da “Tutte le poesie“Mondadori- dalla Rivista Avamposto
Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere. Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica».
Mi chiedi cosa vuol dire
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
Il benessere
Quanti hanno avuto ciò che non avevano:
un lavoro, una casa – ma poi
che l’ebbero ottenuto vi si chiusero.
Ancora per poco sarò tra voi.
Dal cuore del miracolo
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.
La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli istanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
GIOVANNI GIUDICI
Quando piega al termine
Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando
volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.
Ciao, Sublime
Tu, cosa della cosa
o Sublime.
Al di là della fine
e senza fine.
Senza principio
al di qua del principio.
Sublime – esser per essere.
Sublime – divenire.
Crisma dell’immanenza.
Sublime – stella fissa del durare.
Superfluità della coscienza.
Ciao, Sublime.
Ciao, Sublime.
Sublime che non si volta.
Sublime che non si ascolta.
Sublime senza prima
né ultima volta.
Io no – che sempre aspetto
il cominciare, l’apertura.
Io no – per poca fede.
Per poca paura.
Io – senza occhi per contemplarti.
Io che non ho ginocchi per adorarti.
Cosa della cosa.
Rosa della rosa.
Tu – rosa e cosa
ma senza le parole cosa e rosa.
Tu – non foglia che cresce
ma crescersi di foglia.
Tu – non mare che splende
ma splendersi del mare.
Tu – amore nell’amare.
Ciao, Sublime.
Ciao, Essere Umano semplicemente.
E io che passeggio con te.
Io che posso prenderti per mano.
Io che mi brucio di te
nel corpo, nella mente.
Maria de las angustias
Un massimo di impostura è inevitabile
Considerato quanto futile è il cuore:
Anche dalla finzione tuttavia il vero può nascere
Smascherata maschera all’incerto amore.
Egli fabbrica e notturno arzigògola
La via donde buscar el Levante:
A te sale e ti osa, Maria de las angustias,
Ti chiama presenza/assenza, essenza miracolante.
Ma tu per mano a angoli d’acque lo guidavi,
Che in ombre marezzavano le arcate discrete:
E lui con te così tortuosamente naturale
Nell’estraneità di quella quiete.
***
Maestra di enigmi
Affermate che basta una parola
E quella sola che nessuno ha –
Lei che trasvola via dalla memoria
Lucciola albale e falena
È nera spina di pena
Brùscolo a un occhio di storia –
Venisse al mio parlare
Èffeta e poi per sempre bocca muta
Al servo vostro stretto
Frugando sul sentiero
Dove non scende lume di pietà –
Se la felicità sia il nostro vero
O il nostro vero la felicità
L’amore dei vecchi
In una gloria di sole occidente
Vaneggi, mente stanca:
Inseguito prodigio non si adempie
Nell’aldiquà del fiore che s’imbianca
Ma tu, distanza, torna a ricolmarti
Tu a farti terra in questa ferma fuga
Mare di nuda promessa
Ai nostri balbettati passi tardi
E tu, voce, rimani
Persuàdici – un poco, un poco ancora
Nostro non più domani,
Usignolo dell’aurora.
Il mio delitto
Se scrivere era vivere
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un’isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto
GIOVANNI GIUDICI
Breve biografia di Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere.Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica». Dopo un breve periodo trascorso a Torino, nel 1958 è nella sede Olivetti di Milano, dove lavora come copywriter nella Direzione pubblicità e stampa. Nel 1953 pubblica la prima raccolta di versi, Fiorì d’improvviso. La vita in versi, uscito nel 1965, lo impone definitivamente all’attenzione di lettori e critici. Negli anni successivi dà alle stampe Autobiologia (1969, Premio Viareggio), O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984), Salutz (1986, Premio Librex-Guggenheim Montale), Prove del teatro (1953-1988) (1989), Fortezza (1990), Poesie (1953-1990) (1991), Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresie della sera (1999). Nel 2000 la sua opera poetica è raccolta nel Meridiano I versi della vita. Nel 2004 esce l’ultima raccolta, Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002. Muore a La Spezia il 24 maggio 2011.
Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 2014) dalla RIVISTA «Avamposto»
«Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
CONTATTI- RIVISTA «Avamposto»
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Agenzia NEV-500 anni di Anabattismo. Celebrazioni e iniziative in Italia
Roma (NEV), 21 gennaio 2025 –500 anni di Anabattismo, Il 21 gennaio 1525 nasceva a Zurigo il movimento Anabattista. Appartenente alla cosiddetta ala radicale della riforma, distinta dalla Riforma magistrale di Lutero, Calvino e Zwingli, gli anabattisti furono egualmente perseguitati da cattolici e protestanti per la loro pratica del battesimo degli adulti, o meglio dei credenti. Il loro supplizio, per tragica ironia, consisteva nell’annegamento.
500 anni di Anabattismo. Celebrazioni e iniziative in Italia
Cos’è il battesimo dei credenti? Lo abbiamo chiesto al Anabattismoautore fra l’altro della SCHEDA nev sugli Anabattisti.
Raffaele Volpe è stato Presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) e attualmente è Segretario del Dipartimento di Teologia della stessa UCEBI.
Il battesimo dei credenti è “la possibilità di rispondere sì al sì di Dio. Quindi, è la confessione pubblica della propria fede all’interno della comunità. Battesimo dei credenti indica quell’età alla quale si ha consapevolezza, comprensione della propria fede e la si può confessare. Non c’è un limite minimo o massimo” ha detto Volpe.
Anche in Italia si celebra il Cinquecentenario del movimento anabattista, proprio per iniziativa dell’UCEBI. Sul motivo per cui a festeggiare questa ricorrenza sono, in modo particolare, i battisti, Volpe ha dichiarato: “In qualche modo noi ci sentiamo nipoti di questo movimento, in cui si ritrovano molte caratteristiche che si trovano anche nei battisti: il battesimo dei credenti, come abbiamo detto, la dimensione della comunità locale, l’assenza totale di gerarchie. Quindi il battismo, anche soltanto idealmente, si riconosce nell’Anabattismo”.
Il primo appuntamento ufficiale di questo 500° anniversario è per sabato 25 gennaio, con l’incontro con il pastore Raffaele Volpe su attualità dell’anabattismo.
Curato dall’Associazione delle Chiese battiste del Nord-Est, l’incontro si terrà presso la Chiesa battista di Marghera, via Canetti 25 – via Rinascita 24, a partire dalle 15.30 (vd. volantino allegato: 25 gennaio 2025 – L’attualità dell’Anabattismo).
Il 9 marzo, un nuovo appuntamento a cura dell’Associazione lombarda delle Chiese battiste, presso la Chiesa battista di via Pinamonte a Milano, dal titolo “Ricordare per agire, agire per sperare” (vd. volantino allegato). A seguire, da aprile in poi, sono in calendario anche altri incontri in tutta Italia.
Le celebrazioni per i 500 anni del movimento anabattista coinvolgono anche avventisti e pentecostali e l’UCEBI sta lavorando insieme a loro per una sorta di “Triennio sull’anabattismo”.
Come ha spiegato Volpe, c’è “una matrice comune fra battisti, avventisti, pentecostali, chiesa dei fratelli – rappresentata in questo caso dal GBU (Gruppo biblico universitario, la casa editrice). Stiamo sviluppando questo appuntamento su tre anni, partendo proprio dal 21 gennaio. Ricorre proprio oggi quel primo battesimo, di quindici credenti, che simbolicamente rappresenta l’inizio del movimento.
La cosiddetta Confessione di Schleitheim, o “Fraterno accordo di alcuni figli di Dio riguardo a sette articoli” (1527). Immagine tratta dalla Storia dell’anabattismo vol.1 Dalle origini a Münster (1525-1535) di Ugo Gastaldi, ed. Claudiana
Fu durante un culto serale a casa di Felix Mantz, che venne poi condannato e annegato qualche anno dopo nel lago di Zurigo. Concluderemo poi ricordando la famosa confessione di Schleitheim del 1527, riflettendo sull’essere comunità che nascono e si riconoscono intorno a una confessione di fede, a un ordinamento, a un’idea di chiesa”. In collaborazione con queste altre chiese sono previsti due simposi, il cui programma è in fase di definizione.
Nel 2010 la Federazione luterana mondiale (FLM) e la chiesa mennonita, la maggiore denominazione nata dall’anabattismo ancora esistente, hanno condiviso un percorso di riconciliazione. L’Assemblea della FLM infatti votò all’unanimità un documento di richiesta di perdono, sia per le persecuzioni del Cinquecento, sia per aver sottovalutato nei secoli successivi quei fatti. Il documento era stato redatto da una commissione di studio congiunta luterano-mennonita riunitasi dal 2005 al 2009 e portò fra l’altro a modificare gli articoli della Confessione di Augusta, base dell’espressione di fede luterana, che condannavano il movimento anabattista.
Fonte-Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
Scheda curata dal pastore battista Raffaele Volpe
Raffaele Volpe è stato Presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) e attualmente è Segretario del Dipartimento di Teologia della stessa UCEBI.-Il movimento anabattista nasce nel 1525, nell’ambito di quei processi di riforma della chiesa che ebbero inizio nel 1517 a Wittenberg ad opera dell’ex-monaco Martin Lutero. Il 21 gennaio 1525, dopo un estenuante braccio di ferro con le autorità riformate di Zurigo, un gruppo di persone, perduta ogni speranza di vedere riconosciuta la loro libertà religiosa, decise di compiere un atto che Zwingli, padre della riforma di Zurigo, definì ‘la parola d’ordine di uomini sediziosi’. Quell’atto fu il battesimo dei credenti! Durante un culto serale a casa di Felix Mantz, condannato e annegato qualche anno dopo nel fiume Limmat, quindici persone ricevettero il battesimo dei credenti. L’origine del nome ‘anabattisti’, che significa ‘ribattezzatori’, è legata a questo evento battesimale e fu utilizzato in modo dispregiativo da coloro che li perseguitarono.
