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Colle di Tora (Rieti)- Valle del Turano-Biblioteca DEA SABINA
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Colle di Tora (Rieti)- Valle del Turano
BREVISSIMI CENNI STORICI-Sulla Valle del Turano e Colle di Tora le notizie storiche non sono molte e frammentarie ma sappiamo co ncertezza che in epoca preromana sorse qui una città Sabina denominata Tora o Tiora, l’esatta ubicazione di questo antico centro è ancora controversa, numerosi resti però sono ancora visibili nei monti circostanti il lago e in prossimità di Colle di Tora (Mura au Pizzu, Mura a’ Rocca, Mura dei Frainili e Rocca del Castellano). Questa antica città fu sabina e ricordata da Autori dell’antichità classica tra cui Varrone, Dionigi d’Alicarnasso e Plinio; è inoltre ricordata anche in numerosi documenti medievali del IX secolo (Regesto e Chronicon Farfensi).
Dopo la fine del Grande Impero, Collepiccolo e la Valle del Turano, insieme a Rieti e al resto della Sabina, attraversarono un lungo periodo di sconvolgimenti e un tumultuoso susseguirsi di invasioni e governi fino a quando non vennero definitivamente incorporati nello Stato Pontificio. Nel VI sec. i Longobardi divisero l’Italia in diciassette Regioni e trentasei Ducati Più precisamente, la Sabina andò a costituire in parte il “Patrimonium Sancti Petri” e fu inclusa nel territorio del Ducato di Spoleto. Con l’affermarsi delle autonomie locali, Colle di Tora, insieme agli altri centri vicini (Castel di Tora, Pozzaglia, Malamorte, Turania ecc) entrarono a far parte della Massa Torana, per lungo tempo proprietà dell’Abbazia di Farfa. Verso la metà del secolo VIII Colle di Tora e tutta la Massa Torana passarono sotto la giurisdizione papale.
Colle di Tora, un paese dalle case bianche, arroccato su una penisola che si protende nelle acque del Turano. Colle di Tora si presenta cosi, in un’affascinante cornice naturale che esalta le bellezze di questo centro dagli illustri antenati: si, perché Colle di Tora potrebbe stare anche dentro questo slogan, suggestivo, ma fondato. Infatti una città di nome Tora è ricordata da diversi ed importanti autori dell’antichità, primo fra tutti Dionigi d’Alicarnasso che riferisce della presenza in questo luogo del culto di un oracolo. L’ubicazione esatta di questo centro è stata però sempre molto controversa: dai documenti medievali, riferiti alla chiesa di Sant’Anatolia, si può dedurre che Tora sorgesse nel centro della Sabina, certamente non distante dall’attuale paese. Compreso durante l’età romana, come tutta la zona del Turano, nella regione Valeria, Colle di Tora in epoca longobarda faceva parte del gastaldato Turano. In seguito troviamo “Collepiccolo” il nome che indicava Colle di Tora fino al 1864 incluso nei paesi della cosiddetta Massa Turana, dipendente a partire dal IX secolo dall’importante e potente abbazia di Farfa.
Le frequenti incursioni di Saraceni ed Ungari – una tragica costante del nono e decimo secolo – determinarono probabilmente la nascita di un fortificato nucleo abitato, all’origine del paese quale oggi lo vediamo. Nel XIII secolo Collepiccolo entrò a far parte dei possedimenti dei Brancaleoni, una potente famiglia originaria della Romagna che con un suo ramo collaterale, quello degli Andalò, arriverà a dominare Bologna.
Agli inizi del XV secolo, la signoria su Collepiccolo passò agli Orsini del ramo di Castel Sant’Angelo. Questa casata tenne il paese fino al 1634. In quell’anno l’ultimo signore di cognome Orsini, e che rispondeva all’insolito nome di Maharbale, vendette il feudo ai principi Borghese.
Collepiccolo non assurse mai a grandi dimensioni: da un censimento compiuto nel 1713 apprendiamo che le famiglie del paese erano 60, per un totale di 350 abitanti.
Una piccola comunità quindi, dove l’assistenza spirituale era garantita da due sacerdoti ed un chierico, e quella sanitaria dalle sporadiche visite di un chirurgo.
