Asmaa Azaizehè una poetessa, interprete e giornalista. Nasce nel 1985 nel villaggio di Daburieh in Galilea, Palestina. Per diversi anni ha lavorato come giornalista per giornali arabi e palestinesi come presentatrice televisiva e speaker radiofonica. Nel 2012 diventa la prima direttrice del museo Mahmoud Darwish di Ramallah. Le sue poesie sono tradotte in oltre 10 lingue.
Gli occhi del merlo.
Il disco della vita mi cadrà presto addosso
Dopo di ciò non accadrà molto
Le persone che desideravo incontrare sono morte
Il paese che sognavo è diventato una canzone rap in una macchina lontana
I cavalli che ho allevato in tenera età mi hanno morso il braccio
E non sembra che stiano mollando la presa.
Ad ogni modo,
il mio calamaio è grande e sembra che non vivrò abbastanza a lungo per svuotarlo.
Le poesie che avrei voluto scrivere le ho cristallizzate nel suo sudario.
E ho insegnato ai polpi che sono usciti dalla mia schiena come come percepire la sua assenza.
Mi siedo sulla la roccia della nostalgia
E aspetto che il vento mi dia forma
E, dunque, diventare un merlo
dagli occhi grandi e profondi
Per vedere il nuovo disco della mia vita.
Forse non ricorderò che sono esistito
Né che questo albero, che diventerà la mia casa, era qualcosa di misterioso, come fosse mio padre.
عين الشحرور
بعد قليل
سيسقط قرص حياتي في حضني
لن يحدث الكثير بعد ذلك
الّذين تمنّيتُ لقاءهم ماتوا
البلد الّذي حلمتُ به
صار أغنية رابْ في سيّارةٍ بعيدة
الخيول الّتي ربّيتها في صغري
عضّت ذراعي
ولا يبدو أنّها ستفلتها
في كلّ الأحوال
محبرتي كبيرةٌ
ولا يبدو بأنّي سأعيش وأفرغها
القصائد الّتي تمنّيتُ كتابتها زججتُها في كفنه
والأخطبوطات الّتي نتأتْ من ظهري
علّمتُها كيف تتلمّس غيابه
أجلس فوق صخرة الشوق
وأنتظر أن تنحتني الريح
فأصير شحرورًا بعينٍ كبيرة
عينٍ كبيرةٍ وعميقة
سأرى فيها قرص حياتي الجديد
ربّما لن أذكر أنّني كنتُ أنا
وأنّ هذه الشجرة
الّتي ستصير بيتي
كانت شيئًا غامضًا كأنّه أبي.
Ninna nanna
Sono stanca di paragonare cose tra loro
E a malapena riesco a vederle per ciò che sono
Anche il gelsomino nel mio giardino è stanco
Un passante ha detto che somiglia ad un campo di cotone
E andò allargando le sue braccia e le sue gambe fino a sfibrarsi
Paragonavo la morte al buio pesto in cui abbiamo perso le chiavi della porta,
Ad un sogno dal quale non ci svegliamo,
Alla vacuità di un idolo per il quale ci umiliamo,
finché mio padre non cadde a terra e morì.
Ebbene la morte divenne morte.
Semplicemente morte.
Sono innocente nella metafora.
Ho paragonato me stessa ad una spiga di grano e ci sono rimasta incastrata,
e da allora Darwin fissa la sua scrivania
Sono innocente nella poesia.
Queste ninna nanna le scrivo per dormire
come amuleti che piego per poi scriverci ancora.
تهليلة
تعبتُ وأنا أشبّه أشياءً بأشياء
فأنا بالكاد أرى الأشياء كما هي
الفلّة في حديقتي تعبت هي الأخرى
أحدهم مرّ وقال إنّها مثل حقلٍ من القطن
فراحتْ تمدّ ذراعيها وقوائمها حتّى تمزّقت أليافها
كنتُ أشبّه الموت
بظلمةٍ سخماءَ أضعنا فيها مفتاح الباب
بحلمٍ لا يقظة منه
بجوف صنمٍ نتذلّل إليه
إلى أن ارتطم أبي بالأرض ومات
فصار الموت موتًا
موتًا فقط
أنا بريئةٌ من التشبيه
شبّهتُ نفسي بسنبلةٍ وعلقتُ فيها
فظلّ داروين، منذها، صافنًا في طاولته
أنا بريئةٌ من الشِّعر
هذه تهليلاتٌ أكتبها لأنام
هذه أَحْجِبَةٌ
أطويها لأعاود الكتابة.
Breve nota biografica di Asmaa Azaizeh
Asmaa Azaizehè una poetessa, interprete e giornalista. Nasce nel 1985 nel villaggio di Daburieh in Galilea, Palestina. Per diversi anni ha lavorato come giornalista per giornali arabi e palestinesi come presentatrice televisiva e speaker radiofonica. Nel 2012 diventa la prima direttrice del museo Mahmoud Darwish di Ramallah. Le sue poesie sono tradotte in oltre 10 lingue.
Pasquale D’Auria è laureando in Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi di Bari, con una tesi sulla letteratura palestinese contemporanea.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Articolo scritto da Ugo Ojetti per la Rivista PAN n°5 del 1934
Salvatore Di Giacomo nacque a Napoli il 12 marzo 1860, figlio primogenito di Francesco Saverio Di Giacomo, medico abruzzese, e Patrizia Buongiorno, il cui padre insegnava al Conservatorio di San Pietro a Maiella. Dopo aver conseguito la licenza liceale presso il Vittorio Emanuele, frequentò per volere del padre la facoltà di Medicina. Di Giacomo non aveva alcun interesse per gli studi cui era stato indirizzato, tanto che nell’ottobre 1880 abbandonò l’università in seguito a un celebre episodio che egli stesso descrisse sei anni più tardi.
Un giorno, recatosi ad assistere a una lezione di anatomia, rimase nauseato alla vista del cadavere di un vecchio, sul cui volto il professore aveva tracciato «cinque o sei linee di demarcazione», in modo da spiegare la composizione del cranio. Corso fuori dall’aula, si trovò suo malgrado protagonista di una scena raccapricciante: il bidello, che scendeva portando in una tinozza membra umane, scivolò riversando il macabro contenuto, mentre il giovane si diede alla fuga, abbandonando l’edificio di Sant’Aniello a Caponapoli e il percorso accademico. Di Giacomo si sentiva attratto dalla letteratura e dalla critica letteraria. Alleggerito del fardello di studi coatti, poté cercare di realizzare i propri desideri. Si rivolse così al Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero. La collaborazione cominciò con «alcune novelle di genere tedesco», ispirate principalmente alla coppia Erckmann-Chatrian.[2] Cafiero e Federigo Verdinois, che si occupava della parte letteraria, sospettarono potesse averle tradotte. Di Giacomo fu costretto a scriverne altre per dimostrarne l’autenticità, e al tempo stesso ricevette uno sprone a proseguire nell’attività di novelliere. Dopo alcuni mesi diventò ordinario collaboratore del Corriere, assieme a Roberto Bracco, con cui instaurò una profonda amicizia, e Giuseppe Mezzanotte.[3]
Lasciato il Corriere, passò dapprima al Pro Patria, quindi alla Gazzetta letteraria diretta da Vittorio Bersezio. In seguito andò al Pungolo. Il 21 settembre 1884 perse il padre nell’epidemia di colera che colpì la città. Quell’anno pubblicò per l’editore Tocco la già copiosa produzione poetica in lingua napoletana, che apparve con il titolo Sonetti. Seguirono, nel giro di pochi anni, le raccolte poetiche ‘O Funneco verde (1886), Zi’ munacella (1888) e Canzoni napoletane (1891). Nel 1892 fu tra i fondatori, assieme a Benedetto Croce, Vittorio Spinazzola e altri intellettuali, della nota rivista di topografia e arte napoletana Napoli nobilissima.
Descrizione dl libro di Tanguy Viel- Iceberg –La letteratura, nelle mani degli sciocchi, è intollerabile. La letteratura, tuttavia, ha sempre contato tra le sue fila una parte di miserabili, che prendono in mano la penna solo perché si trovano interessanti. Del resto, come diceva Goethe, «ci sono libri che sembrano scritti non per l’istruzione del lettore, ma per fargli vedere che l’autore sapeva qualcosa». Ed è così che, anno dopo anno, le librerie vengono invase di opere inconsistenti quanto un refolo d’aria.
Esiste, tuttavia, un esiguo numero di scrittori che si chiedono cosa voglia dire scrivere, a cosa serva e, soprattutto, a chi. Scrittori che non si sentono, a differenza di altri, autorizzati a scrivere. O per cui la scrittura rimane, al di là di tutto, un’attività poetica, un’opera di invenzione e di ricerca con successo irregolare. Attraverso una serie di illuminanti digressioni sulla scrittura e sulla lettura, Tanguy Viel passeggia tra gli scaffali delle biblioteche, si interroga sulla vita degli scrittori e scorge, in ogni pagina letta, la promessa di una risposta alla ricerca che sta svolgendo. Ad accompagnarlo in questo viaggio subacqueo – poiché nei libri veri c’è sempre qualcosa di marino – alcune tra le più
Breve biografia di Tanguy Viel è nato nel 1973 a Brest e vive a Nantes.Ha collaborato con France Culture, ha scritto per numerose riviste. I suoi libri sono: Le Black Note, Cinéma, L’assoluta perfezione del crimine (Neri Pozza 2004), Insospettabile (Neri Pozza 2006, BEAT 2017), Paris Brest (Neri Pozza 2010).
La storia della casa editrice Neri Pozza
Nel 1938, Neri Pozza e i suoi amici, una piccola brigata di «teste calde» tenuta d’occhio dalla polizia fascista, creano a Vicenza le Edizioni dell’Asino Volante. Le edizioni sorgono per uno scopo preciso: pubblicare il primo libro di poesie di Antonio Barolini, che l’avvocato Ermes Jacchia, un eccentrico editore ebreo costretto alla fuga dalle leggi razziali, non può più dare alle stampe. In questo modo, ereditando, cioè, il compito di un editore ebreo vittima della stupidità e della crudeltà dell’epoca, Neri Pozza scopre la sua vocazione d’editore. Una vocazione che, al di là dei due brevi periodi di prigionia nelle carceri vicentine di San Biagio e San Michele per «sospetta attività antifascista», si esprimerà ininterrottamente, dapprima con le edizioni del Pellicano e infine con la fondazione, nel 1946 a Venezia, della Neri Pozza Editore.
La storia di Neri Pozza: Gli anni 50 e 60
Dalla pubblicazione, nell’anno di fondazione, di Peter Rugg l’errante di William Austin fino all’apparizione della Grande vacanza di Goffredo Parise nel 1953, le edizioni Neri Pozza costituiscono una delle più straordinarie avventure intellettuali del dopoguerra italiano. Con una grafica moderna e la collaborazione dei maggiori poeti e scrittori del tempo (Gadda, Montale, Sbarbaro, Luzi, Cardarelli, Bontempelli), Neri Pozza pubblica titoli spesso indimenticabili: La bufera e altro e Farfalla di Dinard di Eugenio Montale, Il primo libro delle favole di Carlo Emilio Gadda, In quel preciso momento di Dino Buzzati, Il ragazzo morto e le comete, il capolavoro di Goffredo Parise scritto quando l’autore non era ancora ventenne. Negli anni Sessanta, Neri Pozza dà vita a una innovativa collana di letteratura americana: «Tradizione americana», diretta da Agostino Lombardo, in cui appaiono autori come Whitman, James, Melville, Thoreau, Emerson, Hawthorne. Saggisti della casa editrice sono Carlo Ludovico Ragghianti, Giorgio Pasquali, Concetto Marchesi, Amedeo Maiuri, Emilio Cecchi, Carlo Diano, figure fondamentali della cultura italiana del tempo.
La storia di Neri Pozza: dagli anni 2000 ad oggi
Nel corso dei decenni Neri Pozza unisce la fedeltà all’impostazione originaria del suo fondatore alla scoperta delle nuove tendenze della narrativa internazionale e nazionale, pubblicando alcuni tra i maggiori bestseller come La ragazza dall’orecchino di perla di Tracy Chevalier, Shantaram di Gregory David Roberts, Annus Mirabilis di Geraldine Brooks, Il Simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, Le quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, I Melrose di Edward St Aubyn, La sesta estinzione del premio Pulitzer Elizabeth Kolbert.
Sotto la direzione di Giuseppe Russo prima, e dal settembre 2023 con l’arrivo di Giovanni Francesio, Neri Pozza ha portato in Italia romanzi di successo come Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton, One Day di David Nicholls, ha riscoperto autori come Michael McDowell (di cui la casa editrice, dopo il successo della serie Blackwater, sta traducendo tutte le opere), e poi ancora autori come Abraham Verghese, che con Il patto dell’acqua ha stregato i lettori, e Barbara Kingsolver, che con il suo Demon Copperhead ha vinto il Pulitzer per la narrativa e il Women’s Prize for Fiction nel 2023, arrivando fino a Triste Tigre di Neige Sinno, il libro vincitore del premio Strega Europeo 2024.
Tra i grandi successi della narrativa italiana si annoverano Due vite di Emanuele Trevi, romanzo vincitore del Premio Strega 2021, e autori e autrici come Denise Pardo, Francesca Diotallevi, Giuseppe Berto, Alberto Riva, Roberto Cotroneo, Eugenio Murrali e Paola Barbato, il cui nuovo romanzo è in uscita ad autunno 2024.
Accanto alla produzione di narrativa, Neri Pozza pubblica anche saggistica – dalla opere di Irvin D. Yalom fino a Splendore e viltà di Erik Larson, passando per i recenti successi di Vittorio Zincone (Matteotti dieci vite), Riccardo Chiaberge (La formula della longevità), di Nathan Thrall (Un giorno nella vita di Abed Salama, vincitore del Premio Pulitzer 2024) e la prestigiosa collana La quarta prosa, curata dal professore e filosofo Giorgio Agamben.
Le collane di Neri Pozza
Il programma della casa editrice si articola nelle seguenti collane: I narratori delle tavole, con le voci più originali della letteratura americana ed europea; Neri Pozza Bloom, contenente le ultime tendenze della letteratura nazionale ed internazionale; Le tavole d’oro, portavoce delle narrazioni del nuovo Oriente; Biblioteca Neri Pozza, collana di novità e riscoperte in edizione tascabile; La quarta prosa, collana di saggi e filosofia diretta da Giorgio Agamben; Neri Pozza Beat, un ampio repertorio di romanzi tascabili; Il tempo storico, diretta da Pierluigi Vercesi; I neri di Neri Pozza, sezione dedicata ai gialli con autori dal successo internazionale come Lisa Jewell, Jean-Luc Bannalec, Pierre Martin.
Il Gruppo Athesis
La casa editrice è una società per azioni e fa parte del Gruppo editoriale Athesis, espressione delle Associazioni Industriali di Verona e di Vicenza. Tra le società di Athesis figurano quotidiani (L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, La Gazzetta di Mantova), concessionarie di pubblicità (PubliAdige), televisioni (TeleArena, Tele Mantova). Neri Pozza editore costituisce la Divisione Libri di questo Gruppo con l’insieme dei suoi marchi: la casa editrice Neri Pozza e Beat, la Biblioteca degli Editori Associati di Tascabili, la casa editrice di paperback.