Qualche anno dopo, ma senza alcuna diretta relazione con gli eventi zurighesi, nacquero in Germania e nei Paesi Bassi altri movimenti anabattisti, ragion per cui è opportuno ricordare che la storia delle origini anabattiste non può limitarsi alla domanda su dove ebbe inizio questo movimento, ma deve dedicarsi allo studio delle sue origini plurali. La pluralità delle sue origini è alla base di una sua pluralità teologica che ha comportato posizioni anche antitetiche in merito a svariate questioni; ad esempio, sull’atteggiamento che la chiesa deve avere nel suo rapporto con il potere secolare, si possono identificare almeno tre posizioni: 1. Un cristiano fa parte di una realtà minoritaria e perseguitata che rifiuta l’uso della spada e non partecipa alla vita politica (i Fratelli svizzeri e gli Articoli di Schleitheim); 2. Un cristiano può partecipare alla vita politica perché un governatore cristiano governerà meglio di un governatore non cristiano (Balthasar Hubmaier); 3. Un cristiano che ha una responsabilità politica non può usare la forza della spada per difendere la chiesa (Pilgram Marpeck).
Tuttavia, le differenti posizioni, anche se in alcuni casi crearono delle divisioni, il più delle volte diedero vita a dialoghi costruttivi che produssero una forma di ‘meticciato teologico’. Il resto dell’opera, invece, fu compiuto dalla persecuzione che fu generalizzata (coinvolse luterani, riformati e cattolici) e metodica, costringendo i gruppi sopravvissuti a ritirarsi in comunità separate.
500 anni di Anabattismo
La più antica chiesa mennonita in Pennsylvania, immagine tratta da Protestantesimo nei secoli. Fonti e documenti. Vol. 1: Cinquecento e Seicento. di Emidio Campi, ed. Claudiana
Sopravvissero due rami dell’anabattismo: i mennoniti (da Menno Simons) e gli hutteriti (da Jakob Hutter) e la ragione fu preminentemente politica: i mennoniti nei Paesi Bassi e gli hutteriti in Moravia trovarono governatori più tolleranti.
Oggigiorno, quasi tutti gli hutteriti vivono nel Canada occidentale e nelle Grandi Pianure settentrionali degli Stati Uniti. Mentre i Mennoniti, la comunità più numerosa, vive soprattutto negli Stati Uniti, sulle coste caraibiche in Honduras, in Paraguay (soprattutto tra i discendenti degli immigrati tedeschi) e in Canada. In realtà, c’è un’altra comunità anabattista sopravvissuta, gli Amish (da Jakob Ammann), nati da una costola più conservatrice all’interno della comunità anabattista svizzera. La stragrande popolazione amish vive negli Stati Uniti.
La teologia anabattista nasce dall’elaborazione di un’esperienza di oppressione e di persecuzione. È una teologia di un gruppo marginalizzato e assume sia aspetti di resistenza sia toni profetici nei confronti del ‘mondo’. Questi sono i temi principali di questa teologia: 1. L’unità tra fede e vita: l’esperienza della salvezza per mezzo della grazia avviene, a livello individuale, con la nuova nascita. Qui si colgono gli intrecci essenziali tra il battesimo dei credenti, il discepolato e una vita vissuta alla luce del potere trasformativo dello Spirito alla luce di Romani 12; 2. La chiesa visibile: è nella comunità locale che il perdono, il discernimento e la responsabilità vengono amministrati come doni di Dio. Qui si colgono gli intrecci essenziali tra la condivisione dei beni, l’esperienza religiosa dell’abbandono e il senso di disciplina alla luce di Matteo 18; 3. La missione: la chiesa è discepola di Dio nel mondo, sia con l’annuncio del Vangelo sia attraverso la trasformazione dei conflitti. Qui si colgono gli intrecci essenziali tra la resistenza non violenta, l’impegno per la pace e la denuncia di forme di oppressione e di discriminazione alla luce del sermone sul monte (Matteo 5-7).scheda curata dal pastore battista Raffaele Volpe
Fonte-Servizio stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia via Firenze 38, I-00184 Roma tel. (+39) 06 4825 120 – (+39) 06 483 768
Il 15 gennaio del 1914 nasceva Etty Hillesum, la scrittrice olandese di origini ebraiche morta ad Auschwitz il 30 novembre del 1943. La pubblicazione, da parte di Adelphi, dell’edizione integrale prima del Diario e ora delle Lettere ci permette di conoscere da vicino la vita e il pensiero di questa straordinaria donna, che, quanto più la realtà intorno a lei si faceva orribile e insostenibile, tanto più seppe immergersi nella sua interiorità, scoprendone le profondità e le ricchezze ineusaribili e traendone la forza per amare chiunque incontrava.
L’incalzare della storia e della persecuzione nazista la distolsero progressivamente dai suoi amati studi, la letteratura russa e Rilke su tutti, portandola a scegliere in libertà di operare a Westerbork, il centro dove i tedeschi raccoglievano gli ebrei prima di mandarli a morire ad Auschwitz. Lei stessa, il 7 settembre del 1943, fu caricata su un convoglio diretto al lager insieme al padre, alla madre e al fratello Mischa.
Non esiste modo migliore di ricordarla, nel centenario della nascita, che leggere e meditare la sua storia, ben tramandata nei due volumi citati. È quello che vogliamo fare in questo spazio, lasciandole la parola. Ascoltiamo la sua voce, tratta dalle Lettere (Adelphi), immaginandola mentre si aggira per il campo di Westerbork a consolare e incoraggiare, senza che il sorriso si spegnesse mai sulle sue labbra.
«Arrabbiarsi ed essere scontenti non è produttivo; soffrire davvero per qualcosa è produttivo, e precisamente perché nella scontentezza, nell’arrabbiarsi c’è una passività attiva, mentre nella sofferenza c’è un’attività passiva».
«Questo momento storico, così come lo stiamo vivendo adesso, io ho la forza di sostenerlo, di portarlo tutto sulle mie spalle senza crollare soto il suo peso, e posso perfino perdonare Dio, che le cose vadano come devono andare. Il fatto è che si ha tanto amore in sé, da riuscire a perdonare Dio!!!».
«Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati».
«Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive».
«Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti. E assenza di odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più facile e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale».
«La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli che qui ti vengono quotidianamente addosso, e in questi dettagli si perde e annega. Così non tiene d’occhio le grandi linee, smarrisce la rotta e trova la vita assurda. (…) E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con l’intera famiglia».
«A ogni nuovo crimine o orrore dovremmo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo indenni a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra a guerra finita. Forse sono una donna ambiziosa, ma anch’io vorrei dire una parolina».
Articolo di Paolo Perazzolo-Fonte Famiglia Cristiana
Poeta cileno VICENTE HUIDOBRO-Poesia MONUMENTO AL MARE-
VICENTE HUIDOBRO
Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral.
MONUMENTO AL MARE
Pace sulla costellazione cantante delle acque Scontrate come gli ombri della moltitudine Pace nel mare alle onde di buona volontà Pace sulla lapide dei naufragi Pace sui tamburi dell’orgoglio e le pupille tenebrose E se io sono il traduttore delle onde Pace anche su di me.
Ecco qui lo stampo pieno di frantumi del destino Lo stampo della vendetta Con le sue frasi iraconde che si staccano dalle labbra Ecco qui lo stampo pieno di grazia Quando sei dolce e stai lì ipnotizzato dalle stelle
Ecco qui la morte inesauribile dal principio del mondo Perché un giorno nessuno se ne andrà a spasso per il tempo Nessuno lungo il tempo lastricato di pianeti defunti
Questo è il mare Il mare con le sue onde proprie Con i suoi propri sensi Il mare che cerca di rompere le sue catene Che vuole imitare l’eternità Che vuole essere polmone o nebbiolina di uccelli in pena O il giardino degli astri che pesano nel cielo Sulle tenebre che trasciniamo O che forse ci trascinano Quando volano di repente tutte le colombe della luna E si fa più oscuro dei crocevia della morte
Il mare entra nel carro funebre della notte E si allontana verso il mistero dei suoi paraggi profondi S’ode appena il rumore delle ruote E l’ala degli astri che soffrono nel cielo Questo è il mare Che saluta laggiù lontano l’eternità Che saluta gli astri dimenticati E le stelle conosciute.
Questo è il mare che si desta come il pianto di un bambino Il mare che apre gli occhi e cerca il sole con le piccole mani tremanti Il mare che spinge le onde Le sue onde che mescolano i destini
Alzati e saluta l’amore degli uomini
Ascolta le nostre risa e anche il nostro pianto Ascolta i passi di milioni di schiavi Ascolta la protesta interminabile Di quell’angoscia che si chiama uomo Ascolta il dolore millenario dei petti di carne E la speranza che rinasce dalle proprie ceneri ogni giorno.
Anche noi ti ascoltiamo Rimuginando tanti astri catturati nelle tue reti Rimuginando eternamente i secoli naufragati Anche noi ti ascoltiamo
Quando ti rigiri nel tuo letto di dolore Quando i tuoi gladiatori si battono tra di loro
Quando la tua collera fa esplodere i meridiani Oppure quando ti agiti come un gran mercato in festa Oppure quando maledici gli uomini O fingi di dormire Tremante nella tua grande ragnatela in attesa della preda.
Piangi senza sapere perché piangi E noi piangiamo credendo di sapere perché piangiamo Soffri soffri come soffrono gli uomini Che tu possa ascoltare digrignare i tuoi denti nella notte E rigirarti nel tuo letto Che l’insonnio non ti lasci placare le tue sofferenze Che i bambini prendano a sassate le tue finestre Che ti strappino i capelli Tosse tosse faccia esplodere in sangue i tuoi polmoni Che le tue molle si arrugginiscano E tu venga calpestato come cespuglio di tomba
Però sono vagabondo e ho paura che mi ascolti Ho paura delle tue vendette Dimentica le mie maledizioni e cantiamo insieme stanotte Fatti uomo ti dico come io a volte mi faccio mare Dimentica i presagi funesti Dimentica l’esplosione delle mie praterie Io ti tendo le mani come fiori Facciamo la pace ti dico Tu sei il più potente Che io stringa le tue mani nelle mie E sia la pace tra di noi
Vicino al mio cuore ti sento Quando ascolto il gemito dei tuoi violini Quando stai lì steso come il pianto di un bambino Quando sei pensieroso di fronte al cielo Quando sei dolorante tra le tue lenzuola Quando ti sento piangere dietro la mia finestra Quando piangiamo senza ragione come piangi tu.
