Donatella Bisutti è nata nel 1948 a Milano, dove vive. E’ giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (Boetti & C, 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, 2002), Piccolo bestiario fantastico (viennepierre edizioni, 2002), Colui che viene (Interlinea, 2005, con prefazione di Mario Luzi), Rosa alchemica (Crocetti, 2012). E’ in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Mondatori, 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda, 1997) e Estratti del corpo di Bernard Noel (Mondatori, 2001). Il suo testo poetico L’Amor Rosa è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). E’ nel comitato di redazione della rivista Poesia di Crocetti per cui cura la rubrica Poesia Italiana nel Mondo, nella redazione delle riviste Smerilliana e Electron Libre (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, Il vaso di Pandora, sulla rivista Odissea e una rubrica di interviste La cultura e il mondo di oggi sulla rivista di Renato Zero Icaro. Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. Dirige la rivista Poesia e Spiritualità. E’ membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata A mano libera per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi, Spaziani e Adonis. E’ tra i soci fondatori di Milanocosa.
POESIE
da INGANNO OTTICO
Vivendo Contro il vetro
il disegno di un respiro
– prima e dopo, invisibile.
Paura Non della morte, ma
della metamorfosi
– accettare di privarsi di sé
come acqua che si lasci versare
e prende forma da ciò che la contiene
e corre via – e l’assorbe la terra
ed è e non è più – senza pena, forse
eppure non va persa.
Lenta, arrischiata
ogni cosa matura
per un attimo
di colma beatitudine
poi trabocca
come l’acqua di un vaso
fugge la pienezza.
Canzone d’amore cannibale So che ti ritroverò
non potrai sfuggirmi
mia è l’immaginazione
catturato come un insetto e trafitto
immobilizzato spaventato rassegnato
comunque sarai
lì
farò di te quello che non vorrai
con calma mi appresterò a divorarti
l’amore non lascia niente sul piatto
neanche le chele.
Ti avrò mangiato e succhiato
svuotato
– non vorrei tuttavia che tu soffrissi
vorrei che godessi anche tu
della felicità immensa
dì essere cibo.
Conoscenza La conoscenza avviene per semplificazione Non è un aggiungere, ma un togliere, fino alla
perfetta trasparenza. Lasciare depositare in fondo al vaso i detriti, il pulviscolo inutile che
si è mescolato all’acqua trasportando il vaso da una parte all’altra della stanza. Anche
vivere non è aggiungere tempo al tempo accumulato, ma sottrarre l’eccedenza del tempo
fino alla perfetta consumazione Anche in questo caso il pulviscolo inutile viene depositato
in un vaso.
da PENETRALI
Natura morta Fuori nevica.
Una brocca
sul tavolo ha rosse trasparenze.
Sbucci piano la mela.
Ti tenta l’avventura
di quella buccia lucida
che avvolge
la luce della stanza.
Ogni oggetto
ha una sua consistenza inutile,
così rassicurante,
Il piatto dì lucida ceramica
se l’inclini
riflette un cielo nitido
di calce bianca.
Anniversario dei morti Tu che con braccia severe
mi allontanavi
e mi atterrivi con storie di fantasmi
ora t’affacci timida da sopra il muro
per timore di essere scacciata.
Nevica
e i tuoi piedi freddi in una
vaga foschia lasciano impronte.
Inconsolata mi tendi
la mano, ché la speranza è anche dei morti.
Così madre bambina percorri i viali
tu che dominavi, incerta,
finalmente un sorriso
sulla chiusa falce delle labbra.
Ma nevica e la giornata
volge alla sua fine – nemmeno questa volta
apportando il perdono
o l’oblio.
Su un quadro di Nolde al Museo di Copenaghen L’avvampare del rosso e dei giallo
con selvaggia delizia
l’Orco divora i suoi bambini
amando sé nella carne e nel sangue.
La bellezza è forse una
più intensa voracità
al centro della vita?
Intorno a lava incandescente
gli smorti colori della cenere.
Quando l’occhio
cessa di essere abbagliato
allora scopre le viole – dopo
soltanto dopo.
Schive e affollate –
una corona alla luce.
Cancellano l’aggressività delle corolle.
Silenziosamente trasformano la sconfitta in vittoria,
nude e luminose di buio.
Ora non vedi che queste. Le sole
a muoversi: il movimento
percorre il quadro. Non più una tela cosparsa di colore,
ma una pagina che si sfoglia.
Alcune sono aperte, altre si inclinano, altre ancora si chiudono al vento che le investe.
Sono l’ombra dei fiori luminosi, diversa dall’offerta della vita:
piuttosto, ciò che essa sottrae,
il velato splendore
i loro gambi, lacci.
Vivono una straordinaria animazione:
curiose, tumultuose, si muovono
in diverse direzioni
Fuggono quella pennellata grigia:
il turbine che sopravviene.
Soggette al vento, quindi
Capaci di servirsene,
di sottrarsi
alle insidie dei cervi e delle lepri.
Poi noti il loro centro giallo
un astro minuscolo nel buio:
la luce è il seme.
Solo alla fine scopri che le margherite
nella gloria apparente del loro rosso e giallo
arretrano.
Ammassate contro il vaso lanciano
grida di terrore e i petali sono braccia
levate a proteggere i volti
paonazzi di polline, teste
che saranno tagliate.
Ti accorgi che
anche le viole sono piegate e vinte,
si stanno reclinando nel vaso,
muoiono.
da COLUI CHE VIENE
La notte lo ti amo ti amo gridi non sai a chi
ed esci nel buio a cercarti
in luoghi perduti di merci e di anime
dove ti circonda una siepe di uomini
e un’alta siepe di muri
e tu con quel grido senza vedere nulla
che mastichi e inghiotti fermo a un angolo dì strada
io ti amo a chi non sai balbetti
perché tu non sei e dici
sì a chiunque
allora sei prostituta e drogato, spacciatore e ladro
non per amore dell’uomo
ma per orrore dell’uomo
allora senti quell’antica voglia di uccidere
temendo di frugare nella tua stessa carne.
Il viandante Come una vela sospinto sulla strada
finché viene il crepuscolo
e il vento cade come un’onda grigia.
Gli alberi hanno pelame dì animali
le loro cime velano le stelle
e il cuore del bosco si allontana dentro il bosco
da ogni suo punto si dipartono strade
eppure il centro è sempre nell’attesa
di un silenzio più fitto e più sospeso
dove non si è formata la parola.
da VIOLENZA
Anche nell’orrore
la rosa.
La rosa di sangue.
Pulizia Uccidere da lontano
Senza toccare.
Evitare il contagio.
Lavarsi le mani
sporche di sangue.
Lavarsi le mani
nel sangue.
*
Gli angeli
con vesti di filo spinato
Gli angeli dalle lingue strappate.
Gli angeli senza grido.
*
Di ossa facciamo spade.
Armi.
Da un teschio uno scudo rotondo
INEDITI
Eros
Pauroso, che ti nascondi in grembo ad una vecchia
e preferisci i libri al libro inesauribile del corpo,
allo sfogliare gli strati della pelle
fino alla nudità paonazza di Eros, lo scorticato.
Avevo un cappello di pelo di lupo
E nei tuoi occhi la luce era un riso
Che non cessa di gorgogliare in gola.
Da allora molte volte mi è parso di vedere assai più chiaro
ma più spesso sono stata un cieco abbandonato
in uno spiazzo vuoto.
Hai portato via la mia vita
dimmi dove.
Non è con te – tu non l’avevi cara
non è con me – che non ho più palato né odorato.
Dimmi dove l’hai condotta, sola e nuda.
E ancora trema
per te, la condannata.
L’albero dei cachi Primo viaggiatore L’albero dei cachi si sviluppa
contro il cielo dell’ultima stazione.
sulla nudità dei rami
la bassa traiettoria dei soli invernali.
Per loro l’albero ha rinunciato
alla sontuosa lucentezza delle foglie.
Si concentra nel miele del pensiero.
Secondo viaggiatore Albero dì un eden spoglio, nel sogno ha ottenuto
di riportare l’inverno all’estate.
Nulla indica più chiaramente
che la vita non nasce dalla necessità
ma dal sovvertimento
e la bellezza è il frutto dell’immaginazione.
Se Se un cavallo fosse solamente un cavallo
e non tutti i terrori che fremono nella sua coscia rotonda
o la tempesta che scuote la criniera
se non fosse l’occhio visionario e folle
che cela il segreto dell’acqua
o la coda imperiale nella sua forma arcuata
a sferzare lo schiavo
se esso non fosse un’oscura montagna
sotto di te
ma – come è – un animale timoroso e irruente
pronto a valersi di ogni astuzia
per essere libero e giocare
e tu sapessi amarlo con tenerezza
ma non seriamente –
quando si impenna sulla sabbia
gli assesterai un colpo deciso nei fianchi
spingendolo fra le onde.
Lo sguardo Il gatto
apparve dal fondo dei giardino
leccò un po’ dalla ciotola
poi sedette immobile
lo sguardo diritto fisso
le sue pupille nelle mie pupille
senza ringraziare né chiedere
solo guardare.
Ed io fui intera nelle sue pupille
interamente dentro quello sguardo
senza giudizio senza attesa
quietamente fui.
Il libro a Aldo Palazzeschi Dal fondo del tempo si leva
la nera figura che addita
la colpa e misura la pena.
Qual’era la colpa?
Di essa si è persa memoria.
La nera figura non sa
solo il custode del libro lo sa
il libro col nero sigillo
nel libro sta scritto e il passato
non è mai cancellato.
Ah potessi quel libro sfogliare
lasciare
al suo posto
un bianco senza futuro.
Ah non fossi mai nata
io sono la non amata.
Voce io senza voce
voce cieca
voce accecata
io senz’occhi
io muta e cieca
io afona
voce strozzata
voce che strozza
io parola
senza voce senz’occhi
io parola vibrante
a tastoni gemendo
voce impalata
gola
agnello impalato
io nuda
esco fuori
su tacchi
altissimi
corpo nudo
bellissimo
io
bellissima
sfido lo sterminio
parlo
di me parto
io danzo
e canto
il mondo mi vede.
Nascita Tu uscita dal buio e dal dolore
verso la vita
e la tua lontana morte
verso un tuo non richiesto dolore
e sofferenza e rischio
e inevitabile pena
ma anche gioia e pienezza
nel maturare del frutto
appeso al ramo
nella perfetta sfera
carne affonderà i denti
golosa la vita.
Ballata della nascita e della morte Separata da quel ventre
di umori e succhi
che fu la mia casa
e volendo dimenticare mi rifiuta
pezzetto di carne sanguinosa
piombo
nel precipizio oscuro della notte. Ti capovolgi e ruoti precipitando fra le stelle perfori la chiusa volta celeste nel cunicolo del sangue e delle feci pezzetto di carne sporca ora puoi solo esplorare il buio e perderti. La notte non ha appigli non sai se precipiti o sali e le tue dita battono sul vetro quando dal nero abisso d’acqua affiori a respirare. Tu non sei nulla. Proiettata fuori da quel corpo che ora ad altri si dà il tuo solo legame è con ciò che odi.
Ed ora questo grande corpo morto davanti a me
ha lasciato l’ormeggio
allontanandosi immenso
quella parte di me che è morta.
——–Aprite questa bara
——–ancora non ho conosciuto il mondo.
——–Questo corpo che mi è stato caro
——–dovrà dunque disfarsi?
Per A ung San Suu Kyi prigioniera Dalla chiusa corteccia germogliando
senza braccia né mani
senza gambe né piedi
tu parli o silenziosa
giorno per giorno
della morte
fai cibo.
Chi farà tacere il silenzio?
Chi fermerà ciò che non si muove?
Ti hanno rinchiusa,
non sapevano di farti seme.
Natività di Rennes. Crisalide strettamente avvolta
Da fasce
Ancora tutta avvolta nel sogno del parto
Partorita dalla nuda
verticalità del rosso
che ancora tutta la sommerge
come chiaro sangue
il rosso
il rosso
il rosso.
Non sappiamo ancora.
Nel buio del grembo fosti intero
ed ora
in un buio papavero di luce
sei la crisalide.
Ancora non sappiamo.
Orizzontale
traspare
dentro il suo cuore rosso
tinge la chiara veste che nasconde il seno
rigida
vuota
che da un suo punto oscuro tesse
l’attesa della stoffa
l’attesa di quel rosso.
Fonte – ITALIAN POETRY
l sito www.italian-poetry.org funziona correntemente dal 2000. Era nato l’anno precedente, dopo una serie di incontri e di confronti con la Poetry Society americana, ai cui criteri di severa selezione si ispira, antologizzando la poesia italiana moderna e contemporanea dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri, a partire dai poeti nati nei primi anni del XX secolo e attivi nei decenni successivi.
Il sito ha totalizzato più di 14 milioni di visualizzazioni nei primi quindici anni di vita ed è indicizzato quale primo risultato di Google per “poesia italiana”.
Il nuovo logo del sito, introdotto nel 2014, all’insegna di Montale, Quasimodo e Ungaretti, rimanda simbolicamente alla grande avventura della poesia italiana contemporanea dal principio del Novecento fino ad oggi.
