a cura di Maria Serena Sapegno-Viella Libreria Editrice Roma
Sinossi -Con questo libro viene fatto il punto sugli studi più recenti intorno a Vittoria Colonna, figura chiave della cultura italiana nel Cinquecento, protagonista della vita letteraria, religiosa e politica in Italia. Oltre a essere stata la prima italiana ‒ unica tra tutti i poeti, uomini o donne ‒ alla cui poesia sia stato dedicato un intero volume a stampa, fu anche la prima a beneficiare di un’edizione con commento mentre era in vita. Tuttavia non fu solo un’attrice di primo piano della scena letteraria del tempo. Vittoria Colonna fu, infatti, anche parte attiva delle controversie religiose e politiche del secolo XVI. Appartenente a una delle famiglie più potenti di Roma, amica tra gli altri di Bembo, Michelangelo, Pole, Ochino, la poetessa fu personalmente implicata in molte delle vicende più significative del periodo. E se la sua figura ha goduto del privilegio ‒ pressoché unico tra le letterate italiane ‒ di non scomparire mai del tutto dal canone, le interpretazioni che ne sono state date sono mutate molto nel corso del tempo. Questo libro, attraverso una disamina dell’intera produzione di Vittoria Colonna e un’analisi dello scenario più ampio, religioso e culturale, al quale partecipava, aiuta a comprendere tali interpretazioni in modo innovativo e a capire così anche tutta un’epoca.
Descrizione-Il Museo di “Santa Filippa Mareri” sito in loc. Borgo San Pietro di Petrella Salto (RI) raccoglie parte dei reperti, dei documenti e dei ricordi dell’antico Monastero di San Pietro de Molito, fondato dalla Baronessa Santa nel 1228 ed abbandonato perché sommerso nel 1940, insieme al centro antico di Borgo S. Pietro, dalle acque del lago artificiale del Salto.
Petrella Salto (Rieti) Museo del Monastero di Santa Filippa Mareri
Le Suore hanno voluto che importanti testimonianze storiche del Cicolano venissero non solo conservate come é avvenuto per secoli, ma anche esposte all’ammirazione dei fedeli e alla vista degli studiosi di storia, diplomatica, sfragistica, arti locali e artigianato.
Il Museo, realizzato all’interno del nuovo Monastero, é stato inaugurato nel 1977 (progetto architettonico dell’arch. Renato Ales) ed é stato ampliato e completamente rivisto nell’allestimento nel 2000.
Il nuovo allestimento, curato dagli archh. Francesco Melaragni e Marina Campagna, propone gli oggetti e i reperti sopravvissuti e conservati (già selezionati dal dott. Vinicio Biondi e restaurati dal maestro Domenico Santarelli) secondo una chiave di lettura simbolica e suggestiva e in tre momenti tematici pregnanti.
Il primo, che da inizio al percorso di visita, vuole rievocare al visitatore l’architettura dell’antico monastero di San Pietro de Molito, non solo attraverso immagini grafiche e fotografiche, ma soprattutto attraverso la suggestione dei frammenti decorativi rimasti (capitelli, formelle, cornici, stemmi, mascheroni, campane dei secc. XII-XVIII) e dell’imponente portone ligneo a formelle di Maestro Giacomo di Bernardino del 1511.
L’antico portone ligneo invita simbolicamente, insieme a tre antichi bauli da corredo del XVII sec in cuoio decorato appartenuti alle clarisse, al viaggio indietro nel tempo e nella memoria alla scoperta, attraverso gli oggetti, di quella che era la vita di “preghiera” e la vita di “lavoro” nell’antico monastero: il secondo e terzo momento tematico del museo.
Petrella Salto – Museo del Monastero di Santa Filippa Mareri
Due volumi-vetrina, piccole architetture all’interno dell’involucro architettonico, rievocano la prima, piccola e mistica cappella, la vita di preghiera delle clarisse, custodendo in particolare gli arredi e gli oggetti sacri (secc. XVII-XVIII) della chiesa monastico-parrocchiale di San Pietro de Molito, alcuni paramenti sacri (secc. XVII-XVIII), e poi una pregevole statua lignea di madonna (sec. XIV-XV), una statua lignea di Santa Filippa (arte abruzzese sec.XV), le grate in ferro battuto, dalle quali le clarisse assistevano alle funzioni religiose, una Croce astile del 1550, la seconda, con una teoria di profonde bucature, come celle delle clarisse, la vita domestica e di lavoro del monastero, dedita alla tessitura, alla filatura, alla farmacia, custodendone gli utensili e gli oggetti di uso domestico (secc. XIII-XIX), testi, ricettari e gli strumenti della farmacia (secc. XVI-XIX), gli attrezzi per la filatura e la tessitura.
Borgo San Pietro (Petrella Salto).Il Santuario di Santa Filippa, nel quale sono conservati i resti della Santa si trova nella frazione di Borgo San Pietro. Nel comune molti sono i luoghi legati alla vita della Santa, nata da una nobile famiglia verso la fine del secolo XII, nel castello di loro proprietà della famiglia a Borgo San Pietro. La sua famiglia ne ostacolò la scelta monastica, per cui Filippa fuggì, rifugiandosi in quella che oggi viene chiamata “Grotta di Santa Filippa” (1210 m.s.l.m.), situata sopra l’abitato di Piagge (961 m.s.l.m.), e vi rimase circa tre anni, fino al 1228 quando i fratelli le donarono il castello con l’annessa chiesa di San Pietro e la Santa si trasferì nella tenuta con le sue compagne vivendo secondo la regola indicata da San Francesco per Santa Chiara e le monache di San Damiano.
In passato la località è stata anche chiamata Petrella di Cicoli. Il nome deriva dal latino petra da cui pietra e quindi pietraia. Nel 1598 ebbe luogo nella Rocca di Petrella uno dei più celebri delitti del XVI secolo, l’assassinio del conte Francesco Cenci, organizzato dalla figlia Beatrice.
Cleonice Tomassetti durante gli anni della Seconda guerra mondiale abitava a Milano, dove si era trasferita da Petrella Salto per fare la maestra. Quando il suo compagno era passato nella Resistenza aveva deciso di raggiungerlo e, nell’aprile del 1944 la giovane donna era entrata come staffetta nella stessa formazione partigiana. Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani, prigionieri dopo il Rastrellamento della Val Grande e fucilati dai nazifascisti a Fondotoce il 20 giugno 1944
Simboli
Lo stemma e il gonfalone sono stati concessi con decreto del presidente della Repubblica del 19 marzo 2003.[7]
«D’argento, alla torre di due palchi, di rosso, mattonata di nero, ogni palco merlato di cinque alla ghibellina, finestrata di due nel palco superiore, poste in fascia, di nero, chiusa dello stesso, fondata sulla collina trapezoidale, di verde, con rocce di argento, fondata in punta, essa torre accompagnata da quattro stelle di sei raggi, di azzurro, due per parte, ordinate in palo, le più alte poste all’altezza della merlatura del palco superiore, le altre all’altezza della merlatura del palco inferiore. Ornamenti esteriori da Comune.»
Il gonfalone è un drappo partito di bianco e di rosso.
Petrella Salto
Si affaccia sul Lago del Salto questo affascinante borgo ricco di storia, arte e i reperti archeologici.
Il centro storico, ben conservato, con vicoli tortuosi, belle case, portali e finestre tre e quattrocenteschi, sorse nel sec. XI su uno sperone difendibile dalle invasioni, nell’ambito del fenomeno dell’incastellamento, molto diffuso nella zona.
Dai Mareri, feudatari di Petrella, nacque Filippa: l’incontro con san Francesco rafforzò la sua vocazione religiosa e santa Filippa fondò il primo monastero delle Clarisse nel regno di Napoli, trasformando il Castello e la Chiesa di San Pietro di proprietà della famiglia; crebbe nel tempo la devozione per la santa alla quale sono attribuiti moltissimi miracoli.
Da non perdere il borgo e i suoi eleganti palazzi medievali e rinascimentali, con portali, finestre, cornici e architravi scolpiti; la Rocca della Petrella, la Chiesa di Santa Maria, con brani di affreschi e fregi di grande interesse, recentemente restaurata; il Museo di Santa Filippa Mareri a Borgo San Pietro, con i resti dell’antico monastero sommerso dalle acque del lago artificiale, e la biblioteca, ricca di pergamene e bolle papali del sec. XII .
Nel 1598 nella Rocca di Petrella si consumò uno dei più celebri delitti del XVI secolo, l’assassinio di Francesco Cenci, organizzato dalla figlia Beatrice.
Alla sua figura, spesso romanzata, Petrella è legata indissolubilmente, come peraltro a quella opposta, di Santa Filippa.