Ecco qui il mare Il mare dove viene a scontrarsi l’odore delle città Col suo grembo pieno di barche e pesci e altre cose allegre Quelle barche che pescano sulla riva del cielo Quei pesci che ascoltano ogni raggio di luce Quelle alghe con sonni secolari E quell’onda che canta meglio delle altre
Ecco qui il mare Il mare che si distende e si afferra alle sue rive Il mare che avvolge le stelle nelle sue onde Il mare con la sua pelle martirizzata E i sussulti delle sue vene Con i suoi giorni di pace e le sue notti di isteria
E all’altro lato che c’è all’altro lato Che nascondi mare all’altro lato L’inizio della vita lungo come un serpente O l’inizio della morte più profonda di te stesso E più alta di tutti i monti Che c’è all’altro lato La millenaria volontà di fare una forma e un ritmo O il turbine eterno dei petali troncati
Ecco lì il mare Il mare spalancato Ecco lì il mare spezzato all’improvviso Affinché l’occhio veda l’inizio del mondo Ecco lì il mare Da un’onda all’altra c’è il tempo della vita Dalle sue onde al mio occhio c’è la distanza della morte.
Traduzione di Gianni Darconza per Raffaelli Editore
Breve biografia di Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral. Il creazionismo vuole fare della poesia uno strumento di creazione assoluta, in modo che i segni linguistici acquistino valore per la loro capacità di esprimere bellezza in sé e non per il loro significato sostanziale. Huidobro stesso descrisse, nella sua raccolta di saggi Manifesti, del 1925, cosa sia una poesia creata: «È una poesia nella quale ogni parte che la costituisce, e tutto l’insieme, mostra un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno, slegato da qualunque altra realtà che non sia la propria, che prende il suo posto nel mondo come fenomeno singolo, a parte, distinto dagli altri. Questa poesia è qualcosa che non può esistere se non nella testa del poeta. E non è bella perché ricorda qualcosa, perché ricorda cose viste, a loro volta belle, né perché descriva cose belle che potremmo anche vedere. È bella in sé e non ammette termini di comparazione. E nemmeno può essere concepita fuori dal libro. Niente le somiglia del mondo esterno; rende reale quel che non esiste, cioè si fa realtà a se stessa. Crea il meraviglioso e gli dà vita propria. Crea situazioni straordinarie che non potranno mai esistere nel mondo oggettivo, per cui dovranno esistere nella poesia perché esistano da qualche parte. Quando scrivo: “L’uccello fa il nido nell’arcobaleno”, si presenta un fatto nuovo, qualcosa che non avevate mai visto, che mai vedrete e che tuttavia vi piacerebbe molto vedere. Il poeta deve dire quelle cose che mai si direbbero senza di lui. Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; ci danno in ogni momento il vero sublime, quel sublime del quale i testi ci presentano esempi tanto poco convincenti. E non si tratta del sublime eccitante e grandioso, ma di un sublime senza pretese, senza terrore, che non vuole opprimere o schiacciare il lettore: un sublime da taschino. La poesia creazionista si compone di immagine create, di situazioni create, di concetti creati; non stiracchia alcun elemento della poesia tradizionale, salvo che in essa quegli elementi sono integralmente inventati, senza preoccuparsi assolutamente della loro realtà o veridicità precedenti l’atto della realizzazione».
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea, secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Elegia
Troppo orgoglioso per morire, morì debole e cieco
Nel più oscuro dei modi, e non indietreggiò,
Un uomo freddo; e gentile, coraggioso nel suo angusto amor
proprio!
Nel più oscuro dei giorni. Oh, possa egli per sempre
Riposare sereno, finalmente, sull’estrema collina
Delle croci, sotto l’erba, in amore, e qui tra i lunghi
Stormi ringiovanire, e mai giacere smarrito
O inerte i giorni innumerevoli della sua morte,
Benché sopra ogni cosa desiderasse il seno di sua madre.
Che era polvere e sonno, e nella terra cortese
La nera giustizia della morte, cieca e sconsacrata.
Che non trovi mai requie ma sia generato e mantenuto,
Pregai nella stanza accovacciante, presso il suo cieco letto,
Nella casa attutita, qualche secondo prima
Di mezzogiorno, e col buio, e alla luce. Il fiume dei morti
Gli venava la povera mano che stringevo, e io vedevo
Attraverso i suoi occhi senza lume le radici del mare.
Questo pane che spezzo
Questo pane che spezzo un tempo era frumento,
questo vino su un albero straniero
nei suoi frutti era immerso;
l’uomo di giorno o il vento nella notte
piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell’uva.
In questo vino, un tempo, il sangue dell’estate
batteva nella carne che vestiva la vite;
un tempo, in questo pane,
il frumento era allegro in mezzo al vento;
l’uomo ha spezzato il sole e ha rovesciato il vento.
Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
devastare le vene, erano un tempo
frumento ed uva, nati
da radice e linfa sensuali.
E’ il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.
E morte non avrà dominio
E morte non avrà dominio.
E i morti nudi saranno uno
Con l’uomo nel vento e la luna occidentale;
Quando le loro ossa saranno scarnificate e dissolte,
Avranno stelle ai gomiti e ai piedi;
Per quanto impazziti saranno savi,
Per quanto affondino nel mare torneranno a risorgere;
Per quanto gli amanti si perdano amore resterà;
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Sotto i gorghi del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Torcendosi ai tormenti al cedere dei tèndini,
Legati a una ruota, pur non si romperanno;
Si spaccherà la fede in quelle mani,
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Strappati da ogni lato non si spaccheranno
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Mai più possano i gabbiani gridargli agli orecchi
Né onde frangersi furiose sulle rive;
Dove fiore sbocciò possa fiore mai più
Sollevare il capo agli scrosci della pioggia;
Per quanto impazzite e morte come chiodi,
Le teste di quei tali martellano fra le margherite;
Irromperanno nel sole fin che il sole cadrà,
E morte non avrà dominio.
Non andartene docile in quella buona notte
Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
Perchè dalle loro parole non diramarono fulmini
Non se ne vanno docili in quella buona notte,
I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide
Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
Troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.
Biografia di Dylan Marlais Thomas( 1914-1953)-
Dylan Marlais Thomas, poeta gallese
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea,secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Appassionatosi alla poesia fin da piccolo, scrive i primi componimenti già a undici anni sul giornalino della scuola, arrivando a pubblicare “Diciotto poesie”, la sua prima raccolta, nel 1934. Il debutto è clamoroso, e suscita scalpore nei salotti letterari di Londra. La lirica più nota è “And death shall have no dominion”: la morte è, insieme all’amore e alla natura, uno dei temi più importanti delle sue opere, incentrate sull’unità drammatica ed estatica del creato. Nel 1936 Dylan Thomas pubblica “Venticinque poesie” e sposa Caitlin MacNamara, ballerina che gli darà tre figli (tra i quali Aeronwy, futura scrittrice).
Trasferitosi in una casa sul mare a Laugharne, nella cosiddetta Boathouse, scrive molte poesie nella solitudine di quello che in “The writing shed” descrive come il suo capanno verde. A Laugharne è ispirata anche Llareggub, località immaginaria che farà da sfondo al dramma “Under milk wood”. Nel 1939 Thomas pubblica “Il mondo che respiro” e “La mappa dell’amore”, cui fa seguito, nel 1940, una raccolta di storie dall’evidente matrice autobiografica, intitolata “Ritratto dell’artista da cucciolo”.
Nel febbraio del 1941, Swansea viene bombardata dalla Luftwaffe: subito dopo i raid, il poeta gallese scrive un dramma radiofonico, “Return journey home”, che descrive il Kardomah Cafè della città come raso al suolo. A maggio, Thomas e la moglie si trasferiscono a Londra: qui egli spera di trovare lavoro nell’industria del cinema, e si rivolge al direttore della divisione film del Ministero dell’Informazione. Non avendo ricevuto risposta, ottiene comunque un impiego presso la Strand Films, per la quale sceneggia cinque pellicole: “This is colour”, “New towns for old”, “These are the men”, “Conquest of a germ” e “Our country”.
Nel 1943 intraprende una relazione con Pamela Glendower: solo una delle tante scappatelle che hanno contraddistinto e contraddistingueranno il suo matrimonio. Nel frattempo, la vita del letterato si caratterizza anche per vizi ed eccessi, sperpero di denaro e alcolismo: un’abitudine che conduce la sua famiglia sino alle soglie della povertà. E così, mentre nel 1946 viene edito “Death and entrances”, il libro che costituisce la sua consacrazione definitiva, Dylan Thomas deve fare i conti con i debiti e la dipendenza dall’alcol, nonostante i quali ottiene comunque la solidarietà del mondo intellettuale, che lo assiste moralmente ed economicamente.
Nel 1950 intraprende un tour di tre mesi a New York, su invito di John Brinnin. Nel corso del viaggio in America, il poeta gallese viene invitato a numerose feste e celebrazioni, e non di rado si ubriaca, diventando molesto e rivelandosi un ospite difficile da gestire e scandaloso. Non solo: spesso beve anche prima delle letture che deve tenere, al punto da far sì che la scrittrice Elizabeth Hardwick si chieda se arriverà un momento in cui Thomas crollerà sul palco. Tornato in Europa, egli inizia a lavorare a “In the white giant’s thigh”, che ha modo di leggere nel settembre del 1950 in televisione; comincia a scrivere anche “In country heaven”, che però non viene mai completato.
Dopo un viaggio in Iran effettuato per la lavorazione di un film della Anglo-Iranian Oil Company che poi non vedrà mai la luce, lo scrittore fa ritorno in Galles per scrivere due poesie: “Lament” e “Do not go gentle into that good night”, un’ode dedicata al padre morente. Nonostante le numerose personalità che gli offrono un sostegno economico (la Principessa Margherita Caetani, Margaret Taylor e Marged Howard-Stepney), egli si trova sempre a corto di soldi, così che si risolve a scrivere diverse lettere di richieste di aiuto a importanti esponenti della letteratura del tempo, tra cui T.S. Eliot.
Confidando nella possibilità di ottenere altri lavori negli Stati Uniti, compra a casa a Londra, a Camden Town, al 54 di Delancey Street, per poi attraversare nuovamente l’Oceano Atlantico nel 1952, insieme con Caitlin (che vuole seguirlo dopo avere scoperto che nel viaggio americano precedente lui l’aveva tradita). I due continuano a bere, e Dylan Thomas diventa sempre più sofferente a causa di problemi ai polmoni, complice il tour de force americano che lo porta ad accettare quasi cinquanta impegni.
E’, questo, il secondo dei quattro tour nella Grande Mela. Il terzo va in scena nell’aprile del 1953, quando Dylan declama una versione non definitiva di “Under milk wood” all’Università di Harward e al Poetry Centre di New York. La realizzazione del componimento, per altro, è piuttosto turbolenta, e viene completata solo grazie all’assistente di Brinnin, Liz Reitell, che chiude a chiave in una camera Thomas per costringerlo a lavorare. Con la stessa Reitell egli passa gli ultimi dieci giorni del suo terzo viaggio newyorchese, per una breve ma passionale relazione amorosa.