Edificata su uno sperone roccioso che si protende nel lago del Turano, questo paese è senz’altro il più legato al grande bacino artificiale. Nel 1731 venne inaugurata la nuova chiesa del paese, dedicata a San Lorenzo e la cui prima pietra era stata collocata qualche anno prima, col contributo finanziario del principe Borghese. Con l’instaurazione della Repubblica Romana, al seguito dei tumultuosi avvenimenti della Rivoluzione francese, Collepiccolo, come tutta la Sabina, fu compreso nel dipartimento del Clitunno, con capitale Spoleto, uno degli otto dipartimenti nei quali era stato diviso lo Stato Pontificio.
Colle di Tora (Ri) Informazioni
Altezza sul livello del mare: 542 metri
Temperatura invernali: da -4° a +18°
Temperature estive: da +16° a +25°
Prefisso telefonico: 0765
Codice di avviamento postale: 02020
Distanza da Rieti: 30 km
Distanza da Carsoli: 24 km
Abitanti: 440
Nome abitanti: “collepiccolesi”
ANTRODOCO (Rieti)-Chiesa Santa Maria Extra Moenia-Biblioteca DEA SABINA
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ANTRODOCO (Rieti)-Chiesa Santa Maria Extra Moenia
Descrizione-Antrodoco-Autentico tesoro d’arte medievale (è monumento nazionale) appena fuori l’abitato. La si vuole edificata sulla vestigia di un tempio pagano dedicato a Diana (sec.V^) vicino ad un cimitero cristiano. Gli indizi di costruzione romana sono totalmente scomparsi sotto i lavori di ripristino susseguitisi nelle varie epoche; restaurata nel IX e X sec., fu poi ampliata nel XI e XII sec. La chiesa è nominata dal Papa Anastasio IV in una bolla del 1154 e la sua consacrazione, avvenuta sotto il Vescovo di Rieti Gerardo nel novembre 1051, fu sanzionata dallo stesso Federico I nel dicembre 1178. L ’interno è a tre navate; nella parte superiore dell’abside è affrescata un’immagine del “Redentore benedicente”. La facciata è a capanna con tetto irregolare e rivestimento con pietre grezze, sul portale notevole l’arco semicircolare sorretto da un architrave ornato di foglie e di animali stilizzati; ai lati le due colonne con capitelli a fogliame risultano addentrate rispetto alle colonne e ai semipilastri che sorreggono l’arco stesso. Nella torre campanaria, a sinistra della facciata, ben visibile l’alternarsi di monofore, bifore e trifore la cui varietà del materiale presente, conferma chiaramente i vari interventi di restauro. La pittura meglio conservata è lo Lo Sposalizio di S. Caterina d’Alessandria, databile alla prima metà del XV sec.. Rilevante dal punto di vista architettonico, a destra della Chiesa, il Battistero di S.Giovanni a pianta esagonale; nella sua collocazione non ha raffronti nella zona configurandosi come caratteristica tipica delle Regioni del Nord Italia. L’interno presenta un interesse notevolissimo per gli affreschi sulle pareti stilisticamente appartenenti a pittori umbro- laziali-abruzzesi del tardo trecento che danno luogo a dei cicli: Storie di Giovanni Battista, Fuga in Egitto e Strage degli Innocenti . Notevole appare il Giudizio Universale sopra la porta del Battistero. Pregevoli gli affreschi della Pietà e la figura del Precursore. Da poco sono stati completati i lavori di restauro sugli affreschi della chiesa e del battistero.
© 2021 MiC – Pubblicato il 2020-04-14 18:00:35 / Ultimo aggiornamento 2020-06-22 11:38:56
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La poesia di Ernesto Naso- «poeta degli oppressi»-Biblioteca DEA SABINA
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La poesia di Ernesto Naso- «poeta degli oppressi»
Articolo di Bruno Gabrielli-
«Poeta degli oppressi»Ernesto Naso: così lo definisce Nino Agnello, figura di spicco della letteratura agrigentina degli ultimi cinquant’anni, concludendo la sua dotta rivisitazione di Ove rapina luce (1953), Gemito della creazione (1970) e Il grido degli oppressi (1976) che rappresenta il cuore del libretto*. In particolare, poeta degli oppressi del suo (e nostro) profondo Sud amato senza veli, contemplato nei violenti chiaroscuri della sua accecante bellezza e delle sue plurisecolari ingiustizie.