Sulle rive del Lago del Salto potete gustare piatti a base di tartufo e funghi porcini; ottime anche le carni locali, il pesce di lago con l’anguilla allo spiedo o la trota tartufata; tra i molti prodotti PAT, la castagna rossa del Cicolano, le pere sciroppate al mosto, gli gnocchi di castagne, i ravioli di patate o con crema di castagne, la cicerchia e i tersitti de’girgenti, ai quali curiosamente dà il nome una località fondata da agrigentini.
***Prima di programmare una visita si consiglia di contattare il luogo
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Brevissimi cenni storici –La sua origine risale alla prima metà dell’XI secolo. Ben presto passò dai suoi più antichi feudatari, i Baronisci, all’Abbazia di Farfa, della quale seguì le vicende storiche fino al XVIII secolo; all’atto pratico fu comunque amministrata dalle potenti famiglie che avevano la commenda dell’abbazia (gli Orsini, i Farnese, i Barberini e i Lante Della Rovere). Sotto gli Orsini, venne ceduta a un loro protetto, il barone Galeotto Ferreoli, il quale mostrò subito una natura violenta e arrogante e sottopose la popolazione a ogni tipo di sopruso: gli abitanti, stanchi di sopportare le sue violenze, lo uccisero insieme ai familiari e alla servitù. Il toponimo si configura come una formazione prediale con il suffisso -ANUS, ma non è chiaro l’eventuale antroponimo latino da cui si sarebbe originato. Conserva i resti delle mura medievali e di un’antica fortezza, dagli storici identificata con il palazzo fatto erigere dal barone Ferreoli e poi distrutto dalla popolazione dopo l’assassinio del tirannico signore. Tra gli edifici religiosi spicca la parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo: edificata nel XVIII secolo, a pianta ellittica, è caratterizzata da due eleganti campanili simmetrici sulla facciata e all’interno custodisce una pregevole tela bizantineggiante del Quattrocento, raffigurante la Madonna con il Bambino; interessanti sono anche la chiesa di San Diego e l’attiguo convento francescano, risalenti alla fine del Cinquecento.
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
Comune di Salisano
Salisano è uno dei paesi piu caratteristici della Sabina, si affaccia sulla valle del Farfa, la sua origine risale alla prima metà del XI secolo.
Questo borgo è situato a 460 m s.l.m. sulle propaggini dei monti sabini e viene attraversato dal torrente Farfa.
Fa da cornice a questo meraviglioso borgo la catena montuosa del Tancia, molto suggestiva è la contrapposizione geografica al colle vicino dove c’è Mompeo, altrettanto belli e suggestivi sono i piani di Salisano che si trovano più in alto verso Tancia.
Il nome Salisano sembra avere origine a causa del fatto che l’unica via d’accesso al paese metteva a dura prova la resistenza fisica delle persone che intendevano raggiungerlo e secondo la tradizione poteva essere percorsa esclusivamente da chi era fisicamente sano, da qui salisano, ovvero Sali solo se sei sano.
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
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Comune di Salisano
Sede: Salisano (Rieti) Date di esistenza: sec. IX –
Intestazioni:
Comune di Salisano, Salisano (Rieti), sec. IX -, SIUSA
Già insediamento romano, dove sorgevano numerose ville di età imperiale, Salisano compare in epoca medievale nell’ 840 quando è citato in un diploma di Lotario I tra i possedimenti dell’Abbazia di Farfa. Attorno alla prima metà dell’XI sec. fu feudo dei Baronisci dai quali lo recuperò l’abate Berardo nel 1052; nel corso del secolo la proprietà si arricchì di diverse donazioni di cui l’Abazia ebbe in seguito ratifica dall’imperatore Enrico V nel 1118, da Urbano VI nel 1262 e da Benedetto XII nel 1339. [espandi/riduci]
Condizione giuridica:
pubblico
Tipologia del soggetto produttore:
ente pubblico territoriale
Bibliografia:
TARQUINIUS, Villeggiature Sabine: Salisano, in “Terra Sabina”, 8, 1924
Salisano: nascita e sviluppo di un Castello Sabino, Roma, Fornasiero editore, 2003
AA.VV., Città e paesi del Lazio, Roma, Editrice Romana s.p.a, 1997
Grappa, C., Storia dei paesi della provincia di Rieti, Poggibonsi, Lalli, 1994
Palmegiani, F., Rieti e la regione Sabina. Storia arte, vita usi e costumi del secolare popolo sabino, Roma, Secit, 1988
Gurisatti, g., Picchi, D., Salisano: formazione e sviluppo del centro antico, Salisano, Comune di Salisano, stampa 1988
Redazione e revisione:
Barbafieri Adriana, 2007/11/03, revisione
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Comune di Salisano Il popolo sabino, giunto dalle coste adriatiche, si stanziò intorno al secolo X-IX a.c. nella regione laziale a Nord Est di Roma, in centri quali: Reate (Rieti), Amiternum (presso l’Aquila), Nursia (Norcia), Fidenae, Cures, Nomentum (Mentana). Numerosi sono i riferimenti nella tradizione storica della partecipazione sabina alla fondazione di Roma, quale l’episodio famoso del ratto delle sabine, parzialmente confermato da elementi linguistici, per i quali non è possibile dubitare della partecipazione dei sabini al sinecismo iniziale di Roma. Nel 290 a.c. Curio Dentato conquistò tutto il territorio sabino, riducendo la popolazione a cives sine suffragio, fino a quando nel 268 a.c. ottennero piena cittadinanza essendo gradualmente assorbiti dallo stato romano. Allo stesso console romano si deve, alcuni anni dopo, il primo prosciugamento della paludosa piana reatina con l’apertura della “cava curiana” che dette luogo alla “Cascata delle Marmore”. Dopo un forte terremoto nel 174 a.c., il sorgere di numerose ville romane nella Sabina testimoniano un cambiamento nella riorganizzazione del territorio e dell’agricoltura. Furono chiamate villae rusticae, come ad esempio “i Casoni”, una villa romana attribuita a Varrone, sorta vicino all’odierno Poggio Mirteto. Intorno al II secolo a.c., il propagarsi del cristianesimo fu marcato da una serie di segni importanti: catacombe, chiese, cappelle. Testimonianze di ciò nella Sabina si ritrovano nelle rovine dell’antico municipio romano di Forum Novum, in località Vescovio, nel territorio di Torri in Sabina, costruito all’incrocio di due strade secondarie che collegavano il nuovo centro con la via Flaminia e la via Salaria. Di particolare interesse è anche la cattedrale edificata nelle vicinanze del Forum risalente allo stesso periodo di costruzione di questo. Notevole è il ciclo pittorico realizzato che scandisce i muri laterali. Sulla parte destra sono raffigurate scene dell’antico testamento, alcune delle quali divenute oggi quasi illeggibili. Sulla parete sinistra sono invece rappresentati momenti del nuovo testamento. L’interno, ad una sola navata, non è stato stravolto da rifacimenti in età moderna per la perdita di importanza della stessa sede diocesana traslata a Magliano Sabina. Livio e Dionigi d’Alicarnasso ricordano, nel periodo regio e repubblicano, guerre tra sabini e romani, fino a quando, nel 449, Roma riportando una vittoria definitiva, occupò Cures, Nomentum e Fidenae. In età longobarda, la Sabina fu invece divisa tra i ducati di Roma e Spoleto. Risale al VI secolo, con il diffondersi del cristianesimo e del monachesimo, la fondazione dell’Abbazia di Farfa la quale, insieme ai contigui edifici monastici, furono completamente distrutti dall’invasione longobarda. Sotto l’abate Ugo I° l’abbazia attraversò un fulgido periodo storico protetta dai Carolingi, in primis da Carlo Magno. Intorno all’abbazia, in virtù dell’opera dei monaci seguaci della regola di S. Benedetto, si sviluppò un borgo attivo di artigiani e di contadini in modo da vendere i loro prodotti nelle frequenti fiere che si svolgevano a Roma. Nel XII secolo la Sabina, con il declino del potere dell’Abbazia e il continuo affermarsi del dominio dello Stato pontificio, vide potenti famiglie feudatarie quali i Savelli, gli Orsini e i Colonna insediarsi in questa zona. Nel 1861 venne unificata all’Umbria e soltanto nel 1923 fu nuovamente aggregata al Lazio, costituendo poi, nel 1927 gran parte della nuova provincia di Rieti.