Henri Gobard–L’alienazione linguistica- Prefazione di Gilles Deleuze-
Editore –Giometti & Antonello-Macerata
Quarta
Henri Gobard-L’alienazione linguistica-… E dire che ci sono professori d’inglese che parlano inglese per parlare inglese e che così si guadagnano da vivere: siamo a Ionesco! Che d’altronde ha trovato la sua ispirazione geniale in un celebre manuale d’inglese. Questi manuali in fondo ci dicono: prima imparate a parlare, dopo potrete dire qualcosa! Non capiscono nulla del processo di acquisizione del linguaggio: si parla solo se prima si ha qualcosa da dire: SENZA DESIDERIO NON C’È PAROLA.
Risvolto del libro di Henri Gobard-L’alienazione linguistica-Questo pamphlet è una preziosa e avvincente analisi dell’elemento in cui tutti noi, in quanto umani, inconsapevolmente ci muoviamo, e che determina forse più di ogni altra cosa le nostre idee, e quindi le nostre azioni: il linguaggio. Il fuoco della polemica è rivolto in maniera feroce contro l’egemonia della lingua anglo-americana, ma la questione è ben più ampia: come si instaura il potere, in tutte le sue forme, all’interno del linguaggio? In che modo, noi umani, abitiamo il linguaggio, e in che modo possiamo renderci refrattari alle forme di potere che se lo contendono? L’analisi «tetraglossica» di Gobard ci offre nuovi e sorprendenti strumenti per rispondere a tali domande, proponendoci di pensare il linguaggio come un ambiente a più dimensioni, almeno quattro appunto, in cui si dispiega la nostra esistenza fin dai primissimi passi. Tutto ciò in uno stile che si fa beffe della saggistica accademica. Come scrive Gilles Deleuze nella sua prefazione, «Gobard non procede in alcun modo come un comparatista. Procede come un polemista o una sorta di stratega, preso egli stesso in una situazione. Si colloca in una situazione reale in cui le lingue si affrontano concretamente». E ancora: «Gobard ha un nuovo modo di valutare i rapporti del linguaggio con la Terra. In lui ci sono un Court de Gébelin, un Fabre d’Olivet, un Brisset e un Wolfson, che ancora resistono: per quale avvenire di linguistica?».
Nota biografica
Di Henri Gobard sappiamo che fu allievo all’École des Hautes Études, per divenire poi professore al dipartimento di psicologia e di inglese all’Università di Parigi VIII-Vincennes, sin dalla sua fondazione nel 1968. Fu membro fondatore dell’Istituto di ricerche sociolinguistiche (IRSOL). Membro del premio Nietzsche di Taormina fondato dall’associazione internazionale di studi e ricerche su Nietzsche, vi tenne nel 1976 una conferenza sul tema Blake e Nietzsche. Nel 1974 sviluppò presso l’Università di Friburgo un primo modello dell’analisi tetraglossica che avrà compimento nella sua opera qui tradotta. Ha pubblicato due libri: L’alienazione linguistica (1976), La guerra culturale (1978). Il modello di indagine del linguaggio sviluppato da Gobard ebbe una influenza decisiva sulle teorie di Guattari e Deleuze che hanno luogo in Kafka. Per una letteratura minore. I suoi interessi sull’aspetto complessivo della lingua in relazione alla psiche e alla società lo hanno portato all’inizio degli anni sessanta ad interessarsi in un primo momento all’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper, con cui poi polemizzò nei suoi libri-pamphlet del decennio successivo, nonché a tradurre le opere dell’antropologo e psicanalista Georges Devereux, di cui insieme a Tina Jolas ha curato varie traduzioni di opere presso Gallimard e Flammarion.
Sibilla Aleramo Poesie, lettere a Dino Campana e Biografia-
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo Poesie
Ritmo
Ritrovata adolescenza, gioia del colore, occhi verdi di sole sul greto, scheggiato turchese immenso de l’onde, biondezza di cirri e di rupi, rosea gioia di tetti, colore, ritmo, come una bianconera rondine l’anima ti solca.
*
Son tanto brava
Son tanto brava lungo il giorno. Comprendo, accetto, non piango. Quasi imparo ad aver orgoglio quasi fossi un uomo. Ma, al primo brivido di viola in cielo ogni diurno sostegno dispare. Tu mi sospiri lontano: «Sera, sera dolce e mia!» Sembrami d’aver fra le dita la stanchezza di tutta la terra. Non son più che sguardo, sguardo sperduto, e vene.
*
Nuda nel sole
Nuda nel sole per te che dipingi sto immobile, il seno soltanto ritmando la vita gagliarda del cuore. Come un cielo soave d’aurora è per te questa mia forma lucente, un prato un’acqua una solitaria fiorita di petali, tralci di vigna in festività. E adori, e fervente le dolci dita su la tela conduci. Nuda nel sole ed immobile, frammento di natura, ti miro orante ed oprante. Da te invasa da te riassorbita, sei tu che mi divinizzi o la mia divinità è che ti crea, artista, arte, spirito? Tacitamente il seno respira.
*
Charità notturna
Chiarità notturna, volo d’ore bianche, disteso cielo, tendo la mia mano che vi stringe, e v’offro, v’offro. Ci veda qualcuno. Non me, ma sola la mia mano che vi tiene, ore fruscianti, grande sereno, spiaggia d’astri.
*
Brucio la mia vita
S’io mi muovo, s’io mi sollevo, tutto svanisce, tutto s’aggela. Ma s’io resto così distesa, gli occhi chiusi, le labbra aureolate di brace, l’ardore della mia palma sul battito della mia gola, io brucio la mia vita, brucio la mia vita, il mio sangue si consuma nelle mie vene, io sento che si consuma solo nel ricordo d’un altro sangue, d’una voluttà data e provata, dell’amore lontano che forse non ritroverò.
*
Morte, m’hai sentita?
Morte, m’hai sentita? Nella notte ti ho invocata, piangendo e fors’anche ridendo per sedurti t’ho chiamata, ultima luce, speranza di due braccia accoglienti, un nome ancora da invocare, morte, madre, sorella, amata, una che mi prenda, una che mi voglia…. Ed eri lontana. Bianca e bella s’io ti pensavo su altri reclina, s’io t’imaginavo intenta a baciar altri, altri certo non più di me dolenti, oppur creature felici, morte, m’hai sentita s’anche non sei accorsa? Nessuno certo t’implorava quanto me, o cara quanto fu cara la vita, e tu chi sceglievi in vece mia? Ma forse, forse da lontano hai trasalito…. E ora non ti chiamo più. Stormi mi ventano dietro la fronte, aliante mondo inespresso del mio pensiero, parole che furono visioni e ch’io ancora non dissi, amore che tutti comprende i ruinati amori e li risolleva…. Verità della mia vita, incompiuta missione che nell’alba mi riappare, ch’era il miracolo, ed io forse l’ho tradita…. E forse, o morte, non venuta al mio richiamo delirante mi raggiungerai nel fervore del ripreso canto, troncherai nella mia gola il canto, un giorno chiaro…. Ch’io mi rammenti allora, ch’io mi rammenti come eri bella, come eri bella questa notte, morte, su le fronti che invece di me baciavi.
*
Da Assisi
Sul colle una sta, sola, dinanzi a questo, nodo silente del mondo. Vento scende verde d’argento. Ode respiro d’assenti acque. Cantici cari dissennati ascolta, di sorrisi sorgivi, di baci ariosi, volatili delizie, e le tiene, quasi creature in grappolo, sola ne lo svariar de le luci, fra le braccia o tra l’ali, rondine e sorella, che nulla si sperda di nessuna primavera.
*
In quest’alba
In quest’alba, ricche le vene di melodia e dolenti, che tutti aduno e mesco i desideri eterni, uno, d’una rosa bianca sul cespo, solo m’avanza incontro al giorno, e il giorno è di gennaio, oh giardino che non vedrò!
*
Anche quest’ore
Passeran quest’ore di spasimo come passarono le mille di gioia. O fiore che avrei voluto soltanto baciare, o petto dolce dove imploravo festosamente la morte, ma quest’ore che vivo di strazio son più generose ancora dell’altre gridanti felicità. Mi tendo a te che ho colpito, da lontano mi tendo più pulsante di quando ridevamo nudi nel sole, la fronte più affocata, insaziata. Dono d’angoscia gemente che pur anche si dissolverà, lungo di febbre ansito verso la tua pena…. Tutti i miei capelli per addormirti da lungi!
*
Una risata
Una risata. Forse un giorno la sentirò prorompermi dalla gola: giorno di gran sole, risata sopra il mondo, e poi due braccia che mi sollevino ansante verso la prima stella della sera.
*
Sibilla Aleramo
E’ IL LAVORO
OGGI L’AURORA
Entro il mio cuore
la tortura, oh tutta la tortura
del mondo patita
geme ch’io in parole la redima,
e io perdutamente balbetto,
il mio cuore ancora in sé sente
le infinite morti
da uomini inferte a uomini,
gli anni trascorrono
e sempre nel ricordo l’orrore
e sempre l’insostenibile vergogna
e sempre in me il gemito,
vano gemito anziché parole,
e il terrore che anche il più grande canto
vano pur esso sarebbe,
che mai l’ascolterebbe
se nuovamente domani sul mondo
la tortura infierisse
infanzia e vecchiaia insiem cancellando
e tutte le speranze?
Speranza aurora!
Chi guarda ancora l’aurora?
Mio cuore, tu lo sai!
E non è per essa che ancor batti?
Tanti e tanti e tanti,
vicino a te e lontano
ogni dì s’alzano e non armi impugnano,
o forse armi sono,
martelli, vanghe, libri
e vanno con questi lor vivi arnesi,
la terra è tutta un cantiere,
ogni dì è lavoro,
quanto lavoro su la terra intera,
da secoli da millenni
curvo era sino a ieri
ma ora di sé è fiero
s’anche duramente ancor soffre e lotta,
ben saldo nel voler mai più
guerre né torture,
nel volere il mondo
trasformato in fraterno giardino,
oh mio cuore, più non devi gemere,
abbi fede, tu vedi,
è il lavoro oggi l’aurora!
poesia di Sibilla Aleramo
“Le mie mani”
Le mie mani,
ricordando che tu le trovasti belle,
io accorata le bacio,
mani, tu dicesti,
a scrivere condannate crudelmente,
mani fatte per più dolci opere,
per carezze lunghe,
dicesti, e fra le tue le tenevi
leggere tremanti,
or ricordando te
lontano
che le mani soltanto mi baciasti,
io la mia bocca piano accarezzo.
Sibilla Aleramo (da ‘Poesie‘, Mondadori, 1929)
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta “Rina” (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960), è stata una scrittrice, poetessa e giornalista italiana.
lettera di Sibilla Aleramo a Dino Campana
Ecco la bellissima lettera che Sibilla scrisse all’amato:
Villa La Topaia, Borgo San Lorenzo , 7 – 8 agosto 1916
Notte — Possa tu riposare, mentre io ardo così nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice.
M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda.
Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa.
Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezza anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora così forte, per questo scambio del nostro sangue.
Sibilla Aleramo
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo,Lettera a Dino Campana, (6 Agosto 1916).
Lo so, è un altra epoca, altro sentire, quì l’umanità si attacca alle tende,si consuma di tisi, assapora attimi persi, è il tempo in cui gli amori erano per sempre perche un solo bacio impegnava metà della vita, ed ogni momento passato insieme era chirurgicamente intagliato nei cuori.
Perché non ho baciato le tue ginocchia? Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a piedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca. Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quella che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio disperato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le querce, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima… Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. E non ho baciato le tue ginocchia. I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me! È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore? Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è così forte. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi!
13 GENNAIO 1960 moriva SIBILLA ALERAMO
Come spesso accade, la sua attività letteraria ha origine da una situazione personale difficile: nel periodo della sua adolescenza la madre, in preda alla depressione e a causa dei conflitti con il padre, tentò il suicidio. Si salvò, ma fu presto internata nel manicomio di Macerata, dove rimase fino alla sua morte.
Un altro fatto fu decisivo per la giovane Maria: a quindici anni subì una violenza sessuale da parte di un impiegato della fabbrica diretta dal padre e presso cui lei stessa lavorava come contabile. Ne scaturì, come era usuale all’epoca e lo sarebbe stato fino al 1981, un matrimonio “riparatore”. La convivenza si rivelò subito insopportabile e nonostante l’amore per suo figlio Walter nato nel 1895, cadde in una profonda depressione, tanto da tentare, come sua madre, il suicidio.
È a questo punto che inizia ad affacciarsi l’attività letteraria come ancora di salvezza. A partire dal 1897 inizia a pubblicare articoli su vari giornali di ispirazione femminista e socialista. A Milano le fu affidata la direzione del settimanale socialista “L’italia femminile”, collaborando con intellettuali come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao. Certamente queste attività la portarono ad una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti e ad acquisire il coraggio necessario a lasciare il marito e il figlio per essere finalmente libera.
È in questo frangente che, trasferitasi a Roma e iniziata una relazione con Giovanni Cena, iniziò a scrivere quello che sarebbe stato uno dei primi libri femministi apparsi in Italia. Una donna, questo il titolo del romanzo, fu pubblicato nel 1906 e racconta la sua vita dall’infanzia fino alla decisione di abbandonare la famiglia, in nome di un’emancipazione femminile, ancora troppo spesso negata.
