Sylvia Plath Poetessa americana Poetessa americana
Il 27 ottobre del 1932 nasceva a Boston, Sylvia Plath-La vita è cosi adesso o mai più, cosi prendere o lasciare! Tutto dipende da come la sistemi e la sincronizzi, in modo, che, quando l’occasione bussa alla porta , tu sia li in attesa, con la mano sulla maniglia.
Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poeta e scrittrice statunitense.Viene riconosciuta come una delle poetesse statunitensi più importanti di tutti tempi, capace di creare un genere come La poesia confessionale insieme alla Sexton. Scrisse anche capolavori come la Campana di vetro e i suoi Diari, dove descrisse la sua vita drammatica per via dei suoi disturbi depressivi, che la portò a momenti critici fino alla morte per suicidio avvenuta L’11 febbraio del 1963 a Londra. A causa dei suoi problemi depressivi, le sue opere furono quasi sempre con un pizzico di malinconia e solitudine. Il 27 ottobre del 1932 nasceva a Boston, Sylvia Plath da Aurelia Schober e Otto Emil Plath. Muore l’11 febbraio del 1963 a Londra. Il 16 giugno del 1956 sposò lo scrittore Ted Hughes.
Papaveri in ottobre
Nemmeno le nubi assolate possono fare stamane
gonne così. Né la donna in ambulanza,
il cui rosso cuore sboccia prodigioso dal matello-
Dono, dono d’amore
del tutto non sollecitato
da un cielo
che in un pallore di fiamma accende i suoi
ossidi di carbonio, da occhi
sbigottiti e sbarrati sotto cappelli a bombetta.
O Dio, chi sono mai
io da far spalancare in un grido queste tarde bocche
in una foresta di gelo, in un’alba di fiordalisi.
Poesie di Sylvia Plath-
Io sono verticale (1961)
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
.
Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire) –
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
.
Monologo delle 3 del mattino-
È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.
.
Papaveri a luglio –
Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.
.
Ariel –
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
Canto del fuoco-
Nascemmo verdi
a questo giardino in difetto,
ma nella spessura macchiettata, grinzosa come un rospo,
il nostro guardiano si è imboscato malevolo
e tende il laccio
che abbatte cervo, gallo, trota, finché ogni cosa più bella
arranca intrappolata nel sangue sparso.
Nostro incarico è ora di strappare
una forma di angelo con cui ripararsi
da questo mucchio di letame dove tutto è intricato tanto
che nessuna indagine precisa
potrebbe sbloccare
la presa furba che frena ogni nostro gesto fulgente,
riportandolo alla fanga primordiale sotto un cielo guasto.
Dolci sali hanno attorcigliato i gambi
delle malerbe in cui ci dimeniamo instradati verso fine ammorbante;
bruciati da un sole rosso
leviamo destri la selce appallottolata, tenuti nei lacci spinati delle vene;
amore ardito, sogno nullo
il metter freno a tanta superba fiamma: vieni,
unisciti alla mia ferita e brucia, brucia.
(1956)
Nel paese di Mida-
Prati di polvere d’oro. Le correnti
d’argento del Connecticut si sparpagliano
e s’insinuano in dolci crespe sotto
le fattorie sulla riva dove imbianca la segale.
Tutto è liscio fino a un luccicare piatto
nel meriggio sulfureo. Con il languore
degli idoli ci muoviamo sotto
la larga campana di vetro del cielo e intagliamo brevi
le forme dei corpi in un campo di stoppie
e mazze dorate come su una foglia d’oro.
Forse è il paradiso, questa statica
pienezza: le mele indorano sul ramo,
cardellini, pesci dorati, un soriano biondo
fermo su un arazzo gigante –
e innamorati affettuosi, come colombi.
Ma ora sull’acqua sfrecciano gli sciatori,
a ginocchia tese. A un capo dei cavi invisibili
squarciano il velo verde del fiume:
lo specchio trema e si rompe.
Volteggiano come i pagliacci di un circo.
E così ci ritroviamo, pur volendo fermarci,
su questa sponda d’ambra dove l’erba discolora.
Il contadino pensa già al raccolto,
agosto cede il suo tocco di Mida
e il vento denuda un paesaggio più pietroso.
(1958)
Elettra sul vialetto delle azalee-
Il giorno che moristi andai nella terra,
nell’ibernacolo senza luce
dove le api, a strisce nere e oro, dormono finché cessa la bufera
come pietre ieratiche, e il terreno è duro.
Quel letargo andò bene per vent’anni –
come se tu non ci fossi mai stato, come se io fossi
venuta al mondo, dal ventre di mia madre, ad opera di un dio:
sul suo letto largo c’era la macchia del divino.
Non avevo nulla a che vedere con la colpa o altro
quando mi raggomitolavo sotto il cuore di mia madre.
Piccola come una bambola nel mio vestitino d’innocenza
me ne stavo sdraiata a sognare la tua epopea, immagine per immagine.
Non uno che morisse o sfiorisse su quella scena.
Tutto avveniva in una bianchezza durevole.
Il giorno che mi svegliai, mi svegliai a Churchyard Hill.
Trovai il tuo nome, le tue ossa e tutto
nelle liste di una necropoli gremita,
la tua pietra maculata di sghimbescio presso una ringhiera.
In questo ricovero, in questo ospizio, dove i morti
si ammucchiano piede a piede, testa a testa, non un fiore
a rompere il terreno. Questo è il vialetto delle azalee.
Un campo di bardana si apre a sud.
Sopra di te sei piedi di sassolini gialli.
La salvia rossa non si muove
nella vaschetta di sempreverdi di plastica posti
davanti alla lapide vicina alla tua, e neppure marcisce,
per quanto le piogge stingano un colore di sangue:
i petali finti gocciolano, gocciolano rosso.
C’è un altro rosso a incomodarmi:
il giorno che la tua vela rilasciata bevve il respiro di mia sorella
il mare piatto si fece di porpora come l’atroce panno
che mia madre aprì al tuo ultimo ritorno.
Prendo a nolo i paramenti di una tragedia antica.
La verità è che in una fine d’ottobre, al mio primo vagito,
uno scorpione si punse la testa, brutto segno;
mia madre ti sognò riverso nel mare.
Gli attori di pietra sostano, si riposano per riprender fiato.
Ho dato tutto il mio amore, e tu sei morto.
Fu la cancrena a mangiarti fino all’osso
mi disse la mamma; moristi come uno qualunque.
Come arriverò a far mio questo pensiero?
Sono lo spettro di un suicida senza onore,
il mio rasoio azzurro mi s’arrugginisce in gola.
Oh, perdona colei che batte alla tua porta a
domandarti perdono, padre – la tua cagnetta fedele, figlia e amica.
E stato il mio amore a dare la morte a entrambi.
(1959)
Lettera d’amore-
Non è facile spiegare il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
benché, come un sasso, non me ne preoccupassi
e me ne stessi dove mi trovavo d’abitudine.
Non ti limitasti a spingermi con il piede, no –
neanche lasciasti che il mio piccolo occhio nudo
si rivolgesse ancora al cielo, senza speranza, certo,
di capire le stelle o l’azzurro.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
camuffato da sasso nero tra sassi neri
nello iato bianco dell’inverno –
come i miei confinanti, senza cavare alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente scalpellate
che ad ogni istante s’appoggiavano per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si cambiavano in lacrime,
angeli in pianto su nature smorte,
ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
Ed io seguitavo a dormire come un dito piegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria pura
e le gocce catturate che in guazza si levavano
limpide come spiriti. Attorno tanti sassi
giacevano ottusi, senza espressione.
Io guardavo e non capivo.
Brillavo come scaglie di mica e mi spiegai
per rovesciarmi fuori come un fluido
tra le zampe di un uccello e i gambi delle piante.
Non mi sbagliai. Ti riconobbi immediatamente.
Albero e sasso risplendevano, senz’ombra.
La mia piccola lunghezza come un vetro diventò lucente.
Presi a fiorire come un ramo di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da sasso a nuvola, e così io in salita verso l’alto.
Ora assomiglio a una specie di dio
e galleggio nell’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E un dono.
16 ottobre 1960
Lettera di novembre-
Amore, il mondo
all’impovviso cambia, cambia colore. La luce
del lampione alle nove di mattina si sfrangia
oltre i baccelli coda-di-topo del laburno.
È l’Artico
questo piccolo cerchio
nero, con le erbe bronzee e di seta – capelli di bimbo.
Nell’aria c’è un verde,
tenero, incantevole.
Con amore mi protegge.
Mi son fatta calda e rossa.
Mi viene da pensarmi enorme,
sono stupidamente felice,
ho gli stivali di gomma
che sciabordano qua e là nel rosso bellissimo.
Questa, la mia proprietà.
Due volte al giorno
la percorro, fiutando
l’agrifoglio barbaro con i suoi ricami
verdeazzurri, ferro puro,
e il muro di cadaveri antichi.
Li amo.
Li amo come storia.
Indorano le mele,
pensa –
i miei settanta alberi
reggono i loro globi rosso oro
nella broda mortifera spessa e grigia,
le loro foglie d’oro metallo
a mi lionate con il fiato sospeso.
Oh amore, amore intatto.
Nessuno oltre a me
cammina su questo bagnato che arriva alla vita.
Ori insostituibili
fanno sangue e s’abbrunano, bocche delle Termopili.
11 novembre 1962
Sylvia Plath. L’altare scuro del sole (Edizioni della Sera, pp 200, euro 17) Un’icona dall’animo tormentato, una grande poetessa ancora oggi fonte di ispirazione: si intitola “Sylvia Plath. L’altare scuro del sole” il libro nel quale Gaia Ginevra Giorgi affronta la complessa figura della celebre autrice statunitense, nata a Boston nel 1932 e morta suicida a soli 31 anni. Con la prefazione di Roberto Coaloa, il libro offre un ritratto sfaccettato e non convenzionale della Plath: non si tratta infatti di una biografia classica, ma di un saggio che continuamente mescola le prospettive di analisi, passando dagli eventi della vita personale alle angosce, alla malattia mentale e alle frustrazioni della poetessa fino all’analisi delle opere.
Un intento ambizioso che stimola il lettore, genera domande e fa nascere suggestioni, ma più che altro una necessità chiaramente espressa dall’autrice già nell’introduzione: Giorgi infatti afferma di aver voluto seguire, nell’avvicinarsi alla vita e alla produzione letteraria della Plath, un duplice approccio, “uno poetico e uno politico”.
I due livelli di analisi sono in un certo senso “dovuti”, considerata la complessità di una figura come quella della poetessa così piena di sfumature e forse ancora mai compresa del tutto. Ecco allora che il libro nei 3 densi capitoli “procede per fotogrammi, zoom tematici, incursioni e continui ribaltamenti di prospettiva”: nell’inquadrare anche storicamente la Plath, l’autrice non può non considerare quanto la poetessa, le cui angosce sono perennemente riflesse in ogni suo scritto, manifestasse “un disagio di genere, un disagio sociale legato al sistema fortemente binario della società americana del secondo dopoguerra, che la voleva corpo femminile, normativo e convenzionalmente sottomesso”. Difficile, ed emozionante, anche l’analisi della produzione poetica, in cui Plath evidenzia un talento folgorante e un’ispirazione dolorosa e purissima: come scrive Giorgi, “c’è qualcosa nei suoi componimenti che resta alieno, misterioso e ineffabile, qualcosa che si svincola di continuo dalle gabbie ideologiche, le categorie estetiche e le etichette commerciali”.
Poesie di Janet Frame- da Parleranno le tempeste. Poesie scelte-
A cura e traduzione di Francesca Benocci ed Eleonora Bello-Gabriele Capelli Editore
Janet Frame (Dunedin 1924–2004) è stata una tra le più importanti scrittrici neozelandesi. Candidata due volte al premio Nobel, l’ultima nel 2003, è soprattutto nota per il film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola tratto dalla biografia omonima. Nata in una famiglia indigente, riesce a diplomarsi come insegnante ma è successivamente bollata come non “normale” e non idonea all’insegnamento. Diagnosticata schizofrenica, viene internata per otto anni in manicomio dove è sottoposta a 200 elettro-shock e minacciata di lobotomia. A darle forza e libertà sarà la scrittura e i riconoscimenti che il mondo letterario inizia a tributarle arrivando a essere tradotta in tutto il mondo. Non così per le sue poesie, amatissime ma raramente tradotte. Oltre a Un angelo alla mia tavola, sono stati pubblicati in italiano i romanzi Gridano i gufi, Volti nell’acqua e Verso un’altra estate. Parleranno le tempeste è la prima raccolta di poesia tradotte in italiano.
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere
il sogno perpetuo integrale marmoreo.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé.
Un tempo
Un tempo la brezza calda della gente
che filtrava sotto la porta chiusa che mi separava da loro
cambiava la fiamma, influenzava
la forma dell’ombra,
mi bruciava ribruciava dove facevo
tavolette di cera nell’oscurità.
Poi oltre la porta era solo silenzio.
Le gazze ladre tappavano il buco della serratura
attraverso cui rassicuranti becchi di luce avevano pizzicato briciole.
Un inverno che non ho mai conosciuto
ha sigillato le crepe con un male chiamato neve.
Cadeva così pura
dal nulla, in fiocchi accecanti.
Oltre la porta era solo silenzio.
Io indugiavo nel mio rituale solitario.
Effetti personali
Un amo dentro a un portafoglio di plastica strappato,
una vite arrugginita, un folletto della Cornovaglia,
del mio primo libro un volantino spiegazzato,
alti il doppio, o morti, nelle foto di famiglia
i bambini, un orologio d’argento con la cassa rotta
“Resistente agli urti” ma non era l’orologio che il piccolo Levìta
aveva, nell’inno, nella sera silenziosa fatta
di oscuri cortili del tempio e luce sbiadita…
anche se mio padre si chiamava Samuel. Che udito debbo avere,
e perché, mi chiedevo un tempo, per sentire il Verbo?
… un chiodo lucido… la lettera di un nuovo amore,
una spilla ossidata appartenuta a mia madre.
Poi, quasi adescasse dall’ultima marea questo ciarpame infranto,
la bella mosca schiuma-onda da pesca, di mio padre il vanto.
Parleranno le tempeste
Parleranno le tempeste; di loro puoi fidarti.
Sulla sabbia il vento e la marea scrivono
bollettini di sconfitta, gusci imperfetti
presso il memoriale liscio d’alberi d’altura,
alghe, uccello lacero, rasoio affilato, corno d’ariete, conchiglia.
Dacci le notizie dicono gli asceti leggendo
e rileggendo dieci miglia di spiaggia; tra gusci vuoti, guarda,
bruciano nella stampa del sale, storie
d’inondazione: come abbandonai casa e famiglia.
Rasoio: come tagliai la gola alla luce del sole.
Corno d’ariete: come caricai danzando alla luce lanosa del sole.
Conchiglia: come la mia vita salpò su un’oscura marea.
Francesca Benocci è nata a Sinalunga, in provincia di Siena, il 17 maggio 1985. Dopo infinite peripezie geografiche e un corso di studi in medicina messo prematuramente da parte, approda alla facoltà di Lettere e Filosofia di Siena. Si iscrive al corso di laurea in “Lingue, letterature e culture straniere” laureandosi nel 2010 in inglese e russo. Scrive una tesi che ha come oggetto la “comparazione” tra due traduzioni italiane di uno stesso testo in inglese. Ha completato, sempre presso l’Università di Siena, un master in traduzione ed editing di testi letterari e ha iniziato un dottorato in Translation Studies alla Victoria University of Wellington, in Nuova Zelanda.
Eleonora Bello (1985) ha conseguito una laurea triennale in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Milano, dove ottiene anche il Master di primo livello PROMOITALS (Didattica dell’Italiano come lingua seconda e straniera). Successivamente ottiene il Master di secondo livello all’Université de Franche-Comté (Besançon, Francia) in Letteratura e Cultura Italiana. Ha insegnato italiano come lingua straniera a Milano, Città del Messico e Besançon.
Janet Frame: scrittura e follia scritto da Ivana Daccò
Una che che ce l’ha fatta ad uscire dal manicomio, un po’ per fortuna, molto per determinazione. Per capacità. Un genio.
Mentre leggo “Un angelo alla mia tavola”, autobiografia di Janet Frame, mi si impone il riflettere sul fatto che la sua opera e la qualità della sua figura di donna vengono, e sono, legate alla sua storia di sofferenza psichica; e la riflessione si allarga allo stereotipo che propone come pressoché inevitabile la relazione tra una sensibilità fuori dell’ordinario, che sa tradursi in parole, e la malattia mentale, quantomeno la precarietà di quel tanto di equilibrio richiesto (e non potrebbe essere diversamente) dalle convenzioni sociali, dall’epoca e dalla società in cui si vive.
E’ uno stereotipo che colpisce, non solo ma in particolare, le donne; e il tema della presenza, ad esempio, di suicidi tra le scrittrici o, come nel caso di Janet Frame, di malattia mentale, ritorna, più o meno dibattuto, più o meno sostenuto da dati oggettivi, quasi ci fosse una richiesta sociale che prescriva questo. ‘Genio e sregolatezza’ certo ma, per le donne, sembra si chieda qualcosa di più.
Non voglio, qui, raccontare la storia di vita della Frame, che è bene lasciare al libro, al suo diretto racconto che spero a breve di riuscire a proporre, se non per il ‘non dettaglio’ di anni di vita, tra i venti e i trent’anni di età, trascorsi al manicomio prima che, a seguito del suo successo di scrittrice, tale diagnosi non venisse, diciamo, revocata e le venisse restituita la libertà personale.
Vero, la sua biografia dice, a proposito della fine dell’esperienza manicomiale, che è stata riconosciuta come <errata> la diagnosi di schizofrenia che le era stata ascritta ed è stato tirato un rigo sui duecento elettroshock subiti e sulla lunga esperienza di reclusione, per non dir altro. E allora va bene, diciamo che la diagnosi era sbagliata; oppure che la schizofrenia non esiste; che, forse, è altra cosa e non si cura con gli elettroshock, come pure avviene ancora in molte parti del mondo. Diciamo che sono il regime manicomiale e la supposta cura a causare la devastazione mentale e fisica delle persone affette da questa malattia. Problema complesso.
Ma il tema che, mentre leggo, mi si pone è un po’ diverso. Il tema sta nel fatto che, in qualche modo, sembra sia difficile che non venga correlata alla pseudo o vera malattia di cui Janet Frame (non) soffriva, la sua particolare sensibilità, la visione che lei stessa esprimeva della sua vita, di cui diceva che era scissa tra “questo mondo” e “quel mondo”, tra la vita che conduceva in quello che chiamava il suo mondo, ricco di sensazioni, colori, emozioni, riservate a lei sola, da tradurre in scrittura, da contenere, forse, attraverso la parola scritta, e dunque mediata, e la vita che conduceva nel mondo di tutti, dentro le regole, gli impegni che la società richiede, dove si muoveva comunque con la necessaria competenza – e con la fatica, va detto, che ciò comportava per lei, donna introversa, timida, a disagio nelle relazioni con gli altri.
Ed ecco aprirsi l’estrema aporia che vuole far convivere, nella mente di una ‘pazza’ (con tutto ciò che il senso comune associa a tale condizione), una sensibilità fuori dell’ordinario, un pensiero preda di visioni, emozioni di grande forza, stati d’animo difficili da controllare e l’estremo rigore, la capacità tecnica, la cura, la continuità di impegno richiesti dalla scrittura. Tutte cose che mal si sposano con una mente devastata.
E colpisce come, ancora, viva una forma di malinteso romanticismo, fuori tempo e fuori contesto, che fa amare, quasi desiderare, sembra, la figura dell’artista caratterizzato da eccessi (nel vivere, nel sentire, nel comportarsi) che diventano disagio mentale fino ad arrivare alla pazzia, e fino al comportamento suicidario, in particolare quando l’artista è donna.
Non sono infrequenti i luoghi comuni che associano la letteratura al femminile alla pazzia, che indicano un tasso di suicidi particolarmente elevato tra le scrittrici. Poi, al dunque, tutti pronunciano un solo nome: Virginia Woolf. Janet Frame è fortunatamente morta anziana, per una malattia, nella sua città natale di Dunedin in Nuova Zelanda.
Eppure. Qualcosa sembra esserci, potrebbe, e il nome della Woolf non è il solo, nel computo delle morti cercate. L’elenco potrebbe essere lungo – limitandoci al ‘900 vengono alla mente le poetesse Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, l’americana Silvia Plath. Possiamo aggiungere Marina Cvetaeva, Alejandra Pizarnik, Violeta Parra. Sibilla Aleramo ha a suo carico un tentativo fortunatamente fallito mentre ha evitato tale esito, ma pagando con una vita di grande sofferenza, la sudafricana Bessie Head; e non è stata facile la vita, e la storia manicomiale di Alda Merini.
Solo un abbozzo di elenco impossibile, che comporterebbe comunque la mancanza di tutte quelle che il mondo non ha conosciuto.
Le biografie di queste donne riportano difficoltà di vita talora gravi, che tuttavia difficilmente consentirebbero una correlazione tanto semplicistica, come se il viverle dovesse portare, di per sé, attraverso una relazione diretta e inevitabile, alla pazzia; o come se il cedere alle prove della vita fosse il segno distintivo di un animo elevato, di una sensibilità superiore che tutte le donne che, similmente provate, non hanno ceduto, non possedessero.
Eppure. E’ pensabile che queste grandi scrittrici siano state, pur dentro storie personali difficili, più che sane di mente, ma che il loro mondo le abbia messe alla prova in modo alla fine insostenibile, mponendo loro un sovraccarico di peso per il loro essersi permesse la scrittura, la poesia, deviando dall’assunzione di ruolo prescritta? E’ pensabile che quel di più che la società ha posto sulle loro spalle abbia fatto la differenza?
Janet Frame, I ghiaccioli , da Parleranno le tempeste, Gabriele Capelli Editore (2017)
Districare quei fitti ricci rossi per Janet era un problema come cercare uno spazio di silenzio in cui immergersi per accudire le sue amate parole.
Non era una vita semplice quella che le si presentò, e non lo fu nemmeno in seguito: tre sorelle con cui condividere vestiti, letto e libri, un fratello colpito da continui attacchi epilettici, una maestra che non perdeva occasione per ricordarle la sua povertà, il suo disordine, i suoi abiti sporchi, una madre che tentava di abbellire le povere case – in cui continuamente si trasferivano per seguire il padre ferroviere – con oggetti di fantasia.
Un taccuino – dono dal padre – si trasforma in un’insperata ancora di salvezza nel grigio di quei primi anni, e un libro di fiabe – Le favole dei fratelli Grimm – prestato da un’amica, la introduce in un mondo ricco e senza confini. La fantasia viaggia libera e si lascia andare.
Janet è “diversa”, poco incline alle relazioni, introversa, timida, lo sarà per tutto il resto della sua esistenza con buona pace di chi la voleva cambiare. Scopre il mondo dei libri e tra quelle parole cerca un riparo. I libri aumentano, sempre in prestito, li porta a casa, non li lascia nemmeno per mangiare. Comincia a scrivere sul suo taccuino, scrive a scuola, prime composizioni, primi tentativi di liberare la parola. Non viene presa sul serio: lei è la “strana”, la “matta”. Pubblica sul giornalino della scuola, e non solo; queste prime scritture ricevono un riconoscimento insperato. Cambia maestra. Il nuovo maestro legge con interesse i suoi temi a scuola, il resto che le aleggia intorno non gli interessa minimamente. La incoraggia a proseguire e Janet giura a se stessa che da grande farà la poetessa!
Difficile credere che questo sia stato il background di Janet Frame, autrice neozelandese, due volte proposta per il Premio Nobel.
Un’idea narrativa inserita in una autobiografia, richiesta proprio dal suo maestro, un tentativo di suicidio e Janet la “diversa” finisce per otto lunghi anni in un ospedale psichiatrico sottoposta a quattrocento elettroshock, il “trattamento”, lo chiamano i medici, una “esecuzione” lo definisce lei.
Janet scrive su qualunque pezzo di carta riesce a recuperare e consegna i testi alla sorella durante le rare visite in istituto.
Non volevo che mi accadesse nulla, scriverà in seguito nella sua autobiografia, per questo si rende disponibile, lava, mette la cera, rispetta i suoi turni, ma lo stesso non sfugge al trattamento che le viene somministrato con la stessa regolarità.