E tale è stato Ernesto Naso – pastore valdese del quale ricorrono quest’anno il novantesimo anniversario della nascita e il trentesimo della morte – non solo con le poesie delle tre raccolte appena menzionate e con altre pubblicate postume per l’occasione, ma anche con la sua predicazione, dal pulpito e «fuori tempio», per tutti coloro che hanno avuto il privilegio di incontrarlo, di leggerlo, di ascoltarlo, di intrecciare le loro biografie con la sua, dai suoi famigliari «secondo la carne» a quelli «secondo lo Spirito», dalla nativa Riesi – in quella Sicilia centrale che allora, soprattutto a causa del soffocante potere della mafia, rappresentava uno dei territori più miseri d’Europa – alle Puglie (Orsara e Taranto), da Bergamo alla Toscana (Pisa e infine Firenze) e, per brevi periodi, in altri luoghi.
Ne sono testimoni, fra gli altri, l’amico e fratello nel ministero Ennio Del Priore, ideatore e curatore del libretto; il figlio maggiore Paolo, autore dell’introduzione; il pastore Salvatore Ricciardi, del quale viene ripubblicato in calce il necrologio del 1986 per Ernesto; e pure, nel suo piccolo, il sottoscritto, che tramite Ernesto e Paolo Naso, attratto proprio dalla passione di entrambi per la causa degli ultimi, fin dalla sua adolescenza fu portato da Bergamo a conoscere e ad amare a sua volta, tutti insieme, il Mezzogiorno d’Italia, il protestantesimo e Gesù Cristo.
Come il professor Agnello non manca di puntualizzare nei suoi commenti, dal punto di vista stilistico la poesia essenziale, ma pure straordinariamente evocativa di Ernesto Naso è figlia della sua ricca cultura letteraria e in particolare delle sue frequentazioni dei grandi «ermetici» del primo Novecento: Quasimodo, Ungaretti, Montale e altri ancora. Ma la sua ispirazione, soprattutto nella scelta dei temi più ricorrenti – le pene, lo sfruttamento e l’ansia inappagata di riscatto di braccianti, operai e prostitute; la nostalgia degli emigrati per la terra d’origine, fatta di amore-odio; le grandi e le piccole violenze; guerra e pace; la denuncia dello sfacelo dell’ambiente naturale e l’anelito a una nuova creazione; fede e dubbio; mal di vivere e, nonostante tutto, mai soffocata speranza – è figlia della spontanea ribellione di uno spirito mite, umile e sofferto, ma pure convinto che chi crede nel Crocifisso risuscitato possa reagire positivamente all’altrimenti insopportabile contraddizione fra le tenebre del tempo presente e la luce del Regno che viene.
Luce che il pastore Naso sapeva cogliere per sé e riflettere per altri non solo con la lettura, lo studio e la predicazione della parola di Dio o con la sua creatività evangelizzatrice e diaconale, quest’ultima assai vivace soprattutto durante i 13 anni del suo ministero pastorale a Taranto e nella vasta diaspora di quella nostra chiesa, ma anche con la contemplazione delle meraviglie del creato, con la sua poesia e con la musica di Johann Sebastian Bach, della quale era maestro al pianoforte e che per lui era non solo arte nobilissima, ma anche sublime preghiera. Luce che splende anche tra le tenebre del nostro mondo di oggi, perché le tenebre non l’hanno mai sopraffatta, né riusciranno mai a sopraffarla.
La poesia di Ernesto Naso. 1926-1986, a cura di Ennio Del Priore, Domodossola, PrintGrafica Pistone, 2016, pp. 60, euro 12,00.
