorno (L’arcolaio 2015), Dare il nome alle cose (Minerva 2018), Disadorna (peQuod 2022); il saggio in E Book Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola (Pordenonelegge 2018). È redattrice di «Argo» e di «Poesia del nostro tempo». Per la casa editrice Argolibri dirige la collana “Territori” per cui ha curato il volume Argo 2020 L’Europa dei poeti. Con altri autori ha curato L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie e numerosi Annuari di poesia. Lavora per approfondire il dialogo tra la poesia e le diverse forme artistiche. Collabora con l’Associazione Independent Poetry attiva nell’organizzazione di eventi sul territorio romagnolo.
Alcuni testi da:Disadorna
Tu che lo sai, dimmi cos’è
essere luce in questo lamento
che arriva da lontano.
Essere luce nel fragore
nel desiderio, nella speranza
quando la vita si schianta.
Dimmi il peccato nella mano tesa,
nella lingua del corpo che si fa canto.
***
Ci scorderemo di tutto
non sapere sarà la nostra verità
mentre l’acqua inizia a tracimare
ripassiamo le nostre iniziali.
***
C’è un punto sul collo
tra cuore e clavicola
dove si raccolgono le lacrime.
Nel solco appena accennato ristagna,
fa male. Se scavi in quel punto, Camille
comprendi una figura di madre
il suo corpo, gli occhi più grandi
il dolore non detto
le mani incrociate sulle ginocchia.
***
Apro gli occhi intorno è buio
crepe sul mio ritratto
polvere sul vetro
una cornice sghemba
siamo chiusi nell’umano rumore.
Uno schianto di stelle questo inizio d’agosto.
***
Eri scintilla o la bestia che fugge
esiliata nel chiaro di bosco
eri fanciulla ferita nel fianco
la madre con due rose sul grembo.
Eri seme, frutto, ramo spezzato
il silenzio nella tana del fuoco.
Eri la parte migliore del giorno
l’ultimo volo possibile.
Cinzia Demi
Articolo di Cinzia Demi
PerMissione Poesia, rubrica di poesia italiana contemporanea, esaminiamo “Disadorna” (peQuod Edizioni) il nuovo libro di Rossella Renzi, che si rinnova nella poetica cercando, questa volta, di liberarsi del “peso” delle parole, ricercandone la radice, la nudità di forma, la verità di fondo nella consapevolezza del supporto che quest’ultima, attraverso la poesia, può dare alla fragilità umana.
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Rossella Renzi, laureata all’Alma Mater di Bologna con la testi su Eugenio Montale e la poesia del secondo Novecento, è nata Castel San Pietro Terme nel 1977, vive in provincia di Ravenna, insegna materie letterarie negli Istituti superiori. In poesia ha pubblicato: I giorni dell’acqua (L’arcolaio 2009), Il seme del giorno (L’arcolaio 2015), Dare il nome alle cose (Minerva 2018), Disadorna (peQuod 2022); il saggio in E Book Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola (Pordenonelegge 2018). È redattrice di «Argo» e di «Poesia del nostro tempo». Per la casa editrice Argolibri dirige la collana “Territori” per cui ha curato il volume Argo 2020 L’Europa dei poeti. Con altri autori ha curato L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie e numerosi Annuari di poesia. Lavora per approfondire il dialogo tra la poesia e le diverse forme artistiche. Collabora con l’Associazione Independent Poetry attiva nell’organizzazione di eventi sul territorio romagnolo.
Per un approfondimento sulla sua poetica vedere anche l’articolo precedente al link: https://altritaliani.net/la-voce-poetica-di-rossella-renzi-il-seme-del-giorno/
Disadorna
Il volo è il leitmotiv di Disadorna, l’ultimo libro di Rossella Renzi, uscito nel 2022 per i tipi di peQuod: sia che si tratti di evocarlo attraverso la presenza di falene o farfalle o comunque piccoli insetti (il primo lepidottero si incontra sei volte nello scorrere dei testi), sia che si parli di ali o di voli o di uccelli sembra davvero che questa sia la dimensione in cui l’autrice vuole calarsi maggiormente, si senta a suo agio, ne ravveda una necessità di narrazione: È il cielo delle falene bianche/solcato da un solo giorno./È la possibilità del gesto/che non è stato/che non ti ha salvato.
Così, se la parola che compone il titolo dell’opera, disadorna, ci fa pensare a qualcosa privo di orpelli, di ornamenti, di fronzoli è ancora più vero che per volare, come per camminare, è necessario spogliarsi di molte cose, di quelle inutili e pesanti cose che diventerebbero solo una zavorra, ponendo un ostacolo tra il voler essere e il voler fare, tra il sentire e il rappresentare, tra le parole scritte e il loro significato, o senso che dir si voglia. Rossella Renzi, come dichiara lei stessa in un’intervista, comincia dunque a liberarsi del “peso” delle parole, ne ricerca la radice, la nudità di forma, la verità di fondo e compone poesie brevi, con pochi ma lampanti flash che illuminano la pagina e la mente. Ed è proprio la ricerca di luce, il restarne fedeli, la consapevolezza del supporto che questa può dare alla fragilità umana, uno degli obiettivi della sua poetica. Del resto già in Dare il nome alle cose (Minerva Edizioni) Renzi accennava alla fragilità dei frammenti, intendendola come una condizione necessaria per porsi in ascolto dell’altro e accoglierlo dentro e fuori di sé, una condizione in cui spesso ci troviamo, volenti o meno, tutti noi. Ed è qui che, ritengo, si possa ritrovare uno dei compiti della poesia, che vivaddio ne ha parecchi – altro che cosa inutile, senza funzione alcuna, come certi affermano -: dalla necessità di raccontare – Sherazade raccontava storie per aver salva la vita, ricordate? – al bisogno di lasciare un segno del proprio cammino in questo mondo, al desiderio di ricercare la verità e quindi la luce a cui accennavo sopra, una luce che per lieve che sia sancisce la possibilità del volo.
Rossella Renzi
All’interno del libro, protagonista del susseguirsi dei versi, si intravede una figura femminile che incarna il concetto di disadorna, ma anche quello di trasformazione e adeguamento alle molteplici dimensioni che la vita stessa presenta, compresa quella del dolore incanalata, come si legge nei testi della prima sezione della raccolta, nei profughi di Lipa, che ripercorrono il tema della migrazione con gli occhi aperti sulle necessità e sui bisogno e al contempo sulle meraviglie dei mondi nuovi, sulla libertà: Siamo l’occhio spalancato sul fuoco/procediamo con passi tremanti/una leggera carezza nelle mani/per turbare la muta limpidezza/per rispondere al saluto dell’acqua. O, ancora, si incarna nella figura di Camille Claudel, nella vitalità emergente della sua scultura, nella passionalità e fragilità delle sue figure e della sua stessa persona quasi fosse in corrispondenza con l’autrice, con la sua poesia, con le forme espresse in entrambe le arti, con la potenzialità del talento divulgato non senza fatica da Camille, complice l’epoca della sua affermazione: Ti bastava lo scrosciare costante/della pioggia il battito regolare/del suo cuore nella tua mano,/tutto era lì in quelle due parole,/l’esistenza, il rumore.
Ma il talento di Renzi si incontra, senz’altro, anche nei riflessi dei suoi maestri, alcuni presenti nelle introduzioni alle sezioni quali María Zambrano, Yves Bonnefoy, Simone Weil, Osip Mandel’štam con i quali stabilisce un dialogo che diventa canzoniere illuminante, meticciato di voci, crocevia di pensieri tutti ritrovabili e rinnovati in Disadorna, opera che si dimostra complessa elaborazione di un intenso percorso di ricerca intorno alla poesia, sfociato in un manufatto dal vasto respiro europeo, con uno stile lirico e di misura, chiaro e volutamente denso di una materia magmatica che introduce a riflessioni memoriali altamente evocative, sentimenti di compassione, desiderio di immedesimazione, conditi da una preziosa familiarità con gli strumenti della poesia, mischiati sapientemente con un’originalità interpretativa che non vanifica il desiderio di formarsi una propria e riconoscibile voce da parte dell’autrice.
Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino – LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica.E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.
Pier Paolo PASOLINI-“La terra di lavoro” da:” Le Ceneri di Gramsci”-
Pier Paolo Pasolini-Tomba di Antonio GramsciPier Paolo PASOLINI
-La terra di lavoro da:. Le Ceneri di Gramsci
Questo è l’ultimo degli undici poemetti che costituiscono “Le ceneri di Gramsci” di P.P.Pasolini, considerato se non il suo capolavoro, uno dei libri più letti per la virulenza dei versi che raggiungono nei testi portanti vertiginose altezze poetiche.
Colpisce il pathos, affiora l’immagine del quadro di Daumier “Il vagone di terza classe” ma gli sguardi di quegli emarginati che si vergognano della loro povertà, vissuta come una colpa, non sono un’immagine descrittiva fine a se stessa. Non sfugge a Pasolini la dolorosa scoperta dello schiacciamento delle masse popolari da parte del potere, vittime di una società che in quei primi anni ’50 si sta delineando nelle sue forme aberranti di privilegio e di esclusione
E questi versi di denuncia non sono altro che il suo bisogno di raccontare le deformazioni della realtà sottraendosi alla logica perversa di una società corrotta e servile.
[…]
Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo
autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno
dei morti, passati da dolore
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,
eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto
di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale
se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.
Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore
negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente…
[…]
in una gioia ch’è forse conservata
– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:
vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,
e anche la tua pietà gli è nemica.
Honoré Daumier – Il vagone di terza classe
Opera pittorica allegata è di Honoré Daumier – Il vagone di terza classe
-La collana «Interno Novecento» pubblica Zero, il poema più esteso del poeta spagnolo-
La collana «Interno Novecento» pubblica Zero, il poema più esteso del poeta spagnolo Pedro Salinas (1891-1951). Il successo ottenuto da raccolte come La voce a te dovuta (1933), internazionalmente riconosciuto come uno dei capolavori assoluti della lirica amorosa di tutti i tempi, ha talora lasciato in ombra la voce del Salinas successivo, il non meno raffinato e interessante poeta meditativo e civile che riflette, dal suo esilio nordamericano, sulle contraddizioni della modernità e del progresso, e mostra la sua profonda preoccupazione spirituale davanti alla perversione delle nuove scoperte tecnologiche capaci di condurre l’uomo all’autodistruzione. Composto nel 1943, sulla scia della commozione suscitata dai devastanti bombardamenti aerei che colpirono l’Italia nell’estate di quell’anno, Zero è un componimento, in ottonari e endecasillabi sciolti, che descrive, con una visione straordinariamente anticipatoria rispetto alle spaventose esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, il terrificante potere distruttivo di un ordigno (denominato nel poema sempre e solo zero) che un anonimo pilota fa precipitare, dall’alto di un aereo, distruggendo l’umanità. Attraverso il topos della contemplazione delle rovine, senza trascurare l’immenso tema del problema della coscienza e della responsabilità individuali nei conflitti bellici, Salinas descrive il profondo dolore e smarrimento dell’io poetico che vede come in un solo istante viene polverizzato non solo il presente e la possibilità di futuro, ma anche tutta la vita creata, difesa e resa eterna dall’arte nel corso dei secoli. Lia Ogno, fine traduttrice e ispanista, ci propone, per la prima volta in italiano, una curatissima traduzione in versi – rigorosa tanto dal punto di vista filologico quanto nel rispetto della costruzione metrica dell’originale ̶ di questo straordinario ed emblematico poema del Novecento.
LO zero ci cade sopra.
Più non le vedo, le molte,
le bellissime, distrutte,
in quell’unità straziante
che le confonde nel nulla,
solo in detriti e in macerie.
Tra quei detriti cerco io i miei morti;
sono invisibili e questo più mi duole.
Non li vede nessuno; sono forme
mozze; erano prodigi, singolari,
che, sconfitti, ritornano alla pietra.
Morti vetusti, cadaveri lontani,
scheletri perduti che la terra
in ignorato ossario perfeziona.
Son morti già da tempo. Speranzosa
di non morire, quella loro morte.
Vita diedero a masse
che giacevano informi nelle cave.
Riempirono le pietre di tremori.
Minerale che va verso l’immagine,
misterioso tepore che già scorre
nelle vene del marmo,
quando il lento cesello lo conduce
al suo massimo: al seno di una ninfa […]
EL cero cae sobre ellas.
Ya no las veo, a las muchas,
las bellísimas, deshechas,
en esa desgarradora
unidad que las confunde,
en la nada, en la escombrera.
Por el escombro busco yo a mis muertos;
más me duele su ser tan invisibles.
Nadie los ve; lo que se ve son formas
truncas; prodigios eran, singulares,
que retornan, vencidos, a su piedra.
Muertos añosos, muertos a lo lejos,
cadáveres perdidos,
en ignorado osario perfecciona
la tierra, lentamente, su esqueleto.
Su muerte fue hace mucho. Esperanzada
en no morir, su muerte. Ánima dieron
a masas que yacían en canteras.
Muchas piedras llenaron de temblores.
Mineral que camina hacia la imagen,
misteriosa tibieza, ya corriendo
por las vetas del mármol,
cuando, curva tras curva, se le empuja
hacia su más, a ser pecho de ninfa […]
Zero
Interno Novecento
Autore: Pedro Salinas A cura di: Lia Ogno
Collana: Interno Novecento
ISBN: 978-88-85583-63-4
Data di pubblicazione: 22 dicembre 2021
Pagine: 84 Formato: 11×17 cm
Poesie di Joumana Haddad- poetessa e giornalista libanese
Breve biografia di Joumana Haddad (Beirut, 6 dicembre 1970) è una poetessa, giornalista e traduttrice libanese.Joumana Haddad è responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese An Nahar, ed insegnante all’Università Libano-Americana di Beirut. È attivista per i diritti della donna, capo redattrice di Jasad, rivista araba. Dal 2007 al 2011 amministratrice dell’IPAF o Booker arabo, premio letterario che ricompensa ogni anno un romanzo arabo, e ora fa parte del comitato dei gestori del premio. Ha pubblicato varie raccolte di poesia, scrive anche racconti. I suoi libri sono stati tradotti e pubblicati in molti paesi del mondo.
Geologia dell’Io
Io sono il sesto giorno di dicembre del 1970.
Sono l´ora poco dopo le dodici.
Sono le urla di mia madre che mi dà vita,
le sue urla che le danno vita.
Il suo grembo che mi lascia affiorare,
il suo sudore che realizza la mia probabilità.
Sono lo schiaffo del medico che mi rianimò.
(Ogni schiaffo successivo che provò a rianimarmi, mi distrusse.)
Sono gli occhi della famiglia su di me,
gli sguardi del padre, del nonno, delle zie.
Sono tutti i loro possibili scenari,
sono i sipari aperti, i sipari celati
e le mura che dietro di essi, verranno,
e sono colei che non ha nome, e non ha mano per ciò che verrà.
Sono le aspettative, i sogni falliti,
i vuoti sospesi al mio collo come amuleti.
Sono lo stretto cappotto rosso che mi faceva piangere,
e ogni costrizione che mi fa piangere ancora.
Sono la bambola dai capelli scuri e gli occhi di plastica,
sono quella bambola respinta che rifiutai di cullare,
ignorata, ancora sanguinante alla nuca
(due gocce nei giorni feriali e tre in quelli di riposo e di vacanza).
Sono il triste buco nelle calze della mia maestra
che continua a guardarmi come il rimprovero di Abele nella mia anima,
raccontandomi la sua povertà e la mia impotenza,
lo sfinimento della mia pazienza e il terrore della sua disperazione.
Sono le tabelline che non ho imparato finora,
sono il due che si somma a uno, sempre a uno.
Sono la teoria delle linee curve che non si uniscono mai,
e sono le loro applicazioni.
Sono il mio odio della storia, dell´algebra e della fisica.
Sono il mio credere, da bambina, che la terra girasse intorno al mio cuore
e il mio cuore intorno alla luna.
Sono la bugia di Babbo Natale,
a cui credo ancora.
Sono l´astronauta che sognavo di diventare.
Sono le rughe di mia nonna che si è suicidata,
la mia fronte posata sulle sue ginocchia assenti.
Sono il ragazzo (si chiamava Jack?) che mi ha tirato i capelli ed è scappato via.
Sono colui che mi ha fatto piangere, facendomi innamorare ancora di più.
Io
sono il mio gattino,
e la bicicletta del figlio dei vicini che mi ha investito senza che protestassi.
(Ho venduto le anime del mio gattino per uno sguardo da quel bel ragazzo.) Sono il ricatto, il mio vizio inaugurale.
E sono la guerra
il cadavere dell´uomo che i combattenti trascinavano davanti a me,
e la sua gamba strappata che cercava di seguirlo.
Io
sono i libri che ho letto da bambina e che erano inadatti a me
(che ora scrivo e che continuano a essere inadatti).
Sono l´adolescenza del mio seno destro,
e la saggezza del sinistro.
Il potere dei due sotto una maglietta aderente
poi la mia consapevolezza del loro potere: l´inizio della discesa.
Sono la mia noia veloce, la mia prima sigaretta, la mia ostinazione tardiva,
e le stagioni trascorse.
Sono la nipote della bambina che fui,
la sua mancanza della mia rabbia,
le mie delusioni e le mie vittorie,
i miei labirinti e i miei desideri,
le mie bugie e le mie guerre,
le mie cicatrici e i miei giri sbagliati.
Sono la tenerezza che ho a dispetto di me stessa,
sono il mio Dio e la mia avidità,
le mie assenze colmate dai miei morti,
sono i miei morti che non dormono mai,
i miei cadaveri che non dormono mai,
sono i loro ultimi sospiri sul cuscino, a ogni alba.
E io
sono il mio risentimento, il mio contagio,
il mio pericolo,
la mia fuga dalla viltà al peggio.
Sono la mia attesa senza conoscere il tempo
e il mio non capire lo spazio.
Sono il silenzio che ho imparato.
E il silenzio che non ho imparato finora.
La solitudine che, come un insetto, percorre la mia anima.
Sono la nipote della bambina che fui:
la mia mancanza della sua innata indifferenza,
della sua perfezione altruista.
Sono il disastro dell´amore
e avvengo.
Sono il lupo della poesia che mi scorre nel sangue
e sono io che corro scalza con lui,
sono colei che cerca il suo cacciatore
non trovando il suo cacciatore.
Sono le acque spumeggianti della mia lussuria,
la successione delle lingue che irrigano la sua spuma,
e il mio rossetto che anticipa ogni sete.
Sono anche le mie unghie: quello che c´è sotto e quello in cui sprofondano.
Sono la memoria delle loro ferite,
la memoria della loro rabbia,
la memoria della loro debolezza,
la memoria della loro forza, oltre ogni prova,
e sono i pezzetti di carne strappati dalle spalle degli uomini nei momenti di estasi.
Sono i miei denti
le mie cosce delicate
i miei desideri osceni.
Sono i miei peccati, e quanto li amo,
sono i miei peccati, e quanto mi assomigliano.
Sono la mia amica che mi ha tradito…
e per questo la ringrazio.