Il giorno prima dell’intervento per la lobotomia il medico di Janet annulla l’operazione e prepara le sue dimissioni dall’ospedale. Quei racconti affidati alla sorella durante le rare visite, sono stati inviati a un premio prestigioso e Janet risulta prima. La notizia della vincita e dell’uscita del libro è riportata sul giornale. Il medico la dimette il giorno dopo, Janet non è più persona da manicomio.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé – da Canto
Janet Frame continuò a scrivere racconti, pubblicò con regolarità, vinse molti premi ma la poesia? Che fine aveva fatto la poetessa? Restava “nascosta in bella vista” (Gina Mercer).
Sono invisibile. / Sono sempre stata invisibile / come la povertà in un paese ricco, come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze, come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra, i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee — l’elenco dell’invisibilità è infinito, e, dicono, non fa buona poesia. Come le decisioni. / Come l’altrove. / Come gli istituti lontani dalla strada di nome Scenic Drive. / Basta similitudini. Sono invisibile.
Oltre alle poesie disseminate nei suoi romanzi, alcuni dei racconti brevi possono essere definiti “poesie in prosa” (Bill Manhire). Pubblicazioni sporadiche su alcune riviste e, nonostante un solo volume di poesia pubblicato durante la sua vita, l’opera in versi comprende ben 170 componimenti!
Non pubblicò mai una seconda raccolta, per diversi motivi. La necessità di guadagnarsi da vivere la condusse a produrre ciò che era più vendibile, i suoi discussi trascorsi psichiatrici, ma anche una certa misoginia di sguardo, un buon numero di guardiani sessisti ansiosi di stroncare e reprimere la poesia di Janet Frame, nonché una polverosa invidia maschile.
La stessa nipote, Pamela Gordon, nel ruolo di esecutrice letteraria in possesso dei suoi manoscritti inediti di poesia e di prosa, ha subito pressioni. E quando tentò di spingerla a pubblicare il volume di poesie prima di morire, Janet rispose: “Non ho bisogno che nessuno mi dica che il mio lavoro è buono. Fallo dopo che sarò morta.”
Gli dei
Chi ha detto che gli dei non hanno bisogno di sognare? /Fanno più sogni di tutti e più cupi / con gli occhi notturni che infiammano un regno / che il loro risveglio piange, perduto.
[…]
Più sono solitari i loro picchi di nuvole / più vicini si fanno i loro sogni/ a scaldare colline deserte e popolate / – gli dei più di tutti hanno bisogno di sognare.
E nonostante la sua figura di poetessa sia stata trascurata e quasi dimenticata (per anni non è stata più pubblicata), oggi la sua poesia è tornata ad essere tradotta e pubblicata. Parleranno le tempeste – il volume da cui sono tratte alcune poesie qui presenti – è la terza edizione di poesie scelte e tradotte a vedere la luce negli ultimi anni.
Le poesie di Janet Frame (1924 – 2004) colpiscono per la chiarezza, il controllo, la precisione con cui riescono a definire aspetti dell’animo, della psiche, del comportamento umano. Riesce a mettere a fuoco con esattezza e piena responsabilità, con una padronanza sorprendente figurazioni metaforiche, che sono intese a chiarire, a definire aspetti dell’esistere, dello stare, dell’andare, del morire. Lo scontro costante, quotidiano, l’opposizione tra luce e buio, tra il visibile e l’invisibile che pure permane sono dichiaratamente i suoi temi portanti. È evidente la sua abilità nel provocare sentimenti in chi legge. Il suo talento nel filtrare e amplificare i più complessi sentimenti, il nascosto, lo straordinario nelle cose di tutti i giorni, il non detto, la vergogna, la colpa, le contraddizioni umane.
La Frame affronta temi vari e profondi ma lo fa con un approccio originale e creativo, lo fa con scelte linguistiche in cui le continue allitterazioni, il gioco, i simil-anagrammi rappresentano uno sforzo/gioco poetico. Le poesie colpiscono per la struttura e composizione nell’ affrontare i temi della morte, della separazione e della partenza.
La poetica di Janet Frame non si aggroviglia su nuclei di rabbia ma rappresenta un percorso di silenzio in cui riportare alla luce antiche memorie con una discrezione estrema e sofferta, mai urlata.
Il poeta, allora, “respira con un polmone solo / sale una scala con un solo piolo / spara alle stelle senza arma alla mano”.
Nel passo lieve Janet Frame sostiene la sua lotta senza perdersi e rimanendo fedele al suo essere “Eppure ho sentito / di insetti stecco e sagome / e letti a righe / nel cielo e file / di fiori incorporei / in bianco e nero / miseri come gli arcobaleni contro la pressione / e la purezza / del non-colore. / Devo continuare a lottare / con la testa gialla e rossa / dal profondo della fossa, io rimanendo a modo mio”.
Carlo Vecce-Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno-
Carocci editore -Roma
Descrizione in breve-Il Decameron (1971), punto di svolta della poetica di Pasolini, è un’opera in movimento, aperta, che per essere compresa va analizzata in tutte le fasi del processo creativo, all’interno del laboratorio dell’autore, dalla prima ideazione fino alla realizzazione del film; ed è allo stesso tempo un capolavoro del cinema e uno straordinario documento della ricezione di Boccaccio nella cultura del Novecento. Il volume, attraverso un accurato esame dei materiali preparatori – il trattamento, la sceneggiatura e soprattutto il copione di scena utilizzato sul set –, ne ripercorre la storia prima, durante, dentro e (in misura limitata) anche dopo. Un’attenzione speciale viene riservata ai luoghi scelti per le riprese, agli interpreti, ai riferimenti iconografici, alla colonna sonora, alla contaminazione degli stili, delle lingue e dei linguaggi.
Ebbe diversi problemi con la censura, che sequestrò e dissequestrò il film e aprì anche un processo, che alla fine vide giudicati non colpevoli gli imputati (tra cui il regista stesso). Ad ogni modo, fu un successo tanto in Italia quanto nel resto d’Europa; vinse anche l’Orso d’argento al Festival di Berlino 1971.
Dal 2000, il film è vietato ai minori di 14 anni.[senza fonte]
Elenco delle novelle
Segue l’elenco delle nove novelle tratte dal “Decameron” nell’ordine in cui appaiono nel film.
Il giovane Andreuccio viene truffato due volte, ma finisce col diventare ricco.[1]
Una badessa riprende una consorella ma è a sua volta ripresa per il medesimo peccato[2]
Masetto si finge sordo-muto in un convento di curiose monache.[3]
Peronella è costretta a nascondere il suo amante quando suo marito torna improvvisamente a casa.[4]
Ciappelletto si prende gioco di un prete sul letto di morte.[5]
L’allievo di Giotto aspetta la giusta ispirazione (divisa in 2 momenti).[6]
Caterina dorme sul balcone per incontrare il suo amato la notte.[7]
I tre fratelli di Lisabetta si vendicano del suo amante.[8]
Il furbo don Gianni cerca di sedurre la moglie di un suo amico.[9]
Due amici fanno un patto per scoprire cosa accade dopo la morte.[10]
Trama
Andreuccio da Perugia
Il giovane Andreuccio si reca a Napoli dalla lontana Perugia per comperare alcuni cavalli. Ma non si accorge che una ragazza di origini siciliane lo ha adocchiato con la sua borsa di monete ed intende rubargliele con un astuto stratagemma. Infatti Andreuccio, non soddisfatto dalla merce del mercato, si addentra per le vie della città quando incontra una ragazza che lo invita a salire in casa. Si tratta della residenza dell’imbrogliona che racconta ad Andreuccio di essere sua sorella illegittima concepita da un amore clandestino del padre con una matrona sicula; e lo invita a passare la notte in casa. Andreuccio è felice dell’invito e chiacchiera con la ragazza, mentre un fanciullo entra in bagno e sega una trave del pavimento per mettere in azione la trappola.
Infatti, arrivata la sera, Andreuccio ha dei dolori di pancia e si reca al bagno per fare i suoi bisogni. Quando mette il primo piede sul pavimento la trave di legno cede e il giovane cade nella latrina dalla quale riesce ad uscire solo per miracolo. Andreuccio si cala da una finestrina e chiede alla serva di farlo entrare, ma questa lo scambia per pazzo. Andreuccio allora capisce l’imbroglio e comincia a gridare, venendo però zittito e scacciato via dalle matrone del quartiere. Senza un soldo e completamente ricoperto di poltiglia puzzolente, Andreuccio non sa dove andare, quando vede due viandanti e, vergognandosi della sua situazione, va a nascondersi dentro una botte. I due viaggiatori si avvicinano alla cassa, attirati dall’odore nauseabondo e scoprono il giovane. I due, che in realtà sono dei ladri, gli propongono di venire con loro nella chiesa vicina dove è stato seppellito da poco in una tomba un famoso vescovo, cosicché possano aprire la cassa e rubargli le vesti e in particolare un anello di grande valore.
Andreuccio è d’accordo, ormai disposto a tutto pur di essere risarcito e va con i due. Aperta la bara i ladri fanno entrare dentro Andreuccio che si mette all’opera. Il ragazzo ha sfilato al cadavere ogni cosa che possa essere di valore, tenendo l’anello per sé. Quando i due gli ordinano di buttare fuori l’anello, Andreuccio dice che lì dentro non c’è nessun anello e i ladri indispettiti lo rinchiudono nella cassa di marmo. Poco dopo sopraggiungono altri due banditi assieme al sagrestano intenti a compiere lo stesso furto. Aprono la cassa, ma Andreuccio addenta immediatamente la gamba del sagrestano che stava per entrare. L’uomo urla di dolore e di paura, facendo scappare i giovani complici e Andreuccio finalmente può tornare a Perugia con l’anello.
La novella della suora con l’amante
Nella città di Napoli un vecchio sta raccontando una storia. In un convento una suora ha rapporti sessuali con un amante segreto, ma gli incontri notturni vengono scoperti dalle altre suore che si precipitano il giorno dopo dalla Madre Superiora per raccontare lo scabroso evento. Tuttavia, al contrario delle loro aspettative, la Madre sta facendo l’amore con il sacerdote e quando sente bussare alla porta, per la fretta, si mette al posto del copricapo le brache dell’amante. Così accade che la sorella, pur essendo punita dalla Madre Superiora, ottiene il permesso, così come tutte le altre sorelle, di ricevere ogni notte in cella il proprio amante.
Masetto l’ortolano nel convento
Masetto è un contadino che pensa solo al piacere che si può provare facendo l’amore. Essendo impaziente pensa di travestirsi da bracciante sordomuto e di entrare in un convento poco distante dal campo. Le suore vedendolo rimangono sorprese ed entusiaste allo stesso momento dato che a un uomo, fuorché al sagrestano, non era concesso entrare in un monastero di monache; e cominciano a formulare pensieri licenziosi. Infatti qualche giorno dopo mentre Masetto sta potando un albero due suore lo chiamano invitandolo in un piccolo ripostiglio degli attrezzi per avere a turno un fugace rapporto amoroso, mentre le altre scorgono la scena dalle finestre del monastero. Anch’esse, nelle loro celle, ricevono una alla volta il giovane per intrattenervi un rapporto sessuale. Alla fine anche la Madre Superiora cede alla tentazione e porta Masetto nel capanno, ma prima del momento supremo l’uomo si rifiuta e dichiara di essere esausto per i tanti rapporti, rivelando così di non essere sordomuto. La Madre, per non far uscire la notizia dal convento, decide di dichiarare miracolato il ragazzo, facendolo rimanere nel convento per soddisfare i desideri delle suore.
Peronella e l’orcio
A Napoli, Donna Peronella sta aspettando il ritorno del proprio marito e nel frattempo sta facendo l’amore con Giannello, venditore di orci e giare. Il marito torna a casa e Peronella fa nascondere l’amante nella grande giara in giardino. L’uomo si presenta alla moglie assieme ad un mercante dichiarando di aver concluso con lui un affare per la vendita di una giara per 5 denari. Peronella tuttavia per liberarsi del compratore comunica al marito di averlo già venduto per 7 denari; allora il coniuge congeda il mercante e si reca con Peronella nel giardino. Giannello esce fuori dal recipiente affermando che l’interno della giara è sporco e che bisogna pulirlo, altrimenti l’affare non potrà essere concluso. All’istante lo sciocco marito di Peronella si cala dentro a pulire, mentre Giannello ha un rapporto con la donna che rimane affacciata sul bordo della giara a controllare il lavoro del marito.
Ser Ciappelletto (o Cepparello) da Prato
Ser Ciappelletto è già comparso due volte nel film: la prima all’inizio quando è intento a gettare da una rupe un sacco contenente un cadavere, la seconda mentre un vecchio racconta ad un gruppo di persone la novella di Masetto; Ciappelletto propone un rapporto sessuale ad un bel giovanetto in cambio del denaro che ha appena sottratto dalla cintura di uno degli ascoltatori. In questa novella il protagonista si reca da Prato in Germania per essere ospitato da due fratelli napoletani usurai. Ciappelletto ha passato un’intera vita di imbrogli, truffe, raggiri, rapporti sessuali con prostitute e omosessuali, bestemmie e ingiurie nei confronti della Chiesa. Giunto in città viene ospitato dai due fratelli mentre viene inquadrata una festosa sagra nel prato fuori dalla città. Ciappelletto entra in sala e mangia con loro fino a che non si sente male e crolla a terra.
Passano alcuni giorni ma Ciappelletto è sempre più grave finché si riduce in fin di vita. I due fratelli, sotto le suppliche di Ciappelletto, convocano un santo frate che possa assolverlo dai peccati. Il sacerdote giunge in casa e inizia la confessione mentre i due uomini ascoltano fuori dalla porta, ridendo della confessione di ser Ciappelletto e commentando tutte le sue malefatte. L’astuto Ciappelletto si dimostra disperato dei suoi peccati confessando di aver sputato in chiesa e di aver ingiuriato la madre. Il frate, credendo di trovarsi di fronte all’uomo più pio che abbia mai conosciuto, decide di dargli subito l’assoluzione e di farlo venerare come un santo. Ciappelletto muore di lì a poco e viene portato nella chiesa principale dove tutti i pellegrini si recano a rendergli omaggio toccando la sua salma.
L’allievo di Giotto
In tutta la regione si sta parlando di un certo pittore (Pasolini) che ha frequentato la scuola del famoso Giotto. L’uomo deve recarsi a Napoli nella chiesa di Santa Chiara per affrescare la parete dell’altare. Arrivato, l’uomo comincia tutti i preparativi sistemando il ponteggio e diluendo i colori con i compagni. Mentre incomincia a dipingere il quadro continuano le altre storie del Decameron.
Caterina di Valbona e Riccardo
In un paese vicino a Napoli la nobile Caterina ama il giovane Riccardo, ma ha paura di dichiararlo al padre. Per questo, con la scusa del caldo torrido dell’estate, dichiara alla madre di voler dormire per un po’ sulla terrazza affinché possa rinfrescarsi. I genitori acconsentono e così il bel Riccardo quella notte può salire per fare l’amore con Caterina. Il giorno dopo molto presto, i genitori della ragazza si svegliano e salgono su per vedere come sta la figlia e la trovano nuda con Riccardo. La madre sta per gridare, ma il marito la rassicura spiegandole che il giovane potrebbe essere un buon partito e quindi pensano di farli sposare al più presto. E ciò avviene: i due genitori fanno svegliare la coppia e li convincono a sposarsi proprio in quel momento sulla terrazza e poi lasciano che Riccardo e Caterina se ne tornino a dormire beatamente abbracciati.
Il pranzo dell’allievo
Qui vi è un secondo intermezzo delle storie: l’allievo di Giotto viene invitato dai frati a mangiare per rifocillarsi un po’, ma l’uomo trangugia tutto in pochi minuti e si precipita di nuovo a lavorare, scherzando sempre con i giovani aiutanti.
Elisabetta (o Lisabetta) da Messina e Lorenzo
Elisabetta è la sorella di tre ricchi mercanti i quali pensano solo a far soldi. Ma la ragazza è innamorata di un giovane garzone: Lorenzo e con lui ha appassionanti rapporti sessuali. Ma i tre lo vengono a sapere e pensano di ucciderlo. Infatti qualche giorno dopo i tre fratelli invitano l’ignaro Lorenzo a giocare insieme nel giardino lì vicino e lo pugnalano alle spalle. Fatto ciò comunicano a Elisabetta che il suo Lorenzo si è recato in Sicilia per affari e che sarebbe tornato qualche settimana dopo. Ma Lorenzo non fa ritorno ed Elisabetta passa le intere notti a piangere invocando il suo nome. Una di queste notti il fantasma di Lorenzo le appare in sogno comunicandole di essere stato ucciso e che il suo corpo è stato seppellito nel giardino. Il giorno dopo Elisabetta chiede ai fratelli il permesso di uscire e si reca in giardino con una serva. Dissotterrato il corpo di Lorenzo, Elisabetta ne recide la testa e la porta in camera sua, nascondendola dentro un vaso di basilico.
Gemmata e la cavalla
Un vecchio contadino incontra a Napoli l’amico Gianni e i due decidono di riprendere il viaggio verso il paesello. Durante il tragitto il contadino propone a Gianni di ospitarlo, in virtù dell’amicizia che li lega e, soprattutto, per ricambiare il favore (dato che anche il contadino era stato ospite di Gianni). Donna Gemmata, moglie del contadino, riceve la visita del coniuge e di Gianni il quale, spacciandosi per una sorta di stregone indovino, sostiene che una donna si possa tramutare con un suo sortilegio in cavalla e, se si vuole, farla ritornare alle sue sembianze. L’obiettivo di Gianni è di avere un rapporto sessuale con Gemmata dato che è bellissima ed è oggetto di tutte le attenzioni del villaggio. Marito e moglie ingenuamente credono a questa magia e invitano Gianni a casa loro, facendolo dormire nella stalla coi cavalli.
Il giorno dopo all’alba, Gemmata si sveglia e chiede al marito, dato che sono molto poveri, se può essere tramutata in cavalla cosicché possa aiutarlo nell’arare i campi. Il marito acconsente e la porta da Gianni, comunicandogli il desiderio di Gemmata. Gianni subito prende al volo l’occasione e dichiara al coniuge che, durante il rito, deve stare zitto senza proferire parola. Infatti secondo il sortilegio, la parte più difficile è quella di “attaccare alla donna la coda”. Fatto ciò Gianni fa spogliare nuda Gemmata e la fa mettere carponi, mentre egli si accinge ad un rapporto da terra. Durante l’operazione però il marito, fremente di rabbia, comincia ad urlare e Gianni, con faccia affranta, dichiara fallito il rito perché il coniuge non ha rispettato il silenzio.
L’ultima novella di Tingoccio e Meuccio e il completamento dell’affresco
Mentre l’allievo di Giotto sta per finire l’opera, i due popolani Tingoccio e Meuccio sono ansiosi di capire cosa ci sia dopo la morte e soprattutto come siano il Paradiso o l’oscuro antro dell’Inferno; ma i due sono un po’ riluttanti perché credono che sia peccato avere rapporti sessuali con le amiche e quindi non vorrebbero finire all’inferno. Tingoccio propone che chi muore per primo visiti in sogno l’altro per rivelargli i segreti dell’aldilà. Arrivata la notte però, mentre Meuccio cerca in tutti i modi di morire concentrandosi in preghiera, Tingoccio ha un rapporto sessuale con la comare e poi si reca dall’amico, raccontandogli l’avventura. Meuccio gli rinfaccia che ormai è condannato, perché, secondo lui, ha commesso un grave peccato contro Dio. Dopo qualche tempo Tingoccio muore e quella stessa notte appare in sogno a Meuccio che gli domanda in che mondo sia stato collocato.
Tingoccio risponde che si trova in una specie di “limbo” in attesa di essere condotto nell’Inferno o nel Purgatorio e che in quella zona non si scontano pene per aver avuto nella vita rapporti con la comare. Di seguito prega Meuccio affinché il popolo di Napoli lo veneri e faccia celebrare messe in suo onore per raccogliere denaro che gli sarà d’aiuto nella vita ultraterrena. Contentissimo, Meuccio corre dalla comare per soddisfare i suoi desideri.
Nella chiesa di Santa Chiara, nel frattempo, il pittore che sta dormendo fa un sogno in cui gli appare la Vergine Maria con in braccio il bambino Gesù e tutta la schiera di angeli e santi, possibile ispirazione per finire l’affresco. Il sogno si interrompe ed il giorno dopo il pittore completa finalmente l’affresco, decidendo però di omettere il suo ultimo sogno, e mentre tutti i frati e i sagrestani festeggiano l’avvenimento, il pittore commenta la mancanza della sua visione nell’opera finale dicendo: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”.
Produzione
Sceneggiatura
In una lettera della primavera del 1970, Pasolini spiegava al produttore Franco Rossellini di aver modificato la sua originaria idea di ridurre l’intero Decameron a quattro o cinque novelle di ambiente napoletano e di voler dare invece «un’immagine completa e oggettiva del Decameron» attraverso la scelta del maggior numero possibile di racconti. Al gruppo centrale dei racconti ambientati nella Napoli popolare avrebbero dovuto aggiungersene altri per rappresentare lo «spirito interregionale e internazionale» dell’opera di Boccaccio, con l’ambizione di realizzare «una specie di affresco di tutto un mondo, tra il medioevo e l’epoca borghese». Il film avrebbe dovuto durare almeno tre ore ed essere diviso in tre tempi, ognuno dei quali rappresenti un’unità tematica.[11] Il primo trattamento elaborato dall’autore era dunque costruito su questa struttura tripartita (15 novelle suddivise in tre tempi, ognuno dei quali racchiuso da un racconto cornice, con protagonisti rispettivamente Ser Ciappelletto, Chichibio e Giotto), che voleva rispecchiare la complessa architettura narrativa dell’opera di Boccaccio.
La scelta delle novelle appariva ancora caratterizzata da estrema eterogeneità. Solo tre novelle del Decameron sono di ambientazione partenopea; Pasolini rafforzava la “napoletanità” della propria rivisitazione trasferendone altre, di ambientazione toscana, a Napoli e dintorni.[12] Rispetto al trattamento, nella sceneggiatura, datata 26 agosto 1970,[13] Pasolini allentò il rigido schema tripartito, eliminando cinque novelle «orientali» o «nordiche» e aggiungendone due nuove, e cercando di bilanciare il rischio dell’eccessiva frammentarietà con una maggior omogeneità d’ambiente (napoletano e popolare).[14]
Dalla sceneggiatura alla forma definitiva del film, il cambiamento più importante riguardò la sostituzione dello schema tripolare con quello bipolare.[14] Furono eliminati il racconto-cornice di Chichibio e altre due novelle (tra cui quella di Alibech, nel trattamento definita dall’autore di «grazia sublime»,[15] ma ritenuta dissonante rispetto al resto del film e comunque eliminata solo all’ultimo, tanto che gli interpreti appaiono comunque accreditati nei titoli di testa), e furono effettuati degli spostamenti strutturali che diedero maggior coesione all’insieme. Malgrado l’apparente eterogeneità dell’intreccio, il film mostra una logica interna e una sostanziale omogeneità,[16] a cui contribuisce la napoletanità che pervade tutti i dialoghi. In merito a questa scelta linguistica, Pasolini affermò: «Ho scelto Napoli contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano».[17]
Un’importanza particolare riveste, fin dal trattamento e poi nelle elaborazioni successive, il racconto di Giotto che si reca a Napoli per affrescare la chiesa di Santa Chiara. L’artista figura in effetti nella novella 5 della VI giornata, che però è ambientata nei dintorni di Firenze e ha andamento aneddotico. Nel progetto pasoliniano, invece, la vicenda giottesca costituisce uno dei racconti-cornice delle (progettate tre, e poi effettive due) parti dell’opera. Inoltre, e fin dalla prima stesura, a Giotto è affidato l’explicit del film: guardando la sua opera compiuta, nel trattamento l’artista «ha un lieve, ingenuo e misterioso sorriso»;[18] nella sceneggiatura «nel suo viso è stampato – come una leggera ombra, non priva di malinconia – il sorriso dolce, misterioso e ingenuo con cui l’autore guarda la sua opera finita»;[13] mentre nel film (in cui Giotto diventa «un allievo di Giotto», forse contestualmente alla decisione di Pasolini di interpretare in prima persona il personaggio)[19] pronuncia, di spalle, la battuta «Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?», aggiunta dal regista direttamente sul set.[20]
Marie Takvam (Ørsta, 1926 – Lier, 2008) è stata una scrittrice norvegese, che si è distinta come poetessa, autrice di romanzi e libri per bambini, drammaturga e attrice.