“Come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinchè continui a baloccarsi come nell’infanzia?”
Per Una donna Maria utilizzò per la prima volta lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, che le suggerì il compagno Giovanni Cena, ispirato dalla poesia Piemonte di Carducci («e l’esultante di castella e vigne / suol d’Aleramo», vv. 31-32: Aleramo era il nome di una potente famiglia medievale piemontese).
Da allora questo divenne il suo nome non solo nella letteratura, ma anche nella vita quotidiana.
Terminata la storia con Cena ebbe numerose altre relazioni, anche di carattere omosessuale. Ma fu probabilmente il legame con Dino Campana il più passionale e allo stesso tempo il più tormentato. Fu una storia d’amore e di follia, che precipitò a seguito del disagio psichico del poeta, a causa del quale fu rinchiuso in manicomio. Della relazione abbiamo testimonianza grazie alle poesie che i due amanti si scrivevano e si dedicavano, ma soprattutto grazie alle lettere che si inviavano.
Proprio dalla loro fitta corrispondenza epistolare ho preso questo testo:
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perchè io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Con il nostro sangue e con le nostre lacrime facevamo le rose
Che brillavano un momento con il sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.
Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio) nacque ad Alessandria il 14 agosto 1876. Trascorse un’adolescenza molto triste a causa della malattia mentale della madre; ancora giovanissima, fu costretta ad un matrimonio “riparatore” con un collega di lavoro che l’aveva violentata. La nascita del figlio Walter (1895) sembrò portare un soffio di gioia nella sua infelice vita coniugale; tuttavia, non bastò a riempire i vuoti della sua esistenza. Dopo un tentativo di suicidio, Rina cominciò a cimentarsi nella scrittura, nella quale trovò, oltre alla sua vocazione, anche il riscatto dall’esistenza gretta e stereotipata a cui le convenzioni sociali l’avevano sempre costretta.
Su varie riviste – come Gazzetta letteraria, L’Indipendente, Vita moderna, Vita internazionale – pubblicò soprattutto articoli di argomento femminista e socialista: questo suo impegno la portò ad avvicinarsi a Giorgina Craufurd Saffi, con la quale tenne una fitta corrispondenza. Punti nodali del suo impegno per l’emancipazione femminile furono la lotta contro la prostituzione e la campagna per il diritto di voto alle donne; si attivò, in tal senso, per promuovere manifestazioni, sezioni di movimenti femminili ed altre iniziative. Diresse inoltre il settimanale milanese L’Italia femminile,nel quale tenne una rubrica di discussione con le lettrici e ricercò la collaborazione di intellettuali progressisti come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao; nello stesso periodo conobbe Anna Kuliscioff e Filippo Turati.
Nel 1901 le tensioni familiari, ormai divenute insostenibili, la spinsero ad abbandonare il marito e il figlio. L’anno successivo si trasferì a Roma, dove si legò sentimentalmente a Giovanni Cena e cominciò a collaborare con la Nuova Antologia. Nel 1906 diede alle stampe il suo romanzo autobiografico Una donna, nel quale descrisse minutamente il suo difficile percorso di vita dall’infanzia fino alla rottura del matrimonio. L’opera mirava ad affermare il diritto di tutte le donne ad una vita libera e consapevole, contro le costrizioni e le umiliazioni imposte dall’ideologia del sacrificio, uno dei valori-cardine della società borghese dell’epoca. In quell’occasione, fu proprio Cena a suggerirle lo pseudonimo Sibilla Aleramo, che sarebbe poi diventato il suo nome nell’arte e nella vita.
Il successo del libro concise con un profondo cambiamento nell’autrice, che rivide progressivamente le sue posizioni sul femminismo. Più che sulla parità fra i sessi, infatti, il suo impegno si concentrò da quel momento in poi sulla rivendicazione e sull’espressione della diversità femminile.
Dopo la fine della relazione con Cena, Sibilla cominciò a condurre una vita errabonda e bohémien; si avvicinò al Movimento Futurista, nonché ad altre avanguardie artistiche e letterarie. Destarono scandalo le sue numerose relazioni amorose; una delle più complesse, quella con Dino Campana, incontrato durante la prima guerra mondiale. Indipendente e anticonformista, Sibilla sfidò non solo la società perbenista del tempo, ma anche molti ambienti intellettuali, che la tennero in dispregio per i suoi costumi sessuali eccessivamente disinvolti.
Nel 1936 sembrò trovare un punto di riferimento stabile in un giovane studente, a cui restò legata per un decennio. Nel secondo dopoguerra, si iscrisse al Partito Comunista Italiano e svolse un’intensa attività politica e sociale, collaborando, fra l’altro, all’Unitàe alla rivista Noi donne. Morì a Roma il 13 gennaio del 1960, dopo una lunga malattia.
Sibilla Aleramo ci ha lasciato una ricca produzione letteraria tra romanzi, liriche, collaborazioni giornalistiche e diari. Tra gli scritti di maggior spicco, oltre al già citato Una donna, i romanzi Il passaggio (1919) e Il Frustino (1932), le raccolte poetiche Momenti (1921), Selva d’Amore (1947) e Luci della mia sera (1956). La sua figura di donna e di artista ha impresso solchi profondi nella cultura e nella memoria: lo testimoniano non solo le tante strade intitolate a suo nome in tutto il territorio italiano, ma anche l’interesse che la sua vicenda ha saputo ispirare a critici, studiosi, scrittori e artisti. Grande, in particolare, è stata nei suoi riguardi l’attenzione del cinema italiano, attraverso le due pellicole Inganni (1985) e Un viaggio chiamato amore (2002).
Le dieci poesie proposte sono tratte da Momenti, prima opera in versi della Aleramo. L’anelito alla libertà vi si esprime in uno stile innovativo, essenziale e nondimeno elegante, che intreccia in modo singolare carnalità e lirismo: una poesia di immagini, tutta fuoco e immediatezza, nella quale elementi del tardo Romanticismo, del Decadentismo e della Scapigliatura vengono rielaborati alla luce della nuova coscienza femminista e antiborghese. Vi si avverte la propensione dell’autrice nei confronti delle avanguardie letterarie, che l’eterogeneità dei temi e la rottura con gli schemi tradizionali della metrica e del verso rendevano congeniali alla sua sensibilità nervosa e al suo anticonformismo.
Donatella Pezzino
Sibilla Aleramo
Pseudonimo di Rina Faccio, nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876. Presto si stabilisce con la famiglia a Civitanova Marche dove sposa a quindici anni un giovane del luogo.
Nel 1901 abbandona marito e figli iniziando, come lei stessa amava dire, la sua “seconda vita”. Conclusa una relazione sentimentale con il poeta Damiani inizia una vita errabonda che la avvicina a Milano e al movimento futurista, a Parigi e ai poeti Apollinaire e Verhaeren, infine a Roma e a tutto l’ambiente intellettuale ed artistico di quegli anni (qui conosce Grazia Deledda). Durante la prima guerra mondiale incontra Dino Campana e con lui inizia una relazione complessa e tormentata.
Al termine della seconda guerra mondiale si iscrive al P.C.I. e si impegna intensamente in campo politico e sociale. Collabora, tra l’altro, all’«Unità» e alla rivista «Noi donne».
Muore a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia. Opere principali: Una donna (1906), considerato il primo libro femminista apparso in Italia; Il passaggio (1919);Momenti (1920); Andando e stando (1920); Amo, dunque sono (1927); Gioie d’occasione (1930); Il frustino (1932); Orsa minore (1938); Dal mio diario (1945);Selva d’amore (1947); Il mondo è adolescente (1949); Aiutatemi a dire (1951); Luci della mia sera (1956).
Nino Pedretti, Poesie- Con un saggio di Giuseppina Di Leo
Nino Pedretti, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello.
da Al Vòuṣi (1975)
Al chèṣi ad campagna
Sbriṣédi da la róspa
maṣèdi dri i garagg
al chèṣi ad campagna
agli à finéi.
I li smana pr’e’ mònd:
i ébi ti ẓardéin
al dvanaróli in mòstra
te salòt.
Dalvólti t’a li vèid
maṣèdi sòtta i cópp,
cmè pavaiòti;
ch’u li zirca i marchènt
par fè d’i albérgh.
Le case di campagna. Sbriciolate dalle ruspe │ nascoste dietro i garage│ le case di campagna │ hanno i giorni contati. │ Le smembrano a pezzetti: │ le vasche di sasso │ nei giardini │ e gli arcolai in mostra │ nel salotto. │ A volte le scorgi │ nascoste sotto i tetti │ come farfalle │ che i mercanti le cercano │ per farne degli alberghi.
I ẓugh
Pòsta che tótt
poeti e nò poeti
a sém te bèl d’l’inféran
u s piṣ a fè di ẓugh
ch’I daga aria.
Mè me mi bidèl
a i dégh ch’u m daga i metar:
déu, tréi, quatar e stènta.
E néun al savém
s’èl ch’e’ vu déi
e’ vó dí mèrda.
Acsè a la matéina
a éintar ti mi pan
cmè t’un scafandar
ch’a vagh ad che pòzz nir
ch’l’è la mi bènca.
I giuochi. Poiché tutti │ poeti e non poeti │ stiamo nel mezzo dell’inferno │ ci piace fare i giuochi │ che un po’ muovono l’aria. │ Al mio bidello │ io chiedo di darmi le misure: │ due, tre, quattro e settanta. │ E noi sappiamo │ che significa, │ significa merda. │ Così la mattina │ entro nei miei panni │ come dentro uno scafandro │ e scendo in quel pozzo di sterco │ che è la mia banca.
La pavunzéla
Mè u m piṣ e’ pasaròt
che quand ch’e’ nèiva
e’ ven tònda ma chèṣa
a saltaréll.
U m piṣ la zèlga
e’ tòurd, e’ culumbazz
e e’ meral stéid ad nir
se su bèch zal.
E u m piṣ e’ varẓléin
ch’l’è pu un burdlín
ad préima elementèra
ch’u s’vólta sempra indrí
par ciacarè.
E una massa u m piṣ e’ rusignul
ch’e’ chènta cumè un rè
tla su varẓéura,
e sinènca e’ stouran pastrouciòun
ch’e’ scaramaza,
mò piò ad tótt
u m piṣ la pavunzéla
ch’la caméina a pass lóngh
cumé una sgnòura.
La pavoncella. A me piace il passero │ che quando nevica │ si avvicina alla casa saltellando. │ E mi piacciono la cincia │ il tordo, il colombaccio │ e il merlo tutto in nero │ col suo becco giallo. │ Mi piace il vergellino │ che è un bambino di prima elementare │ sempre voltato indietro │ a chiacchierare. │ E molto mi piace il rosignolo │ che canta come un re │ chiuso tra il verde; │ e amo persino lo storno fracassone │ ma la mia diletta │ è la pavoncella │ che cammina con passo lungo │ come una signora.
L’òm dal putèni
Léu tla su véita
féina i zinquént’an
u n éva pansè mai
ad mètt so chèṣa.
E stéva te caséin
a lè, bón, a fè i sarvéizi.
«Al putèni – e gévva – sal
n’è te su lavòur
agli è invurnéidi,
mòsci ti su létt
se mèl ad pènza.
U t tòca fè pianín
s’t’vó fè l’amòur
quandè c’al dórma.
E pu, la sèira, mè
a i fazz e’ bagn.
Fa e’ còpp, fa e’ còpp
a i dégh dalvólti
in módi che l’acqua
la i córra zò bén
te mèẓ dla schéina».
L’uomo delle puttane. Lui in vita sua │ fino ai cinquanta │ non aveva pensato mai │ di mettere su casa. │ Stava lì, buono, │ nel casino a fare dei servizi. │ «Le puttane – diceva – se │ non sono impegnate sul lavoro │ sono stordite, │ mosce nel letto │ con il mal di pancia. │ Devi far piano│ se vuoi fare all’amore │ intanto che sono addormentate. │ Poi alla sera │ io faccio loro il bagno. │ Fa il coppo, fa il coppo │ dico delle volte │ in modo che l’acqua │ le corra giù per bene │ nel mezzo della schiena».
Al vòuṣi
Dalvólti da par mè
te lètt, t’un curidéur
t’un treno par Milèn
a sént al vòuṣi.
E alòura a m fazz
piò grand
ch’al sòuna dréinta
ad mè
cumè al campèni.
Le voci. A volte, per conto mio, │ nel letto, in un corridoio, │ in un treno per Milano │ ascolto le voci. │ E allora divento │ più grande │ perché risuonano dentro │ di me │ come campane.
E’ lavadéur
Me lavadéur
al dòni
scavcèdi cmè di
diéval
al sbatéva i pan
cumè dal frósti.
Al scuréva ad travérs
al s’aragnèva
e pu al cantéva insén
e l’éra di rógg d’amòur
cumè dal gati.
Il lavatoio. Al lavatoio │ le donne │ coi capelli scarmigliati come │ diavoli │ picchiavano coi panni │ come fruste. │ Parlavano scurrile │ litigavano │ e poi si mettevano a cantare insieme │ ed erano grida d’amore │ come delle gatte.