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Città del Vaticano-Giubileo 2025, una quattro giorni dedicata agli artisti e alla cultura –
Città del Vaticano-Giubileo 2025-Si è svolta stamattina, 12 febbraio, presso la Sala Stampa della Santa Sede, nella cornice del Giubileo della Speranza 2025, la presentazione del Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura che si terrà dal 15 al 18 febbraio. Il palinsesto ufficiale dell’evento, rivolto non solo agli artisti ma anche a quanti operano nelle istituzioni culturali e museali, si configura, nelle parole del cardinale José Tolentino de Mendonça, nonché prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, come «un grande incontro veramente mondiale, dal momento che riunisce più di 10mila partecipanti iscritti, provenienti da oltre 100 nazioni dei cinque continenti». Oltre al cardinale, hanno preso parte alla conferenza Lucia Borgonzoni, sottosegretario di Stato al Ministero della Cultura, Lina Di Domenico, capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia della Repubblica Italiana, Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani Cristiana Perrella, curatrice dello spazio Conciliazione 5 per l’Anno Santo 2025, Raffaella Perna, curatrice della mostra «Global Visual Poetry: traiettorie transnazionali nella Poesia Visiva», e Umberto Vattani, curatore del progetto «Bill Fontana. Gli echi muti di una grande scultura sonora».
De Mendonça ha esordito citando le parole del Santo Padre nella Bolla d’indizione del Giubileo: «Tutti sperano. Questa frase programmatica, che è alla base delle diverse iniziative che promuoveremo, da un lato rafforza la coscienza che la speranza è un’esperienza antropologica globale, che pulsa al cuore di ogni cultura, e dall’altro ci pone la sfida concreta di dare vita a occasione creative che consentano a tutti e a ciascuno di rianimare la speranza. Ci interrogheremo su come l’arte contemporanea possa veicolare questo sentimento».
Il programma dell’appuntamento giubilare seguirà il seguente calendario: sabato 15, a partire dalle ore 10, i Musei Vaticani ospiteranno l’incontro internazionale «Sharing hope-Horizons for Cultural Heritage», dove i responsabili dei grandi musei e delle istituzioni culturali, sempre nelle parole del cardinale «immagineranno forme di impegno comune». Come ha precisato Barbara Jatta, «abbiamo voluto celebrare non solo il Giubileo degli artisti, ma anche di tutti gli operatori del mondo dell’arte, storici, direttori, curatori. Con loro sottoscriveremo un Manifesto educativo sulla trasmissione del codice culturale delle religioni, un impegno che ci prendiamo in nome della speranza». Alle ore 18 si terrà l’inaugurazione dello spazio espositivo Conciliazione 5, «una galleria su strada, ha spiegato il de Mendonça, su via della Conciliazione, destinata a rimanere aperta anche oltre il Giubileo. La mostra inaugurale è un progetto del maestro Yan Pei-Ming, curato da Cristiana Perrella, che mette al centro affettivo e visivo dell’attenzione la comunità del Regina Coeli, il carcere “a km zero” da San Pietro. I ritratti di detenuti, detenute e operatori del carcere, saranno esposti presso lo spazio Conciliazione 5, e proiettati sulla facciata dello stesso Istituto penitenziario». Il progetto di Yan Pei-Ming, come ha illustrato Perrella «consiste in un polittico dal titolo “Oltre il muro. Regina Coeli Roma”, composto da 27 ritratti ad acquerello, di grande formato, realizzati dall’artista nel suo studio di Shangai in venti giorni, sulla base di fotografie scattate nel carcere da Daniele Molajoli. Conciliazione 5 è uno spazio di piccole dimensioni, grande poco più di 30 metri ma che ha grandi intenzioni, e uno scopo altrettanto forte».
Domenica 16 le iniziative si concentreranno in San Pietro, dove papa Francesco presiederà la celebrazione dell’Eucarestia, aperta a tutti e in particolare a quanti operano nelle arti e nella cultura. Dalle ore 20 si svolgerà, sempre a San Pietro, la Notte Bianca. Sotto il portico della basilica, i pellegrini saranno accolti dall’installazione sonora «Gli echi muti di una grande scultura sonora-Il Campanone di San Pietro», dell’artista Bill Fontana, curata da Umberto Vattani e Valentino Catricalà. Seguirà la visita alla basilica che avverrà, sempre secondo le parole del cardinale, «secondo una sorprendente coreografia spirituale».
Lunedì 17, alle ore 10, si terrà la prima visita di un pontefice a Cinecittà. Il papa incontrerà una delegazione di artisti e protagonisti del mondo della cultura, e sarà accolto da un coro molto speciale, quello degli Amici della Nave, composto da detenuti, ex-detenuti e volontari del carcere San Vittore di Milano. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con il Ministero della Cultura della Repubblica Italiana e Cinecittà SpA.
Martedì 18, infine, sarà inaugurata, negli spazi del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, la mostra «Global Visual Poetry», curata da Raffaella Perna, in collaborazione con Frittelli Arte Contemporanea. «Si tratta di una mostra, spiega Perna, che raccoglie 267 opere realizzate da 87 artisti (fra gli anni Cinquanta e Settanta) operanti in varie regioni del mondo. Una caratteristica della poesia visiva è proprio la sua capacità di superare steccati geografici, identitari e barriere ideologiche, creando una comunanza di ricerca artistica e scientifica sulla parola. Altra peculiarità di questa corrente è la sua istanza pacifista, quanto mai attuale. Proprio per questo abbiamo scelto, come immagine guida della mostra, l’opera di Lucia Marcucci “Pax”, un valore in cui tutti possiamo riconoscerci».
Gli appuntamenti del Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura sono realizzati in collaborazione e con il supporto di: Ministero della Cultura della Repubblica Italiana; Ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; Musei Vaticani; Cinecittà SpA; Enel SpA.; Società Italiana degli Autori ed Editori (Siae); St. Simon Parish, Los Altos (California); Montalvo Arts Centre, Saratoga (California).
Torri in Sabina (Rieti)- Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio : Studio del sistema idraulico sotterraneo –
Torri in Sabina (Rieti)– Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio, Avvio delle nuove indagini “Studio del sistema idraulico sotterraneo dell’antico municipio romano”. Il Gruppo ha ripreso le attività di ricerca nell’area archeologica di Vescovio, nel territorio del Comune di Torri in Sabina.
Il progetto, condotto sotto la direzione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti, è finalizzato allo studio del sistema di adduzione e deflusso delle acque dell’antico municipio romano di Forum Novum.
Le ricerche, in corso da diversi anni, hanno già portato alla scoperta di un cunicolo idraulico di epoca romana, attribuito all’acquedotto fatto realizzare da Publio Faiano.
L’obiettivo attuale è approfondire lo studio delle strutture ipogee ancora inesplorate, concentrandosi su pozzi, cunicoli e ambienti sotterranei collegati all’assetto idraulico del sito.
Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
Indagini in un’area finora inesplorata
Gli speleologi stanno operando in una zona del foro mai indagata dal punto di vista speleo-archeologico. La dott.ssa Nadia Fagiani, della Soprintendenza, sottolinea l’importanza di queste ricerche per comprendere le diverse fasi di sviluppo del municipio romano.
La presenza di numerosi elementi idraulici suggerisce un sistema complesso di gestione delle acque, che potrebbe fornire nuove informazioni sull’urbanistica e sull’organizzazione funzionale del sito.
L’uso della tecnologia Lidar permetterà di ottenere una mappatura tridimensionale dettagliata delle strutture sotterranee, mettendole in relazione con le evidenze murarie e gli ambienti di superficie.
Questo approccio consentirà di ricostruire il funzionamento del sistema idrico e di identificare eventuali ulteriori strutture non ancora documentate.
Partecipanti alla prima fase delle ricerche
Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
Alla prima fase della nuova campagna di studio hanno preso parte Giorgio Filippi, Arianna Armeni, Giorgio Pintus, Giovanna Politi, Alessandro Cardinale, Fabrizio Marincola, Michele Marinelli, Giulia Petroni, Giacomo Frongia, Maria Fierli, Maria Piro, Simone Del Cavallo e Cristiano Ranieri. Il gruppo proseguirà nei prossimi mesi con ulteriori esplorazioni e rilievi, al fine di acquisire dati utili alla ricostruzione del sistema idraulico di Forum Novum.
