Laura Conti- Madre dell’ecologia italiana è stata partigiana, medico, politica Deputata PCI, scrittrice-
Nata a Udine il 31 marzo 1921, Laura Conti è stata partigiana, medico, politica, scrittrice e ambientalista che, attraverso il suo lavoro rivolto su più fronti, ha inciso un solco nel Novecento italiano, contribuendo allo sviluppo dell’etica ambientale in Italia e alla nascita delle narrazioni ecologiche. A causa dell’impegno antifascista della famiglia, è costretta più volte a cambiare dimora, fino a stabilirsi a Milano, e dopo aver terminato le scuole superiori si iscrive alla facoltà di medicina. Nel 1944, però, sente il bisogno di partecipare alla Resistenza entrando nel “Fronte della gioventù” con un incarico di propaganda presso le caserme: un attivismo che le costa l’arresto e la deportazione nel Campo di transito di Bolzano, un’esperienza dalla quale, qualche decennio più tardi, nascerà La condizione sperimentale (1965), opera nella quale ripercorrerà quei momenti; mentre la sua prima opera narrativa, Cecilia e le streghe, uscirà nel 1963. Rientrata a Milano, si laurea in Medicina e si specializza in Ortopedia, ma fin da subito continua nella sua attività politica, prima nel Psi e poi nel Pci, riuscendo, tra il 1960 e il 1970, a diventare consigliera alla Provincia di Milano, poi alla Regione Lombardia, e infine ad essere eletta alla Camera dei Deputati. Durante il suo impegno politico si occupa di tematiche femministe e ambientali, svolgendo un ruolo importante nella gestione della catastrofe ambientale che colpì Seveso nel 1976, trattata anche attraverso la pubblicazione di un saggio, Visto da Seveso (1977), e di un romanzo come Una lepre con la faccia di bambina (1978): la sua idea di politica ambientale la porta a elaborare un metodo di lavoro che l’accomuna ad una ricercatrice, convinta dell’importanza di sostenere le decisioni politiche che possano poggiarsi su solide basi scientifiche. Nella notte del 25 maggio 1993 muore a Milano per un malore improvviso.
(a cura di Andrea Pardi)
Laura Conti
Nata a Udine il 31 marzo 1921, ha vissuto a Trieste dove la famiglia aveva un’azienda commerciale che persero, a seguito del loro impegno antifascista. Si trasferirono prima a Verona e poi a Milano.
Non sono una scienziata, ma una studiosa dei problemi ecologici. Pur trovando affascinante lo studio, penso che sia importante anche agire ed operare. Per questo motivo ho deciso di fare politica: non basta studiare, bisogna anche darsi da fare.
Laura Conti, madre del movimento ecologista italiano, è stata partigiana, medica, ambientalista, scrittrice, politica eco-femminista. Ha fondato Lega per l’Ambiente, poi diventata Legambiente.
Ha scritto ventisei libri e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali, soprattutto per L’Unità.
Dotata di una grande potenza di scrittura, ha da sempre avuto un’attenzione particolare per i problemi dell’inquinamento ambientale.
Il suo pensiero contiene un dettagliato programma politico, mai attuato da nessuno, al cui centro risiede la tutela dei patrimoni genetici delle specie viventi.
Appassionata di natura e biologia sin da bambina, venne folgorata dalla lettura della biografia di Marie Curie che ne ispirò le scelte di studio.
Frequentava la facoltà di Medicina quando, nel 1944, è entrata a far parte del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. Giovane partigiana, col rischioso compito di fare propaganda nelle caserme, venne presto arrestata e detenuta, prima a San Vittore e poi rinchiusa nel Campo di transito di Bolzano, da cui riuscì miracolosamente a tornare. È l’unico caso che si ricordi in cui un’internata sia riuscita a far avere al giornale l’Avanti (che allora usciva clandestino) un articolo di denuncia sui campi di sterminio, ripreso poi anche da Radio Londra.
Quella forte esperienza fece spostare il suo interesse sull’impatto dell’ambiente sul corpo umano, soprattutto quello delle donne che le fece continuare la lotta politica e avvicinarsi al femminismo.
Dopo essersi laureata in medicina ha svolto servizio all’Inps, attività che le ha permesso di osservare gli strani effetti di certi ambienti industriali sulla salute di operai e operaie.
Ha militato nelle file del Partito Socialista e, dal 1951, in quello Comunista. Ha ricoperto l’incarico di consigliera della provincia di Milano per dieci anni e per altri dieci della regione Lombardia.
Segretaria della Casa della Cultura, ha fondato e diretto l’Associazione Gramsci. Nel 1980, ha partecipato alla fondazione della Lega per l’ambiente la famosa associazione ecologista che promuove attività concrete per la salvaguardia della natura e i suoi abitanti, di cui è stata presidente del Comitato scientifico.
Il suo primo libro è stato Cecilia e le streghe, con cui nel 1963 ha vinto il premio Pozzale. Romanzo che prende le mosse da un misterioso incontro fra due donne, nelle strade deserte di Milano in una sera di mezz’agosto e in cui affronta con toni poetici i temi della malattia, della morte, del dolore, della fede e dell’eutanasia, affrontando pienamente le pieghe del rapporto fra medico e paziente.
Sempre sull’esperienza nel lager, nel 1965, ha scritto il romanzo La condizione sperimentale.
È salita alla ribalta nazionale con la catastrofe di Seveso del 1976, provocata dalla fuoriuscita di una nube tossica contenente diossina da un’industria chimica. Per il suo ruolo di consigliera regionale, si era recata immediatamente sul luogo del disastro per seguire da vicino gli abitanti e, in particolare, le donne incinte a cui, per il rischio di malformazione dei neonati, venne eccezionalmente concessa la possibilità di abortire. Diritto raggiunto da tutte le donne soltanto due anni dopo.
Con le pubblicazioni Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina la sua popolarità ha varcato i confini nazionali e i suoi studi hanno ispirato, nel 1982, la direttiva sui rischi di incidenti connessi con determinate attività industriali della Comunità Europea, chiamata Direttiva Seveso.
Tra i libri che ha scritto ci sono anche Che cos’è l’ecologia,Questo pianeta e La fotosintesi e la sua storia capolavoro scientifico scritto per le scuole superiori, il cui tema centrale è l’aria e la storia della formazione dell’ossigeno.
Dopo aver ricevuto il Premio Minerva per il suo percorso scientifico e culturale, nel 1987 è stata eletta alla Camera dei deputati col partito dei Verdi.
È morta il 25 maggio 1993 a Milano.
Il suo archivio è stato lasciato alla Fondazione Micheletti di Brescia.
In sua memoria sono state compiute varie iniziative pubbliche, il Comune di Milano l’ha riconosciuta come Cittadina benemerita e le ha intitolato un giardino pubblico, Bolzano, invece, le ha dedicato una strada e sono stati scritti vari libri sulla sua vita e il suo importante contributo.
Laura Conti ha mostrato quanto possa incidere l’ambiente di lavoro sulla salute e quanto sia importante occuparsi di ecologia applicata nelle fabbriche e nelle periferie urbane.
La sua attività di divulgatrice è stata una vera missione politica.
Una donna che abbiamo il dovere di non dimenticare.
Fonte- una donna al giorno
Valeria Fieramonte-La via di Laura Conti
Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia
Valeria Fieramonte-La via di Laura Conti
Una biografia di Laura Conti che racconta la sua storia di impegno politico, che la vide giovane partigiana durante la Resistenza, prigioniera nel campo di concentramento di Bolzano e poi attiva nelle battaglie per i diritti umani, che percorre la passione e la dedizione alla scienza, alla medicina, alla biologia, all’ecologia, che dà conto del suo lavoro intenso di scrittrice e divulgatrice con 26 libri pubblicati e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali.
Laura Conti ha vissuto intensamente il proprio tempo, la sua storia individuale si è scontrata e intrecciata con gli eventi della Storia di tutti: la guerra, la resistenza, la ricostruzione, le speranze e l’impegno per edificare una società migliore per tutte e tutti, ma ha anche visto molto più lontano, individuando, grazie alla sua peculiare genialità sui temi ambientali, a un pensiero lucido, originale, limpido, alcuni temi che sarebbero diventati di grande importanza molti anni dopo, e che sono rilevantissimi per noi oggi. Come il grande tema dell’ambiente (celebri i suoi reportage e le sue battaglie a seguito del disastro ambientale di Seveso del 1976, quattro leggi della Comunità Europea in questo ambito sono ispirate da lei), della responsabilità del genere umano nei confronti del pianeta Terra, dello sviluppo sostenibile, o come il tema dell’educazione delle giovani generazioni, della
necessità della formazione di un’umanità più consapevole e libera.
Valeria Fieramonte scrive questo racconto in modo partecipe e appassionato tanto da riuscire a restituire quel senso della inestricabiltà della vita concreta di ciascuno: le scelte di vita, la politica, gli studi, i romanzi, i saggi, le esperienze più difficili, i successi e i riconoscimenti, le relazioni si susseguono in questo testo in un unico e coinvolgente flusso, come se quella vicenda umana del passato diventasse parte del nostro vivere di oggi. Alla fine questo notevole personaggio del Novecento ci sembra che potrebbe esserci vicina come una amica cara che conosciamo bene e di cui andiamo orgogliose.
Laura Conti riposa ora nel Famedio tra i milanesi e le milanesi illustri. La sua storia personale e il suo pensiero illuminato costituiscono un patrimonio prezioso che questo libro vuole contribuire a restituire a tutti e tutte.
Valeria Fieramonte, giornalista freelance in campo scientifico, laureata in filosofia all’Università Statale di Milano, ha lavorato in numerose testate, tra cui il «Corriere della Sera» («Corriere Salute»), «Le Scienze» e «Salve». Ha scritto con Giovanna Gabetta Sesso, amore e gerarchia. Pensieri liberi su differenze di genere e potere, 1998 e curato, in Lo snodo dell’origine, il saggio sul pensiero di Lynn Margulis. È membro dell’Ugis (Unione giornalisti scientifici italiani) e dell’Eusja (Associazione dei giornalisti scientifici europei). Nel dicembre 2015 è stata corrispondente per «La nuova ecologia» dal Congresso COP 21 di Parigi. Questo libro su Laura Conti, un tempo sua amica, è frutto di lunghi anni di studio sulla sua vita e sul suo pensiero.
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Augusta Perusia gennaio-febbraio 1907Copertina del primo numero della rivista diretta da Gnoli
Inizia una collaborazione con Trabalza, dedicandosi soprattutto al reperimento di immagini fotografiche[2] e all’impostazione redazionale della rivista che però, a causa degli alti costi, uscirà per soli tre anni[3].
Nel 1909 fonda una propria rivista dal titolo Rassegna d’arte umbra; si avvale del contributo di Dante Viviani, in qualità di garante scientifico, e del sostegno di intellettuali stranieri come Bernard Berenson, di politici come Cesare Fani e di molti esponenti della nobiltà perugina come Vittoria Aganoor (che sostiene economicamente la rivista), Rodolfo Pucci Boncambi, Vincenzo Ansidei e la contessa Margherita Hummel. Anche Rassegna d’arte umbra sarà pubblicata per soli tre anni, con un’interruzione di dieci anni fra la prima serie (1909-1911) e la seconda (1921). Nei primi numeri vengono trattate e valorizzate opere di Niccolò di Liberatore, detto l'”Alunno”, Pietro Vannucci, detto il “Perugino”, e Pietro Lorenzetti. Nel frattempo collabora ripetutamente con la rivista ufficiale del Ministero della pubblica istruzione, il Bollettino d’Arte.
Incarichi e collaborazioni
Sempre nel 1909 viene nominato Ispettore storico dell’arte presso la Soprintendenza ai Monumenti dell’Umbria. Nel 1921 è direttore della Regia Galleria dell’Umbria e soprintendente alle Gallerie, ai musei medievali e moderni e agli oggetti d’arte[4]. Redige un nuovo inventario della Galleria e si adopera per una nuova sistemazione espositiva, ampliando la sede museale ai piani superiori del Palazzo dei Priori. Promuove l’incremento del patrimonio con nuove acquisizioni, acquisti o donazioni. Entrano al museo opere di Arnolfo di Cambio, alcune tele settecentesche, una raccolta di tessuti umbri donata da Mariano Rocchi, un’opera di Francesco di Gentile da Fabriano. Si impegna nel 1923 per la valorizzazione di importanti collezioni ecclesiastiche favorendo l’istituzione del Museo dell’Opera del Duomo di Perugia. Durante l’incarico, durato venti anni (interrotti per partecipare alla prima guerra come tenente di artiglieria), pubblica numerose opere e favorisce la conoscenza in ambito nazionale e internazionale dell’arte umbra, intento condiviso con alcuni colleghi stranieri come Raimond van Marle, Frederick Mason Perkins e Walter Bombe, anche loro residenti a Perugia[5]. Insieme incentivano l’attività di recupero e restauro delle numerose testimonianze artistiche del territorio, contenendone la dispersione.
Si impegna anche per la salvaguardia dell’immenso patrimonio artistico dello Stato italiano, spesso trascurato e dimenticato, lasciato in rovina. Suo principale obiettivo è:
«…render conto di quanto si fa dagli enti e dai privati per la protezione del patrimonio artistico e riassumere quanto in Italia e all’estero si scrive sull’Arte umbra… e illustrare la regione ne’ suoi monumenti, far conoscere le opere inedite o mal note e pubblicare nuovi documenti»
(Umberto Gnoli. Introduzione al primo numero di Rassegna d’arte umbra[6])
Nel 1923 dà alle stampe Pittori e miniatori nell’Umbria con introduzione di Federico Zeri, testo che ancora oggi costituisce un importante strumento di informazione storico-artistica.