Sono la mia spina dorsale che urla in faccia ai traditori.
Sono i miei occhi che cercano l´oscurità che mi appartiene.
Sono il mio dolore
il mio dolore, sì.
Sono il mio grido nel pieno della notte
(soppresso al momento opportuno).
Sono quello che mi dicono di non dire
di non sognare
di non pensare
di non osare
di non prendere.
Sono quello che mi dicono di non essere.
Sono quello che nascondo,
quello che non voglio nascondere, ma nascondo lo stesso
quello che voglio nascondere, e non nascondo.
Sono il “dimmi quanto mi ami’
e il “non ti credo’.
Sono la testa connessa al corpo, sconnessa dal corpo.
Sono la mia morte prematura – lo dico senza dramma –
e qualsiasi devastazione lascerò dietro di me.
Sono la follia e l´assenza che mi hanno preceduta.
E le piccole, irrilevanti cose che svelano:
i francobolli, i ritagli di lettere,
i biglietti sotto il vetro della scrivania, il mio sorriso in vecchie foto.
Sono la somma degli uomini che mi hanno amata e che non ho amato.
Sono quelli che ho amato e che non mi hanno amata,
quelli che non ho amato e non mi hanno amata,
quelli che ho immaginato di amare
e quelli che hanno immaginato di non amarmi.
Sono la somma dell´unico uomo che amo.
Sono la sposa la cui immagine piangeva nella foto del suo primo matrimonio (solo l´immagine).
Sono le mie proiezioni, le mie sconfitte, le mie vane vittorie.
Sono la mia salvezza dall´annegamento una volta (se veramente fu salvezza).
Sono la noia di una briciola sul tavolo.
Sono i sette giorni e i secoli che furono necessari a crearmi.
Sono i pesci, gli uccelli e gli alberi
il fumo delle fabbriche,
l´asfalto della strada e il fischio delle bombe,
e sono il vento, i ragni e la polpa della frutta.
Sono ogni vulcano sulla cima di ogni montagna in ogni paese in ogni continente in ogni pianeta.
Sono ogni buco scavato in ogni terra di ogni paese in ogni continente in ogni pianeta.
Sono il secondo che ho impiegato per distruggermi
e tutti i miei corpi
e le strade umide della mia città
e sono chi ero e sono chi avrei potuto essere.
Sono il vestito blu che mia madre non si comprò per pagarmi le tasse della scuola.
Sono la libreria di mio padre, i suoi occhi e il suo cuore petulante.
Sono gli sguardi che non mi sono permessa, le parole che non ho detto e le labbra che non ho baciato
e le tracce che non lascerò dietro di me:
tutte le cose stupide che non ho fatto
tutte le grandi cose che non ho fatto ancora
tutte le partenze da cui non sono tornata.
Io
sono mia figlia che non ho messo al mondo e che potrei
e
la donna che sarò.
Sono quasi quella donna
e sono quasi l´uomo
che non sono diventata completamente
che non voglio diventare
e che mi salva ogni giorno da me stessa.
Sono la donna che non sono adesso,
tutte le cose e le persone che ero ieri,
che sarò domani,
e che compongono
scompongono
e ricompongono me.
Joumana Haddad- poetessa
Sono una Donna
Nessuno può immaginare
Quel che dico quando me ne sto in silenzio
Chi vedo quando chiudo gli occhi
Come vengo sospinta quando vengo sospinta
Cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
Quando ho fame quando parto
Quando cammino e quando mi perdo,
nessuno sa che per me andare è ritornare,
e ritornare è indietreggiare
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera
e quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
Ed io glielo lascio credere
E creo.
Hanno costruito per me una gabbia
affinché la mia libertà fosse una loro concessione
E ringraziassi e obbedissi
Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro
Sono libera nella vittoria e nella sconfitta
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
E al mio desiderio non impartiscono ordini.
Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
Ed io glielo lascio credere
E creo.
Albero Azzurro
Quando i tuoi occhi incontrano la mia solitudine
il silenzio diventa frutto
e il sonno tempesta
si socchiudono porte proibite
e l’acque impara a soffrire.
Quando la mia solitudine incontra i tuoi occhi
il desiderio sale e si spande
a volte marea insolente
onda che corre senza fine
nettare che cola goccia a goccia
nettare piu ardente che un tormento
inizio che non si compie mai.
Quando i tuoi occhi e la mia solitudine si incontrano
mi arrendo nuda come la pioggia
e nuda come un seno sognato
tenera come la vite che matura il sole
moltiplice mi arrendo
finché nasca l’albero del tuo amore
Tanto alto e ribelle
Tanto alto e tanto mio
Freccia che ritorna all’arco
Palma azzurra piantata nelle mie nuvole
Cielo crescente che niente fermarà.
Brutte Abitudini
Diceva che l’amore assomiglia al gioco
E che lei perde sempre
Diceva che era una brutta abitudine
Che non si azzardava a curare.
Diceva di temere la luce
Nonostante avesse sacrificato molte notti
Si accontentava della sua solitudine
Non curava le amicizie
Ma cadeva dalla sua nube
Ogni volta che la pioggia la conduceva a terra.
Diceva che la sua gioventù era invano
Di essere dolce suo malgrado
Ma poi si mostrava crudele
Perché la tenerezza è come l’amore
Una brutta abitudine
Ed anche quel silenzio
Di cui non potrà mai fare a meno.
Diceva di essere una donna lassa
Inadatta al sonno
Ma dormiva per diventare un embrione
E sprofondare negli abissi,
una donna esaurita
Svuotata ogni giorno dai suoi vizi
Ma che non voleva guarire.
Diceva di essere una perdente di natura
Perdente per meritare la vittoria
Diceva infine che la vita è una brutta abitudine
Dalla quale forse non guarirà
Con un po’ di determinazione
E molto oblio.
Joumana Haddad- poetessa
Nella follia
Catturare il firmamento e lambire le nubi
Prendere in prestito la bufera
Lasciandomi alle spalle le lacrime zampillanti
Lacrime zampillanti
E me ne andrò.
Non inseguire l’equilibrio
Non soffocare le grida
Danzare sull’acqua
Dirigendomi verso l’altra sponda
Libera o schiava
Non importa!
Guadare il fiume.
Quando verrà il momento
farfalla notturna
Deporre la dolcezza che ormai mi ha annoiata
Deporre l’abito imbizzarrito invano
E dare fuoco al passato
Per ritornare liscia come la terra vista da lontano
E girare da sola
Intorno alla luna.
Ridere e le mie risate non saranno tristi
Non volere, camminare
Accarezzare la strada
Conversare tutta la notte con il selciato
Fare sgorgare la poesia dalle pietruzze
Il cielo piangerà e non mi preoccuperò
Il vento consumerà il mio cuore ustionato dall’amore.
Quando verrà il momento
alba senza rugiada
mi mostrerò con il viso rabbuiato
e seppellirò i miei visi sereni
diffonderò le ombra sul mio essere
le farò gocciolare come il dolce miele
punto dopo punto
bacio dopo bacio
affinché riemerge sulla superficie del fiume
quella donna che ho serbato in me.
Amami
Mi trasporto in punta di piedi
mi trasporto nel galoppo della mia vista.
Mi avvolgo nelle fasce della mia pelle.
Mi abbraccio desiderandomi.
Benedico il mio flusso, lo zampillare che da me proviene.
Mi cullo sul mio seno.
Alle mani germoglianti infilo i guanti della poesia.
Reclamo la rivelazione,
le mie incisioni sono su pietra.
La mia immagine reca acqua alla sete
ed esche alla rete dei pescatori.
Trascorro i rintocchi delle campane della sera
scolpendo.
Dormo nella mia stessa ombra.
Indosso la mia natura beduina
quando sono stanca.
Entro in un giardino
che non mi istiga contro me stessa.
Amo la mia anima impossibile,
quella i cui piedi
sono ignoti alla terra.
Joumana Haddad- poetessa
Quando sono diventata un frutto
Maschio e femmina mia madre mi ha messa all’ombra della luna
Ma Adamo fui sacrificato alla mia nascita
Immolato ai mercenari della notte
E per consolarmi
Mi lavò con acqua torbida
E mi portò sul pendio di ogni montagna
Per lo spettro del silenzio e il rumore delle domande mi rese docile
Mi consacrò a Eva lo stupore e la trasformazione
mi impastò con il buio e la luce
Un tempio ai diavoli del paradiso.
Straniera crebbi e nessuno si preoccupò del mio grano
Ho preferito disegnare la mia vita su una pagina bianca
Mela che nessun albero partorì
Poi ritagliarla e uscirne
Una parte di me vestita di rosso,
un’altra parte di me in bianco
Non ero solo dentro e fuori del tempo
Perché ho avuto origine nei meandri celati
Prima di nascere pensavo
Di essere una massa abbondante
Di avere dormito a lungo
Di avere vissuto a lungo
E quando sono diventata un frutto
Ho saputo quel che mi attendeva.
Ho detto ai maghi di prendersi cura di me
Allora mi hanno presa.
Era la mia risata
Bella e imbarazzata
Volavo sulle piume di un uccello
e di notte diventavo un guanciale
Hanno gettato il mio corpo nei talismani
e hanno cosparso il mio cuore
con il nettare della follia
Mi hanno recato un silenzio e dei racconti
E fatto in modo che io vivessi senza radici.
E da quel momento vago da un luogo all’altro
Indosso una nuvola ogni notte e parto
Solo io mi dico addio solo io mi do il benvenuto
Volo per sentirmi libera non perché ho paura
Torno dal desiderio non dal fallimento
la mia costanza è il mare e la mia bussola è la tempesta
nell’amore non getto l’ancora in nessun porto
il mio corpo è il viaggio e la mia morte è nel fermarmi
di notte lascio gran parte di me stessa
per abbandonarmi a un forte abbraccio
quando ritorno i miei fratelli gemelli
sono la distanza e le isole
l’onda e la sabbia della spiaggia
il rifiuto e il desiderio voluttuoso della luna
l’amore e la morte dell’amore
chi comprende il mio ritmo mi conosce
mi segue
pero non mi raggiunge mai.
Quando i tuoi occhi incontrano la mia solitudine
Quando i tuoi occhi incontrano la mia solitudine
il silenzio diventa frutto
e il sonno tempesta
si socchiudono porte proibite
e l’acqua impara a soffrire.
Quando la mia solitudine incontra i tuoi occhi
il desiderio sale e si spande
a volte marea insolente
onda che corre senza fine
nettare che cola goccia a goccia
nettare più ardente che un tormento
inizio che non si compie mai.
Quando i tuoi occhi e la mia solitudine si incontrano
mi arrendo nuda come la pioggia
e nuda come un seno sognato
tenera come la vite che matura il sole
molteplice mi arrendo
finché nasca l’albero del tuo amore
Tanto alto e ribelle
Tanto alto e tanto mio
Freccia che ritorna all’arco
Palma azzurra piantata nelle mie nuvole
Cielo crescente che niente fermerà.
Io….
Io la cattiva
la malvagia
la sanguinaria
colei che si cela nella sua verità,
che stringe le sue stesse mani
e avanza verso l’isolamento,
io, che non sono mai stata di nessuno
io, che appartengo solo alla fuga
sarò infine mia.”
Sono così
Sono così
non ho tempo per i rimpianti
gioco con i destini, mi annoio facilmente
prometto e non mantengo.
Inutile cambiarmi:
La certezza mi è estranea
per l’imbarazzo dell’amore
per l’immaginazione
perché sono devota
solo all’indolenza.
Imprevedibili i miei appuntamenti
sono una fuga prima del tempo
un sole che non basta
una notte che mai si schiude
sono impetuosi sussulti tra la sete e il dissetarsi.
Sono così, un silenzio per raccogliermi,
un lento terrore per disperdermi,
un silenzio e un terrore per curare una crudele memoria
non c’è luce che possa guidarmi:
Possiedo solo i miei peccati.
Breve biografia di Joumana Haddad (Beirut, 6 dicembre 1970) è una poetessa, giornalista e traduttrice libanese.Joumana Haddad è responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese An Nahar, ed insegnante all’Università Libano-Americana di Beirut. È attivista per i diritti della donna, capo redattrice di Jasad, rivista araba. Dal 2007 al 2011 amministratrice dell’IPAF o Booker arabo, premio letterario che ricompensa ogni anno un romanzo arabo, e ora fa parte del comitato dei gestori del premio. Ha pubblicato varie raccolte di poesia, scrive anche racconti. I suoi libri sono stati tradotti e pubblicati in molti paesi del mondo.
Luisa Giaconi, o la poesia che stregò Dino Campana-
Luisa Giaconi, o la poesia che stregò Dino Campana-Gli anni tra la fine del XIX secolo e il primo decennio del XX sono indubbiamente caratterizzati da una produzione letteraria irrequieta, sperimentale e variegata; questo vale tanto per l’Europa, quanto per l’Italia, che, per quanto in certi aspetti ancora ancillare alla cultura d’oltralpe, seppe trovare una sua voce molto originale e contribuire in modo decisivo all’elaborazione di nuove concezioni artistiche. Ora, per quanto questo periodo possa dirsi, per molti aspetti, come uno dei più vivaci e interessanti della storia letteraria recente, molti sono ancora i punti interrogativi, le zone d’ombra, i nomi posti in un cassetto e mai più riesumati. Tra questi, sarebbe da porre una certa attenzione a Luisa Giaconi, poetessa colpevolmente dimenticata nonostante potesse pregiarsi di un ammiratore del calibro di Dino Campana, che molto amò la sua poesia, e molto, probabilmente, se ne fece influenzare.
Luisa Giacon
Ma procediamo con ordine, cercando anzitutto di inquadrare la vita e il carattere della poetessa. La maggiore fonte biografica a nostra disposizione è la prefazione di Giuseppe Saverio Gargano all’edizione del 1912 della Tebaide, unica opera edita della poetessa. Gargano, oltre ad essere giornalista e studioso di letteratura inglese, fu a lungo legato da una relazione amorosa con Luisa, dal 1899 fino all’anno della morte.
Luisa Giaconi nasce a Firenze nel 1870, da una famiglia nobile di discendenza germanica, per quanto oramai decaduta. Su questo punto è bene soffermarsi, poiché Gargano, nella sua prefazione, afferma che Luisa sentiva una certa «affinità elettiva» con l’animo contemplativo germanico, attribuendo, appunto, questo suo spirito a motivi dinastici. Qui avvertiamo pure la prima affinità con Campana, il «letzten Germanen in Italien», come recita il sottotitolo dei Canti orfici. Il poeta di Marradi, affine alla natura contemplativa e tragica norrena – tanto da dedicare i suoi Orfici a Guglielmo II – non poteva che rimanere colpito da una personalità così affine.
Nonostante il retaggio, però, Luisa trascorre una vita modesta: il padre insegna matematica negli istituti tecnici, e per un certo periodo deve seguirne gli spostamenti in tutto il centro Italia, a seconda delle scuole che vengono lui assegnate. Alla morte del padre, però, Luisa torna a Firenze, dove si iscrive all’Accademia delle Belle Arti. In questi anni comincia pure ad appassionarsi alla letteratura, ma le sue letture sono disordinate, prive di una vera e propria struttura. Questo, almeno, fin quando, a detta di Gargano, non fa amicizia con una signora inglese – di cui non è chiara l’identità – che le insegna la lingua e la istruisce sui principali capolavori anglosassoni. In questo caso, vediamo un punto in comune, invece, con molti dei poeti della generazione successiva a quella della Giaconi, ovvero una formazione letteraria anticanonica, autodidatta, basata su letture non sistematiche e su una forte influenza estera (si ricordino Enrico Pea, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, per citare i più noti).
Nel ritratto di Gargano, Luisa Giaconi appare come molto introversa, tratto che caratterizza il suo stile poetico e spiega in parte la sua travagliata vicenda editoriale. Comincia a scrivere le sue prime liriche ed ottiene dall’editore Paggi – a seguito di una lettura del materiale – la promessa di una pubblicazione. La promessa, però, non viene mantenuta, complice pure il fallimento della casa editrice del 1896. Luisa rimane molto delusa da questa promessa tradita, e si chiude in sé stessa, isolandosi dal mondo. Si immerge nella lettura di classici, tra i quali Gargano cita le opere di Dante, di Leopardi e l’ Ecclesiaste – anche in questo caso, sia le opere citate che l’approccio autodidatta al loro studio sono tipici di molti autori del primo Novecento.
Successivamente, comincia a collaborare con «Il Marzocco», dove a partire dal 1896 pubblica alcune sue liriche. Queste attirano l’attenzione di molti letterati e poeti – tra i quali, per l’appunto, lo stesso Gargano.
Dato il successo che sembra riscuotere, Luisa Giaconi torna a progettare la sua prima pubblicazione in volume. Il suo, è un lavoro di “architettura” lento e molto selettivo, che la porta a scegliere ed ordinare solo diciotto, tra le liriche da lei scritte. Nel 1908, riesce a ottenere da Zanichelli la pubblicazione della sua prima e unica silloge, Tebaide. Purtroppo, però, non riuscirà a vederne la concreta pubblicazione: il 18 luglio del 1908, infatti, Luisa Giaconi muore, a soli 38 anni, consumata dalla tisi; il volume esce dalle stampe solo a dicembre dello stesso anno, seguendo le indicazioni date dalla poetessa.
Ora, quel piccolo volume di versi che è la Tebaide ebbe un grosso successo di pubblico, tanto da convincere la Zanichelli a proporre una seconda edizione, nel 1912, curata sempre da Gargano e più ampia, rispetto alla prima. In questa seconda edizione furono incluse, oltre alle diciotto liriche selezionate dalla poetessa stessa, anche tutti gli altri versi che avevano visto la pubblicazione sul «Marzocco», fino a un totale di quarantaquattro.
L’opera fu divisa in quattro sezioni: la prima rispettava la Tebaide come concepita da Luisa Giaconi, le altre tre erano invece ordinate secondo un criterio puramente cronologico.
Luisa Giaconi
Ora, la parte curata direttamente dalla Giaconi è senza ombra di dubbio la più interessante, e riproduciamo qui, per far fronte alla scarsa reperibilità del testo, la poesia che dà il nome all’intera raccolta:
Sei dunque tu, silenziösa terra, l’oasi immensa
che a lungo implorarono i sogni più meravigliosi?
Sei dunque tu il Tempio supremo dei taciti riti
cui nell’ora dei tedii amari il mio spirito venne?
Ti scende la pace dei cieli sacra; e fremono i ritmi
perenni dei boschi come una sinfonia profonda
di arpe e di sistri; e ti piange tremula e roca l’onda
dei fiumi fuggenti, e t’arride vasta l’onda dei soli.
Non altro io ti chiesi, o Silente; poi che venni lasciando
ben lunge le cure e i clamori vani; e tu fosti l’alta,
la provvida liberatrice; e tu mi fosti a gli occhi
visione d’imperiosi fastigi ardui nei cieli.
Oh lento ondeggiar de’ sommersi spiriti ne l’aure
come alito di pure linfe che il suolo emani! oh muto
ascender dei sensi col muto svolgersi de le arboree
vite possenti, protese pensosamente ai cieli!