Tornato in Gran Bretagna non prima di essersi rotto un braccio cadendo dalle scale mentre era ubriaco, Thomas è sempre più malato. Nell’ottobre del 1953 si reca a New York per un altro tour di letture delle sue opere e conferenze: afflitto da problemi respiratori e dalla gotta (per le quali in Gran Bretagna non si era mai curato), affronta il viaggio nonostante le sue difficoltà di salute e portando con sé un inalatore per respirare meglio. In America, festeggia il sue trentanovesimo compleanno, anche se deve abbandonare la festa organizzata in suo onore a causa dei soliti malanni.
Il clima e l’inquinamento della Grande Mela si rivelano letali per la salute già precaria dello scrittore (che tra l’altro continua a bere alcol). Ricoverato al St. Vincent’s Hospital in stato di coma etilico dopo essersi ubriacato, Dylan Thomas muore a mezzogiorno del 9 novembre 1953, ufficialmente per le conseguenze di una polmonite. Oltre a “Under milk wood”, verranno pubblicati postumi anche “Adventures in the skin trade”, “Quite eraly one morning”, “Vernon Watkins” e le lettere scelte “Selected letters”.
Emily Dickinson – Ho trovato le parole per ogni pensiero-a cura di Franco Lonati-illustrazioni di Maria Lojacono
Presentazione del libro della celebre scrittrice Emily Dickinson con Sara Bignotti, curatrice della collana “Parola dell’Arte”, Franco Lonati, curatore del libro, Maria Lojacono, illustratrice del libro e Massimo Tedeschi, presidente dell’AAB.Mercoledì –
Brescia 29 gennaio 2025, ore 18, presso la Sala del Romanino, all’interno della sede di AAB – Associazione Artisti Bresciani, sita in Vicolo delle Stelle 4, Brescia, si terrà la presentazione del libro di poesie: “HO TROVATO LE PAROLE PER OGNI PENSIERO” di Emily Dickinson, il libro contiene una raccolta di poesie e lettere curata da Franco Lonati e arricchita dalle tavole a colori di Maria Lojacono.Durante la serata intervengono Sara Bignotti, curatrice della collana “Parola dell’Arte”, Franco Lonati, curatore del libro, Maria Lojacono, illustratrice del libro e Massimo Tedeschi, presidente dell’AAB.
Emily Dickinson è una poetessa di livello internazionale fortemente riconosciuta dal pubblico e dalla critica. La sua originalità consiste nella capacità di ripensare ogni cosa per se stessa: “riconcettualizzarla” in poesia. È il filo rosso che guida questa raccolta di poesie e lettere, tradotte e curate da Franco Lonati, resa unica dal contributo artistico di Maria Lojacono, autrice di tavole a colori con le quali interpreta la sfida visionaria dickinsoniana: ripensare il mondo attraverso le immagini. I versi sono dedicati a Natura e Bellezza; Morte e Immortalità; Amore e Dolore; Fama e Successo; Poesia e Sensibilità.
Emily Dickinson (USA 1830 – 1886) è considerata tra le più importanti poetesse in lingua inglese.
Franco Lonati insegna Letteratura inglese presso l’Università Cattolica di Brescia. Ha tradotto e curato edizioni di autori di lingua inglese.
Maria Lojacono è diplomata alla scuola Internazionale Comics, ha illustrato molti volumi.
Napsound: Arriva al Teatro India di Roma il recital partenopeo tra musica e poesia-
Dal 18 al 23 febbraio 2025 il Teatro India di Roma ospita Napsound, un recital che intreccia la potenza della poesia napoletana con un ritmo musicale incalzante. Al centro dello spettacolo, le parole e i suoni si rincorrono, dando vita a un dialogo continuo che attraversa epoche e identità.
Le composizioni di Eduardo De Filippo, Totò, Raffaele Viviani e Ferdinando Russo si mescolano in un fluire narrativo che evidenzia le trasformazioni dei ruoli e delle figure umane. Così, il giudice di Eduardo si trasfigura nel dio cattivo di Russo, mentre la donna borghese di Totò si riflette nella figura più complessa della folla incitata da Viviani. Una metamorfosi costante, capace di sorprendere e commuovere.
Musiche elettroniche si intrecciano ai versi, suggerendo riflessioni sulle connessioni invisibili tra passato e presente, tra il singolo e la collettività. In questo flusso di parole e ritmi, Napsound diventa un ponte tra tradizione e innovazione, un luogo in cui ogni spettatore può riconoscere un frammento di sé.
Il Teatro India si trova nel crocevia dei quartieri più vivaci di Roma – Testaccio, Ostiense e Marconi – e vicino alla riva del Tevere, precisamente sul Lungotevere Vittorio Gassman.
Edward Taylor, Poeta nordamericano (Sketchley, Leicester, 1642 circa – Westfield, Massachusetts, 1729) –
Edward Taylor Poeta nordamericano
Edward Taylor Poeta nordamericano (Sketchley, Leicester, 1642 circa – Westfield, Massachusetts, 1729). Scelta la via dell’esilio dall’Inghilterra a causa del suo dissenso in seno alla comunità protestante, si stabilì nel 1668 presso la colonia della Massachusetts Bay, dove divenne amico dei Mather e di S. Sewall. Completati gli studî di teologia alla Harvard University, dal 1671 fu ministro di culto a Westfield.
Preparatory Meditations – First Series: 1
What love is this of Thine that cannot be
In Thine infinity, O Lord, confined,
Unless it in Thy very person see
Infinity and finity conjoined?
What hath Thy godhead, as not satisfied,
Married our manhood, making it its bride?
Oh matchless love! Filling heaven to the brim!
O’errunning it: all running o’er beside
This world! Nay, overflowing hell; wherein
For Thine elect there rose a mighty tide!
That there our veins might through Thy person bleed,
To quench those flames that else would on us feed.
Oh! that Thy love might overflow my heart!
To fire the same with love: for love I would.
But oh! my straitened breast! my lifeless spark!
My fireless flame! What chilly love, and cold?
In measure small! In manner chilly! See.
Lord, blow the coal: Thy love enflame in me.
Head of a White Woman Winking
She has one good bumblebee
which she leads about town
on a leash of clover.
It’s as big as a Saint Bernard
but also extremely fragile.
People want to pet its long, shaggy coat.
These would be mostly whirling dervishes
out shopping for accessories.
When Lily winks they understand everything,
right down to the particle
of a butterfly’s wing lodged
in her last good eye,
so the situation is avoided,
the potential for a cataclysm
is narrowly averted,
and the bumblebee lugs
its little bundle of shaved nerves
forward, on a mission
from some sick, young godhead.
Edward Taylor Poeta nordamericano
Prologue From Preparatory Meditations Before my Approach to the Lord’s Supper
Lord, can a crumb of dust the earth outweigh,
Outmatch all mountains, nay the crystal sky?
Imbosom in’t designs that shall display
And trace into the boundless deity?
Yea, hand a pen whose moisture doth gild o’er
Eternal glory with a glorious glore.
If it is pen had of an angel’s quill,
And sharpened on a precious stone ground tight,
And dipped in liquid gold, and moved by skill
In crystal leaves should golden letters write,
It would but blot and blur, yea, jag and jar,
Unless Thou mak’st the pen and scribener.
I am this crumb of dust which is designed
To make my pen unto Thy praise alone,
And my dull fancy I would gladly grind
Unto an edge on Zion’s precious stone;
And write in liquid gold upon Thy name
My letters till Thy glory forth doth flame.
Let not th’ attempts break down my dust I pray,
Nor laugh Thou them to scorn, but pardon give.
Inspire this crumb of dust till it display
Thy glory through’t: and then Thy dust shall live.
Its failings then Thou’lt overlook, I trust,
They being slips slipped from Thy crumb of dust.
Thy crumb of dust breathes two words from its breast,
That Thou wilt guide its pen to write aright
To prove Thou art and that Thou art the best
And shew Thy prosperties to shine most bright.
And then Thy works will shine as flowers on stems
Or as in jewelary shops do gems.
Happy as the Day Is Long
I take the long walk up the staircase to my secret room.
Today’s big news: they found Amelia Earhart’s shoe, size 9.
1992: Charlie Christian is bebopping at Minton’s in 1941.
Today, the Presidential primaries have failed us once again.
We’ll look for our excitement elsewhere, in the last snow
that is falling, in tomorrow’s Gospel Concert in Springfield.
It’s a good day to be a cat and just sleep.
Or to read the Confessions of Saint Augustine.
Jesus called the sons of Zebedee the Sons of Thunder.
In my secret room, plans are hatched: we’ll explore the Smoky Mountains.
Then we’ll walk along a beach: Hallelujah!
(A letter was just delivered by Overnight Express–
it contained nothing of importance, I slept through it.)
(I guess I’m trying to be ‘above the fray.’)
The Russians, I know, have developed a language called ‘Lincos’
designed for communicating with the inhabitants of other worlds.
That’s been a waste of time, not even a postcard.
But then again, there are tree-climbing fish, called anabases.
They climb the trees out of stupidity, or so it is said.
Who am I to judge? I want to break out of here.
A bee is not strong in geometry: it cannot tell
a square from a triangle or a circle.
The locker room of my skull is full of panting egrets.
I’m saying that strictly for effect.
In time I will heal, I know this, or I believe this.
The contents and furnishings of my secret room will be labeled
and organized so thoroughly it will be a little frightening.
What I thought was infinite will turn out to be just a couple
of odds and ends, a tiny miscellany, miniature stuff, fragments
of novelties, of no great moment. But it will also be enough,
maybe even more than enough, to suggest an immense ritual and tradition.
And this makes me very happy.
Edward Taylor Poeta nordamericano
The Joy If Church Fellowship Rightly Attended
In heaven soaring up, I dropped an ear
On earth: and Oh, sweet melody:
And listening, found it was the saints who were
Encroached for Heaven that sang for joy.
For in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Oh, joyous hearts! Enfired with holy flame!
Is speech thus tassled with praise?
Will not your inward fire of joy contain:
That it in open flames doth blaze?
For in Christ’s coach saints sweetly sing,
As they to glory ride therein.
And if a string do slip by chance, they soon
Do screw it up again, whereby
They set it in a more melodious tune
And a diviner harmony.
For in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
In all their acts, public and private, nay,
And secret too, they praise impart.