Viaggia molto in Italia e in Europa al fine di studiare chiese, musei e monumenti e fare ricerche nelle biblioteche e archivi. Si reca spesso anche negli Stati Uniti perché nominato nel 1927 rappresentante Europeo del Metropolitan Museum di New York, con l’incarico di acquistare opere d’arte in Europa[7]. Inoltre collabora alla rivista Art in America, bimestrale edito a New York da Frederic Fairchild Sherman.
Tra il 1926 e il 1929 per motivi di salute sospende l’attività lavorativa e da Perugia si trasferisce a Roma. Qui riprende gli studi iniziati dal padre circa la toponomastica della città, studi che nel 1939 saranno pubblicati in Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna. Il Ministero dell’Educazione Nazionale non rinnoverà il suo rapporto di lavoro, probabilmente per crescenti incomprensioni con il regime che non vedeva di buon occhio l’attività di consulente da lui svolta negli Stati Uniti anche per antiquari privati[8].
Nel 1908 sposa la contessa Margherita Hummel (1884-1922) con cui ha quattro figli tra il 1909 e il 1921; tre di loro muoiono in tenera età, sopravvive solo Claudine, nata nel 1917. Nel 1922 muore prematuramente anche la moglie[10]. Nel 1927 sposa in seconde nozze la giovane ceramista Annie de Garrou (1900-1994) con cui ha due figli: Domenico, artista di fama internazionale, e Marzia (1934). La famiglia De Garrou possiede una villa a Monteluco di Spoleto, alternano quindi la residenza fra Roma e l’Umbria. Il secondo matrimonio finisce nel 1940; Gnoli si ritira a Campello sul Clitunno restando molto presente nella vita e nell’educazione dei figli.
Muore a Campello sul Clitunno il 15 gennaio 1947.
Pubblicazioni
(Elenco parziale)
Le origini dell’architettura lombarda, Roma, Tip. dell’Unione Cooperativa Editrice, 1908.
I documenti su Pietro Perugino, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1923.
La Pinacoteca di Perugia, Firenze, F.lli Alinari, Soc. An. Idea, 1927.
Giulio Urbini, Disegno storico dell’arte italiana preceduto da un trattatello sulla tecnica delle arti figurative, a cura di Umberto Gnoli, Torino, Paravia, 1931.
Alberghi e osterie di Roma nella rinascenza, Spoleto, C. Moneta, 1935.
Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma, Staderini, 1939.
Cortigiane romane: note e bibliografia, Arezzo, Edizioni della Rivista Il Vasari, 1941.
Piante di Roma inedite, Istituto di studi romani, 1941.
Raffaello e la Incoronazione di Monteluce, in Bollettino d’Arte, 1917.
Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna: Supplement, ristampa, Foligno, Edizioni dell’Arquata, 1984 [1939].
Note
^ Umberto Gnoli, L’arte romanica nell’Umbria, in Augusta Perusia. Rivista di topografia, arte e costume dell’Umbria, I, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1906, pp. 22-25, 41-43. URL consultato il 7 marzo 2020.
^Una corposa raccolta fotografica di Gnoli è confluita nella fototeca di Federico Zeri. Cfr.: Giulia Alberti, Il fondo fotografico di Umberto Gnoli, su fondazionezeri.unibo.it. URL consultato il 6 marzo 2020.
^ Maria Raffaella Trabalza, Regionalismo nella cultura del primo Novecento: storia di una rivista umbra: Augusta Perusia (1906-1908), Le Monnier, 1981.
Umberto GNOLI-Stufe romane della rinascenza-Umberto GNOLI-Stufe romane della rinascenza-Umberto GNOLI-Stufe romane della rinascenza-Umberto GNOLI-Stufe romane della rinascenza-MATHIEU DE NOAILLES-Poetessa francese
L’indocile scrittura di Anna Franchi, paladina dei diritti femminili- Articolo di Laura Candiani-
Anna Franchi, paladina dei diritti femminili
Anna Franchi è stata una pioniera del femminismo, attenta e sensibile ai diritti delle donne in un’epoca in cui se ne parlava con prudenza e i soprusi venivano taciuti per ipocrisia e perbenismo. Non solo; è stata anche musicista, scrittrice, traduttrice, giornalista, biografa e critica d’arte; una intellettuale completa, i cui interessi hanno spaziato in molteplici campi. Di tutto ciò ci parla la bella, esauriente biografia dal titolo significativo Anna Franchi: l’indocile scrittura-passione civile e critica d’arte, scritta dalla studiosa toscana Elisabetta De Troja e pubblicata nel 2016 a cura dell’Università di Firenze. Il libro è anche arricchito da una scelta di testi significativi e da un album fotografico. Anna Franchi era nata il 15 gennaio 1867, quando Firenze era capitale del Regno d’Italia, figlia unica di una famiglia livornese benestante; Cesare, il padre, era commerciante, la madre, Iginia Rugani, una casalinga molto riservata. Anna aveva maggiori affinità con il padre e la nonna Ernesta con i quali condivideva gli interessi e l’amore per la letteratura e la musica. Comincia presto ad attingere alla biblioteca paterna e legge avidamente Giusti, Dumas, Guerrazzi, romanzi sentimentali, patriottici e storici. Diventa un’ottima pianista e a soli 16 anni, nel 1883, sposa il suo insegnante, il violinista Ettore Martini. La coppia si trasferisce ad Arezzo e poi a Firenze (1889), città nelle quali il marito è direttore teatrale.
Fra una tournée e l’altra in cui si esibiscono insieme, nascono quattro figli: Cesare, Gino, Folco (che muore bambino) e Ivo; tuttavia il matrimonio è infelice: Ettore contrae debiti, mantiene a fatica il lavoro solo grazie all’impegno della moglie, la tradisce, non sa fare il padre; sarebbe un bravo violinista ma è incostante e instabile, finché parte per l’America con i due figli maggiori (1903). Di fatto il matrimonio è finito da tempo e Anna è stata costretta a vendere la casa di Livorno e a mantenere i figli (pure affidati legalmente al padre). Intanto trova il tempo per migliorarsi studiando con Ettore Janni ed Ernesta Bittanti, allora universitari molto promettenti. Inizia a scrivere e comincia a pubblicare: escono le novelle Dulcia-Tristia (1898) e un libro illustrato per bambini (I viaggi di un soldatino di piombo). Negli anni di fine secolo si impegna nella Lega Femminile (che aderisce alla Camera del Lavoro) e poi nella Lega Toscana; è attiva a fianco delle “trecciaiole” nelle agitazioni del biennio 1896-97 e, pur non essendo iscritta ad alcun partito, è vicina all’ideologia socialista. Nel 1900 è ammessa nell’associazione dei Giornalisti milanesi (seconda donna, dopo Anna Kuliscioff) e scrive su quotidiani e periodici, fra cui il “Corriere dei piccoli” (con lo pseudonimo “nonna Anna”). Con brevi articoli di informazione artistica e corrispondenze (da Venezia e Parigi, ad esempio) collabora a varie testate; risulta essere la prima donna editorialista dei quotidiani “Lombardia” e “La Nazione”. Gli anni 1902-3 rappresentano il periodo in cui più si impegna per una causa che le sta a cuore: il divorzio. Il Codice civile (1865) e l’enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880) attraverso il potere dello Stato e della Chiesa ribadiscono la subordinazione femminile all’uomo padrone e signore in famiglia, ma anche nella vita sociale e professionale. Le donne non possono conseguire titoli di studio superiori, né decidere sui propri beni né stipulare contratti; la moglie deve condividere la residenza scelta dal marito e ne deve avere l’autorizzazione se vuole esercitare il commercio o compiere operazioni bancarie. Questa «mostruosa catena» (Sibilla Aleramo) si spezza nell’opera di Anna perché la protagonista del suo romanzo Avanti il divorzio rifiuta le convenzioni e un matrimonio iniziato con un vero e proprio stupro: «La prese brutalmente, violando quella purezza che gli si abbandonava quasi con incoscienza, la prese spudoratamente, nulla attenuando con gentilezza amorevole, senza risparmiarla (…)». Significativi i nomi della coppia: perché il riferimento autobiografico risulti ben chiaro, cambiano solo i cognomi (Mirello lei e Streno lui). Anna Mirello cresce, matura, rischia e cambia grazie a un nuovo amore, ma soprattutto grazie alla propria realizzazione attraverso il lavoro, la letteratura, l’indipendenza economica. La vera nemica della donna infatti è la rassegnazione (come spiegherà la scrittrice nel saggio Il divorzio e la donna). Interessante risulta anche il confronto con la posizione assunta dalla contemporanea Grazia Deledda che, nel medesimo anno 1902, pubblica il romanzo Dopo il divorzio, mentre veniva discussa e respinta la proposta di legge del Governo Zanardelli. Nel 1909 compare il secondo importante romanzo: Un eletto del popolo in cui la protagonista Mariangela viene abbandonata con un figlio da un deputato avido e arido preoccupato dalla carriera. Una vicenda che non può non ricordare quella personale vissuta dalla scrittrice e che rappresenta comunque una vittoria del coraggio e dell’anticonformismo perché la “sora Lange” rifiuta il cognome dell’uomo per il figlio e lo dispensa dall’obbligo del mantenimento. Nel 1910 esce un romanzo in forma di diario: Dalle memorie di un sacerdote, in cui Angelo, curato nella campagna toscana, soffre per le maldicenze dopo aver salvato da morte certa un neonato abbandonato dalla madre disperata sul greto di un fiume. Don Angelo prova pietà, sa capire e perdonare, mentre il Codice penale (art. 369) distingue fra omicidio e infanticidio (“omicidio scusato”), e libera l’uomo (padre/seduttore) da qualsiasi responsabilità. Per di più il Codice civile (art. 340) proibisce la ricerca del padre con ipocrite motivazioni. Oppresso dalla cattiveria dei parrocchiani e dai dubbi sulla propria fede, disgustato dai compromessi e dall’autorità ecclesiastica, don Angelo arriva al suicidio.
Anna Franchi, paladina dei diritti femminili
Nel periodo fiorentino Anna frequenta assiduamente i Macchiaioli e in particolare lo studio di Telemaco Signorini di cui parla ampiamente nella autobiografia (La mia vita-1940), in biografie specifiche e in saggi (Arte e artisti toscani dal 1850 ad oggi), accompagnati da conferenze molto apprezzate. La sua fama raggiunge la Francia – che frequenta durante le esposizioni internazionali – dove diviene affettuosamente “Franscì” per gli amici intellettuali, fra cui Matisse. Trasferita a Milano prosegue con fervore la sua attività di intermediaria fra i pittori, i galleristi e i collezionisti e scrive la biografia di Fattori (1910) di cui con sapienza mette in luce le doti nel saper rielaborare l’oggetto in modo tutt’altro che fotografico. Negli stessi anni varie testimonianze ricordano l’impegno di Anna sul fronte anticlericale messo in atto con scritti e conferenze; nel 1913 entra nella loggia massonica torinese “Anita Garibaldi” e nel 1914 fonda a Milano la loggia “Foemina superior”, il cui nome indica sia l’intento di «mettere sulla via della verità le giovani menti nelle quali si sviluppa uno spirito di osservazione critica» sia «l’aspirazione della donna verso il miglioramento spirituale». Siamo ormai alla vigilia della Grande guerra e Anna prende posizione da interventista con le opere Città sorelle (1915) e Il figlio della guerra (1917). Le tragiche vicende nazionali e internazionali la colpiscono duramente: il figlio Gino muore al fronte e il suo corpo non verrà mai ritrovato. Anna fonda allora la Lega d’Assistenza per le madri dei caduti, allo scopo di sollecitare la politica a prendere a cuore la situazione delle madri che non possono avere benefici economici nel caso i figli uccisi siano coniugati. Nel dopoguerra con coerenza Anna non entra nelle file del Partito fascista e invece si avvicina ai Valdesi tanto da diventare “direttore responsabile” del loro periodico “L’Appello”. Intanto continua a pubblicare saggi, romanzi, biografie (Caterina de’ Medici– 1932), racconti per bambini (Gingillo-1946) e a impegnarsi in pubbliche conferenze. Durante la Seconda guerra mondiale opera nelle file della Resistenza e, con la pace ritrovata, il 1946 è per lei un momento di grande soddisfazione: finalmente le donne italiane hanno accesso al voto attivo e passivo; si realizzava dunque il sogno di quelle pioniere come Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni che tanto a lungo e con tenacia si erano battute. Per l’occasione scrive Cose d’ieri dette alle donne di oggi. Ormai anziana prosegue tuttavia il lavoro e nei primi anni Cinquanta escono ancora sue opere.
Muore a Milano il 4 dicembre 1954, ma il funerale si svolge a Livorno dove è sepolta nella cappella di famiglia. «L’equilibrio dovrebbe nascere da una coscienza morale, da una dignità diversa tanto nel maschio quanto nella femmina (…) uguale al maschio? No. Inferiore? Nemmeno. Diversa ma non meno degna di tutte le considerazioni». (Per le donne, 1913) Le sono state intitolate una via a Olbia, una a Roma e un largo a Livorno.