Giosuè Carducci -La personalità e la parabola politica -Biblioteca DEA SABINA
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Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Giosuè Carducci
La personalità e la parabola politica di Giosuè Carducci è emblematica del complesso rapporto tra intellettuale e movimento politico, continuamente oscillante tra esigenze di autonomia e necessità organiche di un’organizzazione strutturata. Se l’individualismo lirico rischia di sfociare in posizioni idealistiche, l’intellettuale organico può essere schiacciato da meccaniche che ne cancellano l’autonomia. Articolo di Roberto FINESCHI
Se le vacanze in Maremma ti portano a Bolgheri e Castagneto, non si può non pensare a Carducci; e se per hobby ti occupi di teoria politica, non puoi non metterti a riflettere su una figura il cui sviluppo politico e intellettuale fornisce spunti interessanti. Innanzitutto bisogna tenere a mente che il nostro è, intellettualmente, un gigante: la sua poesia può piacere o meno o essere più o meno “invecchiata”, ma si tratta di un individuo colto, brillante, audace, reinventare delle metrica classica nella modernità, grande critico letterario. Talvolta non si percepisce fino in fondo la dimensione veramente assoluta di siffatte menti, come quelle di Dante, Leopardi ecc., le cui capacità sono letteralmente sbalorditive; studiare attraverso la poesia il loro lato più umano e intimo occulta talvolta la loro assoluta eccezionalità. Ma non di questo intendo parlare.
Carducci è figlio di un medico mazziniano, democratico radicale, che in prima persona si espone nelle lotte nazionali, ma con una evidente dimensione sociale. Nel ’48 a Castagneto – pure lì c’è la rivoluzione – riesce a mediare tra rivendicazioni contadine e rigidità padronale trovando un compromesso che garantisce una, seppur parziale, redistribuzione delle terre incolte (le “preselle”). Profondamente anticlericale, non teme le conseguenze delle sue prese di posizione e questo porta la famiglia a peregrinare a lungo per l’opposizione dei potentati locali (abbandonano Bolgheri perché durante la notte prendono a fucilate l’abitazione del “mangiapreti”). Giosuè ha quello spirito e quelle idee; la sua lotta è culturale e intellettuale; celebra “Satana” (nel senso della razionalità, della mondanità, di tutto ciò che lo spirito religioso tradizionalista considerava peccaminoso e stigmatizzabile con il “ il vade retro Satana”, come commenta lo stesso Carducci in una sua lettera) [1]. Il suo non è dunque un astratto patriottismo nazionalistico, ma è imbevuto di cultura democratica, di progresso intellettuale e civile [2]. È un intellettuale impegnato, convinto e battagliero, di un classicismo moderno, erede di Giordani e di quella tradizione in cui si può inserire pure il Leopardi delle poesie civili o della Ginestra.
Lo sviluppo dello Stato italiano “unito” è una doccia fredda: il parlamentarismo trasformistico, il particolarismo e l’interesse laido schifano lui come tutti quei giovani più sinceri ed entusiasti. Come reagisce? In due direzioni diverse. Da una parte, anche a causa dei lutti familiari, con toni intimistici, per certi aspetti pre/decadenti, in cui il senso di morte e fallimento prende piede (i molti fini che entusiasticamente si era posto non sono stati raggiunti) [3]; dall’altra, politicamente, assume posizioni conservatrici, sia celebrando indirettamente la corona (anche se sotto la maschera dell’apprezzamento per la regina e con l’idea del sovrano simbolo dell’unità nazionale) [4], sia condividendo il dirigismo crispino, in cui si vede l’unico severo argine alla generale corruttela e pochezza morale della vita politica. La frustrazione esistenziale lo porta però anche a un conformismo borghese rassegnato alla vita così com’è: le molte amanti, non nascoste alla moglie, con alcune delle quali ha delle vere e proprie relazioni di anni, ma che amanti restano; le abbuffate (le “ribotte”) con gli amici in cui si mangia e si beve fino allo sfinimento. Si potrebbe forse fare un audace collegamento con La grande abbuffata di Marco Ferreri, [5], in cui sesso e cibo diventano l’unica pratica esistenziale affermativa, ma palliativa e alla fine autodistruttiva, di fronte alle convenzioni sociali delle quali tutti i protagonisti sono perfetti rappresentanti.