Foto di Cristiano Ranieri
Logo-Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
l Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio nasce a Salisano, un piccolo paese della provincia reatina, nel dicembre del 1993. Tra il 1994 ed 1997 il Gruppo ha svolto ricerche paletnologiche nel territorio sabino scoprendo e valorizzando numerosi siti preistorici sia in grotta che lungo i crinali dei Monti Sabini. Alcuni dei reperti paletnologici rinvenuti sono oggi conservati ed esposti al Museo Protostorico di Magliano Sabina. Dal 1997 proseguono senza sosta le esplorazioni e le ricerche di testimonianze preistoriche nelle grotte del territorio sabino tra cui Grotta Scura nel comune di Castelnuovo di Farfa e la Grotta Pila nel comune di Poggio Moiano oggetto quest’ultima di indagini negli anni ’50 da parte del Prof. Aldo Segre. Lungo il costone di Battifratta a Poggio Nativo, il Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio ha scoperto nuove cavità naturali al cui interno sono stati rinvenuti reperti ceramica di epoca protostorica. Dal 1997 il Gruppo ha avviato un’intensa collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio per la tutela e salvaguardia delle cavità naturali e degli ipogei antichi di origine antropica esplorando e scoprendo nuove cavità naturali al cui interno vengono rinvenuti reperti di epoca romana riferibile al culto della dea Vacuna. Resti ceramici di epoca romana vengono individuati e recuperati per la prima volta dal Gruppo anche nella Grotta Formicara a Scandriglia e nella Grotta Grande di Muro Pizzo a Monteleone Sabino. Inoltre il Gruppo scopre nuove cavità naturali tra cui la Risorgenza delle Venelle sempre a Monteleone Sabino e la Grotta Arocaro a Salisano al cui interno sono stati recuperati reperti archeologici di epoca romana. I risultati delle ricerche vengono pubblicati su riviste e bollettini del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le indagini sono ancora in corso sotto la direzione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio. Dal 1999 il gruppo si sta occupando della revisione dei dati catastali delle cavità naturali presenti in Sabina con aggiornamenti topografici del territorio. Nel 1997 il Gruppo avvia le prime ricerche di speleologia urbana in Sabina che si rivela essere un territorio ricco di cavità artificiali, in particolare cunicoli e acquedotti di epoca preromana. Le esplorazioni e le scoperte di nuovi ipogei artificiali sono ancora in corso. Dal 2002 il Gruppo inizia a collaborare con la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Roma con ricerche speleologiche negli ipogei di Roma e nel territorio circostante. Nel 2003 viene portato a termine l’esplorazione completa del Colosseo e l’anno seguente iniziano le prime ricerche speleologiche lungo le pendici nord-orientali del Palatino. Dal 2005 il Gruppo inizia lo studio sistematico di tutto il sistema idraulico sotterraneo del Foro Romano. Le ricerche sono ancora in corso. Il Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio organizza annualmente campi speleo e corsi di speleoarcheologia. Collabora con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, con il Dipartimento di Archeologia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e con numerosi enti ed università straniere. Ha preso parte inoltre alla realizzazione di documentari e programmi tv partecipando a convegni sia in Italia che all’estero.
Il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS) è una struttura operativa del Club Alpino Italiano, dotata di un proprio atto costitutivo, uno statuto e un regolamento generale, approvati dall’assemblea nazionale che è l’organo sovrano di autogoverno. L’organizzazione è articolata in Servizi Regionali, coordinati da una direzione nazionale, alla quale fanno capo anche le scuole nazionali. Ogni servizio regionale si articola in Delegazioni (alpine) e Zone (speleologiche) che a loro volta sono costituite da più stazioni (alpine o speleologiche). Gli oltre 7000 operatori del CNSAS sono tutti alpinisti o speleologi di provata esperienza e capacità, in possesso delle nozioni di base di soccorso sanitario. La specifica preparazione e il costante aggiornamento sono la garanzia di un’elevata professionalità, che si esplica in caso di soccorso in ambiente disagiato, impervio od ostile. Il CNSAS interviene per tutti gli incidenti che possono verificarsi nel corso di attività escursionistiche o alpinistiche (sentiero, parete, cascata di ghiaccio, crepaccio ecc.), speleologiche (grotta), speleosubacquee (grotte allagate, laghi di montagna), torrentistiche (forra e canyon), in caso di calamità naturali (valanghe, alluvioni, terremoti ecc.), per arresto di impianti a fune (seggiovie, funivie ecc.), ma anche per eventi ordinari che si verificano in luoghi difficilmente raggiungibili dalle normali èquipes sanitarie. La regione Lazio ricade interamente nella V Zona di Soccorso Speleologico, all’interno della quale il CNSAS opera tramite il Soccorso Alpino e Speleologico del Lazio (SASL).
Il Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio ha sede a Salisano, un piccolo paese della Sabina in provincia di Rieti e a pochi chilometri da Roma. Passando al di sotto della Porta Calvina si accede all’antico borgo medievale di Salisano. Dalla piazza principale su cui si affaccia il municipio e la chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo, tre strade parallele ed unite tra di loro da vicoli traversi immettono alle antiche contrade comunali.
Percorrendo Via Umberto I°, la strada centrale, si giunge al “Perticolle”, ove un tempo sorgeva la Porta del Colle. Questa via era chiamata “Strada Dritta” ed indicava appunto la Contrada della Strada Diritta. Le altre due vie principali del paese sono Via degli Archi (Contrada dei Ponti) caratteristica per la presenza di ponti e case torri del 1300 e Via Regina Elena (Contrada dell’Olmo). Proprio a via degli Archi, nell’antica spezieria medievale del castello di Salisano, ha sede e si riunisce il nostro gruppo
Logo-Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
Santa Teresa d’Avila e la Poesia mistica- Articolo di Antonio Tarallo-
“Il poeta comincia dove finisce l’uomo”, così sentenziava il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset. Santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, nella sua profonda esperienza mistica, si è servita anche della poesia, oltrepassando così con i suoi componimenti quel guado che divide l’uomo dall’infinito.
Eppure troppe volte sono stati dimenticati i suoi versi in cui è possibile trovare un vero e proprio scrigno di bellezza e di spiritualità. Al loro interno, infatti, è possibile persino scovare quella che sarà poi conosciuta comunemente la “trasverberazione del cuore”, una delle grazie mistiche di cui santa Teresa spiegherà nella sua Vita, l’autobiografia della santa: il dardo, la “freccia” dell’Amore di Dio colpisce il suo cuore, lo tramuta e lo sublima facendolo avvicinare al Cuore di Dio in nozze mistiche. Nozze che, in molte occasioni, sembrano essere celebrate dalla santa nei suoi componimenti poetici: santa Teresa ascende a Dio così come discende nelle profondità della poesia.
L’Estasi di Santa Teresa d’Avila-Opera del Bernini
Sfogliando queste pagine poetiche, è possibile dividere la produzione in versi in tre determinati gruppi: prima di tutto troviamo le poesie mistiche nelle quali si respira tutta la spiritualità della santa; il secondo gruppo comprende le poesie che hanno come oggetto le feste liturgiche come il Natale, l’Epifania o l’Esaltazione della Croce; e, infine, il terzo gruppo, scritte – come lei stessa le definisce – con “stile di fratellanza e di ricreazione”: sono versi che celebrano avvenimenti interni alla comunità religiosa per allietare le consorelle della comunità monastica.
Tre diverse situazioni poetiche, ma con un elemento in comune ben preciso: la Bellezza. Santa Teresa è stata sempre affascinata – fin dalla fanciullezza – dalla bellezza artistica, nelle sue diverse espressioni, ma specialmente era attratta dall’arte pittorica e scultorea. Più volte, nel libro della sua Vita, si sofferma sul piacere che prova per l’armonia scaturita dalla musica del fruscio della campagna che la circonda. Più volte si sofferma sulle note di una canzone che ha ascoltato. E’ proprio questo, infondo, l’humus dell’anima da cui nasceranno i suoi versi, frammenti poi di una Bellezza ancora più vasta, quella del Signore. Un riassunto della sua visione poetica è possibile trovarlo in questi suoi versi che delineano, tratteggiano con efficacia il suo animo poetico dedicato a Dio: “Bellezza che trascendi/ ogni bellezza!/ Senza ferire, fate soffrire;/ senza dolore, voi fate morire”. Passare in rassegna tutte le poesie che ha composto santa Teresa sarebbe impresa alquanto ardua visto la molteplicità di temi affrontati. Cercheremo, allora, di fare una breve selezione.
Vivo sin vivir en mi (Vivo ma non vivo in me) è questo il nome di una delle poesie-canzoni più importanti della sua produzione. I versi racchiudono ossimori e altre figure retoriche assai care ai poeti, di ogni epoca: “Vivo ma non vivo in me/e attendo una tal vita/ da morirne se non muoio”.