Laura Candiani
Articolo di Laura Candiani-Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume e Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
Rivalutiamo Anna Franchi
scrittrice, giornalista, donna di cultura e di impegno civile per l’emancipazione femminile
Rivalutiamo Anna Franchi
Con questo progetto il Club intende rivalutare Anna Franchi una delle figure più significative del panorama intellettuale livornese e nazionale del primo Novecento per il coraggioso impegno messo nella lotta per la conquista di diritti allora solo maschili.
Cresciuta ed educata in un ambiente familiare ricco di memorie risorgimentali, porterà sempre con sé i valori della democrazia e dell’uguaglianza ricevuti dal padre, dalla nonna e dagli amici di famiglia che frequentavano la casa paterna.
Le sue vicende personali, poi, la spingeranno a battersi per una identità nuova della donna nella società e nel mondo del lavoro con chiari collegamenti agli ideali risorgimentali.
Anna Franchi, sostenitrice delle idee progressiste che fioriscono nella stampa femminista del tempo, si trova a vivere in questa fase di trapasso epocale e decide, a seguito del fallimento matrimoniale e delle difficoltà economiche, di lottare come giornalista affinché possa realizzarsi l’uguaglianza tra uomo e donna.
Anna Franchi nasce a Livorno nel 1867 e ottantasettenne muore in povertà a Milano nel 1954. La salma, rispettando le sue volontà, viene traslata a Livorno al cimitero dei Lupi dove si trova tuttora.
Alla Biblioteca Labronica Guerrazzi la Franchi lascia in dono numerose sue opere, articoli, manoscritti che oggi costituiscono il Fondo Anna Franchi ovvero la testimonianza di vita di una donna semplice, onesta e coraggiosa.
Il progetto prevede le seguenti 3 attività:
allestimento di una mostra delle sue opere artistiche e manoscritti secondo il seguente calendario:
– 28 novembre 2024 inaugurazione della mostra presso la Biblioteca Comunale Guerrazzi con apertura straordinaria domenica 1 dicembre e termine il 7 dicembre
– 6 dicembre 2024 presso la sala degli specchi del Museo Fattori conferenza conclusiva sull’attività letteraria, giornalistica e politica della Franchi
febbraio 2025 apposizione di una lapide commemorativa presso il Famedio del Santuario di Montenero dove a ora sono presenti solamente figure di grandi uomini illustri livornesi, sarebbe la prima donna ad avere questo riconoscimento ( data da definire)
marzo 2025 Intitolazione del plesso secondaria di 1° nel quartiere La Rosa dell’istituto comprensivo Bartolena ( data da definire)
Anna Franchi, la prima e l’ultima macchiaiola
Conferenza del critico d’arte Jacopo Suggi all’interno del Progetto Rivalutiamo Anna Franchi
Rivalutiamo Anna Franchi
Venerdì 6 dicembre, presso il salone degli specchi, all’interno della Villa Mimbelli sede del Museo G.Fattori ha avuto luogo una conferenza del giornalista e critico d’arte Jacopo Suggi dal titolo “Anna Franchi, la prima e l’ultima macchiaiola“.
Anna Franchi, paladina dei diritti femminili
Anna Franchi è stata una personalità eclettica, moderna scrittrice e giornalista d’arte, autrice di oltre sessanta pubblicazioni e innumerevoli saggi, drammaturga, musicista, ma anche attivista, mossa da una complessa coscienza sociale che la portò a combattere per tante cause, in particolare per i diritti delle donne.
Davanti a un pubblico attento e appassionato Jacopo Suggi ha messo in luce un altro aspetto di questa donna eccezionale: la sua passione per l’arte, i contributi dati come critica d’arte e i legami con il movimento dei Macchiaioli. Anna Franchi è stata infatti la prima donna che ha creduto nel movimento macchiaiolo: ne ha scritta la storia, ha conosciuti gli artisti, ha cercato per loro un mercato che ne riconoscesse il valore. Importante l’amicizia con Giovanni Fattori e la corrispondenza con molti pittori: le lettere ricordano non soltanto le loro intenzioni artistiche ma anche gli stati d’animo, le relazioni, i viaggi, i successi e anche i momenti di tristezza che venivano confidati all’amica Anna.
A seguire ha avuto luogo una visita guidata al museo G. Fattori, dove sono allocate le opere dei pittori macchiaioli. In alcune stanze sono state allestite bacheche con documenti e opere che mostravano l’interesse e il legame di Anna con gli artisti di quel movimento pittorico.
Un bel pomeriggio, il finissage della mostra che chiuderà i battenti sabato 7 dicembre, che ha avuto un grande interesse e partecipazione pertanto… è stata chiesta un proroga, speriamo di ottenerla!
-Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –
–Rivista PAN n°9 del 1935-
Victor Hugo-Scrittore francese (Besançon 1802 – Parigi 1885), figlio di Joseph-Léopold-Sigisbert (v.), che egli seguì da bambino nei suoi spostamenti (Corsica, Calabria, Spagna). Già nel 1818 e nel 1819 fu premiato nei “giochi floreali” di Tolosa: alla poesia si dedicò fin dalla prima adolescenza, durante gli studî al liceo Louis-le-Grand, imitando i classici, ma dichiarandosi soprattutto discepolo di Chateaubriand, poi di Lamartine, e fervente difensore del trono e dell’altare.
– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –VICTOR HUGO– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –– Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –
Victor Hugo-Scrittore francese (Besançon 1802 – Parigi 1885), figlio di Joseph-Léopold-Sigisbert (v.), che egli seguì da bambino nei suoi spostamenti (Corsica, Calabria, Spagna). Già nel 1818 e nel 1819 fu premiato nei “giochi floreali” di Tolosa: alla poesia si dedicò fin dalla prima adolescenza, durante gli studî al liceo Louis-le-Grand, imitando i classici, ma dichiarandosi soprattutto discepolo di Chateaubriand, poi di Lamartine, e fervente difensore del trono e dell’altare. Nel 1819-21 diresse con il fratello Abel il giornale Le conservateur littéraire; quindi si affermò come poeta con le Odes et poésies diverses nel 1822 (l’anno in cui sposò una sua amica d’infanzia, Adèle Foucher), cui seguirono: Nouvelles odes (1824) e Odes et ballades (1826; raccolta complessiva, con lo stesso titolo, 1828). Frattanto si era accostato al cenacolo romantico e aveva collaborato alla nuova rivistaLa Muse française (1823-24); ma la lunga prefazione al suo dramma Cromwell (1827), poi considerato il vero “manifesto” del romanticismo francese, fece di lui addirittura il capo acclamato e riconosciuto della nuova scuola, specie dopo il successo delle Orientales, un’altra raccolta di poesie (1829), che si distinguono per la vivacità del ritmo e della fantasia, e per un esotismo un po’ convenzionale, oltre che per il culto della libertà e di Napoleone. Nel clima che precedeva la rivoluzione di luglio, e dopo la censura del suo nuovo dramma Marion Delorme (1829), la prima rappresentazione del dramma Hernani (25 febbraio 1830), che rompe apertamente con la tradizione delle regole classiche, suscitò la violenta reazione dei classicisti e il delirante entusiasmo dei romantici. Fu per questi ultimi una “battaglia” vinta: l’avvenimento fece epoca e per molti storici successivi segnò l’inizio del vero e proprio movimento romantico in Francia. In seguito l’attività di H. non conobbe soste; continuò la serie delle sue raccolte poetiche: Les feuilles d’automne (1831), Les chants du crépuscule (1837), Les voix intérieures (1838), Les rayons et les ombres (1840), in cui l’ispirazione intimistica, religiosa e filosofica si alterna con quella politica e sociale, di poeta “vate”, interprete del suo tempo e profeta dell’avvenire. Una vera tribuna, del resto, egli fece spesso dei suoi drammi: nel 1831 fece rappresentare Marion Delorme, poi Le Roi s’amuse (1832), Lucrèce Borgia (1833), Marie Tudor (1833), Angelo tyran de Padoue (1835), questi ultimi tre in prosa, e quindi ancora Ruy Blas (1840), forse la sua migliore opera di teatro, e infine Les Burgraves, che invece cadde clamorosamente (1843). Intanto anche il romanzo lo aveva attirato: dopo i primi tentativi giovanili nel gusto del romanzo “nero” allora di moda, Han d’Islande (1823) e Bug Jargal (1825), pubblicò una delle sue opere più celebri, Notre-Dame de Paris (1831), colorita, grottesca evocazione della Parigi medievale e tipico romanzo “romantico”, interessandosi di problemi sociali e morali in Le dernier jour d’un condamné (1829) e in Claude Gueux (1834). In questo primo periodo della sua attività, H. svolse pienamente il programma del romanticismo francese: nella poesia, prevalenza e libertà dell’ispirazione lirica rispetto a tutte le regole codificate dal classicismo; concezione di una drammatica sciolta dai vincoli delle unità pseudo-aristoteliche; sia nel teatro, sia nel romanzo, una visione fantastica e passionale della vita, in un alternarsi e confondersi di elementi ora tragici, ora grotteschi. Questo rovesciamento della poetica classica tradizionale fu, in lui, troppo spesso programmatico: il che nocque non di rado alla sua opera, specie al teatro, in cui oggi è agevole riconoscere una struttura artificiosa, a spese della consistenza dei personaggi. Ma già prima dei Burgraves, la sua attività letteraria cominciava a cedere all’interesse per la vita politica, in un susseguirsi di passioni travolgenti, di onori, di lutti (amori per Juliette Drouet, per Mme Biard; elezione all’Académie française, 1841; tragica morte della figlia Léopoldine, 1843; nomina alla Camera dei Pari, 1845). La rivoluzione del 1848 lo orientò verso la democrazia: eletto deputato, partecipò con passione ai lavori dell’Assemblea legislativa, finché il colpo di stato del 2 dicembre 1851 non lo costrinse all’esilio, prima in Belgio, poi nelle Isole Normanne (Jersey e Guernesey), dove rimase per tutta la durata del Secondo Impero, riprendendo la sua attività letteraria. Pubblicò altre quattro raccolte poetiche: Les châtiments (1853), violenta satira contro Napoleone III e la sua corte; Les contemplations (1856), che segna un ritorno, con accenti più puri e drammatici, alla poesia intimistica, ed è, forse, fra le sue opere poetiche migliori con La légende des siècles (1859), grandiosa visione epica, per episodî, della storia dell’umanità; Les chansons des rues et des bois, infine (1865), poesie leggere e agili, d’un gusto quasi parnassiano. E dopo altre opere di satira politica in prosa, (Napoléon le petit, 1852 e l’Histoire d’un crime, 1877), tornò al romanzo con l’ampia epopea dei Misérables (1862), in cui gli intenti umanitarî si fondono con le rievocazioni storiche e i ricordi autobiografici, e poi con Les travailleurs de la mer (1866) e L’homme qui rit (1869). Tornato in patria dopo il 1870, fu di nuovo eletto all’Assemblea nazionale, da cui si dimise per protesta contro l’accoglienza ostile riservata dalla destra a Garibaldi, eletto deputato in quattro dipartimenti. Nel 1876 fu nominato senatore, ma ormai si dedicava quasi esclusivamente alla sua infaticabile attività letteraria. La produzione di questi ultimi anni è abbondantissima: il romanzo storico Quatre-vingt-treize (1873), altre due serie de La légende des siècles (1877 e 1883), Torquemada (1882), suo ultimo dramma, e numerose raccolte di poesie: L’année terrible (1872); L’art d’être grand-père (1877); Le Pape (1878); La pitié suprême (1879); L’âne (1880); Religions et religion (1880); Les quatre vents de l’esprit (1881); infine una serie di scritti politici, Actes et paroles (4 voll., 1875-85). Fra le numerose opere postume si ricordano il Théâtre en liberté (1886), la Fin de Satan (1886), Toute la lyre (1888) e Choses vues (1887 e 1900; ultima ed. accresciuta, 1913), notazioni e ricordi personali d’una grande efficacia e di vivo interesse. Se le opere scritte dopo l’esilio sono viziate dall’enfasi verbale cui il poeta indulgeva ormai senza freno, lo stesso carattere, seppure in misura minore, è diffuso in tutta la sua opera che peraltro rivela vena copiosa e ricca fantasia. Rimase perciò, salvo rari momenti, lontano da quella perfezione che divenne l’ideale dei parnassiani. Ma la vastità molteplice della sua opera, la grandiosità di talune sue concezioni, l’impeto del sentimento da cui è spesso animato fanno di lui una delle figure maggiori dell’Ottocento letterario europeo.
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Gemma Biroli nata a Novara da genitori lombardi, e` vissuta per molti anni a Milano.Tra le sue prime raccolte di versi l’indimenticabile LA NUOVA FRONDA, segnalazione di merito Premio Fusinato 1937, a cui seguirono altri volumi di inimitabile poesia, TEMPESTA SUL MARE (1948), TERRA LONTANA (1962) e OLTRE IL TEMPO (1969), un trittico lirico di ampio respiro e di calda ispirazione che le valse il riconoscimento di critici insigni e il cordiale consenso del pubblico. Nella produzione di poesia in versi si inseriscono la raccolta di prose UNO STRANO PAESE (1950) e RINTOCCHI DELLA SERA (1972) in cui il suo spirito, uscito da una estenuante lotta con il dolore, si innalza a considerazioni e contemplazioni di drammatica intensita`, sullo sfondo di due paesaggi a lei particolarmente se pur diversamente cari, quello ligure e quello della BASSA LOMBARDA, che sono come i motivi dominanti in una appassionata e dolente musica interiore. Collaboro` a quotidiani e periodici con elzeviri, liriche e saggi di critica letteraria. Coltivo` anche la pittura, a cui fu avviata giovanissima, da un valente pittore vigevanese Ambrogio Raffaele, della scuola del grande Fontanesi. Mostro` sempre un particolare gusto per i paesaggi delle terre che amava ed espose in mostre personali e collettive a Milano e in altre citta`.