Venimmo mai, stanchi e senz’ ombra d’ amore, pei tuoi
sentieri, o Lontana, senza che il tuo cuore non si aprisse
col giglio dei campi e splendesse con le tacite aurore?
Che fiori vedemmo più dolci dei tuoi sogni fiorire?
Li autunni non furon che eterne primavere velate
di pianto; e la vita fu sogno e l’amore fu sogno,
e parvero sogni le luci delli astri, e la dolcezza
dei fiori, ed il tempo, e la morte. Poi che noi siamo sogni.
La lirica fece la sua prima apparizione sul «Marzocco» nel 1899. Oltre agli influssi linguistici e stilistici pascoliani e dannunziani, è da segnalare una forte originalità ritmica e melodica, che certo si muove dalla metrica barbara, ma che crea sviluppi molto originali – e forse lo stesso Campana ne fu influenzato. Le varianti “a sentimento” del ritmo dattilico di questi pentametri sono indicativi di una concezione “intima” della prosodia, in linea con il contenuto della lirica. Tebaide, infatti, tiene propriamente fede al suo titolo erudito, dipingendo con tinte lussuose ed eteree un eremo di silenzio e di pace, dalle tinte oniriche e misticheggianti, in cui sentir solo il fremere dei «ritmi perenni / dei boschi», che evocano il suono armonico «di arpe e di sistri». In questo, l’inizio descrittivo è molto placido, riflessivo e vagamente leopardiano (si evoca quasi il Canto notturno). Con l’avanzare delle strofe, però, qualcosa di inquieto affiora, fino a rivelarsi nell’ultima strofa, che si fa incalzante nel ritmo grazie a un uso sapiente delle ripetizioni. L’ansia che la visione svanisca, che si riduca a sogno, la consapevolezza finale che tutto è sogno, e che tutto dunque svanisce, crea uno strano senso d’amarezza che turba in maniera decisiva la mistica armonia della tebaide. Come si sentono, in questi ultimi versi, riecheggiare le “chimere” di Campana, come si possono avvertire anche somiglianze con passi noti, come il «tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno» della Notte, che pare quasi offrirsi come sintesi di quest’ultima strofa. L’interesse di Giaconi sta nell’invisibile, nel tentativo di rappresentare ciò che l’occhio, o l’orecchio, può arrivare ad intuire, ma non a vedere o sentire concretamente. Da qui, il legame con la dimensione onirica, chimerica, nel desiderio di un’altra dimensione priva dei dolori e del rumore tipici della modernità.
Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l’Istituto “Francesco Datini” di Prato.
Luisa Giaconi
Luisa Giaconi, otto poesie, una prosa
di Caterina Del Vivo
ARCHIVIO CONTEMPORANEO
Estratto dalla rivista: « Antologia Vieusseux » fascicolo LXX
Aprile – Giugno 1983
Gabinetto Scientifico Letterario
P. VIEUSSEUX FIRENZE
ARCHIVIO CONTEMPORANEO:
Ricerche
Ringrazio l’amica Caterina del Vivo per avermi permesso di pubblicare questo articolo. (p. p.)
Fra i versi che Luisa Giaconi1 inviava al «Marzocco», confidando in un giudizio benevolo e in una eventuale pubblicazione che da un lato la familiarità e il probabile incoraggiamento di Enrico Nencioni2 e Giuseppe Saverio Gargàno suggerivano, e d’altra parte il timore di un certo dilettantismo e dell’approssimatività della propria formazione poetica sembravano quanto meno limitare nell’ambito di un’amichevole condiscendenza, fra questi componimenti poetici sono rimaste finora sconosciute agli studiosi otto liriche e una breve prosa, conservate nell’Archivio della rivista fiorentina3.
Sono pagine non pubblicate sul periodico né della postuma raccolta Tebaide4 , curata dal Gargàno nel 1909 – e ripresentata con numerose aggiunte nel 1912 – oltre che per una effettiva stima della poetessa, quasi per mantenere un antico impegno ed una irrealizzata aspirazione di lei.
Crediamo di non essere troppo lontani dal vero indicando i motivi principe di queste esclusioni nei mutamenti di impostazione e nelle reali difficoltà del periodico a partire dall’estate 1897; nella maggiore severità della direzione Corradini, e quindi Adolfo Orvieto, nei confronti di un certo tipo di liriche che non fossero quelle di poeti ormai gratificati da una completa approvazione del pubblico5; ed infine, ma non ultimo, in una certa mancanza di finitezza delle composizioni che potrebbe aver determinato a riguardo un riserbo della stessa Giaconi (e quindi l’esclusione nelle raccolte ad opera del Gargàno), essendo quello di un incompiuto “labor limae” pensiero assillante della poetessa:
Io mi sono messa all’opera della lima e trovo che non è poi tanto noioso come credevo. Speriamo che la sua pedanteria ne sarà soddisfatta6.
Vorrei che Ella mi rendesse tutti quelli abominevoli versi perché io ne faccia giustizia con la lima o col rogo secondo il loro merito
Ecco le rimando i versi a cui ho fatto quelle mende che mi ha consigliato Gargàno, ma la fretta mi ha impedito di limare come avrei voluto8.
[….] sono pronta a rilimare qualora fosse necessario e spero anzi voglio che me lo dica senza paura di essere pedante9.
L’insoddisfazione e la continua ricerca della compiutezza del verso è resa spesso più ardua dalla predilezione, testimoniata ampiamente nella Tebaide, di ritmi classici e carducciani10, cui certamente non era estraneo il legame artistico e il sentirsi discepola di Enrico Nencioni, e si accompagna ad intime incertezze linguistiche e lessicali: nella scelta aggettivale ad esempio, dove sussistono il timore di un abuso ed una resistenza mentale nei confronti dell’attributo:
Mi dica pure – scrive ancora ad Angiolo Orvieto – se vi sono troppi aggettivi; gli aggettivi sono il mio incubo da un pezzo in qua; non sogno che quelli; e mi verrebbe voglia di bruciare ogni cosa pur di distruggere questi bacilli del verso! Ne ho fatto un abuso straziante11.
Brevi frasi, sempre da lettere all’Orvieto, definiscono il porsi giaconiano di fronte alla poesia: afferma infatti di essere come gli uccellini, che cantano senza preoccuparsi di come cantano, ma anche di temere “una imitazione troppo azzardata del linguaggio puerile”12.
Dove, nel timore di un uso improprio, e sia pure in una circostanza contingente, dimostra di aver accolto, quanto meno a livello di coscienza poetica, se non di coerente e continuata applicazione artistica, uno dei principi propri della nuova poesia, quello del poeta – puer, che prima ancora delle definitive enunciazioni pascoliane13, e risalendo alle teorie di Walter Pater, si faceva strada negli ambienti, fiorentini e non, di quella schiera autodefinitasi di nuova nobiltà spirituale; principio che spesso conviveva mentalmente accanto al preziosismo lessicale, alla pennellata dorata, non immuni – e sembra avvertirlo la stessa Giaconi – dallo sfocamento semantico imputabile all’uso ricorrente dei medesimi.
Il mondo della Tebaide, e dei nostri versi, è mondo di decadente sensibilità esasperata dall’avvertire la presenza quotidiana del mistero, dal parallelo e continuo intreccio sogno-vita, realtà-morte, che già è stato avvicinato ad un certo Pascoli conviviale14 (semmai, crediamo, valido soprattutto per le liriche della IV°sezione della Tebaide).
In queste otto composizioni, per il continuo fluire di significante e significato di cui spesso si fondono i termini, ci sembra piuttosto di verificare quanto è stato detto per Enrico Nencioni: l’identificazione del simbolo con la cosa rappresentata, o meglio «la cosa quale simbolo di se stessa» come sarà poi nel D’Annunzio del Poema Paradisiaco15.
Svariati i ‘topoi’ decadenti di cui si è appropriata la Giaconi: si pensi (e rimandiamo unicamente ai versi qui presentati) all’insistente richiamo di temi sepolcrali (A te che nella chiusa ombra romita), al ricorrente motivo del giardino abbandonato (Una voce nel tempo; A te che nella chiusa ombra romita), all’ispirazione claustrale (Le rose della morte).
Dove, acquisita la lezione del Nencioni – si vedano di quest’ultimo soprattutto il Giardino della morte o il Giardino abbandonato – e forse con memoria anche al dannunziano Hortus conclusus, i claustri sono assunti già per loro natura a remoto “giardino di morte”, posto in indefinita dimensione; la figura virginale è morta e morte a un tempo; le rose appassite d’aspetto carnicino, come già in tanta letteratura, si fondono e confondono con le mani a cui si intrecciano: ma le stesse mani sono disegnate già con sensibilità, e vorrei dire con fraseggio, dannunziani. Soprattutto la lettura del Poema Paradisiaco e delle Elegie Romane non doveva essere estranea alla Giaconi.
Interessanti risultati darebbe un esame di tutta l’opera della poetessa – ma qui non è luogo – sia in tale prospettiva sia alla luce dell’assimilazione di esperienze pascoliane, perché molto del cursus del poeta delle Mirycae e dei Poemetti passa nella struttura metrica e sintattica della Giaconi, intrecciandosi al dovuto tributo pagato al carduccianesimo: e sarebbe indispensabile, ai fini di una curata analisi delle singole composizioni, una esatta collocazione cronologica di tutti i versi confluiti nella Tebaide del 1912.
Nella visione simbolica della natura giaconiana il paesaggio sembra farsi tramite di idee e sentimenti che dal piano individuale del poeta vogliano approdare all’universo misterico; in particolare può essere tracciata una sommaria distinzione fra versi colloquiali con un potenziale interlocutore, dotato della stessa sensibilità dell’autrice, interlocutore vivente o, spesso, sentito più vicino proprio perché già parte della realtà di un mondo inconoscibile, e liriche in cui non si intravede possibilità alcuna di comunione di sensi con l’elemento umano.
Se nel primo caso la ricerca è quella di un conforto o di un appoggio alla lettura della “foresta di simboli”, una conferma della medesima, nel secondo ci si rivolge agli elementi della natura come possibili interlocutori diretti e intermediari dell’oggetto dell’ispirazione poetica: ma la nota paesistica – e ciò distingue la Giaconi da molta poesia minore coeva – è sempre suggerita e mai insistita, fugace, presa ad uso proprio e quindi subito riassorbita, in una immediata trasposizione interiore, dal tema dominante, la bipolarità vita – sogno ed il desiderio epifanico che ne consegue.
Non sappiamo se nella formazione della Giaconi trovasse posto lo studio in lingua dei grandi della stagione simbolista e parnassiana d’oltralpe: certamente ne recepì la lezione almeno per via indiretta: scelte di musicalità e di vocabolario non lasciano adito a dubbi16.
Diretta invece fu probabilmente la lettura di Shelley e dei preraffaelliti inglesi17: lo stesso Gargàno conferma tale lettura essere avvenuta dopo che la Giaconi aveva imparato quella lingua da una signora anglosassone18.
Si tratta comunque di poesia calata ormai pienamente nell’esperienza decadente italiana, area spesso sfuggente e di difficile analisi tanto più perché sovrastata ben presto dalle dimensioni pascoliana e dannunziana, destinate a compendiare con le loro presenze, ed a definire spesso anche nominalmente una realtà poetica e culturale diffusa, pre e co-esistente.
Una realtà che per alcuni esponenti trova espressione più plateale nel cenacolo poetico ed estetico, inteso, pur nei suoi intenti antiaccademici, a sua volta quale “accademia” spirituale, in cui lo scrivere versi costituiva momento di affinità elettiva e una sorte di necessario tributo iniziatico19; per altri invece – è il caso della Giaconi – si risolve in una ricerca più schiva, interiorizzata, di intima comunione di sensibilità, di studio tematico e di cesello metrico e stilistico che fa sì che venga superato il valore di period-pièce.
Nel cenacolo di vita e di arte, meglio di arti, ed in particolare in quello della cerchia marzocchina, era diffuso un misticismo estetizzante di derivazione shopenhaueriana, polarizzato intorno al principio dello stretto legame, e della contaminazione, fra pittura, poesia e musica, principio riproposto già dal Nencioni20, e ripreso da tutta la “nuova” critica coeva: e si pensa qui principalmente a Angelo Conti ed al suo legame definito “misterioso” fra le forme artistiche, già presente nel Giorgione21 in attesa della codificazione della Beata Riva, resa attuabile in quella forma solo a fianco e per mezzo della lezione poetica dannunziana22.
Nemmeno la Giaconi, e non solo nella sua vita di pittrice-poeta, rimarrà estranea a tali principi, pur nelle sue per lo più scabre e sfumate attenzioni paesistiche; i suoi contatti saranno a livello di atmosfera lirica, più evidenti nelle pièces lunari della raccolta.
Ma soprattutto la contaminazione poesia – pittura paesistica si evidenzia nell’unico esempio di prosa di lei che possediamo, quella traccia di “poème en prose”, per altro inferiore al livello dei versi giaconiani, che è Il Biancospino23:
Prendi dunque la mia mano. Ed ancora per quei sentieri che non sai trovare, fra i susurri (non tu anche del mare ami le voci eterne?) e il sol che inora i boschi melanconici, verrai meco o fratello. Io ti farò sentire come è dolce di quei boschi l’aulire vago; e la pace che non cangia mai come è dolce… Verrai meco a l’eterno oblio dei cimiteri ermi, sì greve, io ti dirò come quel sonno è lieve se l’irrora di pianto un cuor fraterno…
Verrai, ne l’ineffabile mistero de’ vesperi, (e tu pure ami quell’ora pallida?) e ti dirò come s’irrora di tremule rugiade ogni sentiero…
Verrai sul mare ove un pallor si effonde arcanamente, come una tristezza umana… Io ti dirò quanta dolcezza che pianto arcano nel mio cuor s’asconde.
E tu allora potrai dirmi in quel sogno qualche cosa di sacro, una parola ineffabile e mesta, per me sola che poi perdasi lieve al par di un sogno24.
Luisa G.
Febbraio 1895
Le rose della Morte
(nei claustri)
Io vidi, nei profondi claustri, sola,
Una giovine morta; scesi i densi
Veli su lei del Silenzio; scesi immensi
Fiumi, intorno, d’oblìo senza parola.
E un Sogno immenso, un brivido, un
Pensiero Sovrumano su lei, l’ombra distesa
Nell’ombra, (morta?) come nell’attesa
D’altre cose, albeggianti nel Mistero.
Io vidi, oh! vidi come cuori umani
Gli esili ceri struggersi in ardenti
Lagrime, e su le pallide moventi
Fiamme passar dei soffi oltrechéumani.
Io vidi – oh arcane e sconsolate cose! –
Sul petto inerte, e in quelle mani come
Tenui fiori marmorei senza nome
Vidi mucchi di moribonde rose25
Io chiesi: è morta? Squàrciati o Mistero Ineffabile! È il Sogno ora la Vita?.
Non ode ella nel sonno l’infinita
Parola? … Io piansi: Squàrciati o Mistero!
Oh grandi e sconsolate cose! Io
Vedeva quelle stanche rose, lente
Morire; come cuori, umanamente
Morire… E piansi in quel supremo Oblìo.
Maggio 1896
Ad un Salcio
O tu salcio che ne le fresche aurore
Stilli il notturno pianto
De le rugiade, pendulo sul cuore
De la terra materna, e a l’acque a canto;
Ô tu salcio a cui nei vesperi soli
Quando inargenta i cieli
Il plenilunio, vengon li usignoli
Cantando sovra i tuoi penduli steli,
Perché mai piangi? Perché mai l’arcana
Anima de le frondi
Non sogna mai l’immensità lontana,
Non s’erge ai cieli taciti e profondi?
Qual rimpianto ti piega o quale sogno
Sovra il materno cuore,
O salcio, tu che non hai mai bisogno
Di primavere, che non getti il fiore?
Oh! lascia che il mio cuore triste, pianga!
Lascia i tedii supremi
Al cuore triste; e ch’ei solo rimpianga
L’ombre fuggenti de le umane spemi.
Tu, non piangere. Un giorno, (oh mio sospiro
Di pace!) un giorno, al fine
Anch’io, lasciando l’aure di zaffiro,
Verrò, ne l’ombre de l’Oblio divine.
Io vorrò allora riposarmi; e allora
Potrai forse i poemi
Lievi del Sonno susurrarmi, e l’ora
Stanca cullar di aneliti supremi.
Gennaio 1897
Rosei fiori…
Rosei fiori già smorti adesso già tenui, come ale
A cui vibrato strale la morte con sibilo apporti,
Rosei fiori cui brevi aurore ingemmaron di pianto,
E che nel vago incanto auliste come anime, lievi,
Quali rugiade o quali gentili tepori di sole
Che ancor bagnan le aiuole in cui vi schiudeste, come ali,
Vi renderanno il dolce sorriso fiorente al bel cielo
E avviveran lo stelo cadente che più non soffolce?
Rosee labbra già smorte, come alvi di estinte corolle
Cui non ravvivi il molle effluvio d’aurore risorte.
Rosee labbra ridenti negli anni lontani al celeste
Lume de’ sogni, e meste (oh tedii de l’anima lenti!)
E mute scoloriste, serbando parole supreme
In una vana speme di baci, in un fremito triste
Di pianto, ah, qual ritorno di cose lontane, smarrite
Potrà rendervi il mite divino sorriso di un giorno?26
13 febbraio 1897
Vento d’Autunno
Quale, il tuo soffio suscita ai montani27
Silenzi, immenso fremito sonoro!
Per cui levano i boschi antichi un coro
Lungo di voci e d’organi lontani.
E scendi tu più lieve ai mesti piani
Ove apre i solchi l’ultimo lavoro,
E la vite dei suoi pampini d’oro
Dispogli lento, con sospiri arcani.
Né ora il fido verdeggiar de li orti
T’accoglie; sol del lauro severo
La eterna chioma a te piegando, freme.
Lenti e pensosi curvano il leggero
Stelo gli ultimi fiori a cui tu porti
L’onda di voci pallide e supreme.
sf.; s.d.
Sorrisi
Nel sogno Egli tornava a me; nel sogno
Vedevo ancor quelli umidi occhi come
Fiamme di desideri senza nome
Splendere; Ei sol d’amore avea bisogno,
D’amore… Oh! Lungo fu l’oblio e triste;
Lunghi gli anni ch’Ei tacque a me lontano,
Come sogno a cui tese erano in vano
La palme; oh lungo fu l’oblìo e triste.
Nel sogno (poi ché la Vita è sì priva
Di luce), Egli veniva ancora. In torno
Come un risveglio, per quel suo ritorno
Lieto, una primavera nuova auliva.
Io sentiva fluire musicali
Parole da le mie labbra – fiorirmi
Desiderii ne l’anima; fiorirmi In torno dei sorrisi spiritali.
Ma fu dunque nel sogno? Una suprema
Gioia venìa da le sue labbra vive
A le mie labbra, così a lungo prive
Di baci… Il cuore triste ancora ne trema28.
sf.; s d.
Canto di Giovinezza
“O dell’arida vita unico fiore!’