E ancora “Questa divina prigione/ dell’amore in cui vivo,/ ha reso Dio, mio prigioniero/ e libero il mio cuore;/ e causa in me tanta passione/ da morirne se non muoio”. Del tutto particolare, rimane la seconda tipologia di produzione, quella legata alle feste liturgiche. Il loro maggior merito è quello di aver introdotto nei monasteri carmelitani il ricorso alla poesia come componente festiva della vita religiosa. Un tema fondamentale – e non poteva essere altrimenti – per l’ordine carmelitano è quello della Croce che santa Teresa canta in diversi componimenti da condividere con le proprie consorelle. E’ il caso di En la Cruz está la vida (Nella Croce risiede la vita), composta per le religiose del monastero di Soria, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce: “Le religiose la cantano durante la processione che fanno in detto giorno per i corridoi del monastero, recandosi al luogo della sepoltura comune, sotto il coro inferiore. E’ una funzione commovente: si procede a croce alzata, e le religiose tengono in mano rami di palma e di olivo”, così si legge in un antico manoscritto.
I versi che santa Teresa compone per quest’occasione sono versi dal ritmo serrato, scandito da sillabe che vengono cadenzate in rima. Bisogna ricordare che questi componimenti vivevano poi dell’improvvisazione delle consorelle. Si può, dunque, solo immaginare l’effetto vero e proprio che potevano avere. Altra occasione, il Santo Natale: nei monasteri carmelitani si respirava un’aria di particolare gioia durante le feste natalizie; ogni comunità aveva le sue modalità di festeggiare e molte di queste sono state introdotte dalla stessa Santa Teresa e dall’altro poeta carmelitano San Giovanni della Croce. E’ possibile trovare il tema della notte santa nelle seguenti poesie: Pastores que veláis (Pastori che vegliate), nel componimento Al nascimento de Jesús (Per la nascità di Gesù), e ancora nella graziosa canzone En la noche de Navidad (Nella notte di Natale).
L’entrata di una nuova sorella nel Carmelo era poi celebrata come una grande festa. Ed è così che nascono per queste occasioni speciali alcuni poemetti che riescono a offrirci una sorta di fotografia della vita nei monasteri del Carmelo: “Il leggiadro vostro velo/ dice a voi di stare in veglia/ di montar la sentinella, fino a che lo Sposo venga./ Nella vostra mano accesa/ sempre abbiate una candela;/ sotto il velo state in veglia”.
Santa Teresa, una voce poetica votata al Signore; un forziere di ricordi e immagini che andrebbe riscoperto perché la mistica passa anche per la poesia.
Storia-Cenni storici sulla comunità luterana di Roma
Chiesa evangelica luterana di via Sicilia a Roma
Storia-Cenni storici sulla comunità luterana–A Roma i luterani sono presenti sin dall’inizio del XIX secolo, all’epoca ancora Stato Pontificio. Fu il segretario della Legazione di Prussia presso la Santa Sede ad ottenere il via libera per celebrare i culti che tuttavia si dovevano svolgere in un quadro privato.
Il primo culto evangelico si tenne il 9 novembre 1817, in occasione del Tricentenario della Riforma di Lutero, nell’abitazione del Segretario di Legazione, Christian von Bunsen, in piazza dell’Aracoeli alle pendici del Campidoglio. Poco dopo l’imperatore Federico Guglielmo III, re di Prussia, su richiesta della stessa comunità, fece inviare un pastore all’ambasciata a Roma, Heinrich Schneider, il primo ministro di culto evangelico della città, che prese servizio dal giugno 1819. Fu questa la base per il graduale espandersi della piccola comunità internazionale di lingua tedesca a Roma.
Nel 1823, nella sede della Legazione prussiana, al pianterreno di palazzo Caffarelli sul Campidoglio, fu istituita una cappella, dove per circa 100 anni furono celebrati i culti della comunità luterana.
Chiesa evangelica luterana di via Sicilia a Roma
Con la fine del dominio pontificio e con la piena libertà di religione e di culto garantita con l’Unità d’Italia, la comunità evangelica romana si sviluppò ulteriormente potendo finalmente uscire dalla sua condizione di semiclandestinità. Tant’è che il pastore presso l’ambasciata promosse la prima “Conferenza annuale dei pastori di lingua tedesca in Italia” che si riunì a Roma nel 1880.
Raccolte di denaro per la costruzione di una chiesa evangelica tedesca a Roma furono organizzate in Germania già a partire dal 1890. A questo scopo nel 1894 fu fondato il “Comitato evangelico tedesco per Roma”, che nel 1899 permise di acquistare un lotto all’angolo di via Toscana con via Sicilia, dove sarebbe sorta la chiesa. Nell’agosto del 1909 un regio decreto di Vittorio Emanuele III concesse l’autorizzazione ad edificare e il 2 giugno 1911 fu posata la prima pietra. Tuttavia, lo scoppio della prima guerra mondiale rinviò l’ultimazione dei lavori, giunti già a buon punto, e non permise l’inaugurazione della chiesa programmata per il 1917, in occasione delle celebrazioni del Quattrocentenario della Riforma protestante. L’inaugurazione della “Christuskirche” ebbe luogo il 5 novembre 1922.
L’abside della “Christuskirche”, chiesa evangelica luterana di Roma
La chiesa in stile neobizantino – costruita secondo la concezione architettonica guglielmina propria dell’epoca – è opera dell’architetto Franz Schwechten (1841-1924), autore anche della Kaiser-Willhelm-Gedächtnis-Kirche di Berlino. Dalla Germania arrivarono gli arredi: il fonte battesimale e il pulpito sono di Magdeburgo, l’altare proviene da Erfurt. Fiore all’occhiello della chiesa sono però le campane di bronzo fatte sul modello di quelle della “Schlosskirche” di Wittenberg, dove nel 1517 il riformatore Martin Lutero affisse le sue 95 tesi. Durante la Grande Guerra, nel 1917 furono fuse a scopo di armamento, ma per l’inaugurazione del 1922 furono rifatte tali quali.
Oggi la chiesa di via Sicilia è guidata dal pastore Jens-Martin Kruse ed è composta da circa 350 membri (www.ev-luth-gemeinde-rom.org).
Loreto MATTEI Poeta e Scrittore di Rieti-Il sonetto pubblicato a Venezia nel 1697-
Loreto MATTEI- Poeta e Scrittore di Rieti-Il sonetto pubblicato a Venezia nel 1697-
Loreto MATTEI– Nacque il 4 apr. 1622 a Rieti da Pietro Paolo e da Orinzia Pennicchi, entrambi di nobili origini. Dopo avere ricevuto la prima istruzione da un precettore, intraprese gli studi di umanità e di retorica nel pubblico collegio di Rieti. Al 1641 risale il matrimonio con la nobile reatina Porzia Cerroni
Loreto MATTEI (Ghezzi)Loreto MATTEI -Sonetti-
Un sonetto di Loreto MATTEI- “Sulla Città di Rieti”:
Riète méa, nobile e jentile più de quante città che bée lu sòle, de stà lontanu a tì me ncresce e dole, e ne rappenno un parmu de moccile.
Ma que?! No bòglio ’e passe istu abbrile, e fatte non sarau le ceresciole, che strareenerajo, se Dio ole, a rempimme de rapa lu roscile
N’ajo ’naoglia ch’è tantucruele, a résecu ne ’a no me n’ammale e me ne scolecòe le cannele.
Bignarìacòe li célli aessel’ale, Rièteméa bella ónta ’e mèle, de reedette pare me ne cale.
Loreto MATTEI -Sonetti-
Un sonetto di Loreto MATTEI-Descrizione della Città di Rieti
Freddo ciel, suol fangoso, acque nocenti,
cotti vini, frutti acerbi, inutil legni,
aspri monti, vie rotte, alberghi indegni,
nero pan, erbe sciocche, magri armenti,
poco sol, nebbie eterne, aridi venti,
chiare invidie, odj interni, ascosi sdegni,
lingue audaci, cuor vili, stolti ingegni,
donne brutte, e ritrose, ed empie genti,
di furti e di rapine aperte scuole,
fraudolenti pensieri, e spirti inquieti,
genti infami, opre rie, finte parole,
frati ignoranti, ambizïosi preti,
maldicenze, e menzogne, e vizi, e fole
forman la bella mia città di Rieti.