Gemma Biroli
TEMPESTA SUL MARE: le liriche
LA BIMBA SU LO SCOGLIO
Io vedo vedo, là su la scogliera
che s’avanza nel mar come una frana
di ciclopici mondi, una bambina :
forse, dieci anni ; nera una treccina
su l’omero le scende,
ed il grande occhio assorto
ha una dolcezza grave
nel puro ovale del visetto smorto
sopra una personcina agile e dritta
ma tute asprezze come a marzo i pruno.
Presso la bimba ora non c’è nessuno.
Innanzi e intorno il mare :
calmo, sereno, che riflette il cielo.
E quella bimba solitaria sta,
come un’agave strana
che in alto avventa il lungo esile stelo,
sul dirupato scoglio ;
e immobilmente esplora,
fisso lo sguardo nell’immensità.
Quel ch’ella pensi, quel che sogni o senta
forse ridir non sa.
Ella è tuttor bambina,
e nera una treccina
su l’omero le scende
e il dolce viso ancora
di materne carezze si compiace
e la bocca di baci s’insapora.
Pur ella è sola, su lo scoglio infido,
sola di fronte all’infinito : e a un tratto,
come ciò avvenga ignora,
la vertigine folle
su l’orlo de l’abisso la sospinge.
Trema la bimba, ma si vince : e in cuore
forte premendo un grido,
da sua madre ritorna
come l’uccello al nido.
GOCCIA NEL MARE
Anche da bimba ella saliva un giorno
su un ermo picco in cima alla scogliera
donde mirava, nel più vasto giro
dell’orizzonte, il ciel sereno e l’acque.
Un’oscura vertigine d’un tratto
verso il baratro fondo la sospinse,
ma in tempo si ritrasse, e salva fu.
Su lo scoglio più alto di sua vita
or è giunta la donna e immota sta
come allor, solitaria, fisso l’occhio
nella remota e glauca immensità.
Non più acque, ma terra : la sua terra ;
non più l’urlo del mar ma uno stormire
di pioppi al vento e d’alte messi al sole.
Che più sogna la donna e spera e vuole ?
Strappare un canto alle sue zolle, un senso
dare alla vita, un’ala anche al dolore,
e poi tornar, goccia nel mar, perduta
nel seno immenso dell’eterno Amore.
I rintocchi della sera
dalla raccolta di prose “I rintocchi della sera” (Prefaz. di Cesare Angelini- Ed.Pan-Milano 1972)
Ampiezza di orizzonte sul mare, dominato dalla piccola chiesa eretta in cima alla scogliera. Su lei, nell’alto, placate distese di azzurro o incombenti minacce di nuvole nere nell’avvicendarsi inquieto dei giorni e delle stagioni. Sotto, ai suoi piedi, sciabordare di acque smeraldine o fragore di onde in tempesta. Una piccola chiesa, tra tanto spazio di cielo e di mare. Un punto fermo nel susseguirsi perenne delle generazioni, nel variare continuo degli eventi.
Come le ondate si accavallano per rompersi alla fine contro questi scogli e riconfondersi nel mare, così il flusso di innumeri vite umane batte alternamente a queste mura sacre per poi rifluire e disperdersi nelle oceaniche correnti dell’umanità.
Parole grandi ha la piccola chiesa: parole di eternità. un respiro più vasto di quello del mare la solleva al di sopra degli uomini e degli eventi, e dà alla sua voce una potenza che vince l’urlo del vento e il fragore delle onde in tempesta. Donde le viene tanto potere ? Un divino messaggio le fu affidato, si che essa non teme assalto di forze nemiche, nè confini di terra o di mare. Per ogni uomo di ogni generazione che passa, essa ha parole che non passeranno.
All’alba, a mezzodì, a sera parlano le campane della piccola chiesa con rintocchi gravi e imploranti che il vento porta lontano. ma il cuore in ascolto li sente vicino, li fa voce della sua voce, espressione dei suoi sentimenti. E se i rintocchi dell’alba e del mezzodì sembrano colorirsi di composta letizia, quelli della sera si fanno densi di presagio, come l’ultimo appello del giorno sulle soglie del mistero notturno.
Già il sole è sparito all’orizzonte lasciando ricordo di sè alle nubi vaganti che si arrossano del suo infocato addio. Già di viola si tinge la scogliera superba, che porta al sommo una cupa selva di pini. E una falce di luna affiora nel cielo, e qualche stella, lì accanto, ne trema di dolcezza.
Vasto il mare che sfugge lontano, dietro l’ultima carezza di luce; vasto il cielo che sopra gli incombe col suo pullulante ammiccare di costellazioni. La notte è vicina.
E il cuore in ascolto sente che non potrà affrontarla senza sgomento, e teme per quel che sarà. Ma ecco, dall’alto del campanile, quei rintocchi soavi solenni. Essi afferrano l’anima che sta per naufragare e piano, senza sussulti, la riportano a galla ancorandola ad una segreta speranza. Il giorno è finito. La notte imminente: quel che resta di vita è simile al riverbero del sole scomparso che arrossa le nubi, al suo estremo riflesso di luce sul mare.
Ma una certezza affiora dal fondo dell’anima, si accende come gli astri del cielo, prorompe in ardente preghiera coi rintocchi della piccola chiesa cui è affidata la grande promessa di un domani senza tramonto.
“Un descrivere che è un dipingere…”
dalla prefazione di Cesare Angelini
Gemme di Poesia
Destarmi, un’ alba, dopo greve sonno,
immemore di tutto: e ritrovarmi
in cuor soltanto la dolcezza strana
della stupita adolescenza
da ‘Alba’ (La Nuova Fronda)
Non me: quell’ altra tu volevi: quella
che da tant’ anni senza te rimasta
a Dio chiedeva la sua mamma. Intesi
con uno schianto il vero. E la sorella,
piccola e sola, paga fu nel cielo.
da ‘La piccola Gemma’ (La Nuova Fronda)
The early days
GEMMA BIROLI, nata a Novara a molta distanza dai fratelli, aveva appena compiuto i nove anni quando il padre morì. Tutta chiusa nella sua precoce esperienza di dolore, che ne aveva scossa profondamente la delicata sensibilità, pur dando segni di particolare amore allo studio, mal si adattava alle formalità della vita scolastica.
Da parte sua la madre non aveva nessuna intenzione di farle conseguire un diploma, convinta com’era che la più alta missione della donna fosse quella di dedicarsi alle cure della casa e della famiglia.
Intanto il primogenito alla vigilia della laurea era stato costretto a interrompere gli studi per la lunga e estenuante degenza del padre al quale aveva dovuto in qualche modo sostituirsi nel disbrigo degli affari di famiglia. Per di più allo scoppio della grande guerra il secondogenito partiva per il fronte, ove rimase per tutta la durata delle ostilità compiendo interamente il proprio dovere con entusiasmo e con elevato spirito di abnegazione.
Quegli anni trascorsi tra continue apprensioni e timori non dovevano certamente contribuire a rendere gaia e spensierata la prima giovinezza di Gemma Biroli.
Nel frattempo la famiglia si era trasferita a Vigevano ove la madre, dopo tante dolorose vicende, poteva finalmente trovare una relativa quiete nella vicinanza del suo paese natio e dei congiunti ivi rimasti. Nella ridente e industre cittadina lombarda la giovinetta frequentò i corsi magistrali presso l’Istituto S. Giuseppe saggiamente retto dalle Suore Dominicane e nel tempo stesso si dedicò anche alla pittura sotto la guida di Ambrogio Raffele, insigne paesista già allievo di Fontanesi, ormai ritiratosi nella natia Vigevano dopo lunga e feconda carriera.
Ma una più profonda e segreta passione Gemma nutriva in cuore per la poesia sulla quale doveva particolarmente influire l’elegiaca bellezza della pianura Lomellina e quella così diversa di un impervio lembo di riviera ligure ove ella di frequente soggiornava.
Nella definitiva residenza di Milano, ove la famigliola aveva raggiunto il primogenito che già vi esercitava la sua professione, la giovane scrittrice non potè fare a meno di manifestare la sua ormai meditata tendenza artistica, e per incitamento di amici e intenditori si indusse a pubblicare il volume Le Prime Liriche.
“Spalancar le finestre, a notte fonda,
su uno stellato ciel di chiaro autunno:
null’altro udir per le campagne assorte,
fuse nell’ombra, che il frusciar in sogno
d’un pioppo giovinetto e lo sciacquio
roco d’un’acqua tra celate sponde:
sentir la terra piccoletta e muta
sotto l’immensa cavità stellare
riscintillante come un mar senz’onde
nell’infinito seno: in un pio slancio
alzar la fronte e tendere il pensiero
sino a sfiorar l’eterno: e poi tornare
con umiltà sul proprio stento umano,
chiudendo in cuore un palpito di stelle.”
– Bino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo Soffici –Edizione Vallecchi, Firenze 1935
Articolo di Giuseppe De Robertis per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°4 del 1935-
Bino BINAZZI-nacque a Figline Valdarno il 12 novembre 1878 e morì a Prato il 1 maggio 1930.Emigrato a Prato da Figline Valdarno all’età di vent’anni, Binazzi non riuscì a completare gli studi universitari per le ristrettezze economiche e dovette accontentarsi, per vivere, di lavorare a lungo come istitutore in vari collegi (tra i quali il Cicognini, dove ebbe modo di insegnare greco e latino al giovane Malaparte).
Bino BINAZZIBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI-Rivista la Brigata
Breve Biografia di Bino Binazzi
Bino BINAZZI-nacque a Figline Valdarno il 12 novembre 1878 e morì a Prato il 1 maggio 1930.Emigrato a Prato da Figline Valdarno all’età di vent’anni, Binazzi non riuscì a completare gli studi universitari per le ristrettezze economiche e dovette accontentarsi, per vivere, di lavorare a lungo come istitutore in vari collegi (tra i quali il Cicognini, dove ebbe modo di insegnare greco e latino al giovane Malaparte). Dotato di una vasta e solida cultura, tenne rubriche di critica letteraria per vari periodici e conobbe, frequentando il caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, molti dei più bei nomi della cultura italiana: Svevo, Savinio, Marinetti, Palazzeschi, Moretti, Carrà e Morandi, Papini e Soffici, fino a Dino Campana, di cui intuì subito la grandezza, curando la prima edizione dei “Canti orfici”. Buon poeta egli stesso e acuto saggista, Binazzi, temperamento schivo, non volle mai “promuovere” troppo la sua opera, anche se da questo gliene derivò una costante amarezza, con la sensazione di essere ingiustamente marginalizzato. Fra i suoi scritti più apprezzati, Cose che paiono novelle (1913) e La via della ricchezza (1919). In un’epoca in cui la massoneria attirava ancora gli spiriti liberi – e non soltanto politici, militari, imprenditori, manager e professionisti -, Binazzi fu iniziato a Prato, nel 1906, presso la loggia “Intelligenza e lavoro”; fu anche socialista, benché l’amico Soffici lo dichiarasse, pochi anni dopo la morte, un fascista convinto (forse per guadagnare un po’ di benevolenza verso la figlioletta di lui, rimasta orfana di entrambi i genitori).
Binazzi fu legatissimo alla sua città d’adozione, pur non nominandola spesso nelle sue opere; piace allora lasciare qui la sua figura melanconica con i versi di una delle sue rare serene poesie (Ciro Rosati e Arnaldo Brioni erano due noti insegnanti della R. Scuola professionale di tessitura e tintoria di Prato, poi Istituto Tullio Buzzi):
Io, Rosati e Brioni tre alchimisti atei
o panteisti secondo le occasioni,
in un momento di nostalgia
ci s’era fatti monaci,
ma monaci di lusso
non frati da strapazzo,
in una bianca badia
detta del Buonsollazzo.
Bino Binazzi Insieme a Francesco Meriano, nel 1916 fondò una rivista: “La Brigata”, che però ebbe breve vita. In seguito fu collaboratore del “Nuovo giornale” di Firenze e redattore del “Resto del Carlino”. Già a diciannove anni cominciò a pubblicare volumi di versi che molto debbono al Carducci, al D’Annunzio, al Pascoli e ai poeti crepuscolari.
Canti Orfici di Dino Campana
Bino Binazzi: Gli ultimi bohêmiens d’ltalia. DINO CAMPANA
da «IL RESTO DEL CARLINO» (Bologna), 12-IV-1922
È balzato fuori dalle mie valigie di nomade un libercolo, che mi è particolarmente caro. Una curiosità bibliografica ormai rara a trovarsi che assomma in se le grazie di una brochure francese, e la ingenuità grossa e casalinga del Sesto Caio Baccelli o del Barbanera.