Henri Gobard–L’alienazione linguistica- Prefazione di Gilles Deleuze-
Editore –Giometti & Antonello-Macerata
Quarta
Henri Gobard-L’alienazione linguistica-… E dire che ci sono professori d’inglese che parlano inglese per parlare inglese e che così si guadagnano da vivere: siamo a Ionesco! Che d’altronde ha trovato la sua ispirazione geniale in un celebre manuale d’inglese. Questi manuali in fondo ci dicono: prima imparate a parlare, dopo potrete dire qualcosa! Non capiscono nulla del processo di acquisizione del linguaggio: si parla solo se prima si ha qualcosa da dire: SENZA DESIDERIO NON C’È PAROLA.
Risvolto del libro di Henri Gobard-L’alienazione linguistica-Questo pamphlet è una preziosa e avvincente analisi dell’elemento in cui tutti noi, in quanto umani, inconsapevolmente ci muoviamo, e che determina forse più di ogni altra cosa le nostre idee, e quindi le nostre azioni: il linguaggio. Il fuoco della polemica è rivolto in maniera feroce contro l’egemonia della lingua anglo-americana, ma la questione è ben più ampia: come si instaura il potere, in tutte le sue forme, all’interno del linguaggio? In che modo, noi umani, abitiamo il linguaggio, e in che modo possiamo renderci refrattari alle forme di potere che se lo contendono? L’analisi «tetraglossica» di Gobard ci offre nuovi e sorprendenti strumenti per rispondere a tali domande, proponendoci di pensare il linguaggio come un ambiente a più dimensioni, almeno quattro appunto, in cui si dispiega la nostra esistenza fin dai primissimi passi. Tutto ciò in uno stile che si fa beffe della saggistica accademica. Come scrive Gilles Deleuze nella sua prefazione, «Gobard non procede in alcun modo come un comparatista. Procede come un polemista o una sorta di stratega, preso egli stesso in una situazione. Si colloca in una situazione reale in cui le lingue si affrontano concretamente». E ancora: «Gobard ha un nuovo modo di valutare i rapporti del linguaggio con la Terra. In lui ci sono un Court de Gébelin, un Fabre d’Olivet, un Brisset e un Wolfson, che ancora resistono: per quale avvenire di linguistica?».
Nota biografica
Di Henri Gobard sappiamo che fu allievo all’École des Hautes Études, per divenire poi professore al dipartimento di psicologia e di inglese all’Università di Parigi VIII-Vincennes, sin dalla sua fondazione nel 1968. Fu membro fondatore dell’Istituto di ricerche sociolinguistiche (IRSOL). Membro del premio Nietzsche di Taormina fondato dall’associazione internazionale di studi e ricerche su Nietzsche, vi tenne nel 1976 una conferenza sul tema Blake e Nietzsche. Nel 1974 sviluppò presso l’Università di Friburgo un primo modello dell’analisi tetraglossica che avrà compimento nella sua opera qui tradotta. Ha pubblicato due libri: L’alienazione linguistica (1976), La guerra culturale (1978). Il modello di indagine del linguaggio sviluppato da Gobard ebbe una influenza decisiva sulle teorie di Guattari e Deleuze che hanno luogo in Kafka. Per una letteratura minore. I suoi interessi sull’aspetto complessivo della lingua in relazione alla psiche e alla società lo hanno portato all’inizio degli anni sessanta ad interessarsi in un primo momento all’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper, con cui poi polemizzò nei suoi libri-pamphlet del decennio successivo, nonché a tradurre le opere dell’antropologo e psicanalista Georges Devereux, di cui insieme a Tina Jolas ha curato varie traduzioni di opere presso Gallimard e Flammarion.
Sibilla Aleramo Poesie, lettere a Dino Campana e Biografia-
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo Poesie
Ritmo
Ritrovata adolescenza, gioia del colore, occhi verdi di sole sul greto, scheggiato turchese immenso de l’onde, biondezza di cirri e di rupi, rosea gioia di tetti, colore, ritmo, come una bianconera rondine l’anima ti solca.
*
Son tanto brava
Son tanto brava lungo il giorno. Comprendo, accetto, non piango. Quasi imparo ad aver orgoglio quasi fossi un uomo. Ma, al primo brivido di viola in cielo ogni diurno sostegno dispare. Tu mi sospiri lontano: «Sera, sera dolce e mia!» Sembrami d’aver fra le dita la stanchezza di tutta la terra. Non son più che sguardo, sguardo sperduto, e vene.
*
Nuda nel sole
Nuda nel sole per te che dipingi sto immobile, il seno soltanto ritmando la vita gagliarda del cuore. Come un cielo soave d’aurora è per te questa mia forma lucente, un prato un’acqua una solitaria fiorita di petali, tralci di vigna in festività. E adori, e fervente le dolci dita su la tela conduci. Nuda nel sole ed immobile, frammento di natura, ti miro orante ed oprante. Da te invasa da te riassorbita, sei tu che mi divinizzi o la mia divinità è che ti crea, artista, arte, spirito? Tacitamente il seno respira.
*
Charità notturna
Chiarità notturna, volo d’ore bianche, disteso cielo, tendo la mia mano che vi stringe, e v’offro, v’offro. Ci veda qualcuno. Non me, ma sola la mia mano che vi tiene, ore fruscianti, grande sereno, spiaggia d’astri.
*
Brucio la mia vita
S’io mi muovo, s’io mi sollevo, tutto svanisce, tutto s’aggela. Ma s’io resto così distesa, gli occhi chiusi, le labbra aureolate di brace, l’ardore della mia palma sul battito della mia gola, io brucio la mia vita, brucio la mia vita, il mio sangue si consuma nelle mie vene, io sento che si consuma solo nel ricordo d’un altro sangue, d’una voluttà data e provata, dell’amore lontano che forse non ritroverò.
*
Morte, m’hai sentita?
Morte, m’hai sentita? Nella notte ti ho invocata, piangendo e fors’anche ridendo per sedurti t’ho chiamata, ultima luce, speranza di due braccia accoglienti, un nome ancora da invocare, morte, madre, sorella, amata, una che mi prenda, una che mi voglia…. Ed eri lontana. Bianca e bella s’io ti pensavo su altri reclina, s’io t’imaginavo intenta a baciar altri, altri certo non più di me dolenti, oppur creature felici, morte, m’hai sentita s’anche non sei accorsa? Nessuno certo t’implorava quanto me, o cara quanto fu cara la vita, e tu chi sceglievi in vece mia? Ma forse, forse da lontano hai trasalito…. E ora non ti chiamo più. Stormi mi ventano dietro la fronte, aliante mondo inespresso del mio pensiero, parole che furono visioni e ch’io ancora non dissi, amore che tutti comprende i ruinati amori e li risolleva…. Verità della mia vita, incompiuta missione che nell’alba mi riappare, ch’era il miracolo, ed io forse l’ho tradita…. E forse, o morte, non venuta al mio richiamo delirante mi raggiungerai nel fervore del ripreso canto, troncherai nella mia gola il canto, un giorno chiaro…. Ch’io mi rammenti allora, ch’io mi rammenti come eri bella, come eri bella questa notte, morte, su le fronti che invece di me baciavi.
*
Da Assisi
Sul colle una sta, sola, dinanzi a questo, nodo silente del mondo. Vento scende verde d’argento. Ode respiro d’assenti acque. Cantici cari dissennati ascolta, di sorrisi sorgivi, di baci ariosi, volatili delizie, e le tiene, quasi creature in grappolo, sola ne lo svariar de le luci, fra le braccia o tra l’ali, rondine e sorella, che nulla si sperda di nessuna primavera.
*
In quest’alba
In quest’alba, ricche le vene di melodia e dolenti, che tutti aduno e mesco i desideri eterni, uno, d’una rosa bianca sul cespo, solo m’avanza incontro al giorno, e il giorno è di gennaio, oh giardino che non vedrò!
*
Anche quest’ore
Passeran quest’ore di spasimo come passarono le mille di gioia. O fiore che avrei voluto soltanto baciare, o petto dolce dove imploravo festosamente la morte, ma quest’ore che vivo di strazio son più generose ancora dell’altre gridanti felicità. Mi tendo a te che ho colpito, da lontano mi tendo più pulsante di quando ridevamo nudi nel sole, la fronte più affocata, insaziata. Dono d’angoscia gemente che pur anche si dissolverà, lungo di febbre ansito verso la tua pena…. Tutti i miei capelli per addormirti da lungi!
*
Una risata
Una risata. Forse un giorno la sentirò prorompermi dalla gola: giorno di gran sole, risata sopra il mondo, e poi due braccia che mi sollevino ansante verso la prima stella della sera.
*
Sibilla Aleramo
E’ IL LAVORO
OGGI L’AURORA
Entro il mio cuore
la tortura, oh tutta la tortura
del mondo patita
geme ch’io in parole la redima,
e io perdutamente balbetto,
il mio cuore ancora in sé sente
le infinite morti
da uomini inferte a uomini,
gli anni trascorrono
e sempre nel ricordo l’orrore
e sempre l’insostenibile vergogna
e sempre in me il gemito,
vano gemito anziché parole,
e il terrore che anche il più grande canto
vano pur esso sarebbe,
che mai l’ascolterebbe
se nuovamente domani sul mondo
la tortura infierisse
infanzia e vecchiaia insiem cancellando
e tutte le speranze?
Speranza aurora!
Chi guarda ancora l’aurora?
Mio cuore, tu lo sai!
E non è per essa che ancor batti?
Tanti e tanti e tanti,
vicino a te e lontano
ogni dì s’alzano e non armi impugnano,
o forse armi sono,
martelli, vanghe, libri
e vanno con questi lor vivi arnesi,
la terra è tutta un cantiere,
ogni dì è lavoro,
quanto lavoro su la terra intera,
da secoli da millenni
curvo era sino a ieri
ma ora di sé è fiero
s’anche duramente ancor soffre e lotta,
ben saldo nel voler mai più
guerre né torture,
nel volere il mondo
trasformato in fraterno giardino,
oh mio cuore, più non devi gemere,
abbi fede, tu vedi,
è il lavoro oggi l’aurora!
poesia di Sibilla Aleramo
“Le mie mani”
Le mie mani,
ricordando che tu le trovasti belle,
io accorata le bacio,
mani, tu dicesti,
a scrivere condannate crudelmente,
mani fatte per più dolci opere,
per carezze lunghe,
dicesti, e fra le tue le tenevi
leggere tremanti,
or ricordando te
lontano
che le mani soltanto mi baciasti,
io la mia bocca piano accarezzo.
Sibilla Aleramo (da ‘Poesie‘, Mondadori, 1929)
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta “Rina” (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960), è stata una scrittrice, poetessa e giornalista italiana.
lettera di Sibilla Aleramo a Dino Campana
Ecco la bellissima lettera che Sibilla scrisse all’amato:
Villa La Topaia, Borgo San Lorenzo , 7 – 8 agosto 1916
Notte — Possa tu riposare, mentre io ardo così nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice.
M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda.
Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa.
Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezza anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora così forte, per questo scambio del nostro sangue.
Sibilla Aleramo
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo,Lettera a Dino Campana, (6 Agosto 1916).
Lo so, è un altra epoca, altro sentire, quì l’umanità si attacca alle tende,si consuma di tisi, assapora attimi persi, è il tempo in cui gli amori erano per sempre perche un solo bacio impegnava metà della vita, ed ogni momento passato insieme era chirurgicamente intagliato nei cuori.
Perché non ho baciato le tue ginocchia? Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a piedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca. Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quella che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio disperato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le querce, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima… Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. E non ho baciato le tue ginocchia. I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me! È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore? Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è così forte. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi!
13 GENNAIO 1960 moriva SIBILLA ALERAMO
Come spesso accade, la sua attività letteraria ha origine da una situazione personale difficile: nel periodo della sua adolescenza la madre, in preda alla depressione e a causa dei conflitti con il padre, tentò il suicidio. Si salvò, ma fu presto internata nel manicomio di Macerata, dove rimase fino alla sua morte.
Un altro fatto fu decisivo per la giovane Maria: a quindici anni subì una violenza sessuale da parte di un impiegato della fabbrica diretta dal padre e presso cui lei stessa lavorava come contabile. Ne scaturì, come era usuale all’epoca e lo sarebbe stato fino al 1981, un matrimonio “riparatore”. La convivenza si rivelò subito insopportabile e nonostante l’amore per suo figlio Walter nato nel 1895, cadde in una profonda depressione, tanto da tentare, come sua madre, il suicidio.
È a questo punto che inizia ad affacciarsi l’attività letteraria come ancora di salvezza. A partire dal 1897 inizia a pubblicare articoli su vari giornali di ispirazione femminista e socialista. A Milano le fu affidata la direzione del settimanale socialista “L’italia femminile”, collaborando con intellettuali come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao. Certamente queste attività la portarono ad una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti e ad acquisire il coraggio necessario a lasciare il marito e il figlio per essere finalmente libera.
È in questo frangente che, trasferitasi a Roma e iniziata una relazione con Giovanni Cena, iniziò a scrivere quello che sarebbe stato uno dei primi libri femministi apparsi in Italia. Una donna, questo il titolo del romanzo, fu pubblicato nel 1906 e racconta la sua vita dall’infanzia fino alla decisione di abbandonare la famiglia, in nome di un’emancipazione femminile, ancora troppo spesso negata.
“Come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinchè continui a baloccarsi come nell’infanzia?”
Per Una donna Maria utilizzò per la prima volta lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, che le suggerì il compagno Giovanni Cena, ispirato dalla poesia Piemonte di Carducci («e l’esultante di castella e vigne / suol d’Aleramo», vv. 31-32: Aleramo era il nome di una potente famiglia medievale piemontese).
Da allora questo divenne il suo nome non solo nella letteratura, ma anche nella vita quotidiana.
Terminata la storia con Cena ebbe numerose altre relazioni, anche di carattere omosessuale. Ma fu probabilmente il legame con Dino Campana il più passionale e allo stesso tempo il più tormentato. Fu una storia d’amore e di follia, che precipitò a seguito del disagio psichico del poeta, a causa del quale fu rinchiuso in manicomio. Della relazione abbiamo testimonianza grazie alle poesie che i due amanti si scrivevano e si dedicavano, ma soprattutto grazie alle lettere che si inviavano.
Proprio dalla loro fitta corrispondenza epistolare ho preso questo testo:
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perchè io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Con il nostro sangue e con le nostre lacrime facevamo le rose
Che brillavano un momento con il sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.
Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio) nacque ad Alessandria il 14 agosto 1876. Trascorse un’adolescenza molto triste a causa della malattia mentale della madre; ancora giovanissima, fu costretta ad un matrimonio “riparatore” con un collega di lavoro che l’aveva violentata. La nascita del figlio Walter (1895) sembrò portare un soffio di gioia nella sua infelice vita coniugale; tuttavia, non bastò a riempire i vuoti della sua esistenza. Dopo un tentativo di suicidio, Rina cominciò a cimentarsi nella scrittura, nella quale trovò, oltre alla sua vocazione, anche il riscatto dall’esistenza gretta e stereotipata a cui le convenzioni sociali l’avevano sempre costretta.