But in their acts divine and worship, they
With hymns do offer up their heart.
Thus in Christ’s coach they sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Some few not in; and some whose time and place
Block up this coach’s way do go
As travelers afoot, and so do trace
The road that gives them right thereto,
While in this coach these sweetly sing,
As they to glory ride therein.
Preparatory Meditations – Second Series: 143
(Canticles 6:10. Who is She that Looks Forth as the Morning,
Fair as the Moon, Clear as the Sun, Terrible as an Army with Banners)
Wonders amazed! Am I espoused to Thee?
My glorious Lord? What! Shall my bit of clay
Be made more bright than brightest angels be,
Look forth like as the morning every way?
And shall my lump of dirts wear such attire?
Rise up in heavenly ornaments thus, higher?
But still the wonders stand, shall I look like
The glorious morning that doth gild the sky
With golden beams that make all day grow light,
And view the world o’er with its golden eye?
And shall I rise like fair as the fair moon,
And bright as in the sun, that lights each room?
When we behold a piece of China clay
Formed up into a China dish complete,
All spiced o’er with gold sparks display
Their beauty all under a glass robe neat,
We gaze thereat, and wonder rise up will,
Wond’ring to see the Chinese art and skill.
How then should we and angels but admire
Thy skill and vessel Thou hast made bright thus
Out for to look like to the morning tire
That shineth out in all bright heavenly plush?
Whose golden beams all varnish o’er the skies
And gild our canopy in golden wise?
Wonders are nonplussed to behold Thy spouse
Look forth like to the morning whose sweet rays
Gild o’er our skies as with transparent boughs
Like orient gold of a celestial blaze.
Fair as the moon, bright as the sun, most clear,
Gilding with spiritual gold grace’s bright sphere.
O blessed! Virgin spouse, shall thy sharp looks
Gild o’er the objects of thy shining eyes
Like fairest moon and brightest sun do th’ fruits
Even as that make the morning shining rise?
The fairest moon in ‘ts socket’s candle-light
Unto the night and th’ sun’s day’s candle bright.
Thy spouse’s robes all made of spiritual silk
Of th’ web wove in the heaven’s bright loom indeed,
By the Holy Spirit’s hand more white than milk
And fitted to attire thy soul that needs.
As th’ morning bright’s made of the sun’s bright rays,
So th’ Spirit’s web thy soul’s rich loom o’erlays.
I frown, chide, strike, and fight them, mourn and cry
To conquer them, but cannot them destroy.
I cannot kill or coop them up: my curb
‘S less than a snaffle in their mouth: my reins
They as a twine thread snap: by hell they’re spurred:
And load my soul with swagging loads of pains.
Black imps, young devils, snap, bite, drag to bring
And pick me headlong hell’s dread whirlpool in.
Lord, hold Thy hand: for handle me Thou mayst
In wrath: but oh, a twinkling ray of hope
Methinks I spy Thou graciously display’st.
There is an advocate: a door is ope.
Sin’s poison swell my heart would till it burst,
Did not a hope hence creep in ‘t thus and nurse ’t.
Joy, joy, God’s son’s the sinner’s advocate,
Doth plead the sinner guiltless, and a saint.
But yet attornies’ pleas spring from the state,
The case is in: if bad, it’s bad in plaint.
My papers do contain no pleas that do
Secure me from, but knock me down to, woe.
I have no plea mine advocate to give:
What now? He’ll anvil arguments great store
Out of His flesh and blood to make thee live.
O dear-bought arguments: good pleas therefore.
Nails made of heavenly steel, more choice than gold
Drove home, well-clenched, eternally will hold.
Oh! Dear-bought plea, dear Lord, what buy ‘t so dear?
What with Thy blood purchase Thy plea for me?
Take argument out of Thy grave t’ appear
And plead my case with, me from guilt to free.
These maul both sin and devils, and amaze
Both saints and angels; wreathe their mouths with praise.
What shall I do, my Lord? What do, that I
May have Thee plead my case? I fee Thee will
With faith, repentance, and obediently
Thy service gainst Satanic sins fulfill.
I’ll fight Thy fields while live I do, although
I should be hacked in pieces by Thy foe.
Make me Thy friend, Lord, be my surety: I
Will be Thy client, be my advocate:
My sins make Thine, Thy pleas make mine hereby.
Thou wilt me save, I will Thee celebrate.
Thou’lt kill my sins that cut my heart within:
And my rough feet shall Thy smooth praises sing.
Edward Taylor was an American Puritan poet and minister of the Congregational church at Westfield, Massachusetts for over 50 years. Considered one of the more significant poets to appear in America in the 17th and 18th centuries, his fame is the result of two works, the Preparatory Meditations … (written 1682–1725) and Gods Determinations touching his Elect … (written 1682?). But he also wrote many other poems during his long life, and he was an indefatigable preacher. Over 60 of his sermons are extant as well as a long treatise, The Harmony of the Gospels. With the exception of two stanzas of verse, his works were unpublished in his lifetime.
Taylor’s birth year and place are still unknown, but the most convincing evidence indicates that he was born in 1642 in the hamlet of Sketchley, Leicestershire, England. His mother, Margaret, died in 1657, and his father, William, a yeoman farmer, in 1658. The civil war was raging in Leicestershire during his infancy, but by 1650 the future poet was enjoying the peace and stability of a prosperous midland farm. His poetry is replete with imagery drawn from the farm and from the countryside of both Old and New England. The Leicestershire dialect occasionally appears in his colloquial verses, as do words drawn from the weaver’s trade (in which he may have been employed at nearby Hinckley).
Educated by a nonconformist schoolmaster, Taylor taught school for a short time at Bagworth. His firm religious convictions as a Protestant dissenter, formed in childhood and strengthened in the favorable atmosphere of Cromwell’s regime, were severely tested during the first years of the Restoration. He refused to sign the Act of Uniformity of 1662 and was therefore prevented from teaching school and from worshiping in peace. On April 26, 1668, he sailed from Execution Dock, Wapping, bound for the Massachusetts Bay Colony.
His earliest verses, written in England, exhibit his lifelong love of the Protestant cause and his anti-Anglican and anti-Roman position. In “A Dialogue between the writer and a Maypole Dresser” the young poet berates the maypole dancers for worshiping the Roman harlot Flora when they “sacrificed a slaughtered tree to her.” He attacked the Church of Rome with the same kind of invective in the long poem written toward the end of his life, The Metrical History of Christianity. The most eloquent of his early poems, “The Lay-mans Lamentation,” praises the zeal of the dissenting preachers silenced by the Act of Uniformity, which finally drove Taylor himself to the Bay Colony. In “A Letter sent to his Brother Joseph Taylor and his wife after a visit” Taylor exhibited his early interest in acrostic verse, a form in which he continued to write in Massachusetts. The names of himself, his brother, and his brother’s wife appear in the initial and final letters of each line.
The hardships of Taylor’s crossing of the Atlantic during the 70 days in which his ship was slowed by calms and buffeted by contrary winds are described in his diary, which also includes perceptive observations of natural phenomena, and of birds and fish, anticipating the imagery of his later poetry. On July 5, 1668, Taylor disembarked at Boston, and, after a visit with Charles Chauncy, president of Harvard College, he entered Harvard on July 23 as an upperclassman. He was the college butler in charge of kitchen utensils and responsible for collecting payment for food and drink consumed from the buttery—a position usually given a mature upperclassman. Taylor’s life at Harvard for the next three years was busy and rigorous with recitations, disputations, and lectures carried on in Latin; with studies in Greek, Hebrew, logic, metaphysics, rhetoric, and astronomy; and with daily morning and evening prayers.
During his student years, Taylor continued to write poetry, including elegies on Zecharia Symmes, Francis Willoughby, and John Allen—all members of the Board of Overseers of Harvard College who died when Taylor was in residence at Harvard. Also extant is a fragment of an elegy that may be on the famous Richard Mather, founder of the Mather dynasty, who died in 1669. An elegy on Charles Chauncy, who died in 1672, was written during Taylor’s first year at Westfield. All of these verses are similar in style, displaying more wordplay and wit than genuine feeling. The poem to Willoughby is an acrostic, and the verses to Chauncy are an elaborate double acrostic. They are an interesting historical addition to the corpus of 17th-century funeral verse but are of little literary value. Taylor’s later elegies to his wife and to Samuel Hooker are much more successful exercises in the genre.
After graduating with his class from Harvard College in 1671, Taylor was faced with the necessity of choosing a vocation. He decided to become a resident scholar at Harvard, and on November 16, he was, according to his diary, “instituted … scholar of the house.” However, a few days later he was persuaded to undertake the hazardous journey of a hundred miles through deep snowdrifts in the dead of winter to Westfield to become minister to that small farming community in the Bay Colony. He remained in Westfield for the rest of his life, with only occasional visits to Boston and other New England towns.
By 1673 Taylor had a parsonage and a new, small meetinghouse, built to serve also as a fort during the Indian troubles. The worshipers were summoned to meeting by the roll of a drum. By the summer of 1674 Taylor had fallen in love with Elizabeth Fitch of Norwich. On September 8th, he sent her a love letter written in the florid rhetoric of the period, and the next month he composed for her an elaborate acrostic love poem. They were married on November 5, 1674 and had eight children, five of whom died in infancy.
King Philip’s War began in June 1675 and was waged with savage ferocity on both sides. In the spring of 1676 the citizens of Westfield were asked to consider removal to the larger town of Springfield for their protection, but Taylor refused the invitation, and Westfield escaped serious damage. During these troubled times Taylor apparently composed little or no verse. The Indian chief King Philip was killed in August 1676, and with the coming of peace Taylor was finally able to organize his church. At his ceremony of ordination on August 27, 1679, Taylor preached his first extant sermon: A Particular Church is Gods House, in which he demonstrates with his customary Calvinistic rigidity that the members of this “Particular Church” at Westfield are among God’s chosen people, the elect, as distinct from the damned; for all people, he said, are “either in a State of Wrath, or a State of Favourits.”
Taylor now resumed his poetic activity. By about 1682 (the date is conjectural) he was composing his major poem Gods Determinations touching his Elect: and The Elects Combat in their Conversion, and Coming up to God in Christ together with the Comfortable Effects thereof. The long title (typical of the period) indicates the subject and movement of the poem—the various ways of God in converting the predestined elect to Christianity (specifically to orthodox Congregationalism) and the spiritual joys of saving grace once the Christian has ascertained the effects of grace in his soul. The poem is somewhat polemical in tone, suggesting that Taylor may have intended to publish it and distribute it to the citizens of Westfield for the purpose of convincing some of the more recalcitrant members of the community to accept saving grace and to enter into full communion with the church. There are a number of passages written to convince the reader that past sins are not certain signs of damnation and that excessive doubts as to a person’s worthiness to accept full membership in the church are the devil’s work. The poem was not published in Taylor’s lifetime, but passages may have been read to his congregation during Sunday morning worship or at evening prayer meetings.