Nel 1952, Takvam fece il suo debutto letterario con la raccolta di poesie “Dåp under sju stjerner” (“Battesimo sotto sette stelle”).
Nel corso di 45 anni di carriera, ha pubblicato ben 12 raccolte di poesie, esplorando temi come la natura, l’amore, la perdita e la condizione umana.
La sua poesia è caratterizzata da un linguaggio semplice e diretto, spesso permeato da una vena malinconica e riflessiva.
Tra i riconoscimenti ottenuti, figurano il Premio Brage per la poesia nel 1970 e il Premio Gyldendal nel 1987.
Marie Takvam ha scritto anche romanzi e libri per bambini, ottenendo un notevole successo in entrambi i generi.
Ha inoltre esplorato il teatro, scrivendo opere teatrali che affrontano tematiche sociali e psicologiche. La sua vena artistica l’ha portata a recitare in diverse produzioni teatrali e cinematografiche.
Marie Takvam- Poesie
Devi essere arrivato in città!
Lo vedo chiaramente.
Tutte le case mi stanno sorridendo.
Hanno capito che ti amo.
Devi essere arrivato in città!
Lo vedo dagli alberi del parco.
Hanno foglie vibranti,
ricevono baci dal sole e dal vento.
Devi essere arrivato in città!
Perciò
questa gioia incredibile
dalla luce e dall’aria
dalle barche a vela nella brezza.
Tutto è diverso oggi.
Quel che ieri era una lunga serie di case grigie
oggi è dipinta di oro e porpora
dal tramonto del sole.
Quella che ieri era gente qualunque
che andava al bus o all’auto
oggi sono persone
con una vita dentro.
Ciò che ieri era traffico e frastuono
oggi è il battito del cuore della città,
quello grande che fa muovere tutto!
In breve: Tu devi essere arrivato in città!
Marie Takvam nasce il 6 dicembre del 1926 a Tranby. Le notizie biografiche su Marie Takvam sono piuttosto scarse, sebbene le sue poesie tradiscano molti aspetti della sua personalità. La critica, infatti, considera la sua poesia privata e autobiografica. Non si può negare che c’è sempre qualcosa di autobiografico nel lavoro di un artista, dal poeta allo scultore, al musicista.
L’autrice scrive in nynorsk.
Negli anni ’70 fu la protagonista nel film di Vibeke Løkkeberg “Åpenbaringen – Rivelazione”. Takvam ha scritto anche numerosi libri per l’infanzia.
Cresciuta a Sunnmøre, si trasferì giovane a Oslo. Debuttò nel 1952 e da allora ha prodotto una serie di raccolte poetiche e di romanzi. Comincia a scrivere seguendo una linea poetica legata ancora alla tradizione, ma in seguito le sue raccolte di poesie si fanno sempre più ricche di spunti modernisti, con frasi brevi ed enigmatiche, immagini fantastiche, ma piene di vita, sensualità, sensibilità, emozione, carnalità, passione, intelligenza, ironia ed eleganza. Un mondo poetico fatto di contrasti e ritmi vivaci come la vita che Takvam racconta in rima.
Fin dal debutto nel 1952, i libri di Marie Takvam, senza eccezione, sono stati considerati biografici e intimisti. Con la raccolta di poesie del debutto “Dåp under sju stjerner – Battesimo sotto sette stelle”, si viene a conoscenza già della struttura della lirica della scrittrice in prospettiva delle sue successive raccolte. C’è l’amore, la dissoluzione, l’anelito metafisico, l’identificazione con le persone che soffrono. Paal Brekke, in una sua recensione, ammise di essere stato felice di aver letto quel libro. Scrisse che Marie Takvam «è una persona ricca, assolutamente giovane che anche in questi giorni osa credere nella vita». Nel 1952 Marie Takvam aveva 25 anni e Paal Brekke 29, quattro anni in più rispetto a quella “persona assolutamente giovane” fanno sì che Brekke si esprimi in modo così paterno nei confronti dell’esordiente scrittrice.
[…] Leggere la poesia di Takvam negli anni ‘50 in relazione agli avvenimenti contemporanei è come mettere benzina su un fuoco addormentato. Senza mettere in dubbio le qualità liriche di altri scrittori, si può ben dire che la poesia di Takvam è molto più incentrata sul “desiderio” di quella di Hagerup e Halldis Moren Vesaas; le poesie contengono molto più sarcasmo di quanto se ne possa trovare in Erling Christie e André Bjerke. Nel temperamento c’è solo Gunvor Hofmo che supera Takvam, ma le due scrittrici sono ben lontane dall’essere confrontate: tutti i più importanti giudizi di Hofmo sono di tipo metafisico, mentre quelli di Takvam appartengono al dramma della storia e del tempo.
Le poesie in prima persona di Takvam non escludono il fatto che, oggi, la sua eredità spirituale e la sua umanità siano un patrimonio comune condiviso con ogni lettore. Nell’Io narrante di Takvam chiunque può sentirsi libero di identificarvisi e con maggior convinzione quando una poesia comincia così: «Io …»
Bibliografia:
“Dåp under syv stjerner – Battesimo sotto 7 stelle” (Poesia – 1952)
«Come al solito», rispose la Sibilla, «ho cominciato pescando nella mia memoria. La memoria dei nonni è importante per i bambini, dà loro la dimensione della fluidità del tempo, del continuo scontro-incontro tra passato e futuro. Il passato è l’assuefazione a modelli costruiti in precedenza, il futuro la trasgressione critica per migliorarli e superarli».
Joyce Lussu, Il libro delle streghe
Introduzione
Da un finestrino appannato di un piccolo treno regionale marchigiano che una sera d’inverno da Porto San Giorgio mi porta a casa, una manciata di chilometri più giù, guardo il cielo notturno. La linea adriatica corre lungo il mare aperto, ora calmo, bellissimo, anche se in quel periodo lo spettacolo è sopra, nello spazio profondo. Sono i mesi della grande stella che passa a chiudere un secolo denso e complicato. A voler essere definitivi, chiude un intero millennio. La stella si mostra ogni sera in tutto il suo splendore, nitida e dinamica, è la cometa più luminosa che si sia mai vista.
È il 1997 e vivo a Milano da un po’, dopo un periodo passato a Bologna dove mi sono trasferita per l’università. Le volte che torno nelle Marche, invece di rivedere i vecchi amici ormai persi per strada, prendo questi vecchi treni regionali e corro da Joyce Lussu, o arrivo fino ad Ancona dove mi aspetta il nostro comune editore e amico Massimo Canalini della Transeuropa.
I miei ritorni quegli anni nelle Marche sono principalmente per lavoro e per studio. Laggiù, in una bella casa di campagna tra Porto San Giorgio e Fermo che si chiama San Tommaso, località Paludi, vive una donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, forza, argomenti, intelligenza. La mia Joyce, la mia sibilla.
Quando la incontro la prima volta è il novembre del 1991, un mese dopo l’uscita del mio primo libro. Lei ha settantanove anni, io ventuno. È nata nel 1912, come mia nonna Fernanda, e io di fama la conosco da sempre. Da quando la maestra alle elementari ci leggeva la sua poesia Scarpette rosse, che avevamo stampata nel sussidiario accanto a poesie di Brecht, Tagore, Neruda, e i miei compagni scoppiavano a piangere, perché è una poesia che fa piangere. Il suo nome mi è noto da sempre perché in casa si parlava di Joyce come della sorella di Gladys, per via di parenti comuni.
Mi ha mandato a chiamare lei ma sono anni che desidero conoscerla. Lei non sa che io l’ho già sentita al telefono. Infatti Canalini in casa editrice ad Ancona, rispondendo alle chiamate, aveva questo dannato vizio di mettere le persone in vivavoce per lasciarsi le mani libere di continuare a trafficare con bozze e floppy disk (era ancora l’epoca dei dischetti, dei nastri registrati e dei manoscritti). Avevo dunque avuto modo di assistere, spettatrice silenziosa, a una tremenda scenata di Joyce contro di lui che non si decideva a ripubblicare l’introvabile Portrait. Alquanto seccata, la scrittrice riversava via telefono accuse, insulti, reprimende severe e giuste su quei giovani editori anconetani che avevano costruito la loro iniziale fortuna proprio grazie ai suoi libri. Canalini taceva, incassava, annuiva, le dava ragione. Però non ristampava.
«Ma perché cavolo non ristampi, pure tu», gli dicevo. «È un libro bellissimo».
Me ne aveva data una copia e lo avevo divorato. Avevo preso anche Il libro delle streghe, Alba rossa che conteneva Fronti e frontiere, e poi il libro della nonna di Joyce, Lanostra casa sull’Adriatico, e Le inglesi in Italia, un albo di grandi dimensioni sulla storia della famiglia (e del territorio). Tutti editi da Transeuropa/Il lavoro editoriale a partire dagli anni Ottanta.
Portrait è stata la prima autobiografia di Joyce. Nella sua edizione anconetana contiene «116 foto rare, mai pubblicate». Penso che molti dei problemi che ostacolavano un’eventuale ristampa fossero legati al costo della riproduzione delle foto. Almeno credo, perché della piccola editoria, e di quella marchigiana in particolare, ci sarebbe molto da dire (e si dirà: molti dei libri di Joyce sono usciti, per sua scelta, da piccoli editori, indipendenti e di cultura).
Comunque, conservo gelosamente quella copia introvabile con le sue foto straordinarie. Tante Joyce, dall’infanzia alla vecchiaia, in vari contesti. Una piccola Joyce a Firenze coperta solo di meravigliosi capelli lunghissimi, alla moda vittoriana delle foto inglesi di Lewis Carroll. Joyce con i fratelli, Max e Gladys. Una Joyce signorina vestita da amazzone con maestosi cavalli, nelle Marche, a casa del nonno. Una Joyce studentessa di filosofia nella Heidelberg degli anni Trenta. Poi una ragazza in Africa, approdata lì in cerca di lavoro con un fascicolo già aperto a suo nome nel Casellario politico centrale della polizia fascista. Una foto con Benedetto Croce, amico e primo curatore delle sue poesie. Quindi, una serie di scatti di Joyce ripresa dietro a un microfono, in piazze o in case della cultura, trasmissioni televisive (però all’estero, rare le sue apparizioni in televisione in Italia), in sedi o a congressi di partito, riunioni di partigiani, di intellettuali mondiali per la pace, di scrittori. Il momento in cui un generale appunta la medaglia d’argento al valor militare sull’abito che so essere rosso di una Joyce sorridente in occhiali da sole. Joyce con Emilio, Joyce con il figlio Giovanni. Joyce in Sardegna, poi in marcia con i guerriglieri del Curdistan, della Guinea-Bissau. Joyce con Nazim Hikmet, penna in mano e fogli ben distesi. Joyce su una sdraio con un bel nipotino, roseo e attento, seduto sulle ginocchia. Entrambi guardano nell’obiettivo, sorridenti e fiduciosi. Aspettano il futuro, sereni.
È per un libro di foto che Joyce mi ha mandato a chiamare. Si intitolerà Streghe a fuoco, parlerà di donne, e sarà composto collettivamente, con una serie di testi di donne scelte da Joyce e relative fotografie fatte da Raffaello Scatasta, fotografo di Fermo che vive a Bologna da sempre (scoprirò con sorpresa, subito, che abita praticamente oltre il muro della casa in cui mi sono trasferita da due mesi, in una traversa di Strada Maggiore, lui al 3 io al 5, e che le nostre finestre sono adiacenti: roba da streghe, davvero).
Arrivo, dunque, a casa di Joyce per la prima volta una sera di novembre del 1991. È buio e sono anni che non vado in visita da qualcuno che abita in campagna, ma è una situazione che mi è molto familiare e mi porta indietro alla mia infanzia, a cose che mi sono note: una luce accesa su un portoncino di legno di una grande villa padronale, con attorno la notte che avvolge i campi fino al fiume, i rumori e gli odori dei fossi, l’umido autunnale, la pioggia sulle foglie del giardino. È la prima volta che vedo casa di Joyce (e di Gladys e di Max, insomma dei Salvadori), ma tutto quello che c’è fuori lo conosco bene: è la campagna marchigiana disegnata dalla mezzadria, è la provincia picena in cui pure io sono nata, è una delle vallate che corrono tra l’Adriatico e i Sibillini.
Gladys ha disegnato un albero genealogico che, a casa dei miei, è sistemato su un leggio di peltro brunito. Quando eravamo piccole, noi figlie lo ammiravamo intimorite, fiorito com’era di ghirigori e nomi scritti in caratteri con le grazie, su pergamena, con in cima un’intestazione latina: Ciccus Gratianus, che sarebbe il capostipite della famiglia materna di mio padre. Noi bambine cantavamo quei nomi solennemente, per poi ridere, avvolte in lenzuola che dovevano fungere da mantelli, perché eravamo attratte dagli svolazzi e dal latino e dai nomi di quegli sconosciuti che, in qualche modo a noi oscuro e lontano, ci avevano preceduto.
Le famiglie Graziani e Salvadori si erano incontrate a metà dell’Ottocento e questa lontana parentela era testimoniata dalla presenza, in entrambe, di echi di nomi inglesi: mio padre aveva infatti un cugino di nome John, anche se tutti lo chiamavano Gione (così come Joyce veniva chiamata dai contadini anche Iole, Gioice, Giove: la storia dei nomi di Joyce/Gioconda comincia subito). C’era un legame tra le due famiglie, dunque, che risaliva alla «tribù anglo-marchigiana» (definizione di Joyce) nata con l’arrivo nelle Marche di un gruppo di signorine inglesi, e se nella nostra parte di british rimaneva ben poco, nel ramo Salvadori quelle ladies avevano lasciato un imprinting preciso: il loro pensiero cosmopolita, libertario e femminista aveva prevalso sull’immobilismo marchigiano della parte maschile della genealogia.
Non parlerei di tutto questo se, a un certo punto, non diventasse importante, per Joyce, risalire all’indietro, ad ascendenze che spiegano l’amalgama culturale e ‘antropologico’ di un posto, di una famiglia, di una storia. Succederà dopo un po’ nel suo percorso, dopo che si sarà messa sulle carte a fare la storia da una prospettiva un po’ diversa, originale come è originale tutta la sua opera. Perché Joyce la storia l’ha fatta di persona, da protagonista, ma anche da studiosa.
La storia è anche dentro casa di Joyce, in quella casa in cui entro per la prima volta e che colpisce molto chiunque l’abbia visitata. Intanto, a quell’epoca, c’è dentro Joyce. Avvolta in un elegante e caldo scialle colorato, mi accoglie con un gran sorriso, contornata da amiche che chiacchierano, ridono, fumano (e mi squadrano: ovvio, sono quella che, giovanissima, ha appena pubblicato un libro). Mi parla subito del suo progetto di libro sulle streghe, mi fa dono di un libro di Mimmo Franzinelli sui cappellani militari che devo leggere assolutamente, mi dice, e uno su padre Agostino Gemelli e i suoi legami col fascismo.
Dopo quel giorno, tornerò tutte le volte che posso.
Non c’è solo quel libro iniziale, collettivo e fotografico, a tenere insieme i nostri discorsi. Ce ne sarà un altro, anni dopo, frutto di decine di incontri con lei fissati su nastro. Ore e ore di registrazioni che realizzo nel corso di mesi, di anni, andando a trovarla per parlare della sua vita, dei suoi pensieri, della sua storia, per raccogliere la sua lezione. Non uso a caso questa parola: per anni Joyce ha girato per le scuole parlando ai più giovani, facendo storia tra i banchi, confrontandosi con studenti e studentesse di ogni età e anche con i loro insegnanti, cercando di rispondere a domande semplici e per questo fondamentali. Per esempio: che vuol dire ‘civiltà’? Come nasce la violenza nella società? Com’è stato possibile che una minoranza si sia impossessata delle ricchezze a scapito di una maggioranza sfruttata e sottomessa? Che cos’è la pace? Come mai le donne sono state perseguitate per secoli? E ancora, cosa significa combattere nella resistenza per un’antimilitarista?
Vado da lei a porre a mia volta delle domande, come secoli fa pellegrini e viandanti salivano sui Sibillini, fino alla grotta della signora che, narra la leggenda, circondata dalle sue fate tesseva i fili di passato, presente e futuro, e di cui la stessa Joyce ci ha lasciato un’interpretazione nuova e molto affascinante. D’accordo, non proprio, non le ho mai detto: «Cara Joyce, tu sei una sibilla: sei tu la nostra sibilla»; tuttavia, molte persone la chiamavano in questo modo e capitava spesso, quando veniva invitata in giro per l’Italia, che venisse presentata così in pubblico. Naturalmente ne rideva, di questa storia della sibilla che le attribuivano.
Anche dopo la sua morte, molti sono stati gli interventi, incontri, approfondimenti in cui si è usata questa dicitura per definirla. C’è un titolo che ricorre spesso, in articoli di giornale o nei convegni sulla sua figura: Joyce Lussu, sibilla del Novecento. Anche il Novecento è stato usato spesso per parlare di lei, perché lei è stata il Novecento. È stata un tempo, un intero secolo, ed è stata un mondo.
Quando mi capita di doverla definire, raccontare a chi non la conosce, a volte snocciolo un elenco: partigiana, poetessa, scrittrice, traduttrice, storica, politica, combattente, medaglia d’argento per la lotta di liberazione, compagna di Emilio Lussu, intellettuale, agitatrice culturale, saggista… A volte cambio l’ordine, di alcune definizioni so che avrebbe da ridire (per esempio su «intellettuale», e probabilmente pure su «agitatrice culturale»), quasi sempre mi sembra che nessuna di queste etichette riesca a dar conto della sua grandezza, neanche se messe – appunto – tutte assieme.
E allora forse sibilla è una figura che sono autorizzata a usare, adesso, anche io, per dire di Joyce.
E sono di nuovo su quel treno di tanti anni fa, che corre lungo il mare nella notte, sotto la cometa, continuando a pensare a Joyce, a Emilio, alla loro vita luminosa
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Già durante quei viaggi di ritorno da casa di Joyce, anche se l’avevo lasciata da pochi minuti, mi capitava di pensare a Joyce ed Emilio insieme e di provare una sorta di ‘mancanza’. Gli incontri con Joyce erano impegnativi, nel senso che sollecitavano molte questioni e costituivano una sorta di richiamo a studiare, lavorare, approfondire. Ed erano straordinariamente intensi perché, per una lettrice e per una persona alle prese con la scrittura com’ero, c’era davvero moltissimo per riflettere e di cui fare tesoro. Faceva un certo effetto sapere che certe storie che sembravano pura fiction, le storie che leggevo nei suoi libri e che la riguardavano, erano invece avvenute davvero e che i protagonisti erano esistiti e si erano comportati in maniera così magnifica. Una di quei protagonisti la conoscevo, ce l’avevo avuta davanti fino a un attimo prima, e magari in quel momento stava mangiando un gelato al marron glacé con l’amica con cui mi aveva accompagnato alla stazione di Porto San Giorgio. Io, invece, stavo tornando a casa col mio bottino di cassette registrate, stordita da tutti gli argomenti venuti fuori e discussi sempre col taglio alla Joyce, brillante e vivace, inaspettato, mirato, scomodo, ed ecco che nella solitudine un po’ appannata del treno cominciavo a pensare a Joyce ed Emilio giovani, insomma trentenni, o almeno adulti (lei giovane adulta, all’epoca del loro incontro, lui uomo maturo, dato che aveva ventidue anni di più, ma insomma non anziani), ed era facile per me pensarli come ‘amici’ reali, umani, pieni di spessore e sostanza.
Mi dispiaceva non averli potuti conoscere in coppia, particolarmente perché in quella fase della mia vita – e dello ‘studio’ della scrittrice Joyce – sentivo di dovermi concentrare soprattutto sulle vicende della resistenza che li avevano visti protagonisti coraggiosi e bellissimi. Intanto avrei voluto ringraziarli per i rischi che si erano presi. Poi non avrei mai smesso di chiedere storie su quel periodo. Un po’ perché appartengo alla generazione dei nipoti che da piccoli si facevano raccontare dai nonni le storie di guerra, essendo i genitori concentrati a fare altro e non avendo per motivi anagrafici troppi ricordi su quel periodo, un po’ perché ho sempre considerato la seconda guerra mondiale un punto decisivo e fondamentale per capire tutto quello che era arrivato dopo. E a scuola, naturalmente, non ci si arrivava mai, col programma. O meglio, alle scuole elementari avevo avuto una maestra molto sensibile all’argomento (era stata vittima delle leggi razziali del ’38) e le avevo frequentate in un periodo in cui in classe si parlava molto della pace e si leggevano appunto le poesie di Joyce Lussu, però poi alle superiori, quando si sarebbe dovuta approfondire e analizzare la storia del Novecento, tutto veniva travolto dalla fretta della maturità incombente, delle ultime interrogazioni ecc. ecc., insomma tutti i problemi che ci sono – incredibilmente – ancora oggi. Così a quell’epoca stavo cercando di recuperare i pezzi che mi mancavano e, allo stesso tempo, avevo avuto questa fortuna pazzesca di trovarmi Joyce, storica e scrittrice, a portata di mano, disponibile a raccontare e condividere.
Pensavo spesso a Joyce ed Emilio, alle loro storie. Le avevo lette, le avevo ascoltate. Erano storie straordinarie. Il loro incontro, la loro storia insieme non smetteva di stupirmi.
Ed è da lì che partirò.
Chi è, dunque, Joyce quando, a ventun anni, incontra per la prima volta Emilio Lussu a Ginevra?
È la figlia di due persone che il capitano sardo conosce già, una ragazza in esilio da tempo insieme alla sua famiglia. Alta, bionda, occhi azzurri, portamento aristocratico, Gioconda Salvadori (così all’anagrafe: Beatrice Gioconda Salvadori, ma per tutti Joyce) è una donna di bellezza eccezionale, con un notevole fascino che le arriva da nascita e formazione. Determinata, pragmatica, colta, ha una coscienza politica molto forte. E poi, scrive poesie.
Pur essendo giovane, ha già viaggiato molto, per scelta e per necessità. Appena può si sposta tra la Svizzera, dove ha seguito i genitori fuoriusciti, e l’Italia, dove torna a casa dei nonni marchigiani; è stata un semestre in Africa per lavoro; ha soggiornato un paio di anni in Germania per studio.
Nata a Firenze l’8 maggio del 1912, terza dopo Gladys (Perugia, 1906) e Max (Londra, 1908), Joyce è in fuga dal ’24. Ha dodici anni, infatti, quando nella sua vita di ragazzina accade un evento cruciale, un atto di grave violenza che condizionerà la storia della sua famiglia: il pestaggio subito dal padre, uscito vivo solo per un caso dall’assalto di una squadraccia fascista.
Suo padre, Guglielmo Salvadori, filosofo positivista-evoluzionista, professore di Sociologia (uno dei primi laureati in Italia in Scienze sociali, con seconda laurea in Filosofia presa a Lipsia), è il traduttore dell’opera del filosofo Herbert Spencer, uscita per l’editore Bocca. A Firenze ha una libera docenza che esercita a titolo gratuito. Scrive su riviste e giornali, collabora con il «New Statesman» e la «Westminster Gazette», mentre sua moglie è corrispondente del «Manchester Guardian» per il quale scrive diverse critiche al regime. Sono, per questo, due intellettuali nel mirino.