Su varie riviste – come Gazzetta letteraria, L’Indipendente, Vita moderna, Vita internazionale – pubblicò soprattutto articoli di argomento femminista e socialista: questo suo impegno la portò ad avvicinarsi a Giorgina Craufurd Saffi, con la quale tenne una fitta corrispondenza. Punti nodali del suo impegno per l’emancipazione femminile furono la lotta contro la prostituzione e la campagna per il diritto di voto alle donne; si attivò, in tal senso, per promuovere manifestazioni, sezioni di movimenti femminili ed altre iniziative. Diresse inoltre il settimanale milanese L’Italia femminile,nel quale tenne una rubrica di discussione con le lettrici e ricercò la collaborazione di intellettuali progressisti come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao; nello stesso periodo conobbe Anna Kuliscioff e Filippo Turati.
Nel 1901 le tensioni familiari, ormai divenute insostenibili, la spinsero ad abbandonare il marito e il figlio. L’anno successivo si trasferì a Roma, dove si legò sentimentalmente a Giovanni Cena e cominciò a collaborare con la Nuova Antologia. Nel 1906 diede alle stampe il suo romanzo autobiografico Una donna, nel quale descrisse minutamente il suo difficile percorso di vita dall’infanzia fino alla rottura del matrimonio. L’opera mirava ad affermare il diritto di tutte le donne ad una vita libera e consapevole, contro le costrizioni e le umiliazioni imposte dall’ideologia del sacrificio, uno dei valori-cardine della società borghese dell’epoca. In quell’occasione, fu proprio Cena a suggerirle lo pseudonimo Sibilla Aleramo, che sarebbe poi diventato il suo nome nell’arte e nella vita.
Il successo del libro concise con un profondo cambiamento nell’autrice, che rivide progressivamente le sue posizioni sul femminismo. Più che sulla parità fra i sessi, infatti, il suo impegno si concentrò da quel momento in poi sulla rivendicazione e sull’espressione della diversità femminile.
Dopo la fine della relazione con Cena, Sibilla cominciò a condurre una vita errabonda e bohémien; si avvicinò al Movimento Futurista, nonché ad altre avanguardie artistiche e letterarie. Destarono scandalo le sue numerose relazioni amorose; una delle più complesse, quella con Dino Campana, incontrato durante la prima guerra mondiale. Indipendente e anticonformista, Sibilla sfidò non solo la società perbenista del tempo, ma anche molti ambienti intellettuali, che la tennero in dispregio per i suoi costumi sessuali eccessivamente disinvolti.
Nel 1936 sembrò trovare un punto di riferimento stabile in un giovane studente, a cui restò legata per un decennio. Nel secondo dopoguerra, si iscrisse al Partito Comunista Italiano e svolse un’intensa attività politica e sociale, collaborando, fra l’altro, all’Unitàe alla rivista Noi donne. Morì a Roma il 13 gennaio del 1960, dopo una lunga malattia.
Sibilla Aleramo ci ha lasciato una ricca produzione letteraria tra romanzi, liriche, collaborazioni giornalistiche e diari. Tra gli scritti di maggior spicco, oltre al già citato Una donna, i romanzi Il passaggio (1919) e Il Frustino (1932), le raccolte poetiche Momenti (1921), Selva d’Amore (1947) e Luci della mia sera (1956). La sua figura di donna e di artista ha impresso solchi profondi nella cultura e nella memoria: lo testimoniano non solo le tante strade intitolate a suo nome in tutto il territorio italiano, ma anche l’interesse che la sua vicenda ha saputo ispirare a critici, studiosi, scrittori e artisti. Grande, in particolare, è stata nei suoi riguardi l’attenzione del cinema italiano, attraverso le due pellicole Inganni (1985) e Un viaggio chiamato amore (2002).
Le dieci poesie proposte sono tratte da Momenti, prima opera in versi della Aleramo. L’anelito alla libertà vi si esprime in uno stile innovativo, essenziale e nondimeno elegante, che intreccia in modo singolare carnalità e lirismo: una poesia di immagini, tutta fuoco e immediatezza, nella quale elementi del tardo Romanticismo, del Decadentismo e della Scapigliatura vengono rielaborati alla luce della nuova coscienza femminista e antiborghese. Vi si avverte la propensione dell’autrice nei confronti delle avanguardie letterarie, che l’eterogeneità dei temi e la rottura con gli schemi tradizionali della metrica e del verso rendevano congeniali alla sua sensibilità nervosa e al suo anticonformismo.
Donatella Pezzino
Sibilla Aleramo
Pseudonimo di Rina Faccio, nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876. Presto si stabilisce con la famiglia a Civitanova Marche dove sposa a quindici anni un giovane del luogo.
Nel 1901 abbandona marito e figli iniziando, come lei stessa amava dire, la sua “seconda vita”. Conclusa una relazione sentimentale con il poeta Damiani inizia una vita errabonda che la avvicina a Milano e al movimento futurista, a Parigi e ai poeti Apollinaire e Verhaeren, infine a Roma e a tutto l’ambiente intellettuale ed artistico di quegli anni (qui conosce Grazia Deledda). Durante la prima guerra mondiale incontra Dino Campana e con lui inizia una relazione complessa e tormentata.
Al termine della seconda guerra mondiale si iscrive al P.C.I. e si impegna intensamente in campo politico e sociale. Collabora, tra l’altro, all’«Unità» e alla rivista «Noi donne».
Muore a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia. Opere principali: Una donna (1906), considerato il primo libro femminista apparso in Italia; Il passaggio (1919);Momenti (1920); Andando e stando (1920); Amo, dunque sono (1927); Gioie d’occasione (1930); Il frustino (1932); Orsa minore (1938); Dal mio diario (1945);Selva d’amore (1947); Il mondo è adolescente (1949); Aiutatemi a dire (1951); Luci della mia sera (1956).
Nino Pedretti, Poesie- Con un saggio di Giuseppina Di Leo
Nino Pedretti, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello.
da Al Vòuṣi (1975)
Al chèṣi ad campagna
Sbriṣédi da la róspa
maṣèdi dri i garagg
al chèṣi ad campagna
agli à finéi.
I li smana pr’e’ mònd:
i ébi ti ẓardéin
al dvanaróli in mòstra
te salòt.
Dalvólti t’a li vèid
maṣèdi sòtta i cópp,
cmè pavaiòti;
ch’u li zirca i marchènt
par fè d’i albérgh.
Le case di campagna. Sbriciolate dalle ruspe │ nascoste dietro i garage│ le case di campagna │ hanno i giorni contati. │ Le smembrano a pezzetti: │ le vasche di sasso │ nei giardini │ e gli arcolai in mostra │ nel salotto. │ A volte le scorgi │ nascoste sotto i tetti │ come farfalle │ che i mercanti le cercano │ per farne degli alberghi.
I ẓugh
Pòsta che tótt
poeti e nò poeti
a sém te bèl d’l’inféran
u s piṣ a fè di ẓugh
ch’I daga aria.
Mè me mi bidèl
a i dégh ch’u m daga i metar:
déu, tréi, quatar e stènta.
E néun al savém
s’èl ch’e’ vu déi
e’ vó dí mèrda.
Acsè a la matéina
a éintar ti mi pan
cmè t’un scafandar
ch’a vagh ad che pòzz nir
ch’l’è la mi bènca.
I giuochi. Poiché tutti │ poeti e non poeti │ stiamo nel mezzo dell’inferno │ ci piace fare i giuochi │ che un po’ muovono l’aria. │ Al mio bidello │ io chiedo di darmi le misure: │ due, tre, quattro e settanta. │ E noi sappiamo │ che significa, │ significa merda. │ Così la mattina │ entro nei miei panni │ come dentro uno scafandro │ e scendo in quel pozzo di sterco │ che è la mia banca.
La pavunzéla
Mè u m piṣ e’ pasaròt
che quand ch’e’ nèiva
e’ ven tònda ma chèṣa
a saltaréll.
U m piṣ la zèlga
e’ tòurd, e’ culumbazz
e e’ meral stéid ad nir
se su bèch zal.
E u m piṣ e’ varẓléin
ch’l’è pu un burdlín
ad préima elementèra
ch’u s’vólta sempra indrí
par ciacarè.
E una massa u m piṣ e’ rusignul
ch’e’ chènta cumè un rè
tla su varẓéura,
e sinènca e’ stouran pastrouciòun
ch’e’ scaramaza,
mò piò ad tótt
u m piṣ la pavunzéla
ch’la caméina a pass lóngh
cumé una sgnòura.
La pavoncella. A me piace il passero │ che quando nevica │ si avvicina alla casa saltellando. │ E mi piacciono la cincia │ il tordo, il colombaccio │ e il merlo tutto in nero │ col suo becco giallo. │ Mi piace il vergellino │ che è un bambino di prima elementare │ sempre voltato indietro │ a chiacchierare. │ E molto mi piace il rosignolo │ che canta come un re │ chiuso tra il verde; │ e amo persino lo storno fracassone │ ma la mia diletta │ è la pavoncella │ che cammina con passo lungo │ come una signora.
L’òm dal putèni
Léu tla su véita
féina i zinquént’an
u n éva pansè mai
ad mètt so chèṣa.
E stéva te caséin
a lè, bón, a fè i sarvéizi.
«Al putèni – e gévva – sal
n’è te su lavòur
agli è invurnéidi,
mòsci ti su létt
se mèl ad pènza.
U t tòca fè pianín
s’t’vó fè l’amòur
quandè c’al dórma.
E pu, la sèira, mè
a i fazz e’ bagn.
Fa e’ còpp, fa e’ còpp
a i dégh dalvólti
in módi che l’acqua
la i córra zò bén
te mèẓ dla schéina».
L’uomo delle puttane. Lui in vita sua │ fino ai cinquanta │ non aveva pensato mai │ di mettere su casa. │ Stava lì, buono, │ nel casino a fare dei servizi. │ «Le puttane – diceva – se │ non sono impegnate sul lavoro │ sono stordite, │ mosce nel letto │ con il mal di pancia. │ Devi far piano│ se vuoi fare all’amore │ intanto che sono addormentate. │ Poi alla sera │ io faccio loro il bagno. │ Fa il coppo, fa il coppo │ dico delle volte │ in modo che l’acqua │ le corra giù per bene │ nel mezzo della schiena».
Al vòuṣi
Dalvólti da par mè
te lètt, t’un curidéur
t’un treno par Milèn
a sént al vòuṣi.
E alòura a m fazz
piò grand
ch’al sòuna dréinta
ad mè
cumè al campèni.
Le voci. A volte, per conto mio, │ nel letto, in un corridoio, │ in un treno per Milano │ ascolto le voci. │ E allora divento │ più grande │ perché risuonano dentro │ di me │ come campane.
E’ lavadéur
Me lavadéur
al dòni
scavcèdi cmè di
diéval
al sbatéva i pan
cumè dal frósti.
Al scuréva ad travérs
al s’aragnèva
e pu al cantéva insén
e l’éra di rógg d’amòur
cumè dal gati.
Il lavatoio. Al lavatoio │ le donne │ coi capelli scarmigliati come │ diavoli │ picchiavano coi panni │ come fruste. │ Parlavano scurrile │ litigavano │ e poi si mettevano a cantare insieme │ ed erano grida d’amore │ come delle gatte.
La ciòza
La cantéva d’amòur
ma la finestra
la cantéva lòngh, a gòula vérta
e l’éra una vòia ad mas-ci
avnéuda chi lo sa,
da sòtta tèra
so par al gambi, t’i ócc
te fiòur dla pènza.
La cantéva d’amòur:
una zurnèda ch’éurta.
Adés l’è cmè una ciòza
la puléss i burdéll
e la sta zétta.
La chioccia. Cantava d’amore │ alla finestra │ cantava a lungo, a squarciagola │ ed era una voglia di maschio │ venuta chi lo sa │ da sotto terra │ su per le gambe, agli occhi │ al fiore della pancia. │ Cantava per amore │ ed era una giornata corta. │ Ora ha l’aria d’una chioccia │ pulisce i bambini │ e sta in silenzio.
Sesso
Sesso par néun e vléva déi
figa te pógn, scòul,
sburédi tla latréina.
Par néun e vléva déi
la paéura d’l’impregn,
al mói ch’al scapéva de lètt
«Gino, sta bón a m’aracmand»,
senza mai gód, cumè una midizéina.
E pu avemaréi, patérr,
e’ savòun, la praticòuna.
E pansè ch’l’éra acsè dòulz
sal tedeschi te fióm:
a m guardéva cmè déi
«Tóla, tóla, puréin»
e pu al ridéva.
Sesso. Sesso per noi significava │ fica nel pugno, male di scolo │ e vizio di latrina. │ Per noi significava │ terrore di metterle incinte │ la moglie che sfuggiva dal letto │ «Gino, sta buono mi raccomando», │ senza godere mai, come una medicina. │ E poi pianti, preghiere │ sapone, la praticona. │ E pensare che era così spensierato │ farlo giù al fiume con le tedesche: │ mi guardavano come per dire │«Prendila, ragazzo, prendila» │ e poi si mettevano a ridere.
E’ lavòur
«E’ treno e’ pórta véa»
e’ gévva la mi mà
e mè a so andè ẓiréun
par la Germania
in zirca d’un lavòur.
A sémi ch’u l sa l’òs-cia
d’incrécch ad chi vaghéun,
avémi un pansir féss
par tótt e’ viaẓ:
turnè ma chèṣa.
Da par néun, dalòngh,
tra ẓénti furistíri
a s’apuzémi a la mèi
sa cal do trè paróli
cumè chi póri strópi
sòura i su bastéun.
«Ferstehen, ferstehen, polizai»
e lòu i s’guardéva cmè déi:
«Mo quést, da dòu ch’i vén».
Il lavoro. «Il treno porta via lontano» │ diceva mia mamma │ e io in Germania sono andato │ in cerca di lavoro. │ Eravamo una folla │ compressi nei vagoni │ e solo un pensiero │ in tutto il viaggio: │ tornare a casa. │ Soli, lontano │ fra genti forestiere │ ci appoggiavamo alla meglio │ sopra quelle due o tre parole │ come poveri zoppi │ sopra il bastone. │ «Ferstehen, ferstehen, polizai» │ e loro ci guardavano come a dire: │ «Ma questi, da dove vengono?».
Se la lèngua la mòr
Se la lèngua la mòr
se la s’invléna,
se la pérd i parént
cum una vèdva,
se la piénz da par sé
spléida te còr di vécc
tal chèṣi zighi,
alòura e’ paèis l’è andè
u n’à piò stòria.