Tu doni meste e fuggitive l’ore
Al Tempo eterno o Giovinezza, quali
Lacrime lente eguali
Pioventi da una fonte erma che muore;
Mute (ed il cuore ne susulta a pena)
Volgon pei campi de l’oblio silenti
A li oceàni lenti
De l’Infinito, come tenue vena.
Già la caligin vela li orizzonti
Degli anni morti; già ne l’aure spente
Piangono fiocamente
Canti di sogni e mormorii di fonti,
Aridi sogni aride fonti! Miti
Odori di defunte primavere
Palpiti di leggere
Ali, pallòr di anemoni sfioriti…
Passi, tu ô lieve giovinezza; e in torno al cuor profondo l’anima dei fiori
Palpita nei tepori
Lievi d’un’alba che si muta in giorno;
Luci di stelle tremolan di vaghi
Cieli ne l’ombra dolcemente, quali
Fluide perle immortali
Nate da l’onda d’infiniti laghi.
Passi tu ô lieve giovinezza. E lunge
Nei deserti del Sogno e della Vita
Tremulo splende, e invita
Un mistero l’incerta anima, e punge,
Tremano echi d’armonie lontane
Che la terra sospira; e il cuore ascolta
Trepido d’insepolta
Speme, il susurro de le cose vane.
sf.; sd
Una voce nel tempo
“Ancora ti sogna la mia anima dolente ancora? … non volli obliare e non obliai?
Non vidi in altri occhi più dolci e profondi de’ tuoi la muta e divina promessa dell’amore? e in vano… Tu fuggi; ma per quali mari ma per quali terre remote, non so. Mai le tue labbra toccarono le mie; io non udii mai parole d’amore da te; il mio sogno fu dei più taciti e soli.
Ma oh no, per Iddio, non negare che mi amasti un giorno e che una dolcezza di sogni vegliò nel tuo cuore nel tuo muto cuore o fratello per me. Non negare.
Ancora ti sogna la mia anima dolente ancora? … non volli obliare e non obliai?
L’ Autunno ritorna. Le bianche rose dei giardini si sfogliano, e i crisantemi fioriscono, in vece, il vento fa piangere i salci e piega i cipressi de gli ermi viali; le foglie d’oro galleggiano ne le vasche morte. E tu parti! … Chi ti dirà mai la triste dolcezza la triste forza del mio amore? Le lacrime del cielo e dei fiori ti parranno mai quelle ch’io piansi o fratello?
Ancora ti chiama ancora ti cerca la mia anima dolente, ancora? … non volli obliare e non obliai?”
Così Ella. E venne Una un giorno che alfine le impose silenzio. Ella ebbe dei gigli tra i fragili arti Ella ebbe sul capo un diadema» di pallide rose, e a tutti sembrò ch’Ella alfine tacesse per sempre.
sf.;
Note
1) Luisa Giaconi nacque a Firenze nel 1872; figlia di un insegnante di matematica, per seguire il padre visse in giovinezza in varie città italiane; alla morte di lui si ristabilì a Firenze. Qui conseguì il Diploma dell’Accademia di Belle Arti, che le servì anche per guadagnarsi da vivere dipingendo copie su commissione; lavorò fra l’altro agli Uffizi, alle scuole fiamminga e veneta: è testimoniato che dipingesse una copia della Flora di Tiziano (Cfr. lett. a Angiolo Orvieto, s.d., «Caro amico debbo avvertirla…», A.C.G.V., Fondo Orvieto, Carteggi, G. 7).
Un piccolo auto-ritratto ad acquerello, inviato ad Angiolo Orvieto, è conservato nello stesso Fondo Orvieto. Dal carteggio si ha inoltre notizia che un altro suo dipinto fu vinto da Amalia Orvieto, madre di Angiolo, in una fiera di beneficenza, nel 1897.
Morì a Fiesole il 18 luglio 1908. Ben poco si sa degli ultimi anni di vita: la corrispondenza con Angiolo Orvieto porta infatti le date estreme 4 gennaio 1895 – 31 gennaio 1900 (anche se poesie della Giaconi furono pubblicate sul «Marzocco» in anni più tardi).
La prefazione di G. S. GARGÀNO lascia intendere che la malattia che la portò alla morte già la minasse da diversi anni (G. S. Gargàno, Prefazione a Tebaide, 2°, Bologna, Zanichelli, 1912, p. VI).
2) L’amicizia con Enrico Nencioni è testimoniata anche in due lettere a Angiolo Orvieto, Firenze 8 maggio 1895 e s.d. (ma probabilmente primavera – estate 1895) A. C. G. V., ibid. Non si conoscono le vie attraverso le quali nacque l’amicizia: forse tramite lo zio di lei Tommaso Guarducci; va comunque notato che i due poeti abitavano in quegli anni entrambi in via delle Caldaie.
3) Tutti i testi qui proposti si trovano conservati presso l’A. C. G. V. Fondo Orvieto, G. 7. I manoscritti risultano autografi.
4) Oltre le composizioni qui presentate sono conservati nel Fondo Orvieto i manoscritti di Armonia, Senz’ombra d’AmoreChopin e Silenzio autografi della Giaconi, pubblicate le prime due già nel «Marzocco», Armonia riproposta in Tebaide, 1° ed, Bologna, Zanichelli, 1909, ed infine tutte e quattro in Tebaide, 2°ed, cit.
Va osservato che nel testo edito di Silenzio mancano completamente i vv. 9-12 del ms.: “Taci pure. Talvolta (vuoi?) qualcosa / Come un arcano anelito di sensi / Supremi, come il sospirar d’immensi / Canti, ti terrà l’anima pensosa…”
E inoltre citiamo le varianti: v. 13 del ms.: Così. Talora tendersi da lunge; vv. 15-16 del ms.: Invocazione; (e sembri a noi che frema / Qualche misteriosa arpa, da lunge.): v. 17: Oh! Taci pure; v. 18: Sogni, la Vita; vv. 19-20: e l’anima mia culla/ Lento, in folgorio tremulo d’ali. Inoltre vi si trova la trascrizione di altra mano (Gargàno?) di Dianora (datata 1904) e Dalla mia notte lontana, la seconda presente in Tebaide, I° ed., cit., ed entrambe in Tebaide, 2°ed., cit.
5 ) Cfr. lett. a Angiolo Orvieto, s.d. (ma: agosto 1897) in cui si fa cenno a nuove disposizioni del giornale che le lasciano intendere «di non osare di mandar più qualcosa» (A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).
Il discorso è ripreso nella lettera a Enrico Corradini del 20 gennaio 1898 (ibid.) a Angiolo Orvieto, 5 aprile 1895 [d.t.p.file:////Users/admin2019/Library/Group%20Containers/UBF8T346G9.Office/TemporaryItems/msohtmlclip/clip_image026.jpg” alt=”” width=”3″ height=”6″ />
22 ) A. CONTI, La Beata Riva, Milano, Treves, 1900.
23) La prosa, di complessive cc. 6 manoscritte autografe, è datata maggio 1896. Il Biancospino è l’unica prosa della Giaconi attualmente nota. La Giaconi fu forse spinta a scrivere non in versi da un motivo contingente, perché talvolta, come nota Gargàno, si lamentava che qualcuno scambiasse i suoi versi per prosa armoniosa (Prefazione di G. S. Gargàno a Tebaide, 2°, ed. cit., p. IX). La descrizione lunare rientra pienamente nella tradizione dell’epoca, e non solo letteraria: si pensi ai dipinti di ispirazione lunare di De Maria (“Marius Pictor”) anch’egli fra i corrispondenti del Marzocco.
24) Cfr. G. D’ANNUNZIO, Poema Paradisiaco, Consolazione, ed in particolare i vv. 5-8 e 29-32 per i vv. 16-20 e 5-8 della Giaconi.
25) Oltre alle immagini topiche che rimandano immediatamente al Nencioni, sulla visione delle mani in particolare cfr. L. GIACONI, Le morte mani, Tebaide, 2 ° , cit., p. 69, e il celeberrimo Le mani in G. D’Annunzio, Poema paradisiaco.
26 ) Per la fortuna dello schema metrico con rima interna qui seguito dalla Giaconi si rimanda in primo luogo ad alcune fra le Elegie Romane dannunziane (Villa d’Este ecc.).
27 ) In interlinea è indicata la variante, fra parentesi: sveglia pei montani.
28) Cfr. G. D’ANNUNZIO, Poema Paradisiaco, Aprile, in particolare per i v.v. 38-40.
29) Nel ms.: diadeda, si tratta evidentemente di un refuso.
Luisa Giaconi
Nota bibliografica
Oltre alle già citate edizioni della 16:57:04, Bologna, Zanichelli, 1909 e, con numerose aggiunte, Bologna, Zanichelli, 1912, rispettivamente con un Epilogo e una Prefazione di G. S. Gargàno, ricordiamo che furono complessivamente pubblicate sul «Marzocco» 21 liriche (per le quali rimandiamo agli Indici del Marzocco, a cura di Clementina Rotondi, Firenze, Olschki, 1980) dal 19 aprile 1896 al 21 febbraio 1909.
Di tutte le composizioni proposte dalla rivista degli Orvieto non furono ristampate nelle due edizioni della Tebaide soltanto: I fantasmi («Il Marzocco», 19.9.1897), Il giardino chiuso (ibid., 18.7.1897), Oltre la vita (ibid. 29.9.1901) Orto antico (ibid. 5.9.1897) Le visioni del mare; La prora (ibid. 24.1.1897).
Due liriche della Giaconi, Philomela e Nel bosco furono inserite nell’antologia Dai nostri poeti viventi, a cura di Eugenia Levi, Firenze, Le Monnier 1896, composizioni assenti entrambe dalla Tebaide.
La Giaconi fu molto lieta che dette poesie fossero state scelte dalla Sig.ra Levi per la sua raccolta (cfr. lettera di L. GIACONI a Angiolo Orvieto, 15 novembre 1895, A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).
È interessante ricordare che Luisa Giaconi sperò inoltre a lungo nella pubblicazione di una sua raccolta di versi ad opera del Paggi, con il quale sembra fosse già in parola; ma in seguito alle vicende fallimentari dell’editore dell’estate 1897 tutto fu annullato in modo alquanto brusco, cosa di cui la poetessa si rammaricò molto (cfr. lettere a Angiolo Orvieto del 14 luglio 1897; 31 luglio 1897; 5 agosto 1897; A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).
Tale raccolta in effetti non vide mai la luce; si può supporre che la prima edizione della Tebaide comprenda alcune delle liriche scelte dalla poetessa per il Paggi.
La collaborazione a «Cordelia» sembra essersi limitata a Fides, già citata, uscita nel n° 19, I marzo 1896, p. 226.
Sporadici gli interventi nel corso del secolo sulla poesia giaconiana: si ricordano unitamente alle antologie che hanno accolto composizioni della medesima:
ANGIOLO ORVIETO, Un poeta del silenzio: Luisa Giaconi, in «Il Marzocco», Firenze, 26 luglio 1908.
GARGÀNO Le poesie di Luisa Giaconi, in «Il Marzocco», Firenze, 22 novembre 1908. A. SORANI, La poesia di Luisa Giaconi, ibid.
[GARGÀNO], Marginalia, in «Il Marzocco» 20 agosto 1916 (parlando di Guido Gozzano si fa riferimento alla poetessa, ricordando che lo stesso Gozzano ne scriveva a Gargàno ponendola a modello di onestà artistica).
CECCHI, in «La Tribuna», 19 marzo 1912.
MAZZONI, L’Ottocento, in Storia Letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1913. Antologia della lirica italiana, a cura di A. Ottolini, Milano, Taddeo, 1923.
GALLETTI -A. ALTEROCCA La Letteratura italiana, Bologna, Cappelli, 1924.
CUCHEITI, La Poetessa Luisa Giaconi, Venezia, Libreria Emiliana editrice, 1928.
SPAGNOLEITI, in «La ruota», febbraio 1943.
SPAGNOLETTI, Antologia di poesia italiana contemporanea, 1° vol., Firenze, Vallecchi, 1946.
ANNESI PALIERI, Una Poetessa dimenticata, in «Paese Sera», 9 maggio 1953.
Poeti minori dell’Ottocento, a cura di E. Janni; Milano, B.U.R., 1958.
Inoltre, per la nota vicenda legata alla poesia Dianora e a Dino Campana, rimandiamo principalmente a E. FALQUI, Inediti di Dino Campana, Firenze, Vallecchi, 1942, pp. 321-24, e E. FALQUI, Cronistoria dei Canti Orfici, Firenze, Vallecchi, 1960.
Riassumendo brevemente, la lirica, che pure faceva parte della Tebaide, 2° ed., fu trascritta con alcune varianti dal Campana e inviata a Mario Novaro, perché la pubblicasse sulla «Riviera Ligure» rendendo omaggio alla sfortunata poetessa.
Questi la stampò nel numero della rivista del maggio 1916 (E. FALQUI, Cronistoria…., cit. pp. 104-109). Si cfr. in particolare la lettera s.d. (ma anteriore al maggio 1916) di Dino Campana a Mario Novaro (ora anche in E FALQUI, Novecento letterario italiano, vol. V, p. 132, Firenze Vallecchi 1973).
La copia manoscritta della lirica, rimasta fra le carte di Dino Campana, fu successivamente ritenuta da Bino Binazzi opera dello stesso poeta.
Poche pennellate per un ritratto. Il ritratto di un’anima, di una donna, di una poeta, la cui breve esistenza è stata segnata da una ricerca di senso al proprio vivere e da un ineludibile ardore artistico.
Luisa Giaconi.
Un’autrice purtroppo a lungo dimenticata, comparsa qua e là in sporadiche antologie, tra queste, in: E. Levi, Dai nostri poeti viventi (1896, 1903) G. Viazzi, Poeti simbolisti e liberty in Italia (1971), Dal simbolismo al deco: antologia poetica cronologicamente disposta (1981); S. Raffo, Donna, mistero senza fine bello: la poesia femminile d’occidente dalla Grecia classica alle soglie del XIX secolo, (1994).
Si deve all’attenzione di Maria Luisa Spaziani il merito di averne maggiormente riconosciuto il valore nel suo Donne in poesia (Marsilio, 1992), introducendo il nome di Luisa Giaconi tra le sue interviste immaginarie, accanto a molte poete del panorama mondiale a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento (Dickinson, Achmatova, Cvetaeva, Lasker-Schüler, Bachmann) e alle italiane Amalia Guglielminetti, Ada Negri, Vittoria Aganoor Pompilij, Antonia Pozzi.
“Chi fu e che fece, in mezzo alle altre, questa creatura così alta?”
(G.S. Gargano, epilogo a Tebaide)
Di lei, oltre al ritratto dipinto dall’amica Romea Ravazzi, non molte sono le notizie pervenute, in parte grazie al rinvenimento di un epistolario e in parte alla sua raccolta Tebaide, pubblicata postuma, da cui si può desumere l’immagine di una figura delicata, fors’anche timida e schiva, amante del silenzio e della solitudine; un animo dedito alla riflessione e al vagheggiamento, con una spiccata vocazione poetica. Un’esistenza sommessa e riservata, la sua, fuori dai clamori e dalla mondanità.
[…]
Ma veniva essa da un mondo ignoto, un mondo lontano,
sola, come mai fu solo chi andò fra i sogni errabondo
[…]
(L’immagine, vv 13-14)
Nasce a Firenze, il 18 giugno 1870 in una famiglia di nobili origini.
Con la sorella Alba e la madre Emma Guarducci, si sposta in varie città italiane per seguire i trasferimenti del padre, Carlo, insegnante di matematica. Dopo la morte di questi, torna a Firenze, dove si diploma alla Regia Accademia di Belle Arti, che le permetterà di avvicinarsi ai grandi capolavori di artisti del passato e di vivere dignitosamente svolgendo l’attività di copista di dipinti presso musei e gallerie d’arte.
Una sensibilità artistica che, pertanto, esplicita sia nella pittura che nella poesia.
È un’attenta lettrice, in particolar modo dei classici, Dante, Petrarca, Foscolo, dei filosofi Emerson e Schopenhauer. Non meno, fra i suoi interessi, c’è l’ascolto della musica, di Beethoven e Chopin.
Per quanto difficile per una donna di quell’epoca, partecipa alla vita culturale della Firenze di fine ‘800. Contesto che le permette di stringere amicizia con alcuni intellettuali, tra cui Angiolo Orvieto (fondatore della rivista Marzocco) e col poeta Enrico Nencioni, suo vicino di casa, nel quartiere di Santo Spirito, grazie al quale intensifica lo studio della lingua e della letteratura inglese.
Del carteggio di circa 200 lettere, ritrovato, assieme ad alcuni inediti, dalla studiosa Manuela Brotto, in un archivio privato, otto lettere sono indirizzate a Giuseppe Saverio Gargano, critico e collaboratore del «Marzocco»; missive riconducibili ai mesi di agosto e settembre del 1899, durante una vacanza, in una località montana, non ben precisata, di nome Badia, con l’amica Romea.
Il carteggio testimonia la breve relazione avuta col Gargano, lui ha 40 anni, lei 29 anni, terminata alla fine del 1899, quando, con l’acuirsi dei suoi problemi di salute, Luisa è costretta a una vita ritirata, in cui però, sebbene lontana dalla cerchia letteraria fiorentina, continua a comporre ancora liriche di intensa bellezza.
Rivolgendosi a Giuseppe Saverio con l’affettuoso vezzeggiativo Cherilo (alludendo forse al poeta tragico della antica Grecia Cherilo di Samo, VI-V sec. a.C.), ella manifesta un impeto sincero, appassionato e sensuale:
… penso a come sono stata avvinta a te, al tuo petto all’anima tua, e a come le mie labbra hanno aspirata dalle tue labbra l’essenza della vita, la vera, la pura, la buona essenza. (lettera I)
… fra pochi giorni tu mi stringerai a te e tu vorrai ancora bere la dolcezza profonda dei nostri baci, senza ombre senza timori. (lettera V)
variando nei toni a tratti scherzosi:
non fumare troppo, ricordati che avevi deciso di smettere, ti permetto di fare della ginnastica, anche acquista forze per sostenere la mia pinguedine! (lettera III)
a tratti malinconici:
Non ti affliggere per la tristezza che qualche volta mi prende; è l’ombra dell’amare. (lettera III)
come quando, ad esempio, esprime la delusione, il rammarico per le poche missive che lui le invia:
Nemmeno stasera tu mi hai scritto, ciò mi ha reso un po’ triste, ma spero domani mattina. (lettera I)
… faccio delle piccole passeggiate nel bosco, e vado alla posta sempre alla sera, qualche volta anche la mattina, ma ahimè spesso me ne ritorno delusa; ma di questo bisogna incolpare la mia avidità di notizie. (lettera II)
Dalle parole affiora una donna capace di un amore spontaneo e di grande dedizione:
… io metterò tutta la mia vita nelle tue mani. (lettera IV)
Cherilo è la tua gioia, è la tua pace che io voglio, ed io non esiterei a sacrificarti la mia parte di felicità, purché tu non dovessi piangere mai. (lettera III)
E se c’è una nube nel mio cielo d’amore è il tuo sconforto; perché io ti vorrei felice come nessuno uomo al mondo; e vorrei che a me fosse data la grazia suprema di sollevarti in alto, nella gioia ultima. (lettera V)
ma al tempo stesso calata praticamente nella vita di ogni giorno; una donna dalla personalità vivace, riflessiva, lontana dalle mode e dalle convenzioni sociali, animata da ideali e passioni nonché da incertezze e preoccupazioni, consapevole del male che sta consumando lentamente il suo corpo.