La ciòza
La cantéva d’amòur
ma la finestra
la cantéva lòngh, a gòula vérta
e l’éra una vòia ad mas-ci
avnéuda chi lo sa,
da sòtta tèra
so par al gambi, t’i ócc
te fiòur dla pènza.
La cantéva d’amòur:
una zurnèda ch’éurta.
Adés l’è cmè una ciòza
la puléss i burdéll
e la sta zétta.
La chioccia. Cantava d’amore │ alla finestra │ cantava a lungo, a squarciagola │ ed era una voglia di maschio │ venuta chi lo sa │ da sotto terra │ su per le gambe, agli occhi │ al fiore della pancia. │ Cantava per amore │ ed era una giornata corta. │ Ora ha l’aria d’una chioccia │ pulisce i bambini │ e sta in silenzio.
Sesso
Sesso par néun e vléva déi
figa te pógn, scòul,
sburédi tla latréina.
Par néun e vléva déi
la paéura d’l’impregn,
al mói ch’al scapéva de lètt
«Gino, sta bón a m’aracmand»,
senza mai gód, cumè una midizéina.
E pu avemaréi, patérr,
e’ savòun, la praticòuna.
E pansè ch’l’éra acsè dòulz
sal tedeschi te fióm:
a m guardéva cmè déi
«Tóla, tóla, puréin»
e pu al ridéva.
Sesso. Sesso per noi significava │ fica nel pugno, male di scolo │ e vizio di latrina. │ Per noi significava │ terrore di metterle incinte │ la moglie che sfuggiva dal letto │ «Gino, sta buono mi raccomando», │ senza godere mai, come una medicina. │ E poi pianti, preghiere │ sapone, la praticona. │ E pensare che era così spensierato │ farlo giù al fiume con le tedesche: │ mi guardavano come per dire │«Prendila, ragazzo, prendila» │ e poi si mettevano a ridere.
E’ lavòur
«E’ treno e’ pórta véa»
e’ gévva la mi mà
e mè a so andè ẓiréun
par la Germania
in zirca d’un lavòur.
A sémi ch’u l sa l’òs-cia
d’incrécch ad chi vaghéun,
avémi un pansir féss
par tótt e’ viaẓ:
turnè ma chèṣa.
Da par néun, dalòngh,
tra ẓénti furistíri
a s’apuzémi a la mèi
sa cal do trè paróli
cumè chi póri strópi
sòura i su bastéun.
«Ferstehen, ferstehen, polizai»
e lòu i s’guardéva cmè déi:
«Mo quést, da dòu ch’i vén».
Il lavoro. «Il treno porta via lontano» │ diceva mia mamma │ e io in Germania sono andato │ in cerca di lavoro. │ Eravamo una folla │ compressi nei vagoni │ e solo un pensiero │ in tutto il viaggio: │ tornare a casa. │ Soli, lontano │ fra genti forestiere │ ci appoggiavamo alla meglio │ sopra quelle due o tre parole │ come poveri zoppi │ sopra il bastone. │ «Ferstehen, ferstehen, polizai» │ e loro ci guardavano come a dire: │ «Ma questi, da dove vengono?».
Se la lèngua la mòr
Se la lèngua la mòr
se la s’invléna,
se la pérd i parént
cum una vèdva,
se la piénz da par sé
spléida te còr di vécc
tal chèṣi zighi,
alòura e’ paèis l’è andè
u n’à piò stòria.
Se la lingua muore. Se la lingua muore │ se si contamina, │se perde i suoi legami │come una vedova, │se piange in disparte │sepolta nel cuore dei vecchi │nelle case buie, │allora il paese è finito, │non ha più storia.
da Te fugh de mi paèiṣ (1977)
Dedica
Dòni ch’avéi tla bòcca un góst
cumé ad faréina gréiṣa
dòni criscéudi te scéur
cumé un pèn ad fadéiga
dòni de vént e de méur
dòni dla biènca róṣa de sònn
dòni dla brèṣa
dòni ch’avéi cuṣei ti dè
sta mi parlèda antéiga
dòni l’è sòtta e’ vòst zil ch’l’è nèd
tòtt sta fiuréida strèna.
Dedica. Donne che avete in bocca un gusto │ di acida farina │ donne cresciute al buio │ come pane di fatica │ donne del vento e del muro │ donne della bianca rosa del sonno │ donne di brace │ donne che avete cucito i giorni │ della mia parlata antica │ donne è sotto il vostro cielo │ che è nata questa mia fiorita.
La nèiva
Stasèira
ò vòia d’arcurdè
l’udòur dla nèiva
e al préim fróffli
inzèrti te zil
cumé di gazótt furistìr
ch’ì vén ènca da néun.
La neve. Stasera │ mi punge un ricordo: │ l’odore della neve. │E i primi fiocchi │incerti nel cielo │come uccelli forestieri │giunti anche da noi.
Ulisse
Ulisse, un chèn
l’avéva caminé par tótt al strédi
e l’éra avnéu a muréi
t’l’invéran dla su véita.
E adès l’éra e’ mònd
ch’u i scapéva véa
ti su pan ad luce.
Ulisse. Ulisse, un cane │ ramingo per il mondo │ era venuto a morire │ nel colmo del suo inverno. │ Ed ora eran le strade │ che gli correvan via │ in abiti di luce.
Al poeṣéi
Ò scrétt zinquènta poeṣéi par un léibar
zinquènta galéini biènchi te curtéil
e a li guèrd cumè una cuntadéina
che sàbat la li pórta me marchè.
Le poesie. Ho scritto cinquanta poesie per un libro │ cinquanta galline bianche nel cortile │ e le guardo come una contadina │ che sabato le porterà al mercato.
La matéina prèst
A m’arcórd la matéina se cafè
l’udòur di tréni, la nèbia
d’in èlt datònda al chèṣi
e’ sònn ch’e’ pastruciéva s’l’aria
e i ruméur dal curiri
sal pènzi pini ad studént
e e’ sòul ch’lavnéva so pianín
alzènd al brazi e la caméisa
rossa de dè
te zil ch’l’aveva frèdd
ancòura par la nòta.
La mattina presto. Ricordo la mattina col caffè │ l’odore dei treni, la nebbia │ in alto attorno alle case │ e il sonno che si impastava con l’aria │ e il rumore delle corriere │ gremite di studenti │ e il sole si alzava piano │ alzando le braccia e la camicia │ rossa del giorno │ nel cielo ancora infreddolito │ per la notte.
Paróli
A vagh scarabuciand
pruvénd sla vòuṣa
paróli vèci d’un témp
ch’al gévva ad dòni te d’agócc
ch’al mè pasi pianín
sòtta la pèla
e al m’à fiuréi
te sangh, sòtta i cavéll.
Paróli ch’agli à durméi
par an sòtta la zèndra
e adès a tir fura
me fugh de mi paèiṣ.
Parole. Vado scarabocchiando │ provando con la voce │ parole vecchie d’un tempo │ che le donne pronunciavano lavorando a maglia │ che mi sono passate piano piano │ sotto la pelle │ e mi sono fiorite │ nel sangue, sotto i capelli. │ Parole che hanno dormito │ per anni sotto la cenere │ e ora tiro fuori │ al fuoco del mio paese.
*****
LE VOCI DI SANTARCANGELO DI ROMAGNA NELLA POESIA DIALETTALE DI NINO PEDRETTI*
Il 30 maggio 1981, all’età di 58 anni, veniva a mancare il poeta Nino Pedretti[1], «insegnante e glottologo, che nasce poeta in lingua e muore poeta in dialetto»[2], una delle voci più importanti della poesia dialettale romagnola.
Nino (Giovanni Maria) Pedretti (Santarcangelo di Romagna 1923 – Rimini 1981) faceva parte della generazione dei poeti «nati negli anni ‘20» (Asor Rosa), compagno di strada nonché fraterno amico di Tonino Guerra e Raffaello Baldini, «il singolare terzetto dei poeti di Santarcangelo di Romagna» (Isella)[3].
Il silenzio nel quale sembrava esser stata reclusa la memoria del poeta dopo la sua morte è stato rotto negli ultimi anni grazie alla scrupolosa ricerca che la studiosa Manuela Ricci ha condotto sia sulle carte private – conservate a Pesaro dalla famiglia[4] sia su quelle conservate nel fondo “Archivio Nino Pedretti” presso la Biblioteca Comunale di Santarcangelo di Romagna e nel fondo del padre Luigi Renato, conservato presso la Biblioteca Gambalunga, dove sono state rinvenute le poesie giovanili inedite pubblicate poi (non tutte) nel volume Le pepite d’oro, edito da Raffaelli[5]. Nel 2007, col titolo Al vòusi, e altre poesie in dialetto romagnolo, l’Einaudi pubblicava l’intera produzione dialettale edita di Nino Pedretti: l’opera prima Al vòusi, e le successive raccolte, Te fugh de mi paèis e La chesa de témp. L’edizione era arricchita dalla cura di Manuela Ricci, da una nota di Dante Isella e da uno scritto di Raffaello Baldini.
L’approccio di Nino Pedretti al dialetto è avvenuto non da subito: il contesto familiare (la madre insegnante e il padre non santarcangiolese di origine, scrittore e appassionato di storia locale) gli aveva permesso di potersi esprimere solo ed esclusivamente in italiano; il dialetto, documenta Raffaello Baldini, «lo imparò dagli amici giocando prima a palline e poi a pallone. Ma se per i molti altri della sua generazione il dialetto era, come si dice, la lingua materna, per Nino direi che era la lingua fraterna»[6].
Nell’immediato dopoguerra in Santarcangelo si assiste all’avvio di un’«avventura culturale» (Miro Gori) che andrà sotto il nome di E’ Circal de giudéizi («Il Circolo del giudizio»). Si trattò di un tentativo culturale, passato poi alla storia sotto questo nome per via dell’appellativo che bonariamente qualche compaesano rivolgeva a quel gruppo di giovani intellettuali – “Ve là, e’ circal de giudéizi” – che si riuniva sotto i portici del “Caffè Trieste” per discutere i più svariati temi culturali ed artistici (letteratura, cinema, arte, musica), insieme a quelli politici e sociali, e dove Pedretti avrà modo di esprimere il suo talento poetico e musicale[7].
Nel clima culturale di quegli anni, a partire dal 1946, il poeta santarcangiolese ottiene premi e riconoscimenti nazionali per poesie inedite in lingua, confluite in maggior parte nel volume Gli uomini sono strade[8].
Intorno alla metà degli anni Cinquanta Nino Pedretti parte per la Germania dove trova un impiego e perfeziona la lingua tedesca. In un carteggio con Rina Macrelli emerge, insieme al gusto per la novità verso una città da scoprire (Francoforte), anche una “leggera” «nostalgia»[9] per il paese e per gli amici.
In quello stesso torno di tempo, dopo il rientro in Italia, Pedretti unisce alla carriera di insegnante anche l’attività di traduttore. Se, come abbiamo detto, l’approccio al dialetto è subentrato presumibilmente in età adolescenziale, il passaggio successivo nella formazione poetica di Nino Pedretti, quello della scrittura in dialetto, risale al periodo immediatamente dopo il ’68; un passaggio cruciale in cui egli si fa portavoce degli emarginati e dei “diseredati”, di coloro che, non avendo un ruolo “attivo” nelle vicende della storia di quegli anni, rischiavano di restarne fuori: «Per parlare a loro nome bisognava parlare come loro: in dialetto. E così Nino cominciò a scrivere in dialetto» (Baldini)[10].
Ma, prima ancora che poeta dialettale, Nino Pedretti è valente studioso di questioni linguistiche: «già nel 1967 aveva frequentato un corso di fonologia a Edimburgo; nel 1972 ebbe l’incarico del coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica; nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di Glottodidattica nella Scuola di perfezionamento»[11].
A seguito dell’indagine linguistica e fonologica, durata diversi mesi, condotta col romanista Friedrich Schürr, Pedretti nota ancor più chiaramente, insieme alle molteplici potenzialità poetiche offerte dal dialetto, anche i limiti in cui esso era costretto. Si trattava cioè di far uscire il santarcangiolese dalle secche dell’«oralità», «per portare, trascinandolo alla legittimità della scrittura, il dialetto nel futuro»: una «scommessa» sulla quale punta anche l’amico Raffaello Baldini.
L’occasione per parlare delle «voci della poesia del dopoguerra» è fornita dal Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola[12], tenutosi a Santarcangelo nel giugno del 1973 (l’anno prima era stato pubblicato I bu, di Guerra), in cui il nostro, sotto l’impulso di Tonino Guerra, accetta l’incarico di organizzare l’evento in collaborazione con Rina Macrelli.
Il tema sul dialetto resterà per Pedretti un discorso aperto che egli riprenderà a più riprese, fino al suo ultimo libro.
Il passaggio dalla fase di studio del dialetto alla produzione poetica vernacolare è breve.