Se la lingua muore. Se la lingua muore │ se si contamina, │se perde i suoi legami │come una vedova, │se piange in disparte │sepolta nel cuore dei vecchi │nelle case buie, │allora il paese è finito, │non ha più storia.
da Te fugh de mi paèiṣ (1977)
Dedica
Dòni ch’avéi tla bòcca un góst
cumé ad faréina gréiṣa
dòni criscéudi te scéur
cumé un pèn ad fadéiga
dòni de vént e de méur
dòni dla biènca róṣa de sònn
dòni dla brèṣa
dòni ch’avéi cuṣei ti dè
sta mi parlèda antéiga
dòni l’è sòtta e’ vòst zil ch’l’è nèd
tòtt sta fiuréida strèna.
Dedica. Donne che avete in bocca un gusto │ di acida farina │ donne cresciute al buio │ come pane di fatica │ donne del vento e del muro │ donne della bianca rosa del sonno │ donne di brace │ donne che avete cucito i giorni │ della mia parlata antica │ donne è sotto il vostro cielo │ che è nata questa mia fiorita.
La nèiva
Stasèira
ò vòia d’arcurdè
l’udòur dla nèiva
e al préim fróffli
inzèrti te zil
cumé di gazótt furistìr
ch’ì vén ènca da néun.
La neve. Stasera │ mi punge un ricordo: │ l’odore della neve. │E i primi fiocchi │incerti nel cielo │come uccelli forestieri │giunti anche da noi.
Ulisse
Ulisse, un chèn
l’avéva caminé par tótt al strédi
e l’éra avnéu a muréi
t’l’invéran dla su véita.
E adès l’éra e’ mònd
ch’u i scapéva véa
ti su pan ad luce.
Ulisse. Ulisse, un cane │ ramingo per il mondo │ era venuto a morire │ nel colmo del suo inverno. │ Ed ora eran le strade │ che gli correvan via │ in abiti di luce.
Al poeṣéi
Ò scrétt zinquènta poeṣéi par un léibar
zinquènta galéini biènchi te curtéil
e a li guèrd cumè una cuntadéina
che sàbat la li pórta me marchè.
Le poesie. Ho scritto cinquanta poesie per un libro │ cinquanta galline bianche nel cortile │ e le guardo come una contadina │ che sabato le porterà al mercato.
La matéina prèst
A m’arcórd la matéina se cafè
l’udòur di tréni, la nèbia
d’in èlt datònda al chèṣi
e’ sònn ch’e’ pastruciéva s’l’aria
e i ruméur dal curiri
sal pènzi pini ad studént
e e’ sòul ch’lavnéva so pianín
alzènd al brazi e la caméisa
rossa de dè
te zil ch’l’aveva frèdd
ancòura par la nòta.
La mattina presto. Ricordo la mattina col caffè │ l’odore dei treni, la nebbia │ in alto attorno alle case │ e il sonno che si impastava con l’aria │ e il rumore delle corriere │ gremite di studenti │ e il sole si alzava piano │ alzando le braccia e la camicia │ rossa del giorno │ nel cielo ancora infreddolito │ per la notte.
Paróli
A vagh scarabuciand
pruvénd sla vòuṣa
paróli vèci d’un témp
ch’al gévva ad dòni te d’agócc
ch’al mè pasi pianín
sòtta la pèla
e al m’à fiuréi
te sangh, sòtta i cavéll.
Paróli ch’agli à durméi
par an sòtta la zèndra
e adès a tir fura
me fugh de mi paèiṣ.
Parole. Vado scarabocchiando │ provando con la voce │ parole vecchie d’un tempo │ che le donne pronunciavano lavorando a maglia │ che mi sono passate piano piano │ sotto la pelle │ e mi sono fiorite │ nel sangue, sotto i capelli. │ Parole che hanno dormito │ per anni sotto la cenere │ e ora tiro fuori │ al fuoco del mio paese.
*****
LE VOCI DI SANTARCANGELO DI ROMAGNA NELLA POESIA DIALETTALE DI NINO PEDRETTI*
Il 30 maggio 1981, all’età di 58 anni, veniva a mancare il poeta Nino Pedretti[1], «insegnante e glottologo, che nasce poeta in lingua e muore poeta in dialetto»[2], una delle voci più importanti della poesia dialettale romagnola.
Nino (Giovanni Maria) Pedretti (Santarcangelo di Romagna 1923 – Rimini 1981) faceva parte della generazione dei poeti «nati negli anni ‘20» (Asor Rosa), compagno di strada nonché fraterno amico di Tonino Guerra e Raffaello Baldini, «il singolare terzetto dei poeti di Santarcangelo di Romagna» (Isella)[3].
Il silenzio nel quale sembrava esser stata reclusa la memoria del poeta dopo la sua morte è stato rotto negli ultimi anni grazie alla scrupolosa ricerca che la studiosa Manuela Ricci ha condotto sia sulle carte private – conservate a Pesaro dalla famiglia[4] sia su quelle conservate nel fondo “Archivio Nino Pedretti” presso la Biblioteca Comunale di Santarcangelo di Romagna e nel fondo del padre Luigi Renato, conservato presso la Biblioteca Gambalunga, dove sono state rinvenute le poesie giovanili inedite pubblicate poi (non tutte) nel volume Le pepite d’oro, edito da Raffaelli[5]. Nel 2007, col titolo Al vòusi, e altre poesie in dialetto romagnolo, l’Einaudi pubblicava l’intera produzione dialettale edita di Nino Pedretti: l’opera prima Al vòusi, e le successive raccolte, Te fugh de mi paèis e La chesa de témp. L’edizione era arricchita dalla cura di Manuela Ricci, da una nota di Dante Isella e da uno scritto di Raffaello Baldini.
L’approccio di Nino Pedretti al dialetto è avvenuto non da subito: il contesto familiare (la madre insegnante e il padre non santarcangiolese di origine, scrittore e appassionato di storia locale) gli aveva permesso di potersi esprimere solo ed esclusivamente in italiano; il dialetto, documenta Raffaello Baldini, «lo imparò dagli amici giocando prima a palline e poi a pallone. Ma se per i molti altri della sua generazione il dialetto era, come si dice, la lingua materna, per Nino direi che era la lingua fraterna»[6].
Nell’immediato dopoguerra in Santarcangelo si assiste all’avvio di un’«avventura culturale» (Miro Gori) che andrà sotto il nome di E’ Circal de giudéizi («Il Circolo del giudizio»). Si trattò di un tentativo culturale, passato poi alla storia sotto questo nome per via dell’appellativo che bonariamente qualche compaesano rivolgeva a quel gruppo di giovani intellettuali – “Ve là, e’ circal de giudéizi” – che si riuniva sotto i portici del “Caffè Trieste” per discutere i più svariati temi culturali ed artistici (letteratura, cinema, arte, musica), insieme a quelli politici e sociali, e dove Pedretti avrà modo di esprimere il suo talento poetico e musicale[7].
Nel clima culturale di quegli anni, a partire dal 1946, il poeta santarcangiolese ottiene premi e riconoscimenti nazionali per poesie inedite in lingua, confluite in maggior parte nel volume Gli uomini sono strade[8].
Intorno alla metà degli anni Cinquanta Nino Pedretti parte per la Germania dove trova un impiego e perfeziona la lingua tedesca. In un carteggio con Rina Macrelli emerge, insieme al gusto per la novità verso una città da scoprire (Francoforte), anche una “leggera” «nostalgia»[9] per il paese e per gli amici.
In quello stesso torno di tempo, dopo il rientro in Italia, Pedretti unisce alla carriera di insegnante anche l’attività di traduttore. Se, come abbiamo detto, l’approccio al dialetto è subentrato presumibilmente in età adolescenziale, il passaggio successivo nella formazione poetica di Nino Pedretti, quello della scrittura in dialetto, risale al periodo immediatamente dopo il ’68; un passaggio cruciale in cui egli si fa portavoce degli emarginati e dei “diseredati”, di coloro che, non avendo un ruolo “attivo” nelle vicende della storia di quegli anni, rischiavano di restarne fuori: «Per parlare a loro nome bisognava parlare come loro: in dialetto. E così Nino cominciò a scrivere in dialetto» (Baldini)[10].
Ma, prima ancora che poeta dialettale, Nino Pedretti è valente studioso di questioni linguistiche: «già nel 1967 aveva frequentato un corso di fonologia a Edimburgo; nel 1972 ebbe l’incarico del coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica; nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di Glottodidattica nella Scuola di perfezionamento»[11].
A seguito dell’indagine linguistica e fonologica, durata diversi mesi, condotta col romanista Friedrich Schürr, Pedretti nota ancor più chiaramente, insieme alle molteplici potenzialità poetiche offerte dal dialetto, anche i limiti in cui esso era costretto. Si trattava cioè di far uscire il santarcangiolese dalle secche dell’«oralità», «per portare, trascinandolo alla legittimità della scrittura, il dialetto nel futuro»: una «scommessa» sulla quale punta anche l’amico Raffaello Baldini.
L’occasione per parlare delle «voci della poesia del dopoguerra» è fornita dal Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola[12], tenutosi a Santarcangelo nel giugno del 1973 (l’anno prima era stato pubblicato I bu, di Guerra), in cui il nostro, sotto l’impulso di Tonino Guerra, accetta l’incarico di organizzare l’evento in collaborazione con Rina Macrelli.
Il tema sul dialetto resterà per Pedretti un discorso aperto che egli riprenderà a più riprese, fino al suo ultimo libro.
Il passaggio dalla fase di studio del dialetto alla produzione poetica vernacolare è breve.
Poeta «per necessità» (Bo), Nino si propone al pubblico nel 1975 con Al vòusi, perspicuo già nel titolo (‘le voci’), con il quale sembra dare volto alle voci registrate su nastro magnetico nel corso dell’indagine fono-linguistica. I temi trattati per parlare dei purétt sono espressi utilizzando la «lingua brutale» del sotto-proletariato e del proletariato, in una sorta di esperimento linguistico come testimonianza della loro condizione di sofferenza, fisica e morale. Tra rabbia, dolore, disperazione ma, anche, ironia, nella «nota allegra» del gusto di vivere, nella trivialità del sesso a buon mercato, un popolo di sconosciuti – giocatori, prostitute, infermieri, vecchi, matti, barbieri e lavandaie, per non citarne che alcuni – emerge come dal nulla reclamando diritto di identità. L’attenzione al dialetto copre, scopre e scorre dovunque creando qua e là specchi di vera poesia, come in Se la lèngua la mòr (Se la lingua muore).
In quei primi anni Settanta nasce «quella cosa» (Baldini) che andrà sotto il nome di «poesia neodialettale». La poesia in dialetto, ritenuta fino ad allora «ancillare o eccentrica», comunque minoritaria rispetto alla poesia in lingua, acquista dunque dignità di «lingua-poesia» (Pasolini), avviandosi dai piani «bassi ai piani alti» (Sereni). Se in Al vòusi, la poesia in dialetto di Pedretti «ha trovato da sé l’allineamento alle forme elette e alle esperienze della poesia in lingua […] è da notare come in tutta la poesia di Pedretti lo scarto tra originale e versione non è poi così forte, non tale almeno da ottundere l’incisività dell’impianto e la sicurezza di fondo»[13].
Per certi aspetti, Te fugh de mi paèis svolge un ruolo paritetico ad Al vòusi, cambiandone però la prospettiva, nel senso, come in altro modo precisa Pedretti, che le immagini non sono rivolte ‘verso’ il mondo ma esse provengono ‘dal’ mondo, nate da un’aria perduta e germogliate «nell’io profondo dove risuonava una meraviglia nutrita di dialetto». Così, mentre i versi di Al vòusi ricordavano la miseria del pane e recavano un’ansia di riscatto, in Te fugh de mi paèis lo sguardo si fa interiore, come ricerca della bellezza scomparsa, soffermandosi su tutto ciò che è in pericolo di scomparire, piante e animali inclusi:
Ecco, gli animali, mi sembra siano i più esposti, così come i deboli e gli emarginati, alla violenza e al male di vivere. Ogni giorno scompare una specie di volatile, di mammifero, di pesce. Pensare agli animali s’accomuna al sentimento di precarietà in cui da sempre, ma soprattutto oggi, viviamo.
La chèsa de temp (La casa del tempo), rappresenta l’ultima fatica di Pedretti, uscito alle stampe qualche mese dopo la sua morte «grazie alla fraterna cura di Raffaello Baldini» (Ricci). E, come il protagonista del monologo, Il racconto perduto, anche Nino sembra voler dire: «Così come Ulisse posso lanciare le mie pietre contro l’immenso gigante del tempo senza che nessuno se ne avveda». [14]
L’universo letterario di Nino, lo abbiamo visto, si compone di voci, di storie reali e fantastiche al tempo stesso, di paesaggi, oggetti quotidiani, di luce e di silenzi. Anzi, la luce predomina fino a farsi ossimoricamente «luce nira» (Linfoma).
La sua attenzione verso il mondo rimane costante (E’ mònd l’è una palìna ch’la s’incrépa) ed egli si fa partecipe della natura come in questi ultimi versi di Al nóvvli (Le nuvole): «nóvvli a n’e’ savéi che dréinta / a purté quèll di mi nónn / che adès l’è dvént / un udòur d’un pórt, / chissà, d’una furèsta». («nuvole non lo sapete che dentro / portate il mio fiato / e forse quello dei miei nonni / che adesso è diventato / un odore di porto, / chissà, d’una foresta»); la realtà si confonde con l’immaginazione e la fantasia torna a farsi sogno come in questi versi de La pasegièda (La passeggiata), che riporto in lingua: «e lì dove un tempo / chissà mai quali signori / portavano dentro le carrozze / tra siepi di rose, lì / vado guardando perché un cortile / mi faccia vedere attorno ad una statua / una fontana che sogna / d’avere dei capelli: o dei cavalli / davanti un portone verde / fuori dal tempo, come in una pittura»; gli oggetti raccontano storie di vita in un gioco di luci (come in I vasétt) e di ombre (come in E’ pióv, Piove: «Piove, di fuori il mondo / è pieno di bianco / di un’aria di cenere dolce / come di gigli. / La mia vecchia casa / si è fasciata di ombre: / i miei morti sono lì / che stanno seduti»).
Verrebbe da chiedersi, cos’è che fa soffermare l’attenzione del poeta su ciò che sta al limite tra interno ed esterno, al margine della realtà, ai bordi di un mondo? Una risposta potrebbe essere trovata nella ricerca che Pedretti ha condotto da sempre contro il gioco delle apparenze laddove, ad esempio, se un tetto di canne può significare l’inizio e consentire alla fantasia di andare oltre, al tempo stesso quella linea rappresenta punto ad limina di uno spazio privato dove allo sguardo soltanto è consentito addentrarsi per coglierne, per un attimo, il nucleo “intimo” attraverso la mediazione della parola (La pórta). Allo stesso modo, se da una parte troviamo le varietà legate a uno o più elementi eterei o solari del giorno e del sogno, dall’altra, un microcosmo di oggetti ci porta più vicino la gente e il vasto popolo di compaesani, di parenti e amici che hanno fatta propria la memoria di quegli oggetti, di un intero universo ineluttabilmente destinato a perdersi: «Dietro questa poesia c’è un tempo immemorabile che non ha mai avuto voce e qui sta la prima ragione del poeta Pedretti, immettere nel coro della poesia illustre un materiale di vita che stava per venire cancellato per sempre» (Bo).