La mia anima vede con la più grande lucidità questo suo corpo lottare contro una corrente più forte di lui, e, cosa strana, mi pare anche che questo corpo non sia mio, ma un altro che io contemplo nelle sue sofferenze, e che io abbia in me tutte le forze della giovinezza e della salute.
(G.S. Gargano, prefazione a Tebaide 1912)
Questa l’immagine di Luisa Giaconi che le sue lettere ci restituiscono.
“Luisa Giaconi cercò ella stessa l’oscurità e il silenzio. Con l’istinto che rivelava nello stesso tempo l’elevazione del suo spirito e la più squisita delicatezza femminile, le parve cosa piccola ed inutile cercare i mezzi coi quali ordinariamente si giunge a salire qualche gradino di quella pubblica tribuna intorno alla quale s’agita sempre ondeggiante la folla senza nome”.
(G.S. Gargano, epilogo a Tebaide)
Nel silenzio e nella solitudine sono scandite le sue giornate.
Silenzio e solitudine ricercati dunque per meglio abbandonarsi alla contemplazione, alle sue rêveries:
Errai nei campi del Sogno
in una bianca, divina
luce d’aurora. Oh visioni
di verde mari lontani!
Oh visioni di stelle
Sovra il pallore dei cieli!
Errai per dolci sentieri;
discesi a le valli profonde.
[…]
Io sola, mite e serena
In quei silenzi d’aurora
Scesi alle valli profonde
Ed ai mari de l’infinito
(Nei muti campi del sogno vv 1- 8, vv 21-24)
per rispondere alle urgenze della sua anima, per sciogliere i nodi del cuore, per catturarne le vibrazioni, dando loro forma ed essenza, mediante il ricorso alla scrittura poetica.
[…]
Vano rifugio che rimane aperto
ai vènti; canto di richiusa vena;
nido non fatto, che lasciam deserto,
prima del giorno, e ove posammo a pena.
(Il rifugio vv 63 – 66)
Le sue composizioni appaiono in varie riviste, come in «L’idea liberale», «Cordelia» e, soprattutto, in «Marzocco», ma mai in una silloge, se non con la pubblicazione postuma di Tebaide. Poesie, con la casa editrice Zanichelli, nel 1909.
Già qualche mese prima della morte, confidando nell’attenzione di qualche editore, l’autrice cura, fin nei più minimi dettagli, l’eventuale stampa di una sua opera, pianificando con precisione la struttura e la successione delle 18 liriche selezionate dalla sua produzione, come anche la scelta del titolo: Tebaide, appunto. Titolo di significativa evocazione, che rimanda, non a caso, alla nota esperienza di romitaggio, di quiete, d’ascesi e preghiera dei primi anacoreti nella desertica regione dell’antico Egitto.
“Poeta del silenzio” è definita da Angiolo Orvieto.
Tebaide, quindi, è il riflesso della sua intima ansia per una pace silenziosa, per una solitudine da vivere nella quotidianità e nella creazione poetica. Tebaide come rifugio, come soglia verso una terra agognata, silenziosa terra, oasi immensa, silente, lontana, tempio supremo, alta la provvida liberatrice. Questi gli attributi, gli appellativi espressi nella poesia d’apertura, che riporta lo stesso titolo della raccolta, facendone quasi una personale attestazione poetica.
L’edizione si apre con la dedica:
“ad Anna Montagnon /dolce anima sorella/ L. G.”
Tebaide è un originale florilegio, che racchiude una realizzazione lirica tra le più singolari e moderne nel panorama delle composizioni femminili a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ricca di suggestioni, presenta tracce di ispirazione simbolista, del Romanticismo inglese e dei Preraffaelliti. Non mancano tuttavia riprese riconducibili al Decadentismo, a D’Annunzio e, soprattutto, al Pascoli, dei Poemi Conviviali e dei Canti di Castelvecchio, (i sistri d’argento della poesia Il vento; nido non fatto, che lasciam deserto/prima del giorno della poesia Il rifugio;cuore di un cipresso, in La casa sul monte) con un’impronta tutta peculiarmente sua.
Riecheggiano anche versi da Leopardi e da Petrarca (l’ora muta in cui tu lento cammini/ lungo le solitudini pensose/de’ sogni, in L’ora divina).
Il suo poetare evidenzia una ricerca metrica, stilistica e linguistica accurata e suggestiva, tesa alla perfezione, che non manca tra l’altro di una meticolosa esplorazione di carattere esistenziale e filosofico.
“Tutta la sua poesia (ancora si può dire ignota) è un continuo anelito a quelle altezze e a quelle profondità, uno sforzo sempre più vittorioso di costringere la parola ad esprimerle, di trovare nelle ondeggianti e grandiose melopee dell’Infinito la linea melodica che ne riveli la musica anche nelle anime meno attente.”
(Angiolo Orvieto, in Gargano, Epilogo)
È un verseggiare fine, arioso, aggraziato da sonorità armoniche, a volte elegiaco e visionario a volte inquieto e drammatico, che, assecondando gli stati d’animo e la sensibilità di uno spirito femminile, ne segue il ritmo, ora cadenzato ora ansante.
Eretta Ella nel lampo del sol morente, cantava
un antico e lento poema suo; fremeva di ritmi
profondi il silenzio de’ lauri solenne come eco;
cantavano i cieli con echi vasti di luce d’oro.
[…]
Diceva Ella il poema suo vasto ed antico dinanzi
a un’ara invisibile; e faci magiche eran le vite
arboree accese ne l’ora fiammea, ed incenso
la errante pei cieli odorosa anima dei fiori.
(Armonia vv1-4; vv 9-12)
La Giaconi alle tonalità accese, chiassose del giorno, crude e assolate dei mezzogiorni, predilige nelle sue strofe le atmosfere crepuscolari, velate, serotine e principalmente notturne, che inducono all’intimismo, sintonici col suo sentire, col suo io interiore, aderente alle corde della sua anima, pensosa e sognatrice.
E a notte, nel silenzio di Dio, a fiore dell’ombra,
come il riflesso d’una stella sul mare infinito,
vedevi una tua luce, un tuo fioco astro romito
l’Anima, che mai non s’adombra,
vedevi che splendeva sola nel tuo gran deserto,
che sola t’accendea la vita oltre i suoi confini,
che ti scaldava sola i germi del cuore divini,
come in un solco grande aperto.
(L’ultima pagina, vv 37-44)
Un modulare semantico che riflette dunque uno scavo profondo, tutto introspettivo e meditativo.
Ma altri nuclei ispiratori, altri temi nodali ritroviamo nelle sue liriche, come il senso del mistero e dell’imponderabile che circonda la vita tutta:
[…]
il giorno, ch’è fra due notti,
come la vita nel nulla,
che nel mistero ci culla;
un sogno anch’esso e non più.
(L’alba vv 17- 20)
il sogno, il suo fascino e il suo disincanto:
[…]
Li autunni non furon che eterne primavere velate
di pianto; e la vita fu sogno e l’amore fu sogno,
e parvero sogni le luci delli astri, e la dolcezza
dei fiori, ed il tempo, e la morte. Poi che noi siamo sogni.
(Tebaide, (vv 21-24)
Come non ricordare qui le parole di Prospero nella I scena del IV atto de La tempesta di Shakespeare “Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno”; il dualismo tra l’oggetto onirico e la realtà, l’illusione di entrambi, poiché tutto è sogno, e, con un esplicito richiamo al Qōhelet e ai Canti di Leopardi, tutto è sconfinata vanità che illude;
l’amore nella sua accezione di desiderio vitale ed erotico, di sentimento sovente doloroso, ma anche nella sua valenza cosmica e spirituale:
[…]
Oh averti con me nella notte che accieca, che avvolge,
cercare con li occhi il mistero delli occhi, cercare
coi labbri il mistero dei labbri, essere una fremente
dolcezza che silenziosamente imperi su l’ombra…
Sentire nei sogni supremi la grazia che ebbero
all’aurora; sentire ancora nei baci supremi
un pianto di gioie più grandi de la vita… colmare
noi come un infinito ritmo la notte, la morte.
(Voto, vv 9-16)
l’inquietudine, la morte, come soglia verso un mondo altro, superno, l’anelito verso l’infinito:
[…]
meta dolce, meta ultima che s’ama
raggiunger quando l’anima ha bisogno
non della terra – or nulla vi brama
più – ma d’un eco per il suo gran sogno:
l’Infinito
(Il rifugio vv 29 – 33)
e infine la Natura, contemplata e percepita non nella sua oggettività quanto piuttosto nella sua dimensione segreta, arcana, orfica:
[…]
E avea per tempio, nelle solitarie
notti, la valle misteriosa e il tacito monte,
tempio che s’allungava immenso fino all’orizzonte
sotto le stelle millenarie
[…]
La terra palpitava chiusa nel suo gran mistero
[…]
(Le due preghiere vv 31- 34; v 51)
una natura delicatamente permeata da lucori e ombre, oppure attraversata da forze e impeti incoercibili, di fronte ai quali c’è la resa, l’inermità, come nella bellissima poesia Il vento con cui si chiude la raccolta:
Qualcuno spinge la mia porta, l’agita violento;
qualcuno piange con dei lunghi gemiti stasera,
uno che corse sibilando per la notte nera…
È il vento che si leva, è il vento
(Il vento vv 1-4)
che prosegue nel ritornello delle successive strofe con un climax in crescendo di vorticosa intensità: il vento che si leva… si lagna… riposa… cammina… che mi cerca… che c’incalza.
Ed è qui, nel 19° verso, che si scorge il tragico accenno premonitore della sua vita, un soffio sveglia la mia lunga tosse funesta: la morte di Luisa a soli 38 anni, avvenuta a Fiesole il 18 luglio 1908, a causa della tubercolosi contratta da ragazza.
La raccolta ha in chiusura l’epilogo di G. S. Gargàno, in cui egli esprime non solo il rimpianto per la sua precoce morte ma anche, con accenti un po’ edulcoranti e agiografici, la nobiltà e l’armonia della sua persona che “diffondeva intorno a sé quasi una malinconica grazia, pari all’aroma dell’ambrosia che lasciavano al loro passare, le antiche dee. E quel segno era indimenticabile.”
Tebaide ha un buon successo di pubblico e di critica. Il poeta crepuscolare Guido Gozzano, così affine al sentire Giaconiano, in una lettera inviata al Gargano, afferma la sua stima per la persona e per la poeta: “Luisa Giaconi! Ecco il modello che ogni artista onesto dovrebbe proporsi nella vita letteraria o non. Invece!”
Nel 1912 Gargano, addolorato dal lutto della morte della sua amata, si adopera per una seconda edizione di Tebaide, sempre con l’editore Zanichelli, con l’aggiunta di 26 inediti, portando così a 44 composizioni in tutto, divise in 4 parti, precedute da una sua prefazione.
Il critico tuttavia stravolge, molto arbitrariamente, l’ossatura compositiva della prima edizione, non solo con l’inserimento delle nuove liriche, ma ponendo come incipit della raccolta la poesia intitolata a Cherilo, quasi a far intendere che l’intera silloge sia a lui dedicata, palesando in tal modo il legame amoroso che li univa ma anche un, non proprio taciuto, senso di vanità e autoreferenzialità.
In alcuni testi si nota inoltre l’intrusione della sua mano, quando qua e là ne manipola gli aspetti stilistici e formali, con indubbie difformità rispetto agli originali.
Qui compare il ritratto di Luisa, realizzato dalla Ravazzi il cui nome, probabilmente per un refuso, risulta scritto Romeo, anziché Romea.
Indossa un abito chiaro, estivo; è seduta con le mani aperte, abbandonate sul grembo; i capelli scuri le incorniciano il volto delicato, bambino, lo sguardo un po’ malinconico, assorto a fissare qualcuno da cui sembra attendere un’attenzione, una qualche parola. Nell’insieme una fisionomia esile, gentile.
All’amica è dedicata il Tempio.
Questa seconda Tebaide si conclude con la poesia Dianora, altrettanto splendida, altrettanto struggente quanto Il vento.
In merito al suddetto componimento c’è una vicenda editoriale che avvicina la Giaconi al poeta Dino Campana. Questi infatti, avendo letto i suoi testi, nella Tebaide dell’edizione 1912, rimane particolarmente colpito da Dianora tanto da segnalarla, come “memorabile” per la “sensibilità neo-greca che è quella della vera poesia italiana moderna”, a Mario Novaro, suo editore. Nel biglietto accluso scrive “una donna di Firenze morta”, senza tuttavia – chissà se consapevolmente o inconsapevolmente – nominarla. Da ciò scaturisce una bizzarra e ambigua situazione, perché la poesia pubblicata col titolo La tua giornata d’amore, il 1/5/1916 ne La Riviera Ligure, di cui Novaro è direttore, porta la firma di “inediti di D.C.”. Solo nel 1941 sulla rivista «Documento» si spiegherà finalmente l’equivoco, col riconoscimento del nome di Luisa Giaconi, quale effettiva autrice di Dianora.
La lirica è definita da Brotto: “un canto universale di vita e di morte, di arte e d’amore”. Nella figura e nella storia di Dianora – nome di fanciulla presente in alcune leggende, non raro in quegli anni a Firenze – si può intravedere la delicata e sensibile personalità di Luisa, la sua esistenza tessuta tra sogni e disillusioni, segnata dalla ricerca di un amore sincero, da un destino d’infelicità e di morte.
Un filo di seta iridescente pare unire silenziosamente la vita e la persona di Luisa a due grandi poete, quasi sue contemporanee: Alfonsina Storni e Antonia Pozzi.
Ritorna lontano. La tua giornata d’amore
passò, la tua ora di sole si spense, Dianora;
[…]
Chi mai in silenzio ora
accende la lampada ai vespri muti del Poeta,
sorride alle sue notti bianche,
bacia le sue palpebre stanche,
chi mai, Dianora?
[…]
Avviati per qualche deserto sentiero che ignori,
per la landa tacita e brulla
dove l’ultima pace culla
chi pianse ed amò, Dianora.
Riposati a qualche cipresso, attendivi l’ora
che tutto ti sembri un immenso e inutile nulla,
o Dianora.
(Dianora, vv 1-2, vv 6- 10, vv 33-39)
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Luisa Giaconi
Giaconi, A fiore dell’ombra. Le poesie, le lettere, gli inediti. Saggio di M. Brotto Luisa Giaconi: la donna fiore, Ed. Petite Plaisance, Pistoia 2008
Giaconi, Dalla mia notte lontana, a cura di I. Rabatti, ed. C.R.T., Pistoia 2001
Spaziani, Donne in poesia: interviste immaginarie, Marsilio, Venezia 1992
Frabotta, Il simbolismo nel mondo simbolico femminile tra due secoli, in Les femmes écrivains en Italie (1870-1920): ordres et libertés. Chroniques italiennes nn. 39,40, 1994, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle
Ovunque tu sia,
ovunque tu, immeritatamente,
mi guardi,
ovunque tu stabilisca
io abbia una casa,
fosse pure una prigione grigia,
io so che da qualsiasi pietra
tu puoi far scaturire un fiore
nel perimetro della mia mente.
Tra le tue braccia
Tra le tue braccia
C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.
Amami
finchè sentirai il calore
di una fiamma tremula
che sempre arde,
difendendosi dai venti di scogliera.
Sono un pensiero
che non vuole mai
legare le tue mani
libere nel mondo,
anche se vorrei
che fossero solo mie.
Amami
ora che non ho parole
per farti innamorare
dei miei silenzi
pieni di gioia,
che non potrai vedere.
Amami ancora,
saranno solo gli occhi
a dirti la mia passione
e le mie labbra,
a raccontarti
cose difficili da dire.
Saremo noi,
un giorno forse
ad abbracciare solo i profumi
dei nostri corpi
senza paura
che l’assenza diventi una cosa vera.
Ieri sera era amore (A Ettore)
“Ieri sera era amore, io e te nella vita fuggitivi e fuggiaschi con un bacio e una bocca come in un quadro astratto: io e te innamorati stupendamente accanto. Io ti ho gemmato e l’ho detto: ma questa mia emozione si è spenta nelle parole”.
Perché t’amo
Perché t’amo e mi sfuggi,
pesce rosso di vita
umido dentro l’erba
palpitante nel sole?
Perché non ho parola
dura come la pietra
che ti ferisca a morte?
Così ti fermerei,
e potrei disegnarti
un arabesco sul cuore.
Sogno d’amore
Se dovessi inventarmi il sogno
del mio amore per te
penserei a un saluto
di baci focosi
alla veduta di un orizzonte spaccato
e a un cane
che si lecca le ferite
sotto il tavolo.
Non vedo niente però
nel nostro amore
che sia l’assoluto di un abbraccio gioioso.
Alla tua salute, Amore mio!
Sono folle di te, amore
che vieni a rintracciare
nei miei trascorsi
questi giocattoli rotti delle mie parole.
Ti faccio dono di tutto
se vuoi,
tanto io sono solo una fanciulla
piena di poesia
e coperta di lacrime salate,
io voglio solo addormentarmi
sulla ripa del cielo stellato
e diventare un dolce vento.
Ti aspetto
Ti aspetto e ogni giorno
mi spengo poco per volta
e ho dimenticato il tuo volto.
Mi chiedono se la mia disperazione
sia pari alla tua assenza
no, è qualcosa di più:
è un gesto di morte fissa
che non ti so regalare.
Accarezzami
Accarezzami, amore
ma come il sole
che tocca la dolce fronte della luna.
Non venirmi a molestare anche tu
con quelle sciocche ricerche
sulle tracce del divino.
Dio arriverà all’alba
se io sarò tra le tue braccia.
Alda Merini
Ho conosciuto in te le meraviglie
Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera.
Descrizione del libro di Carlo Greppi–Editori Laterza–Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.
Sui monti di Sarzana, proprio lungo la Linea Gotica, dove nel 1944 i combattimenti infuriavano con maggiore ferocia, il capitano della marina tedesca Rudolf Jacobs, ottimo soldato, abbandonò le proprie fila. Non lo fece per fuggire da una guerra ormai persa, ma per unirsi ai partigiani garibaldini, fino a morire eroicamente durante l’assalto a una caserma delle Brigate nere fasciste. Apparentemente la sua sembra la storia di un’eccezione, commovente e coraggiosa, ma pur sempre un’eccezione rispetto alla nostra idea dei tedeschi zelanti combattenti della Germania nazista, fedeli fino al suo crollo. Eppure questa eccezione non fu così solitaria e isolata: parliamo di centinaia di uomini, almeno mille secondo le stime degli storici. O erano di più? Tedeschi e austriaci, ‘banditi’, ‘disertori’, ‘senza patria’, che hanno saputo dire di no agli ordini ingiusti, che hanno rigettato la legge dell’onore e del sangue per scegliere quella della libertà e della coscienza. Partendo da tracce labili, quasi svanite – un nome su una lapide, poche righe nei documenti ufficiali, qualche ricordo dei partigiani sopravvissuti –, questo libro è un’indagine appassionata e coinvolgente che ci trascina alla riscoperta di una pagina di storia che nessuno in Italia ha mai raccontato in questo modo.