Entrambi appartengono a nobili famiglie marchigiane di proprietari terrieri del fermano, ma Willy (così viene chiamato in casa Guglielmo) ha rotto i rapporti col padre a causa di divergenze politiche. Né lui né la moglie condividono il conservatorismo retrogrado delle ricche famiglie d’origine. Il padre di Guglielmo, il conte Salvadori Paleotti, è uno degli agrari che hanno organizzato i primi fasci nelle campagne picene e Willy, che ha studiato, è un laico repubblicano con tendenze liberali – meglio dire liberal, all’inglese, per intendersi – e simpatizza con i socialisti (a Porto San Giorgio si è iscritto alla Società operaia), non può tollerarlo. La moglie Cynthia (all’anagrafe Giacinta Galletti di Cadilhac, ma chiamata anche lei all’inglese), che lo ha accompagnato a Lipsia appena sposati per togliersi anche lei da quell’ambiente, la pensa come lui. Come molte donne della sua generazione, non ha frequentato scuole pubbliche e a differenza dei fratelli maschi non è andata in collegio per non rinunciare alla vita in campagna e al suo amore per piante e animali, però parla quattro lingue, soggiorna spesso a Roma con la famiglia per motivi di lavoro del padre deputato, ha studiato disegno a Napoli prendendo lezioni dal pittore Flavio Gioja, è stata un anno a Madras (dove suo fratello Arthur si è trasferito dopo aver studiato al Trinity College di Oxford diventando funzionario britannico in India), è convinta antimilitarista e neutralista. Proviene da una famiglia in cui l’innesto inglese da parte femminile ha lasciato una robusta base di impegno, orgoglio, indipendenza e sensibilità libertaria soprattutto nelle donne, già ‘emancipate’ da qualche generazione e in contrasto con i loro mariti (parlando, in un racconto, di una parente d’inizio Ottocento che si era salvata da un’aggressione grazie al suo atteggiamento, Joyce accenna a «spalle erette e sguardo gelido e diretto, secondo le regole del Collier’s pluck, la grinta di famiglia»). Suo padre, ex ufficiale garibaldino originario di Roma, è stato sindaco di Torre San Patrizio e per cinque volte deputato liberale del collegio di Montegiorgio ma è un uomo che si comporta in modo arrogante, «una specie di Don Rodrigo locale» dice Joyce, un feudatario vecchio stampo che gira per i suoi possedimenti, e per le piazze dei paesi dove fa campagna elettorale, con la carrozza equipaggiata di campieri armati di fucile. La figlia preferisce guardare alla madre scrittrice (che a un certo punto si separa dal marito e se ne torna in Inghilterra), ai cugini inglesi che sono molto attivi nel movimento pacifista e anticolonialista sorto attorno a Bertrand Russell. Parla tranquillamente di rivoluzione: «diceva che l’avremmo dovuta fare nel 1914, per impedire la guerra», scrive Joyce della madre, ricordando certi pranzi a villa Marina, la casa dei nonni Salvadori, dove tornano d’estate «facendo inorridire il parentado» con le loro uscite sovversive (e certe poesie provocatorie scritte dalla piccola Joyce fatte trovare a tavola alla famiglia riunita, infilate per scherzo tra i tovaglioli delle zie).
Orgogliosamente e coerentemente con la scelta di rompere con la loro classe sociale d’origine, Willy e Cynthia hanno rinunciato al sostegno economico dei padri possidenti ma non avendo una vera formazione professionale, e con tre figli da crescere, si sono arrangiati tra lezioni, traduzioni e corrispondenze per giornali inglesi.
In quegli anni scelte del genere – esporsi politicamente, contrastare la propaganda – si pagano care, ed essere prelevati a casa da una squadra di otto fascisti armati fino ai denti per andare a ‘discutere di stampa libera’ alla sede del fascio, dopo esser stati segnalati da una gentildonna della colonia anglo-fiorentina per due pezzi usciti sui giornali inglesi, significa una cosa sola: botte, minacce, torture.
Sono anni molto violenti a Firenze. La città è percorsa da bande di fascisti terribili, duri e fanatici, riuniti in squadracce dai nomi paurosi. Una su tutti, ‘La Disperata’, al cui soccorso arriva ogni tanto ‘La Disperatissima’, composta da squadristi di Perugia che si muovono anche fuori regione spingendosi a fare incursioni fin nelle Marche. Gentaccia pronta a usare bastone e olio di ricino senza alcuno scrupolo, teppisti, criminali come Amerigo Dumini, il capo degli squadristi che un paio di mesi dopo sequestrano e uccidono Matteotti (e che, ricorda Lussu ne La marcia su Roma, era solito presentarsi dicendo «Amerigo Dumini, nove omicidi»).
Il professor Salvadori, per non mettere in pericolo la famiglia, obbedisce alla convocazione senza fare storie e va a piazza Mentana. Entra nel covo alle diciotto del primo aprile e ne esce a tarda sera, coperto di sangue e barcollante. Max, all’epoca sedicenne, che gli è andato appresso perché aveva delle lettere da impostare alla stazione e l’ha aspettato fuori, ha sentito tre brutti ceffi che ciondolano per la piazzetta dire alcune frasi inquietanti.
«Occorre finirlo».
«Già, ma chi l’ha comandato?»
«L’ordine viene da Roma».
In quel momento Willy esce dal palazzo circondato da una dozzina di fascisti esagitati che brandiscono bastoni. Il padre, ammutolito, è coperto di sangue, e quando Max gli si fa incontro per sostenerlo e aiutarlo riceve la sua razione di botte: i picchiatori non hanno finito, la squadraccia li segue fin sul ponte Santa Trinita, vogliono buttare padre e figlio al fiume. I due si salvano solo grazie a una pattuglia di carabinieri che passa di lì per caso, e quando infine arrivano a casa a mezzanotte, malconci e umiliati, sebbene Cynthia mantenga calma e lucidità e Willy cerchi di minimizzare, lo shock è forte per tutti loro. Scrive Joyce in Portrait:
Tornarono tardi, e la scena è ancora nei miei occhi. Noi due donne (mia madre e io, mia sorella era in Svizzera), affacciate alla ringhiera del secondo piano, sulla scala a spirale da cui si vedeva l’atrio dell’entrata; e loro due che dall’atrio salivano i primi gradini, il viso rivolto in alto, verso di noi.
Il viso di mio padre era irriconoscibile; sembrava allargato e appiattito, e in mezzo al sangue che gocciolava ancora sotto i capelli, si vedevano i tagli asimmetrici fatti con la punta dei pugnali: tre sulla fronte, due sulle guance, uno sul mento. Mio fratello aveva il viso tutto gonfio e un occhio che pareva una melanzana. «Non è niente, non è niente», diceva mio padre, cercando di sorridere con le labbra tumefatte. Capii in quel momento quanto ci volesse bene.
In quella sera drammatica che costituisce uno spartiacque nella storia della loro famiglia, Joyce fa tesoro dell’esempio dato dai genitori e dal fratello. Il padre che coraggiosamente cerca di sminuire la portata della violenza e il fratello che lo sostiene forniscono alla Joyce dodicenne «solidità, in quanto alle scelte da fare. Servì a pormi di fronte a ciò che è barbarie e a ciò che invece è civiltà».
La scelta è chiara. Insieme alla pena per quello che è successo ai suoi cari, nella giovanissima Joyce, quella sera di primavera, si impone repentina una reazione, un’intuizione:
Ma un altro pensiero mi traversò il cervello come una freccia.
Noi donne eravamo rimaste a casa, in relativa sicurezza; mentre i due uomini della famiglia avevano dovuto buttarsi allo sbaraglio, affrontare i pericoli esterni, la brutalità di una lotta senza quartiere. E giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anch’io.
Questa promessa di Joyce, la sua risoluzione, scandita in quell’enunciato finale breve come una sentenza e con la scelta di una parola forte come «rissa», mi è sempre sembrata molto potente. Una di quelle decisioni prese in un’età precisa e a cui attenersi, fedelmente, per tutta la vita. Un fondamento ineludibile, un ‘cosa voglio fare da grande, chi voglio essere’. Un centro, un asse, la definizione della propria, fortissima, personalità, ciò che intendiamo con carattere, e in questo caso anche con tempra, che ci arriva da formazione e circostanze, ma soprattutto da nostre scelte.
Sembra una formulazione semplice, cristallina, ma dietro c’è una scelta etica esistenziale molto impegnativa. Joyce racconta quella scelta sempre con grande linearità, senza mai lamentarsene, anzi rivendicandola come una cosa naturale, il da farsi in quel momento. Ma non è affatto una cosa ovvia, anzi. Né ovvia né facile.
I giovani Salvadori stanno già pagando un prezzo alto per le loro scelte. Max è stato pestato a scuola, da un gruppo di compagni del ginnasio, un anno prima. E adesso la violenza contro il padre con annuncio di «sentenza di morte», la fuga, l’esilio.
Guglielmo darà poi mandato al suo avvocato di avviare un procedimento legale contro gli aggressori, ma la macchina della violenza continuerà ad agire indisturbata: avvocato minacciato, studio del successore sfasciato, intimidazione testimoni, insabbiamento procedura, impunità per gli aggressori. Tutto questo viene raccontato da Salvadori in un articolo di due pagine comparso sul quindicinale parigino «Il becco giallo» (I fasti del duce e del fascismo, 1928) e da Gaetano Salvemini in The Fascist Dictatorship in Italy (pubblicato a New York nel ’27) per spiegare come il potere fascista si fondi su violenza, asservimento delle istituzioni e autoritarismo. A quell’epoca, all’estero, si pensa ancora che si tratti di un momento transitorio e che il regime sia tutto sommato rispettabile: molte cancellerie provano simpatia per Mussolini, non avendo ancora chiara la portata del fenomeno (Churchill, all’inizio, aveva definito Mussolini «un leader ammirevole»). Serviranno i racconti dei fuggiaschi per far uscire voci e testimonianze da un’Italia completamente bloccata dalla censura.
Ai figli Salvadori il rientro in Italia è consentito ma ogni volta devono chiedere permessi e passaporti, perché per il momento il loro paese li considera nemici, il sistema li ha rigettati come oppositori ‘per nascita’. Tutto ciò comporta un senso di sradicamento, conferma la precarietà, la disparità di diritti: fanno una vita da emarginati, da esclusi, da respinti.
Rileggendo alcune dichiarazioni di Joyce, che si trovano magari in piccole prefazioni a suoi libri meno noti, in un paio di occasioni il peso di quella condizione si scorge in filigrana. È la condizione dei perseguitati, in questo caso per motivi politici, per i loro ideali, e la persecuzione non è indolore. Scrive, riflettendo sulla sua storia, in una introduzione a un libro sui suoi avi: «Non ho nostalgia per l’infanzia e la gioventù, che rappresentano per me epoche di immaturità, d’insufficiente autonomia e perciò di frustrazioni; sto molto meglio ora, con una maggiore padronanza di me e delle cose».
A cosa si riferisce? A un errore di gioventù che vedremo più avanti (un matrimonio finito male), ma anche alla sua situazione generale, credo. Alla condizione che il regime ha ritagliato per lei senza che, troppo piccola, potesse ancora opporvisi fino in fondo come avrebbe fatto dopo.
E probabilmente Joyce sta pensando a una fase della vita problematica per molti, sempre (l’adolescenza, l’incompiutezza dei primi anni da giovani adulti), ma sorprende scoprire che la magnifica oratrice, la donna capace di affascinare intere piazze, che non esita a salire su un palco per discutere e rispondere alle domande di chiunque e che in privato non si sottrae a confronti anche duri e memorabili lasciando gli interlocutori strapazzati e ammutoliti, fino a una certa età sia stata molto timida. Ed è lei stessa a raccontarlo: «Il fatto di non essere mai andata a scuola mi aveva reso difficile la comunicazione, perché innanzitutto la scuola serve non per quel che impari a fare ma per la possibilità di stare insieme agli altri, per un fatto ‘sociale’ che a me era mancato. Di fronte al mio simile avevo dei blocchi, avevo l’incapacità di comunicare, una scarsissima fiducia in me stessa. È quel che capita ai giovanissimi, credo». La Joyce silenziosa e insicura, tra la bambina allegra e desiderosa di imparare tutto e scherzare (Giacinta, nel suo diario, la descrive come una bambina di grande vitalità, serena, che «non sente che il bisogno di vivere e agire»; ne documenta gli interessi, vivissimi, il tempo trascorso ad ascoltare con stupore la zia Minnie che suona, l’ammirazione per i discorsi complessi del fratello Max, le passeggiate a cavallo con Gladys, le battute scambiate col padre, le domande che pone ai genitori e per le quali i genitori non hanno tutte le risposte) e la donna piena di verve e «gioiosa aggressività» che diventerà, è un inedito assoluto per chi l’ha conosciuta. Ma è assolutamente credibile, vero, naturale.
E frustrazione e impotenza sono sensazioni note a Joyce: il regime ha cercato di imporgliele ma lei le ha sempre combattute, cercando in tutti i modi di contrastarle con l’azione, altro principio fondativo della sua vita. È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza.
Dunque, la sua rivolta personale risale alla prima giovinezza. Per lei che ha sempre tenuto in grandissima considerazione il giudizio dei genitori («sarei morta piuttosto che rischiare, con un atto di vigliaccheria, di perdere la stima di mia madre»), deve essere stato pesante, a quell’età, subire la persecuzione fascista, assistere alle violenze contro i suoi cari, essere costretta all’esilio. Dall’altra parte, la saldezza delle posizioni dei genitori la tengono ancorata a principi e valori che lei condivide in toto e che le offrono una vita molto più ricca e interessante di quella che potrebbe avere se, per esempio, volesse andare a vivere con i nonni. Su questo è molto chiara e non ha tentennamenti: «Le cose che loro m’avevano insegnato per me andavano benissimo e ho continuato su quella strada. Ma a me è andata anche bene, poiché non ho mai subito quel genere di traumi che incombono su tutti i ragazzi che hanno dei veri conflitti coi genitori. Non è naturale mettersi contro i propri genitori. Mio padre, che l’aveva fatto, è rimasto traumatizzato non poco. Certo, il suo coraggio è servito a noi, ma per lui è stato un trauma terribile. Io credo fermamente che poiché lui l’aveva subito, noi ci siamo salvati».
Joyce è insofferente verso il sistema, a quell’età, non certo verso la sua famiglia. E il sistema non è solo spietato, ma si regge su persone mediocri, conformiste, piccoli burocrati a cui viene conferito un potere di arbitrarietà spaventoso. Lo racconterà bene in apertura di Fronti e frontiere, il suo testo sulla guerra di liberazione, quando narra del passaporto annullato, della fatica di avere i documenti sempre sottoposti a valutazione e giudizio, di sentirsi respinta dal suo paese.
Ma è anche vero che l’intelligenza non è necessariamente collegata all’esperienza, alla maturità: «Non so se il tempo è veramente qualcosa che matura, poiché secondo me l’intelligenza viene per illuminazioni rapide e profonde. Le cose da cui ho imparato di più non erano dovute al tempo o alla ripetizione, ma erano proprio delle luci che si accendevano».
Joyce si definisce «proletarizzata dalla lotta». Da una parte la famiglia d’origine, con gli agi, le rendite da aristocrazia terriera, il blasone, dall’altra i genitori convintamente indipendenti, libertari, che vivono da intellettuali e non vogliono saperne dei privilegi della loro classe di partenza. Commentando le foto di Portrait,Joyce scrive: «Quelle che mi sembrano più incongruenti e quasi comiche, sono le fotografie dell’infanzia e della prima gioventù. Si vede una graziosa bambinetta ben pettinata e lavata, con l’abitino buono (povera mamma, che ci cuciva tutti i vestiti riciclando vecchi cenci e ci cucinava la dieta mediterranea perché aveva tanti pochi soldi!); oppure una cavallerizza con splendidi cavalli, che sembra la figlia di un lord senza preoccupazioni economiche».
La bambina pettinata e lavata coincide solo in parte con il quotidiano della piccola Joyce a Firenze. Assomiglia di più, forse, alla ragazzina che passa le estati dai nonni in campagna, arrivando dalla città.
Pochi giorni dopo l’aggressione, minacciati dalla promessa che i fascisti sarebbero tornati per la seconda, definitiva, lezione («davano lezioni, questi», commenterà Joyce), i Salvadori lasciano Firenze. Cynthia ha un passaporto con il nome da ragazza, fatto l’anno prima per andare a trovare sua madre in Inghilterra, Willy solo una tessera del Touring Club (i documenti gli sono stati sequestrati) che gli permette di passare cinque giorni oltreconfine per ‘motivi turistici’. Partono a scaglioni, diretti al cantone di Vaud, nella Svizzera francese. Hanno individuato quella destinazione, a differenza dei loro pari fuoriusciti della prima immigrazione che scelgono la Francia, perché lì, grazie a qualche parente e a conoscenti inglesi, hanno contatti con gruppi libertari cosmopoliti.
C’è una scuola lungo il lago Lemano, in un paese chiamato Gland, la Fellowship School, una scuola che trae ispirazione dall’esperienza del Cabaret Voltaire (il locale di Zurigo sorto con intenti artistici e politici, culla di dadà, avanguardia, sperimentalismo e radicalismo). La gestisce Emma Thompson, quacchera nata nel Kent, prima donna a diplomarsi in Scienze sociali presso lo Stockwell College of Education di Londra, che dopo una vita di insegnamento tra Francia e Inghilterra con i suoi risparmi ha aperto in Svizzera una propria scuola in cui mettere in pratica le sue teorie pedagogiche in modo libero e innovativo. In questa scuola che si regge con i fondi di quaccheri britannici e di mecenati antimilitaristi, i ragazzi alloggiano in villette e hanno la possibilità di incontrare le celebrità del pacifismo di quegli anni, da Romain Rolland a Coudenhove-Kalergi, da Bertrand Russell a Pandit Nehru, più vari personaggi di passaggio che tengono lezioni interessanti e attuali. Joyce e Max la frequentano per un po’, mentre i genitori sono ospiti di amici, poco lontano. Gli scolari si applicano in attività pratiche, puliscono, cucinano; fanno belle passeggiate negli idilliaci scenari svizzeri di prati, montagne, laghi e villaggi. Arrivano da tutto il mondo e l’impostazione internazionalista è molto forte, ci si rivolge agli insegnanti con espressioni in sanscrito perché serve una lingua comune; si imparano canti e danze popolari di varie culture; si fa meditazione.
I mesi in quella scuola nuova e alternativa sono uno dei pezzi della particolarissima formazione di Joyce, non il più importante ma di sicuro il più singolare. Fino a quel momento ha ricevuto un’educazione frammentaria, essendo stata ritirata dalle elementari già nel ’23, dopo la riforma Gentile, sia per motivi economici – in casa non si riescono a pagare divise, tasse, libri di scuola di tutti – sia per l’impostazione troppo fascista della scuola italiana quanto a pedagogia e contenuti. In famiglia ha ricevuto molti insegnamenti in storia, storia dell’arte, letteratura, latino, greco, geografia, disegno, ma si sente un po’ carente nelle materie scientifiche come matematica e chimica. Dell’infanzia fiorentina rievocherà spesso la quantità di libri che i genitori si erano portati dalle Marche, il fatto che leggessero tutti insieme, anche in lingua originale («mio padre aveva una bella voce sonora ed era un ottimo dicitore»).
Ai bambini Salvadori viene dato da leggere di tutto, dalla letteratura inglese per l’infanzia di ottima qualità, ai fumetti, ai libri di storia, ai classici che i genitori ritengono adattissimi anche per la più piccola. Le fanno leggere la Divina commedia liberamente, senza particolari spiegazioni o commenti, e lei la apprezza molto e impara, arricchisce il suo linguaggio, familiarizza con la versificazione. «Un giorno che mio padre in cucina aveva alzato un po’ troppo la voce sono arrivata e gli ho detto ‘Taci maledetto lupo, consuma dentro te con la tua rabbia!’ e la lite si è risolta in risate».
Non avendo molti soldi ma tempo e cultura, Willy e Cynthia si applicano per coinvolgere la più piccola (Max e Gladys un loro percorso scolastico lo stanno facendo) in attività che non richiedano grandi spese: nel periodo fiorentino, passeggiate nei giardini di Boboli con relative osservazioni di piante e panorami, visite agli Uffizi e al museo Stibbert, nei giorni gratuiti, con racconti su arte e usi degli altri popoli, letture dei classici da Ariosto a Orazio, dal Don Chisciotte a Longfellow.
I bambini di Willy e Cynthia non sono stati battezzati ma i genitori hanno fornito una panoramica sulle religioni più diffuse, proposto la lettura di Bibbia e Vangeli, Corano, discorsi di Gautama Buddha, i detti di Confucio e i sogni di Lao Tse. È un’educazione laica, quei testi vengono letti come testi storico-poetici: «il dogma e l’assoluto ci apparivano come segni di arretratezza mentale e civile». Storicizzate le religioni e lasciati liberi di scegliere, i ragazzi non subiscono particolari richiami mistici. Visitano varie chiese di varie confessioni, moschee, sinagoghe, chiese calviniste, ma nessuna religione li affascina o colpisce in maniera particolare (solo Gladys, da adulta, si convertirà al cattolicesimo al momento del matrimonio, su richiesta del marito). La mamma propone tutti i tipi di narrazioni senza interferire più di tanto, ma un giorno che Joyce sta sfogliando una vecchia Bibbia ricca di incisioni, le indica altri libri, di storia e di poesia, dicendole che «questi hanno fatto solo del bene e la gente è diventata più intelligente e più buona. Mentre questi», riferendosi ai libri di religione, «hanno fatto ammazzare un sacco di gente. C’è in questi libri qualcosa che non va».
Poi ci sono le spiegazioni e gli esempi forniti dal quotidiano, dalle osservazioni della bambina. Già da piccolissima i genitori la portano in manifestazione, assistono insieme ai cortei dei lavoratori, degli operai della Pignone, dei reduci che chiedono la pace in piazza della Signoria e vengono dispersi dalle cariche della polizia a cavallo; Joyce osserva la folla, le bandiere rosse rimaste a terra, i gruppetti di squadristi che si affacciano dalle vie laterali, abbigliati di nero e con simboli paurosi, pugnali, teschi, striscioni con scritto me ne frego.
Quando, a sei anni, vede un gruppo di prigionieri austriaci malridotti, o legge sul «Corriere dei Piccoli» il fumetto italiano infarcito di nazionalismo e pedagogia della guerra, e chiede spiegazioni al padre, lui le dice che quegli austriaci sono come i poveri contadini che lavorano per il nonno: i Gegé, i Nemo, il figlio della Cognigna, mandati al fronte esattamente come i soldati nemici. Le spiega, da neutralista com’è, cos’è un fronte, cos’è un prigioniero, cos’è un soldato.
Quando, a nove anni, durante la campagna elettorale del ’21, una campagna durissima segnata da violenze terribili, viene sorpresa a scrivere su un muro abbasso mussolini! abbasso il fascio e viva la repubblica! da un fascista che le molla due sberle, e corre dalla madre per chiedere, orgogliosa, se ha fatto bene a non cedere a quello che pretendeva immediata ritrattazione, la madre le risponde: «Certo che hai fatto bene». Più avanti nella vita, quando sarà a sua volta madre, capirà quanto può costare a un genitore rispondere così in circostanze del genere.
Joyce ama e stima profondamente i genitori, li ammira. E non vuole assolutamente deluderli.
Terminata un po’ malamente l’esperienza con la ‘scuola della fratellanza’ (non sempre, purtroppo, queste istituzioni sperimentali funzionano perfettamente) e preferendo i genitori, a quel punto, una cultura più tradizionale per i figli, i Salvadori girano per un po’ in cerca di una sistemazione svizzera meno precaria.
La trovano lì vicino, a soli cinque chilometri. Begnins è un villaggio di meno di mille anime ma ospita otto castelli che sono in realtà ville fortificate, con torri e smerli, restaurate e abitabili. Si stabiliscono nel castello di Martheray, un edificio a due piani con una splendida vista sul lago e sul Monte Bianco, prendendolo in affitto a una cifra accettabile dal vignaiolo che l’ha avuto in eredità. È una casa dagli spazi enormi: corridoi larghi cinque metri e lunghi trenta, saloni che potrebbero ospitare duecento persone, una cucina gigantesca con un immenso piano di lavoro su cui loro appoggiano un fornelletto da campeggio. D’inverno ci fa un freddo tremendo e si raccolgono attorno al focolare in cucina, aiutati da uno scaldabagno elettrico che permette di rifugiarsi in una confortevole vasca d’acqua bollente quando proprio non si resiste. Le ampie soffitte diventano palestra di giochi per i ragazzi. Joyce occupa la stanza rotonda più alta, dove si chiude a declamare le poesie che viene scrivendo.