Poeta «per necessità» (Bo), Nino si propone al pubblico nel 1975 con Al vòusi, perspicuo già nel titolo (‘le voci’), con il quale sembra dare volto alle voci registrate su nastro magnetico nel corso dell’indagine fono-linguistica. I temi trattati per parlare dei purétt sono espressi utilizzando la «lingua brutale» del sotto-proletariato e del proletariato, in una sorta di esperimento linguistico come testimonianza della loro condizione di sofferenza, fisica e morale. Tra rabbia, dolore, disperazione ma, anche, ironia, nella «nota allegra» del gusto di vivere, nella trivialità del sesso a buon mercato, un popolo di sconosciuti – giocatori, prostitute, infermieri, vecchi, matti, barbieri e lavandaie, per non citarne che alcuni – emerge come dal nulla reclamando diritto di identità. L’attenzione al dialetto copre, scopre e scorre dovunque creando qua e là specchi di vera poesia, come in Se la lèngua la mòr (Se la lingua muore).
In quei primi anni Settanta nasce «quella cosa» (Baldini) che andrà sotto il nome di «poesia neodialettale». La poesia in dialetto, ritenuta fino ad allora «ancillare o eccentrica», comunque minoritaria rispetto alla poesia in lingua, acquista dunque dignità di «lingua-poesia» (Pasolini), avviandosi dai piani «bassi ai piani alti» (Sereni). Se in Al vòusi, la poesia in dialetto di Pedretti «ha trovato da sé l’allineamento alle forme elette e alle esperienze della poesia in lingua […] è da notare come in tutta la poesia di Pedretti lo scarto tra originale e versione non è poi così forte, non tale almeno da ottundere l’incisività dell’impianto e la sicurezza di fondo»[13].
Per certi aspetti, Te fugh de mi paèis svolge un ruolo paritetico ad Al vòusi, cambiandone però la prospettiva, nel senso, come in altro modo precisa Pedretti, che le immagini non sono rivolte ‘verso’ il mondo ma esse provengono ‘dal’ mondo, nate da un’aria perduta e germogliate «nell’io profondo dove risuonava una meraviglia nutrita di dialetto». Così, mentre i versi di Al vòusi ricordavano la miseria del pane e recavano un’ansia di riscatto, in Te fugh de mi paèis lo sguardo si fa interiore, come ricerca della bellezza scomparsa, soffermandosi su tutto ciò che è in pericolo di scomparire, piante e animali inclusi:
Ecco, gli animali, mi sembra siano i più esposti, così come i deboli e gli emarginati, alla violenza e al male di vivere. Ogni giorno scompare una specie di volatile, di mammifero, di pesce. Pensare agli animali s’accomuna al sentimento di precarietà in cui da sempre, ma soprattutto oggi, viviamo.
La chèsa de temp (La casa del tempo), rappresenta l’ultima fatica di Pedretti, uscito alle stampe qualche mese dopo la sua morte «grazie alla fraterna cura di Raffaello Baldini» (Ricci). E, come il protagonista del monologo, Il racconto perduto, anche Nino sembra voler dire: «Così come Ulisse posso lanciare le mie pietre contro l’immenso gigante del tempo senza che nessuno se ne avveda». [14]
L’universo letterario di Nino, lo abbiamo visto, si compone di voci, di storie reali e fantastiche al tempo stesso, di paesaggi, oggetti quotidiani, di luce e di silenzi. Anzi, la luce predomina fino a farsi ossimoricamente «luce nira» (Linfoma).
La sua attenzione verso il mondo rimane costante (E’ mònd l’è una palìna ch’la s’incrépa) ed egli si fa partecipe della natura come in questi ultimi versi di Al nóvvli (Le nuvole): «nóvvli a n’e’ savéi che dréinta / a purté quèll di mi nónn / che adès l’è dvént / un udòur d’un pórt, / chissà, d’una furèsta». («nuvole non lo sapete che dentro / portate il mio fiato / e forse quello dei miei nonni / che adesso è diventato / un odore di porto, / chissà, d’una foresta»); la realtà si confonde con l’immaginazione e la fantasia torna a farsi sogno come in questi versi de La pasegièda (La passeggiata), che riporto in lingua: «e lì dove un tempo / chissà mai quali signori / portavano dentro le carrozze / tra siepi di rose, lì / vado guardando perché un cortile / mi faccia vedere attorno ad una statua / una fontana che sogna / d’avere dei capelli: o dei cavalli / davanti un portone verde / fuori dal tempo, come in una pittura»; gli oggetti raccontano storie di vita in un gioco di luci (come in I vasétt) e di ombre (come in E’ pióv, Piove: «Piove, di fuori il mondo / è pieno di bianco / di un’aria di cenere dolce / come di gigli. / La mia vecchia casa / si è fasciata di ombre: / i miei morti sono lì / che stanno seduti»).
Verrebbe da chiedersi, cos’è che fa soffermare l’attenzione del poeta su ciò che sta al limite tra interno ed esterno, al margine della realtà, ai bordi di un mondo? Una risposta potrebbe essere trovata nella ricerca che Pedretti ha condotto da sempre contro il gioco delle apparenze laddove, ad esempio, se un tetto di canne può significare l’inizio e consentire alla fantasia di andare oltre, al tempo stesso quella linea rappresenta punto ad limina di uno spazio privato dove allo sguardo soltanto è consentito addentrarsi per coglierne, per un attimo, il nucleo “intimo” attraverso la mediazione della parola (La pórta). Allo stesso modo, se da una parte troviamo le varietà legate a uno o più elementi eterei o solari del giorno e del sogno, dall’altra, un microcosmo di oggetti ci porta più vicino la gente e il vasto popolo di compaesani, di parenti e amici che hanno fatta propria la memoria di quegli oggetti, di un intero universo ineluttabilmente destinato a perdersi: «Dietro questa poesia c’è un tempo immemorabile che non ha mai avuto voce e qui sta la prima ragione del poeta Pedretti, immettere nel coro della poesia illustre un materiale di vita che stava per venire cancellato per sempre» (Bo).
In Dmanda (Domanda) leggiamo: «Duv’è ch’a s masarà / al poeséi ch’a n so bón ‘d scréiv / ch’a gli zarchédi tént / ch’l’è quèlli ch’a m pis ad piò / ch’a n li pòs lèz / gnénca se desideri?», («Dove si nasconderanno / le poesie che non sono capace di scrivere, / che ho cercato tanto, / che sono quelle che amo di più, / che non posso leggere / neanche col desiderio?».
Alla Dmanda si potrebbe rispondere che forse si sono nascoste in tutte le poesie da lui effettivamente scritte, visibili solo a chi sa guardare oltre le parole; che sono racchiuse nella conchiglia (La cunchéa), nelle piante strane di una stazione (La staziòun), nella bottiglina piena di aria verde (La bucìna), tra le ruotine dei bottoni nella scatola dei ditali (Tla scatla di didèl).
In La chèsa de temp il tempo è l’artefice, l’arciere pronto a scoccare l’ultimo dardo-attimo di silenzio, subissando ogni voce, totalizzante e privativo, uguale a sé soltanto quando entra dappertutto, come nella splendida E’ silénzi (Il silenzio).
Mi scriveva Nino nell’agosto del 1980: «La poesia si fa con tutto il corpo e non solo coi sentimenti. Voglio dire che il corpo e tutto quello che lo muove diventa poroso, filtra, lascia passare odori di cose. Gli occhi, le mani, il ventre, l’arcata del petto sono investiti da questo vento che ci scuote, che ci fa partorire i sogni».
Giuseppina Di Leo
[1] Il presente studio sull’opera del poeta dialettale Nino Pedretti riprende in parte un mio precedente lavoro già pubblicato su: «Incroci. Semestrale di Letteratura e altre scritture, diretta da Raffaele Nigro e Lino Angiuli, n. 20, Mario Adda Editore, luglio-dicembre 2009», 149-153; “Voci dal Novecento”, a cura di Ivan Pozzoni, vol. III, Limina Mentis Editore 2012.
[2] G. MIRO GORI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: cinema e televisione, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 13.
[3] R. BALDINI, La nàiva. Versi in dialetto romagnolo. Introduzione di Dante Isella, Einaudi, Torino, 1982, V.
[4] Tra gli inediti conservati nell’Archivio Lina Pedretti Conti, Oggi ho alzato le mie bandiere, autografo, una poesia di cui, tra le carte del poeta, si conserva anche una successiva redazione, «una poesia in seguito ripresa col titolo In risposta all’accusa circa una mia pretesa povertà. Chi sono, non pubblicata. Sorta di autoritratto poetico di Pedretti: «Io sono ricco / perché porto con me / le acque verdi dell’Isar / e gli archi dei suoi grandi ponti. / Nessuno può dire che sono povero / perché ho visto splendere / gli alberi di melo vicino alla tua casa / che tu non conosci. / Io sono forte / perché ho alzato le mie bandiere / e fatto festa, oggi, un giovedì, / un giorno qualunque della settimana. / Io sono ricco / perché ho fiducia nella vita / e posseggo tante case d’amici veri. /Io sono ricco / perché sono me stesso / sono Nino Pedretti», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, Introduzione di Renzo Cremante, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 61-62.
[5] N. PEDRETTI, Le pepite d’oro. Poesie 1946-1947, a cura di M. Ricci, Raffaelli Editore, Rimini 2003.
[6] R. BALDINI, Due tre cose su Nino e il dialetto, in N. Pedretti, Al vòusi e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di ; Nota di Dante Isella; Con uno scritto di Raffaello Baldini, Einaudi, Torino 2007.
[7] Fin da giovane, Pedretti aveva coltivato l’interesse per la musica e la danza. La tesi di laurea conseguita nel 1953 a Urbino, relatore Piero Rebora, verteva intorno alla poesia e musica nera d’America.
[8] N. PEDRETTI, Gli uomini sono strade, introduzione di G. Bàrberi Squarotti, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1977.
[9] L’esperienza lavorativa in Germania durerà alcuni anni a partire dal 1954, «tornerà nel ’57, e comincerà a lavorare in Italia insegnando inglese in vari istituti medi e dell’avviamento», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, cit., 30-31-32.
[12] Cfr. Lingua Dialetto Poesia. Atti del Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, Santarcangelo di Romagna, 16-17 giugno 1973, prefazione di T. De Mauro, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1976.
[13] V. SERENI, Come canta quel Nino, in «L’Europeo», 7 dicembre 1981, p. 123)
[14] Postume le pubblicazioni degli scritti in prosa: Teatro minimo. Scritto da Nino Pedretti per bambini dai quattro ai dodici-tredici anni, Centro Stampa del Comune, Pesaro [1982]; Nella favola siamo tutti. Fantastorie, a cura di R. Roversi, disegni di R. Vespignani, Maggioli, Rimini 1989; L’astronomo, introduzione di Franco Brevini, nota biografica di G. Fucci, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992; Monologhi e racconti, con una nota di Manuela Ricci ed Ennio Grassi, Raffaelli Editore, Rimini 2011; Grammatiche. Monologhi e racconti inediti, , a cura di Tiziana Mattioli, trascrizioni di Elena Nicolini, Raffaelli Editore, Rimini 2012.
Nota.
Una versione più ampia di questo saggio è stata pubblicata sul sito di POLISCRITTURE.
Fonte Enciclopedia TRECCANI- PEDRETTI, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello. Nel 1928 nacque sua sorella Giaele.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 fu chiamato alle armi a Trieste, da dove fuggì a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro a Santarcangelo e trasferirsi poi a San Marino. Ripresi gli studi, conseguì il diploma di maestro all’Istituto magistrale di Forlimpopoli.
È di quegli anni la frequentazione del gruppo di intellettuali santarcangiolesi denominato, con ironia bonaria da parte dei compaesani, E’ circal de giudéizi (Il circolo del senno), che si riunì dapprima in casa di Pedretti e poi al Caffè Trieste e di cui fu inizialmente animatore Tonino Guerra. Questi, fra il 1944 e il 1945, scrisse i testi poi inclusi in I scarabócc (1946), offrendo dignità poetica a un dialetto, quello santarcangiolese, fino a quel momento inedito dal punto di vista della scrittura letteraria.
Del gruppo fecero parte i poeti – a loro volta nel dialetto di Santarcangelo – Raffaello Baldini e Gianni Fucci, lo sceneggiatore e scrittore Flavio Nicolini, i pittori Federico Moroni, Giulio Turci e Lucio Bernardi. Nelle riunioni si discorreva di arti figurative e politica, musica e letteratura; si leggevano Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Éluard, García Lorca, Campana, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Kafka, i narratori americani, Moravia. Intorno al 1949 il gruppo conobbe Elio Petri, con il quale collaborarono Fucci e Guerra per la realizzazione del cortometraggio Nasce un campione (1954). Iscrittosi alla facoltà di economia e commercio dell’Università di Ancona, Pedretti la abbandonò quasi subito per passare a quella di lingue straniere dell’Università di Urbino, dove si laureò, nel 1953, discutendo con Piero Rebora una tesi (Poesia e musica negra d’America) sul jazz come punto di arrivo di una tradizione poetico-musicale che ha inizio con i Negro spirituals e le ballades degli schiavi d’America. Agli anni universitari, fra il 1946 e il 1947, risalgono i primi testi poetici che, privilegiando il sermo brevis, risentivano certo delle letture compiute all’epoca, così come di una temperie già postermetica; letti alla cerchia di amici, furono pubblicati postumi con il titolo Le pepite d’oro (a cura di M. Ricci, Rimini 2003).
Dopo aver svolto il ruolo di supplente presso la scuola elementare di Santarcangelo, divenne insegnante alle elementari di Magenta. Abbandonato l’incarico, nel 1954 Pedretti si trasferì in Germania, dove trovò impiego in una banca a Francoforte e poté perfezionare la conoscenza della lingua tedesca.