Loreto MATTEI
Biografia di LORETO MATTEI Poeta e Scrittore di Rieti
Loreto MATTEI (Ghezzi)
LORETO MATTEI– Nacque il 4 apr. 1622 a Rieti da Pietro Paolo e da Orinzia Pennicchi, entrambi di nobili origini.Dopo avere ricevuto la prima istruzione da un precettore, intraprese gli studi di umanità e di retorica nel pubblico collegio di Rieti. Al 1641 risale il matrimonio con la nobile reatina Porzia Cerroni. La morte del padre, nel 1645, ispirò una serie di componimenti intitolati Morte paterna, dei quali, come di altre opere giovanili (l’opera scenica in versi sciolti Il gigante Golia; il dramma per musica Il figliuol prodigo), si è perduta ogni traccia. In quegli anni il M. si rivolse soprattutto a tematiche religiose e i suoi componimenti riscossero un certo successo anche fuori dalla cerchia cittadina. La prima opera del M. pervenuta è La patria difesa dalle ingiurie del Tempo…, celebrazione della storia e del territorio di Rieti nel discorso pronunciato all’inaugurazione dell’anno scolastico della scuola cittadina di eloquenza e filosofia in cui insegnò (l’opera è stata pubblicata solo nel 1890, a Rieti, a cura di F. Ferrari). Nel decennio 1640-50 il M. fu segretario dell’Accademia del Tizzone e partecipò attivamente alla vita pubblica di Rieti. Nel 1650, insieme con Angelo Alamanni, fu uno dei membri della commissione costituitasi per l’erezione di una cappella in onore di S. Barbara, patrona della città, e fu incaricato di scegliere il luogo adatto nella cattedrale e di assegnare la commessa. I due delegati riuscirono a mettere a segno un colpo prestigioso ingaggiando, per il progetto della cappella e della statua nella cattedrale, Gian Lorenzo Bernini, che frequentava la città perché nel convento di S. Lucia si trovavano tre sue nipoti. La statua di S.Barbara, che ancora oggi fa mostra di sé, fu poi realizzata da Giovanni Antonio Mari.
Il M. fu gonfaloniere per i mesi di novembre e dicembre del 1651 e del 1656. Il 16 marzo 1659 fu eletto podestà e pretore. Dopo l’improvvisa morte della moglie, il 10 luglio 1661, dalla quale aveva avuto nove figli, il M. scelse la via del sacerdozio. I voti furono pronunciati nello stesso 1661. Iniziò così lo studio della teologia, e più frequenti si fecero le letture dei Padri della Chiesa e della storia ecclesiastica. Nacque così il progetto di ridurre in metri lirici i centocinquanta Salmi di Davide. L’impresa lo tenne occupato nove anni e nel 1671 il Salmista toscano vide la luce a Macerata.
L’opera, dedicata a monsignor Alessandro Crescenzi, patriarca d’Alessandria, maestro di camera di Clemente X, si inserisce nel filone della poesia davidica ispirato dalla cultura neotridentina, al quale è da ricondurre la maggior parte delle opere del Mattei. Il Salmista toscano ebbe grande successo e in pochi anni se ne pubblicarono numerose edizioni. Principi d’Italia e di Germania accolsero con entusiasmo l’opera loro inviata dal conte Agostino Fontana, e in special modo fu apprezzata dall’imperatrice Eleonora Gonzaga. Le lettere di ringraziamento ed elogio spedite dagli augusti lettori, tra le quali particolarmente encomiastica quella dell’imperatrice, furono raccolte e pubblicate nell’edizione bolognese del 1679.
Il vescovo di Rieti Ippolito Vincentini (presule dal dicembre 1670) nominò il M. esaminatore sinodale, dandogli un ruolo di primo piano nella gerarchia del seminario di Rieti. L’impegno svolto con solerzia lo spinse a lavorare anche alla parafrasi dei cantici biblici che, di nuovo per mezzo del conte Fontana, faceva pervenire manoscritti all’imperatrice. Nel 1686 Le parafrasi toscane cioè sette cantici biblici, e li tre evangelici, et il cantico de’ ss. Ambrogio, et Agostino con le parti principali della christiana dottrina e finalmente il Cantico de’ cantici di Salomone esposto in senso morale uscirono a Vienna «consecrate all’augustissimo nome di Eleonora Gonzaga». Il 16 ott. 1687 Eleonora richiese al Fontana altre parafrasi di scritture sacre: «attendiamo da voi con sollecitudine tutti li Gloria Patri, che subito comanderemo la stampa del Salmista intiero, con questi ancora à maggior gloria del medemo Mattei, la di cui Parafrasi (che ha quasi del divino) ha reso immortale al mondo il di Lui nome» (Vincentini, p. 176). Poche settimane più tardi l’imperatrice morì e la ristampa del Salmista prevista a Vienna fu eseguita a Bologna nel 1688 con dedica al principe Odoardo Farnese (figlio di Ranuccio II) a firma di Carlo Emanuele, figlio del conte Fontana, che si trovava come paggio nella corte del principe. In questa ristampa furono aggiunte «altre parafrasi delle parti principali della dottrina cristiana in sonetti, ed altri metri».
Parallelamente alle parafrasi bibliche il M. lavorò per molto tempo anche a un’altra opera, che vide la luce a Rieti nel 1679 con il titolo Metamorfosi lirica d’Horatio parafrasato, e moralizato e la dedica all’imperatrice. Seguì la ristampa Bologna 1682, e nel 1686 ancora a Bologna insieme con l’Arte poetica tradotta. Del 1682 (Roma) è anche la traduzione, stampata a fronte nello stesso volume, del Divae Clarae triumphus, oratorio scritto in latino dall’abate Francesco Noceti e musicato da Bernardo Pasquino.
A Bologna nel 1689 il Mattei pubblicò la Hinnodia sacra, che egli stesso definiva il suo «Beniamino». Ancora una volta l’impegno religioso-sociale si manifestava a chiare lettere. Ai «cantillamenti» volgari e osceni che si udivano in particolare dai giovani, il M. infatti contrapponeva gli inni del Breviario romano. Nonostante le cagionevoli condizioni di salute lamentate nella dedicatoria ai vescovi Marco Antonio (di Foligno) e Ippolito Vincentini, il M. lavorò con zelo: nella traduzione usò lo stesso metro dell’originale, a ogni inno premise il nome dell’autore, lo scopo e il momento della giornata nel quale doveva essere cantato.
Nel 1695, a Modena, uscì L’asta d’Achille, che ferisce, per sanare il Salmista toscano. Quest’opera traeva le conclusioni di una benevola polemica iniziata il 27 luglio 1681 con una lettera che Domenico Bartoli, anagrammando il proprio nome in Nicodemo Librato, aveva inviato al M. per contestargli «qualche licenza di lingua, che per lo più sono minuzie grammaticali» (Vincentini, p. 177). Ne nacque una controversia erudita. Anche il M. anagrammò il suo nome in Orelto Tameti e rispose a Bartoli; l’«amichevole zuffa» durò fino al 1682. Dopo avere svelato la vera identità, i due letterati si inviarono i rispettivi ritratti (in questa occasione il M. ne fece uno di sua mano) e l’opera che il M. aveva preparato per difendersi dalle «accuse» di Bartoli e che aveva intitolato Scudo di Pallante fu messa da parte. La «contesa» si tramutò in amicizia e si concluse benevolmente con L’asta d’Achille del 1695. Nello stesso anno a Venezia il M. pubblicò un’opera «dotta e ingegnosa»: Teorica del verso volgare, e prattica di retta pronuntia, con un problema della lingua latina, e toscana in bilancia, ultimo suo lavoro a vedere la luce in vita; in quest’opera, oltre che trattare di metrica volgare e di ortoepia, teorizza la superiorità del toscano sul latino in virtù della ricchezza delle voci, della versatilità nei diversi stili, della facilità dell’ornato retorico, della dolcezza del suono e della chiarezza del senso.
L’attenzione per la storia di Rieti, che aveva sollecitato i primi interessi del M., si ripropose negli ultimi anni, durante i quali lavorò per dare agli studiosi una storia analitica della città: L’Erario reatino, historia dell’antichità, stato presente, e cose notabili della città di Rieti, rimasto incompiuto per la morte ed edito solo nel 1995 (a cura di G. Formichetti, in Il Territorio. Rivista quadrimestrale di cultura e studi sabini, X [1994], numero unico; ed. anast. in L. Mattei, Sonetti. Erario Reatino, a cura di L. Mattei, Rieti 2005).
Il 2 febbr. 1692 il M. fu accolto in Arcadia con il nome di Laurindo Acidonio. Nel 1702 perdette due dei tre figli rimastigli: Pietro, canonico della cattedrale di Rieti, ad agosto e Giovan Battista in ottobre. L’unico figlio in vita, Paolo, si trovava a Jesi in qualità di luogotenente del conte Odoardo Vincentini. Per averlo presso di sé il M. ottenne che gli fosse concessa la carica di canonico della cattedrale.
Per un’accidentale caduta sui gradini di casa il M. rimase gravemente ferito alla testa e dopo due giorni di agonia, il 24 giugno 1705, morì a Rieti.