Questo schematicissimo quadretto mi suggerisce l’idea di un Carducci in qualche modo esempio d’eccellenza di un soggettivismo politico destrutturato, in questo senso “idealistico”, che non si riduce a lui ma che è rappresentativo di un atteggiamento che ha almeno due limiti di fondo: il primo è la distanza tra ideale e reale, vale a dire l’incapacità di comprendere in maniera sufficientemente precisa come la propria azione si collochi all’interno di dinamiche complesse. Questo è probabilmente, più in generale, uno dei limiti storici dei Democratici risorgimentali, non del solo Carducci. Il secondo è l’incomprensione del fatto che il soggetto del cambiamento storico non può essere una somma di individualità: per essere collettivo deve essere strutturato, altrimenti il senso di questa parola resta rarefatto e operativamente inefficace, almeno superato il momento dell’acme rivoluzionario. Qui, di nuovo, la superiorità operativa e istituzionale dei moderati rispetto alle trame cospirative dei democratici; e la più chiara “coscienza di classe” dei primi su interessi e obiettivi di lungo termine rispetto ai secondi.
La questione politica dell’organizzazione si sviluppa sia internamente a un movimento come struttura, sia esternamente come processo egemonico all’interno della società. Si tratta di un corpo collettivo che si individua per il ruolo funzionale degli individui che lo compongono, ma che si articola – e si è articolato storicamente – come pluralità. Il concetto di blocco storico implica all’interno dello stesso schieramento progressista rapporti tra classi diverse – classi che si definiscono funzionalmente per il loro ruolo nella riproduzione sociale – tra le quali esiste un rapporto di predominanza direttiva – egemonia – e che insieme mirano e talvolta riescono a “fare epoca”, vale a dire a determinare un cambiamento della configurazione economico-sociale complessiva. L’organizzazione e l’egemonia di un soggetto di questo tipo è complessa, stratificata e organica. Come organismo ha delle “regole” di funzionamento che, nella prospettiva della salvaguardia del corpo complessivo, trascendono l’individuo e impongono restrizioni all’arbitrio individuale, richiedono quella che una volta si chiamava disciplina. Come organismo ha un corpo che per diventare egemone al di là dei confini della propria organizzazione, soprattutto in periodi di “guerra di posizione”, ha braccia e gambe istituzionalizzate nella società, come sindacati, giornali, associazioni culturali, e via dicendo. Una presenza tangibile, anch’essa regolata.
L’organizzazione vive e si regge nella misura in cui la sua pratica e i suoi obiettivi rispondono alle esigenze storiche delle classi che la compongono e opera una trasformazione all’interno della società. Essendo essa stessa una piccola società, ha le proprie regole, le proprie convenzioni, i propri protocolli, il proprio conformismo che rischiano di diventare stretti, se non soffocanti, nella misura in cui l’organizzazione non ha una pratica corrispondente alle suddette esigenze storico-trasformative e quindi instaura dinamiche coercitive e conflittuali soprattutto con quei membri più originali e sensibili che intendono prima di altri le criticità, ma che non necessariamente sono capaci di formulare alternative. Meccanismi che creano delle fronde sono più o meno costanti, il problema storico sorge quando le dinamiche degenerative sono tali e così forti da mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’organizzazione; non solo per la pressione di forze esterne antagoniste, ma per l’incapacità interna di elaborazione e adeguamento.
Che c’entra questa assai succinta silloge di una teoria del partito, di evidente gramsciana memoria, con Carducci? Il poeta-vate, cantore ufficiale dell’alta cultura dell’Italia umbertina, mi pare rappresentativo della difficile dialettica esistente tra grande intellettuale – quale Carducci fu – e movimento politico. E più in generale tra idealità intellettuale e pratica politica. Da spavaldo democratico, repubblicano e radicale, il nostro finisce, banalizzando all’eccesso, frustrato e conservatore. Si potrebbe tirare in ballo il velleitarismo piccolo-borghese di fronte alla dura legge dei grandi processi storici, ma sarebbe una spiegazione solo parzialmente vera e scolastica, che non terrebbe conto dei problemi oggettivi di fronte ai quali l’intellettualità si pone, con le sue esigenze di libertà di pensiero e di critica in un contesto organizzativo in cui ciò potrebbe essere consentito solo entro certi limiti, talvolta particolarmente angusti. Intellettuale organico non può però significare intellettuale meccanico (smetterebbe infatti automaticamente di essere un intellettuale).