Rientrato in Italia nel 1957, si recò a Milano, dove collaborò con alcune testate giornalistiche minori. Fece quasi subito rientro a Santarcangelo, ricominciando a fare supplenze nelle scuole. Dopo un breve periodo come addetto alle pubbliche relazioni presso l’Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC) di Ravenna, ricoprì provvisoriamente il ruolo di insegnante di inglese a Forlì. Ebbe inizio un periodo di relativa stabilità, cui contribuì anche il matrimonio nel 1959 con Lina Conti, con la quale si trasferì a Rimini. Nel 1960 nacque la figlia Daniela e nel 1961 ottenne la nomina di insegnante di ruolo a Cesena, dove andò a vivere: qui vide la luce la seconda figlia Anna Maria, mentre un terzo figlio, Paolo, nacque nel 1963.
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, insieme con l’approfondimento della lingua inglese, si era dedicato all’attività di curatore e traduttore di testi stranieri. Nel 1963 scrisse la prefazione a un’edizione scolastica del romanzo di J.K. Jerome, Tre uomini in barca (tradotto da Anna Maria Mezzolani Casadei). Assieme a Eloisa Paganelli curò poi l’antologia British children teach Italian children (Bologna 1966): pensato per le scuole medie, il volume raccoglieva testi scritti da bambini britannici, nella convinzione che le esigenze espressive e i contenuti psicologici che danno forma a un linguaggio siano i medesimi durante l’età puberale, in Italia come nel Regno Unito.
Nel 1967 frequentò un corso di fonologia a Edimburgo. L’anno successivo ricoprì l’incarico di insegnante di inglese al liceo di Pesaro, dove nuovamente si trasferì con tutta la famiglia. Nel 1972 ebbe l’incarico per il coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica. A prosecuzione di questo iter didattico, nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di «glottodidattica nella Scuola di perfezionamento» (Ricci, 2003, p. 12 n.).
Ma gli anni Sessanta e Settanta furono anche quelli della scelta del dialetto come lingua della poesia. Pedretti, che amava definirsi linguista, si impegnò in una ricerca sulla fonologia delle parlate locali, commissionatagli dal Comune di Santarcangelo e registrata su una serie di nastri. In tale percorso è da segnalare l’amicizia con il glottologo Friedrich Schürr, studioso di dialetti romagnoli, che veniva raccogliendo i risultati dei suoi spogli nel volume La voce della Romagna (1974).
Stimolato dalla frequentazione di Guerra e di altri poeti del circal (fra cui Baldini, che esordì nel 1976 con E’ solitèri), anche Pedretti scrisse quindi i suoi primi versi in dialetto, che apparvero nel bimestrale TuttoSantarcangelo fra il 1970 e il 1973: le poesie Trent’an (n. 33), La lèngua dla mi mà, Se la lèngua la mor (n. 60) e I nòm dal strèdi (n. 66). Sempre nel 1973 fu tra i partecipanti al Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, ideato da Nicolini e organizzato da Rina Macrelli (anche lei parte del circal), che si tenne il 16 e 17 giugno a Santarcangelo, dove lesse la relazione Poesia romagnola del dopoguerra (poi inclusa negli atti Lingua Dialetto Poesia, usciti nel 1976, con prefazione di Tullio De Mauro, per le Edizioni del Girasole di Ravenna). In un commento a margine della relazione di Augusto Campana toccò il problema della trascrizione del santarcangiolese, oggetto di discussione con Schürr (dalle posizioni del quale si era allontanato, prediligendo piuttosto una riduzione dei segni diacritici, e ricorrendo ai soli accenti acuto e grave).
Ma l’evento più importante fu la pubblicazione della prima raccolta in santarcangiolese, Al vòuṣi (Ravenna 1975), con prefazione di Alfredo Stussi. Le voci del titolo sono quelle della comunità paesana, in un’ottica di poesia civile intesa a dare la parola a chi, per imposizione storica, non l’ha mai avuta; sono voci di personaggi umili e non illustri, veicolo di espressione di una mentalità popolare creativa e fantastica. La scelta del dialetto, idioma letterariamente affrancato dall’oleografia municipalistica pur restando lingua quotidiana e semanticamente concreta, fu tanto più significativa quanto più si consideri che esso era lingua d’elezione a posteriori; in ogni caso non canale di recupero memoriale, né lingua rappresentativa di un’infanzia perduta (nonostante sia definito lèngua dla mi mà). La novità di tale scelta era inoltre in certa autonomia lessicale rispetto a Guerra, e nella semplificazione grafica dei dittonghi (evidenziata dallo stesso Pedretti in una Nota sul dialetto).
Tra febbraio e settembre 1974 Pedretti aveva pubblicato inoltre alcune prose satiriche sul mondo della scuola (La scuola, La carriera, La pensione e Lo stato giuridico finalmente) in TuttoSantarcangelo. Tre anni dopo diede invece alle stampe la raccolta Gli uomini sono strade (Forlì 1977); prefata da Giorgio Bàrberi Squarotti, che rilevava la maggiore ampiezza e distensione di discorso delle liriche in lingua rispetto all’essenzialità di quelle in dialetto, includeva poesie scritte fra il 1946 e il 1977, per alcune delle quali era stato insignito nel 1969 con il Cervo d’argento alla XIII edizione del premio Cervia di poesia.
A pochi mesi di distanza vide la luce la seconda silloge in santarcangiolese, Te fugh de mi paèiṣ (Nel fuoco del mio paese, Forlì 1977), con dedica alle donne ispiratrici della parlata in dialetto, che abbandonava la coralità di Al vòuṣi per farsi ricerca lirica di un senso fuggevole al di là delle cose, intuito in pochi dettagli come una finestra aperta, lo scorrere dell’acqua, un odore, un ricordo improvviso. Proseguendo l’attività di traduttore, pubblicò una versione in italiano del poema di Sylvia Plath, Three women (Tre donne. Un poema per tre voci, Forlì 1978).
Nel 1979 seguì l’organizzazione del Convegno nazionale di studi su Antonio Baldini, che ebbe luogo a Santarcangelo il 16 e 17 giugno. Per l’occasione preparò un’intervista a Marino Moretti, che non fece in tempo a realizzare per la malattia di quest’ultimo, morto poi a luglio. Grazie a una borsa di studio ricevuta dall’Experiment in international living, pochi giorni dopo si recò a Saint Louis per seguire un corso di perfezionamento sulla letteratura americana presso il Webster College. Visitò anche New York, da cui trasse l’immagine della ‘città verticale’. Tuttavia, come emerge da una lettera alla moglie del 25 giugno, gli Stati Uniti gli ispirarono da subito un sentimento di durezza e ostilità.
Al ritorno in patria il suo fisico era già minato dal linfoma che non molto tempo dopo lo avrebbe portato alla morte.
Ebbe comunque la forza di lavorare all’ultima raccolta in santarcangiolese, La chèṣa de témp (La casa del tempo, Milano 1981), in cui si avverte l’imminenza della fine, che uscì postuma, con uno scritto di Carlo Bo, per i tipi di All’insegna del pesce d’oro. Il manoscritto, la cui stesura fu accompagnata da uno scambio epistolare con Baldini sul problema della grafia del dialetto, piacque a Dante Isella (lettera a Pedretti, 3 novembre 1980).
Pedretti morì a Rimini il 30 maggio 1981.
L’anno prima era stato insignito del primo premio al concorso di poesia Romagna. Con una lettera del 12 marzo 1982, Ettore Bonora, ancora ignaro della sua scomparsa, ne elogiava la produzione in santarcangiolese.
Postumi uscirono, oltre a La chèṣa de témp e a Le pepite d’oro, una silloge di pièces per bambini fra i quattro e i tredici anni, Teatro minimo (Pesaro 1982), e una di ‘fantastorie’ risalenti al 1961, Nella favola siamo tutti (Rimini 1989). Videro poi la luce 37 racconti e monologhi con il titolo L’astronomo (a cura di F. Brevini – G. Fucci, Milano 1992), cui seguirono “Al vòuṣi” e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di M. Ricci, nota di D. Isella, postfazione di R. Baldini (Torino 2007); Monologhi e racconti, a cura di M. Ricci – E. Grassi (Rimini 2011) e Grammatiche: monologhi e racconti inediti, a cura di T. Mattioli (Rimini 2012).
Fonti e Bibl.: Archivio Pedretti, donato da Lina Conti alla Biblioteca comunale A. Baldini di Santarcangelo di Romagna.
Pelasgi. I poeti romagnoli in lingua, a cura di D. Argnani – G.R. Manzoni, Rimini 1985, pp. 35-56; G. Fucci, ‘E’ circal de giudéizi’…, in Diverse lingue. Rivista semestrale delle letterature dialettali e delle lingue minori, 1992, n. 11, pp. 37-46; N. Pedretti, L’astronomo, introduzione di F. Brevini, nota biografica di G. Fucci, Milano 1992; E’ circal de giudéizi. Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra…, a cura di M. Ricci, Bologna 2000; M. Ricci, Prefazione a N. Pedretti, Le pepite d’oro, Rimini 2003; C. Martignoni, Per non finire. Sulla poesia di Raffaello Baldini, Pasian di Prato 2004, pp. 49-58; Per N. P., Atti del convegno, Urbino… 2012, a cura di G. De Santi et al., Rimini 2013.
Nino Pedretti nasce a Santarcangelo il 13 agosto 1923, figlio di un impiegato comunale e di una maestra elementare.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 viene chiamato alle armi a Trieste, da dove fugge a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro nella città natale e rifugiarsi poi a San Marino.
Ripresi gli studi nel primo dopoguerra, consegue il diploma di maestro presso l’Istituto Magistrale di Forlimpopoli; è in quegli anni che dà vita, assieme ad altri giovani intellettuali santarcangiolesi, al sodalizio che diventerà noto come E’ circal de’ giudéizi.
Decide di continuare gli studi iscrivendosi alla facoltà di lingue straniere dell’Università di Urbino, ove si laurea nel 1953 con una tesi sul jazz.
Successivamente si trasferisce in Germania. Rientra in Italia e insegna lingua inglese nei licei di Cesena e Pesaro. Nel 1975 pubblica Al vòuşi, la sua prima raccolta di poesie in romagnolo. L’opera riscontra un immediato successo.
Del dialetto romagnolo, Pedretti ha lasciato questa definizione:
«A differenza dell’italiano, arrotolato nei codici, levigato ed illustre, il fratello umile, il dialetto, è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli e come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei minimi villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove viveva la gente comune del lavoro e dei sacrifici.»
Sebbene Pedretti sia principalmente un letterato, l’esigenza di scrivere il dialetto santarcangiolese lo ha indotto ad affrontare l’analisi del proprio dialetto, confrontandosi anche con Friedrich Schürr, che Pedretti incontrò a Costanza. A partire da tale confronto egli definì alcuni criteri grafici che furono poi adottati da altri autori santarcangiolesi, e che trovano un fondamento obbiettivo anche negli studi più recenti[1].
Claude Simon “Il Discorso di Stoccolma” Premio Nobel 1985
Edizioni Tracce di Pescara
Biografia di Claude SIMON-Nato nel 1913 in Madagascar, figlio di militare, Claude Simon partecipa attivamente agli sconvolgimenti politici e sociali che attraversano la prima parte del XX secolo. Nel 1936 è a Barcellona per osservare da vicino la Guerra Civile spagnola. Tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 pubblica, La Corde raide, Gulliver, Le Sacre du printemps, Le Vent e L’Herbe.
Impegnato sul fronte politico contro la guerra di Algeria e su quello letterario nel dibattito animato dai “nouveaux romanciers”, negli anni ’60 pubblica alcune delle sue opere più significative, La Route des Flandres, ispirato alle esperienze vissute durante la Seconda Guerra Mondiale, Le Palace, Histoire e La Bataille de Pharsale.
Dopo un lungo periodo di silenzio artistico, nel 1981 pubblica Les Géorgiques in cui condensa la ricerca sperimentale di una vita per ricreare – in una forma originalissima di narrazione dell’io come pluralità – la complessità dell’esistenza umana.
Nel 1985 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura e pronuncia il suo celebre “Discours de Stockholm”, in cui espone i principi che informano la sua scrittura della complessità.