In justifying the ways of God to the elect and in exposing the machinations of the devil, Taylor had a number of previous works—such as John Milton’s Paradise Lost (1667), John Bunyan’s The Holy War (1682), Michael Wigglesworth’s The Day of Doom (1662), and Lorenzo Scupoli’s The Spiritual Conflict (translated from the Italian in 1613)—which could have served as models for his own poem of spiritual combat. A possible source for the psychological aspects of Taylor’s poem, and one much closer to home, is William Ames’s Conscience with the Power and Cases thereof (1639), a copy of which (in Latin) was in Taylor’s library. Ames’s psychological profile of the devil as one who tempts men to damnation by convincing them they are not of the elect is similar to Taylor’s concept of Satan. Sermons and tracts depicting what John Downame called Christian Warfare (1633), that is the clash between personified virtues and vices, were numerous in Taylor’s day, and despite what some scholars have suggested, they probably had more influence on the poem than did the morality plays or the Elizabethan drama.
Gods Determinations touching his Elect … is a dramatization of Taylor’s Calvinistic religious beliefs concerning predestination, creation, the nature of God, original sin, saving grace, redemption through faith in Christ, the division of mankind into the damned and the elect, and the joys of eternal salvation. There is some allegory, and the devil reminds us of the personified vices of the morality plays, but the poem is not an exercise in symbolism nor in Neoplatonism. Heaven and hell are depicted as real places. Christ, Satan, and the angels may sometimes take on the physical attributes of real persons.
The major part of the poem depicts the various methods by which God, through Christ, brings salvation to the elect. The struggle for their salvation is dramatically presented as a combat for the souls of the elect between Mercy and Justice on the one hand and the devil on the other. The effect of sin on natural man and the combats for his redemption are graphically presented, often in a colloquial, down-to-earth style. Of disobedient man’s terror of God’s wrath Taylor writes:
Then like a Child that fears the Poker Clapp
Him on his face doth on his Mothers lap
Doth hold his breath, lies still for fear least hee
Should by his breathing lowd discover’d bee.
Satan, raging at those of the elect who deserted him for Christ, says that now they have two enemies—God and Satan—both of whom will never trust them: “You’l then have sharper service than the Whale, / Between the Sword fish, and the Threshers taile.”
For the modern reader the most interesting part of the poem, perhaps, is to be found in what Taylor calls “Satans Sophestry,” in the devil’s psychological warfare against those who may wish to think of themselves as the elect. His temptations range from appeals to the baser passions to the attempt by subtle arguments to insinuate doubts in the soul’s assurance of saving faith. One of his most insidious arguments is that, if a person has any doubts at all about the possibilities of his spiritual regeneration, then he is not one of the elect because God is supposed to give the elect assurance of saving faith. On the other hand, if a person believes he is assured of saving faith, then he (poor sinner that he is) is guilty of pride, the cardinal sin, and so damned. Another line of attack is to convince the sinner that his so-called love of God is really love of self (a sin) and that his real motivation is fear of hell and desire for the joys of heaven. A third method of attack is what Taylor calls the “ath’istick Hoodwinke”—that the attributes of the Christian God—his ubiquitousness and his incarnation in “a mortal clod”—are contrary to reason and to common sense and that in fact God does not exist. These arguments and many more were probably suggested to Taylor by such books as William Ames’s Conscience with the Power and Cases thereof.
Gods Determinations touching his Elect …, unlike Milton’s Paradise Lost, is a “dated” poem, quite obviously of its period. It does not have the universal and permanent appeal of Milton’s epic, nor can Taylor at any time equal the skill of Milton’s blank verse. The poem is like an anthology of poems written in various meters and in various styles, sometimes colloquial, sometimes ornate, sometimes plain and direct, but it is given coherence and dramatic effectiveness by a single theme (the redemption of the elect) and a single narrative line (the rise of the elect from anguish and despair to the glories of heaven).
At about the same time he was writing Gods Determinations touching his Elect …, Taylor was also composing a series of occasional poems. Only one can be dated precisely—“Upon the Sweeping Flood Aug: 13:14. 1683.” This, the most powerful of the series, has been widely admired. (Joyce Carol Oates used its title as the title for a collection of her short stories.) The flood, which Taylor refers to in his church record, is given allegorical and religious significance: the storm and flood were sent by God to drown man’s carnal love, for the sins of man have acted as a purge on the heavens. Allegorizing natural events, “occurants” as Taylor called them, was habitual among Puritan writers. Several other occasional poems are also allegorical. The spider in “Upon a Spider Catching a Fly” is the devil destroying sinful, natural man, and in “The Ebb and Flow” the tide suggests Taylor’s rising and falling expectations of election. Allegory occurs also in Taylor’s most moving occasional poem, two stanzas of which, published in Cotton Mather’s Right Thoughts in Sad Hours … (1689), were the only lines by Taylor to appear in print during his lifetime. “Upon Wedlock and Death of Children,” written in 1682 or 1683, refers to the deaths of two of his children and to his marriage to Elizabeth Fitch, which he calls a “True-Love Knot.” The word knot has the 17th-century meaning of “garden” as well as the modern meaning. Because theirs is true love, the knot can never be untied; it is a Gordian knot. From this garden sprang four flowers, two of which grew to maturity, two of which died: “But oh! the tortures, Vomit, screechings, groans, / And six weeks Fever would pierce hearts like stones.” But Taylor’s grief is assuaged with the acceptance of God’s will:
Lord, theyre thine.
I piecemeal pass to Glory bright in them.
I joy, may I sweet Flowers for Glory breed,
Whether thou getst them green, or lets them seed.
In 1682 Taylor embarked upon Preparatory Meditations before my approach to the Lords Supper, a series of more than two hundred poems grouped in two series written, “Chiefly upon the Doctrin preached upon the Day of administration.” Unpublished until the 20th century, the poems are a private spiritual diary of great significance to our understanding of the religious and psychological history of the period. The poems are uneven in poetic merit and frequently repetitious in theme and diction, but a few of them are written in the metaphysical and baroque style and may properly be considered the last exemplars of the metaphysical school.
In his imagery Taylor frequently made use of the metaphysical conceit of what Samuel Johnson called, in commenting on Donne, discordia concors “a combination of dissimilar images … the most heterogenous ideas are yoked by violence together.” But Taylor is sometimes even more fantastic than Donne. His imagery may be as extravagant as that of Crashaw or the now-forgotten poet John Cleveland, whom Taylor mentions in his poem on Pope Joan. Today we would call such yoking of images surrealistic, as in his famous line “Should Stars Wooe Lobster Claws.” The strongest influence from the metaphysical school is George Herbert, an Anglican poet and preacher, widely respected by the American Puritans in spite of doctrinal differences and especially admired by Taylor, who was perhaps at his best when writing under Herbert’s influence, as in meditation six of the first series, “Am I thy Gold?”
In his diction Taylor combined the colloquial with the cosmic (again like Donne), employing abstruse theological or philosophical terms with the homely idiom of the farm or the weaver’s trade. The line “My tazzled Thoughts twirld into Snick-snarls run” illustrates his fondness for “domestic diction” and also the influence of the 16th-century rhetorician Petrus Ramus, the followers of whom eschewed the ornate style and, like Emerson later, preached that the poet should “fasten words to things.” Taylor’s frequent use of the plain style is Ramist. His occasional employment of the ornate style is derived from the King James version of the Bible, and especially from the Song of Solomon, which Taylor loved and which had a pervasive influence on his last meditations. Taylor also employed, sometimes to excess, the various rhetorical devices of the 16th- and 17th-century handbooks such as irony, synecdoche, metonymy, meiosis (diminishing), and amplification. He was especially fond of amplification, which combined with ploce (repetition of a word) and polyptoton (repetition of a word root) results in what Yvor Winters has called “a punning piety.” In meditation 2.48 he writes with reference to the devil and the powers of darkness:
Their Might’s a little mite, Powers powerless fall.
My Mite Almighty may not let down slide.
I will not trust unto this Might of mine:
Nor in my Mite distrust, while I am thine.
In the emblem tradition as it appears in the poetry of Francis Quarles (1592–1644), a poet the Puritans admired, a poem makes a moral, epigrammatic comment on a picture that illustrates a theological or philosophical idea. The tradition is also evident in Taylor’s verse, most obviously “Upon a Spider Catching a Fly,” where the spider in his web symbolizes the devil. Typology as used in biblical exegesis—an object, event, or person in the Old Testament (the type) foreshadows an object, event, or person in the New Testament (the Antitype)—is also pervasive, especially in the meditations of the second series. The Jewish Passover considered as a type of Christian Communion, or Lord’s Supper as Taylor called it, is one of Taylor’s favorite constructs.
Taylor’s meditations are an important part of a long tradition of meditation writing in verse and prose, beginning, as far as verse is concerned, with Robert Southwell and continuing through John Donne, George Herbert, Richard Crashaw, Henry Vaughan, Andrew Marvell, Thomas Traherne, and, finally, Taylor. Richard Baxter’s treatise, The Saints Everlasting Rest (1650), which had considerable influence on meditation writing in verse, advocated an orderly method of meditation involving the three faculties of the soul—memory, understanding, and will (the emotions) in that order. Louis Martz has shown in his introduction to Donald E. Stanford’s edition of Taylor’s poems that some of Taylor’s Preparatory Meditations … are organized according to this tripartite division. Frequently the Puritan poet appears to be following another threefold pattern—despair as he contemplates the sins of mankind and his own personal sin, joy when he thinks of Christ’s promise of redemption to the elect, and hope and resolution when he considers the possibility that he too may be one of the elect. There are also many meditations that appear to have no preset pattern. Taylor was writing at the end of, that is during the decadence of, the meditative tradition, and his poems usually do not have the closely-knit logical organization of the best poems of Donne and Herbert.