Carducci ebbe, in qualche modo, il suo partito, la massoneria, come molti altri intellettuali e politici democratici del tempo. Essa però non aveva un contenuto di classe veramente alternativo al progetto moderato, se non nel radicalismo anticlericale e in un repubblicanesimo democratico, che però non andava a toccare gli squilibri economico-sociali che affliggevano l’Italia. Si trattava in sostanza di un contenuto non radicalmente alternativo e quindi velleitario rispetto alle grandi questioni storiche dell’epoca. Il trasformismo era nelle cose stesse e Carducci si limita a rivendicare un onore e un legalismo di contro alla corruttela del presente, per il quale vede soluzioni nel dirigismo. Un vicolo cieco. Pur nella ristretta prospettiva qui proposta, egli può dunque essere rappresentante emblematico – e mostrare le criticità – di come si sviluppi una dinamica oggettivamente complessa tra un certo tipo di alta intellettualità potenzialmente rivoluzionaria e progressista e un’organizzazione politica pratica e ideale che cerchi di essere egemone. [6] Al di fuori dell’organizzazione non pare si riescano a ottenere successi operativi duraturi, ma la sua gestione è complessa e affetta da continue instabilità oggettivamente possibili. Riferimenti al presente – o al passato recente – non sono puramente casuali.
Articolo di Roberto FINESCHI
Note:
[1] A Satana è una sua celebre ode del 1863 (uscita con varianti in innumerevoli pubblicazioni e raccolte successive). Nella lettera a Giuseppe Chiarini del 15 ottobre 1863 scrive: “È inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola «Vade retro Satana»; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all’autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitate”.
[2] Carducci scrive su “Il popolo” di Bologna nel dicembre 1869: “Io, oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E […] io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita su l’universo”.
[3] In Traversando la Maremma toscana (1885) recita: “Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò”. Già nel 1874 in Davanti San Guido, 103-04, diceva “E quello che cercai mattina e sera / Tanti e tanti anni in vano, è forse qui”.
Per scherzare su quel “cadrò”, nel senso del “morirò”, si consideri che in una lettera a Adele Bergamini del 18 aprile 1885 Carducci affermava: “Il mio naturale si fa più triste. Quando Le dicevo che non stavo bene, non era romanticismo. La morte mi ha tirato la prima scampanellata [paresi a un braccio – ndr]. Non vorrà la potente signora aspettar troppo ch’io vada. E sonerà di nuovo”. Carducci morirà nel 1907, circa… 22 anni dopo.
[4] Celebri, per es., le poesie Piemonte o Alla regina d’Italia.
[5] La Grande Bouffe, di Marco Ferreri, celebre film del 1973 con Andréa Ferréol, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli.
[6] Come è ben noto, Gramsci affronta diffusamente questi temi nei suoi Quaderni. Interessante come discuta proprio di questo – cioè del rapporto tra elaborazione intellettuale e la tesi della teoria come “ancella” della pratica – in relazione alla soluzione “d’ufficio” da parte di Stalin, che pare non dispiacere a Gramsci, del dibattito tra i “dialettici” capitanati da Deborin e i “meccanicisti” capitanati da Bucharin (Quaderno 11, §12). In questo passo Gramsci commenta: “Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di auto-limite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica e culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica, e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche ecc.”.
Fonte- Associazione La Città Futura- | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi–
Abbazia di FARFA- Reliquia della Sacra Spina-Biblioteca DEA SABINA
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Abbazia di FARFA- Reliquia della Sacra Spina
Nella Cappella delle reliquie si conserva gelosamente una Spina della Corona di Nostro Signore, recata a Farfa al tempo delle Crociate e tenuta sempre in grande considerazione.
Intorno a questo insigne cimelio della Passione si ricorda questo episodio.
Nel 1482 Alfonso, duca di Calabria, figlio di Ferrante, re di Napoli, avendo accampato il suo esercito nei prati di Granica, visitò l’Abbazia farfense. Fu mostrata al duca, assieme alle altre reliquie, anche la sacra Spina; il discorso cadde su altre Spine della stessa corona conservate in vari luoghi; allora Alfonso mostrò una di queste Spine che egli portava sempre addosso, fu messa a confronto con quella di Farfa e si vide che era differente.