Il M. esprime un modello tipico di intellettuale controriformista; le sue opere e la sua vita riflettono i ritmi della tipica provincia pontificia. Era capace di giudicare la fondatezza dei fatti storici facendo unicamente riferimento alla Bibbia e reputando al contempo «false e bugiarde» le fonti classiche che pure conosceva. Proprio per questo, assolutamente sorprendente e quanto mai originale è il fatto che, accanto all’intellettuale ligio e morigerato, un’altra parte della sua produzione (rimasta inedita fino al XIX secolo: si veda il regesto analitico dei codici in Formichetti, 1979, pp. 190-210) presenta un poeta stravagante e trasgressivo, nelle forme come nei contenuti. I suoi Sonetti in vernacolo reatino costituiscono un unicum e non solo fra i contemporanei; non è un caso se, per un’apparizione a stampa della musa «sconcia e scuntrafatta» matteiana dovrà trascorrere oltre un secolo dalla sua morte, nelle Poesie, a cura di E. Valentini, Rieti 1829. I testimoni pervenuti, per di più scarsi prima dell’Ottocento, fanno intravedere una circolazione non ufficiale, probabilmente anche orale, come accadrà più tardi per il Belli, che lesse e tenne ben presenti i sonetti dialettali del Mattei. Curiosamente, a prefare la editio princeps del 1829 fu l’«austriacante e papalino» Angelo Maria Ricci, che pose sotto il suo patrocinio la poesia matteiana, peraltro dopo averne rimosso i sonetti più sconvenienti e aver ritoccato la riscrittura di non pochi versi. I più recenti studi restituiscono al M. un ruolo di primo piano nella letteratura dialettale nazionale.
L’elenco dei manoscritti e delle edizioni delle opere del M. è in Formichetti, 1979, pp. 189-210, 222-223.
Fonti e Bibl.: G. Vincentini, Vita di L. M. reatino, in Le vite degli Arcadi illustri, a cura di G.M. Crescimbeni, Roma 1710, pp. 167-191; A. De Nino, Briciole letterarie, II, Lanciano 1885, pp. 51-65; B. Campanelli, Fonetica del dialetto reatino, Torino 1896, passim; F. Egidi, Curiosità dialettali del secolo XVII, in Miscellanea per nozze Crocioni – Ruscelloni, Roma 1908, pp. 213-219; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1971, p. 464; M. Colantoni, L. M. poeta in dialetto, in Rieti, I (1973), pp. 209-247; Belli italiano, a cura di R. Vighi, III, Roma 1973, p. 166; G. Formichetti, Inediti di L. M., in La Rass. della letteratura italiana, LXXXIII (1979), pp. 181-224; Id., Un intellettuale reatino del XVII secolo: L. M., in Lunario romano, X, Seicento e Settecento nel Lazio, a cura di R. Lefevre, Roma 1980, pp. 307-318; La Bibbia del Belli…, a cura di P. Gibellini, Milano 1987, pp. 203-208; P. Gibellini, I panni in Tevere: Belli romano e altri romaneschi, Roma 1989, pp. 74-79; G. Formichetti, Momenti delle poetica moderato-barocca: L. M. poeta e antiquario, in Id., I testi e la scrittura. Studi di letteratura italiana, Roma 1990, pp. 143-257; Id., M. quasi sconosciuto. I sonetti in dialetto reatino secondo la redazione dei codici Marchetti e Perotti, Rieti 1992; P. Trifone, Roma e il Lazio, in L’italiano nelle regioni. Lingue nazionali e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino 1992, pp. 569-572; U. Vignuzzi – P. Bertini Malgarini, Il canzoniere reatino di L. M., in Storia della letteratura italiana, V, La fine del Cinquecento e il Seicento, 2, a cura di E. Malato, Salerno 1997, pp. 801-803.
Scheda di Gianfranco Formichetti – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 72 (2008)-
UMBERTO SABA. Quello che resta da fare ai poeti. Trieste, Edizioni dello Zibaldone (Fratelli Cosarini), 1959 (Aprile)- Questo interessante saggio, scritto nel 1911, fu inviato da Saba a “La Voce” e rimase inedito per il rifiuto di Scipio Slataper. Nota introduttiva di Anita Pittoni. Prima edizione postuma.
Umberto Saba Il poeta sereno e disperato -Tra i più importanti poeti italiani del Novecento, Umberto Saba è l’unico a non aver vissuto le esperienze dell’avanguardia e del simbolismo. Nei suoi versi vuole rinnovare la tradizione lirica italiana, da Petrarca a Leopardi. Il suo linguaggio è semplice e diretto, come la lingua parlata. I temi che sceglie sono autobiografici, analizzati attraverso lo studio delle teorie psicoanalitiche di Freud
Gli anni della formazione
Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883. L’abbandono della famiglia da parte del padre prima della sua nascita, le apprensioni della madre, di origine ebrea, l’affetto eccessivo della balia slovena saranno momenti sempre ricordati e sviscerati nella sua poesia, che si caratterizza subito come autobiografica.
La carriera scolastica è irregolare; la sua giovinezza, agitata da problemi prima familiari e poi razziali – egli vive nel ghetto di Trieste –, trova un rifugio nella fantasia e in quelle che egli poi definì «le sterminate letture d’infanzia». Le prime prove poetiche sono caratterizzate da parole semplici e da ritmi cantabili, ma in realtà dietro quella superficie si nascondono tanti dolori. Un suo verso, infatti, recita: «Quante rose a nascondere un abisso!».
Quando è in età di poterlo fare, lascia il cognome paterno (Poli) come segno di ostilità verso il padre e sceglie lo pseudonimo di Saba – parola ebraica che significa «pane» – in omaggio alla mamma.
Nel 1905 si trasferisce a Firenze, dove prende contatto con gli ambienti intellettuali della città, tra cui la rivista La voce, ma i rapporti sono di reciproca incomprensione. Nel 1909 torna a stabilirsi a Trieste e sposa Carolina Wölfler, la Lina del Canzoniere, da cui l’anno seguente avrà la figlia Linuccia. Nel 1911 esce a spese del poeta il primo libro di versi, Poesie.
L’incontro con la psicoanalisi
Dopo la Prima guerra mondiale, alla quale partecipa ricoprendo ruoli amministrativi e di retroguardia, Saba rileva a Trieste una bella libreria antiquaria che gli consentirà di vivere modestamente per tutta la vita e di dedicarsi alla produzione poetica. Nel 1921, con il marchio editoriale della libreria, pubblica il Canzoniere, che comprende tutte le liriche composte fino ad allora. Le più particolari sono quelle in cui il poeta paragona con un tono affettuoso e delicato l’uomo agli animali: identifica sé stesso con una capra; la moglie con una serie di bestie, come una bianca pollastra, una giovenca e una rondine; i militari con giovani cani.
Nel 1929 si sottopone a una terapia psicoanalitica con il dottor Edoardo Weiss, allievo di Sigmund Freud, per curare una nevrosi da cui era afflitto. La conoscenza delle teorie freudiane gli conferma alcune sue intuizioni sull’importanza delle esperienze infantili nella formazione della personalità, e di conseguenza la psicoanalisi gli appare come uno strumento fondamentale per la conoscenza dell’animo umano.
La poesia autobiografica
Nel 1945 esce il secondo libro del Canzoniere, nel quale confluiscono le raccolte poetiche successive al 1921: tra esse troviamo Il piccolo Berto, dove il poeta analizza i traumi della sua infanzia attraverso un immaginario dialogo tra il Saba adulto e il Saba bambino.
Nel 1938, in seguito all’introduzione delle leggi razziali, aveva dovuto abbandonare Trieste e rifugiarsi a Parigi. Le persecuzioni contro gli Ebrei, la Seconda guerra mondiale e la crisi triestina dell’immediato dopoguerra aggiungono motivi sociali e politici all’infelicità del poeta. Sono esperienze che tornano insistenti nelle ultime raccolte di poesie, riunite nella terza parte del Canzoniere. Tra esse però troviamo anche le Cinque poesie per il gioco del calcio, attraverso le quali Saba realizza il desiderio di non sentirsi, per una volta, solitario tra gli uomini, e di riuscire a condividere con loro una passione. Sono pure l’occasione di riparlare dei ragazzi, del loro amore per i calciatori, e di ricordare le pulsioni e le delusioni della propria infanzia.
A Trieste Saba trascorre gli ultimi anni della vita con prolungati ricoveri in clinica, dovuti alla sua nevrosi, resa più acuta dalla perdita della moglie. Compone ancora delle raccolte di versi e un romanzo rimasto incompiuto, Ernesto. Muore a Gorizia nel 1957.
UMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poetiUMBERTO SABA Quello che resta da fare ai poeti
Biblioteca DEA SABINAGiorgio Amendola- Intervista sull’antifascismo
a cura di P. Melograni- nuova edizione con prefazione di P. Melograni
Editori Laterza-Bari
SINOSSI
“Errata. Ma non solo quella dei comunisti. L’analisi della situazione italiana nel ’21 fatta da tutti i gruppi dirigenti socialisti era errata. Anche Turati, su cosa puntava? Puntava su un risanamento della borghesia, del gruppo dirigente della borghesia; puntava su una vittoria di Giolitti, su un ritorno al buon governo: qualche cosa che non soltanto non era accettabile dal movimento operaio, ma che era anche utopistico, perché ormai la borghesia aveva altri disegni, lo sono pronto ad accettare una critica che riguarda gli errori di prospettiva allora commessi dai comunisti; ma allargo questa critica a tutti i socialisti. Nessuno comprese questa critica a tutti i socialisti. Nessuno comprese che cosa era il fascismo, l’originalità di questo movimento di massa.” In questo libro-intervista Giorgio Amendola fa un’analisi originale e spregiudicata dell’antifascismo, per coglierne meriti storici e debolezze politiche e culturali.
Giorgio Amendola
L’AUTORE-
Giorgio Amendola (Roma, 1907-1980), politico di rango, storico protagonista della lotta al fascismo e della edificazione della nuova Italia nata dalla Resistenza, è stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, prima nel governo Parri e poi nel primo governo De Gasperi, e deputato al Parlamento nelle fila del Partito comunista italiano.
Giorgio Amendola
RECENSIONE DEI LETTORI
Sono più che mai convinto che sia necessario in questi anni tornare a leggere di antifascismo: anche e soprattutto in mezzo a questa pandemia, che è percepita da molti come una versione adeguata al mondo globalizzato di una guerra mondiale. E anche solo l’idea di una guerra mondiale (lasciando da parte per un momento le decine di migliaia di vittime innocenti che le guerre mietono, pandemie incluse) evoca nella mia testa sinistri fantasmi, dal punto di vista politico.
Naturalmente non era solo questa la ragione che mi ha spinto ad aprire una intervista ad un vecchio partigiano di 45 anni fa; ci può stare l’amor di simmetria (se esiste una intervista sul fascismo ed una intervista sul capitalismo, perchè non ci deve essere una intervista sull’antifascismo?), ci può stare anche un approfondimento sia pur blando di quello che è accaduto negli anni dal 1919 al 1925, stimolato anche e soprattutto da quella inquietante e bellissima lettura (che consiglio a tutti) di “M”, di Scurati.
Che uomo Giorgio Amendola! Nessuno, forse nemmeno Sandro Pertini, è capace di impersonare il mondo della resistenza come lui. A 19 anni perde il padre, spezzato in due dalle bastonate delle squadracce mussoliniane: giura una vendetta così feroce che neppure 50 anni dopo, ai tempi di questa intervista, è del tutto compiuta. Il capo partigiano che ordinò l’attentato di via Rasella non si accontenta di contribuire a distruggere il fascismo ma vuole anche garantirsi che i colpi della storia non gli diano la possibilità di tornare. E lo fa anche con questa semplice, lineare, chiara, affilata disamina di 20 anni di esilio, clandestinità e lotta dura.
Quello che fa specie è che in politica Amendola è stato in realtà un moderato. Figlio di un democratico di matrice liberale, è ideologicamente molto più vicino a Giustizia e Libertà ed al partito d’Azione che al comunismo (al quale mi sembra aderisca perchè la forza rivoluzionaria dei rossi meglio si addice alla sua vendetta). Si legge tra le pagine di questo libro l’ammirazione per Emilio Lussu, Carlo Levi, Aldo Garosci, Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e tante altre grandi personalità di primo piano lottarono nel nome di un progetto purtroppo senza futuro.
Anche negli anni settanta Amendola era uomo di Berlinguer. Un uomo la cui idea politica estremamente pragmatica ed aperta all’autocritica, per nulla ideologicizzata su assiomi marxisti (mentre Amendola scriveva questo libro al povero Karl saranno fischiate le orecchie) rendeva adatto al compromesso storico, alla lotta contro le BR partendo da un partito di sinistra, al servizio dello stato in generale. Ne emerge una grande statura istituzionale, che fa capire in modo chiaro e tutto cose cosa voglia dire essere al servizio della democrazia, e questo fattore è una delle ragioni che rendono grande questo libro.
Ma il fascismo? Come è stato possibile che sia accaduto quello che è accaduto? La parte dell’intervista relativa agli anni venti è secondo me la più interessante in assoluto, anche perchè si ritrovano le risposte a tutte le domande che “M” aveva sollevato. L’autocritica, direi quasi l’attacco al PCI ed alle forze democratiche di quegli anni è di una onestà disarmante.
Mussolini ha potuto prendere il potere perchè le altre forze non hanno capito i tempi. I liberali sono rimasti legati alla rassegnazione di Benedetto Croce, che predicava non di attaccare il fascismo ma di prepararsi alla sua caduta, vista come inevitabile (ci sono voluti vent’anni di dittatura e settecentomila morti, ma tant’è). I comunisti ed i socialisti avevano davvero molta carne al fuoco in tempi in cui Lenin e la sua URSS sconvolgevano il mondo: si sono molto più preoccupati del socialismo reale che dell’ Italia, che in quei tempi col socialismo reale non aveva nulla a che vedere.
Alla ricerca di strategie, e nello sforzo di correre dietro al pensiero marxista che improvvisamente sembrava diventato vincente, i politici di sinistra hanno pensato troppo ed agito poco. Agito poco anche in nome di quel determinismo ottocentesco che ha colpito i liberali di cui sopra, laddove nell’epoca delle avanguardie e delle guerre mondiali davvero il mondo dell’ Ottocento era qualcosa di pericolosamente obsoleto.
Il troppo pensiero divide, ed infatti la nascita del PCI in quegli anni spacca in due la sinistra in un momento in cui avrebbe dovuto essere più unita che mai. Il marxismo feroce ha reso deterministi i comunisti dell’epoca. Li ha resi passivi, certi dell’inevitabilità di una rivoluzione che era tutto meno che inevitabile, come la storia ha dimostrato. Li ha resi certi che il popolo era pronto a rivoltarsi, senza tenere conto che le masse contadine uscite distrutte dal macello della prima guerra mondiale non volevano affatto la rivoluzione. Volevano quella parte di bottino che era stata loro promessa, e che prontamente i fasci di combattimento hanno sventolato davanti al loro naso. Li ha resi ideologicamente chiusi nei confronti di quella parte di forze interventiste più moderate, consegnando di fatto il concetto di patria alla destra (cosa vera ancora oggi!). Li ha resi insensibili nei confronti di un distacco delle generazioni giovanili dalla politica attiva, con la conseguenza che queste ultime sono andate alla ricerca del salvatore della patria, del capo carismatico al quale delegare tutto, di una azione feroce che permettesse di sfogare la disillusione della guerra e del dopoguerra.
Di come il radicalismo ideologico comunista abbia allontanato l’antifascismo di sinistra da quella potente forza antifascista che era il voto cattolico facente capo a Don Luigi Sturzo, è cosa così banale che forse non vale la pena di parlarne. Con ben altro pragmatismo e cinismo politico si muoverà Mussolini, una volta preso il potere.
In alcuni passaggi sembra davvero che si stia parlando di oggi. L’avvento del populismo, i disastri sociali ed economici causati dalla pandemia, la disaffezione alla politica attiva e l’incapacità di formarsi delle idee sono quelli di allora. Così come l’incapacità di certa sinistra non solo di unirsi, ma anche di guardare alle necessità primarie (l’appellativo di radical-chic, come tutte le esagerazioni, ha un fondo di verità) della gente impoverita ed incattivita. Bisogna davvero tenere sul comodino libri come questo, consapevoli delle inevitabili differenze, per capire certi rischi.
Poi ci sono le lotte clandestine contro il fascismo al potere, la debolezza e le strategie dei partiti in esilio, la sofferta formazione di una nuova democrazia, di cui la guerra partigiana (della quale Amendola parla assai poco qui) è stata la necessaria incubatrice: non è dal punto di vista militare che la resistenza è stata importante. Lo è stata perchè ha reso possibile la formazione di una nuova classe dirigente. Terrò a fianco questo libro, quando aprirò la prima pagina degli altri due capitoli di “M”.
Ma anche quando verrà il momento di nuove elezioni politiche. Secondo me bisognerà ricordarsi di verificare l’atteggiamento che terranno i nuovi candidati nei confronti di certi temi.
Nel frattempo 5 stelle. Secche, pulite, brillanti.
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