La scrittura, la poesia, l’interesse per la lettura, sono, diremmo oggi, nel Dna di Joyce. Non solo per via dei genitori, ma anche grazie alla nonna materna. Margaret Collier, Madame Galletti di Cadilhac, ha scritto due libri noti anche in Inghilterra: Our Home by the Adriatic (1886, Richard Bentley and Son) e Babel (1887, William Blackwood and Sons). Entrambi i libri, il primo una sorta di saggio antropologico su quello strano e ignoto angolo di mondo chiamato Marche e l’altro un vero e proprio romanzo con protagonista una giovane marchigiana che si reca a Londra, hanno avuto un buon successo e diverse ristampe.
Incoraggiata dai genitori Joyce, sin da piccola, scrive componimenti e già a dieci anni pubblica delle poesie su un giornalino mensile illustrato della casa editrice Claudiana di Firenze, «L’amico dei fanciulli», con cui continuerà a ‘collaborare’ per qualche anno. Scrive e pubblica qualche esercizio poetico anche per «La strenna dei fanciulli», una pubblicazione per bambini che le famiglie regalavano ai figli a Natale. Anche in Svizzera continua a pubblicare le sue poesie, alcune per la Fellowship School, altre per la rivista «Unsere Jugend».
Nella formazione di Joyce gioca un ruolo importantissimo la conoscenza delle lingue. Con i genitori mezzi inglesi, si parla l’inglese; grazie ai vari giri in Svizzera e al papà che ha studiato a Lipsia, si impara il tedesco; il francese si apprende in un attimo, nel cantone di Vaud, e si studia perché in quegli anni è la lingua straniera più insegnata e richiesta anche nelle scuole italiane. Willy, infatti, non ha assolutamente rinunciato a un’educazione ‘italiana’ per i suoi figli: considera un diritto irrinunciabile rimanere italiani, seppure temporaneamente esuli in Svizzera per cause di forza maggiore, e punta proprio a lottare «affinché l’Italia diventasse un paese dove gente come noi potesse vivere e lavorare», scriverà. Non intende alienarsi più del dovuto, dunque, dal suo paese d’origine e spinge i figli a dare gli esami, da privatisti, nelle Marche. Joyce torna per sostenere la licenza ginnasiale a Fermo e Max quella liceale a Macerata (dove anche Joyce farà la maturità nel ’30).
È in occasione di uno di quei ritorni in Italia dai nonni che Joyce visita Napoli per la prima volta. Ha diciassette anni e bussa a palazzo Filomarino per incontrare Benedetto Croce, amico di Willy per via di una corrispondenza che hanno intrattenuto tra filosofi discutendo di Spencer. Annunciata dunque da una missiva del padre, va a sottoporre al celebre filosofo alcuni suoi scritti: poesie, racconti, un dramma a sfondo politico.
Don Benedetto accoglie molto favorevolmente i lavori di Joyce. È colpito dalla personalità della signorina Salvadori (così la chiama), dalla qualità dei suoi versi che elogia molto e che si adopererà per far pubblicare su «La Critica» e più tardi, in raccolta, dal suo editore napoletano Ricciardi.
Il ritratto che ne fa Joyce è un po’ irriverente ma molto affettuoso ed efficace: «Don Benedetto era un uomo piccolo, con una testa a pera e un naso molto grande. Leggeva con rapidità incredibile, voltando le pagine una dietro l’altra, col naso che quasi toccava il foglio; tanto che pareva che non usasse gli occhi, ma che aspirasse le parole scritte con la proboscide».
Nasce un’amicizia che diventerà anche, in qualche modo, collaborazione politica, seppur con prospettive e posizioni diverse.
La casa di Croce le ricorda quella del nonno, lei chiama entrambe le sue «oasi di benessere», forse perché sono grandi, comode, sicure. Differentemente dagli ambienti che la sua famiglia frequenta di solito (vagoni di terza classe, latterie in cui ci si sfama con una tazza di latte, sedi dell’Esercito della salvezza per avere una cuccetta e una scodella di minestra durante i giri svizzeri, anticamere di questure dove si aspetta per ore il rinnovo di un documento, case di fortuna), le dimore di questi proprietari terrieri sono palazzi forniti di tutti i comfort. Villa Marina dei conti Salvadori, una costruzione in stile neorinascimentale risalente al Settecento, con i suoi viali alberati, le piante, gli animali, la buona cucina, le appare più accogliente. Palazzo Filomarino risulta più imponente e freddo: «un susseguirsi di stanze abbastanza scure interamente tappezzate di libri, con tavoli coperti di carte e sedie dallo schienale rigido». Non c’è, all’apparenza, nulla di «decorativo», nota Joyce, nessun oggetto riconducibile a un gusto femminile nonostante la presenza delle molte donne di casa Croce, la signora Adelina e le quattro figlie.
Gli animali a cui si riferisce Joyce parlando della casa del nonno sono principalmente cavalli, per i quali nutre una passione che condivide con sua madre (Cynthia è sempre stata provetta cavallerizza, capace di domare puledri con la gentilezza, e continuerà a usare sempre i cavalli per spostarsi una volta tornata nelle Marche, persino da anziana, visto che a quell’epoca saranno ancora il principale mezzo di locomozione), ma sono anche motivo di conflitto con le nobili zie: capita che da piccola Joyce venga esclusa da tavola perché puzza di stalla. Lei infatti passa ore nelle mangiatoie con i cavalli, accudendoli, nutrendoli, offrendo fave e zucchero, anche recitando per loro le sue poesie di bambina. Ha un pessimo rapporto con l’aiuto cocchiere, tal Mustafà che ambirebbe a guidare la Lancia del conte Salvadori, una delle prime automobili, bellissima, con gli strapuntini dietro, nera lucida, se il posto non fosse già preso dallo chauffeur Lanfroy, un reduce decorato. Mustafà tratta male i cavalli e Joyce non lo sopporta. Lo detesta anche per il suo servilismo. Il giovane garzone di stalla, ossequioso verso la proprietà e devoto alla causa dei padroni, sarebbe diventato di lì a breve il capo di una squadraccia dedita a picchiare pacifici socialisti e repubblicani in strada e nelle case. Il periodo è quello delle agitazioni degli operai e dei contadini e anche se nel piceno non ci sono stati grossi movimenti come nelle campagne del Nord, qualcosa si teme.
Quando d’estate tornano a Porto San Giorgio, i piccoli Salvadori sono colpiti dall’ingiustizia della disparità di classe tra i loro parenti rentiers e il paese popolato da mezzadri, artigiani, piccoli commercianti, pescatori. Loro sono abituati, a Firenze, a frequentare persone di ogni estrazione sociale senza porre steccati o esclusioni: le famiglie con cui intrattengono rapporti sono per lo più famiglie di operai, impiegati, artigiani. E sì, a Cynthia capita di frequentare anche signore inglesi e salotti, ma quando la moglie di un agrario umbro, la contessa Grace di Campello, le dice «Ma Cynthia, tu dovresti essere col fascismo; il fascismo difende la nostra classe», lei le risponde: «La vostra non è più la mia classe».
Invece, nelle Marche, la distinzione tra padroni e mezzadri, tra potenti e sfruttati, è molto netta, fa parte dell’ordine sociale dell’ex Stato pontificio ancora ben radicato. I nipoti ‘fiorentini’, però, quando tornano da quelle parti, criticano il nonno conte, i suoi silenzi e la sua bellissima papalina ricamata che indossa in casa, il suo incedere autoritario che però nasconde inanità (la proprietà è gestita, di fatto, da fattori e contabili), lo prendono in giro perché legge Salgari, considerano quei loro parenti arretrati e il loro modo di vivere un po’ assurdo, anacronistico.
Ricordando l’estate del 1920 e i giorni caldi dello sciopero generale, Max dirà di essere rimasto molto impressionato dalla disuguaglianza dell’ambiente sangiorgese. Quando una delegazione dei ‘sovversivi’ si era recata alla villa di suo nonno per esporre le proprie istanze, differentemente dai suoi cugini, lui ne aveva appoggiato le ragioni. In paese c’erano molti socialisti e repubblicani, una società operaia e la camera del lavoro. Echi del biennio rosso erano arrivati sin lì. La rivolta di Ancona (distante poche decine di chilometri) del giugno 1920, con la ribellione armata dei bersaglieri che non volevano partire per l’Albania, ne era stata uno degli episodi più significativi. Era stata sostenuta da una parte consistente della popolazione, dai lavoratori del porto, dagli anarchici che in città costituivano una presenza attiva e numerosa sin dalla fine dell’Ottocento, accresciuta nella settimana rossa di Errico Malatesta del 1914; da Ancona, la sommossa si era estesa anche ai paesi vicini e c’erano stati scontri in tutte le Marche, in Romagna, in Umbria, scioperi di solidarietà a Roma e Milano, blocchi ferroviari. La rivolta, che aveva lasciato morti sul campo sia da una parte sia dall’altra, era stata repressa a colpi di cannone, ma aveva avuto come effetto la rinuncia all’occupazione dell’Albania.
È così che dalle parti dei Salvadori, un po’ più a sud appunto, si parlava di fare di villa Marina una casa del popolo, e Joyce ricorda che vi era stato un piccolo assalto bonario alle cantine della villa da parte di alcuni socialisti che si erano rivolti così al nonno: «Sor conte, volemo spartì?». La cosa si era risolta senza incidenti, ma la famiglia era rimasta molto scossa e il pomeriggio stesso il conte aveva chiamato a raccolta gli altri proprietari terrieri della zona per «armare un loro piccolo esercito privato» diventando così uno dei primi finanziatori del fascismo in zona.
Joyce bambina ha grande simpatia per i contadini-reduci che non le parlano delle loro esperienze di guerra ma sorridono con franchezza, sono amichevoli e «giocavano con i bambini come se i bambini fossero importanti e preziosi». Al contrario, non sopporta gli ufficiali-reduci che capitano a casa del nonno, arroganti e odiosi e che considerano i bambini una seccatura.
Le persone a cui vuole bene e che rievoca spesso come esempio di onestà e correttezza sono quelle del ‘popolo’. Come la Cognigna, moglie del vergaro che abita in una casa colonica vicina alla villa; Filomena, una marinara che vive in una capanna sulla spiaggia; il giardiniere Nazzareno, che è un vecchio socialista; Nannì Felici, un fabbro anarchico dall’invettiva sempre pronta.
Porto San Giorgio è anche questo, un villaggio di persone pacifiche e laboriose, ed è un posto in cui la famiglia Salvadori ha un ruolo importante per varie ragioni. È stato infatti il bisnonno Luigi a bonificare decine di ettari di terreni, per dodici chilometri di costa, frutto della regressione marina di fine Settecento che ha interessato il tratto di spiagge sotto Fermo, tra il porto e il Tenna. Il bisnonno era stato sindaco per più mandati, priore del porto, imprenditore agrario moderno e innovativo. A dar lustro al territorio, anche suo figlio Tommaso, nominato da Joyce in varie opere come l’unico intellettuale e studioso della famiglia prima di Willy: laureato in Medicina a Pisa, aveva preso parte alla spedizione dei Mille, poi era diventato un celebre ornitologo (a lui sono dedicati i nomi di varie specie di uccelli, tra cui un’anatra della Papuasia, oltre a un fagiano, uno scricciolo, un canarino); autore di numerosissime opere scientifiche e collaboratore dei cataloghi del British Museum, aveva riorganizzato la raccolta del museo zoologico di Torino, uno dei più importanti d’Europa, di cui era stato vicedirettore per una vita.
Ottenuto dunque da privatista il diploma al liceo classico Leopardi di Macerata, Joyce, sulla scia del padre che aveva a suo tempo studiato con i migliori professori di Lipsia, decide di iscriversi all’università di Heidelberg, la cui facoltà di Filosofia a quell’epoca è la più prestigiosa d’Europa. Per farlo, deve mettere insieme un po’ di soldi e trova impiego come istitutrice e cameriera presso una famiglia napoletana a Bengasi, dove rimarrà sei mesi soffrendo per la convivenza con quei suoi datori di lavoro piuttosto ottusi e ignoranti. Anche i suoi fratelli lavorano. Max in una fabbrica poi in una mensa per studenti, Gladys, laureata a Ginevra in Psicologia, si occupa di bambini handicappati, attività all’avanguardia per l’epoca che poi coltiverà tutta la vita, anche una volta tornata nelle Marche.
Ha ancora diciotto anni quando, messo da parte un gruzzolo sufficiente, Joyce torna in Italia, passa dalla Svizzera per salutare i genitori, e va nella Germania di Weimar.
A Heidelberg vive in un pensionato con altre ragazze, si mantiene insegnando francese e italiano in un collegio o facendo la babysitter, frequenta le lezioni dei migliori professori, tra cui l’esistenzialista Jaspers e il neokantiano Rickert. È in contatto con gli studenti di sinistra (i sozi,i giovani socialisti e socialdemocratici che si oppongono ai nazi), frequenta un maneggio in cui può cavalcare in cambio di lavori da scuderia. Ogni tanto esce con dei ragazzi per andare a ballare. Fa, insomma, vita universitaria.
Una volta riceve una visita di Willy che, per farle un regalo, la porta a sentire un concerto al festival di Bayreuth: c’è Toscanini che dirige il Lohengrin di Wagner, in un teatro in cui si esibiscono i massimi maestri dell’epoca. Joyce, però, non apprezza molto i toni che le ricordano le marce di un reggimento («il senso dell’umorismo di Wagner non era molto sviluppato, c’era un sottofondo razzistico-militaristico») e la lunghezza estenuante dell’opera, né le piacciono le facce che vede attorno, dall’aria già nazista.
Ci sono le corporazioni studentesche, a Heidelberg, le confraternite che organizzano dei duelli al pugnale, i Mensuren, illegali ma tollerati in quanto folkloristici e tradizionali, importanti per la formazione patriottica del bravo tedesco.
Nel ’32, poi, in città arriva Hitler; il borgomastro gli ha concesso l’uso della Stadthalle e gli studenti di sinistra si preparano a riceverlo, pensando di organizzare un contraddittorio. In quanto ‘esperta’ di opposizione al fascismo, per averlo sperimentato in prima persona in Italia da perseguitata, Joyce viene scelta dai compagni come loro portavoce. Dovrà illustrare le loro ragioni e butta giù anche una scaletta per il suo intervento, ma le cose vanno diversamente. Già la sera prima del comizio si capisce che aria tira, con i bivacchi di nazisti in uniforme che occupano la città tra bevute e canzoni tra il patriottico e l’osceno. La descrizione di Joyce di quelle ore è l’istantanea della tenebra che, già apparsa in Italia, si è fatta ancora più scura e paurosa e comincia ad allungarsi su tutto il continente senza trovare opposizione:
L’indomani la città era in stato d’assedio, riempita di camicie cachi e vessilli rossi, i negozi erano chiusi, le strade bloccate, la gente tappata in casa. Dal balcone del municipio, altoparlanti potentissimi diffondevano ovunque il nevrotico, cadenzato abbaiare della voce di Hitler, il fragore degli applausi, l’esplodere delle canzoni. Altro che contraddittorio!
Ero molto scossa. Corsi all’università in cerca dei miei professori. Ne trovai un paio all’entrata, non mi ricordo nemmeno chi fossero, e concitatamente descrissi loro quel che stava accadendo.
Mi guardarono con un sorriso di paziente sopportazione. «Non se la prenda», mi dissero. «Quando quei ragazzoni si saranno sfogati, tutto tornerà come prima».
La loro ottusità mi sconvolse; e quando trovai Jaspers e Rickert, la risposta non fu molto diversa. Feci allora alcune riflessioni sugli accademici, le università e la cultura libresca. Forse, la cultura che mi serviva, avrei dovuto cercarla da un’altra parte.
Una prima fase della vita di Joyce si chiude così, con il rigetto per l’establishment culturale delle accademie e delle università, del sapere ufficiale ai massimi livelli di raffinatezza del pensiero che però non ha saputo o voluto riconoscere i segni della tragedia incombente neanche quando ce li ha avuti sotto gli occhi. Distratto e miope.
2
Un piccolo passo indietro per collocare, nelle varie zone d’Europa in cui si muovono e nelle diverse svolte della loro esistenza, tre dei protagonisti di questa storia che stanno per legarsi gli uni agli altri.
Dunque, da una parte abbiamo i fratelli Salvadori, Joyce e Max, e dall’altra Emilio Lussu. Il punto comune sarà Giustizia e Libertà, il movimento antifascista al quale i Salvadori aderiranno da subito. Sorto a Parigi nel 1929 intorno a un gruppo di esuli fuggiti dal confino e dalle squadracce mussoliniane, ha come obiettivo l’insurrezione e il rovesciamento del regime.
Di Joyce sin qui abbiamo detto. Lasciamola per un attimo, per capire invece chi è Emilio Lussu e cosa rappresenta ai suoi occhi nel momento in cui le loro vite si incrociano la prima volta.
Quando Joyce incontra per la prima volta Emilio a Ginevra, nel 1933, è consapevole di trovarsi al cospetto di un mito: l’uomo a cui deve consegnare un messaggio segreto per conto di Giustizia e Libertà è un prestigioso rivoluzionario ricercato dalle polizie fasciste di tutta Europa.
Carismatico, coraggioso, indomito, Lussu è un figlio della Sardegna più profonda. Nato ad Armungia nel 1890, laureato in Giurisprudenza a Cagliari, amatissimo comandante della brigata Sassari (nella prima guerra mondiale ha ricevuto ben quattro medaglie dopo quattro anni di trincea per azioni sull’altipiano del Carso e della Bainsizza), ex deputato del Partito sardo d’azione, ha pagato cara, fin lì, la sua militanza, ma ha anche ottenuto una gran bella vittoria su un regime che sembra inattaccabile.
Capelli e occhi neri, slanciato, elegante, occhiali dalla montatura di metallo, baffi e pizzetto, sguardo ironico e tagliente, in quel periodo si fa chiamare ‘Mister Mill’ e vive in clandestinità. Agli occhi dei giovani dell’epoca, lo dice Joyce stessa, è un personaggio leggendario, per le gesta in Sardegna e per la sua avventurosa fuga da Lipari.
I fatti della Sardegna sono questi: la sera del primo novembre 1926, centinaia di fascisti hanno assediato la casa dell’avvocato Lussu. Non è un’azione isolata, è solo una delle rappresaglie che bande di fascisti organizzano in tutta Italia – devastando case, sedi di giornali, picchiando e assaltando – non appena si è diffusa la notizia dell’attentato fallito a Mussolini, avvenuto il giorno prima a Bologna per mano del sedicenne Anteo Zamboni. Lussu, che è un antifascista, ha partecipato alla secessione dell’Aventino dopo l’assassinio di Matteotti, è antimonarchico, ha lavorato a un progetto federalista-rivoluzionario per unire azionisti, repubblicani e socialisti, è nel mirino dei fascisti della sua città: l’ordine è di saccheggiarne la casa e linciarlo sul posto. L’organizzazione dell’assalto, nella sede del fascio, è durata tutta la giornata per cui c’è stato tempo e modo, per Lussu, di ricevere informazioni da voci amiche e preparare una reazione. Gli amici gli consigliano di scappare ma lui decide di restare in casa, situata nella piazza più centrale di Cagliari, lasciandola ben illuminata, «per dare un esempio di incitamento alla resistenza».
Scende in strada per vedere che succede, sente gli squilli di tromba che chiamano a raccolta i fascisti mentre la piazza si fa deserta. Risale, manda via la domestica. La città continua a serrarsi, i negozi abbassano le saracinesche, i cinema si svuotano. Al ristorante vicino casa dove va a pranzare, il cameriere – che è stato un suo soldato durante la guerra e ora è diventato fascista ma nutre ancora grande rispetto del capitano – lo scongiura di partire subito. La sentenza contro Lussu è stata emessa e lo sa tutta Cagliari. Persino gli inquilini del suo palazzo, tra cui un magistrato di Corte d’appello, si chiudono e tacciono terrorizzati.
«Incominciai a preparare la difesa. Un fucile da caccia, due pistole da guerra, munizioni sufficienti. Due mazze ferrate dell’esercito austriaco, trofei di guerra, pendevano al muro». Due giovani amici e compagni si presentano per aiutarlo ma lui li congeda senza discutere. Spegne la luce e si avvicina alla finestra. Assiste alla devastazione della sede della tipografia del giornale «Il Corriere» all’angolo, poi a quella dello studio dell’avvocato Angius.
Quindi risuona il grido «Abbasso Lussu! A morte!».
È sorpreso di riconoscere tra gli assalitori persone che conosce bene, di cui è stato amico o compagno di scuola.
La colonna si divide in tre parti e l’attacco arriva da tre punti: una squadra sfonda il portone e sale dalle scale, una cerca di entrare da un cortile sul retro, l’ultima si arrampica dai balconi. «Confesso che, nella mia vita, mi sono trovato in circostanze migliori. I clamori della piazza erano demoniaci. La massa incitava gli assalitori dalle finestre con tonalità di uragano».
Lussu lancia un primo avviso, grida «Sono armato!» da dietro le persiane.
Poi, mira e spara al primo che arriva sul balcone. Un giovane fascista, Battista Porrà, colpito a morte piomba giù, sul selciato della piazza. Gli altri scompaiono in un lampo.
Nonostante lo svolgimento dei fatti dimostri la legittima difesa (e infatti verrà assolto) e nonostante l’immunità parlamentare, Lussu viene portato in carcere. Ci vorrà un anno prima di arrivare a sentenza ma l’ordine di scarcerazione immediata è seguito da un ordine di domicilio coatto. Lussu è condannato alla pena di cinque anni di confino per misure di ordine pubblico e definito «avversario incorreggibile del regime».
In quell’anno di carcere si è ammalato di pleurite, non ha ricevuto cure adeguate e ha sviluppato una lesione tubercolare. Sebbene dichiarato intrasportabile da un medico, violando il regolamento carcerario Lussu viene spedito a Lipari. Non gli permettono neanche di salutare la madre. Lungo il percorso verso l’imbarco incontra solo militari schierati e armati: le banchine sono deserte e solo un pescatore, ritto su una barca in mezzo al mare, grida «Viva Lussu! Viva la Sardegna!» prima di approdare in porto e finire a sua volta accerchiato dalla polizia.
Lussu viene imbarcato febbricitante e provato. Sperano che muoia durante la traversata.
Due giorni dopo, invece, approda a Lipari e, seppure sfinito e ammanettato con doppia catena, riesce a scendere sulle sue gambe.
Ad attenderlo, una fila di camicie nere che improvvisano un’accoglienza intonando il de profundis, ma anche compagni e amici che lo salutano con affetto e rispetto. Sull’isola c’è un piccolo drappello di ex deputati come lui, è come se a Lipari si fosse ricostruito in scala ridotta il parlamento di un tempo. Ci sono democratici, repubblicani, liberali, cattolici, c’è il capo della massoneria, e naturalmente ci sono socialisti, comunisti, anarchici.
I colleghi gli fanno subito notare che è seguito da agenti in borghese. Lussu è infatti considerato molto pericoloso dal regime ed è stato disposto per lui un trattamento speciale.
Non che manchi la sorveglianza, a Lipari. Isola bellissima, così come Ponza, Ustica, Favignana, Pantelleria, Lampedusa, Tremiti, dal novembre del ’26, data dell’entrata in vigore delle leggi eccezionali fasciste, è destinazione di confino. In quegli anni è la principale colonia per gli oppositori politici. Il paese è piccolo e gli abitanti non si mischiano ai confinati. La natura è amena, il clima d’estate è molto caldo, il mare spettacolare, ma quel posto è un carcere a cielo aperto.
Tutto attorno, a terra e in acqua, guardie, vedette, pattuglie, spioni, ronde. In porto, mas armati di mitragliatrice e riflettori; al largo, incrociano motoscafi veloci e imbarcazioni a vela e a motore; sull’isola quattrocento uomini armati sorvegliano cinquecento prigionieri, più o meno un agente ogni due confinati. Tra i deportati vi sono anche pericolosi agenti provocatori, ex fascisti in punizione disposti a ogni bassezza pur di riguadagnare stima e favori dei loro vecchi capi.