Il duca, turbato da questo fatto, propose che fosse sperimentato, per mezzo della prova del fuoco, quale delle due e quella autentica. Fu acceso un fuoco nell’atrio della basilica e alla presenza di tutti i monaci, dello stato maggiore del duca Alfonso ed altri ecclesiastici , il duca getto per primo , tra le fiamme, la sua reliquia che brucio subito, quindi fu gettata alle fiamme la reliquia farfense che il fuoco “non ardì toccare”. La reliquia farfense fu gettata più volte tra le fiamme e il prodigio si rinnovò sempre. Dinanzi a questo fatto prodigioso il duca cadde in ginocchio e bacio il sacro cimelio e subito dopo lo riconsegnò , con devozione , al Priore raccomandandogli di custodire la sacra Spina con devozione e con miglio cautela.
Fonte-l’Abbazia di Farfa di D. Ippolito Boccolini –
L’Imperiale Abbazia di Farfa di Card. Ildefonso Schuster (Vaticano 1921)
Le foto sono di Franco Leggeri-
Conoscere l’Abbazia
Nel cuore dell’antica terra Sabina, ai piedi del monte Acuziano, in un’atmosfera di mistico silenzio, che avvolge anche il caratteristico Borgo che la circonda, sorge la storica Abbazia di Farfa, immersa nel fascino di una natura verdeggiante e sorridente, nella fresca aria mattutina che si respira intorno, riscaldata da un dolce sole i cui raggi oltrepassano i rami degli alberi, prima di giungervi.
L’abbazia di Farfa è un luogo particolarmente attraente, ricolmo di pace, di serenità, di semplicità, come sono semplici i monaci benedettini che vivono, in un clima di profonda spiritualità, la loro vita quotidiana tutta dedita al Signore e alla Madonna, alla quale essa è dedicata.
Fu dichiarata monumento nazionale nel 1928, per la bellezza architettonica ed artistica del monastero e della basilica, testimonianza di una storia più che millenaria tra periodi di grande splendore e periodi di decadenza o addirittura di distruzioni e dispersioni, seguiti sempre da rinascite e ricostruzioni, sì che ancor oggi l’abbazia è un centro di cultura e di spiritualità. Straordinaria anche la fioritura della santità, dal primo al secondo fondatore, rispettivamente S. Lorenzo Siro e S. Tommaso da Moriana, fino ai Beati Placido Riccardi e Ildefonso Schuster.
Tante le visite di re, imperatori e papi fino a quella di Giovanni Paolo II il 19 marzo 1993. Migliaia i visitatori che oggi la frequentano per ammirare il patrimonio di cultura e di arte che essa custodisce e rende accessibile e per il desiderio di trascorrere qualche ora o qualche giorno di riposo fisico e spirituale, usufruendo anche delle strutture di accoglienza e di ristoro, nonché del parco e delle passeggiate nella proprietà della Fondazione “Filippo Cremonesi“, che comprende pure le caratteristiche abitazioni del Borgo di Farfa con le graziose botteghe gestite da abili artigiani.
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte-Biblioteca DEA SABINA
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Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte- Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Editore Laterza
Descrizione-Nell’indagine di Benedetto CROCE si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Articolo scritto da Domenico BULFERETTI per la Rivista PEGASO n°5 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Descrizione-
Nell’indagine crociana si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Biografia di Benedetto Croce
Biografia di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neoidealismo.
Presentò il suo idealismo come «storicismo assoluto», giacché «la filosofia non può essere altro che “filosofia dello spirito” […] e la filosofia dello spirito non può essere altro che “pensiero storico”», ossia «pensiero che ha come contenuto la storia», che rifugge ogni metafisica, la quale è «filosofia di una realtà immutabile trascendente lo spirito». In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Con Giovanni Gentile – dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti – è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell’idealismo e del neoidealismo italiano che assieme a Gentile contribuì a fondare, partendo dall’aspra critica fatta al materialismo storico e alla filosofia di Marx in Materialismo storico ed economia marxista.