Solo la coscienza non inaridisce,
questo fiero, aspro paesaggio di giustizia,
questo fortino contro il rimorso.
Siegfried Lenz, Il disertore (1952)
Sotto una stella armata
1.
Brema, Germania nord-occidentale, domenica 26 luglio 1914.
Poche ore prima di quel pianto apparentemente inconsolabile, gran parte del mondo era totalmente all’oscuro delle macchinazioni dei potenti del Vecchio Continente. Dopo il durissimo ultimatum austroungarico alla Serbia di tre giorni prima, l’Europa sta entrando in guerra. Spalleggiato da un incondizionato sostegno tedesco, l’impero asburgico ha deciso che la sua pazienza è finita, e si percepisce il montare di uno scontro generalizzato, e non limitato alla regione balcanica. Non succedeva da oltre quarant’anni, dal conflitto franco-prussiano del 1870-71, che gli eserciti si scontrassero nel cuore dell’Europa – su altri scenari non avevano mai smesso di esportare distruzione, chiaro, ma questa è un’altra storia. E, soprattutto, una guerra così nessuno l’aveva ancora vista mai. La crisi continentale apertasi da meno di un mese con un colpo di pistola a Sarajevo deflagrerà nel giro di una manciata di ore, questa volta, nel conflitto più devastante della modernità. Ma nessuno, in questa domenica d’estate, può davvero intuire la portata epocale di quello che sta cominciando. Cinque giorni più tardi la Germania dichiarerà guerra alla Russia e due giorni dopo le truppe tedesche entreranno in Francia; nelle settimane successive i cadaveri si conteranno già a centinaia di migliaia – alla fine del conflitto, i morti della sola Germania saranno oltre due milioni.
La madre del bambino che viene al mondo, Frieda Rosenthal, compressa com’è nell’ultimo, definitivo sforzo di darlo alla luce, difficilmente sta pensando all’inquietudine che la circonda. Ma essere nati a luglio del 1914, e per la precisione in quegli ultimi giorni che hanno visto scattare il perverso meccanismo delle alleanze senza possibilità di fare marcia indietro, diciamocelo, non è cosa da poco. Forse si intende questo, quando si dice che qualcuno è nato sotto una stella. L’astro che osserva la venuta al mondo a Brema di Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs, il 26 luglio dell’anno in cui si schiantano le speranze in un progresso generatore di futuro e milioni di giovani europei si preparano ad andare alla guerra, è circondato dall’euforia e dal terrore, sentimenti vagamente intrecciati in tutti e in ciascuno. Perché, poi, quello della popolazione tedesca compattamente e ferocemente convinta di questo nuovo conflitto è in parte un mito – la realtà, nella storia e nel presente, è spesso molto diversa da come appare a un primo sguardo superficiale. Proprio il 26 luglio, a voler seguire i tratti contraddittori di quella stella che sbircia la nascita di Rudolf Heinrich Otto Max, si scatenano massicce proteste contro la guerra in tutta la Germania: dureranno fino al 30 del mese, coinvolgendo oltre 750.000 tedeschi. Anche a Brema, nella città vecchia, il 28 si tengono ben sette corposi assembramenti che rigurgitano una folla tenacemente contraria al gioco al massacro che si intuisce stia per cominciare. Sfogliando i giornali locali degli ultimi giorni di quella settimana scarsa, decisiva per le sorti della Germania e dell’umanità intera, si colgono da un lato l’incertezza e la paura ma anche, è vero, una sprezzante arroganza, quel “sentimento nazionale” che è sempre pronto a tutto, pur di nutrire se stesso. Anche a fagocitare padri, fratelli, figli altrui e propri. La tensione montata da Sarajevo al cuore della Mitteleuropa è alle stelle: anche a Brema, come nel resto della Germania e come, gradualmente, nel continente intero, i manifestanti vengono randellati, caricati, ostracizzati – e chi si oppone al conflitto diventa presto, agli occhi della maggioranza della popolazione, nemico della nazione. “Traditori della patria”, per usare una formulazione che incontreremo: Landesverräter, in tedesco. Traditori, siete solo dei maledetti traditori.
All’inferno e ritorno: così titola il grande storico britannico Ian Kershaw la sua opera monumentale dedicata all’Europa “nell’era dell’autodistruzione”, fornendoci un frame per leggere, in linea con una cornice interpretativa ormai fiorente e consolidata, quello che si spalanca nel 1914 come un interminabile conflitto che cova una sua seconda fase in una lunga, drammatica pausa, la Guerra dei Trent’anni, con un “comune denominatore ideologico” – il nazionalismo. Tutto cominciò, nella via via più lucida percezione degli europei, in quei giorni finali di luglio del 1914: “La convinzione che la guerra fosse necessaria e giustificata, e l’autoconsolatorio presupposto che sarebbe stata una cosa spiccia – una breve, eccitante ed eroica avventura coronata da una vittoria rapida e con poche perdite – era penetrata in ampi settori della popolazione, molto al di là delle classi dirigenti europee. Questo aiuta a spiegare come mai in tutti i paesi belligeranti tanta gente fosse così euforica, perfino entusiasta, mentre la tensione, che non toccò il grosso della popolazione fino all’ultima settimana di luglio, andava montando fino a esplodere nella guerra generale”. Il sigillo di questo inizio, per la Germania, lo si può forse apporre al 31 luglio, quando 50.000 cittadini tedeschi, a Berlino, acclamano il Kaiser Guglielmo II in un discorso che diventerà immensamente celebre. “Nella lotta che ci sta davanti io non conosco più partiti nel mio popolo. Adesso tra noi ci sono soltanto tedeschi”, ribadisce il Kaiser nei giorni successivi. Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs – per la sua famiglia e per noi sarà semplicemente Rudolf – ha cinque giorni, è in effetti tedesco, e la sua esistenza sarà integralmente incastonata in questi trent’anni.
Venuto al mondo nell’anticamera dell’inferno, lo vedrà e cercherà la via del ritorno, con tutte le sue forze. È nato sotto una stella armata, Rudolf, mentre intorno a lui qualcuno ragiona e grida che no, questa carneficina la si deve fermare.
2.
A dirla tutta, tra i tanti figli illustri di Brema, una città che all’alba della Grande Guerra conta 250.000 abitanti, ce n’è uno che spicca su molti per chiara fama: il suo nome è Ludwig Quidde. Storico di formazione, quando Rudolf nasce Quidde è ormai un uomo di 56 anni che da molto tempo si batte contro la politica estera aggressiva del Kaiser e, più in generale, per la pace tra le nazioni. Non è certo l’unico, intesi: mentre infuriano i nazionalismi, gli imperialismi, il razzismo e il darwinismo sociale che – in forme e misure diverse – legittimano la guerra come strumento di regolazione dei rapporti di forza, in Europa non mancano gli afflati di contrapposizione a un’idea di senso di appartenenza esclusiva, asfittica, chiusa. Innanzitutto l’internazionalismo socialista e l’universalismo di frange del composito mondo cristiano, che si fronteggiano e a tratti convergono. E poi una rete pulviscolare di realtà associative – come il Bund Neues Vaterland, di cui lo stesso Quidde fa parte – e di semplici donne e uomini, non di rado cresciuti nella prosperità e nel benessere, che intendono sinceramente favorire la cooperazione tra i popoli e tra gli stati attraverso forme di associazionismo di vario tipo. “Pacifismo” è una parola potente, per uomini come Ludwig Quidde. Una parola alla quale dedicare l’intera propria vita, oscillando tra momenti di riconosciuta pavidità – Quidde non si pronuncia sull’aggressione tedesca del Belgio, per dirne una – e invidiabili squarci di coerenza.
Quidde, ad esempio, avrebbe potuto fare del mestiere di storico la sua vita. Ma ha avuto la carriera accademica stroncata vent’anni prima, in seguito alla pubblicazione di un infuocato pamphlet che, pur riferendosi all’imperialismo dell’antica Roma, accusava implicitamente Guglielmo II e le mire espansioniste della Germania di fine Ottocento, in una sorta di parodia nella quale accostava il Kaiser a Caligola, e che gli era costata tre mesi di galera. Si era tenacemente impegnato per ridurre l’ostilità tra la Francia e la Germania dopo il conflitto del 1870-71, e proprio a maggio del 1914, poche settimane prima dello scoppio del conflitto mondiale, è diventato presidente della Deutsche Friedensgesellschaft (DFG), la Società tedesca per la pace, che conta circa 10.000 membri per lo più appartenenti alla piccola borghesia, e che guiderà per quindici anni. Esiste ancora oggi, scopro, con una straordinaria e nitida specifica in aggiunta: “Resistenti Uniti contro la Guerra” (Vereinigte KriegsdienstgegnerInnen). La Società aveva raggiunto addirittura il traguardo del Nobel con la baronessa Bertha von Suttner, seconda donna dopo Marie Curie a vincere il prestigioso premio e prima ad aggiudicarsi quello per la pace, che era stata intima amica proprio di Alfred Nobel. Lei stessa, nel ritirarlo, aveva mostrato una profetica consapevolezza di quello che il prossimo futuro avrebbe potuto riservare al Vecchio Continente: “I sostenitori del pacifismo – aveva detto – sono ben consapevoli di quanto siano limitati il loro potere e le loro capacità di influire. Sanno di essere ridotti di numero e di avere scarsa autorità, ma quando considerano realisticamente chi sono e l’ideale che servono, si sentono servitori della più grande di tutte le cause. Dipende dalla soluzione di questo problema se l’Europa diventerà un cumulo di rovine e di fallimenti, o se riusciremo a evitare questo pericolo pervenendo più rapidamente all’era della pace e del diritto”. Era il 1905, e i quattro decenni successivi avrebbero in effetti generato quel “cumulo di rovine e di fallimenti” da lei pronosticato, anche se la baronessa non lo vedrà, perché muore a 71 anni il 21 giugno 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo. Come non può saperlo Quidde, ritirando il medesimo premio insieme al francese Ferdinand Édouard Buisson, nel 1927. Nella lecture che tiene il 12 dicembre, al cui testo rimetterà più volte mano nei quattro anni seguenti, insiste sul fatto che il programma di disarmo propugnato dalla maggioranza dei pacifisti nei decenni precedenti sarebbe ormai “ridicolo”: “un disarmo drastico e completo è oggi il nostro obiettivo”, altrimenti il disastro è dietro l’orizzonte. Ma la sua, per quanto supportata da schiaccianti evidenze, è ormai pura utopia.
Il clima è irrimediabilmente precipitato, e Quidde lo sa. “Una razza forte scaccerà le deboli” è il mantra del Mein Kampf, il “vangelo” dell’austriaco Adolf Hitler che punta tutto sul riscatto tedesco da affidare a un “uomo forte” (lui stesso, naturalmente), con idee chiare e nemici altrettanto chiari. La Germania e il suo popolo, la Volksgemeinschaft, l’Herrenvolk di cui già si parlava nel secolo precedente (il “popolo di dominatori”, appunto), devono avere diritto al loro “spazio vitale” (Lebensraum) recuperando i territori perduti e prendendosi quelli che ritengono necessari, soprattutto a est. La storia è per Hitler una “lotta totale tra i popoli”: predica la necessità di gerarchie tra esseri umani auspicando con foga l’annientamento dei deboli. La “razza forte”, per prevalere, deve distruggere le altre.
Hitler non è certo l’unico a soffiare sul fuoco della politica di potenza nazionale, né – in Germania – a criticare i trattati di Versailles, e cerca di farsi anzi collettore di una serie complessa di istanze. Molti tedeschi vogliono infatti “rifarsi” perché sulla sola Germania grava l’imposizione della colpa – da lei forzatamente riconosciuta nel noto articolo 231 del Trattato del 1919 – della guerra, e questa trasversale voglia di rivincita nazionale si sposa così a rivendicazioni sociali che coinvolgono ampi strati della Germania inquieta degli anni Venti, nella quale l’ormai anziano Quidde è tra i pochi che invitano alla ragione. Il vento della storia soffia, di nuovo, verso un conflitto generalizzato.
L’anno in cui tutto precipita, lo sappiamo, è il 1929, lo stesso in cui peraltro Quidde lascia la presidenza della Società tedesca per la pace. Rudolf ha 15 anni ed è ancora uno scolaro del Realgymnasium di Brema, mentre suo padre osserva con immensa preoccupazione la crescita improvvisa del partito dell’agitatore austriaco, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP). Il 3 ottobre di quell’anno muore infatti Gustav Stresemann, il politico conservatore che – pur non lesinando misure anche dure – era stato tra coloro che avevano cercato di salvaguardare la tenuta della repubblica di Weimar e dei suoi rapporti internazionali. La scomparsa di Stresemann segna simbolicamente la fine di un’epoca, per la Germania. Tre settimane più tardi, a New York crolla la borsa valori: per i nazionalsocialisti è la grande occasione. Nel giro di tre anni e pochi mesi arrivano al potere, inaugurando una delle epoche più buie della storia dell’umanità, mentre Rudolf frequenta la Seemannsschule di Amburgo, l’istituto nautico fondato da armatori e mercanti della città anseatica cinquant’anni prima.
Sappiamo che suo padre invita immediatamente Rudolf, che nel frattempo ha compiuto 18 anni, a proseguire gli studi e ad abbandonare la Germania per tenersi alla larga dal clima di violenza che si sta facendo asfissiante. Rudolf è ancora giovane, si deve fare le ossa. Imparerà, e ci metterà molto tempo, che la pace – e il suo concittadino Quidde lo sapeva bene – si può fare anche con le armi.
3.
“Per i traditori della Patria e per i disertori, che magari si sono anche vantati di aver combattuto al fianco dei partigiani e di aver ucciso dei soldati tedeschi, non c’è alcuno spazio tra di noi. Siffatti apprendisti senza onore non devono aspettarsi alcun rispetto nemmeno da quelli che sono stati fin’ora nostri avversari. Verranno isolati e trattati nel modo che si sono meritati […] Le nostre leggi militari hanno piena validità, oggi come ieri. Chi le trasgredisce deve portarne inesorabilmente le conseguenze”. Queste parole senza possibilità di fraintendimento sono vergate a giugno 1945 nel Deutsches Hauptquartier Bellaria, il quartier generale tedesco del campo di prigionia di Bellaria, dal comandante Karl von Graffen, che negli ultimi giorni di guerra era stato nominato comandante del LXXVI Panzerkorps sullo scacchiere italiano. Siamo alla fine di quella che molti definiscono la Guerra dei Trent’anni del Novecento, tre decenni e qualche mese dopo le parole con cui il Kaiser Guglielmo II, a Berlino, auspicava – intimava – che davanti a lui ci fossero “soltanto tedeschi”. E sette anni dopo il boato con cui una folla di 250.000 persone nell’Heldenplatz di Vienna invocava l’annessione tedesca dell’Austria, prima di certificarla con oltre il 99 per cento dei voti in un plebiscito che nel 1938 aveva saldato le due nazioni in un solo destino, in quella che sarà un’unica “comunità di popolo armata in guerra”. Così non è stato, almeno in parte: davanti al comandante del LXXVI Panzerkorps non ci sono solamente soldati che hanno inseguito quel sogno di dominio nazionale.
Alle spalle delle spietate minacce di von Graffen, sul suolo italiano e su tutto il globo terracqueo, quel “cumulo di rovine e di fallimenti” previsto dalla baronessa von Suttner quarant’anni prima. Eppure – c’è sempre un “eppure” – queste parole lasciano trasparire qualcosa di immenso. E cioè che von Graffen minaccia inesorabili conseguenze per chi, tedesco, con spudorata doppiezza o vestito di sincera convinzione, ha “combattuto al fianco dei partigiani”. E più in generale per chi si è macchiato del più infamante dei gesti che si possano immaginare, in tempo di guerra: la resa ai nemici, la diserzione, il tradimento – Special Germans, li chiamano gli Alleati. Tedeschi e austriaci speciali, con traiettorie imprevedibili, come molto più spesso erano stati imprevedibili i percorsi di tutte le nazionalità da loro arruolate più o meno a forza: soprattutto cecoslovacchi, polacchi e sovietici di varie provenienze.
In quello stesso campo di prigionia – il lager 12 – erano infatti presenti diversi soldati della Wehrmacht che durante il conflitto avevano disertato, e si erano uniti alla Resistenza italiana. Alcuni dei loro nomi li sappiamo: il sottufficiale Karl Berger, il caporalmaggiore Oskar Blümel, il caporalmaggiore Erich Stey, il caporale austriaco Franz Maier. Dubito che abbiano conosciuto Rudolf, eppure qualcosa li univa. Innanzitutto il fatto che, a differenza di Quidde e della baronessa von Suttner, a loro nessuno avrebbe neanche mai pensato di dare un premio Nobel. Anzi. Il futuro avrebbe riservato, a quegli uomini, quasi solo sguardi e parole taglienti come quelli del comandante von Graffen – quasi solo disprezzo, e al massimo poche briciole di compassione.
“Lui ha combattuto con loro”, avrebbero detto i concittadini, i parenti, gli amici: “Ha rivolto le armi contro di noi”.
4.
Quando ti uccidono più volte, forse non sarai mai morto per davvero. Se hai dimostrato di saper essere un uomo protagonista del tuo tempo ma guidato da valori universali, che trascendono quel tempo stesso, il tuo nome resterà scolpito da qualche parte – nella memoria dei luoghi, in una lapide dimenticata, tra documenti accartocciati, nei sussurrii della gente del posto. Si dirà “lui aveva combattuto con i nostri. Lui, che era tedesco”. Si tramanderà un racconto, che così manterrà viva la tua storia, finché qualcuno non la spolvererà per raccontarla battagliando con l’oblio.
Questo è quanto accaduto a chi, vestendo la divisa delle forze armate tedesche, ha saputo dire di no, seguendo non gli ordini liberticidi e criminali della “patria” ma la propria coscienza, pur sapendo che avrebbe potuto morire non una ma due volte. Se da un lato avrebbe potuto essere ucciso in battaglia, combattendo contro i suoi ex commilitoni e i loro alleati fascisti, dall’altro il suo nome – questo invece era pressoché certo – sarebbe stato a lungo cancellato dalla memoria pubblica del suo paese. Sarebbe stato complicato, anche se si fosse persa la guerra, celebrare i disertori, queste anime rinnegate che avevano scelto il lato giusto della storia, intralciando la cavalcata del Reich millenario per inseguire, al contrario, un altro ideale.