La vita è scandita da orari da rispettare, c’è un coprifuoco, ci sono ronde di controllo che passano per le case abitate dai confinati. La corrispondenza in arrivo e partenza, compresi libri e riviste, è censurata e vistata. È proibito parlare di politica, ma di cosa parleranno mai dei deportati per motivi politici? E dunque il modo si trova. Sostituendo la parola ‘fascisti’ con la parola ‘polpi’, si passano ore ad analizzare la vita dei polpi, la loro organizzazione sociale, il loro comportamento in natura e via così.
Il controllo su Lussu è molto pesante: «Essere di continuo pedinati sembra una cosa indifferente. Invece è molto penoso e irritante. Bisogna avere i nervi a posto per non diventare nevrastenici, sentendo sempre dietro di sé degli uomini che vi seguono come la vostra ombra. Uscire di casa ed essere seguiti: avvicinarsi ad un amico ed essere seguiti: parlare ed essere uditi: fermarsi e sentire che anche l’altro si ferma; entrare in un caffè, in un negozio, in una casa, e vedere sempre la stessa faccia; non poter sorridere; stringere la mano a un passante, non poter ricevere in casa un amico, senza che la vostra ombra ne prenda nota, questo diventa in breve un’oppressione e un incubo».
Dal primo momento in cui ha messo piede sull’isola, Lussu ha avuto una sola idea in testa: la fuga. È convinto che, con un buon piano e complicità esterne, è possibile «evadere da qualunque posto, anche da una fortezza», ma nessun confinato è mai riuscito nell’impresa.
Ci vorranno anni, vari tentativi, un gran lavoro di preparazione. Alla fine, scapperanno in tre: il capitano sardo considerato pericoloso agitatore politico, un giovane intellettuale fiorentino, il nipote di un ex presidente del consiglio.
Emilio Lussu, Carlo Rosselli, Fausto Nitti.
Destinazione Francia.
Nel libro La catena, scritto subito dopo l’arrivo a Parigi, Lussu riserva alla fuga vera e propria un solo capitolo. Gli preme di più spiegare il contesto, raccontare le condizioni di vita dei confinati, ricostruire il clima che ha portato alla nascita delle leggi eccezionali. Però gli è chiaro che il raid di Lipari è stato «un sasso gettato al centro di un lago calmo in una giornata di sole. Attorno al punto toccato dal sasso, i cerchi si formano, si moltiplicano, si estendono, e ridanno animazione all’immobilità, vita improvvisa alla morte apparente», e sa, perché molti sono interessatissimi all’aspetto ‘sportivo’ e chiedono tutti i dettagli, che «il giovane lettore che s’interessi di avventure romanzesche ha probabilmente saltato le pagine sul tribunale speciale, e attende la fuga».
C’è il contesto politico e c’è l’azione.
O anche, c’è la cornice e c’è l’opera d’arte. Perché la fuga è davvero rocambolesca, come viene spesso definita per sottolinearne l’audacia e la dinamica, ed è un capolavoro, per riuscita ed effetto. E per ciò che segue, ossia la nascita del movimento che da lì trae ispirazione e forza. Una volta arrivati in Francia i protagonisti, intervistati dai giornali di tutto il mondo, non possono svelarne tutti i dettagli (uno dei fondamentali ‘complici’, Gioacchino Dolci, viene chiamato Caio perché il nome non si può ancora dire), ma un libro uscito nel 2009, Lipari 1929 di Luca Di Vito e Michele Gialdroni, ne ricostruisce accuratamente la preparazione con documenti, lettere, testimonianze, accidenti, tentativi, dispacci e dati tecnici. Ed è una storia avvincentissima, piena di suspense.
L’ex militare Lussu, appena messo piede sull’isola, ha immediatamente individuato i punti strategici; da quei luoghi non passerà mai, per non destare sospetti. Comincia a rispettare orari ferrei e si impone una disciplina da cui non derogherà mai – uscite alla stessa ora, passeggiata quotidiana in quella che la polizia ritiene la zona più adatta all’evasione ma che è all’opposto di quella prescelta, luoghi fissi da frequentare per apparire prevedibile e rassicurante. Come alloggio, sceglie una casa danneggiata dal terremoto (Nitti racconta che in una stanza c’era un buco al centro del pavimento e si doveva camminare rasente al muro, per andare in bagno bisognava fare gli equilibristi su una passerella) che ha il pregio di avere una terrazza alta da cui si può osservare il mare e controllare i quattro punti cardinali. Dispone, inoltre, di quattro vie di fuga attraverso i tetti.
In quella casa passerà molto tempo, in inverno, colpito da una ricaduta della tubercolosi. È a letto febbricitante, quando riceve la prima visita di Carlo Rosselli, appena sbarcato a Lipari. È il gennaio del 1928, Lussu racconta: «Venne a trovarmi il giorno dopo il suo arrivo. Sorridente, con la guida di Lipari in mano, sembrava un turista. L’isola gli faceva dimenticare l’aria compressa dal carcere». Il ventottenne Rosselli, infatti, è appena uscito di prigione, dove ha scontato dieci mesi di reclusione per aver favorito, insieme a Sandro Pertini e Ferruccio Parri, l’espatrio di Filippo Turati in Corsica.
Lussu e Rosselli diventano subito amici. Confinati sull’isola, si vedono quotidianamente, ma anche dopo, per circa sei anni, dal ’29 al ’34, non passerà giorno senza che siano insieme, concentrati a progettare, elaborare, discutere, confrontarsi. Da militanti, con obiettivi ben precisi. Da azionisti.
Lussu, rievocando la figura di Rosselli, dirà: «Un temperamento d’eccezione il suo. L’ho sempre visto senza riposo e senza stanchezza, a Lipari come a Parigi. Solo un uomo di quella tempra e di tanto entusiasmo morale poteva dare tanto prestigio all’antifascismo e a un movimento come Giustizia e Libertà».
Da subito, Lussu e Rosselli parlano di fuga e continueranno a parlarne. Rosselli: «Abbiamo poi sempre parlato di fuga, fino alla noia, fino alla reciproca esasperazione. Fuga con variazioni, in tutti i tempi. Passati, presenti, futuri, condizionali. Fughe in barca, in motoscafo, in piroscafo, in aeroplano, in dirigibile.
Giorgia Antonelli | doppiozero | 17 gennaio 2023
Quando si entra nel cimitero acattolico di Roma si viene sopraffatti dalla bellezza e dalla quiete, e in mezzo ai dedali di percorsi fra tombe di personaggi più o meno celebri, quasi non si fa caso a una piccola pietra miliare posta proprio all’ingresso, per terra, su cui si legge «In memoria di Joyce Salvadori 1912 – 1998 Emilio Lussu 1890 – 1975». È qui che sono custodite, insieme per l’eternità così come insieme avevano vissuto, le ceneri di due dei più importanti protagonisti della Resistenza italiana.
La storia della loro vita è la geografia di una guerra e al contempo la mappa di un amore, e se per tutta la loro esistenza l’importanza politica e letteraria di Emilio Lussu (scrittore, partigiano, padre costituente e deputato) sembra aver offuscato il ruolo di Joyce nella scrittura e nella Resistenza, lasciando la conoscenza di questa importantissima figura del ‘900 a un pubblico ristretto di intellettuali, adesso la bella biografia scritta da Silvia Ballestra per Laterza, La Sibilla, vita di Joyce Lussu, restituisce al grande pubblico la consapevolezza di un personaggio storico, culturale e letterario di prim’ordine.
Ballestra ha svolto un accuratissimo lavoro di ricostruzione della vita di Lussu, basandosi non solo sui documenti e sui libri, ma anche sulla testimonianza diretta di Joyce, conosciuta quando Ballestra era poco più che ventenne e a cui è rimasta legata per tutta la vita da un intenso rapporto di amicizia e condivisione di intenti letterari, oltre che dalle comuni origini marchigiane.
Ballestra segue dunque le orme di Beatrice Gioconda Salvadori (detta Joyce) fin dalla nascita, avvenuta a Firenze l’8 maggio del 1912, ultima dei tre figli di Guglielmo Salvadori Paleotti (detto Willy), filosofo, professore di filosofia e traduttore italiano di Herbert Spencer, e di Giacinta Galletti di Cadilhac (detta Cynthia), donna coltissima e poliglotta, che trasmette a Joyce il Collier’s pluck, la grinta che proviene dal ramo femminile inglese trapiantato nelle Marche della sua famiglia: entrambi provengono da nobili famiglie di possidenti terrieri marchigiani ed entrambi hanno rinnegato le loro famiglie d’origine, ritenute distanti dagli ideali socialisti che li animano.
È dunque in seno alla famiglia che Joyce inizia a sviluppare la propria coscienza politica, segnata, appena dodicenne, dal pestaggio del padre e del fratello maggiore Max a opera dei fascisti. È dal ’24 dunque che Joyce conosce la fuga: prima in Svizzera, da cui fa la spola con le Marche, al seguito dei genitori, poi in Africa per lavoro e in Germania per studio.
Questo primo episodio di violenza lascia una traccia profondissima nella coscienza della giovanissima Joyce, la stessa consapevolezza che attraverserà in quegli anni altre scrittrici italiane della resistenza come Alba de Céspedes e che porta in sé una domanda che è una rivoluzione epocale: dove sono le donne?
Mentre gli uomini combattono, vanno in guerra, si armano per la Resistenza e subiscono attacchi, le donne restano a casa, al sicuro. Cosa possono fare le donne? Moltissimo, sembra mostrarci Joyce con l’esempio della sua vita, fedele al principio dei suoi dodici anni, quando «giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anche io».
Ed è proprio questo che viene fuori dalla scrittura di Ballestra, il ritratto di una donna forte, determinata, senza peli sulla lingua tanto da usare liberamente il turpiloquio e capace di raccontare le esperienze umane senza tabù, dalla guerra all’aborto del primo figlio di Emilio – che non poté tenere perché fuggitiva – al parto di suo figlio Giovanni, in grado di arringare le piazze con determinazione e mantenere il sangue freddo nelle situazioni più controverse, capace di lasciare a guerra terminata il figlio piccolissimo alle cure di sua madre Giacinta nelle Marche per girare la Sardegna – terra del suo amato Emilio – a cavallo, per parlare con le donne sarde e smuoverle dal loro torpore, per instillare in loro una coscienza politica.
Joyce non è sempre stata così, racconta Ballestra, è stata timida in giovinezza, ma è stata la vita a forgiarla. Scrive Ballestra: «È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza».
Ci vuole coraggio, determinazione, e anche la forza di sfidare le convenzioni per essere Joyce Salvadori e diventare Joyce Lussu: mettere a tacere un primo matrimonio fallito nelle Marche degli anni ’30, legarsi per la vita e negli intenti a un rivoluzionario e seguirlo e sostenerlo per tutta la vita, sopportare i pettegolezzi che vedevano nella caparbietà del suo carattere e nella scelta di essere una donna libera i tratti di una poco di buono, ma Joyce non è una che si fa piegare dalle convenzioni sociali, né dai ruoli convenzionali e precostituiti. È una donna bellissima, colta e tenace che anche nei momenti più duri – la depressione che segue l’aborto, la lontananza da Emilio, dal fratello Max e dai suoi familiari, che rivedrà solo a guerra finita – non smette di apprezzare le piccole cose belle che la vita può offrire, quelle che restituiscono dignità anche nella disperazione: «i fiori, gli animali, il paesaggio, il buon cibo, le case accoglienti, l’aspetto ordinato di capigliatura e vestiario», sono questi gli elementi che rendono possibile resistere, combattere, perché «la lotta – scrive Ballestra – è un rimedio alla disperazione, l’azione è un richiamo morale ma anche di sopravvivenza alle atrocità della guerra».
Ed è con questo animo che seguiamo Joyce mentre si unisce al gruppo di Giustizia e Libertà, impara a falsificare documenti, assume identità sempre nuove e diverse, porta in salvo ricercati come i coniugi Modigliani, viene addestrata e reclutata a Londra nelle file del SOE (Special Operations Executive, agenzia segreta britannica nata per volere di Churchill) e nel settembre 1943, con il nome in codice di Simonetta, attraversa l’Italia per arrivare nel sud liberato dagli Americani per conto del Comitato di Liberazione Nazionale, perché «una donna può farcela dove tre uomini hanno già fallito». E Joyce riesce, supera difficoltà, mantiene i nervi saldi, e dimostra quello che si era prefissata da ragazzina: che una donna può essere nella lotta allo stesso modo di un uomo, tracciando così, con il suo esempio, un luminoso modello per le sue contemporanee e per le donne a venire.
La Storia di Joyce è dunque prima di tutto la storia di una vita, poi quella di una scrittrice. E a chi volesse obiettare che nel libro trova più spazio la narrazione della attività politica di Joyce piuttosto che di quella letteraria e che la dimensione narrativa possa perdersi tra le pieghe della Storia che inghiotte, sospende, trasforma, si può controbattere che la vita di Joyce fuori dalla scrittura è parte integrante della scrittura di Joyce.
Nelle pagine di Ballestra le doti letterarie di Joyce viene fuori immediatamente, ne sono prova le poesie giovanili tanto lodate da Benedetto Croce, ma lei mette da parte il suo incredibile talento per un’urgenza più grande: la resistenza partigiana e la militanza politica per le quali si spende senza sosta, sia durante la lotta al regime fascista che dopo, quando gira l’Italia e la Sardegna a verificare con mano ciò di cui c’era bisogno per la ricostruzione, per lavorare fianco a fianco delle donne, smuovendo la loro coscienza di partecipazione politica alla vita del Paese.
Gertrude Stein scrisse in Autobiografia di tutti: «E se si è un genio e si è smesso di scrivere si è ancora un genio se si è smesso di scrivere», e questa definizione sembra calzare a pennello per Joyce, la cui scrittura si è nutrita della vita quando per necessità ha smesso di scrivere, per ritornare più forte a guerra finita, quando l’abilità di scrittrice viene messa a servizio della traduzione letteraria e della testimonianza politica della Resistenza. Anche lo stile della sua produzione poetica cambia, si fa scabro, vivo, ricercato nella scelta di parole autentiche, di una precisione nel dire che vuole arrivare a più persone possibili e che la porterà ad autodefinirsi «scrittrice di complemento, non di professione».
Con questa idea di scrittura Joyce torna dunque a scrivere dopo la guerra, con un figlio piccolo da accudire e una carriera politica appena iniziata nelle liste del Partito d’azione in cui mette in atto un modo di fare politica molto diverso da quello del marito, che dopo la guerra lavora alla Costituzione e diventa deputato. A Joyce infatti sta stretto il ruolo di first lady, così prende treni, va nelle piazze a parlare con la gente, punta i piedi se non trova donne in politica con cui interloquire gridando a gran voce quel suo Dove sono le donne?
Joyce Lussu non vuole essere “un caso eccezionale” tra le donne, come le diceva Benedetto Croce, ma vuole che le donne tutte rendano quella che è considerata un’eccezione la norma dell’agire quotidiano, così organizza il primo convegno nazionale delle donne sarde per rappresentare «le aspirazioni della massa femminile, la più oppressa nell’oppresso popolo di Sardegna».
È in questi anni, racconta Ballestra, che germoglia in lei un nuovo modo di fare poesia, e che nasce uno dei suoi libri più celebri: Fronti e frontiere, quello che Joyce rievoca come la sua storia d’amore per Emilio Lussu anche se, o forse soprattutto perché, racconta il loro peregrinare per l’Europa durante la guerra e quella telepatia che li legava anche a distanza e che insieme all’ironia – che Ballestra mai dimentica di sottolineare – e alla comunanza di visione e intenti, aveva reso inossidabile il loro legame.
Nella produzione letteraria di Lussu il talento è quindi medium di un significato più ampio, in cui la letteratura si fa politica. Anche all’interno della sua esperienza come traduttrice, negli anni ’70 (è stata, tra gli altri, traduttrice di Nazim Hikmet, Agostinho Neto, José Craveirinha e Marcelino dos Santos), Joyce sceglie sempre poeti e scrittori che soffrono per una condizione di mancata libertà, che si fanno portavoce di Paesi – e popoli – che non hanno voce, e che proprio per questo vanno divulgati con più attenzione e con più forza, in modo da portare all’attenzione di un pubblico più ampio non solo le loro storie, ma quelle di intere nazioni impegnate in lotte di liberazione, come l’Africa e il Kurdistan.
Gli anni ’70 però, oltre al suo impegno terzomondista, a nuovi libri e alle traduzioni, porteranno anche un immenso dolore nella sua vita: nel marzo del 1975 Emilio muore, lasciandola sola. Ma Joyce continua la sua attività politica e letteraria, e si occupa di storia focalizzandosi sul suo territorio, inizia così a studiare la sibilla appenninica delle sue terre, raccontando di donne sapienti e rivoluzionarie, perseguitate come streghe per le loro conoscenze e la loro libertà, e lo fa per la prima volta dal punto di vista di una donna. Le donne, l’ambiente, la pace (guerra alla guerra, soleva dire), resteranno i suoi campi d’indagine prediletti fino alla fine dei suoi giorni, il 4 novembre 1998, quando si ricongiunge a Emilio nell’eternità degli scrittori di valore e dei combattenti per la libertà.
L’operazione letteraria di Silvia Ballestra nel suo La Sibilla, vita di Joyce Lussu, è dunque una perfetta ricostruzione di uno dei periodi più importanti della storia recente, ma anche la narrazione di un’esistenza particolare che si fa racconto universale, in cui la vita di Joyce Lussu è quella di una scrittrice talentuosa a servizio della vita attiva e di una donna con una personalità unica, fatta di dignità, ardore e sensibile intelligenza, capace di cambiare la Storia.
Dopo aver terminato il libro sono tornata a Testaccio a cercare quella pietra su cui sono incisi i nomi di Joyce ed Emilio Lussu, ho parlato con loro come si fa con qualcuno che ora mi sembra di conoscere da sempre e ho lasciato lì un fiore di gratitudine per la poetessa partigiana, vissuta per la libertà.
C’è un paio di scarpette Rosse di Joyce Lussu
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald.
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald.
Servivano a far coperte per i soldati.
Non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas.
C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald.
Erano di un bimbo di tre anni,
forse di tre anni e mezzo.
Chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni,
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare,
si sa come piangono i bambini.
Anche i suoi piedini
li possiamo immaginare.
Scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald,
quasi nuove,
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…
Traduzione di S. Quasimodo. Illustrazioni di Guttuso –
Torino, Einaudi editore, 1952 (20 Febbraio).
PABLO NERUDA – Poesie. Importante traduzione italiana delle poesie di Pablo Neruda curata da Salvatore Quasimodo. Prima edizione seguita da molte ristampe identiche per forma e contenuto. Cfr. Iccu; Galati (1980): cita erroneamente il 1965 come data per la prima edizione italiana.
Biografia di Pablo Neruda-Pseudonimo del poeta cileno Ricardo Neftalí Reyes Basoalto (Parral 1904 – Santiago 1973). Premio Nobel per la letteratura nel 1971, N. è considerato una delle voci più autorevoli della letteratura contemporanea latino americana, per la sua sensibilità acuta ma non preziosa, ricchissima d’immagini ma non complicata. È stato testimone di molti degli eventi cruciali che hanno segnato il XX secolo: dalla guerra civile spagnola alla guerra fredda, dai movimenti di liberazione in America Latina alla morte di S. Allende. La sua opera poetica comprende un’impressionante antologia di testi fra i più alti della poesia moderna di lingua spagnola, sostenuti da un prodigioso dono di «canto» che si articola nelle strutture musicali più disparate, con una costante sperimentazione linguistica e metrica, sui temi congeniali dell’amore, del paesaggio natale e delle speranze collettive.
Vita
Di origini modeste, frequentò il liceo di Temuco e l’univ. di Santiago, dove nel 1921 si mise in mostra vincendo una gara poetica con La canción de la fiesta. Nominato console in India nel 1926, iniziò una brillante carriera diplomatica che gli dette modo di maturare le sue esperienze con continui viaggi e incontri. Stabilitosi in Spagna nel 1934, sempre al seguito dell’ambasciata cilena, si legò subito con il gruppo repubblicano di R. Alberti, F. García Lorca, M. Hernández e dette vita, sulle colonne della rivista da lui stesso fondata, El caballo verde para la poesía, a una vivace polemica con J. R. Jiménez. La guerra civile, il suo temperamento drammatico e, non ultima, la morte di Lorca e di Hernández, lo spinsero sempre più a precisi impegni politici che tanta parte hanno avuto poi nella sua vita e in tutta la produzione posteriore. Dopo ancora qualche anno di servizio diplomatico, nel 1944 N. tornò in Cile, e fu eletto senatore; ma un’accusa di tradimento lo costrinse ben presto a esulare in Messico, da dove compì lunghi viaggi in Europa (Parigi, Polonia, Ungheria). Nel 1949 presiedette a Città di Messico il congresso mondiale dei Partigiani della pace. Nel 1951 visitò l’Italia e la Cina. Nel 1952 fu ancora in Italia, da dove venne espulso come straniero indesiderabile. Tuttavia, a seguito di un movimento d’opinione pubblica, il decreto fu revocato, e N. poté trascorrere un lungo periodo a Capri. Nel 1953 tornò in patria, nel suo rifugio di Isla Negra presso Valparaíso. Con l’avvento alla presidenza della Repubblica di S. Allende (1970), fu nominato ambasciatore a Parigi. Nel 1972, gravemente malato, tornò in Cile, mentre il governo Allende era in crisi. Nel 1973, quando ormai la minaccia del colpo di stato militare era incombente, N. seguì Allende sul cammino della morte, mentre la dittatura di Pinochet s’instaurò in tutto il paese.
Opere
Trovatosi a scrivere negli anni in cui l’opera di R. Darío dettava legge in tutta l’Ispano-America, N. non aveva potuto fare a meno di allinearsi con le tendenze moderniste, benché la sua ispirazione fosse già orientata verso altre strade. Uscito finalmente dal pericoloso equivoco tra il 1924 e il 1935, e avendo raggiunto una notevole maturità espressiva, poté dare sfogo alla sua originalità, divenendo, in breve tempo, il maggior rappresentante degli anti-modernisti. Il sentimento riacquista allora l’importanza che l’esasperato formalismo gli aveva negato e la personalità intensa e drammatica del poeta si fa luce con versi che sembrano scritti, come disse Lorca, «più che con l’inchiostro, con il sangue». La società borghese, giudicata corrotta e ipocrita, è presa continuamente di mira con attacchi violenti alle convenzioni, ai sentimenti codificati, all’ordine costituito, mentre, con immagini grottesche, se ne sviliscono i suoi sacerdoti. Dal 1940 N., ormai marxista convinto, si dedica quasi esclusivamente alla poesia sociale e alla lotta politica: il dolore, l’umiliazione, la speranza sono i temi ricorrenti di questa nuova produzione, accompagnati da una vena di profondo calore umano che riesce a smorzare i toni marcatamente propagandistici e a dare spesso pagine d’intensa poesia. Tra le sue opere principali si ricordano: Crepusculario (1923), Veinte poemas de amor y una canción desesperada (1924), Tentativa del hombre infinito (1926), Residencia en la tierra (1933; 2a ed., con l’aggiunta di un 2º vol. contenente le liriche composte dopo il 1931, 1935), España en el corazón (1937), Tercera residencia (raccolta delle poesie composte dopo il 1935, 1945), Canto general (1950), la sua opera maggiore, amplissimo poema sulla storia del Cile e della stessa America latina come insieme di tradizioni e incrocio di civiltà; Odas elementales (1954), Nuevas odas elementales (1956), Tercer libro de las odas (1957), Estravagario (1958), Navigaciones y regresos (1959), Memorial de Isla Negra (1964), Arte de pájaros (1966), Fulgor y muerte de Joaquín Murieta (1967, dramma scritto in Italia), La barcarola (1968), Las manos del dia (1968), Aun (1969), l’apocalittico Fin del mundo (1969), Las piedras del cielo (1970), La spada encendida (1970), Geografía infructuosa (1972). Da segnalare infine le prose autobiografiche di Confieso que he vivido (1973; trad. it. 1975) e la traduzione italiana integrale della sua opera poetica (1960-73).