In Dmanda (Domanda) leggiamo: «Duv’è ch’a s masarà / al poeséi ch’a n so bón ‘d scréiv / ch’a gli zarchédi tént / ch’l’è quèlli ch’a m pis ad piò / ch’a n li pòs lèz / gnénca se desideri?», («Dove si nasconderanno / le poesie che non sono capace di scrivere, / che ho cercato tanto, / che sono quelle che amo di più, / che non posso leggere / neanche col desiderio?».
Alla Dmanda si potrebbe rispondere che forse si sono nascoste in tutte le poesie da lui effettivamente scritte, visibili solo a chi sa guardare oltre le parole; che sono racchiuse nella conchiglia (La cunchéa), nelle piante strane di una stazione (La staziòun), nella bottiglina piena di aria verde (La bucìna), tra le ruotine dei bottoni nella scatola dei ditali (Tla scatla di didèl).
In La chèsa de temp il tempo è l’artefice, l’arciere pronto a scoccare l’ultimo dardo-attimo di silenzio, subissando ogni voce, totalizzante e privativo, uguale a sé soltanto quando entra dappertutto, come nella splendida E’ silénzi (Il silenzio).
Mi scriveva Nino nell’agosto del 1980: «La poesia si fa con tutto il corpo e non solo coi sentimenti. Voglio dire che il corpo e tutto quello che lo muove diventa poroso, filtra, lascia passare odori di cose. Gli occhi, le mani, il ventre, l’arcata del petto sono investiti da questo vento che ci scuote, che ci fa partorire i sogni».
Giuseppina Di Leo
[1] Il presente studio sull’opera del poeta dialettale Nino Pedretti riprende in parte un mio precedente lavoro già pubblicato su: «Incroci. Semestrale di Letteratura e altre scritture, diretta da Raffaele Nigro e Lino Angiuli, n. 20, Mario Adda Editore, luglio-dicembre 2009», 149-153; “Voci dal Novecento”, a cura di Ivan Pozzoni, vol. III, Limina Mentis Editore 2012.
[2] G. MIRO GORI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: cinema e televisione, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 13.
[3] R. BALDINI, La nàiva. Versi in dialetto romagnolo. Introduzione di Dante Isella, Einaudi, Torino, 1982, V.
[4] Tra gli inediti conservati nell’Archivio Lina Pedretti Conti, Oggi ho alzato le mie bandiere, autografo, una poesia di cui, tra le carte del poeta, si conserva anche una successiva redazione, «una poesia in seguito ripresa col titolo In risposta all’accusa circa una mia pretesa povertà. Chi sono, non pubblicata. Sorta di autoritratto poetico di Pedretti: «Io sono ricco / perché porto con me / le acque verdi dell’Isar / e gli archi dei suoi grandi ponti. / Nessuno può dire che sono povero / perché ho visto splendere / gli alberi di melo vicino alla tua casa / che tu non conosci. / Io sono forte / perché ho alzato le mie bandiere / e fatto festa, oggi, un giovedì, / un giorno qualunque della settimana. / Io sono ricco / perché ho fiducia nella vita / e posseggo tante case d’amici veri. /Io sono ricco / perché sono me stesso / sono Nino Pedretti», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, Introduzione di Renzo Cremante, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 61-62.
[5] N. PEDRETTI, Le pepite d’oro. Poesie 1946-1947, a cura di M. Ricci, Raffaelli Editore, Rimini 2003.
[6] R. BALDINI, Due tre cose su Nino e il dialetto, in N. Pedretti, Al vòusi e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di ; Nota di Dante Isella; Con uno scritto di Raffaello Baldini, Einaudi, Torino 2007.
[7] Fin da giovane, Pedretti aveva coltivato l’interesse per la musica e la danza. La tesi di laurea conseguita nel 1953 a Urbino, relatore Piero Rebora, verteva intorno alla poesia e musica nera d’America.
[8] N. PEDRETTI, Gli uomini sono strade, introduzione di G. Bàrberi Squarotti, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1977.
[9] L’esperienza lavorativa in Germania durerà alcuni anni a partire dal 1954, «tornerà nel ’57, e comincerà a lavorare in Italia insegnando inglese in vari istituti medi e dell’avviamento», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, cit., 30-31-32.
[12] Cfr. Lingua Dialetto Poesia. Atti del Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, Santarcangelo di Romagna, 16-17 giugno 1973, prefazione di T. De Mauro, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1976.
[13] V. SERENI, Come canta quel Nino, in «L’Europeo», 7 dicembre 1981, p. 123)
[14] Postume le pubblicazioni degli scritti in prosa: Teatro minimo. Scritto da Nino Pedretti per bambini dai quattro ai dodici-tredici anni, Centro Stampa del Comune, Pesaro [1982]; Nella favola siamo tutti. Fantastorie, a cura di R. Roversi, disegni di R. Vespignani, Maggioli, Rimini 1989; L’astronomo, introduzione di Franco Brevini, nota biografica di G. Fucci, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992; Monologhi e racconti, con una nota di Manuela Ricci ed Ennio Grassi, Raffaelli Editore, Rimini 2011; Grammatiche. Monologhi e racconti inediti, , a cura di Tiziana Mattioli, trascrizioni di Elena Nicolini, Raffaelli Editore, Rimini 2012.
Nota.
Una versione più ampia di questo saggio è stata pubblicata sul sito di POLISCRITTURE.
Fonte Enciclopedia TRECCANI- PEDRETTI, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello. Nel 1928 nacque sua sorella Giaele.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 fu chiamato alle armi a Trieste, da dove fuggì a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro a Santarcangelo e trasferirsi poi a San Marino. Ripresi gli studi, conseguì il diploma di maestro all’Istituto magistrale di Forlimpopoli.
È di quegli anni la frequentazione del gruppo di intellettuali santarcangiolesi denominato, con ironia bonaria da parte dei compaesani, E’ circal de giudéizi (Il circolo del senno), che si riunì dapprima in casa di Pedretti e poi al Caffè Trieste e di cui fu inizialmente animatore Tonino Guerra. Questi, fra il 1944 e il 1945, scrisse i testi poi inclusi in I scarabócc (1946), offrendo dignità poetica a un dialetto, quello santarcangiolese, fino a quel momento inedito dal punto di vista della scrittura letteraria.
Del gruppo fecero parte i poeti – a loro volta nel dialetto di Santarcangelo – Raffaello Baldini e Gianni Fucci, lo sceneggiatore e scrittore Flavio Nicolini, i pittori Federico Moroni, Giulio Turci e Lucio Bernardi. Nelle riunioni si discorreva di arti figurative e politica, musica e letteratura; si leggevano Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Éluard, García Lorca, Campana, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Kafka, i narratori americani, Moravia. Intorno al 1949 il gruppo conobbe Elio Petri, con il quale collaborarono Fucci e Guerra per la realizzazione del cortometraggio Nasce un campione (1954). Iscrittosi alla facoltà di economia e commercio dell’Università di Ancona, Pedretti la abbandonò quasi subito per passare a quella di lingue straniere dell’Università di Urbino, dove si laureò, nel 1953, discutendo con Piero Rebora una tesi (Poesia e musica negra d’America) sul jazz come punto di arrivo di una tradizione poetico-musicale che ha inizio con i Negro spirituals e le ballades degli schiavi d’America. Agli anni universitari, fra il 1946 e il 1947, risalgono i primi testi poetici che, privilegiando il sermo brevis, risentivano certo delle letture compiute all’epoca, così come di una temperie già postermetica; letti alla cerchia di amici, furono pubblicati postumi con il titolo Le pepite d’oro (a cura di M. Ricci, Rimini 2003).
Dopo aver svolto il ruolo di supplente presso la scuola elementare di Santarcangelo, divenne insegnante alle elementari di Magenta. Abbandonato l’incarico, nel 1954 Pedretti si trasferì in Germania, dove trovò impiego in una banca a Francoforte e poté perfezionare la conoscenza della lingua tedesca.
Rientrato in Italia nel 1957, si recò a Milano, dove collaborò con alcune testate giornalistiche minori. Fece quasi subito rientro a Santarcangelo, ricominciando a fare supplenze nelle scuole. Dopo un breve periodo come addetto alle pubbliche relazioni presso l’Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC) di Ravenna, ricoprì provvisoriamente il ruolo di insegnante di inglese a Forlì. Ebbe inizio un periodo di relativa stabilità, cui contribuì anche il matrimonio nel 1959 con Lina Conti, con la quale si trasferì a Rimini. Nel 1960 nacque la figlia Daniela e nel 1961 ottenne la nomina di insegnante di ruolo a Cesena, dove andò a vivere: qui vide la luce la seconda figlia Anna Maria, mentre un terzo figlio, Paolo, nacque nel 1963.
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, insieme con l’approfondimento della lingua inglese, si era dedicato all’attività di curatore e traduttore di testi stranieri. Nel 1963 scrisse la prefazione a un’edizione scolastica del romanzo di J.K. Jerome, Tre uomini in barca (tradotto da Anna Maria Mezzolani Casadei). Assieme a Eloisa Paganelli curò poi l’antologia British children teach Italian children (Bologna 1966): pensato per le scuole medie, il volume raccoglieva testi scritti da bambini britannici, nella convinzione che le esigenze espressive e i contenuti psicologici che danno forma a un linguaggio siano i medesimi durante l’età puberale, in Italia come nel Regno Unito.
Nel 1967 frequentò un corso di fonologia a Edimburgo. L’anno successivo ricoprì l’incarico di insegnante di inglese al liceo di Pesaro, dove nuovamente si trasferì con tutta la famiglia. Nel 1972 ebbe l’incarico per il coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica. A prosecuzione di questo iter didattico, nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di «glottodidattica nella Scuola di perfezionamento» (Ricci, 2003, p. 12 n.).
Ma gli anni Sessanta e Settanta furono anche quelli della scelta del dialetto come lingua della poesia. Pedretti, che amava definirsi linguista, si impegnò in una ricerca sulla fonologia delle parlate locali, commissionatagli dal Comune di Santarcangelo e registrata su una serie di nastri. In tale percorso è da segnalare l’amicizia con il glottologo Friedrich Schürr, studioso di dialetti romagnoli, che veniva raccogliendo i risultati dei suoi spogli nel volume La voce della Romagna (1974).
Stimolato dalla frequentazione di Guerra e di altri poeti del circal (fra cui Baldini, che esordì nel 1976 con E’ solitèri), anche Pedretti scrisse quindi i suoi primi versi in dialetto, che apparvero nel bimestrale TuttoSantarcangelo fra il 1970 e il 1973: le poesie Trent’an (n. 33), La lèngua dla mi mà, Se la lèngua la mor (n. 60) e I nòm dal strèdi (n. 66). Sempre nel 1973 fu tra i partecipanti al Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, ideato da Nicolini e organizzato da Rina Macrelli (anche lei parte del circal), che si tenne il 16 e 17 giugno a Santarcangelo, dove lesse la relazione Poesia romagnola del dopoguerra (poi inclusa negli atti Lingua Dialetto Poesia, usciti nel 1976, con prefazione di Tullio De Mauro, per le Edizioni del Girasole di Ravenna). In un commento a margine della relazione di Augusto Campana toccò il problema della trascrizione del santarcangiolese, oggetto di discussione con Schürr (dalle posizioni del quale si era allontanato, prediligendo piuttosto una riduzione dei segni diacritici, e ricorrendo ai soli accenti acuto e grave).
Ma l’evento più importante fu la pubblicazione della prima raccolta in santarcangiolese, Al vòuṣi (Ravenna 1975), con prefazione di Alfredo Stussi. Le voci del titolo sono quelle della comunità paesana, in un’ottica di poesia civile intesa a dare la parola a chi, per imposizione storica, non l’ha mai avuta; sono voci di personaggi umili e non illustri, veicolo di espressione di una mentalità popolare creativa e fantastica. La scelta del dialetto, idioma letterariamente affrancato dall’oleografia municipalistica pur restando lingua quotidiana e semanticamente concreta, fu tanto più significativa quanto più si consideri che esso era lingua d’elezione a posteriori; in ogni caso non canale di recupero memoriale, né lingua rappresentativa di un’infanzia perduta (nonostante sia definito lèngua dla mi mà). La novità di tale scelta era inoltre in certa autonomia lessicale rispetto a Guerra, e nella semplificazione grafica dei dittonghi (evidenziata dallo stesso Pedretti in una Nota sul dialetto).
Tra febbraio e settembre 1974 Pedretti aveva pubblicato inoltre alcune prose satiriche sul mondo della scuola (La scuola, La carriera, La pensione e Lo stato giuridico finalmente) in TuttoSantarcangelo. Tre anni dopo diede invece alle stampe la raccolta Gli uomini sono strade (Forlì 1977); prefata da Giorgio Bàrberi Squarotti, che rilevava la maggiore ampiezza e distensione di discorso delle liriche in lingua rispetto all’essenzialità di quelle in dialetto, includeva poesie scritte fra il 1946 e il 1977, per alcune delle quali era stato insignito nel 1969 con il Cervo d’argento alla XIII edizione del premio Cervia di poesia.
A pochi mesi di distanza vide la luce la seconda silloge in santarcangiolese, Te fugh de mi paèiṣ (Nel fuoco del mio paese, Forlì 1977), con dedica alle donne ispiratrici della parlata in dialetto, che abbandonava la coralità di Al vòuṣi per farsi ricerca lirica di un senso fuggevole al di là delle cose, intuito in pochi dettagli come una finestra aperta, lo scorrere dell’acqua, un odore, un ricordo improvviso. Proseguendo l’attività di traduttore, pubblicò una versione in italiano del poema di Sylvia Plath, Three women (Tre donne. Un poema per tre voci, Forlì 1978).
Nel 1979 seguì l’organizzazione del Convegno nazionale di studi su Antonio Baldini, che ebbe luogo a Santarcangelo il 16 e 17 giugno. Per l’occasione preparò un’intervista a Marino Moretti, che non fece in tempo a realizzare per la malattia di quest’ultimo, morto poi a luglio. Grazie a una borsa di studio ricevuta dall’Experiment in international living, pochi giorni dopo si recò a Saint Louis per seguire un corso di perfezionamento sulla letteratura americana presso il Webster College. Visitò anche New York, da cui trasse l’immagine della ‘città verticale’. Tuttavia, come emerge da una lettera alla moglie del 25 giugno, gli Stati Uniti gli ispirarono da subito un sentimento di durezza e ostilità.
Al ritorno in patria il suo fisico era già minato dal linfoma che non molto tempo dopo lo avrebbe portato alla morte.
Ebbe comunque la forza di lavorare all’ultima raccolta in santarcangiolese, La chèṣa de témp (La casa del tempo, Milano 1981), in cui si avverte l’imminenza della fine, che uscì postuma, con uno scritto di Carlo Bo, per i tipi di All’insegna del pesce d’oro. Il manoscritto, la cui stesura fu accompagnata da uno scambio epistolare con Baldini sul problema della grafia del dialetto, piacque a Dante Isella (lettera a Pedretti, 3 novembre 1980).