Nella tarda maturità scrive L’Invitation, L’Acacia, Jardin des Plantes, Tramway, prima di spegnersi a Parigi nel 2005.Scrittore francese (Antananarivo 1913 – Parigi 2005). Dopo un romanzo di chiara tessitura esistenzialista, Le tricheur (1946), e un volume di ricordi, La corde raide (1947), si impegnò in una ricerca di tecnica narrativa (Gulliver, 1952; Le sacre du printemps, 1954), per giungere a una nuova forma di romanzo con Le vent (1957), L’herbe (1958; trad. it. 1961), e soprattutto con La route des Flandres (1960; trad. it. 1962), che lo ricollegarono alla corrente del nouveau roman. Anche nelle opere successive S. privilegiò le leggi autonome della scrittura sulla realtà, sul personaggio, sulla trama. Al di là di ogni possibile separazione fra passato, presente, visione e ricordo, le sue pagine presentano il fluire incessante, frammentario e magmatico di sensazioni, di immagini, di parole: Le palace (1962; trad. it. 1965); Histoire (1967; trad. it. 1971); La bataille de Pharsale (1969; trad. it. 1987); Triptyque (1973; trad. it. 1975); Leçon des choses (1976); Géorgiques (1981); La chevelure de Bérénice (1984); L’acacia (1989; trad. it. 1994). In occasione della consegna del Nobel per la letteratura, conferitogli nel 1985, pronunciò il Discours de Stockholm (pubbl. 1986), in cui analizzò le analogie della propria scrittura con le tecniche e le peculiarità espressive della pittura. La riflessione teorica sulla scrittura-pittura ricorre anche in Orion aveugle (1970), mentre il suo costante interesse per la pittura è testimoniato dai saggi di critica d’arte Femmes (1996) e dalla Correspondance 1970-1984 (1994) con il pittore J. Dubuffet.
Breve biografia di Karin Maria Boye – Poetessa svedese (Göteborg 1900 – Alingsås 1941). L’immoralismo eroico di Nietzsche, l’umanesimo socialisteggiante predicato da E. Blomberg e la psicanalisi formano il sostrato della sua opera lirica e narrativa, in cui si rispecchia il cammino ideale di tutta una generazione: dalla rivolta alla religione tradizionale fino al vitalismo e al nichilismo. Alle prime raccolte di poesie: Moln (“Nubi”, 1922); Gömda land (“Terre nascoste”, 1924); Härdarna (“I focolari”, 1927), seguirono För trädets skull (“Per amore dell’albero”, 1935); De sju dödssynderna (“I sette peccati mortali”, 1941, postumo). L’urgenza di irrisolti problemi morali è eloquentemente illustrata nel romanzo autobiografico: Kris (“Crisi”, 1934) e nell’allegoria politica alla Huxley, Kallocain (1940), sul paventato trionfo d’una dittatura universale. Morì suicida.
Sento i tuoi passi nella sala
Sento i tuoi passi nella sala,
sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi
che nessuno nota altrimenti.
Intorno a me soffia un vento di fuoco.
Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,
e l’anima fa male.
Cammini lontano nella sala,
ma l’aria ondeggia dei tuoi passi
e canta come canta il mare.
Ascolto, prigioniera dell’oppressione che consuma.
Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo tempo
batte il mio polso nella fame.
Come posso dire
Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno nè riposo,
finché non saranno mie.
Ricordo
Quieta voglio ringraziare il mio destino:
mai ti perdo del tutto
Come una perla cresce nella conchiglia,
così dentro di me
germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada.
Se infine un giorno ti dimenticassi –
allora sarai tu sangue del mio sangue
allora sarai tu una cosa sola con me –
lo vogliano gli dei.
Il meglio
Il meglio che possediamo
non lo si può dare,
non lo si può dire
e neanche scrivere.
Il meglio del tuo animo
niente lo può lordare.
Risplende profondo laggiù
per te e per Dio solamente.
È il colmo della nostra ricchezza
che nessun altro possa raggiungerlo.
È il tormento della nostra miseria
che nessun altro possa averlo.
Io non ti perderò mai-
Nessun cielo di una notte d’estate senza respiro
giunge così profondo nell’eternità,
nessun lago, quando le nebbie si diradano,
riflette una calma simile
come l’attimo –
quando i confini della solitudine si cancellano
e gli occhi diventano trasparenti
e le voci diventano semplici come venti
e niente c’è più da nascondere.
Come posso ora aver paura?
Io non ti perderò mai.
Certo che fa male
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.
Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.
Salva
(da Nuvole, 1922)
Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie.
Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.
Calma, calma inclino il capo
a una santa visione, il tuo ricordo che indugia.
Tempio; rifugio; purificazione;
santuario mio!
Sulle tue scale lontana la tenebra, salva,
serena come un bimbo mi addormento.
Le stelle
(da Terre nascoste, 1924)
Ora è finita. Ora mi sveglio.
Ed è quieto e facile l’andare,
quando non c’è più niente da attendere
e niente da sopportare.
Oro rosso ieri, foglia secca oggi.
Domani non ci sarà niente.
Ma stelle ardono in silenzio come prima
stanotte, nello spazio intorno.
Ora voglio regalare me stessa,
così non mi resterà alcuna briciola.
Dite, stelle, volete ricevere
un’anima che non possiede tesori?
Presso di voi è libertà senza difetto
lontana la pace dell’eternità.
Non video forse mai il cielo vuoto,
chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.
(da I focolari, 1927)
Credo che la morte sia come te,
alta e pallida e diritta come te,
tempie ugualmente incurvate,
occhi di mare, occhi di lontananze come te
le stesse labbra chiuse nel dolore.
Sei la morte. Io sono tua,
tua la mano e tua la mente.
Hai stordito tutte le forze della vita,
cullato in un triste torpore
sogno e atto, che appena hanno provato l’ala.
Ma ti amo, mia morte,
tu mia lunga amara morte,
nella cui mano chiusa inaridisce la mia vita.
Tu mia dolce, dolce morte –
Ti benedico ogni istante che tormenti!
Il violoncello profondo della notte
(da Per l’albero, 1935)
Il violoncello profondo della notte
scaglia nelle ampie distese la sua oscura esultanza.
Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma
in fiumi di luce cosmica.
I marosi, brillando lunghi,
si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte.
Tu! Tu! Tu!
Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo,
sospeso, vertiginoso sogno di sogni,
bianco abbagliante!
Un gabbiamo io sono, e su ali plananti
bevo beatitudine salata di mare
molto più ad est di tutto ciò che so,
molto più ad ovest di tutto ciò che voglio,
e sfioro il cuore del mondo –
bianco abbagliante!
Molte voci parlano
(da I sette peccati capitali e altre poesie postume, 1941)
Molte voci parlano.
La tua è come acqua.
La tua è come pioggia,
quando cade attraverso la notte.
Mormora sottovoce,
scende brancolando,
lenta, incerta,
penosamente viva.
Trema come terra
dietro ogni rumore,
stilla e cola
contro la mia pelle,
morbidamente s’avvolge,
mi avviluppa,
riempie le mie orecchie
di ricordi sussurranti.
Voglio sedere in silenzio
dove non posso disturbarti.
Voglio abitare e vivere
dove posso udirti.
Molte voci parlano.
Attraverso tutte queste
odo solo la tua
cadere come pioggia notturna.
Diego Dilettoso-La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli
Editore Biblion
Descrizione-Questo saggio ripercorre gli ultimi otto anni della biografia di Carlo Rosselli (1929-1937), che il militante antifascista trascorre principalmente in Francia e, più precisamente, a Parigi. Gli anni dell’esilio non costituiscono per Rosselli soltanto un momento cruciale della lotta antifascista, con la fondazione di Giustizia e Libertà, la pubblicazione del saggio “Socialisme libéral” (Parigi, 1930), la partecipazione in prima persona ai combattimenti della guerra civile spagnola, fino al tragico assassinio, con il fratello Nello, a Bagnoles-de-l’Orne. L’esperienza d’oltralpe permette a Roselli – in misura senz’altro maggiore rispetto agli altri dirigenti dell’antifascismo in esilio – di entrare in contatto con i milieux politici ed intellettuali locali, lasciando tracce significative del suo passaggio e allargando i propri orizzonti culturali sulla Francia, paese al cuore di quella civilizzazione europea che Rosselli concepiva come naturalmente contrapposta alla barbarie fascista.
Uomo politico (Roma 1899 – Bagnoles de l’Orne 1937); antifascista, allievo di G. Salvemini; prof. (fino al 1926) all’univ. Bocconi di Milano e all’Istituto superiore di commercio di Genova, dopo il delitto Matteotti aderì al Partito Socialista Unitario. Fondatore, con G. Salvemini, E. Rossi e il fratello Nello, del foglio clandestino Non mollare!, poi (1926) con P. Nenni della rivista Il quarto stato, fu uno degli organizzatori dell’emigrazione politica antifascista clandestina; per aver aiutato l’evasione di F. Turati, fu confinato a Lipari, dove scrisse Socialismo liberale (pubbl. in Francia nel 1930), revisione teorica del marxismo in funzione di un socialismo democratico. Evaso da Lipari con F. S. Nitti e E. Lussu (1929), riparò in Francia, dove costituì il movimento Giustizia e Libertà, di cui fu la guida fino alla morte. Combattente (1936) nella guerra civile spagnola a fianco delle truppe repubblicane, venne ferito in battaglia; tornato convalescente in Francia, fu assassinato con il fratello Nello (v.) da cagoulards assoldati dal SIM. Le lettere dei due fratelli alla madre, Amelia Pincherle R. (n. 1870 – m. 1937), autrice di commedie e di libri per ragazzi, sono raccolte in Epistolario familiare. Carlo e Nello Rosselli alla madre (1914-1937), a cura di Z. Ciuffoletti (1979)
SERGEI ESENIN (1895-1925)-Poeta russo (n. nel distretto di Rjazan´ 1895 – m. Leningrado 1925).Fece parte dapprima a Pietroburgo del gruppo dei poeti contadini e poi dell’immaginismo, una scuola poetica nata a Mosca dopo la Rivoluzione. I suoi primi versi, raccolti nel volume intitolato al rito di commemorazione dei defunti, Radunica (1916), cantano con sommesso lirismo e con toni di umiltà religiosa la campagna attorno a Rjazan´. Esenin accolse la Rivoluzione con entusiasmo, esaltandola in poemi declamatorî e barocchi, quali Preobraženie (“Trasfigurazione”) e Inonija (“Altra terra”) del 1919. Ma ben presto la delusione provata di fronte al dilagare del progresso industriale, che trasformava la primitiva campagna, lo spinse a una vita disordinata di cui è un riflesso nel poema Ispoved´ chuligana (“Confessione d’un teppista”, 1921) e nel ciclo Moskva kabackaja (“Mosca delle bettole”, 1924) che contiene versi allucinati. Invano egli tentò di accostarsi a temi di argomento sovietico; l’alcolismo, la solitudine e la disperazione lo spinsero al suicidio. Egli è in sostanza un continuatore della tradizione di A. Blok, sia per la fluidità musicale dei versi, sia per il gusto della romanza zigana, sia per la sovrapposizione e per il connubio di vita e letteratura.
Articolo di Federico GIUSTI-Associazione”La Città Futura”
L’antifascismo di cui abbiamo, scrive Federico Giusti ,bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
ROMA 14/04/2023 –La Repubblica fondata dalla Resistenza non ha mai fatto i conti fino in fondo con il Ventennio e da anni ormai, indebolito il movimento sindacale e comunista, i revisionisti hanno avuto la strada spianata per operare, indisturbati, a tutto campo.
Fare i conti con il fascismo è ormai una priorità assoluta. Forse siamo fuori tempo massimo dopo anni di operazioni culturali, mediatiche e politiche improntate a una rilettura del passato per giustificare le scelte del presente.
Molti testi scolastici sono riscritti a uso e consumo dello sdoganamento soft del fascismo, in un paese nel quale si leggono meno libri e giornali in confronto con la stragrande maggioranza delle nazioni europee.
Ma cosa intendiamo, quando si parla di fare i conti con il fascismo ?
Liberiamo subito il campo da alcuni equivoci di fondo. Non parliamo dell’antifascismo retorico e istituzionale diventato, con linguaggi e pratiche idonei allo scopo, un corpo ideologico giustificazionista delle politiche di austerità. Non ce ne voglia l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ma per troppi anni sono stati silenti e complici con governi di centro-sinistra ed esponenti politici che hanno contribuito a sdoganare il fascismo nella cosiddetta seconda Repubblica.
E oggi il Piano di Rinascita democratica di Licio Gelli è caduto nell’oblio quando invece permetterebbe di conoscere la lunga scia nera dal fascismo ai nostri giorni. Quel Piano non era il libro dei sogni di vecchi nostalgici ma un progetto di revisione costituzionale e della forma Stato, di profonda trasformazione della società in senso autoritario per sposare le tesi padronali che, fin dalla sua nascita, hanno attraversato il fascismo storico e politico.
Se il fascismo prima della Marcia su Roma venne foraggiato da agrari e industriali per spezzare le reni al movimento sindacale, oggi il governo Meloni vuole spezzare le reni (usiamo volutamente il loro linguaggio) ai movimenti per la casa presentando una proposta di legge che prevede fino a 9 anni di pena per gli occupanti.
Proviamo allora ad aprire tra i nostri pochi lettori una riflessione certi di attirarci critiche e antipatie.
L’amnistia di Togliatti liberò migliaia di fascisti. Molti fecero ritorno ai loro posti di lavoro nello Stato, nelle prefetture, nelle forze armate e in quelle dell’ordine. L’amnistia nasceva come intento di pacificazione in un paese uscito frantumato dalla guerra (non solo quella tra Stati ma una guerra interna civile della quale per trent’anni la storiografia ufficiale non ha mai parlato). Quella pacificazione, giudicata necessaria dai vertici dell’allora Pci, determinò la prima insanabile frattura con la Resistenza antifascista. Già nell’estate del 1946 migliaia di fascisti uscivano dalle galere ritornando ai loro vecchi posti di lavoro. Molti partigiani vennero allora epurati e altri incarcerati con accuse pesanti, trattati alla stregua di delinquenti comuni. Nelle questure, nelle prefetture, nelle forze armate e dell’ordine fecero ritorno ex repubblichini e fascisti dichiarati, parte dei quali ritroveremo anni dopo nella strategia della tensione o protagonisti delle repressioni di piazza contro gli scioperi, le occupazioni di terre.