DESCRIZIONE-Il mondo interiore di Marcel Proust – la sua sensibilità, le sue passioni e le sue idiosincrasie – è ben noto; meno note sono invece le tematiche che fanno della Recherche anche un’opera di sociologia, di geografia e di storia. Spesso descritto a torto come il nostalgico cantore di un mondo ormai tramontato, nelle pagine di questo libro, a firma di uno dei massimi studiosi dello scrittore francese, Proust si rivela un uomo immerso nella sua epoca. Osservatore attento dell’attualità, interviene senza esitazione nei principali dibattiti – il genocidio armeno, l’affaire Dreyfus, la separazione tra Stato e Chiesa – e dimostra grande interesse per i progressi tecnici. D’altro canto, la vita di Proust ha coinciso con il periodo d’oro della Terza Repubblica – la cosiddetta Belle Époque – e con le scaturigini del mondo contemporaneo, consentendogli di assistere al passaggio da una società di corte a una dominata dalle élite, mentre sullo sfondo rimaneva perlopiù immutato un popolo, quello francese, carico di una storia millenaria. Proprio come sulla facciata gotica della chiesa immaginaria di Saint-André-des-Champs sono raffigurate tutte le classi sociali del Medioevo, nella Recherche ci viene offerto uno spaccato della società francese a cavallo tra Otto e Novecento, osservata con le lenti del sociologo e trasfigurata con gli occhi del poeta.
L’Autore Jean-Yves Tadié-Professore emerito di Letteratura francese alla Sorbona, ha diretto la nuova edizione critica della Recherche per la “Bibliothèque de la Pléiade” (Gallimard, 1987-89). A Proust ha dedicato un’importante biografia (Gallimard, 1996; trad. it. Mondadori, 2° ed. 2022) e numerosi saggi.
Marina Cvetaeva-Mosca 1892 – Elabuga (Tataria) 1941«Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi».In Crimea, sulle rive del Mar Nero, a Koktebel’ Marina s’innamora di Sergej Efron. Lei ha 19 anni, lui 18. Sergej trova sulla spiaggia una corniola che Marina tanto desiderava. Marina vede il segno del destino. Si sposano.
Come spostando pietre:
geme ogni giuntura! Riconosco
l’amore dal dolore
lungo tutto il corpo.
Come un immenso campo aperto
alle bufere. Riconosco
l’amore dal lontano
di chi mi è accanto.
Come se mi avessero scavato
dentro fino al midollo. Riconosco
l’amore dal pianto delle vene
lungo tutto il corpo.
Vandalo in un’aureola
di vento! Riconosco
l’amore dallo strappo
delle più fedeli corde
vocali: ruggine, crudo sale
nella strettoia della gola.
Riconosco l’amore dal boato
– dal trillo beato –
lungo tutto il corpo!
La mia strada non passa accanto alla casa – la tua.
La mia strada non passa accanto alla casa – di nessuno.
E tuttavia smarrisco il cammino,
(soprattutto – in primavera!)
e tuttavia mi struggo in mezzo alla gente
come un cane sotto la luna.
.
Ospite ovunque gradita!
Non faccio dormire nessuno!
Gioco col nonno ai dadi
e col nipote – canto.
.
Le mogli non sono gelose di me:
io – voce e sguardo.
E per me nessun innamorato
ha costruito un palazzo.
.
Mi fanno ridere le vostre
grazie non richieste, mercanti!
Innalzo da sola in una notte
ponti e regge.
.
(Ma quello che dico – non lo ascoltare!
Tutte chiacchiere – di donne!)
Io stessa al mattino distruggerò
la mia creazione.
Insinuarsi
E, forse, la vittoria vera
su tempo e gravità: passare
senza lasciare tracce, senza
proiettare ombra
sui muri…
Forse – con la rinuncia
prendere? Cancellarsi da ogni specchio?
Come Lermontov al Caucaso, insinuarsi
senza turbare le montagne.
E, forse, unico diletto: con le dita
di Bach sfiorare l’organo
senza turbare l’eco.
Disfarsi senza lasciare cenere
per l’urna.
Forse – con il raggiro
prendere? Da tutti gli orizzonti
uscire? Nel tempo come nell’oceano
insinuarsi – senza allarmare le onde…
(da Dopo la Russia, 1928, traduz. di Serena Vitale)
E guardò come le prime volte
Non si guarda.
Neri occhi sorseggiarono lo sguardo.
Ho alzato le ciglia e sto ferma.
— Che c’è, — fa giorno? —
E’ che sono bevuta fino in fondo.
Tutto, fino all’ultima goccia, trangugiò la pupilla.
Io sto ferma.
E scorre in me la tua anima.
7 agosto 1916
Da dove tutta questa tenerezza?
Non è la prima volta che accarezzo
Riccioli come questi, e ho conosciuto
Labbra più tenebrose delle tue.
Le stelle sono sorte e tramontate,
— Da dove, tutta questa tenerezza?
Due occhi sono sorti e tramontati
Proprio vicino ai miei.
Io non avevo mai udito ancora
Inni del genere, nella notte oscura,
Incoronata — o tenerezza! —
Sul petto stesso del cantore.
Da dove, tutta questa tenerezza,
E cosa devo farne, adolescente
Malizioso, cantore forestiero,
Dalle ciglia — c’è nulla di più lungo?
Marina Cvetaeva – a O.E. Mandel’shtam
Indizi terrestri
Così, nella vita, tra fatiche quotidiane
e amori di una notte, scorderai l’amica
coraggiosa, il suono
dei suoi fraterni versi.
L’amaro dono della sua durezza,
la timidezza, maschera del fuoco,
e quello spasmo, scossa senza fili,
che ha il nome di: lontano!
Tutto l’antico tranne – «dammi!», «mio!»,
tutte le gelosie – non la terrena,
tutte le fedeltà – ma anche all’estremo
scontro – sempre incredula Tommaso…
Sii prudente, mio tenero, ti imploro:
non dare asilo alla fuggiasca –
l’anima! Viva la virile intesa
delle amazzoni, limpida congiura!
Ma forse, tra cinguettii e conteggi,
sfinito dal fatale eterno
femminino, ti tornerà alla mente
la mano mia senza diritti.
Le labbra – senza preventivi.
Le braccia – senza pretese.
Gli occhi – senza palpebre,
protesi – nel vivo!
15 giugno 1922 – traduzione di Serena Vitale
Tentativo di gelosia
Come state con quell’altra –
più semplice, vero? – Un colpo di remo!
Lungo la linea della costa
se n’è andato presto il ricordo
di me, isola flottante?
(nel cielo – non sulle acque!)
Anime, anime! – sorelle dovete essere,
non amanti – voi!
Come state con una donna
‘semplice’! ‘Senza’ divinità?
Deposta dal trono la sovrana
(e da esso disceso),
come state – vi date da fare –
vi raggrinzite? Vi alzate – come?
Con il dazio dell’immortale mediocrità
come ve la cavate, poveretto?
Spasimi e intermittenze,
basta! Mi prenderò una casa. »
Come state con una qualsiasi-
voi, eletto mio?
V’è più connaturato e commestibile
il cibo? – Non nascondere il successo!
Come state con un simulacro –
Voi che avete calpestato il Sinai?
Come state con un estranea,
una «terrestre»? Per la costola (1) – v’é cara?
La vergogna con le briglie di Zeus
non vi frusta la fronte?
Come state – come vi sentite –
cosa potete? Cantate – come?
Con la piaga dell’immortale coscienza
come ve la cavate, poveretto?
Come state con un articolo
da mercato? La servitù è dura?
Dopo i marmi di Carrara
come state con la polvere
di gesso?. (Dio scolpito,
in una gleba – e frantumato!)
Come state con una centomillesima –
voi, che avete conosciuto Lilith?!
Dell’ultima novità di mercato
siete sazio? Stanco delle maghe,
come state con una donna
terrestre, ‘senza’ i sesti sensi?
Via, per la testa : siete felice?
No? Nella frana senza profondità –
come state, mio caro? È più pesante?
È forse così – come per me con un altro?
19 novembre 1924 – Traduzione di Pietro A. Zveteremich
Preghiera
……..
Io voglio tutto, con anima di zingaro
tra i canti andarmene brigante
per tutti soffrire al suono di un organo,
amazzone, lanciarmi alle battaglie;
in nere torri divinare le stelle,
nell’ombra spingere un bambino…
Perchè il giorno di ieri sia leggenda,
perchè ogni giorno sia – follia!
Il poeta
Il poeta – da lontano conduce il discorso.
Il poeta – lontano conduce il discorso.
Per pianeti, per segni…per borri
di indirette parabole…Fra il sì e il no
lui – persino volando giù dal campanile –
rimedia un appiglio…Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti. I dispersi anelli
della casualità, ecco il suo legame! Con la fronte in alto
disperatevi! Le eclissi dei poeti
non sono previste dal calendario.
Lui è quello che imbroglia le carte,
che inganna sul peso e sul conto;
lui è quello che domanda dal banco
chi demolisce Kant,
chi c’è nella bara di pietra della Pastiglia –
com’è l’albero nella sua bellezza…
quello le cui tracce si dileguano sempre,
quel treno a cui tutti
arrivano tardi…
Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti: bruciando e non scaldando,
strappando e non coltivando – esplosione e scasso –
il tuo sentiero crinieruto, storto,
non è previsto dal calendario!
Trad. di P. A. Zveteremich
Da … a te fra cento anni
Alla mia povera fragilità
guardi senza sprecar parole.
Tu sei di pietra, ma io canto.
Tu sei un monumento, ma io volo.
Io so che il più tenero maggio
all’occhio dell’Eternità è nulla.
Ma io sono un uccello e non incolparmi
se una facile legge m’è imposta.
Ciao! Né freccia né pietra:
io! – La più viva delle donne:
vita. Tutte le mie carezze –
al sonno incompiuto.
Vieni qui! (vale a dire:
Tienimi! – è questione di senso)
Afferrami tutta così felice
e semplice come mi vedi!
Stringimi! – che oggi lontano navighiamo,
stringimi! – che sciamo! – con un filo di seta!
Oggi porto una pelle nuova:
quella dorata, la settima!
– Mio! – altro che ricompense
in cielo, se tra le braccia, sulla bocca
c’è la Vita: la felicità sfacciata
di dirti ciao ogni mattina!
Da Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925
a cura di Marilena Rea (Passigli, 2013)
Ho sempre voluto
e addirittura preteso
che mi si ami come sono
– per ciò che sono –
perché sono.
Non per ciò che,
secondo voi,
potrei, dovrei,
avrei dovuto essere.
Marina Cvetaeva
fot. da Max Voloshin nel 1911
Versi a Blok
Il tuo nome è una rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.
Un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono cinque lettere.
Una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome – ah, non si può! –
il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.
La mia strada non passa vicino alla tua casa.
La mia strada non passa vicino alla casa di nessuno.
E tuttavia io smarrisco il cammino
(specialmente di primavera!)
e tuttavia mi struggo per la gente
come il cane fa sotto la luna.
Ospite dappertutto gradita,
non lascio dormire nessuno!
E con il nonno gioco agli ossi,
e con il nipote – canto.
Di me non s’ingelosiscono le mogli:
io sono una voce e uno sguardo.
E a me nessun innamorato
ha mai costruito un palazzo.
Le vostre generosità non richieste
mi fanno ridere, mercanti!
Da me stessa mi erigo per la notte
e ponti e palazzi.
(Ma ciò che dico – non ascoltarlo!
È tutto un inganno di donna!)
Da sola al mattino demolisco
la mia creazione.
Le magioni – come covoni di paglia – niente!
La mia strada non passa vicino alla tua casa.
27 aprile 1920
da “Poesie” – Ed. Feltrinelli 2009 (traduzione a cura di Pietro Zveteremich)
Breve biografia di Era già stato pubblicato il primo libro di poesie di Marina, Album serale. Marina Ivanovna Cvetaeva nasce a Mosca il 26 settembre 1892. Il padre, Ivan Vladimirovič Cvetaev, figlio di un povero pope di campagna, non ebbe un paio di scarpe proprie fino ai tredici anni; ma sarebbe diventato filologo e professore di storia dell’arte all’università di Mosca, e fondatore del Museo Puškin. La madre, Marija Alexandrovna Mejn, fu obbligata dalla propria famiglia a rinunciare all’amore per un uomo già sposato e alla carriera di pianista, pur essendo stata allieva di Rubinstein. Fu la seconda moglie del professor Cvetaev.
La prima moglie Varvara Dmitrievna Ilovaiskij, aveva dato alla luce Valerija e Andrej; morì prematuramente ed era un’amica di Marija.
Marija avrebbe voluto figli maschi: ne aveva già scelto i nomi. Dopo Marina, nacque Anastasija. Sperò almeno che diventassero musiciste. L’ambiente familiare è ricco di sollecitazioni coltissime. Marina studia musica; scrive le prime poesie in russo a sei anni; si fa incantare dalle passioni letterarie della madre, Puškin e i grandi classici tedeschi e francesi. Cresce a Mosca, al n. 8 del Trёchprudnyj Pereulok, il vicolo dei Tre Stagni. La casa moscovita, assieme alla residenza estiva in campagna a Tarusa, resteranno decisivi, per la Marina adulta e in esilio, in ricordo dell’infanzia e di tutto ciò che viene perduto in modo irrimediabile. La madre si ammala di tubercolosi. in cerca di un clima più mite, la famiglia viaggia – soggiornando anche in Italia, a Nervi. Marina e Anastasija frequenteranno collegi in Svizzera e in Germania, perfezionando il francese e il tedesco.
Marija muore nel 1906 rimpiangendo la musica, il sole, e di non poter vedere adulte le figlie, che saranno viste crescere da «cretini qualsiasi». La sua fame di vita e la sua rivolta diventeranno, in Marina, vocazione: «Dopo una madre così non mi restava che divenire poeta». A 16 anni, da sola, segue i corsi di letteratura francese antica alla Sorbona di Parigi. Iscritta al ginnasio a Mosca non riuscirà a concludere studi regolari a causa del suo carattere indocile. L’anticonformismo si unisce al devoto amore per il marito, che seguirà sempre «come un cagnolino», e che non le impedirà di avere altre relazioni, fra cui Osip Mandel’stam, la poetessa Sofija Parnok e l’attrice Sonja Halliday. Sergej comprende e soffre il dinamismo della passione creatrice della moglie: Marina “inventa” le persone, le investe con l’uragano della propria passione, per poi scoprirne l’umana mediocrità; ne consegue la disillusione, derisa in modo crudele, incarnata in una formula razionale che genera, ogni volta, un libro, un progetto di scrittura. Questo meccanismo ha un bisogno di alimentarsi per vivere e per creare, «come una grandissima stufa che per funzionare ha bisogno di legna, legna, legna»; ma mai pensa di lasciare Sergej. Il destino di Marina è nella fedeltà ai propri sentimenti e soprattutto alla poesia.
Per l’Armata Bianca, alla quale si era unito Sergej dopo la Rivoluzione, Marina osa leggere in pubblico, alcune poesie scritte da lei, senza la parola amore né il pronome tu. Non viene denunciata per il tema scelto: doveva ancora arrivare il grande terrore staliniano. Resta bloccata a Mosca in condizioni disumane, descritte nella prosa Indizi Terrestri, senza notizie di Sergej, sola con le due figlie: Ariadna (Alja) e Irina,ma non riesce a mantenere entrambe e Irina viene affidata ad un orfanotrofio dove muore per fame.
Il sentimento per Marina richiede forza. La sua poesia arriva al grido, raggiunge l’oratoria poetica. Nelle prime raccolte di poesia prevalevano il quotidiano, la famiglia e la maternità, o l’odore della nursery – come scrissero i più critici; nel tempo la poesia si fortifica in una potente energia espressiva in cui tutte le possibilità del linguaggio sono utilizzate: ritmo, assonanze, rime, il particolare utilizzo della negazione, giochi fonetici in poesie che andrebbero lette ad alta voce.
Ogni genere e argomento entra nella sua produzione: poesia e nel dramma storico (Sten’ka Razin), favola (Il Pifferaio di Hamelin ovvero l’Accalappiatopi), e leggende popolari (Lo Zar-fanciulla), storie bibliche, classiche (Ariadna e Fedra). E prosa critica, L’Arte alla luce della coscienza e Il Poeta e il Tempo.
Scrisse che si potevano ricavare da lei sette poeti, senza tralasciare i prosatori…La poesia di Marina non è romantica – nonostante circolino di lei oggi sillogi più facili e canzoni – , è analogica, razionale e intellettuale. È impegnativa: la sua lettura è un atto di con-creazione, un’esperienza conoscitiva. Bisogna arrivare all’essenza della cosa o della persona, non descrivere visivamente, piuttosto dare dall’interno: se si trattasse di un albero, restituirne il midollo.
«Io mi sono sempre fatta in pezzi, e tutti i miei versi sono, letteralmente, frammenti argentei di cuore.» In questa smisuratezza, tanti critici hanno prediletto un approccio istintivo e passionale piuttosto che analitico e conoscitivo.
Alja e Marina raggiungono Sergej, che sanno finalmente vivo, all’estero, nel 1922.
Nasce a Praga Georgj, detto Mur: capriccioso, maleducato, insopportabile, viziato dalla madre. Alja si legherà sempre di più al padre. A Berlino, Praga e Parigi vi sono case editrici russe. L’ambiente dell’emigrazione è vivace. Marina pubblica interi cicli di poesia, anche se per motivi economici prevale la prosa. Scrive molto di più di quanto riesca a pubblicare e legge anche in serate letterarie. A Parigi frequenta il famoso salotto di Natalie Clifford Barney. Conosce la pittrice Natal’ja Gončarova, nasce una collaborazione, ma l’amicizia non regge nel tempo: «non ho lasciato in lei un segno abbastanza profondo, non le sono diventata necessaria. Sentiero subito invaso dall’erba».
Marina non frequenta solo i salotti. Spazza, cucina, si procura soldi, cibo, legna e carbone: «e poi un uomo non può fare lavori femminili, è bruttissimo da vedere (per le donne)». Marina vive pesantemente il byt, il quotidiano, fino in fondo, senza delegare alcuno, ma nella sua poesia emerge possente il Byt’e, l’Esistenza, la forza che non sottostà ad alcuna legge. Sergej, quasi sempre a carico della moglie, ne è consapevole: Marina è poeta che pur passando la maggior parte del tempo in cucina, non ha perso né il talento né la capacità di lavorare. Ostinata, fedele alla poesia, scrive appena può. Si reca al mare per un breve soggiorno: non il mare, ma nel poter scrivere è la sua vacanza. Nel 1928 esce l’ultimo libro di poesie che vedrà pubblicato, Dopo la Russia. Molte case editrici dell’emigrazione russa chiudono per mancanza di fondi. Le condizioni economiche peggiorano. Marina viene poco a poco emarginata, per la sua intransigenza e anche perchè non si dichiara antisovietica; senza soldi non può muoversi da casa; vive una grande solitudine. Da questo isolamento nasce la corrispondenza straordinaria con Boris Pasternak e con Rainer Maria Rilke: i loro rapporti si muovono in un ambito parallelo, spostato. I tre poeti non s’incontreranno mai, per un eterno mancarsi. L’assenza diventa un vantaggio perché l’altro, amato, interiorizzato, diventa più intero nell’anima.
Marina è un’eterna straniera, non solo perché vive fuori dalla Russia per molti anni, senza riconoscere alcun paese come patria: è un’estranea al proprio tempo, condannata a guardarlo dall’esterno. Quando rientra in Russia è conosciuta solo per le sue prime raccolte poetiche e sarà riscoperta a partire dal 1956; all’estero non verrà più letta da una emigrazione russa sempre più ostile.
Nel 1937 Alja decide di rimpatriare, così poco dopo anche Sergej, ora filosovietico e implicato in un assassinio politico. Marina è convinta della sua innocenza. L’ostracismo della colonia russa raggiunge l’apice. Rimpatriare? In una lettera chiede ironicamente a un’amica di procurarle un consulto da un’indovina, tanto soffre l’indecisione.
Nessuno la informa di quello che stava accadendo in Russia, nessuno la ferma. Come se presentisse la sciagura: la partenza le appare sotto una nube nera. Nel giugno 1939 parte per l’Unione Sovietica con Mur. Trova tutte le porte chiuse, ed è stupita e furiosa. Come si permette la città di Mosca a darsi così tante arie? La sua famiglia l’aveva colmata di doni, su tutti il Museo Puškin. La famiglia resta riunita per pochi mesi. Nell’agosto del 1939 Alja è arrestata e condannata, prima alla prigione, poi al confino. In ottobre tocca anche a Sergej: sarà fucilato due anni dopo. Nel 1941 Marina incontra Anna Achmatova. Le due donne, pur stimandosi, sono troppo diverse, solo unite dal dolore per la sorte dei propri cari.
In agosto Marina e suo figlio sono evacuati a Elabuga, in Tataria. Nella più profonda indigenza. Marina chiede di lavorare come lavapiatti nella mensa dell’Associazione degli Scrittori. Non ottiene il posto. La scrittrice Lidija Čukovskaja: «Se si mette la Cvetaeva a lavare i piatti, perché non far lavare i pavimenti ad Anna Achmatova e assumere come fuochista Blok, se fosse ancora vivo? Allora sì che sarebbe una vera mensa per scrittori».
Marina si impicca il 31 agosto 1941. Avrebbe desiderato giacere a Tarusa, sotto un cespuglio di sambuco, «dove crescono le fragole più rosse e più grosse», ma viene sepolta in una fossa comune.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Marina Cvetaeva, Poesie (a cura di Pietro Zveteremich), Feltrinelli 1979
Marina Cvetaeva, Indizi terrestri (a cura di Serena Vitale), trad. Luciana Montagnani, Milano, Guanda 1980
Marina Cvetaeva, Dopo la Russia e altri versi (a cura di Serena Vitale), Milano Mondadori, 1988
Marina Cvetaeva, Il paese dell’anima: lettere 1909-1925 (a cura di Serena Vitale), Milano Mondadori,1988
Marina Cvetaeva, Deserti luoghi: lettere 1925-1941 (a cura di Serena Vitale), Adelphi 1989
Piero Ciampi nasce a Livorno il 28 settembre del 1934. Il padre, Umberto, è un piccolo commerciante di pellami. Delle prime fasi della sua vita, complice il conflitto bellico, non si sa granchè [1]; le prime notizie si hanno dal momento in cui si iscrive alla facoltà di ingegneria dell’Università di Pisa. Quando si trova a circa metà degli esami decide di lasciare l’Università per ritornare a Livorno e provare l’avventura musicale[2]. Nel frattempo, per guadagnare qualche soldo, fa, qua e là, qualche lavoretto.
Piero Ciampi – Canzoni e poesie
IL TUO RICORDO
Il tuo ricordo è una strada piena di luce, una cometa luminosa, mi segue sempre, ovunque vada, sempre. Ora che non ci sei più credo ancora di averti vicina e torno ogni sera dove tu stringevi la mia mano. Ed il tuo viso è una sera piena di ombre ed il ricordo dei tuoi passi mi segue sempre, ovunque vada, sempre. Ora che tu non ci sei più io desidero silenzi, infiniti silenzi, infiniti deserti, usignoli tutti bianchi e pensieri sereni su una strada piena di luce che non ha mai fine.
…..
L’ULTIMA VOLTA CHE LA VIDI
I miei occhi erano pieni del suo sguardo, poi vidi i suoi passi allontanarsi sulla spiaggia… e fu l’ultima volta che la vidi L’ultima volta che la vidi mi chiese di fermare il tempo e mi dette uno scrigno pieno di comete. Io non posso ormai più andare tra i sorrisi della gente né chiedere alle cose un posto in mezzo a loro. L’ultima volta che la vidi mi chiese di fermare il tempo e mi dette una mano piena di carezze. Fu una lacrima candida e lunga che cadendo sopra un fiore mi fece ricordare che se bianco è bianco e nero è nero in questa vita io sono uno straniero. Senza di lei il giorno non ha né alba né tramonto e l’arcobaleno e il canto degli usignoli sono cose perdute…. Ed ogni sera ritornano su quella spiaggia processioni di stelle e di comete come l’ultima volta che la vidi.