Già nella riedizione della prima grande narrazione della guerra partigiana di Roberto Battaglia, uscita postuma, sono inserite ex novo alcune pagine dedicate al tema su cui lo storico scrive in maniera pionieristica negli anni Sessanta. E tra gli stranieri che si unirono alla Resistenza ricorda anche i disertori dell’esercito tedesco (nati nel Reich o altrove), che appaiono “nelle file del movimento partigiano in quasi tutte le regioni del Nord”. Stiamo parlando di un nucleo numericamente non trascurabile anche secondo gli storici tedeschi che avrebbero proseguito questo filone di ricerca, arrivando a suggerire l’ipotesi che fossero centinaia. Come avrebbe sottolineato Claudio Pavone molto tempo dopo, si sarebbe addirittura tentato di costituire reparti composti integralmente da disertori della Wehrmacht, e le stime più aggiornate confermano le sensazioni dei primi storici della Resistenza: questi uomini capaci di scarti improvvisi e senza possibilità di ripensamento erano certamente svariate centinaia, questo è il dato dal quale devo e dobbiamo partire. E lo stesso vale per diversi altri teatri di guerra, come la Francia, la Jugoslavia e la Grecia (dove furono oltre mille), anche se in questi casi come in quello dell’Europa orientale è difficile raggiungere delle stime certe: va detto che le biografie a nostra conoscenza hanno raggiunto ormai da tempo, allargando lo sguardo al continente, un ordine complessivo quantificabile in diverse migliaia.
Per la sola 10ª armata di stanza in Italia i dati disponibili parlano di 3.582 casi di diserzione e allontanamento non autorizzato, circa la metà dei quali di nazionalità tedesca o austriaca, e una parte considerevole di loro si unì al partigianato italiano – era uno stillicidio continuo, come rilevava la giustizia militare tedesca nel corso del conflitto. Schegge, in confronto a storie epiche confrontabili, come quella dei molti ex soldati italiani che si unirono alla Resistenza francese o greca, o come quella della Divisione partigiana Garibaldi, in Montenegro, dove 20.000 italiani prima appartenenti all’esercito fascista combatterono fianco a fianco ai partigiani locali, e tra i 6.500 e gli 8.500 di loro morirono per la libertà degli ex nemici. Ma schegge commoventi, che si fanno ossessionanti e irrompono brutalmente, con costanza, nei pensieri di chi studia questi anni. Schegge che, a un certo punto, non lasciano più scampo, e pretendono di essere indagate.
Un giovane studioso cui va il merito di essere stato il primo a provare a operare una ricognizione sistematica su questi disertori nella penisola, Francesco Corniani, ha osservato che in termini assoluti si tratta di un numero limitato, “se rapportato al milione di soldati circa dell’esercito tedesco che furono presenti tra il 1943 e il 1945 in Italia” – uno su mille, a spanne. Eppure l’esistenza di questa nutrita minoranza dimenticata, sulla quale non ha svolto “nessuna ricerca mirata” neanche la Commissione storica italo-tedesca (2009-2012), è un dato dal portato storico, civile, etico e simbolico strabiliante. Rivoluzionario. “Dopotutto, chi controlla i valori del mondo?”, chiede un commilitone di Walter Proska, il riluttante disertore del romanzo di impianto autobiografico di Siegfried Lenz, Der Überläufer,scritto nell’immediato dopoguerra ma uscito solo nel 2016: “Tu e tu soltanto”, si risponde.
L’aspetto più entusiasmante della storia, in fin dei conti, si cela nelle traiettorie biografiche dei suoi protagonisti, come l’archetipico Walter Proska, o come Rudolf. E, in questo caso più che in molti altri, si possono – si devono – ricostruire. Sapendo che saranno innumerevoli i vuoti, gli inciampi, le informazioni che vorremmo e che non potremo avere. Fin dalla riedizione del 1964 della Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia il simbolo anche problematico, tra gli addetti ai lavori, di queste vite utopiche di veri e propri “partigiani dell’umanità” che scelsero il loro versante della lotta senza adagiarsi sui confini imposti alla nascita, è Rudolf, quell’uomo nato a Brema nella “crisi di luglio” del 1914. Ma chi era veramente? È possibile scoprirlo? E quali domande pone a noi oggi la sua parabola umana?
Per quelle inaspettate coincidenze che l’indagine del passato spesso ci fornisce, quell’uomo portava un nome, Rudolf, che molti anni dopo avrebbe raccontato una storia non accomunata solamente dall’omonimia. Una storia di un altro Rudolf, una storia diversa.
Ma – per gli interrogativi che scatena – non poi così tanto.
Saremmo stati diversi?
1.
“Esistevano dei tedeschi buoni?”. È il 1989, un anno fondante per la nuova Europa aperta che si intravede all’orizzonte e in cui inizia a infuriare il dibattito sulla “guerra civile europea”, e Nuto Revelli – ex partigiano, insuperato indagatore della storia sociale italiana – rivolge questa domanda a C.M., un combattente della Resistenza belga ebreo, di madre polacca e padre russo. “No, nessun tedesco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insieme non buoni”, gli risponde C.M.
Revelli, un reduce del freddo glaciale del fronte russo dove aveva maturato un’irriducibile opposizione ai fascismi, aveva narrato diverse volte e per iscritto la sua esperienza – la sua “conversione” all’antifascismo, verrebbe da dire. “Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato”, aveva scritto a inizio anni Sessanta ne La guerra dei poveri a proposito dei giorni di settembre del 1943 in cui finì il suo fascismo “fatto di ignoranza e presunzione”, e scelse la lotta contro i fascisti repubblicani di Salò e i loro alleati nazisti. Come avrebbe più volte raccontato, il suo odio per i tedeschi durante e in seguito alla campagna di Russia era via via cresciuto, diventando coriaceo, insopprimibile. E lo sarebbe rimasto per decenni – nonostante ne avesse incontrati, di tedeschi antinazisti, durante la lotta di liberazione.
“Nei venti mesi della guerra partigiana distinguevo i tedeschi della Wehrmacht dalle SS, ma non i tedeschi dagli austriaci. Erano tutti tedeschi per me, tutti uguali, tutti nazisti”: la sua leggendaria – rivendicata – incapacità di voler andare oltre quell’odio quasi atavico, coltivato con rancore, però, a un certo punto, incontra un ostacolo. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta comincia a ossessionarlo la storia di un “cavaliere solitario” che era diventato un disperso nel Cuneese nel corso della guerra 1943-45. E cerca spasmodicamente di ricollegare le poche tracce consunte di questa storia dai contorni così incerti, da “sordomuto” (Revelli non parlava né capiva il tedesco, né poteva accedere a Google Translate, ovviamente). Oltre a interrogare una miriade di testimoni e a mettersi alla caccia di una documentazione che pare impossibile da trovare, Revelli si confronta anche con diversi storici, tra cui Christoph Schminck-Gustavus, professore di storia del diritto e storia sociale all’università di Brema. Proprio Schminck-Gustavus, a distanza di poco dal dialogo con il partigiano belga, gli manifesta il suo disagio: “Magari il vostro odio di allora vi ha accecati, fino al punto che non vedevate più quei tanti poveri diavoli” che indossavano malvolentieri la divisa tedesca. In effetti, per Revelli e per molti altri, era stato così, e proprio l’incontro con una nuova leva di storici tedeschi che indaga più a fondo e racconta i crimini del nazionalsocialismo inizia a scavare dubbi nelle sue certezze. Due anni prima, a oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ha scritto questo di Christoph, diventato nel frattempo una frequentazione preziosa: “la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio ‘tedesco buono’ l’ho trovato”.
Cinque anni dopo questa prima folgorazione – e il capitolo del libro dedicato a questa ricerca, Il disperso di Marburg, si intitola “La svolta” – finalmente, grazie all’aiuto decisivo di un altro storico, l’italiano Carlo Gentile, il bandolo della matassa si sgroviglia e il “cavaliere solitario” guadagna una provenienza (Marburg), un nome – Rudolf, appunto – e un cognome, Knaut. Non molto altro, in realtà, ma anni di vicoli ciechi e false piste alla fine approdano al punto che sogna chiunque si metta su una traccia, sperando di arrivare da qualche parte. “Il sentimento di pietà è così profondo da annullare ogni compiacimento per il risultato conseguito”, annota Revelli a proposito di quel tedesco di Marburg che usciva solo a cavallo tutte le mattine dalle “Casermette” di San Rocco, alle porte di Cuneo, e che un giorno venne catturato e ucciso da un gruppo di partigiani. E che lui insiste, tra le pieghe del suo resoconto impostato quasi come un diario di bordo, a definire il suo “tedesco buono”, nonostante lo stesso Gentile non accetti questa ipotesi e lo inviti “amichevolmente a ritornare con i piedi per terra”. Revelli pare avere una necessità spasmodica di trovare pietà per tutti i combattenti, anche per se stesso.
In realtà Rudolf Knaut non era affatto un “buono”. Certo, come ha osservato Luigi Bonanate, è “il simbolo più banale e più anti-eroico della figura del disperso (di tutte le guerre)”, figura immensamente cara a Revelli per via della sua personale esperienza in Russia, ma non è “né migliore né peggiore di tanti combattenti”, degli oltre sette milioni di morti tedeschi e austriaci della seconda guerra mondiale. Revelli si ostina a voler vedere un “buono” in Knaut, un uomo che, sebbene non fosse iscritto al Partito nazionalsocialista di Hitler, si presume che fosse sistematicamente impegnato in attività antipartigiana con il suo battaglione. Se pensiamo che possa esserci dell’ingenuità in questa clemenza ex post di Revelli, però, ci sbagliamo.
“Credo di non aver dimenticato nulla di quei tempi in cui la ferocia era all’ordine del giorno” – scrive in uno dei passaggi più memorabili de Il disperso di Marburg. “Ma voglio che ogni tanto i freni della razionalità si allentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti. Quante volte, in quei tempi della malora, mi dicevo che in guerra erano i buoni a pagare, non i peggiori”. E questo, nella nostra storia, è sicuramente vero.
2.
Uno degli ultimi giorni del secolo scorso, intervenendo subito prima di un dibattito tra Revelli e il pubblico, il suo amico Christoph Schminck-Gustavus – “tedesco buono”, lui sì – chiede alla platea: “Come ci saremmo comportati noi?”. Immagino la commozione sua e degli astanti, mentre prosegue: incalza chi lo ascolta definendo certo un po’ “farisaico” il pensiero “che avremmo opposto resistenza, che sarem[m]o stati coraggiosi, che saremmo stati un po’ diversi dal normale, da quella normalità che ha permesso che andasse in rovina quasi tutta l’Europa, che morissero milioni e milioni di uomini”. “Saremmo stati diversi?”, chiede Schminck-Gustavus al pubblico, e a tutti noi. Forse, o forse no. Gli avrebbe fatto eco, molti anni dopo, il conturbante criminale di guerra (hollywoodianamente e ordinariamente “cattivo”) Max Aue, voce narrante e protagonista del romanzo Le benevole di Jonathan Littell, con tutt’altro tono: “Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo”.
Naturalmente il fatto che questa domanda, “saremmo stati diversi?”, l’abbia posta un tedesco – seppure in un invidiabile italiano – non deve essere passato inosservato. Negli ultimi tre quarti di secolo è spesso bastato l’accento, di un tedesco, per sentire quel piglio “fanatico, cinico, arrogante, spietato”, “quasi a indicare un’essenza antropologica imperitura”, quasi a significare l’incarnazione del male, come avrebbe osservato Filippo Focardi una dozzina d’anni più tardi. Lo fa nel capitolo “Uomini o tedeschi?” del saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano, un pilastro della storiografia italiana più recente che ci mostra come lo sforzo di addossare tutte le colpe della guerra non solo alla Germania nazista ma, per induzione, a tutti “i tedeschi”, avesse coinvolto a trecentosessanta gradi il mondo della cultura e della politica, anche antifascista, con lo scopo di riabilitare l’Italia, nel dopoguerra, nella cornice internazionale. Ma, parallelamente, era rimasta viva la ricerca di “bagliori di umanità non spenta dall’omologazione imposta dal regime”, in scia alla tradizione pacifista – con tutti i suoi chiaroscuri – incarnata da von Suttner e Quidde, a quella socialdemocratica e conservatrice, a quella con connotazioni religiose rappresentata dal pastore protestante Martin Niemöller e dal teologo Dietrich Bonhoeffer, a quella più controversa di parte dell’establishment militare con il suo apice nell’ultima estate di guerra, fino a percorsi di militanza radicale con le salde radici fin nel 1933, quando il nascente regime aveva cominciato immediatamente a internare, a decine di migliaia, i suoi oppositori (soprattutto comunisti, socialisti e sindacalisti), mentre altre decine di migliaia di antinazisti trovavano riparo in esilio. È stato stimato che furono quasi un milione i tedeschi internati nei campi di concentramento del regime, a diverso titolo componenti della “complessa galassia delle resistenze tedesche”. Quanto di questo è trapelato, all’epoca dei fatti e poi nella loro memoria, in Italia?
Fin dall’immediato dopoguerra sulla penisola avevano iniziato a circolare racconti puntuali e locali relativi a tedeschi – non di rado relativamente anziani – che si erano comportati umanamente, senza per questo scalfire oltre la superficie una raffigurazione fondamentalmente “permeata dall’astio antigermanico”. Focardi ha messo in rilievo come, nonostante il tentativo di contrastarlo recuperando, tra le altre cose, il meglio della “cultura di Weimar” e più in generale frammenti dell’“altra Germania”, questo archetipo del tedesco guidato dall’obbedienza acritica e incondizionata fosse un convincimento ben presente dall’Ottocento risorgimentale e con radici addirittura nella contrapposizione fra latinità e germanesimo in epoca romana. Cresciuto esponenzialmente con la propaganda del primo conflitto mondiale, era poi esploso con il nazismo e con una diffusa sensazione di “asservimento” all’alleato – con cui l’esercito fascista gareggiava in ferocia su diversi fronti – nella prima fase del conflitto mondiale. Questo stereotipo del “barbaro” aveva così inquinato anche nel corso della guerra di liberazione il vissuto di tutti i tedeschi, nessuno escluso, “distorcendo anche la percezione di quanti di loro avevano compiuto concretamente un atto di rottura o quantomeno di distacco nei confronti del Terzo Reich, ovvero i disertori e gli oppositori politici”. Al punto che persino nelle Lettere della Resistenza europea (1969) che ne includono dieci di antinazisti tedeschi e austriaci, si ragiona intorno all’odio maturato nei confronti di un “popolo di assassini”. A questo si erano affiancati, in parziale controtendenza, sporadici riferimenti a tedeschi che avevano abbandonato la lotta, mossi più che altro da nichilismo e disperazione, senza coscienza politica, e più in generale a coloro che nel corso della guerra venivano definiti Wehrkraftzersetzer – “disfattisti”, in sostanza.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, tuttavia, i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti (anche di origine ebraica) impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi: fucilati o impiccati all’albero più vicino dai loro ex commilitoni.
Ma limitiamoci a osservare i dati certi, per ora: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in “battaglioni punitivi”. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo (SS e Gestapo), ma anche da molti soldati e ufficiali, né che molti “uomini comuni” parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci anche gusto, dall’altro la vicenda dei disertori è un elefante che si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra europea dei Trent’anni. E va raccontata, anche se questo dovesse significare dibattersi fra tracce rarefatte, sbiadite.
Se raramente questi disertori si unirono alle fila nemiche e lo fecero per ragioni ideali, non si può sottovalutare che – come ha mostrato una ricognizione di 16.000 lettere di soldati, sui tre miliardi di missive e pacchi fatti transitare dalla Feldpost tedesca tra il 1939 e il 1945 – i ragazzi e gli uomini tedeschi che combattevano sui vari fronti vedevano la loro guerra “attraverso il prisma non solo dell’ideologia ma anche della tradizione familiare di ciascuno, delle sue letture, della sua esperienza, del suo rapporto con la storia e del modo in cui collocava se stesso nella storia”. Non era facile scostarsi da quella narrazione nella quale rimbombavano i discorsi ottocenteschi sull’Herrenvolk, e che attingeva a piene mani dalla guerra miseramente persa, quella prima: i principali teatri delle operazioni della seconda guerra mondiale, infatti, avevano visto la generazione dei padri battersi nel conflitto precedente, e questi giovani di nuovo in armi avevano spesso “bisogno di sentirsi parte di una lunga genealogia di combattenti”. Per questa ragione le storie di chi remò controcorrente, di chi si mise di traverso cercando di arginare la tracimante marea nazionalista che aveva travolto (quasi) ogni cosa, in patria e oltre, hanno qualcosa di stupefacente.
Nell’estate del 1944, ad esempio, dopo lo sbarco in Normandia la Wehrmacht si trovò vicina al punto di rottura, e le sistematiche diserzioni riguardavano soldati inquadrati precedentemente a est, alsaziani e Volksdeutsche, ma anche tedeschi nati nel Reich (Reichsdeutsche) e austriaci, come ha notato lo storico militare Antony Beevor: “Alcuni erano soldati che non credevano nel regime nazista o che, più semplicemente, odiavano la guerra […] Il generale Lüttwitz, comandante della 2ª Divisione panzer, rimase sconvolto quando tre dei suoi austriaci disertarono passando al nemico e avvertì che i nomi di tutti i disertori sarebbero stati resi pubblici nelle loro rispettive città, così da poter prendere misure contro i loro parenti. ‘Se qualcuno tradisce il suo stesso popolo’ annunciò ‘la sua famiglia non appartiene più alla comunità nazionale tedesca’”. Un alsaziano che cercò di unirsi a una colonna di profughi francesi, racconta ancora Beevor, venne picchiato a morte dai soldati della sua compagnia, e il suo cadavere con le ossa fratturate venne gettato nel cratere di una bomba – “il capitano proclamò che questo era un esempio di ‘Kameradenerziehung’, un’‘educazione al cameratismo’”. Non stupisce che chi aveva ancora energia e coraggio valutasse di passare tra i ranghi del nemico: non è certo un caso che, sul fronte orientale, Himmler decise di proibire la parola “partigiano”, per riferirsi ai gruppi di civili che affiancavano le forze regolari sovietiche, ordinando di utilizzare il termine “banditi” (Banditen), largamente in uso in tutta Europa, o in alternativa il termine franc-tireurs, espressione che i tedeschi conoscevano bene per via della guerra del 1870-71. Il lemma “partigiano” poteva fare presa sui soldati tedeschi, persino nella “guerra assoluta” contro l’URSS, dove fin dalle ore precedenti l’attacco un militare tedesco passò le linee per avvisare i nemici. Dovrebbe trattarsi dell’operaio comunista berlinese Wilhelm Korpik o del caporale Alfred Liskow, falegname comunista bavarese, che è l’unico disertore (e) del quale è citata l’identità nella raccolta di documenti dell’URSS sulla “grande guerra patriottica” e che venne probabilmente non creduto e fucilato dai sovietici. In realtà sappiamo che di militari passati a dar manforte ai “rossi” ce ne furono diversi altri (persino dei generali come Rudolf Bamler), e furono numerosissimi nel celebre e leggendario “Battaglione punitivo 999” – che poi in Grecia vedrà un altissimo tasso di diserzione –, dove erano assegnati i comunisti tedeschi, e in genere gli antinazisti; i passaggi di campo, considerando anche quelli dei combattenti locali, possono essere stimati in decine di migliaia. Le loro storie, e innanzitutto la lungimirante diserzione di Liskow, a guerra in corso vennero talvolta utilizzate per la propaganda antinazista: tra le più emozionanti rimane la vicenda del muratore comunista Fritz Schmenkel, di Stettino, catturato in Bielorussia dai suoi ex camerati dopo oltre due anni di lotta con i partigiani sovietici e fucilato nel febbraio del 1944.