Questo libro è un gran libro. Forse la più potente e originale raccolta di liriche, che abbia prodotto il ventiduennio di questo secolo di burrasche e di bestialità. L’autore? Dino Campana, nome ancor quasi sconosciutissimo, come ho dovuto dolorosamente accorgermi, facendo degli assaggi in certi angoli di penombra, ove ancora si raduna qualche pavido gruppo di giovani dediti alle lettere.
Egli irruppe improvvisamente come una meteora dalle miriadi di colori sotto i cieli alquanto bigi del futurismo prebellico; poi, quando ancora la ecatombe umana non era compiuta, dileguò nelle tenebre della follia. Ma il suo passaggio aveva lasciato fra lo scialbore elettrico e malato della atmosfera letteraria italiana un odor pirico di sagra e di battaglia: battaglia classica, omerica, serena, senza ferocia e senza cretineria. E ai lirizzatori dei colorini delle «mente glaciali» e dei visi flosci dei bardassa e delle veneri volgivaghe aveva insegnato la lirica degli azzurri alpini e delle vastità oceaniche e la bellezza del corpo sodo e seminudo ďun mozzo genovese o ďuna lavandara dell’Appennino, accordante, fra le nevi e fra le rocce, il ritmo del suo stornello di calandra al fiotto della sorgente che alimenta il bozzo limpido alla sua fatica di purificatrice delle umane sozzure.
Ma io non posso e nessuno potrebbe dir della poesia di Campana in modo da farne avere un benché minimo sentore a chi legga. È necessario per farsi un’idea della forza, stranezza, originalità di questa lirica elementare aver sotto gli occhi il libercolo introvabile, ormai; e che nessun editore, tra i tanti editori che vegetano lungo tutto lo stivale, pensa nè penserà mai di ripubblicare.
Intanto come il suo grande antenato Torquato Tasso, Dino Campana, in una cella di manicomio, scrive e scrive; e gli illustri psichiatri, che capiscono di poesia sempre infinitamente meno di quel che un poeta capisca di psichiatria, vietano a critici e ad artisti di esaminare le carte vergate dal pazzo sublime. Quanto più savi i custodi del manicomio di SanťAnna, che permisero almeno libertà e gloria alle liriche del gran recluso, autor della Gerusalemme!
Ma chi potrà dire adeguatamente della lirica di Campana «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto barbaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi ďoro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi, nell’arabesco di marmo, un mito si cova, che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea?».
Occorre aver letto. E per chi volesse cercare il volumetto raro dirò che esso porta il titolo di Canti Orfici e che fu stampato a Marradi nella tipografia F. Ravagli, l’anno 1914.
*
Fra gli ultimi bohêmiens ďltalia Dino Campana è il più tipico ed il più grande. Nessun altro ebbe una vita di miseria avventurosa da paragonarsi alla sua.
Assillato da un sogno incoercibile di vastità e di libertà, egli ha percorso nel suo trentennio il più lungo e il più doloroso di tutti i calvari. Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni.
A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo – un altro è ben diverso nelle sua modestia e mediocrità di impiegato – del signor direttore delle Scuole.
A Bologna qualcuno lo ricorda studente universitario di chimica, bisbetico ed irascibile, sognante come un alchimista e niente affatto freddo e positivo come uno scienziato. Sovversivo, anarcoide, imperialista, violento e tenero al tempo stesso; di una mobilità sentimentale che percorreva rapida come il fulmine tutta la gamma del sentimento umano: dalla mitezza più francescana alla violenza rasentante, a volte, la ferocia, egli non aveva in se alcuna possibilità di giungere a buon termine nello studio accademico intrapreso. Difatti, dopo aver lasciato dietro di sè una scia di stramberie memorabili, un bel giorno disertò le aule universitarie e il gabinetto delle soluzioni, delle miscele e delle reazioni per studiare una chimica più vasta, che avesse per materia ďesperienza il mondo intero e per gabinetto l’universo.
Anche Shelley fu un chimico mancato. La coincidenza non è fortuita. La chimica è la scienza del mistero e del miracolo. n gran fatto leggendario della Genesi può vedersi riprodotto entro le minuscole dimensioni di una fialetta di vetro o di un crogioletto di platino. Nulla è sostanzialmente più adatto ad attrarre la curiosità di un poeta cosmico; di un grande poeta.
Ma la ragione stessa, che indusse il poeta ad iniziarsi alla disciplina del chimico è quella che ne determina la più o meno sollecita evasione.
Shelley fu espulso dallo studio della scienza per ragioni indipendenti dalla sua volontà. Ma c’è dà giurare che, in ogni modo, egli sarebbe stato un infedele per amor della poesia. Campana la ruppe senz’altro di propria spontanea volontà; quantunque, a volte, nelle sue pellegrinazioni di nomade, sentisse sorgere in se la tarantola di non so quali velleità di innovatore della disciplina abbandonata.
*
Poiché Campana non aveva il módo di poter secondare il suo spleen con viaggi regolari e bene equipaggiati, dovette, con un coraggio davvero inaudito, romperla completamente cogli usi e le costumanze e convenienze della sua classe piccolo-borghese, per entrare nella vera categoria dei girovaghi, ciarlatani, suonatori ambulanti, accattoni, saltimbanchi, truccatori di ogni genere.
In verità il salto nel mondo della «leggera», per un tempera-mento facile alla suggestione come quello del nostro, era alquanto pericoloso.
Era un tuffarsi a capo fitto nei marosi ďun giorno di tempesta, senza aver prima misurato la propria vigoria di nuotatore. Tanto più meritoria ne fu l’audacia, in quanto, sia pure attraverso esperienze inenarrabili, il Campana potè, un giorno, tornare a riva recando alto fra le mani già candide, e ormai arrozzite da mestíeri, cui non erano nate, il rotolo manoscritto dei suoi Canti Orfici.
Ma l’esperienza fu troppo aspra. Di qui l’ottenebramento improvviso delle sue facoltà. Nella diuturna, disumana tensione, parve che la corda centrale della grande lira si fosse spezzata…
*
Ma intanto, nella sua opera si sente per la prima volta la vibrazione lirica dell’anima del nostro popolo migrante in cerca di pane o di fortuna. Entro un ampio periodo strofico si può saltare, attraverso vastità oceaniche, dal silenzio solitario di una estancia argentina con nenie di gauci «suadenti il lontano sonno» alla gaiezza festiva di una primavera fiorentina o all’affaccendamento lieto di un pomeriggio autunnale bolognese, quando
le torri nel tramonto accese
fra il vicendevole vento
di dietro i palazzi vegliano le imprese
gentili del serale animamento.
E risultato più grande di questa sua vita di gaucho, di carbonaio, di minatore, di poliziotto, di zingaro al seguito di una tribù di bossiaki russi, di saltímbanco, di tenitore di un tiro a bersaglio, di sonator ďorganetto e di mille altre diavolerie, fu una cultura linguistica e letteraria veramente di eccezione.
A volte, a sentirlo parlare con un mescolio di frasi appartenenti a tutte le lingue, ci si domandava come poteva fare a ritrovar tutta l’antica bellezza dell’idioma materno.
E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava, colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo, specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa. E le lingue di tutti questi popoli eran da lui si bene possedute da render via via la illusione ancora più perfetta.
*
Quando giunse – diremo così – alla ribalta della notorietà letteraria non era più giovincello. Aveva provata ogni amarezza ed ogni esaltazione umana. Aveva conosciuto il fasto multicolore di mille sagre e di mille kermesses e anche il fondo oscuro di qualche prigione e di qualche manicomio.
Si presentava come un tipo attraente e sconcertante al medesimo tempo. Parlava lento, come se l’italiano che usciva dalla sua bocca fosse la traduzione faticosa da qualche lingua straniera. Pure a certi momenti, quando le facoltà luminose del suo intelletto, accendendosi tutte, lo ponevano in istato di grazia, riusciva a dir delle cose addirittura meravigliose, anche per profondità. Sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei vari popoli con pochi tocchi dà maestro. Ma, mentre si aspettava intenti ancora una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale.
Ed allora se la prendeva con Tizio o con Caio (con letterati sempre) e poteva anche offendervi e minacciarvi. Poi tornava buono, tenero, piangente. Si umiliava per esaltare altrui, mendicava affetto con disperata trepidazione. Chi sa che cosa vedeva la sua anima, lassù in quella altitudine e in quella vastità, ove egli la aveva condotta? Quali abissi dinotava lo stridulo sarcasmo della sua risata?
Egli era di natura aquilina; e, anche dal fondo dell’inferno, poteva sentirsi sicuro della forza delle sue ali e pensare che l’azzurro era ancora per lui, ogni volta che avesse dato un colpo di ascensione colle remiganti robuste.
Ma un debole, che gli fosse stato vicino in quei momenti non poteva non provare un senso di sgomento.
*
AI suo ingresso nei milieux letterari di Firenze e di Bologna egli non mutò le sue abitudini. Colla sua «nobel tasca de paltone», ove conservava, coi documenti di girovago, un giornale con un articolo del sottoscritto e uno con una nota critica di Cecchi andava di tavolino in tavolino per i caffè più noti a vendere i suoi canti.
E spesso scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva coi suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana è un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che 1’acquirente non le avrebbe mai capite.
AI Paszkowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai. Tutto il pubblico dei frequentatori lo imparò a conoscere e a considerarlo colla più viva curiosità.
*
Egli, ogni tanto, si appartava dagli amici per leggersi in pace l’articolo mio o la nota di Cecchi. Si calcola che li abbia letti migliaia di volte. Perché era sensibilissimo alla lode; e giungeva anche a sollecitarla con ingenue adulazioni. Ma era difficile che fosse contento, quando qualcuno avesse scritto di lui. Piano piano venne nella persuasione – giusta del resto – di essere un poeta grandissimo e che nessun elogio gli fosse adeguato.
Poi cominciò una specie di mania di persecuzione.
«Son triste a morte e presto morirò, mio caro Bino. Ti mando un grande bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti».
É l’ultimo saluto che egli mi inviò – tanto triste! – prima di varcar la soglia di Castel Pulci, succursale della Clinica Psichiatrica fiorentina.
Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti.
Possa almeno la sua grande musa confortarlo qualche volta nello squallore del suo tragico asilo.
E chi sa che egli non trovi più adeguata e dolce compagnia fra il popolo sognante dei suoi compagni di ricovero che fra la bestialità zuccona e sanguinaria delle novissime generazioni, da cui egli un tempo e vanamente sperò gratitudine, plauso e gloria.
Bibliografia:
M. Bartoletti Poggi, “Bino Binazzi”, in “Poeti italiani del Novecento.La vita, le opere, la critica”, a cura di G. Luti, Roma, Nuova Italia scientifica, 1986, pp. 35-36
V. Franchini, “Bino Binazzi- Il poeta, lo scrittore, il giornalista nel quarantesimo della morte in un carteggio inedito con Giovanni Papini, Quaderni de “Lo Sprone”, Firenze, 1970.
Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ‘800 e ‘900. L’area fiorentina, a cura di E. CAPANNELLI – E. INSABATO, Firenze, Olschki, 1996, pp. 97-98-
La Poesia e la Pazzia di Campana-Di Giuseppe Ravegnani
Da «La Stampa» di sabato 4 agosto 1928
Quando, sul principio del ‘14, per i rozzi tipi del Ravagli di Marradi uscirono i Canti Orfici di Dino Campana, grande e chiassosa fu l’entusiastica meraviglia, specialmente nei gruppi dei giovani dediti alle lettere. Dei critici di fama, soltanto Emilio Cecchi ne parlò, in un colonnino della Tribuna. Gli altri, silenzio e noncuranza. Così, il nome di Dino Campana, poeta antico, passò, dopo una felice giornata di gloria. Infatti, chi mai ancora oggi ricorda la sgraziata «brochure» giallina, simile più a un lunario paesano che a un libro di canti?
In quei tempi poco tranquilli, di battaglie e di ricerche sperimentali, la poesia aveva un nome solo: Arthur Rimbaud; e la fredda rarefatta luce delle Illuminations o di Une saison en enfer abbacinava la nostra gioventù letterata, guidandola verso un lirismo che fu chiamato puro e mediterraneo. Erano i giorni della Voce di De Robertis e dell’Acerba di Papini; da qualche anno Soffici aveva pubblicato il suo saggio sopra Rimbaud, che allora era sembrato un capolavoro; i volumi gialli del Mercure de France si vendevano come bibbie; e la bohème trionfava nei suoi ultimi rappresentanti.
Di Dino Campana, nato a Marradi, di famiglia agiatamente borghese, e fuggito poco più che ventenne pel mondo, già si favoleggiava. La sua vita agitata, le sue stramberie memorabili, il suo inquieto nomadismo, il suo carattere torbido ed esasperato lo imparentavano con i Varlaine, i Rimbaud, i Corbière, cioè con i tre Re Magi della poesia moderna. Lo si sapeva studente di chimica mancato come Shelley, e come Shelley bello di viso e di corpo, suonatore ambulante d’organetto e di piffero, saltimbanco, ginnasta, gaucho, minatore, zingaro in una tribù di bossiaki russi, tenitore di un tiro a bersaglio, poliziotto, prestigiatore, carbonaio, sovversivo, anarcoide, imperialista, in giro per l’Europa e per le Americhe, ora in un ospedale e ora in un manicomio, ora ricco e ora squattrinato, ribelle a leggi e a costumi, anima in pena in cerca di pane, di poesia e di gloria. Che volete di più? Tanto bastava per farne una specie di mito, una figura di “poeta, maledetto”, uno di quei spettri vaganti, di cui cantò Verlaine nel suo soggiorno a Londra, assieme al poeta del profetico Bateau.