Anche la storiografia resistenziale solo in tempi recenti ha scoperto pagine di storia occultate per troppo tempo, emblematica l’esperienza della Volante Rossa, partigiani dipinti come criminali comuni che decisero di resistere, armati, agli attentati contro sedi di partito, circoli ricreativi comunisti e socialisti che bande di repubblichini portavano a segno nei mesi successivi alla Liberazione. Molti di quei partigiani furono costretti a espatriare per sfuggire ad anni di carcere e in Italia fecero ritorno negli ultimi mesi della loro esistenza. La cacciata dei partigiani e la loro sostituzione con personaggi collusi con il fascismo è stata la prima grande ferita subita dalla Resistenza.
L’amnistia di Togliatti permise a ex repubblichini di dare vita anni dopo all’Msi e ad altre organizzazioni nostalgiche del fascismo e nuovamente alleate con agrari e industriali (e al servizio della Nato o tra le fila di Gladio) che fin dai mesi successivi alla Liberazione portarono avanti l’epurazione dei comunisti dalle fabbriche, comunisti che davano, allora, vita a scioperi e proteste a tutela del potere di acquisto salariale e per migliorare le condizioni di lavoro e di vita.
Che dire poi della rapida liquidazione dei tribunali promossi dal Cnl e sostituiti dalla giustizia ordinaria, non prima di avere riammesso in servizio cancellieri e magistrati dell’epoca fascista?
A giudicare i crimini dei fascisti la Repubblica antifascista chiamò giudici pochi anni prima conniventi con il fascismo e magari iscritti al partito, un conflitto di interessi evidente eppure tacitato in nome della pacificazione nazionale.
Questi fatti storici, se debitamente analizzati, sono a nostro avviso determinanti anche per analizzare e comprendere il presente. Prendiamo per esempio alcune frasi (“che c’entriamo noi col fascismo?”, “il fascismo in fondo ha anche fatto buone cose”), autentici stereotipi diventati, anche grazie a martellanti campagne mediatiche, una sorta di senso comune.
Nell’immaginario collettivo il fascismo è diventato fautore delle pensioni, dello Stato sociale e di utili interventi pubblici. Libri come quelli di Filippi andrebbero discussi nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, nei luoghi di lavoro e nelle sedi sindacali, avremmo molto da imparare anche per i tempi presenti.
Rimettere mano alla storia dell’antifascismo italiano, rivisitarne alcune pagine dimenticate, è un’operazione non solo storica ma politica. Non avere fatto i conti con il fascismo ci ha fatto prendere cantonate su innumerevoli questioni e soprattutto ha spianato la strada all’avvento della sinistra liberal attenta ai diritti civili ma non a quelli sociali. E studiare il fascismo consentirebbe di appurare le cause del suo successo, gli errori commessi da comunisti e socialisti nell’avversare gli Arditi del Popolo. Un’operazione culturale indispensabile per comprendere le ragioni del successo di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni politiche e iniziare a contrastare il governo Meloni senza attendere i sonnacchiosi e concertativi sindacati rappresentativi che in Italia non muovono foglia mentre in altri paesi europei ci sono scioperi e proteste di piazza.
Non serve solo rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo – meglio di noi lo fanno alcuni storici di ultima generazione contro i quali si inveisce dalle pagine di alcuni giornali con una campagna di odio che ci riporta al passato fino a ostacolarne la presenza nelle scuole e nelle università –, è una priorità insopprimibile interrogarci sul perché il fascismo sia stato sdoganato e riproposto in altre forme.
Prendiamo il caso delle battaglie fascistissime o coloniali dipinte come atti eroici, le visite delle scolaresche in caserma, lo stage scuola-lavoro nei centri di addestramento militare, la presenza di multinazionali di armi negli atenei italiani nel ruolo di disinteressati mecenati.
Non accusiamo certo di fascismo i militari e i produttori di armi, ma crediamo che i valori da loro propugnati (la sicurezza nazionale, l’esaltazione della patria…) attingano da quel brodo di coltura da cui è nato anche il fascismo storico.
Non si capisce la ragione per la quale si debbano celebrare con ragazzi di 10 o 14 anni le battaglie combattute dall’esercito italiano alleato dei nazisti, presentandole come atti di eroismo e di italianità. Il nostro paese non ha fatto i conti con la passata esperienza coloniale (e solo alla fine degli anni Sessanta sono arrivati i primi studi critici con la pubblicazione di tanti documenti occultati da storici conniventi ideologicamente con il passato coloniale e fascista); per questo ci siamo imbattuti in azioni disumane come quelle ai danni di detenuti somali da parte di soldati italiani. Oppure pensiamo che Faccetta nera sia solo un’allegra canzonetta della quale non conosciamo le parole o peggio ancora le riteniamo neutre e inoffensive?
Non avere fatto i conti con il passato coloniale ha spianato la strada alle missioni di guerra all’estero sotto l’egida Onu o Nato. Quel passato coloniale fu un tratto distintivo del fascismo alla ricerca di terre al sole, per conquistare le quali non lesinò l’utilizzo di gas contro l’inerme popolazione civile. E i bombardamenti “umanitari” all’uranio impoverito degli ultimi anni non sono dissimili da quelli in Etiopia.
Le ultime esternazioni del ministro La Russa trovano un terreno fertile e già arato da anni di revisionismo storico e di pratiche diseducatrici, di rimozione delle profonde ragioni dell’antifascismo dipinto ormai come un retaggio ideologico del passato. Il vittimismo della destra dei nostri giorni trasforma i fascisti in patrioti assegnando al concetto di patria una valenza positiva per giustificare il sostegno alla guerra, alla lotta senza quartiere contro i salariati, alimentando la logica dei nemici interni di turno (vedi i 9 anni di carcere proposti per gli occupanti di casa).
Sulle Fosse Ardeatine e sull’attentato di via Rasella menzioniamo integralmente una nota redatta dagli storici dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri che smentisce la propaganda repubblichina di La Russa:
“In merito alle dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa l’Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea –, per rispetto alla verità storica, dichiara:
1) L’ attacco partigiano di via Rasella fu un legittimo atto di guerra condotto contro una pattuglia di poliziotti altoatesini appartenenti al terzo battaglione Bozen.
2) Il Polizeiregiment Bozen comprendeva tre battaglioni, si era formato nel settembre 1943, subito dopo che i tedeschi, a seguito dell’armistizio, avevano costituito l’Operationszone Alpenvorland, (zona di operazione delle Prealpi), che comprendeva le province di Belluno, Trento e Bolzano.
3) La maggior parte dei suoi membri, a seguito dell’opzione del 1939, avevano preso la cittadinanza tedesca.
4) Il battaglione Bozen non era una banda musicale ma un battaglione di polizia armato di pistole mitragliatrici e bombe a mano, che stava ultimando il suo addestramento.
5) L’età media dei componenti era sui 35 anni (avevano un’età dai 26 ai 42 anni), quindi certamente non delle giovani reclute ma neppure dei semipensionati.
6) È bene ricordare che gli altri due battaglioni del reggimento Bozen erano stati subito impiegati in funzione antipartigiana in Istria e nel Bellunese, dove si erano resi autori di stragi.
7) Il battaglione oggetto dell’attacco di via Rasella è stato successivamente impiegato in Italia in funzione antipartigiana.
8 ) A seguito dell’attacco i tedeschi fucilarono alle Fosse Ardeatine 335 fra antifascisti, partigiani, ebrei, detenuti comuni. Le liste furono compilate con l’aiuto della questura di Roma. L’ordine di fucilazione fu eseguito prima della pubblicazione del comunicato emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22.55 del 24 marzo 1944.
9) Per tale atto il questore di Roma, Pietro Caruso, fu condannato a morte dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. La sentenza fu eseguita il 22/9/1944.”
La stessa Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha innumerevoli responsabilità nell’avere trasformato l’antifascismo in un retaggio del passato o in un messaggio alle giovani generazioni senza riferimenti alla odierna realtà limitandosi magari a ricordare la bontà di una Carta costituzionale che la tecnocrazia del centro-sinistra ha prima svilito e poi affossato tra pareggi di bilanci e ricorso strutturale alla guerra. E l’antifascismo non può essere riesumato due giorni l’anno o per giustificare alleanze elettorali di centro-sinistra, con programmi di austerità contro le classi popolari che combatterono il fascismo identificandolo con la guerra, la miseria, la violenza dei padroni e l’assenza di democrazia e libertà.
L’antifascismo di cui abbiamo bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
Ma questo antifascismo, che un tempo avremmo definito militante, è un antifascismo inviso a larghi settori della cosiddetta sinistra, la stessa che pensava all’amnistia di Togliatti come un atto necessario per pacificare il paese e per ricostruirlo nella democrazia, salvo poi accorgersi che i fascisti si erano solo riciclati nelle istituzioni ed erano sempre pronti a organizzare colpi di Stato, attentati contro i lavoratori e a partecipare attivamente alla strategia della tensione.
E gli eredi politici dei fascisti di ieri si definiscono oggi italiani, ma hanno bisogno di riscrivere la storia del Novecento per trovare giustificazioni all’operato dei loro padri e poter restringere gli spazi di libertà e di democrazia oggi.
L’antifascismo militante e di classe non potrà ridursi a una memoria storica astratta, per questo indagare il passato significa coglierne i collegamenti con il presente.
Fonte-Ass. La Città Futura -Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
“Lessico famigliare” è il libro di Natalia Ginzburg che ha avuto maggiori e più duraturi riflessi nella critica e nei lettori. La chiave di questo romanzo è delineata già nel titolo. Famigliare, perché racconta la storia di una famiglia ebraica e antifascista, i Levi, a Torino tra gli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento. E Lessico perché le strade della memoria passano attraverso il ricordo di frasi, modi di dire, espressioni gergali. Scrive la Ginzburg: “Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire ‘Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna’ o ‘De cosa spussa l’acido cloridrico’, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole”.
Natalia Ginzburg (Italian:[nataˈliːa ˈɡintsburɡ], German:[ˈɡɪntsbʊʁk]; néeLevi; 14 July 1916 – 7 October 1991) was an Italian author whose work explored family relationships, politics during and after the Fascist years and World War II, and philosophy. She wrote novels, short stories and essays, for which she received the Strega Prize and Bagutta Prize. Most of her works were also translated into English and published in the United Kingdom and the United States.
Born as Natalia Levi in Palermo, Sicily, in 1916, she spent most of her youth in Turin with her family, as her father in 1919 took a position with the University of Turin. Her father, Giuseppe Levi, a renowned Italian histologist, was born into a Jewish Italian family, and her mother, Lidia Tanzi (the sister of Drusilla Tanzi), was Catholic.[1][2] Her parents were secular and raised Natalia, her sister Paola (who would marry Adriano Olivetti) and her three brothers as atheists.[3] Their home was a centre of cultural life, as her parents invited intellectuals, activists and industrialists. At the age of 17 in 1933, Natalia published her first story, “I bambini”, in the magazine Solaria.
Marriage and family
In 1938, she married Leone Ginzburg, and they had three children together, Carlo, Andrea, and Alessandra.[4] Their son Carlo Ginzburg became a historian.
Although Natalia Ginzburg was able to live relatively free of harassment during World War II, her husband Leone was sent into internal exile because of his anti-Fascist activities, assigned from 1941 to 1943 to Pizzoli, a village in Abruzzo. She and their children lived most of the time with him.[5]
Opponents of the Fascist regime, she and her husband secretly went to Rome and edited an anti-Fascist newspaper, until Leone Ginzburg was arrested. He died in incarceration in 1944 after suffering severe torture.[5]
In 1950, Ginzburg married again, to Gabriele Baldini, a scholar of English literature. They lived in Rome. He died in 1969.
Career
After her marriage, she used the name “Natalia Ginzburg” (occasionally spelt “Ginzberg“) in most subsequent publications. Her first novel was published under the pseudonym “Alessandra Tornimparte” in 1942, during Fascist Italy‘s most anti-Semitic period, when Jews were banned from publishing.
Ginzburg spent much of the 1940s working for the publisher Einaudi in Turin in addition to her creative writing. They published some of the leading figures of postwar Italy, including Carlo Levi, Primo Levi, Cesare Pavese and Italo Calvino. Ginzburg’s second novel was published in 1947.
The experiences that she and her husband had during the war altered her perception of her identification as a Jew. She thought deeply about the questions aroused by the war and the Holocaust, dealing with them in fiction and essays. She became supportive of Catholicism, arousing controversy among her circle, because she believed that Christ was a persecuted Jew.[5] She opposed the removal of crucifixes in public buildings but her purported conversion to Catholicism is controversial and most sources still consider her an “atheist Jewess.”[6]
Beginning in 1950, when Ginzburg married again and moved to Rome, she entered the most prolific period of her literary career. During the next 20 years, she published most of the works for which she is best known. She and Baldini were deeply involved in the cultural life of the city.
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