Pedretti morì a Rimini il 30 maggio 1981.
L’anno prima era stato insignito del primo premio al concorso di poesia Romagna. Con una lettera del 12 marzo 1982, Ettore Bonora, ancora ignaro della sua scomparsa, ne elogiava la produzione in santarcangiolese.
Postumi uscirono, oltre a La chèṣa de témp e a Le pepite d’oro, una silloge di pièces per bambini fra i quattro e i tredici anni, Teatro minimo (Pesaro 1982), e una di ‘fantastorie’ risalenti al 1961, Nella favola siamo tutti (Rimini 1989). Videro poi la luce 37 racconti e monologhi con il titolo L’astronomo (a cura di F. Brevini – G. Fucci, Milano 1992), cui seguirono “Al vòuṣi” e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di M. Ricci, nota di D. Isella, postfazione di R. Baldini (Torino 2007); Monologhi e racconti, a cura di M. Ricci – E. Grassi (Rimini 2011) e Grammatiche: monologhi e racconti inediti, a cura di T. Mattioli (Rimini 2012).
Fonti e Bibl.: Archivio Pedretti, donato da Lina Conti alla Biblioteca comunale A. Baldini di Santarcangelo di Romagna.
Pelasgi. I poeti romagnoli in lingua, a cura di D. Argnani – G.R. Manzoni, Rimini 1985, pp. 35-56; G. Fucci, ‘E’ circal de giudéizi’…, in Diverse lingue. Rivista semestrale delle letterature dialettali e delle lingue minori, 1992, n. 11, pp. 37-46; N. Pedretti, L’astronomo, introduzione di F. Brevini, nota biografica di G. Fucci, Milano 1992; E’ circal de giudéizi. Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra…, a cura di M. Ricci, Bologna 2000; M. Ricci, Prefazione a N. Pedretti, Le pepite d’oro, Rimini 2003; C. Martignoni, Per non finire. Sulla poesia di Raffaello Baldini, Pasian di Prato 2004, pp. 49-58; Per N. P., Atti del convegno, Urbino… 2012, a cura di G. De Santi et al., Rimini 2013.
Nino Pedretti nasce a Santarcangelo il 13 agosto 1923, figlio di un impiegato comunale e di una maestra elementare.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 viene chiamato alle armi a Trieste, da dove fugge a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro nella città natale e rifugiarsi poi a San Marino.
Ripresi gli studi nel primo dopoguerra, consegue il diploma di maestro presso l’Istituto Magistrale di Forlimpopoli; è in quegli anni che dà vita, assieme ad altri giovani intellettuali santarcangiolesi, al sodalizio che diventerà noto come E’ circal de’ giudéizi.
Decide di continuare gli studi iscrivendosi alla facoltà di lingue straniere dell’Università di Urbino, ove si laurea nel 1953 con una tesi sul jazz.
Successivamente si trasferisce in Germania. Rientra in Italia e insegna lingua inglese nei licei di Cesena e Pesaro. Nel 1975 pubblica Al vòuşi, la sua prima raccolta di poesie in romagnolo. L’opera riscontra un immediato successo.
Del dialetto romagnolo, Pedretti ha lasciato questa definizione:
«A differenza dell’italiano, arrotolato nei codici, levigato ed illustre, il fratello umile, il dialetto, è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli e come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei minimi villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove viveva la gente comune del lavoro e dei sacrifici.»
Sebbene Pedretti sia principalmente un letterato, l’esigenza di scrivere il dialetto santarcangiolese lo ha indotto ad affrontare l’analisi del proprio dialetto, confrontandosi anche con Friedrich Schürr, che Pedretti incontrò a Costanza. A partire da tale confronto egli definì alcuni criteri grafici che furono poi adottati da altri autori santarcangiolesi, e che trovano un fondamento obbiettivo anche negli studi più recenti[1].
Giorgio Bassani -A sessant’anni dalla pubblicazione de Il giardino dei Finzi-Contini (1962) –
Il volto e lo sguardo – Articolo di Ottavio Di Grazia-
FERRARA-A sessant’anni dalla pubblicazione de Il giardino dei Finzi-Contini (1962)diventato, come è stato scritto, un luogo della memoria non solo dell’ebraismo italiano, ma dell’Italia del Novecento, e in occasione del compleanno di Giorgio Bassani (nato a Bologna il 4 marzo 1916), a Ferrara, città amata, sognata, trasfigurata, luogo «aperto, libero, assoluto», il 3 marzo prossimo sarà inaugurata una mostra di Georges de Canino a lui dedicata. 21 opere inedite che saranno esposte in “Casa Ariosto”, sede della Fondazione Bassani, che resterà aperta fino al 5 giugno 2022. La mostra, curata da Paola Bassani e da Francesco Franchella, si avvale del contributo del Comune di Ferrara e del patrocinio del Museo Ebraico della stessa città e delle Comunità ebraiche di Ferrara e di Roma e della stessa Fondazione Bassani. La mostra si intitola «Il volto e lo sguardo di Giorgio Bassani».
Vorrei soffermarmi, brevemente, sul titolo della mostra, perché, mi sembra colga pienamente le infinite sfaccettature che assume l’opera e la vita di Bassani, Il volto, ciò che di incatturabile ciascuno di noi possiede; lo sguardo che apre sul mistero della vita e, attraverso cui, questo stesso mistero entra in noi. Lo sguardo che si spinge verso l’ultimo orizzonte o quando cogli, magari nel riflesso di una vetrina, un altro sguardo che ci ri-guarda e diventa subito relazione, possibilità, infinito. Lo sguardo si muove sul mondo, sulla materia di cui è fatto, scorge luci e ombre e il senso della libertà della vita stessa. Georges de Canino ha composto le 21 opere dedicate a Bassani con colori, immagini e uso di materiali che compongono lo stesso tessuto della vita.
La fantasia e il dinamismo, la libertà inventiva e la fedeltà alla “terra” che sono la trama finissima stessa dell’opera di Bassani. Da questo punto di vista è bello sottolineare come vi sia una straordinaria coincidenza nel fatto che la mostra a lui dedicata sia esposta in “Casa Ariosto”, la cui opera era fatta della stessa materia dinamica. Lo sguardo, infine, non può non richiamare Dante e lo sguardo di Beatrice che indica, segna, apre all’infinito della bellezza e di una possibile salvezza. Lo sguardo di Bassani, il colore dei suoi occhi, celesti come il cielo, che de Canino riprende nelle sue opere, traccia anch’esso una via, apre su un orizzonte. Una ultima riflessione sul rapporto di Bassani con Ferrara. Ferrara, la piccola città di provincia avvolta in un sonno caliginoso; Ferrara le sue mura, la pianura che si stende attorno ad esse; il lento scorrere del Po; le atmosfere sognanti. Ferrara sta a Bassani, come Roma a Moravia e Trieste a Svevo. In questa città, Bassani ha consolidato i suoi personaggi, attraverso quella che egli stesso ha definito «la poesia delle strade».
Nell’esperienza e immaginazione di Bassani, la Ferrara del suo Romanzo di Ferrara, titolo complessivo della sua opera, è, non solo la patria degli antenati, ma un microcosmo in cui osservare – con gli occhi di un «grande intellettuale, di un letterato raffinatissimo» e di superbo scrittore – la condizione umana e le «vicissitudini della storia» che, nella sua narrativa, vanno ben al di là della pura geografia biografica e storicamente determinata. Infatti, se la sua opera riflette continuamente il senso e la portata di quanto viene elaborando alla luce di una memoria, crocianamente storica, essa prende forma attraverso la descrizione di fatti, esperienze, pensieri, slanci, utopie che, tra fantasia e realtà, sono la testimonianza di un percorso umano che si fa lascito letterario di straordinaria originalità e complessità. Insomma, diventa un “classico”, nel senso pieno della parola.
Biografia di GIORGIO BASSANI-Fonte Enciclopedia TRECCANI online-
Scheda scritta da Simona Costa
GIORGIO BASSANI-Primogenito di Angelo Enrico, proprietario terriero e medico, senza esercitare la professione, e Dora Minerbi, nacque il 4 marzo 1916 a Bologna.
Tra Ferrara e Bologna: gli anni di formazione
A Ferrara, città della sua famiglia appartenente all’alta borghesia ebraica, Bassani visse l’infanzia e l’adolescenza, con i fratelli Paolo e Jenny, nella grande casa al n. 11 di via Cisterna del Follo, dove abitavano anche i nonni paterni: Davide, stimato commerciante di tessuti, e Jenny Hannau. Frequentò il liceo classico «Ludovico Ariosto», dove ebbe per compagno Lanfranco Caretti e come docente di latino e greco Francesco Viviani, antifascista, sospeso dall’insegnamento nel 1936 (cui Bassani inviò una commossa lettera di solidarietà, e morto poi a Buchenwald nel 1945). Il docente di italiano, Francesco Carli, gli trasmise la passione per Dante, un cui celebre verso («L’essilio che m’è dato, onor mi tegno»), divenne poi il motto del protagonista di Dietro la porta. Allo studio, compreso quello del piano, poi surclassato dall’amore per la letteratura, si accompagnava la passione per il tennis, con la frequentazione, assieme tra l’altro a Michelangelo Antonioni, del Tennis Club Marfisa d’Este, punto di incontro della borghesia ferrarese. Nel 1934, rompendo la tradizione familiare (padre, nonno materno, Cesare, e zio materno, Giacomo, tutti medici) si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, quotidianamente raggiunta in treno con l’amico Caretti. Fu proprio la campagna emiliana, inquadrata dal finestrino di un treno in una poesia giovanile (Verso Ferrara, ma originariamente Verso F.) e rivisitata tramite le luci e i colori dei pittori ferraresi e bolognesi del Cinque e Seicento, a suggerirgli i toni dell’ispirazione lirica. L’ambiente bolognese rappresentò per lui anche una scuola letteraria, con i nomi di Riccardo Bacchelli, Leo Longanesi che lì aveva fondato L’Italiano, e Giuseppe Raimondi, che lo introdusse ai classici francesi del secondo Ottocento (Flaubert, Rénard, Maupassant, Zola). Con Attilio Bertolucci, Augusto Frassineti, Franco Giovanelli, Antonio Rinaldi e i fratelli Francesco e Gaetano Arcangeli, a Bologna frequentò anche un circolo di intellettuali distanti sia dai rondisti sia dagli ermetici. Nell’intersecarsi di rapporti letterari e artistici, la mediazione pittorica, fondamentale nel suo approccio al reale, molto si avvalse dell’opera dell’amato Giorgio Morandi e soprattutto delle lezioni di Roberto Longhi (cfr. Un vero maestro, in Di là dal cuore, in Opere, Milano 1998, pp. 1073-1077), conosciuto sul finire del ’35 e con cui instaurò una profonda e ammirata amicizia, protratta anche sui campi da tennis. Insieme a Longhi, punto di riferimento fu Benedetto Croce, il cui magistero idealistico fu da lui sempre riconosciuto centrale per la propria formazione, e nella cui religione della libertà si identificò totalmente. Nel maggio 1935 sul Corriere Padano di Ferrara, fondato nel 1925 da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, aperto a giovani quali Antonioni, Antonio Delfini, Elio Vittorini e Caretti, pubblicò il suo primo racconto, III classe, ispirato all’esperienza di pendolare e destinato a inaugurare una collaborazione, con racconti, poesie, articoli e traduzioni, protratta fino al novembre 1937. Nel giugno 1939 si laureò con Carlo Calcaterra discutendo una tesi su Niccolò Tommaseo: oltre a escluderlo dalla Biblioteca comunale, le leggi razziali lo costrinsero a insegnare nella scuola israelitica di via Vignatagliata, nel ghetto di Ferrara.
Nel 1940 pubblicò a sue spese a Milano, presso l’Arte grafica A. Lucini e c., Una città di pianura, firmandosi, ancora per le restrizioni razziali, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, usato anche per alcune collaborazioni giornalistiche, unendo il cognome della cattolica nonna materna, Emma Marchi, al nome dello zio Giacomo Minerbi, poi protagonista dei versi di Storia di famiglia, in Epitaffio. Il libro, dal titolo significativo, raccoglieva, oltre al testo eponimo, altri quattro racconti, Omaggio, Un concerto (già apparso in Letteratura nell’aprile del 1938), Rondò, Storia di Debora (prima versione di Lida Mantovani) e una poesia, Ancora dei poveri amanti, poi passata nella raccolta Storie dei poveri amanti. Si avviava così il tentativo di ricostruire secondo una personale topografia del cuore una città di provincia, la qui ancora innominata Ferrara, strappata ai mitologismi di «città del silenzio» di quel d’Annunzio da lui considerato non poeta ma letterato, e resa credibile al lettore pur nel nesso realtà-fantasia in cui era fatta rivivere. Importante fu, tra le amicizie ferraresi, la dichiarata influenza di un gruppo di insegnanti sardi formatisi a Pisa, tra i quali Giuseppe Dessì e Claudio Varese. Fu proprio Dessì che suggestionò la stesura di Un concerto, leggendogli via via le pagine di San Silvano, romanzo che stava scrivendo e per cui nel 1939 Gianfranco Contini parlò di un Proust sardo.
L’antifascismo, l’arresto e la scelta di Roma
Gli anni fra il 1937 e il 1943 furono segnati dall’attività antifascista clandestina che, avviata dall’incontro nel 1937 con Carlo Ludovico Ragghianti, tramite il quale conobbe anche Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, doveva salvarlo dalla disperazione in cui vide sprofondare tanti ebrei italiani traditi dal fascismo, compreso suo padre. Arrestato nel maggio 1943, Bassani fu scarcerato il 26 luglio: restano, di quella esperienza, le lettere scritte ai familiari (Da una prigione), poste poi in apertura del volume saggistico Di là dal cuore (Milano 1984). Il 4 agosto si sposò a Bologna con Valeria Sinigallia e decise di lasciare Ferrara prima per Firenze, dove si legò di amicizia con Manlio Cancogni, e poi, nel dicembre 1943, per Roma che diventò la sua città di adozione, percorsa in bicicletta come già la sua Ferrara e continuata sempre negli anni a scoprire con un gusto da flâneur: nella camera da letto della sua ultima casa in Trastevere posavano i fogli della grande mappa settecentesca di Roma di Giambattista Nolli, invito a mattutine esplorazioni.