Bino Binazzi, che con amore d’amico ha curato presso il Vallecchi la stampa dell’Opera completa di Campana, aggiungendo ai Canti Orfici le poche poesie della Voce e della Riviera Ligure (Canti Orfici ed altre liriche. Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi. Vallecchi editore. Firenze, 1928), così ce ne parla: «E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di Borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico, si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa». Oppure: «sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei varii popoli con pochi tocchi da maestro. Ma, mentre si aspettava, intenti ancora, una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale». Anche nella pagina scritta, dopo qualche periodo meravigliosamente limpido e perfetto, noi riudiremo cotesta risata, nata dalla misteriosa ombra della follìa.
Spesso, Campana girava per i caffè più in voga, a vendere i suoi canti; e allora, narra sempre Binazzi, egli scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva col suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana era un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che l’acquirente non le avrebbe mai capite. Al Paskowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai».
Dopo pochi anni dalla pubblicazione dei Canti Orfici, Dino Campana, già tormentato da una specie di buia manìa di persecuzione, venne rinchiuso a Castel Pulci, pazzo.
***
Oggi, a quasi quindici anni di distanza, l’opera di Campana viene a mostrarsi in diversa luce: più ferma e più composta. Se allora, per i gusti dei tempi, essa apparve come la tipica e più alta espressione del modernismo lirico; e perciò applaudita e difesa proprio in quei punti dove la fiamma dell’ispirazione in tenebre crolla; oggi, invece, a chiunque la riguarda senza preconcetti, ma con l’animo di scoprirla nelle sue umili e genuine qualità, si rivela indistruttibilmente classica e antica. Perciò Dino Campana non può essere né Rimbaud né Corbière, perché poeta antico e, pur contro la sua cultura caotica e frammentaria, italico.
Basta il largo, solenne preludio dei Canti a farci avvisati: «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso».
Classico nel tono, nella misura e sodezza della lingua, e più ancora nei temi e in quel senso vivo di storia e di mito attivi, di religiosa pacatezza, di immortale razza, di regalità invincibile, di purità serena e liliale. Ed è strano come quest’uomo, girovago di tutte le terre, affaticato in ogni duro mestiere, a ogni patria straniero e a sé stesso, che aveva imbastardito il suo con altri dieci lontani linguaggi – egli parlava «con un mescolìo di frasi appartenenti a tutte le lingue!» – rimanesse nativo, perdutamente latino, innamorato delle sue piazze, delle sue donne, delle sue marine. In ciò la fresca antichità delle sue scritture, la nobile compostezza delle sue immagini oh! quelle dame ai balconi «poggiate il puro profilo languidamente nella sera», — l’armoniosa grazia dei suoi casti paesi.
Al suo primo apparire, il senso di questa poesia fu tradito dalla vita del poeta stesso: da quella invadente esperienza romantica che la travagliò e la corrose. La poesia non giunse mai alla costruzione intatta e intera di sé stessa, ma galleggiò frammentaria sulla pagina, franta in gridi, in bagliori, in animamenti evocativi. Ed evocativa, infatti, è sempre la grande arte: quella che riallaccia in onde canore il presente al passato, l’effimero all’eterno. Ora, i Canti Orfici di Campana son fatti di questa intangibile materia lirica, che la singhiozzata esistenza non seppe del tutto velare, ma soltanto spezzare e comunicare attraverso una sintassi povera e secca e per mezzo d’un impressionismo d’intenzioni moderne.
Eppure, nonostante cotesti snaturamenti, quale ricchezza di sintesi in cotesto canto! Quale aderenza e vivezza figurativa! Il poeta, per via d’eliminazioni, giunge alla sostanza pura, all’essenza, alla purità. Talvolta, v’insiste, si ripete, segue svagato i motivi melodici e i centri ispirativi; e allora il periodo si accentra su una parola, come sopra un gorgo. «O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un dio nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno avevi rapito una melodia di carezze».
Questo strano e allucinato giuoco di ellissi, che fors’anche può dare la impressione di una impotenza del poeta a liberare la sua materia lirica da un’ansia strettamente umana, si ripeterà spesse volte, sino a emigrare in regni completamente ermetici e intricati, come nei versi fumosi e stranamente concentrici dedicati a Genova:
Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che Bianca e lieve e tremula salì…
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca…
Bianca quando nel rosso del fanale
bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì…
Chi sa quale visione rarefatta, dalla sua lucida altitudine di veggente, i suoi occhi vedevano, senza che la chiarezza del poeta potesse in qualche modo racchiuderla nei versi?
***
Forse da qui la falsa concezione di Une saison en enfer italiana. Ma, chi si fermasse a simili momenti di brancolante farneticazione, pretendendola vertice di poesia, non saprebbe godere la vera grandezza di Campana. Il quale, nonostante cotesti improvvisi velarii, spalanca compatte e immacolate chiarezze, non soltanto nei frammenti di prosa descrittiva, ma anche nei versi delle sue poche poesie. Ecco, ad esempio, una perfetta quartina: Firenze: Uffizi:
Azzurro l’arco dell’intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi:
Candide righe nell’azzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne.
E la piena calda classicità delle Immagini del viaggio e della montagna:
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte degli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Di selve oscure il torrente
Sòrte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino… E il cuculo col più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino.
Qui, non abbiamo soltanto una poesia d’immagini, come per lo più è quella del Campana; ma s’alzano cotesti versi da una adamantina chiarezza spirituale e da schiette sensazioni che si traducono in musica e architettura. Forse, è cotesto uno dei pochi saggi maggiormente completi dei Canti Orfici: il segno d’una meta, alla quale, col tempo, Campana sarebbe giunto, purificando quell’originale materia lirica, ch’egli impastava dentro l’anima con l’affocato romanticismo delle sue esperienze. L’anelito alla verità, il tormentoso senso religioso della vita, certa stanchezza pessimistica che gli veniva da letture moderne, non gli avrebbero impedito di mettere sempre più a nudo il suo spirito italico, pieno di largo respiro, e affiorante in lui non appena il suo occhio si intratteneva con ogni cosa, che vivesse d’antica storia: le piazze delle vecchie città, i castelli turriti, i porti delle preziose repubbliche, o la fresca Italia paesana, tra colli e pianure, corse dal canto perenne dei fiumi. Ogni suo canto, infatti, è pieno di mito: «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre all’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea».
E mito sono anche le terre, le donne, i cieli: ogni cosa che il suo istinto infallibile sente vicina al suo cuore, e ch’egli traduce in evocative pitture, da meraviglioso pittore com’egli è. Le Alpi: «mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi, congerie enormi di fede e di sogno, colle mille punte nel cielo; vidi le Alpi levarsi ancora più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno». Bologna: «dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio». Una donna: «ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino».
Quindi, non poesia decadente; né “poeta maledetto” il suo autore, nonostante la parte pittoresca della sua tradita esistenza. Poeta classico, invece, d’una classicità omerica, di quella classicità cioè che nei secoli si perde, luce perenne della nostra razza. In questa luce i Canti Orfici di Dino Campana bruciano, anche se, sopr’essa, spesso la follia stampa la sua bieca ombra.
« C’est le livre que j’aurais voulu écrire. » Giorgio Bocca (ancien partisan,reporter, cofondateur de La Repubblica)
Résumé-Nuto REVELLI- La Guerre des pauvres- Paru chez Einaudi en 1962 et régulièrement réédité depuis, La Guerre des pauvres fait revivre, à partir du journal tenu par l’auteur, un chapitre héroïque méconnu de l’histoire de l’Italie, depuis la campagne de Russie (il s’engage en juillet 42) jusqu’à la Libération (Cuneo est libérée fin avril 45). Officier du corps expéditionnaire italien sur le front de l’Est dans la division Tridentina, Revelli raconte l’immense défaite et la retraite tragique qui, à la suite de la contre-offensive russe sur le Don, jettent à travers la steppe gelée des dizaines de milliers d’hommes, dont peu survivront. Après, écrit-il, sa vie ne sera plus la même. Quittant l’armée, il prend les armes dans le maquis des Alpes et mène au jour le jour, comme chef partisan puis en tant que commandant de l’une des brigades antifascistes Giustizia e libertà, un autre combat – contre les détachements mussoliniens de la République de Salò et contre les troupes hitlériennes. Au fil des jours et des pages de ce livre-vérité s’affirment la cohérence d’un destin individuel, la dignité des humbles pris dans la folie absurde de l’histoire, la force du témoignage sur « la guerre vue d’en bas ». Portées par une prose sèche et abrupte, une écriture blanche de mémorialiste qui s’invente en marchant et en luttant, loin de la rhétorique du combat ou du sentiment.
Entre Le Sergent dans la neige de Mario Rigoni Stern (1953) et La Guerre sur les collines de Beppe Fenoglio (1968), une autre voix s’élève, qui confère à ces antimémoires de guerre la dimension d’une épopée.
Traduction et annotation d’Angela Guidi et Lucie Marignac
Préface d’Éric Vial
Postface d’Emmanuel Laugier
Inédit en français
De Nuto Revelli ont été traduits : Le Monde des vaincus, Maspéro, 1980 ; Le Disparu de Marburg, Rivages, 2006 ; Les Deux Guerres. Guerre fasciste et guerre de libération, ICIP, 2020.
Photographie de couverture : Jean Gaumy, 2008
Nuto Revelli.
L’auteur
Né et mort à Cuneo, dans le Piémont, profondément attaché à ces montagnes qu’il arpenta en chasseur alpin, puis comme partisan après l’armistice du 8 septembre 1943, Nuto REVELLI (1919-2004) est l’une des grandes figures de la Résistance italienne. Son œuvre d’écrivain (il publie dix livres entre 1946 et 2003) s’enracine tout entière dans son expérience de la guerre et dans sa connaissance intime des paysans pauvres du Piémont.
Le préfacier
Éric VIAL, professeur d’Histoire contemporaine à l’université de Cergy-Pontoise, est spécialiste de l’histoire de l’Italie auXXe siècle, en particulier de l’émigration italienne en France. Il a notamment publiéLa Cagoule a encore frappé – L’assassinat des frères Rosselli2010), De Gaulle. Portrait-mosaïque(2017) et dirigéJean Moulin, l’âme de la Résistance(2012). Rue d’Ulm, il a traduit et présenté des textes de Piero Gobetti,Libéralisme et révolution antifasciste(2010), puis l’ouvrage de Sabino Cassese,L’Italie, le fascisme et l’État(2014).
Le postfacier
Essayiste, critique littéraire et poète, Emmanuel LAUGIER est né en 1969 au Maroc. Son premier livre, L’œil bande, paraît en 1996 (rééd. 2016). Suivent une quinzaine de recueils dans lesquels il explore la synthèse entre espaces mémoriels et expérience du présent. Il s’emploie à restituer une disparité de perceptions et d’informations dans l’oscillation d’une écriture en rupture constante de rythme. Aux éditions Nous, il a publié en 2020 Chant tacite.
Nuto Revelli
Sommaire
Préface De Modène à Paraloup, par Éric VIAL
Note de l’auteur
Préambule
La retraite sur le front russe. 16 janvier-10 mars 1943
Le retour en Italie. 17 mars-26 juillet 1943
La guerre de partisan. 8 septembre 1943-27 août 1944
En France avec la brigade Carlo Rosselli. 28 août 1944-23 avril 1945
Italie. La libération de Cuneo. 24-29 avril 1945
Notes
Postface Le présent crénelé de l’action, par Emmanuel LAUGIER
Giuseppe LANZA-All’albergo del sole- Solaria Editore-Firenze -1932
Articolo scritto da Sergio SOLMI per la Rivista PEGASO diretta da Ugo OJETTI
Giuseppe Lanza(Valguarnera Caropepe, 1º gennaio 1900 – Milano, 11 settembre 1988) è stato uno scrittore, drammaturgo e critico teatrale italiano, vincitore del Premio Bagutta nel 1956 per Rosso sul lago.
Sergio SOLMI – Nacque a Rieti il 16 dicembre 1899 da Edmondo e da Clelia Lolli, modenesi.Seguì gli spostamenti del padre, professore di storia e filosofia nei licei, a Mantova (dove vide la luce la sorella Olga), a Livorno e a Torino: lì concluse il ciclo degli studi elementari iniziato nel 1905-06 a Livorno, e frequentò le scuole medie. Il 29 luglio 1912, Edmondo Solmi morì di tifo a Santa Liberata, presso Spilamberto (Modena), durante le vacanze estive.
Si interrompeva prematuramente in quel punto, a soli trentasette anni, una più che promettente parabola intellettuale: libero docente di storia della filosofia e incaricato dell’insegnamento a Torino dal 1908 al 1910, Edmondo Solmi era stato chiamato nel 1910 a Pavia come professore straordinario, e i suoi eccellenti studi su Leonardo da Vinci avevano suscitato l’ammirazione di Sigmund Freud.
-Giuseppe Lanza All’albergo del Sole-Editore SOLARIA 1932--Giuseppe Lanza All’albergo del Sole-Editore SOLARIA 1932--Giuseppe Lanza All’albergo del Sole-Editore SOLARIA 1932--Giuseppe Lanza All’albergo del Sole-Editore SOLARIA 1932-
Giuseppe Lanza (Valguarnera Caropepe, 1º gennaio 1900 – Milano, 11 settembre 1988) è stato uno scrittore, drammaturgo e critico teatrale italiano, vincitore del Premio Bagutta nel 1956 per Rosso sul lago.