Of the more than 200 meditations, a number appear to be independent or occasional poems, but some form well-defined, coherent groups. The central theme of the 49 poems of the first series is love—the divine love of God and Christ for man as proven by Christ’s saving grace to the elect and, conversely, the human love that the elect should have for Christ and God. Three unnumbered poems, entitled “The Experience,” “The Return,” and “The Reflexion,” which Taylor placed among his first meditations, graphically depict the minister-poet’s love of Christ, and one of them, “The Reflexion,” presents what appears to be a mystic moment in which Taylor actually saw a vision of Christ at the Communion table:
Once at thy Feast, I saw thee Pearle-like stand
‘Tween Heaven, and Earth where Heavens
Bright glory all
In streams fell on thee, as a floodgate and,
Like Sun Beams through thee on the
World to Fall.
The experience may have been the inspiration for the first series of preparatory meditations. The meditations consist of poems contemplating the truths of the scripture as seen typologically; attacks on the various “heresies” which are not in agreement with his view of Christ’s perfect humanity and divinity; and moving statements of Taylor’s belief in the perfect humanity and perfect divinity of Christ. Toward the end of his life Taylor wrote a series of meditations (series two, 115–133) on sequential texts from the Song of Solomon, or Canticles, which many Christians of the 17th century considered to be an allegorical poem celebrating the “wedding” of Christ with the members of his church. Taylor adopts the view of Origen, a church father whom he greatly admired, that Canticles may be interpreted as a celebration of the wedding of Christ with the individual soul. In these moving poems, heavily influenced by the diction and imagery of the Bible, Taylor meditates on his union with Christ with almost mystical intensity.
In 1688, when he heard that Stoddard was about to allow unregenerate sinners to partake of the Lord’s Supper, Taylor sent him a letter opposing the move. Stoddard laconically replied that he was not at leisure to go into the reasons for his innovation and then proceeded to liberalize the communion service in the manner Taylor feared. The church at Northampton appears to have followed Stoddard’s practice until his grandson, the great Calvinist preacher Jonathan Edwards, returned to the conservative restrictions of former days, a decision which was eventually instrumental in his being discharged of his duties as pastor of that church and sent out to preach to the Indians. The controversy over Stoddard’s practice was widespread and bitter; yet it was engaged in by some of the chief pastors of the period, including Increase and Cotton Mather.
In 1690 Taylor entered in his commonplace book six syllogisms arguing that the Lord’s Supper is not a converting ordinance, and in this same year, after reading a sermon by Stoddard defending his practice, he wrote in his book 34 pages of animadversions against Stoddard. He made use of this material in 1694 in his series of sermons preached on his own doctrine of the Lord’s Supper. In the course of these sermons he continually attacks Stoddard for destroying a precious sacrament.
The first Mrs. Taylor died on July 7, 1689. Taylor’s moving elegy on her describes the joys and griefs of their married life, especially those caused by the deaths of their children, and his own grief at the death of the children’s mother:
Five Babes thou tookst from me before this Stroke.
Thine arrows then into my bowells broake,
But now they pierce into my bosom smart,
Do strike and stob me in the very heart.
On June 6, 1692, Taylor married Ruth Wyllys of Hartford, who survived him.
Late in 1697 Taylor engaged in controversy with Benjamin Ruggles, pastor of the church at Suffield in the Bay Colony, who began to express what Taylor considered to be dangerous Presbyterian views, dangerous not for doctrinal reasons—for the doctrines of the two churches were almost identical—but because Presbyterianism would deprive the independent Congregational minister of power over his church and place it in the hands of a church synod. Taylor’s struggle against the establishment of Presbyterianism in New England is described in the Westfield church record and is referred to in his poem on the death of Samuel Hooker (circa 1635–1697), minister of the Congregational church in Farmington, Connecticut. In this most powerful of all of Taylor’s elegies Ruggles is referred to as one of several “Young Cockerills” and Presbyterianism is called “refined Prelacy at best.” The next year Taylor wrote an elegy on his sister-in-law Mehetabel Woodbridge. On January 18, 1701 James Taylor, Taylor’s son by his first wife, died in Barbados. The poet refers to his death in meditation 2.40: “Under thy Rod, my God, thy smarting Rod, / That hath off broke my James, that Primrose, Why?” In the same year Taylor began, on August 31, a series of fourteen sermons, entitled Christographia, on the nature of Christ’s person and the unity of the divine and human natures in Christ. The series was finished on October 10, 1703. In his day, Taylor had a reputation for pulpit eloquence. His Harvard classmate Samuel Sewall wrote in his Letter-Book, “I have heard him preach a sermon at the Old South upon short warning which as the phrase in England is, might have been preached at Paul’s Cross,” Sewall, who lived in Boston, had access to the best preaching of the day. Taylor’s poetry was almost completely unknown in his lifetime, but now that almost all of Taylor’s extant poetry and prose have been published, it seems unlikely that his reputation as a preacher will ever equal his reputation as a poet. In his sermons he never exhibits the power and the beauty of the great Calvinist preacher Jonathan Edwards.
In structure and style his sermons are in the tradition of the Puritan preaching of his time. There is usually a three-fold structure—doctrine, reason, and use—or as Taylor put it on the title page of Christographia, each sermon is “Opened, Confirmed, and Practically improved.” The purpose of the Puritan sermon was to explain the scripture and to instruct the congregation in the practical application of scriptural doctrine. Taylor came naturally to the plain style he employed, for most Puritan divines preferred it to the learned and ornate style of the Anglican preachers. Yet he was also preaching to a congregation of poorly educated farmers for whom a plain style and at times colloquial diction were necessary. He refers to the Quakers as “the old Clucking hen of antichrist” and to natural man as “a mushroom.” In his attacks on Stoddard he refers to the Communion bread: “Hands off: its Childrens bread; a Crumb of it may not fall to dogs. But all of it belongs to every Child in the Family.” However, Taylor’s talent as a poet sometimes appears in his sermons, especially in passages depicting the sweetness of saving grace and the mystical union of Christ and the believer.
In June 1705 the bones of a “monster” were discovered at Claverack on the bank of the Hudson River near Albany, New York. The discovery caused considerable excitement, and accounts of the remains appeared in the Boston News-Letter and several years later in the Philosophical Transactions of the Royal Society. At the time their discovery was considered proof of the existence of giants in the earth before the flood. Today the bones are thought to be mastodon remains, the first to be discovered in America.
At least two of the teeth were brought to Taylor in Westfield for examination. He claimed that one weighed five pounds, the other two. Combining this evidence with the report that a 17-foot-long thigh bone had also been discovered and that the ground was discolored for 70 feet, Taylor constructed in his imagination a marvelous giant 70-foot-tall and described him in a remarkable poem of 190 verses, entitled “The Description of the great Bones dug up at Claverack …” Taylor, like his contemporaries Increase and Cotton Mather, had a fondness for prodigies and remarkable providences.
Early in the 18th century (the exact date has never been determined) Taylor began a long poem that eventually ran to well over 20,000 lines. The first part of the poem presents the sufferings and persecutions of the Christians from the beginning until the 12th century, and, after a lacuna in the manuscript, there is an account of the martyrdoms of Queen Mary’s reign in England. The poem is untitled. Donald E. Stanford, who in 1960 made and later published a transcript of the poem, called it A Metrical History of Christianity. The primary sources are the Magdeburg Centuries (1567–1574) of Matthias Flaccus and the well-known book Actes and Monuments of these Latter Perilous Days, first published in English in 1563 and usually known as The Book of Martyrs by John Foxe. Written in decasyllabic couplets and in eight other verse forms, Taylor’s long and frequently tedious poem is uneven in literary merit, varying from the crudest doggerel to exalted hymns to God’s grace. There are a few powerful lines on the operation of God’s justice, but there are also unnecessarily detailed descriptions of the physical agonies of the martyrs and some extremely vitriolic language in several attacks on the Papacy reminiscent of the pamphlet war of the previous century.
Taylor was ill and enfeebled in the final years of his life, but he persisted in writing poems until almost the end. “Upon my recovery out of a threatening Sickness,” which begins, “What, is the golden Gate of Paradise / Lockt up ‘gain that yet I may not enter?,” was written in December 1720. In January 1721 he composed “A Valediction to all the World preparatory for Death,” a flawed, eccentric, but moving, poem (which exists in several heavily corrected versions). In it Taylor bids farewell to the physical world including the stars, sun, moon, and air, while he eagerly anticipates the joys of singing, above the angels, God’s praises in heaven. Throughout the eight cantos he enumerates in vivid detail the pleasures and sorrows of earthly life, including his “study, Books, Pen, Inke, and Paper,” all of which he is about to relinquish for his life in a heaven which he believes in and depicts with absolute conviction:
When I’ve skipt ore the purling Stile with joy
Twixt Swift wing’d Time and Fixt Eternity
And am got in the heavenly strand on High
My Harp shall sing thy praise melodiously.
In 1723 Taylor wrote his elegy on Increase Mather (1639–1723), who had died on August 23. The long title begins “Increase Mather,” Mather is praised as a champion of Congregational orthodoxy, and his opponents, especially the Roman Catholics who made Mather “their Maypole Music,” are denounced at some length. Timothy Cutler, a rector of Yale University who defected to Anglicanism, is more briefly dismissed: “Cutler’s Cutlery gave th’ killing Stob.” In October 1725 Taylor wrote his last preparatory meditation, which begins: “Heart sick my Lord heart sick of Love to thee!” During his final years Taylor composed a scurrilous attack upon the so-called Pope Joan, the legendary Pope John VIII of the 9th century, who according to some Protestant apologists was a woman disguised as a man. The myth had wide circulation from medieval times through the 17th century. The poem is in six versions or drafts and several fragments, indicating that Taylor spent more time on the poem than it was worth.
Taylor died on June 24, 1729 and was interred in the old burying ground at Westfield, Massachusetts. His interesting tombstone, engraved with the face of a primitive angel, fell into disrepair but has now been reconstructed.