….. ADIUS
Il tuo viso esiste fresco mentre una sera scende dolce sul porto. Tu mi manchi molto, ogni ora di più. La tua assenza è un assedio ma ti chiedo una tregua perchè un cuore giace inerte rossastro sulla strada e un gatto se lo mangia tra gente indifferente ma non sono io, sono gli altri. E così… Vuoi stare vicina? nooo? Ma vaffanculo. Sono quarant’anni che ti voglio dire… ma vaffanculo. Ma vaffanculo te e tutti i tuoi cari. Ma come? Ma sono secoli che ti amo, cinquemila anni, e tu mi dici di no? Sai che cosa ti dico? va-ffan-culo. Te, gli intellettuali e i pirati. Non ho altro da dirti. Sai che bel vaffanculo che ti porti nella tomba? Perché io sono bello, sono bellissimo, e dove vai? Ma vaffanculo. E non ridere, non conosci l’educazione, eh? Portami una sedia, e vattene.
….. MISERERE
A mille anni ho dimenticato in treno la mia borsa, dentro: le poesie, una camicia e qualche fazzoletto. Ho messo a soqquadro mezza polizia, la stazione, e mi guardavano co- me un pazzo. A Ponte Sisto ho bevuto sei litri al cubo, in Piazza del Biscione… sono morto. Questo è un miserere per te, per me, che non abbiamo saputo amarci. Noi, per colpa di quattro scemi, abbiamo dovuto subire l’equivoco e siamo soli. Questo è un miserere per te e per me, che non abbiamo mai capito che dovevamo difenderci. Gli uomini quando sono scemi sono nemici, tu non l’hai capito ed ora sei sola. Questo è un miserere per te e per me
….. TU CON LA TESTA IO CON IL CUORE
Tu, tu mi hai amato con la testa. Io, io ti ho amato con il cuore. Forse il tuo amore è più giusto forse il mio è più forte. Io ho paura della tua memoria perché fai troppi conti col passato e castighi i miei errori ignorando i tuoi e poi tu hai sposato il tuo orgoglio con la vanità. La nostra è una battaglia molto dura perché noi non ci concediamo mai un perdono, io col sentimento ti spavento tu con la logica mi sgomenti. Se dici che siamo soli su questa terra cerchiamo di evitare un addio: andiamo avanti con questo amore andiamo avanti tu con la testa, io con il cuore. Questo nostro amore è una cosa… una delle tante della vita. Noi stiamo rovinando tutto con le parole queste maledette parole…
….. L’AMORE E’ TUTTO QUI
Se sono solo come mai, non ho una lira e tu lo sai, perdonami; sono uno strano uomo che può frequentare solo te, abbracciami. Non sono morto e tu lo sai, se ti procuro tanti guai perdonami. Il dolce non lo mangi mai ma qualche volta ti rifai, abbracciami. tutte le cose che non hai accanto a me le troverai nel mondo dell’illusione. Tu vai sicura, vai così, perché io sono sempre qui qui!
….. VA
Va il suo corpo in ogni cuore, sembra un coltello. Lei apre senza pietà altre ferite oltre la mia e va con il suo corpo lungo la strada ed il cemento, è un teatro per le sue gambe sempre pronte ad una danza. Se ritardi, così viene l’attesa, la mia unica arma è un lungo silenzio. Io tra milioni di sguardi che si inseguono in terra ho scelto proprio il tuo ed ora tra miliardi di vite mi divido con te. Se perdi la pazienza grazie a un sorriso ritorni mia, poi apri la tua mano in un disegno sovrumano. La tua anima sta giocando in giardino, mi nascondo e la scruto ma il tuo corpo dov’è? Noi per nutrire l’amore ci sfidiamo a duello, sarà sempre così. Ma amore, non esiste un nemico più bello di te.
….. L’INCONTRO
Domani la mia camicia sarà pulita, le mie pupille bianche, il mio passo fermo, i calzoni stirati, le scarpe lucide, e la mano non deve tremare, costi quel che costi. Non ti potrò baciare perché anche tra noi due l’attesa è sacra e la diffidenza necessaria. Forse comincerò a prenderti la mano, poi non saprò come continuare, farò di tutto perché tu non capisca l’indifferenza che in questo mondo ci perseguita. Stanotte allenerò le mie labbra a sorridere e dovrò quindi pensare a lavarmi fino alla morte i denti. Vorrei piacerti come un tempo ma la mia pelle è stanca e non posso nascondere il mio volto. Dovresti essere forte e dirmi, lasciandomi alla mia vita di sempre, che ormai per te sono un estraneo e che ha ragione la gente quando dice che merito la solitudine. Ma guarda tu che cosa ti dico; sarebbe molto meglio per te che te ne andassi prima di incontrarmi.
….. CHIEDER PERDONO NON E’ PECCATO
Buongiorno, amore: sei ritornata, niente è cambiato, siamo gli stessi innamorati come una volta, tu sei la stessa, quella che amavo, le stesse mani, lo stesso viso, la stessa ansia nei nostri cuori. Quando mi hai visto tu hai sorriso: chieder perdono non è peccato. Sei ritornata, niente è cambiato, siamo gli stessi innamorati.
tratte da “Canzoni e poesie”
Lato side, Roma, 1980
La vita agra, 53 poesie di Piero Ciampi
L’unico Ciampi a cui dovremmo dedicare piazze e strade in ogni angolo d’Italia è Piero, perché era tutto quello che non vogliamo più che gli artisti siano: l’amarezza della vita agra, il dolore di essere meschini e non saper essere altro, il sarcasmo, il cinismo, talvolta pure la violenza, in versi, narrata, che è la violenza più dannata, contro quel problema volgare che ci attanaglia tutti: andare, camminare, lavorare. Campare. E farlo per quegli spiccioli con cui comprarsi un’ora di sollievo sopra il collo di una bottiglia, tra le cosce di una sconosciuta, dentro un taxi per nessuna parte o una frittata di cipolle, «cose che non ho mai avuto tutte insieme», raccontò in un’intervista: la felicità è una sigaretta consumata; se arriva, arriva a mozziconi.
Piero Ciampi era un Modigliani anacronistico, uno nato nella città giusta – a Livorno, in via Roma, praticamente di fronte alla casa natale di Modì – ma pareva avesse sbagliato epoca pur azzeccandola in pieno. Non c’è niente di romantico o decadente nella sua vita raminga e balorda, da bohémienne ottocentesco fuori tempo massimo. Non era uno scapigliato o un dandy; tendeva piuttosto a un epicureismo istintivo e dannato, da eterno insoddisfatto che se ne fotteva della ricerca estetica: era lui stesso l’estetica, la sua vita, la disperazione che gli tallonava il culo, sulla strada, come i poeti beat. Ciampi era il Majorana di Sciascia in fuga dal proprio talento, uno della genia dei Morselli o dei Campana, quelli che faticano a starsi dietro. La sua esistenza accadde tutta dentro al proprio tempo, fu tragicamente novecentesca e tragicamente italiana. Lo intuiva probabilmente pure lui, che non a caso nei primi dischi degli anni sessanta si firmava con lo pseudonimo di Piero Litaliano, tutto attaccato perché la sua era grammatica da osteria, una zuppa preparata con gli scarti di senso. Gliel’avevano dato i francesi, quel soprannome, accentando la O finale, in virtù del pathos tipicamente italico che infondeva alle sue interpretazioni canore. In realtà dentro quella voce, prima ancora che l’Italia, c’era Livorno; e nemmeno tutta: c’era soprattutto il quartiere Pontino dove Ciampi era nato tra il profumo del cacciucco e quello delle puttane, le urla dei portuali e le proteste dei disoccupati, quei vicoli che portavano nomi di canzoni come «via della Disperazione», strada senza autore in attesa del suo Bob Dylan. Processione di un’umanità dolente, assetata di tutto, affamata dalla miseria ma pure da qualcosa che si trova fuori dallo stomaco, fuori dalla pelle, fuori persino dal creato.
È l’umanità protagonista di canzoni che sovvertono Dickens intorno a un fuoco natalizio dove l’apologo si fa cenere per rinascere controfavola (Il Natale è il 24), che evocano Edgar Allan Poe in una nuova ornitologia dell’orrore, l’orrore squallido dello stentare quotidiano (Il merlo), che erigono monumenti all’artista solo se l’uomo è un irredimibile, un irrecuperabile, un irregolare (Ha tutte le carte in regola). Per certi versi Piero Ciampi è stato il nostro Céline – che conobbe durante il periodo di vagabondaggio in Francia nei locali in cui si esibiva Georges Brassens – il primo punk italiano, però con la chitarra classica: mentre Celentano e Buscaglione accoglievano l’America nel rock’n’roll e nello swing, Ciampi se l’andò a prendere in Francia. Nella sua carriera è venuto alle mani con Califano al bancone di un bar, ha insultato i giurati del premio Tenco, ha mandato a fare in culo il mago Silvan e più volte il proprio pubblico, soprattutto quello dei circoli d’élite, i borghesi, gli intellettuali, di cui gli interessavano solo i soldi. Una volta a Firenze abbandonò il palco dopo aver eseguito a malapena il primo brano, e non sazio sbeffeggiò il pubblico proclamandosi «il cantante più pagato d’Italia, trecentomila lire per mezza canzone»; un’altra volta dilapidò l’anticipo in contanti dalla RCA, ottenuto grazie all’intercessione dell’amico Gino Paoli, spendendolo tutto all’osteria di via dell’Oca, metà in vino e un’altra metà regalata a una prostituta «così stasera puoi fare a meno di lavorare». Era insofferente al successo, più che cercarlo sembrava fuggirlo. Spariva per mesi interi, diceva agli amici di essere in partenza per Tokyo o per l’America, ma poi lo ritrovavano ubriaco al porto di Livorno, isola-mondo di cui si sentiva il Robinson Crusoe; altre volte invece partiva davvero, improvvisamente, senza dire niente a nessuno, per Barcellona, per Stoccolma, per Dublino. A causa di queste fughe mandò in vacca numerose occasioni di svoltare la carriera, come quella volta nel 1974 quando a cercarlo fu Ornella Vanoni e lui risultava irrintracciabile anche al fido collaboratore Gianni Marchetti.
Era un emarginato, Ciampi, sapeva di esserlo e forse voleva esserlo; si definiva un arrabbiato, descrivendosi con tre aggettivi che sono un preciso identikit caratteriale – livornese, anarchico e comunista – però sul passaporto, alla voce professione, ci fece scrivere «poeta».
Come poeta Ciampi realizzò una sola raccolta, 53 poesie; gliela pubblicò nel 1973 Ennio Melis per la RCA in un’edizione elegante e spartana, dalla copertina totalmente bianca come il White Album dei Beatles. Resta forse il primo e unico caso in Italia in cui un’etichetta discografica abbia pubblicato un libro di poesie di un cantautore, riaffermando con una sola operazione editoriale quella continuità tra poesia e canzone ben presente alla tradizione romanza, dai trovatori provenzali agli stilnovisti, e poi sdoppiatasi in diramazioni distinte seppur tangenti. Quel volumetto torna adesso in libreria grazie a Lamantica Edizioni, arricchito da una premessa di Enrico De Angelis, curatore dell’ultima pubblicazione in cui vennero ristampate le 53 poesie (Piero Ciampi. Tutta l’opera. Arcana, 1992), un’introduzione critica di Diego Bertelli – che analizza l’esclusività della poetica ciampiana e la sua distanza tanto dalla tradizione lirica italiana quanto dalla sperimentazione novecentesca, mettendo altresì in risalto le affinità tematiche col concittadino Caproni e con la versificazione frammentata di Ungaretti – e una postfazione dell’editore Giovanni Peli.
Molti dei versi qui raccolti nacquero originariamente come estensioni delle canzoni, alcuni vennero pubblicati nei libretti allegati ai dischi, altri recitati da Ciampi nei concerti tra un brano e l’altro, altri ancora furono direttamente integrati alle canzoni, quasi che quei versi fossero protesi, rinforzi, aggiunte senza le quali la forma-canzone iniziale sarebbe rimasta monca, in qualche modo incompleta. Nell’universo lirico di Ciampi non c’è soluzione di continuità tra i due codici espressivi, poesia e canzone sono forme bastarde, promiscue come un fiammifero / ed una latta di benzina / fanno l’amore / sotto il tetto / di una mano. Si rincorrono a vicenda, l’una strattona l’altra a sé: se nelle canzoni ciampiane la melodia doveva farsi marcia irregolare per stare al passo di una metrica dispari, etilica, frantumata – un mucchio d’ossa raccolte dentro un fosso – in queste poesie i versi cantano da soli, senza musica, echeggiando la voce barcollante e insolente del loro autore.
Anche nella forma lirica pura la poetica di Ciampi rimane quello che è sempre stata: fragilità in rivolta, vita come strage continua, stupore amaro di animali chini «a sverginare stelle». E quando certi versi d’amore appaiono un po’ troppo aggressivi, è perché l’amore si dà in relazione, e la relazione è sangue e merda: un insetto che disfa «la nostra sottile e dolorosa ragnatela», dolori che si aggiungono addosso, mani che sfuggiranno sempre. E se per Ciampi non c’è redenzione nell’amore, tanto meno ce n’è in Cristo, figura poetica che ritorna spesso nelle sue poesie, ma è il Cristo di un ateo, il figlio di un cane non certo di Dio: ora muore investito da un’automobile, ora crepa di emorragia, ora si impicca in mezzo a scimmie che lo emulano. È lo stesso Cristo tra i chitarristi di una sua canzone, un acrobata in bilico su un tubo da cui cade di continuo, un viaggiatore incerimonioso che dimentica la valigia su quel treno schifoso da cui non voleva scendere:
«A mille anni
ho dimenticato
in treno
la mia borsa.
Dentro
le poesie
una camicia
e qualche fazzoletto.
Ho messo a soqquadro
mezza polizia
la stazione
e mi guardavano
come un pazzo.
A Ponte Sisto
ho bevuto
sei litri
al cubo.
In Piazza del Biscione
sono morto»
Piero Ciampi nasce a Livorno il 28 settembre del 1934. Il padre, Umberto, è un piccolo commerciante di pellami. Delle prime fasi della sua vita, complice il conflitto bellico, non si sa granchè [1]; le prime notizie si hanno dal momento in cui si iscrive alla facoltà di ingegneria dell’Università di Pisa. Quando si trova a circa metà degli esami decide di lasciare l’Università per ritornare a Livorno e provare l’avventura musicale[2]. Nel frattempo, per guadagnare qualche soldo, fa, qua e là, qualche lavoretto.
Chiamato al servizio militare, Piero parte per il CAR (Centro Addestramento Reclute nella terminologia del servizio di leva obbligatorio) a Pesaro. Durante le libere uscite va a suonare nei piccoli locali pesaresi, dove suscita l’interesse di Gianfranco Reverberi, che ne coglie la vena artistica e successivamente proverà ad inserirlo nel difficile mondo musicale. Inizialmente Piero suona il contrabbasso (suo primo strumento musicale che aveva imparato a suonare da autodidatta) in alcune orchestre del posto, ma in realtà si sente un cantautore e un poeta.
Nel 1957 senza soldi, con solo una chitarra e un biglietto di sola andata in mano, passa prima a Genova, dove va a trovare Reverberi, poi prosegue per Parigi, dove stringe amicizia con Louis-Ferdinand Céline, e va ad ascoltare il grande Georges Brassens. È proprio in Francia che nasce il “Ciampi chansonnier”.
Nel 1959 ritorna nell’amata Livorno, sempre senza alcun soldo in tasca. Per un mese se ne sta in giro per la città, ubriacandosi e pensando di fare il pescatore, ma l’amico Reverberi se lo porta a Milano convincendolo a lavorare per lui. Quando Crepax, amico di Reverberi, passa alla CGD, si porta dietro Piero Ciampi come cantautore “di scuderia”; gli fa incidere alcuni dischi e prova pure a venderli, con il nome artistico di Piero Litaliano. Nel 1963, comunque, “Piero Litaliano”, pubblica il suo primo LP che contiene, tra le altri, Autunno a Milano, Fino all’ultimo minuto e, soprattutto, Lungo treno del sud. Da questo momento però inizia il suo isolamento, un po’voluto dai suoi colleghi, che mal sopportano il suo carattere poco incline alla conciliazione, e molto cercato e voluto da Piero Ciampi stesso. La critica, a parte qualche eccezione, è severissima e stronca l’album, che infatti non ha successo (sarà poi inaspettatamente ristampato dalla CGD nel 1990). Piero allora lascia Milano e ritorna a Livorno, da dove, abbandonato il nome “Piero Litaliano”, inizia a scrivere e cantare con il proprio nome e cognome.
È questo però un periodo di non alta produzione artistica: produce un 45 giri di Georgia Moll e una canzone per Gigliola Cinquetti (“Ho bisogno di vederti“). Quello che Ciampi sembra non riesca a smettere è vagabondare (Svezia, Spagna, Inghilterra e probabilmente anche Giappone, tra le sue mete) e bere.
La sua vita amorosa è ugualmente difficile: dopo il fallito matrimonio con Moira – donna irlandese che, dopo meno di un anno di matrimonio, andrà via portandosi dietro il loro figlio Stefano (nato nel 1966) – anche con Gabriella, che gli darà una figlia, Mira, la convivenza finisce ben presto [3].
Nel 1967 produce un disco intero per Lucia Rango; Gino Paoli, uno dei suoi pochi “amici-colleghi” prova a portarlo con sé alla RCA, ma Piero, dopo aver preso un anticipo del contratto, non scriverà nemmeno una canzone. Nel frattempo coltiva anche la passione per la poesia, e in effetti egli si sente più un poeta che un cantante; scrive poesie scarne e brevi, quasi che fossero una metafora della sua vita.
Gli anni fra il 1973 e il 1974 avrebbero veramente potuto essere quelli della svolta artistica, ma i problemi con l’alcool e quelli con l’ambiente musicale in cui si deve confrontare, hanno oramai raggiunto un punto di non ritorno: sono di questo periodo diversi litigi con artisti di svariati campi. Tra i cantautori apprezza solo Fabrizio De André. Trova comunque il tempo per scrivere Io e te, Maria (rifiutata in un primo momento da Nicola Di Bari, che poi però la inciderà…), Bambino mio (cantata da Carmen Villani e scritta con Pino Pavone, un cantautore calabrese). Nel 1974 Ornella Vanoni vorrebbe produrre un album intero con canzoni di Ciampi, ma alla fine non se ne farà niente. Piero si ritrova a cantare in piccoli locali, dove non manca di insultare il ricco pubblico pagante.
Nel 1976 registra una serata al Club Tenco, che anni dopo viene pubblicata anche su CD. Tra la fine del 1976 e gli inizi del 1977 Ciampi si esibisce in concerto, senza tuttavia molto successo, con una serie di artisti conosciuti alla RCA: Paolo Conte, Nada e Renzo Zenobi; viene anche registrata una trasmissione televisiva, che però la Rai non trasmetterà mai. In compenso, in questi stessi anni diviene molto popolare agli ascoltatori di Radio Capodistria (emittente jugoslava all’epoca molto seguita in Italia centro-settentrionale), visto che non passa giorno che non venga mandato in onda un suo brano.
Negli ultimi anni Piero Ciampi torna sempre più frequentemente a Livorno. Il 19 gennaio1980, ricoverato a Roma, muore per un cancro alla gola, assistito da un medico-cantautore: Mimmo Locasciulli (che per ricordare l’amico Piero inciderà anni dopo una delle sue più belle canzoni: Tu no).
Articolo di Cristina Valentini -Livornese, classe 1934, Piero Ciampi è stato uno dei cantautori più importanti del ‘900 italiano.
Oggi, 19 gennaio, in occasione dell’anniversario della morte del poeta, abbiamo voluto ricordarlo così.
Anticoformista, controcorrente e senza ombra di dubbio riconoscibile come poeta maledetto a tutti gli effetti. Ci teneva così tanto da essersi fatto scrivere “poeta” alla voce “professione” sul passaporto.
Come cantante non raccoglie mai i favori della critica, nonostante le stupende pubblicazioni insieme all’amico di sempre Reverberi e al maestro Marchetti. L’attività di paroliere sembra invece regalargli più soddisfazioni: nel 1965 la sua Ho bisogno di vederti, cantata da Gigliola Cinquetti, arriva seconda al festival di Sanremo; negli anni ’70 invece scrive testi per Nada, che avrà poi un grande successo nel mercato discografico.
Ciampi passa la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 a vagabondare per i paesi più disparati. Nel ’57, a 23 anni, parte per la Francia senza una lira in tasca, ma riesce in qualche modo a mantenersi cantando le sue poesie per strada. Qui diventa un conoscitore ed estimatore della chanson francese e gli viene affibbiato il nome d’arte che lo accompagnerà durante i primi passi della sua carriera: “L’italianó“, poi trasformato in “Piero Litaliano“.
“Ha tutte le carte in regola per essere un artista: ha un carattere melanconico beve come un irlandese se incontra un disperato non chiede spiegazioni divide la sua cena con pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati, scrittori monchi”
Ha tutte le carte in regola (per essere un artista)è il manifesto artistico e culturale di Piero, dove l’autore parla del suo stile di vita assolutamente e incofutabilmente lontano dai canoni della società occidentale.
Le sue canzoni sono delle vere e proprie poesie. Malinconiche ma capaci di affondarti e affascinarti sin dal primo ascolto.
Ciampi è il perfetto esempio di tutta quella schiera di artisti incompresi in vita e celebrarti e osannati dopo la loro morte.
Dal 1995 proprio a Livorno è nato il Premio Ciampi, concorso riservato a canzoni inedite. Sono assegnati inoltre un premio per la miglior cover di una canzone di Piero, il premio al miglior esordio discografico dell’anno e un premio alla carriera.
Un bohémienne livornese, patrimonio artistico e culturale del nostro paese da consevervare e tramandare alle future generazioni, con cura.
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
La casa dei doganieri
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Arsenio
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch’è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s’arrossa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, –
e fuori, dove un’ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l’acetilene –
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t’abbevera,
tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s’afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell’onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell’ora che si scioglie, il cenno d’una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
L’anguilla
L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre piú addentro, sempre piú nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito:
l’iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?
In limine
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
La Bufera
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti – per entrar nel buio.
Il balcone
Pareva facile giuoco
mutare in nulla lo spazio
che m’era aperto, in un tedio
malcerto il certo tuo fuoco.
Ora a quel vuoto ho congiunto
ogni mio tardo motivo,
sull’arduo nulla si spunta
l’ansia di attenderti vivo.
La vita che dà barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
finestra che non s’illumina.
Xenia I
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.
Xenia
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due
noi siamo una sola cosa.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
La Storia
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
Di un Natale metropolitano
Un vischio, fin dall’infanzia sospeso grappolo
di fede e di pruina sul tuo lavandino
e sullo specchio ovale ch’ora adombrano
i tuoi ricci bergére fra santini e ritratti
di ragazzi infilati un po’ alla svelta
nella cornice, una caraffa vuota,
bicchierini di cenere e di bucce,
le luci di Mayfair, poi a un crocicchio
le anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,
non più guerra né pace, il tardo frullo
di un piccione incapace di seguirti
sui gradini automatici che ti slittano in giù….
Forse un mattino
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.
Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Breve biografia di Eugenio Montale – nato a Genova nel 1896. Dopo aver seguito studi tecnici, si è dedicato per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi, ha preso parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ha avuto rapporti anche con l’ambiente torinese, collaborando al Baretti di Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove ha frequentato il caffè delle Giubbe Rosse vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 è stato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, rimosso nel 1938 perché non iscritto al partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce). Ha svolto un’attività di traduttore, soprattutto dall’inglese (da ricordare il suo contributo all’antologia Americana di E. Vittorini, 1942; le traduzioni sono in Quaderno di traduzioni, 1948, ed. accr. 1975, con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc.). Iscritto per breve tempo al Partito d’azione, ha collaborato con Bonsanti alla fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si è trasferito a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria e di quella musicale sul Corriere d’informazione. Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975). Ha pubblicato: Ossi di seppia (1925; ed. defin. 1931), Occasioni (1939, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932); La bufera e altro (1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), Satura (1971, in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia del 1966, scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi); Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977); Altri versi (1981); le due parti di Diario postumo (1991 e 1996). Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono i libri: i bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969), le prose di viaggio Fuori di casa (1969), le prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972), quelle riunite in Sulla poesia (1976), il volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983). Come critico musicale ha pubblicato Prime alla Scala (1981). È morto a Milano nel 1981.
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