Nell’estate del 1944 si spostò a Napoli, dove già si erano rifugiati tra l’altro Leo Longanesi e Mario Soldati, con cui Bassani sviluppò un forte sodalizio intellettuale, e da dove scrisse qualche articolo per l’edizione romana di L’Italia libera, quotidiano del Partito d’Azione (Pd’A). I rapporti con Napoli si mantennero nel tempo, specie con la collaborazione, tra il ’46 e il ’51, mediata dal direttore Carlo Zaghi conosciuto a Ferrara, con il quotidiano di ispirazione liberale Il Giornale, attivo dal 1944 al 1957 e che si avvalse anche della firma di Benedetto Croce. Il 1945, anno in cui nacque la figlia Paola, cui seguì, nel 1949, Enrico, fu anche l’anno di uscita delle sue traduzioni di Vita privata di Federico II di Voltaire e Il postino suona sempre due volte di James Cain, ma soprattutto di Storie dei poveri amanti e altri versi, edite a Roma da Astrolabio, ristampate e ampliate l’anno successivo. A queste liriche, positivamente recensite da Leonardo Sinisgalli (v. Il Costume politico e letterario, 29 settembre 1945, p. 14) ed Eugenio Montale (Il Mondo, 1° dicembre 1945, p. 6), fecero seguito nel 1947, sempre per l’editore Ubaldini, i versi di Te lucis ante. 1946-1947, dal titolo ispirato all’omonimo canto liturgico intonato nel canto VIII del Purgatorio e di cui ventun poesie confluirono con varianti nella successiva raccolta mondadoriana del 1951, Un’altra libertà. Le tre raccolte furono riviste e riunite in L’alba ai vetri. Poesie 1942-50, pubblicata da Einaudi (Torino 1963).
In un Poscritto inserito ne L’alba ai vetri e risalente a un testo del 1952, edito su Paragone-Letteratura nel 1956, Bassani ripercorreva la propria nascita alla poesia, con un richiamo d’esordio a Longhi («Critici si nasce: poeti si diventa – ha detto Roberto Longhi»), e segnava il passaggio da un iniziale approccio lirico mediato dall’arte e dalla cultura e affidato a paesaggi amati e dunque idilliaci, alla volontà di fare i conti con una realtà impressa dalla guerra e dalla prigione. Se infatti tali esperienze segnavano i versi di Te lucis ante, considerati dallo stesso autore fondanti per la sua scrittura, non solo lirica, già Storie dei poveri amanti, aperte dai temi della memoria e del rimpianto («Lascia ch’io ti ricordi»), dell’assenza e del silenzio, su un sostrato ermetico e montaliano, trovavano accenti funerei, come nei versi di Cena di Pasqua, cui si ricollegò poi un episodio del Giardino dei Finzi-Contini. E gli altri versi della raccolta del ’45 erano ispirati da un ragazzo morto nelle quattro giornate napoletane del settembre 1943 e dalla tomba, presso il lago di Albano, di un soldato tedesco. La vocazione lirica, preminente a quest’altezza cronologica con modelli quali Montale, Saba, l’Ungaretti religioso, ma anche poeti minori del tardo Ottocento come Pompeo Bettini e Francesco Gaeta, cari entrambi a Croce, rimase comunque fondamentale per chi come Bassani amò sempre definirsi, al di là della connotazione retorico-stilistica, sostanzialmente un poeta.
Iscrittosi al Partito socialista italiano (PSI), dopo il congresso del 1946 del Partito d’Azione e le sue fratture interne, allargò nel frattempo il cerchio delle amicizie, con la conoscenza di Pier Paolo Pasolini, Cesare Garboli, Niccolò Gallo e la moglie Dinda, i coniugi Maria e Goffredo Bellonci e la principessa Marguerite Caetani che, dopo l’esperienza della rivista parigina Commerce, fondò nel 1948 il cosmopolita semestrale Botteghe Oscure (dal nome della via sede della redazione, a palazzo Caetani), che divulgò importanti autori sia stranieri sia italiani e in cui Bassani ebbe fino alla chiusura (1960) il ruolo di redattore. Oltre all’impegno didattico, che lo vide insegnare presso l’istituto nautico di Napoli e alla scuola d’arte di Velletri, venne avviandosi l’attività di sceneggiatore, con collaborazioni tra l’altro con Soldati, Antonioni, Blasetti e Zampa: un’esperienza che influì anche sulla sua tecnica narrativa e in cui coinvolse l’amico Pasolini, iniziandolo così al cinema, sin dalla sceneggiatura nel 1954 di La donna del fiume di Soldati. Nel ruolo di un professore, fu anche attore ne Le ragazze di piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer.
Gli anni Cinquanta e la nascita delle «Storie ferraresi»
Nel 1953 Sansoni pubblicò La passeggiata prima di cena che riuniva tre racconti apparsi in Botteghe oscure: il racconto eponimo del 1951 (ma di cui una prima stesura risaliva al 26 agosto 1945 su Domenica), Storia d’amore, rielaborazione del 1948 di Storia di Debora, e Una lapide in via Mazzini, edita nel 1952. Nell’aprile 1954 apparve nella sezione letteraria di Paragone, la rivista di Anna Banti e Roberto Longhi – di cui era divenuto redattore nel 1953 e che lasciò definitivamente nel 1971 – Gli ultimi anni di Clelia Trotti, rifiutato da Marguerite Caetani e poi in volume nel 1955 a Pisa per Nistri-Lischi. Questi racconti, insieme a Una notte del ’43, uscito nel 1955 sempre su Botteghe oscure e da cui nel 1960 l’esordiente regista ferrarese Florestano Vancini trasse il film La lunga notte del ’43, con Pasolini tra gli sceneggiatori, composero le Cinque storie ferraresi, pubblicate nel 1956 da Einaudi e insignite con il premio Strega, ma destinate a una fitta serie di revisioni nella protratta rielaborazione dello scrittore del suo Romanzo di Ferrara. La più rivisitata tra queste storie, da un primitivo abbozzo del ’37 fino all’edizione definitiva del 1980, fu il racconto titolato nel volume del ’56 Lida Mantovani (l’originaria Storia di Debora). Con queste cinque storie che composero poi Dentro le mura, primo libro del Romanzo di Ferrara, Bassani aveva comunque ritrovato la sua città, finalmente nominata per esteso dopo un precedente pseudoanonimo F.
Di grande impatto visivo è la scena di apertura de La passeggiata prima di cena: un racconto che nella sua stessa struttura intendeva asserire, su parole d’autore, che «il passato non è morto […] non muore mai» (Laggiù, in fondo al corridoio, in L’odore del fieno, in Opere, cit., p. 939). Da una vecchia cartolina ingiallita, ricavata da una fotografia, rinasce corso Giovecca, principale arteria cittadina, quale era sul finire dell’Ottocento: in questa lunga carrellata cinematografica, prendono vita l’apprendista infermiera Gemma Brondi, figlia di contadini, e il dottor Elia Corcos con la sua bicicletta. E di Elia, vanto di Ferrara nella rivalità con Bologna e il suo Murri e controfigura del nonno dello scrittore, Cesare Minerbi, presente poi nei versi de La cuginetta cattolica (in Epitaffio), seguiremo le tracce dal lontano 1888, data del suo fidanzamento con Gemma, fino alla deportazione in Germania, nel ’43, insieme con il figlio Jacopo. Ma le strade di Ferrara sprigionano anche tutti gli altri personaggi di queste storie: da Lida Mantovani, nelle sue vicende sentimentali prima con il ricco borghese contestatore David, che la lascia incinta, poi con l’onesto, pacato rilegatore Oreste Benetti, che diverrà suo marito, a Geo Josz che, ricomparso a Ferrara nell’agosto 1945, unico superstite dei 183 ebrei deportati nell’agosto 1943, vede il proprio nome sulla lapide che un operaio sta murando in via Mazzini. E ancora Clelia Trotti, la vecchia maestra socialista in cui è proiettata la figura di Alda Costa, frequentata fra il 1936 e il ’43 dall’autore che, a sua volta, presta alcuni dei propri connotati al deuteragonista, Bruno Lattes, e Pino Barilari, il paralitico farmacista impietrito testimone dai vetri di una finestra (immagine cardine, di partecipazione/esclusione, nella narrativa di Bassani) dell’eccidio fascista compiuto sul marciapiede di fronte a lui il 15 novembre 1943 (ma dicembre, nel testo): eccidio di cui al processo non rivelò tuttavia le responsabilità, trincerandosi dietro un lapidario «dormivo».
Nel 1955 con Umberto Zanotti Bianco, Filippo Caracciolo, Elena Croce e altri, Bassani fu tra i fondatori dell’associazione «Italia Nostra» e nel 1956 divenne consulente editoriale della Feltrinelli, promuovendo vari autori sia stranieri, come Jorge Luis Borges, Edward Morgan Forster, Ford Madox Ford, Karen Blixen, sia italiani, quali Cancogni, Delfini e Franco Fortini. Clamorosi successi editoriali dovuti al suo intuito critico furono nel 1957 l’anteprima mondiale de Il dottor Živago di Boris Pasternak e nel 1958, con una sua prefazione, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, suggeritogli da Elena Croce e già rifiutato da Mondadori e da Einaudi. Nel 1957 iniziò a insegnare storia del teatro all’Accademia d’arte drammatica «Silvio d’Amico», dove ebbe allievi che furono poi attori e registi famosi e rimase seguito maestro per un decennio, specie per le sue lezioni sul teatro francese. Nel 1958 uscì su Paragone-Letteratura e poi in volume da Einaudi Gli occhiali d’oro, romanzo breve da cui nel 1987 Giuliano Montaldo trasse l’omonimo film: nel 1960, insieme a Cinque storie ferraresi, formò una nuova edizione intitolata Le storie ferraresi.
Persuaso della necessità, dopo le cinque storie che avevano ricreato la sua Ferrara, di uscire allo scoperto e di dire “io”, lo scrittore adotta ne Gli occhiali d’oro la prima persona, nelle vesti di uno studente ebreo che narra la storia del dottor Athos Fadigati, trasferitosi nel primo dopoguerra da Venezia a Ferrara e identificato sin dal titolo da quegli occhiali che, nella narrativa di Bassani, si pongono a diaframma di separazione dalla realtà. Di là dalla passione per Wagner, anomala fra i personaggi ferraresi di Bassani, usi a canticchiare arie tra Verdi e Rossini, la sua diversità è data dalle frequentazione sessuali, discretamente praticate con uomini modesti e di mezza età. Ma nel 1937 sul treno Ferrara-Bologna la conoscenza di un gruppo di studenti, tra i quali l’anonimo io narrante, parziale ritratto dello scrittore da giovane, lo coinvolge in una scandalosa storia d’amore con il biondo, sfrontato e bellissimo Eraldo Deliliers, con cui girerà le spiagge adriatiche su una rossa Alfa Romeo a due posti. Una storia dunque che riecheggia il Thomas Mann della Morte a Venezia, chiusa non dal sopravvenire di un allegorico colera, ma dal suicidio di Fadigati che, abbandonato e derubato dal cinico Eraldo, trova compassione e amicizia nel solo io narrante, anch’egli un emarginato, nell’approssimarsi delle legge razziali. Ed è da questa esperienza che il giovane deuteragonista misurerà la propria distanza da un padre romantico e patriota, la cui ingenuità politica, comune a una generazione di ebrei italiani, lo aveva indotto a prendere nel 1919 la tessera del fascio e quindi a persuadersi di contingenti ragioni di politica estera per la campagna antisemitica.
Il successo degli anni Sessanta
Nel 1962, dopo lunga elaborazione retrodatabile a primi abbozzi degli anni Quaranta, apparve presso Einaudi Il giardino dei Finzi-Contini, che si aggiudicò il premio Viareggio decretando così la piena affermazione del Bassani narratore. Nel 2016, il manoscritto, regalato dall’autore nel dicembre 1961 alla contessa veneziana Teresa Foscari Foscolo (1916-2007) con una dedica che la eleggeva a sua musa, è stato donato dagli eredi al Comune di Ferrara.
L’immagine ormai atemporale delle tombe etrusche di Cerveteri, su cui si apre il romanzo, riallaccia il circuito memoriale richiamando il cimitero israelitico di Ferrara e, lì, la monumentale tomba dei Finzi-Contini in cui, eccetto il primogenito Alberto, morto di malattia nel 1942, non hanno trovato riposo i personaggi legati alla giovinezza dell’io narrante: Micòl, i genitori e la paralitica nonna materna, deportati in Germania nell’autunno del 1943. Un giardino edenico, introvabile sulle guide turistiche ma assimilabile al baudelairiano «vert paradis des amours enfantines» e memore del castello di Yvonne de Galais nel Grand Meaulnes di Alain-Fournier, fa da sfondo all’affascinante quanto imprendibile Micòl, novella Angelica destinata a sparire non per un anello fatato ma per gli orrori della storia. Proustiana figura di fuggitiva, eppur di prigioniera, la mitica e tragica Micòl trova il suo consistere solo entro il muro di cinta di un giardino fantasticamente creato sullo spazio verde cittadino che avrebbe potuto accoglierlo e chiude sé e l’io narrante, accomunati dal «vizio […] d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro» (Opere, cit., p. 513), in un cerchio fuori dal tempo e dalla storia. Come ribadisce l’Epilogo, l’adesione di Micòl, sulla scia di Mallarmé, a «le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui», ma soprattutto a un passato investito di dolcezza e di pietas, non sarà scalfita dalla fiducia in un domani democratico e socialmente migliore del giovane lombardo Malnate, destinato a perdersi tra le nevi della campagna di Russia. Fra il 1938 quando l’io narrante, espulso in quanto ebreo dal Circolo del Tennis, varca il muro di cinta del chiuso giardino, accolto dai correligionari Finzi-Contini nel loro campo da tennis, e l’estate del 1939, svolta di maturazione segnata dalla laurea e dalla rinuncia all’amore cui Micòl si rifiuta, si consuma una epoché della storia, il cui cammino si appresta a cancellare ogni traccia edenica, spazzando via singole vite che solo una memoria etica e civile saprà salvare.
Consigliere comunale di Ferrara per il Partito socialista nel 1962, Bassani si mobilitò, in linea con i principî di «Italia Nostra», per la salvaguardia dell’ambiente e dei beni artistici cittadini. Con Feltrinelli, sempre più aperto ai gruppi neoavanguardistici, a causa del libro di Alberto Arbasino, Fratelli d’Italia, rifiutato con richiesta di revisione nella collana da lui diretta, si ebbe una rottura, sfociata anche in una causa per spionaggio editoriale, vinta da Bassani. Dello stesso periodo fu l’accesa polemica proprio con il Gruppo ’63 che lo aveva definito, insieme a Cassola, «la Liala della letteratura italiana».
Nel 1964 uscì da Einaudi il romanzo Dietro la porta, il cui titolo veniva da lontano, se già nel testo di Rondò, in Una città di pianura, un adolescenziale protagonista ebreo si trovava ad ascoltare «dietro i muri, dietro le porte» (Opere, cit., p. 1542).
Romanzo breve, trascurato da critica e lettori, ma rivendicato dall’autore, al di là della confessione viscerale, come affresco etico-politico di un ambiente storico, Dietro la porta, in una Ferrara còlta tra il 1929 e il 1930, ripercorre l’emarginazione adolescenziale di un ragazzo ebreo, voce narrante al primo anno di liceo, nella conflittualità con il compagno di banco e primo della classe, Carlo Cattolica, dall’arianissimo cognome, e nell’ambiguo rapporto con un altro compagno, Luciano Pulga, mosso dall’invidia sociale. Il voyeurismo è tema portante del romanzo: se alla pensione Tripoli Pulga spia dietro al muro e alla porta i cambi dei pigionanti a ore, l’io narrante spia con le ciglia abbassate il comportamento di Luciano; spia dietro la porta socchiusa, su incitamento del prevaricante Cattolica, Luciano che sparla di lui; spia, da una porta a vetri, la sua stessa famiglia riunita a cena. E il ring che Cattolica ha apprestato in salotto perché i due compagni si affrontino a viso aperto, non sarà mai calcato, se il protagonista opterà per una fuga solitaria, suggello a ogni potenzialità di rapporto.