Francesco Daveri- Un cristiano per la libertà -di Alessandro Forlani
Francesco Daveri nacque il 1° gennaio 1903 a Piacenza da Cesare e Carolina Maldotti, una famiglia, come egli stesso avrebbe ricordato, «povera e numerosa»:il padre era impiegato presso la curia vescovile e i figli della coppia furono sette (due maschi e cinque femmine). Dopo aver frequentato le scuole elementari, D. fu ammesso al seminario vescovile, dove svolse le cinque classi del ginnasio, per poi superare nel 1919 il concorso per accedere al Collegio Alberoni, la prestigiosa istituzione piacentina per la formazione del clero che aveva anche annoverato personalità destinate al successo nelle diverse discipline scientifiche. Non avvertendo la vocazione religiosa, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, mantenendosi negli studi con il proprio lavoro fino al 1926, quando si laureò a pieni voti. Nel frattempo, iscrittosi anche al Partito popolare italiano nel 1921, divenne socio della Società della gioventù cattolica italiana, entrando nel 1922 nel consiglio della Federazione diocesana, di cui fu segretario per la propaganda nel 1924 e per le missioni nel 1926. Nel periodo universitario fece parte anche della Fuci, di cui fu il reggente del segretariato di Piacenza dal 1927 al 1929. Dopo due anni di praticantato legale, D. aprì uno studio insieme a Giuseppe Arata, con il quale, dopo aver condiviso la militanza nella Gioventù cattolica, avrebbe collaborato anche nella Resistenza su posizioni differenti, in quanto socialista. D. sposò Margherita Castagna, con la quale ebbe cinque figli, entrando, secondo le disposizioni statutarie, nell’Unione uomini di Azione cattolica. Ma a partire dal 1930 il suo impegno si concentrò prevalentemente sull’antifascismo attivo. Partecipò alle attività del Movimento guelfo d’azione, promuovendo la diffusione dei manifestini prodotti dal gruppo. Allacciò contatti con esponenti socialisti. Rimase in rapporto con i dirigenti del disciolto Partito popolare che non si erano piegati al regime. Nella seconda metà degli anni Trenta, quando fu aperta anche a Piacenza la sezione, D. prese parte alle iniziative del Movimento laureati di Azione cattolica e a partire dagli inizi del 1943, dopo la fondazione in diocesi dello Studium Christi, fu coinvolto nelle attività di questo centro che, pur avendo un taglio culturale, fu uno spazio prezioso nel maturare le prospettive per il dopoguerra. Le attività clandestine si intensificarono durante la II Guerra mondiale. Dopo lo sfollamento della famiglia a Bobbio, in provincia di Piacenza, alla fine del 1942, D. decise di rimanere a Piacenza, oltre che per continuare la professione, anche per non allentare l’opposizione al regime che si era fatta sempre più intensa. All’indomani della caduta del fascismo, che maturò il 25 luglio 1943, a Bettola diede fuoco pubblicamente a un ritratto di Mussolini, gettando i frammenti incandescenti dal balcone della pretura verso la folla che stava manifestando con spirito anche divertito per la scena. Intervenne anche per far scarcerare quanti avevano manifestato nel capoluogo per la caduta del duce presso il prefetto Amerigo De Bonis, il quale il 1º settembre 1943 lo nominò membro della giunta provinciale amministrativa. In seguito all’armistizio, fu tra i fondatori del Comitato di liberazione nazionale di Piacenza, che si costituì e poi si riunì a più riprese nel suo studio di via Pavone. Si attivò immediatamente per organizzare il rifornimento di armi per le prime bande partigiane che si andavano formando nell’Appennino piacentino. Lo stretto controllo del territorio seguito all’occupazione nazista accentuò la pressione sulle sue iniziative. Il Tribunale straordinario provinciale il 30 gennaio 1944 spiccò un mandato di cattura per l’oltraggio compiuto all’indomani della destituzione di Mussolini. Avvisato in tempo, D. si nascose in città, preparando la difesa in vista del processo, che si chiuse in contumacia nel marzo del 1944 con la «faziosa sentenza», determinata in cinque anni di reclusione. D. scrisse una dura lettera, diffusa in città, al prefetto Davide Fossa, al quale imputava la responsabilità di un recente eccidio, con la minaccia di rappresaglia da parte delle forze partigiane. Nel nascondiglio, preparò anche messaggi da inviare alla Resistenza. Il 15 marzo 1944, sotto il falso nome di Lorenzo Bianchi, mentre cercava di varcare il confine verso la Svizzera, fu fermato dalle guardie di frontiera, che lo trattennero e, dopo una estenuante trattativa, gli permisero il varco. Espletate le consuete procedure previste per i rifugiati, fu spostato alla casa d’Italia a Lugano, dove trovò alcuni antifascisti cattolici con i quali era in rapporto amicale, e poi fu spostato a Loverciano. Nel Ticino, comunque, D., su incarico del Clnai, fece da raccordo tra la Resistenza del Nord Emilia e gli alleati. Oltre a inserirsi nel dibattito politico che fu animato tra i rifugiati italiani, attraverso la fidata segretaria dello studio professionale, Bruna Tizzoni, che effettuò diversi viaggi in Svizzera, riallacciò i rapporti con la Resistenza della sua terra. Questi servirono anche per farli fruttare all’interno della rete dello Special Operation Executive, il servizio segreto inglese attivato durante la guerra, per conto del quale D. cominciò a operare. Attraverso questo canale, nel luglio del 1944 rientrò clandestinamente in Italia, operando prevalentemente a Milano sotto mentite spoglie, in collegamento con i servizi di informazione della Resistenza. Non smise però di tenere relazioni importanti con il piacentino, cercando anche di orientare a distanza la rappresentanza democristiana all’interno dell’organismo di coordinamento locale. La sua attività più importante fu comunque l’incarico di ispettore militare del Nord Emilia per conto del Clnai, che lo mise in continuo contatto con Ferruccio Parri ed Enrico Mattei. Nell’ottobre del 1944 D. rientrò nel piacentino, dove tenne alcuni incontri rivelatisi cruciali per il consolidamento in senso unitario della Resistenza, che lo consacrarono come punto di riferimento imprescindibile. Il 18 novembre, nel corso di un’operazione che fu favorita anche dall’«incompetenza» di altri delle «regole cospirative», fu arrestato a Milano e condotto al carcere di San Vittore, dove fu registrato con il nome di Lorenzo Bianchi, secondo quanto attestava il documento d’identità falso. Interrogato brutalmente dalle Ss, non rivelò informazioni compromettenti, addossandosi anzi la responsabilità per tentare di scagionare quanti erano stati arrestato con lui. Per un principio di congelamento al piede fu ricoverato nell’infermeria della struttura, anche se i reiterati tentativi per liberarlo, per il tramite del consolato inglese di Lugano non riuscirono. Il 17 gennaio 1945 D. fu deportato al campo di concentramento di Gries, nei pressi di Bolzano, da dove il 4 febbraio seguente, con l’ultimo convoglio di deportati italiani verso i lager nazisti, partì per la Germania, arrivando a Mauthausen il 7 febbraio successivo, venendo identificato con la piastrina n. 126.054. Una decina di giorni dopo fu assegnato al sottocampo di Gusen II, costretto al lavoro forzato nella cava di San Giorgio. Prostrato e ridotto allo stremo, D. fu ricoverato in infermeria, dalla quale il 30 marzo uscì febbricitante. Sentendo ormai prossima la liberazione, cercò di attingere alle residue energie per continuare il duro lavoro, ma, senza riuscire a resistere, fu bastonato. D. si spense dopo il 10 aprile 1945. Il certificato della Croce rossa internazionale, secondo il libro dei morti del campo, attestò come giorno del decesso il 13 aprile 1945 alle ore 6.50. Nel 1986 gli fu conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: «Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà».
Francesco Daveri
Onorificenze
Medaglia d’argento al valore militare
Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà.
Fonti e bibliografia
Luigi Donati, Ricordo di Francesco Daveri, A. Del Maino, Piacenza 1955.
Alessandro Forlani, Francesco Daveri (1903-1945). Un cristiano per la liberta, Emilstampa, Piacenza 1993.
Italo Londei, L’espatrio dell’avv. Francesco Daveri, in «Archivum bobiense», 25 (2003), pp. 499-508.
Claudio Oltremonti, Nelle S.P.I.R.E. del regime. Upi, Questura, Ovra, Mgir, missione alleate, intelligence partigiana a Piacenza (1943-1945), s.n.t., 2018.
Autore scheda: Paolo Trionfini-Fonte Biografie dei Resistenti
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Edith Bruck-Il pane perduto –Editore La nave di Teseo-
Edith Bruck-Il pane perduto
Descrizione del libro di Edith Bruck-Il pane perduto –Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.
Edith Bruck
Breve biografia di Edith Bruck,di origine ungherese, è nata nel 1931 in una povera, numerosa famiglia ebrea. Nel 1944 viene deportata nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuta ai lager nazisti, dopo anni di pellegrinaggio approda definitivamente in Italia, adottandone la lingua. Presso La nave di Teseo sono usciti: La rondine sul termosifone (2017), Ti lascio dormire (2019), Il pane perduto (2020, finalista al premio Strega e vincitore del premio Strega Giovani), Tempi (2020), Andremo in città (2021), Lettera alla madre (2022), Sono Francesco (2022) e Signora Auschwitz (2023). Nel 2023 ha vinto il premio Campiello alla carriera. Ha ricevuto le lauree honoris causa in Informazione, Editoria e Giornalismo (Roma Tre, 2018), Filologia moderna (Macerata, 2019) e Scienze filosofiche (Sassari, 2023).
Istituto della Enciclopedia Italiana –Edith Bruck Scrittrice ungherese naturalizzata italiana (n. Tiszabercel 1931). Reduce dell’Olocausto, sopravvissuta alla deportazione nei campi di concentramento di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen, ha trascorso gran parte della sua vita a raccontare la terribile esperienza con la sua arte, gli scritti e portando la propria testimonianza presso scuole e università, per mantenere viva la memoria. Trasferitasi in Italia ne ha adottato la lingua. B. ha collaborato con alcuni giornali, tra cui Il Tempo, il Corriere della Sera e Il Messaggero, occupandosi tra l’altro dei temi dell’identità ebraica e della politica di Israele. Il suo libro d’esordio è l’autobiografico Chi ti ama così del 1959. Dal volume di racconti Andremo in città (1962) N. Risi, con cui ha avuto un lungo sodalizio sentimentale e artistico, ha tratto l’omonimo film. Tra le altre opere si ricordano: Le sacre nozze (1969), Lettera alla madre (1988, Premio Rapallo), Nuda proprietà (1993), L’amore offeso (2002), Quanta stella c’è nel cielo (2009, Premio Viareggio), Il sogno rapito (2014), La rondine sul termosifone (2017), Ti lascio dormire (2019), Il pane perduto (2021, Premio Strega giovani, finalista al Premio Strega e Premio Viareggio-Rèpaci per la narrativa) e I frutti della memoria. La mia testimonianza nelle scuole (2024). Traduttrice, autrice teatrale e di poesie, sceneggiatrice e regista, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2021), nel 2023 è stata insignita del Premio Campiello alla carriera. Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
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