Anche durante la lotta contro i nazifascisti, le Resistenze europee avevano ben chiaro, con gradazioni e convinzioni diverse a seconda della regione geografica e del posizionamento politico, che il nemico non doveva essere demonizzato in toto, e si moltiplicavano gli appelli che lo invitavano a disertare, e a unirsi ai combattenti per la libertà. Sebbene pochi, i “giusti” c’erano, nelle città e sui fronti più disparati. Uno era Joe J. Heydecker, un fotografo della Compagnia Propaganda 689 della Wehrmacht che partecipò come Revelli all’invasione dell’Unione Sovietica e che nel corso dell’occupazione della Polonia fotografò, a rischio della vita, le condizioni degli ebrei del ghetto, consegnando ai posteri una delle più vigili e strazianti testimonianze dello sterminio nazista. Anche tra le vittime in molti cercarono fin da subito di vedere questi “giusti”, per poter credere in un mondo diverso.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, è tra i pionieri di questa ricerca dei tedeschi che non fossero complici, alla quale dedica tutta la sua vita di superstite, non senza ricorrenti ritrosie, in maniera ondivaga, “a tratti entusiasta, a tratti frustrante”. Già nel suo ritorno a casa si sorprende a cercare per le vie di Monaco, “fra quella folla anonima di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro, ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece”.
Sotto il “cumulo di rovine e di fallimenti”, a ben cercare, ha sempre covato un’altra narrazione – un contromovimento presente sottotraccia anche in tutta la letteratura resistenziale del continente, e non solo nei percorsi di ricerca e nelle testimonianze dei combattenti e dei sopravvissuti. Sono squarci della narrativa, come “l’ufficialetto” austriaco unitosi alla Resistenza ne Il partigiano Johnny di Fenoglio, “appena un ragazzo, ma pallido e già stempiato […] straordinariamente smilzo, e la divisa naturalmente gli andava larga, ma senza effetto buffo, anzi con un incredibile incremento di romanticità”; accompagnato da una “totale, immascherabile, propagantesi tristezza”. Ricorda, per contrasto, il tedesco catturato – e soprannominato “Fritz” – che nel racconto fenogliano Golia non osa neanche colpire i partigiani con le palle di neve. È “una pasta frolla, non sembra nemmeno un soldato tedesco”, nella descrizione del comandante Sandor; è un soldato tedesco che aveva combattuto anche “l’altra” guerra e che, dopo una lunga convivenza in banda, finisce “giù piatto come una rana”, la faccia nella neve, in una sorta di beffardo e tragico regolamento di conti che ha più a che vedere con la brama di autostima di un minuto partigiano giovanissimo – “Carnera” – che con il comportamento di Fritz, alias “Golia”.
Uno dei picchi più alti di questa ricerca in apparenza destinata al fallimento lo incrociamo nello straordinario Educazione europea di Romain Gary, un romanzo scritto a guerra in corso e ambientato nella Polonia occupata dai nazisti, nel quale troviamo un dialogo tra il protagonista – un ragazzino, Janek – e il suo mentore, Dobranski, che gli vuole dimostrare “fino a che punto ci assomigliamo, noi e loro”. E gli racconta la storia di quando “il terrore tedesco era al colmo”:
“Allora mi domandavo: come può il popolo tedesco accettare tutto ciò? Perché non si ribella? Perché si sottomette e accetta questo ruolo di boia? Certo, coscienze tedesche ferite, oltraggiate in ciò che hanno di più semplicemente umano, si ribellano e si rifiutano di obbedire. Quando, però, vedremo i segni della loro ribellione? Ebbene, a quel tempo un giovane soldato tedesco venne qui, in questa foresta. Aveva disertato. Veniva a unirsi a noi, a mettersi al nostro fianco, sinceramente, coraggiosamente. Non vi erano dubbi: era un puro. Non si trattava d’un membro del Herrenvolk, si trattava di un uomo. Aveva sentito il richiamo di ciò che in lui vi era di più semplicemente umano, e aveva voluto togliersi di dosso l’etichetta di soldato tedesco. Ma noi avevamo occhi soltanto per questo, per l’etichetta. Tutti sapevamo che era un puro. La purezza la senti, quando ti capita di trovarla. Ti acceca, in mezzo a questo buio. Quel ragazzo era uno dei nostri. Ma aveva l’etichetta”.
“E allora?”
“E allora noi lo abbiamo fucilato. Perché aveva addosso l’etichetta: tedesco. Perché noi ne avevamo un’altra: polacchi. E perché l’odio era nei nostri cuori… Qualcuno, a mo’ di spiegazione, o di scusa, non so, gli aveva detto: ‘È troppo tardi’. Ma sbagliava. Non era affatto troppo tardi. Era troppo presto…”.
Dobranski aggiunse:
“Ora ti lascio. Arrivederci”.
E si allontanò nella notte.
3.
Quando le preoccupazioni ti assediano, non è inconsueto che tu ti svegli all’alba. Forse ti sei già costruito un giudizio inappellabile sul baratro in cui è precipitata la Germania, ma hai due figli, uno di pochi mesi e l’altro di due anni, e devi prendere tempo. Vuoi prendere tempo, dannazione – ci va un coraggio immenso, per osare. Per essere “un puro”.
Rudolf non può aver letto Educazione europea, questo è certo, perché uscirà di scena prima che il romanzo di Gary veda la luce. Conosce invece, con ogni probabilità, alcune delle storie della Resistenza tedesca, che non saprà mai farsi un movimento tendenzialmente strutturato e diffuso come invece accadrà in tutta Europa, è vero, ma che ha sempre innervato la Germania nazista, anche negli anni più bui. Avrà sentito parlare, ad esempio, di Georg Elser, carpentiere e falegname, che a due mesi dallo scoppio della guerra ha mancato il Führer di 13 minuti in un attentato dinamitardo, uno tra le decine di mancati tirannicidi che si sono avvicendati in dodici anni di nazionalsocialismo. Nel frattempo Rudolf si è da poco sposato con Herta Jacke, e ha avuto due figli, Rudolf (nato già nel 1937, prima del matrimonio) e Wilhelm, venuto al mondo il 14 febbraio del 1939 a Brema, pochi mesi prima che calasse l’oscurità sul continente, con l’invasione nazista della Polonia.
Papà Rudolf ha fatto di tutto per non essere arruolato nelle forze armate tedesche, trovando una legittima motivazione nella sua condizione familiare e nel fatto che è ancora impegnato con gli studi. D’altra parte ha già prestato servizio militare a partire dall’ottobre del 1935: negli anni Trenta compie un percorso di formazione da marinaio in patria e all’estero, probabilmente in India, allargando così il suo orizzonte. Tornando sul suolo tedesco ha però disobbedito al padre, che aveva ampiamente previsto la tormenta che si stava abbattendo sulla Germania e sull’Europa intera, e l’aveva supplicato – lo abbiamo visto – di stare lontano dal centro degli eventi. Ora, quando gli anni Trenta sfumano nei Quaranta, vive con la famiglia nel sobborgo Francop di Amburgo. La città diventerà celebre per via di un’istantanea e di una storia. L’istantanea: quella foto che immortala un uomo a braccia conserte, in una posa quasi di sdegnosa disubbidienza, immerso in una folla oceanica tesa nel saluto romano a Hitler, nel 1936, in occasione del varo di una nave.
La storia è invece la vicenda della St. Louis, la nave capitanata da un connazionale di Rudolf, il capitano Gustav Schröder, che ha tentato in ogni modo, nell’estate del 1939, di portare in salvo quasi mille ebrei oltre Atlantico, salvo essere poi costretta a fare marcia indietro, perché nessuno, nelle Americhe, li voleva. La vicenda ha avuto un’immensa eco in tutto il mondo, e quasi certamente Rudolf ha osservato la tenacia di Schröder chiedendosi se lui sarebbe stato capace di fare altrettanto – per non parlare delle migliaia di volontari tedeschi e austriaci che in questi medesimi anni si sono battuti per la Repubblica contro i fascismi, nella guerra civile spagnola.
È un giovane uomo nel pieno delle proprie forze, Rudolf, e suppongo cerchi spiragli di coerenza in quella prigione a cielo aperto che è diventata la Germania. Secondo la sorella, ma non a parere del resto della famiglia, è – o almeno era stato – un Weiberheld, un donnaiolo: una foto di quegli anni in divisa da marinaio cattura il suo sguardo vivace, i capelli tirati all’indietro, leggermente rasati sulla tempia, un’occhiata in camera che sembra chiedere “sto bene, così?”. Ha la vita davanti, Rudolf, e pare esserne del tutto consapevole: se in un ritratto di coppia scattato in occasione del suo matrimonio mantiene uno sguardo austero, con il papillon bianco quasi a scomparire sulla camicia altrettanto candida nell’uniformità cromatica, in un quadretto familiare con il figlio Rudolf jr. cogliamo lateralmente il sorriso sincero di un uomo raggiante. La fossetta sulla guancia destra, la mano del figlio appoggiata con delicatezza sulla sua spalla – si intravede una felicità che chi non ha vissuto non sa di poter provare. Quanto inciderà sulle sue future scelte?, mi chiedo.
Perché la Germania – la Germania nazionalsocialista, ora – pronuncia a più riprese il suo nome. Avere 25 anni allo scoppio della guerra, per Rudolf, è una dannazione e un’opportunità: deve lasciare la sua famiglia, come milioni di altri suoi coetanei, e rispondere alla chiamata alle armi, e questa è la maledizione. Ma può fare carriera, con alle spalle la sua formazione da marinaio alla Seemannschule e i suoi studi da ingegnere, seppur interrotti a più riprese: nonostante riesca per diverso tempo a scampare l’arruolamento, gli viene infine intimato di partecipare alla realizzazione del “Vallo Atlantico”, un progetto mastodontico con l’obiettivo di rendere la “fortezza Europa” nazista inespugnabile, ad Amburgo-Altona e a Saarburg. Presta giuramento alla Marina di guerra – la Kriegsmarine – l’8 maggio del 1941 e a fine agosto del 1942, quando il mondo sta entrando nel quarto anno di guerra, si trova a nord di Brema, nella Bassa Sassonia (a Wilhelmshaven). Un tedesco di 28 anni, in pieno conflitto mondiale, difficilmente può evitare di prenderne parte.
Ed è così che Rudolf, nato sotto una stella armata a Brema e diventato adulto per le vie del mondo e nella turbolenta Amburgo, richiamato dalla Marina il 25 settembre del 1943, dopo qualche mese con la Maas-Flottille nell’Europa settentrionale arriva infine in Italia – un fronte che diventerà presto secondario, ma sul quale i vertici delle forze armate tedesche ripongono ancora fiducia. Sul suo ruolino militare non risultano sanzioni disciplinari. Servono gli uomini migliori per arrestare la risalita della penisola degli Alleati, e per annichilire quei piantagrane dei “banditi” italiani, che imperversano intorno alle Alpi Apuane.
4.
Secondo alcuni dei partigiani protagonisti di questa stagione, la banda del marinaio sarzanese Flavio Bertone, nome di battaglia “Walter”, proprio nell’estate del 1944 prende il nome “Ugo Muccini”, in ricordo di un militante comunista che si era arruolato nelle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola ed era morto eroicamente a Sierra Cabals, nel corso della leggendaria battaglia dell’Ebro, non ancora trentenne. Secondo altri, il nome della banda i cui primi nuclei nascono nella valle del fiume Magra sarebbe stato acquisito ben prima, mentre è certo che dall’autunno la denominazione sarebbe stata questa, fino al termine della guerra, una volta costituitasi come Brigata garibaldina d’assalto. La banda guidata da “Walter”, il cui commissario politico è Paolino Ranieri (“Andrea”), in ogni caso, dopo essersi spostata nell’entroterra, a giugno partecipa alla liberazione del paese di Bardi, non lontano da Parma, e da questo colpo di mano nasce l’esperienza della repubblica partigiana del Ceno – un’esperienza pionieristica nell’Italia occupata –, alla quale fa seguito l’istituzione del vicino Territorio libero della Val Taro, con una popolazione di oltre 40.000 abitanti. Le fotografie scattate agli uomini di “Walter” e “Andrea” a Bardi ci mostrano un gruppo compatto di giovani determinati, che vogliono fare la differenza non solo nei luoghi dei quali la maggior parte di loro è originaria. La porzione di territorio dalla Spezia a Parma in cui si stanno muovendo è cruciale per gli Alleati: la presenza delle Alpi Apuane e dell’area appenninica che porta da Genova a Modena rende infatti alquanto impervia la zona nella quale non è in sostanza possibile ingaggiare scontri in campo aperto. Né, per i partigiani, sarebbe sensato.
Quella della banda di “Walter”, e vale in generale per la Resistenza italiana, è guerra di guerriglia: un conflitto asimmetrico, contro un nemico che ha risorse spropositate e armamenti con un raro potenziale distruttivo. L’occupazione nazista è iniziata a settembre del 1943, e nelle settimane successive in un’ampia area dell’Italia centrosettentrionale è sorto il governo vassallo fascista della Repubblica sociale italiana, per proseguire la guerra al fianco dello storico alleato. I diversi sbarchi angloamericani hanno rapidamente liberato l’Italia del sud, e il fronte si è incancrenito per circa otto mesi sulla Linea Gustav, dove combattono truppe arruolate in ogni dove, in uno schieramento e nell’altro – anche qui è davvero una guerra “mondiale” che coinvolge decine di stati e di nazionalità. Dopo lo sfondamento della Gustav a maggio, grazie al contributo determinante delle truppe coloniali francesi e del corpo di spedizione polacco, i tedeschi sono definitivamente in ritirata dal Mezzogiorno, incalzati anche dai combattenti provenienti dal Corno d’Africa come quelli della “Banda Mario”, che avrà tra i suoi ranghi un melting pot di combattenti di almeno otto nazionalità tra cui un viennese, Emerich Schafranek. La pressione alleata sta spingendo gli avamposti tedeschi più meridionali verso il sud della Toscana: in quell’area i disertori sono numerosi, rileva Carlo Gentile – lo storico che aiutò Revelli nella sua ricerca –, e la disciplina risulta “fortemente compromessa”. Il Comando supremo della Wehrmacht tenta di “reagire a quelle tendenze disgregative mandando in Italia un reggimento di Feldjäger, un corpo speciale di polizia militare dotato di pieni poteri e incaricato di intercettare fuggiaschi e disertori alle spalle della linea di combattimento per rispedirli al fronte”.
“Te la fanno vedere loro, la diserzione”, commenta portandosi un dito teso alla tempia Walter, il protagonista diciassettenne del romanzo Morire in primavera di Ralf Rothmann, ambientato in un altro teatro di guerra (quello ungherese, dove Walter è trascinato suo malgrado) ma che delinea perfettamente i rischi che la diserzione comporta: “La polizia militare vede chiunque a mille metri di distanza e ti impicca su due piedi, senza processo. Sono dei veri bastardi. Probabilmente rischi di meno se riesci a tenerti fuori fino alla fine”.
Nella regione lo sa bene il diciannovenne tedesco Günter Frielingsdorff, pittore e studente d’architettura, “un bel ragazzo, un bel moro, alto” secondo una testimone, che già a ottobre del 1943 ha disertato insieme a un compagno, aggregandosi alla Resistenza nel Grossetano: dopo varie peripezie, si è unito a una banda di dieci giovani italiani – con loro “lo spezzino” trentottenne Mario Becucci – nella macchia di Monte Bottigli, una trentina di chilometri a sud di Grosseto. Durante un rastrellamento in seguito a delazione, iniziato la notte tra il 21 e il 22 marzo 1944, Frielingsdorff riesce a salvarsi sfondando audacemente la parete della capanna in cui si trova per fuggire nella boscaglia, dove i fascisti lo inseguono sparando all’impazzata – gli abitanti del luogo ricorderanno che “gli passavano sopra le pallottole”, come in un film. Ma è la bruta realtà: “il fatto che soltanto uno della banda è riuscito a fuggire all’annientamento, dimostra che la sorpresa è riuscita in pieno”, commenta poi il capo fascista della provincia ai suoi “gregari”, rivolgendo il suo “vivo plauso” agli autori materiali di quella che passerà alla storia come la strage di Istia d’Ombrone. Gli undici compagni di Frielingsdorff – tutti tranne Becucci fra i 19 e i 24 anni – vengono fucilati la mattina stessa, e gli esecutori si allontanano dal luogo dell’eccidio cantando. La sera del giorno seguente il disertore tedesco si presenta a un podere “tutto strappato” (ricorda un’altra testimone) con i piedi sanguinanti e, rimasto nella zona, partecipa alla guerra di liberazione nella banda di Monte Bottigli “Sempre Presente”, mantenendo il nome di battaglia “Gino” e ottenendo il riconoscimento di partigiano combattente – con lui combatterà anche un coetaneo austriaco, Frurin Chlofch. Nelle vite di molti dei ragazzi come Frielingsdorff e Chlofch – che alla fine della guerra avranno vent’anni – e come gli undici ragazzi della strage di Istia d’Ombrone che Frielingsdorff scampa a testa bassa nella boscaglia, in fondo, “a parte la guerra non era successo ancora molto”. Leggo questa osservazione folgorante nel “romanzo di fatti” di Christiane Kohl intitolato Villa Paradiso, ambientato proprio in Toscana e che illumina la complessità tra i ranghi delle forze armate tedesche, mostrando parecchie e diverse possibilità dell’agire umano anche nella schiera dei carnefici, sebbene non appaiano disertori in senso stretto fino ai “titoli di coda” del libro, dove l’autrice racconta di un renano senza nome che, fuggito dal fronte orientale, raggiunge rocambolescamente i partigiani italiani per unirsi a loro. Le descrizioni di Kohl ci aiutano anche a restituire la giusta tinta – fosca – a quanto sta accadendo sulle colline toscane: “La regione si stava progressivamente trasformando in uno scacchiere su cui si svolgeva una guerriglia confusa e disordinata. I tedeschi, che vedevano avvicinarsi lo scacco matto, rappresentato dalle truppe inglesi sempre più vicine, si vendicavano con maggior accanimento sulle pedine più piccole, ovvero sulla popolazione civile italiana. Intanto gli abitanti si aspettavano che la guerra sarebbe terminata nel giro di pochi giorni, con l’arrivo degli alleati: la vita era come una violenta raffica di vento, capace di far precipitare la gente dalla speranza alla paura e viceversa, in una continua altalena”.
L’Autore
Carlo Greppi-
Carlo Greppi,storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento.Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018) e Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022).
RASSEGNA STAMPA
Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-
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