Sergio SOLMI – Nacque a Rieti il 16 dicembre 1899 da Edmondo e da Clelia Lolli, modenesi.Seguì gli spostamenti del padre, professore di storia e filosofia nei licei, a Mantova (dove vide la luce la sorella Olga), a Livorno e a Torino: lì concluse il ciclo degli studi elementari iniziato nel 1905-06 a Livorno, e frequentò le scuole medie. Il 29 luglio 1912, Edmondo Solmi morì di tifo a Santa Liberata, presso Spilamberto (Modena), durante le vacanze estive.
Si interrompeva prematuramente in quel punto, a soli trentasette anni, una più che promettente parabola intellettuale: libero docente di storia della filosofia e incaricato dell’insegnamento a Torino dal 1908 al 1910, Edmondo Solmi era stato chiamato nel 1910 a Pavia come professore straordinario, e i suoi eccellenti studi su Leonardo da Vinci avevano suscitato l’ammirazione di Sigmund Freud.
Iscritto alla sezione ‘moderna’ del liceo d’Azeglio, Sergio Solmi affidò alla rivistina giovanile Cronache latine, tra il 15 gennaio e l’aprile-maggio 1917, i suoi primi scritti, sintomaticamente divaricati (come sarà l’intero corso della sua esperienza) tra la critica letteraria (brevi saggi su Guido Gozzano e Arthur Rimbaud) e la scrittura d’invenzione in versi e in prosa. Nel medesimo anno fu chiamato alle armi con la classe 1899: nella Scuola di applicazione di fanteria di Parma incontrò Eugenio Montale, Francesco Meriano, Marcello Manni, Renato Tassinari, Ercole Leone Crovella, Cesare Cerati (Parma 1917 si intitolerà il bellissimo mémoire pubblicato in La Fiera letteraria il 12 luglio 1953); combatté sul Monfenera e sul Montello, fu ferito da una scheggia di granata e ricoverato nell’ospedale militare di Castelfranco Veneto, partecipò all’avanzata finale conclusa il 4 novembre 1918 (all’esperienza bellica dedicherà, in La Fiera letteraria dell’11 novembre 1928, i ricordi autobiografici dal titolo Giorni di guerra).
Tornato alla vita civile, s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, fondò con Giacomo Debenedetti, Mario Gromo e Emanuele F. Sacerdote la rivista letteraria Primo tempo (15 maggio 1922-dicembre 1923), divenne amico di Piero Gobetti, alla cui lezione rimarrà fedele negli anni, conseguì la laurea in giurisprudenza con una tesi di diritto romano, iniziò l’esercizio della professione legale a Milano nel 1923 e sposò, il 20 novembre 1924, Dora Martinet, figlia di un avvocato socialista, incontrata a Pré St. Didier nell’estate del 1921, dalla quale ebbe i figli Renato e Raffaella. Il 14 gennaio 1926 fu assunto nell’ufficio legale della Banca commerciale italiana, inaugurando un lunghissimo rapporto di lavoro inscindibile dalla profonda amicizia stabilita con il protagonista assoluto della storia di quell’istituto di credito, Raffaele Mattioli.
Collaboratore delle principali riviste letterarie italiane (Il Quindicinale, Il Baretti, L’Italiano, Il Convegno, Le Opere e i Giorni, La Fiera letteraria, Solaria, L’Italia letteraria, Pègaso, Leonardo, La Cultura, Fronte, L’Illustrazione italiana, Circoli, Scuola e cultura, Pan, Emporium, Letteratura, Prospettive, Corrente, Primato) e di alcuni quotidiani (l’Unità, dove conobbe Antonio Gramsci, Giornale di Genova, L’Ambrosiano), Solmi si rivelò subito un interprete eccezionalmente acuto e consentaneo della contemporanea letteratura italiana e francese (sua è la prima originale messa a fuoco dei fondamentali caratteri tematici e formali della poesia di Montale), muovendosi nel solco nel magistero crociano ma senza rinunciare a stabilire una elettiva sintonia con alcuni tra i più eminenti hommes de lettres francesi (Charles Du Bos, Paul Valéry, Alain), particolarmente attenti ai risvolti empirici, ‘tecnici’ dell’opera d’arte.
Il pensiero di Alain (1930) è la prima sistemazione teorica del ‘metodo’ di Solmi per l’interposta persona del filosofo Émile-Auguste Chartier; Fine di stagione (1933) il suo libro di esordio en poète su una linea non lontana dal modello montaliano, ma altrettanto aperta all’ascolto di altre voci del Novecento italiano (di Vincenzo Cardarelli principalmente, mentre Emilio Cecchi fu uno tra i capitali modelli del suo esercizio di prosatore).
Di singolare rilievo è il ruolo assolto da Solmi all’interno della redazione del periodico La Cultura, fondato da Cesare De Lollis: ne diventò condirettore nel 1933, in una fase destinata ad accentuarne l’incompatibilità con la politica culturale del fascismo, che porrà fine alle pubblicazioni della rivista nel maggio del 1935 (in Strumenti critici del settembre 2009 è apparso, per la cura di Guido Lucchini, un inedito Promemoria su “La Cultura”, steso da Solmi su invito di Maurizio Mattioli).
Mentre i saggi sulla letteratura italiana del Novecento sarebbero stati accolti in volume molto più tardi, per sollecitazione di Giacomo Debenedetti (Scrittori negli anni è del 1963), le pagine francesi di Solmi trovarono un primo ordinamento nel 1942 in La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, proprio in coincidenza con la fase liminare della sua clandestina militanza politica nelle file del Partito d’azione. Per la sua partecipazione alla Resistenza a Milano venne arrestato il 2 gennaio 1945: riuscì a fuggire dal carcere ma fu nuovamente catturato il 6 aprile. Di quelle straordinarie vicissitudini è traccia nella sezione Dal quaderno di Mario Rossetti delle sue Poesie (Milano 1950).
Condirettore, insieme con Roberto Nonveiller, di Lettere ed Arti nel 1946, direttore di La Rassegna d’Italia dal 1949, nel secondo dopoguerra Solmi orientò il proprio assiduo, discretissimo lavoro di poeta, prosatore, traduttore, critico della letteratura e delle arti figurative all’insegna di una radicale libertà metodologica, sostenuta da una inquieta, mercuriale curiosità per tutte le forme espressive, fulmineamente teorizzata, il 28 novembre 1967, in uno degli aforismi del suo Quadernetto giallo: «Mantenere sempre il compasso alla sua massima apertura, anche a costo di slogarsi le gambe della mente» (Opere, I, Poesie, meditazioni e ricordi, 2, 1984, p. 168). Non a caso il magistrale lettore di Montaigne e Leopardi, di Rimbaud e di Montale era stato, fin dal 1959, anno di pubblicazione della memorabile antologia Le meraviglie del possibile, allestita con Carlo Fruttero, uno degli scopritori italiani della science fiction; nella medesima orbita si sarebbe inscritto il complice interesse, condiviso con Franco Fortini e Italo Calvino, per Raymond Queneau, del quale avrebbe tradotto Piccola cosmogonia portatile. Il 24 luglio 1968 divenne socio corrispondente della classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia nazionale dei Lincei.
Nell’ultima fase della sua esistenza, scandita dalla pubblicazione delle Meditazioni sullo scorpione (1972), delle Poesie complete (1974) e di una serie di mirabili raccolte di saggi su Leopardi (1969 e 1975), sul fantastico (1971 e 1978) e ancora sulla letteratura francese (1976), Solmi non venne meno all’abito di strenuo rigore e di leggendaria riservatezza che ne aveva costituito l’inconfondibile stigma, e la sua impareggiabile, generosa socievolezza ne convertì naturalmente il profilo di grande borghese in un punto di riferimento della vita culturale e civile a Milano, tanto più importante quanto meno incline all’esibizione di sé.
Morì a Milano il 7 ottobre 1981, a meno di un mese dalla scomparsa di Eugenio Montale.
Opere. In vita Solmi ha dato alle stampe i suoi libri in questa sequenza: Il pensiero di Alain (Milano 1930; Milano 1945; Pisa 1976); Fine di stagione (Lanciano-Milano 1933); La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese (Firenze 1942; Milano-Napoli 1952); Poesie (Milano 1950); Levania e altre poesie, con una nota di V. Sereni (Milano 1956); Scrittori negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del ’900 (Milano 1963, premio Viareggio per la saggistica); Versioni poetiche da contemporanei (Milano 1963); Dal balcone (Milano 1968); Scritti leopardiani (Milano 1969; poi, con il titolo Studi e nuovi studi leopardiani, Milano-Napoli 1975); Quaderno di traduzioni, I-II (Torino 1969-1977); Della favola, del viaggio e di altre cose. Saggi sul fantastico (Milano-Napoli 1971; poi, con il titolo Saggi sul fantastico. Dall’antichità alle prospettive sul futuro, Torino 1978); Meditazioni sullo scorpione e altre prose (Milano 1972, 1979 e 2016, premio Bagutta 1973); Poesie complete (Milano 1974); Saggio su Rimbaud (Torino 1974); La luna di Laforgue e altri scritti di letteratura francese (Milano 1976, premio Viareggio per la saggistica); Poesie (1924-1972), a cura di L. Caretti (Milano 1978); Quadernetto di letture e ricordi, premessa di L. Caretti (Milano 1979).
Tra il 1983 e il 2011 la casa editrice Adelphi (Milano) ha pubblicato, per la cura di G. Pacchiano, l’intero corpus delle Opere: I, Poesie, meditazioni e ricordi, 1, Poesie e versioni poetiche (1983); 2, Meditazioni e ricordi (1984); II, Studi leopardiani. Note su autori classici italiani e stranieri (1987); III, La letteratura italiana contemporanea, 1, Scrittori negli anni (1992); 2, Scrittori, critici e pensatori del Novecento (1998); IV, Saggi di letteratura francese, 1, Il pensiero di Alain. La salute di Montaigne ed altri scritti (2005); 2, Saggio su Rimbaud. La luna di Laforgue ed altri scritti (2009); V, Letteratura e società. Saggi sul fantastico. La responsabilità della cultura. Scritti di argomento storico e politico (2000); VI, Scritti sull’arte. Discorso sulla pittura contemporanea. Saggi e note su artisti italiani e stranieri e altre pagine sparse, con una nota di A. Negri (2011).
Il lavoro di Solmi traduttore di poesia è attestato da Versioni poetiche da contemporanei e dal Quaderno di traduzioni, I-II; di Solmi è, inoltre, la versione italiana (seguita da Piccola guida alla Piccola cosmogonia di Italo Calvino) di Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau (Torino 1982).
Si deve a Solmi la cura dei due tomi delle Opere di Giacomo Leopardi per la collezione La letteratura italiana. Storia e testi della Ricciardi (Milano-Napoli 1956 e, in collaborazione con la figlia Raffaella, 1966) e delle antologie Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza (con C. Fruttero, Torino 1959) e Il giardino del tempo e altri racconti. Il terzo libro della fantascienza (Torino 1983).
Non esiste una raccolta neppure parziale delle lettere di Sergio Solmi, che i rari specimina sparsamente resi noti rendono vivamente desiderabile. Sono state edite, a cura di M. Baldini, introduzione di A. Dolfi, le Lettere a Sergio Solmi di Carlo Betocchi (Roma 2006).
Fonti e Bibl.: La Biblioteca e l’Archivio di Sergio Solmi sono presso la Fondazione Natalino Sapegno onlus a Morgex (Aosta). Una notevole testimonianza biografica e autobiografica ha redatto il figlio primogenito, Renato: Nota biografica e testimonianza personale, in Letteratura e società, cit., pp. 663-685 (poi, con il titolo Sergio Solmi. Una testimonianza personale, in Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Macerata 2007, pp. 775-792). Su Solmi e la Banca commerciale italiana è utile il saggio di G. Leori – G. Montanari, Le carte di Sergio Solmi, capo dell’Ufficio consulenza legale della Banca commerciale italiana (1942-1953), in Italia contemporanea, 2014, n. 274, pp. 159-174.
Una ricca serie di informazioni bibliografiche, alle quali si rinvia, offrono le monografie di F. D’Alessandro, Lo stile europeo di S. S. Tra critica e poesia, Milano 2005, di A. Giampietro, S. S. critico militante. Un itinerario nella letteratura italiana del Novecento, Bari 2012, e di G. Montanari – F. Pino, S. S. tra letteratura e banca, Milano 2016. A pp. 227-314 del suo libro Francesca D’Alessandro ha reso noto un prezioso quaderno, dal titolo Libri letti, che di Solmi registra le letture comprese tra il 1919 e il 1936 (ne esistono altri due, rispettivamente relativi agli anni 1936-60 e 1960-81).