Nel 1964 Bassani divenne vicepresidente della RAI, in quota socialista e, nel 1965, eletto alla presidenza di «Italia Nostra». Nel 1966, in seguito alle nomine fatte in sua assenza, dette le dimissioni dalla RAI e dal partito, passando tra le fila dei repubblicani, ai quali lo legava tra l’altro la vecchia amicizia con Ugo La Malfa. Sempre nel 1966 uscì da Einaudi Le parole preparate, raccolta di articoli apparsi su periodici, poi riproposta e ampliata nel mondadoriano Di là dal cuore dell’84. Nel 1968, per Mondadori, uscì il romanzo L’airone, vincitore nel 1969 del premio Campiello e che rappresentò una felice volontà di rinnovamento della sua narrativa.
Voyeur per eccellenza è il protagonista, Edgardo Limentani, nel registrare il cui sguardo che si posa sulle cose senza parteciparvi lo scrittore si è servito di una tecnica da école du regard. Il «misero / Edgardo / incapace di dire di sì / al mondo / altrimenti che salutandolo» (Anche tu, in Epitaffio), pare nascere da proiezioni autobiografiche, come suggerisce la conversazione con Cancogni nella Fiera letteraria del 14 novembre 1968. L’atonia del personaggio Bassani si materializza nel quarantacinquenne Edgardo, trovando la sua veste storica nella crisi postbellica di una borghesia agricola ferrarese rimasta attardata sulla via dei rinnovamenti, senza alcuna spinta, né psicologica, né ideale, verso un ipotetico mondo nuovo. In un lungo percorso, coincidente con una battuta di caccia e consumato nell’arco di una sola giornata, in una discesa entro spirali d’angoscia, lungo metafore (il pozzo; un budello sotterraneo) che riecheggiano la botola che separa Pino Barilari dal mondo della storia, Edgardo abdicherà totalmente all’azione, accucciato come in sogno nella botte sperduta tra le valli. Nel riuscitissimo episodio-simbolo del romanzo, il protagonista, ceduto il suo costoso fucile al contadino che lo accompagna, l’ex partigiano comunista Gavino, assisterà passivamente allo sterminio degli uccelli per mano dell’altro e, infine, al gratuito ferimento dell’airone e alla sua spaurita agonia. Ed è questa buffa, inutile figura di airone andato scioccamente a cacciarsi nei guai, reminiscenza dell’albatros baudelairiano e del cigno del sonetto di Mallarmé caro a Micòl, l’unico possibile alter ego, la cui morte indicherà la via di un suicidio da consumare pudicamente fuori scena.
La riscrittura del romanzo di Ferrara e la nuova vena lirica
Nel 1970 uscì Il giardino dei Finzi Contini per la regia di Vittorio De Sica, dopo che Valerio Zurlini aveva abbandonato il progetto avviato nei primi anni Sessanta. Bassani sentì ‘tradito’ il suo testo anche in questa versione filmica (v., in partic., Il giardino tradito, in Di là dal cuore, cit., pp. 1255-1265) e ottenne, con un’azione legale, che fosse espunto il proprio nome dalla sceneggiatura. Nel 1972 uscì da Mondadori L’odore del fieno, raccolta di testi narrativi apparsi già in rivista o in volume, che chiuse l’epopea ferrarese e aprì alla ripresa lirica. La revisione della sua narrativa trovò collocazione nei successivi volumi mondadoriani di Dentro le mura (1973) e poi del Romanzo di Ferrara (1974), in edizione definitiva nel 1980 e comprensivo di Dentro le mura, Gli occhiali d’oro, Il giardino dei Finzi-Contini, Dietro la porta, L’airone e L’odore del fieno. Una rinnovata vena lirica si affermò con i versi di Epitaffio (1974) e di In gran segreto (1978), entrambi per i tipi di Mondadori.
Nel 1982 tutta la sua produzione poetica, oltre alle traduzioni (da Toulet, Char, Stevenson), fu riunita nel volume mondadoriano In rima e senza, insignito del premio Bagutta. Il titolo In rima e senza distingue due diversi periodi: il primo, già confluito in L’alba ai vetri e segnato dal ricorso alla rima e l’ultimo, delle due raccolte degli anni Settanta, con un accostamento a moduli prosastici e un dispiegamento tonale che ricorda sia il Montale di Satura sia l’Attilio Bertolucci (poeta cui Bassani si sentiva affine) di Camera da letto, in fieri sin dagli anni Cinquanta. Tra i due momenti, la lunga elaborazione del Romanzo di Ferrara. I versi di Epitaffio e quelli, contigui anche per ispirazione, di In gran segreto, sono tipograficamente collocati sullo schema di una lapide, sostitutiva della forma metrica, e si muovono su più registri: dalla polemica letteraria e dall’invettiva alla narrazione familiare, all’annotazione metaletteraria, alla persecuzione razziale e al fascismo ferrarese. I paesaggi si aprono, in un vagabondare che è l’asse portante di questi versi, e oltrepassano i confini italiani fino a quell’America da Bassani felicemente scoperta in quegli anni. La vocazione lirica che aveva suggerito, nel Giardino, la tesi su Panzacchi del protagonista (a sua volta poeta), quella su Emily Dickinson di Micòl e le discussioni poetiche con Malnate, si riafferma e rinnova dunque a partire da Epitaffio, ammirato da Pasolini come il suo libro più bello (in Tempo, 21 giugno 1974, p. 77) e riconosciuto dalla critica per la sua importanza nel contesto lirico contemporaneo.
Tra i paesaggi ispiratori di Epitaffio c’è anche Maratea, dove dalla fine degli anni Sessanta in poi Bassani, acquistatavi una casa, trascorse molte estati, legate anche all’intensa relazione con un’americana trapiantata a Parigi, Anne Marie Stelhein. Sul finire del 1977 conobbe Portia Prebys, un’insegnante americana, con cui condivise gli anni successivi fino alla morte. Negli anni Settanta si aprì un periodo ricco di premi e riconoscimenti, in Italia e all’estero, e si moltiplicarono i viaggi in Europa e in America, dove fu anche visiting professor.
Gli anni Novanta furono segnati da una lunga malattia degenerativa: morì la mattina del 13 aprile 2000 nell’ospedale San Camillo di Roma e, per sua volontà, fu sepolto nel cimitero ebraico di via delle Vigne a Ferrara.
Nel 2002 si concretizzò il progetto dei figli Paola ed Enrico di una Fondazione Giorgio Bassani, centro documentario e di iniziative culturali, con sede a Codigoro; il 4 marzo 2016, per il centenario della nascita, è stato inaugurato, nella restaurata Casa Minerbi della Ferrara medievale, il Centro studi bassaniani, dove confluiscono documenti e oggetti, lascito di Portia Prebys al Comune di Ferrara.
Opere
Per la bibliografia delle opere di Bassani si veda il volume La bibliografia delle opere di G. B., cui deve essere aggiunto La memoria critica su G. B., entrambi a cura di P. Prebys (Ferrara 2010). L’opera di Bassani è riunita, nelle sue stesure definitive, in Opere, a cura e con un saggio di R. Cotroneo (Milano 1998), con apparati a cura di P. Italia. Oltre a Il romanzo di Ferrara, già edito in ultima versione nel 1980 da Mondadori, il volume riunisce le pagine saggistiche di Di là dal cuore (1984), e le liriche di In rima e senza (1982). In Appendice è riproposto Una città di pianura del 1940, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, e la prima edizione presso Einaudi nel 1956 delle Cinque storie ferraresi. Gli scritti di impegno civile per la difesa ambientale sono invece raccolti in Italia da salvare: scritti civili e battaglie ambientali, a cura di C. Spila (Torino 2005). Il trattamento, inutilizzato, di Bassani dei Promessi sposi per la Lux Vide S.p.a. è stato edito da Sellerio con il titolo I Promessi sposi. Un esperimento, a cura di S.S. Nigro (Palermo 2007). Per l’epistolario, oltre a sparse pubblicazioni di lettere, si veda G. Bassani – M. Caetani, «Sarà un bellissimo numero». Carteggio 1948-1959, a cura di M. Tortora (Roma 2011). Nel 2014 è uscito da Feltrinelli Racconti, diari, cronache (1935-1956), a cura di P. Pieri, che raccoglie, oltre a testi editi come quelli sul Corriere padano, inediti del Fondo eredi Bassani.
Fonti e Bibliografia
Di là da numerosi e importanti atti di convegni, italiani e stranieri, qui non esaustivamente registrabili, si segnalano con attenzione alla critica più recente: I. Baldelli, La riscrittura ‘totale’ di un’opera: da «Le storie ferraresi» a «Dentro le mura» di B., in Lettere italiane, XXVI (1974), 2, pp. 180-197; P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino 1979, pp. 262-266, 333-336; A. Dolfi, Le forme del sentimento. Prosa e poesia in G. B., Padova 1981; E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano 1996, I, pp. 638 s.; II, pp. 1802 s., 1966-1971, 2444-2448; A. Dolfi, G. B. Una scrittura della malinconia, Roma 2003; P. Pieri, Memoria e giustizia. Le «Cinque storie ferraresi» di G. B., Pisa 2008; G. Vannucci, G. B. all’Accademia d’arte drammatica, Roma 2010. Nella collana «Bassaniana» della casa editrice Pozzi di Ravenna, sono usciti vari titoli, tra cui: P. Pieri, Un poeta è sempre in esilio. Studi su B., 2012; A. Giardino, G. B. Percorsi dello sguardo nelle arti visive, 2013; P. Polito, L’officina dell’ineffabile. Ripetizione, memoria e non detto in G. B., 2014; Lezioni americane di G. B., 2016 (vol. collettaneo dedicato al rapporto tra B. e l’America). Sul lavoro editoriale si vedano G.C. Ferretti – S. Guerriero, G. B. editore letterario, Lecce 2011 e il volume di atti G. B. critico, redattore, editore, a cura di M. Tortora, Roma 2012 (che contiene, tra l’altro, gli interventi sulle collaborazioni napoletane di B. di D. Scarpa, Lo scrittore scrive sempre due volte e Per una bibliografia napoletana di G. B., ibid., pp. 101-125). Per il B. lirico, tardivamente riconosciuto dalla critica ora propensa a dedicargli specifici articoli e convegni, si vedano M. Gialdroni, G. B. poeta di se stesso. Un commento al testo di «Epitaffio», Frankfurt a.M. 1996; A. Luzi, Esperienza vissuta e scrittura nella poesia di B., in Revista de Literaturas modernas, XLII (2012), pp. 77-102; M. Rueff, «Alas poor Emily». B. poeta, in Poscritto a G. B. Saggi in memoria del decimo anniversario della morte, a cura di R. Antognini – R. Diaconescu Blumenfeld, Milano 2013, pp. 387-426; A. Langiano, Per un profilo di G. B., in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI sec., Atti del XVII congresso dell’ADI… 2013, a cura di B. Alfonzetti – G. Baldassarri – F. Tomasi, Roma 2014 (http://www.italianisti.it/Atti di Congresso).
SERGEI ESENIN (1895-1925)-Poeta russo (n. nel distretto di Rjazan´ 1895 – m. Leningrado 1925).Fece parte dapprima a Pietroburgo del gruppo dei poeti contadini e poi dell’immaginismo, una scuola poetica nata a Mosca dopo la Rivoluzione. I suoi primi versi, raccolti nel volume intitolato al rito di commemorazione dei defunti, Radunica (1916), cantano con sommesso lirismo e con toni di umiltà religiosa la campagna attorno a Rjazan´. Esenin accolse la Rivoluzione con entusiasmo, esaltandola in poemi declamatorî e barocchi, quali Preobraženie (“Trasfigurazione”) e Inonija (“Altra terra”) del 1919. Ma ben presto la delusione provata di fronte al dilagare del progresso industriale, che trasformava la primitiva campagna, lo spinse a una vita disordinata di cui è un riflesso nel poema Ispoved´ chuligana (“Confessione d’un teppista”, 1921) e nel ciclo Moskva kabackaja (“Mosca delle bettole”, 1924) che contiene versi allucinati. Invano egli tentò di accostarsi a temi di argomento sovietico; l’alcolismo, la solitudine e la disperazione lo spinsero al suicidio. Egli è in sostanza un continuatore della tradizione di A. Blok, sia per la fluidità musicale dei versi, sia per il gusto della romanza zigana, sia per la sovrapposizione e per il connubio di vita e letteratura.
Descrizione-lI libro di Giulietto Betti ricostruisce quanto avvenne a Chiusi e nei suoi dintorni nel periodo che va dal 25 luglio 1943 al 2 giugno 1946: una fase storica piena di avvenimenti e segnata da innumerevoli tragedie, collettive e individuali. Vengono citati documenti e fonti, ognuna delle quali fornisce una propria versione dei fatti che sono visti dall’angusto angolino di ogni testimone. Dal confronto generale emerge dunque una visione complessiva dei fatti.
Scrive l’autore: Non pretendo di dire “ecco, questa è la verità, prendere o lasciare”, ma invece dico; questa è la storia secondo le fonti che ho potuto considerare, una storia vera e avvincente, anche se è una microstoria”.
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LaNuova Immagine Editrice è una piccola casa editrice di Siena fondata negli anni ottanta come cooperativa. Nel 2005 si è trasformata in una società a responsabilità limitata. La casa editrice si è specializzata in testi locali sulla storia, arte e cultura del territorio dell’Italia centrale. In particolare, si è occupata della pubblicazione del lavoro dell’archeologo britannico George Dennis, Città e necropoli d’Etruria e dei viaggi dello scrittore D.H. Lawrence.
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Giuseppe Tomassetti- Appello per la conservazione delle Torri della Campagna Romana-
A proposito delle Torri della Campagna Romana il Tomassetti scrisse:”…pensi il lettore , contemplandole ora così poeticamente desolate, quasi giganti feriti ed impietriti sul posto , a ricostruire la Storia con l’immaginazione , e figurarsi le feste, gli armamenti, le battaglie, tutto ciò che formò la vita agiata della Campagna Romana nel Medioevo; ed egli dovrà convenire con me che esse esercitano grande seduzione nella nostra mente. Pensino pertanto i proprietari dell’Agro Romano a conservare gelosamente questi ruderi dell’Arte e della Poesia; ne impediscano ai pecorari ed ai contadini la continua malversazione; pensi il Governo a farne compilare l’esatto elenco ed a farne regolare consegna ai proprietari, come dei Monumenti Antichi, sia perché hanno aspetto pittoresco , sia perché appartengono alla Storia; e col tempo la posterità dimanderà conto alla presente generazione del non aver arrestato e posto fine ai guasti dovuti all’ignoranza dei nostri predecessori.”
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