Tra gli scritti e le testimonianze di carattere generale si vedano: Omaggio a S. S., a cura di L. Erba, in Stagione, 1956, n. 10, (interventi di L. Erba, V. Sereni, G. Caproni, L. Anceschi, M. Luzi, G. Bárberi Squarotti, M. Colesanti, M. Camilucci, E. Bartolini, U. Eco, N. Risi, G. Gramigna); E. Montale, S. S. Settant’anni. Uomo e poeta, in Corriere della Sera, 16 dicembre 1969 (poi, con il titolo S. S. uomo e poeta, in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, pp. 342-344; con il titolo originario in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, II, Milano 1996, pp. 2932-2934); I. Calvino, S. lunare ma non troppo, in la Repubblica, 10 ottobre 1981 (poi, con il titolo In memoria di S. S., in Id., Saggi 1945-1955, a cura di M. Barenghi, Milano 1995, pp. 1253-1256); S. Ramat, S., S., in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, III, Torino 1986, pp. 209-211. Sul poeta e prosatore d’invenzione: V. Sereni, postfazione a Levania e altre poesie, cit., pp. 25-43 (poi in Id., Letture preliminari, Padova 1974, pp. 49-63); P.P. Pasolini, Levania e altre poesie, in Il Punto della settimana, 5 gennaio 1957 (poi, con il titolo S.: evasione e impegno, in Id., Passione e ideologia (1948-1958), Milano 1960, pp. 450-452, e in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia di N. Naldini, I, Milano 1999, pp. 1192-1195); A. Zanzotto, S. S. e “Levania”, in aut aut, 1957, n. 40, pp. 374-384, e Id., Le lune sognate nei versi di S., in Corriere della Sera del lunedì, 13 gennaio 1975 (poi, la seconda con il nuovo titolo Le “Poesie complete” di S. S., in Id., Fantasie di avvicinamento, Milano 1991, pp. 59-73 e 74-77); L. Caretti, Itinerario di S., in Strumenti critici, III (1969), 10, pp. 381-403 (poi in Id., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino 1976, pp. 427-452, e Introduzione a S. S., Poesie, cit., pp. IX-XXXI); P.V. Mengaldo, Caratteri stilistici della poesia di Solmi, in Giornale storico della letteratura italiana, CXIX (2002), pp. 497-510 (poi in Id., La tradizione del Novecento. Quinta serie, Roma 2017, pp. 237-248); sul critico: E. Montale, recensione a Il pensiero di Alain, in Pègaso, II (1930), 11, pp. 633-636 (poi in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, I, Milano 1996, pp. 423-429); G. Debenedetti, gli anonimi paratesti allegati a Scrittori negli anni, cit. (seconda di copertina: Il libro; terza di copertina: L’Autore); P.V. Mengaldo, S. S., in Profili di critici del Novecento, Torino 1998, pp. 38-43; sul traduttore: P.V. Mengaldo, Aspetti delle versioni poetiche di S., in Studi novecenteschi, IX (1982), pp. 45-96 (poi in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze 1987, pp. 307-356, e Seconda serie, Torino 2003, pp. 271-314).
-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore Milano 1934-
-Articolo di Guido Piovene per la Rivista PAN n°5 del 1934-
-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore Milano 1934--Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore-Maria Luisa Fehr-ScrittriceBiblioteca DEA SABINA-Rivista PAN n°5 del 1934-Articolo di Francesco Flora Rileggendo le “LAUDI” di Gabriele D’Annunzio
Guido Piovene-Scrittore e giornalista italiano (Vicenza 1907 – Londra 1974). Formatosi all’incrocio di un cattolicesimo sensuale con un illuminismo attinto ai moralisti francesi del Sei-Settecento, aperto alle influenze del freudismo e dell’esistenzialismo, P. indagò le passioni e i vizi umani. Tra i romanzi più noti: Le furie (1963), in cui ha tentato di applicare la tecnica del nouveau roman, dando particolare rilievo alla memoria di un mondo in decadenza di fronte al quale lo scrittore subisce rimorsi e inibizioni, non senza però lasciare nel lettore un sapore di ambiguità; e Le stelle fredde (1970, premio Strega), in cui ritorna con gli stessi simboli la materia autobiografica.
Vita e opere
Nel 1935 entrò a far parte del Corriere della sera per poi passare a La Stampa, della quale fu collaboratore fino alla fondazione, con I. Montanelli e altri, del quotidiano milanese Il Giornale (1974). La sua opera, che varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione, al racconto, al romanzo, è quella di un saggista formatosi all’incrocio di un cattolicesimo morbido e sensuale, di tradizione vicentino-fogazzariana, con un illuminismo attinto soprattutto ai moralisti e romanzieri francesi del Sei-Settecento; ma aperto alle suggestioni del freudismo e dell’esistenzialismo. Un saggista inteso all’esplorazione lenta, minuta delle passioni, dei vizi umani, colti nel loro sinuoso trasformarsi o dissimularsi in virtù (a cominciare dall’egoismo così spesso atteggiato a pietà); un osservatore e descrittore di «caratteri», il quale, come narratore, rivela, sotto il lucido intellettualismo della sua indagine e delle sue invenzioni, l’ansia di una ricerca soggettiva, di un personale riscatto. Ne è testimonianza, nei suoi racconti (La vedova allegra, 1931; Inverno di un uomo felice, post., 1977; Spettacolo di mezzanotte, post., 1984) e nei romanzi (Lettere di una novizia, 1941; La gazzetta nera, 1943; Pietà contro pietà, 1946; I falsi redentori, 1949; Le furie, 1963; Le stelle fredde, 1970; Verità e menzogna, post., 1975; Romanzo americano, post., 1979), quel procedere della narrazione, entro una cornice apparentemente oggettiva, per monologhi – in forma epistolare, di diario, di confessione, ecc. – dei protagonisti, che permette allo scrittore di eludere, come in un gioco o finzione scenica, quanto di troppo autobiografico urge al fondo della sua arte. Accanto alla produzione saggistica (Lo scrittore tra la tirannide e la libertà, 1952; Idoli e ragione, post., 1975), poi raccolta in Saggi (2 voll., post., 1986-90), e ai notevoli libri di reportage, di viaggio e di costume (De America, 1953; Viaggio in Italia, 1957; Madame la France, 1966; L’Europa semilibera, 1973; ecc.) è da ricordare il discusso La coda di paglia (1962), in cui P. rievocò i propri rapporti col fascismo. Al genere fiabesco appartiene Il Nonno Tigre (1972).
Poesie di Akiko Yosano -Poetessa e scrittrice giapponese-
Akiko Yosano-Poetessa e scrittrice giapponese
Akiko Yosano-(1878-1942)- Poetessa e scrittrice giapponese. Profonda conoscitrice della letteratura classica giapponese, manifestò interesse per le nuove correnti letterarie ispirate a modelli occidentali, rinnovando uno dei più tradizionali generi poetici grazie a una grande forza immaginativa, tesa all’esaltazione della passione amorosa.
Akiko Yosano-Poetessa e scrittrice giapponese
poesie di Akiko Yosano
SE QUI ADESSO
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
—————————————————–
Sebbene così fragile
e così breve l’amore,
ha sangue troppo giovane
questa ragazza, per bruciare
poesie di primavera.
*
Ho sentito, non so perché
che tu mi aspettavi
e sono uscita – Nella notte
improvvisa spuntò la luna
sui campi in fiore.
*
Appoggio il mio corpo al cancello
e mi perdo in pensieri
infiniti
guardo il vento autunnale
passare sui fiori rossi.
*
Akiko Yosano-Poetessa e scrittrice giapponese
Capelli neri arruffati in mille trecce. Arruffati i miei capelli e arruffati i miei arruffati ricordi delle nostre lunghe notti d’amanti
*
Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle.
*
La mia giovinezza è presso a finire simile a una pianura docile che, subita, spiombi nel mare
*
Amore o sangue?
tutta la primavera
è in questa peonia che mi ossessiona,
scende la notte, sono sola,
sola senza una poesia.
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione,
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
*
Mi piace questo alto cantare di vento. L’alba quando cammino sotto l’albero di hi dal vecchio tronco…
Akiko Yosano-Poetessa e scrittrice giapponese
Nel 1904, Akiko Yosano scrisse e pubblicò quella che è probabilmente la sua più celebre poesia, Kimi shinitamou koto nakare (“Ti prego, fratello, non morire”). Suo fratello minore, Chuzaburo, era stato mobilitato per la guerra russo-giapponese (che si concluse con la famosa disfatta russa di Port Arthur, o Lüshun); nella poesia, Akiko espresse tutte le sue preoccupazioni. Musicata poco tempo dopo, la poesia è diventata una delle più classiche canzoni contro la guerra in lingua giapponese, dato che così è sentita da tutti nonostante sia molto “lieve” e non contenga espressioni antimilitariste. In particolare, la poesia fu pubblicata su Myōjō proprio quando il numero delle vittime della battaglia di Port Arthur fu reso noto pubblicamente, ed il carattere antibellico della composizione risultò chiaro. Va da sé che piovvero le accuse di disfattismo sulla poetessa. Non sono purtroppo riuscito a determinare chi sia stato l’autore della musica, ed è possibile anche che esistano più versioni musicate della poesia (che in Giappone è davvero famosissima: è arrivata, manco a dirlo, anche alle sigle dei cartoni animati). Il testo giapponese, le note originali e tradotte e la traduzione inglese le ho trovate invece su questa pagina, e così le riproduco. [RV]
君死にたまふことなかれ
La versione inglese. English Translation
Akiko Yosano-Poetessa e scrittrice giapponese
Port Arthur, 1904/05.
Le note alla traduzione contenute nella pagina di provenienza sono state fedelmente riprodotte. L’autore della traduzione non è indicato.
PRITHEE DO NOT DIE
Lamenting my younger brother in combat as one
of the troops besieged at Lüshun(Port Arthur)
Yosano Akiko
Oh, younger brother mine, for thee I weep,
Prithee do not die,
For you were born the very last,
And our parents loved you all the more,
Yet they made thee grasp a blade in hand,
Taught thee kill a man you shall,
Kill a man, and die you too,
groomed you thus to age twenty-four.
Master now of the proud old house,
The merchant-house of Sakai1, our town,
You must now carry on our name,
So I prithee, do not die,
Though Lüshun’s2 fortress should perish,
Should it be saved, what of that?
Thou ought know, it nowhere commands
On the familial codes3 of our merchant house.
I prithee do not die,
The Heavenly-Prince does not himself
Lead by his own august presence his troop to battle.
For to command that men shed blood of men,
And die following the beastly path4,
And tell us death be the glory of men,
If his Highness’ heart be compassionate,
How could he truly think it so?
Oh young brother mine in battle,
I prithee you mustn’t die.
Our mother who has lagged behind father
In the passing of the autumn years of life,
It sores me to watch her lament,
Deprived of son to guard the home,
And though she hears our Highness hale and safe,
Our mother’s gray hair grows.
Stooping in the shade of the noren5 she weeps,
The frail young wife of yours,
Or have you forgotten? Or do you think of her?
Think on her maidenly feeling,
Together ere ten months, then parted,
And there’s none another the likes of you,
Oh once again I ask,
Prithee do not die.
— pub. in Myōjō Sept. 1904.
Translation’s Notes / Note alla traduzione
Notes:
1 Sakai is a merchant town with a rich history, which prospered by foreign trade in the age of Warring-States, and its merchants were proud and independent-minded. The famous tea ceremony master Sen-no-Rikyū (1522-1591) who committed harakiri was a Sakai merchant.
2 Lüshun (Port Arthur), pronounced “Ryojun” in Japanese, was a naval port for Russia’s Eastern Fleet.
3 An “old family” often has something called kakun or lessons — do’s and don’ts that are passed down generation to generation. The poetess is saying that since they are merchant family, dying to defend a castle is certainly not one of those lessons.
4 “Beastly path” is a reference to a course of conduct without morality or discipline; In Buddhism, if your conduct in this life is poor, you are said to be relegated to chikushōdō “way of beasts” in the next life.
5Noren is the shop curtain, the drape of cloth hanging at the shop entrance. There is also such a curtain between the storefront and the back area.
Breve biografia di Akiko Yosano-(1878-1942)-Nata come Sho Ho il 7 dicembre 1878 nel villaggio di Sakai, presso Osaka, Akiko Yosano è stata una delle più famose e controverse poetesse giapponesi del primo’900. E’ considerata una delle prime pacifiste e femministe attive nel Giappone dell’epoca Meiji: il suo anno cruciale può essere considerato il 1901. In quell’anno, all’età di 23 anni, sposò Tekkan Yosano, il responsabile editoriale della rivista Myōjō (“Stella lucente”), sulla quale aveva cominciato a pubblicare le proprie poesie. Tekkan era regolarmente sposato e divorziò dalla prima moglie per sposare Akiko, ma in pieno accordo con essa continuò a frequentarla ( oggi si definirebbe famiglia allargata). Nello stesso anno, Akiko Yosano pubblicò Midaregami (“Capelli arruffati”), una raccolta di 400 poesie ritenuta il faro del libero pensiero nel Giappone dell’epoca; come è lecito attendersi, la critica ufficiale stroncò la raccolta e la definì scandalosa. Ciò nonostante, Midaregami riscosse un successo clamoroso, e la fama di Akiko Yosano eclissò quella del marito, anch’egli comunque valente poeta. Akiko morì d’infarto il 29 maggio 1942, in piena guerra; la notizia della sua morte passò inosservata, dopo che per tutta la vita si era spesa contro il crescente militarismo giapponese ed aveva combattuto per la condizione delle donne in una società del tutto oppressiva nei loro confronti. Le sue opere non erano state messe al bando, ma comunque ignorate; solo negli ultimi due decenni è stata riscoperta, tornando a godere del successo di un tempo.
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