La dottrina crociana improntata alla storiografia ebbe grande influenza politica sulla cultura italiana; Croce, in particolare, con la sua “religione della libertà, è ricordato come guida morale dell’antifascismo”, tanto che fu anche proposto come Presidente della Repubblica italiana. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, insieme con Luigi Einaudi.
Alcune riserve sulla sua estetica, sulla critica letteraria (in particolare sulla sua definizione di «poesia») e sulla superiorità attribuita alla filosofia rispetto alle scienze nell’ambito della logica, tuttavia, sono state espresse in tempi successivi.
D’altra parte, il pensiero di Croce, specialmente quello politico, ha goduto di apprezzamenti più recenti e di una “riscoperta” anche al di fuori dell’Italia, in Europa e nel mondo anglosassone (specialmente gli Stati Uniti d’America), dov’è riconosciuto, al pari di pensatori come Karl Popper, come uno dei più eminenti teorici del liberalismo europeo e un autorevole oppositore di ogni totalitarismo. Il liberalismo politico crociano distinto dal liberismo economico fu causa di disaccordo con un altro importante esponente del liberalismo italiano come Luigi Einaudi.
Fonte-Wikimedia Italia
Encyclopédie- Dictionnaire sciences- arts et des métiers 1751- Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
– Opere rare e preziose-
Diderot, Denis – d’Alembert, Jean-Baptiste Le Rond
Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1751
Descrizione-Encyclopédie-Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1751-’65 [ultimo volume: Neufchastel, Samuel Faulche]. In 2°. 404 x 270 mm. – Table Analytique et Raisonée du Dictionnaire… Paris/Amsterdam, Panckoucke-Marc-Michgel rey, 1780. In 2°, 2 voll. – Recueil de Planches sur le s Sciences…Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1762-1772. – Nouveau Dictionnaire pour servir de Supplement. Paris, Panckoucke, Stoupe, Brunet, 1776-’77. In 2° 5 voll. incluso un tomo di Planches au Supplement, 1777. 244 tavole. Insieme completo di 35 volumi, di cui 23 di testo e 12 di tavole. Legature coeva in bazzana con dorso a sei nervi e taglia spruzzo, cinque volumi presentano una diversa legatura, sempre in bazzana ma con un vitello più scuro e i tagli sono rossi. Ex libris al contropiatto Aldo Maffey.
Nota a chiariento
L’Encyclopédie è stata originariamente concepita dall’editore, André le Breton, come una semplice traduzione della Cyclopaedia di Chambers, dall’inglese al francese. Denis Diderot, in qualità di editore, insieme al matematico Jean Le Rond d’Alembert, spinse il lavoro ben oltre tanto da essere annoverata, in qualità di editore insieme al matematico Jean Le Rondessere d’Alembert, nella tradizione illuminista. Un gran numero di scrittori del sec. XVIII contribuirono al lavoro e Diderot, in qualità di editore, prendeva gli scritti e li rimodellava sottilmente alla sua veduta del mondo.
La Transumanza: Storia -Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
La Transumanza: Storia
La Transumanza: Storia
L’Abruzzo ha un volto molto antico: quello dei suoi tratturi, bracci, tratturelli che ne segnano il territorio, là dove sono stati conservati e tutelati . Le antiche cartine d’Abruzzo mostrano una sorta di sistema vascolare di una regione che attraverso l’ “erbal fiume silente”, come d’Annunzio nella sua poesia “I pastori” definiva il tratturo, si alimentava ed alimentava la propria economia,quella della transumanza.
Il termine deriva da “ trans” forma avverbiale: attraverso e humum: terra : andare attraverso con il significato di trasferimento di persone e bestiame in estate ai pascoli della montagna e in autunno al piano.
Questo “sentiero naturale tracciato dalle greggi”, viene da molto lontano, perché già all’epoca dei Romani si individuavano come
“semita aspera qua pecora in montes ire solent” (aspri sentieri sui quali sogliono transitare le pecore sui monti). Su questi “sentieri” si svolgevano le partenze ed i ritorni, con un fenomeno chiamato
appunto transumanza.
Tratturo, che sui dizionari viene definito “largo sentiero erboso per far transitare greggi e armenti dalla Puglia ai monti degli Abruzzi e viceversa” è un termine moderno, che si incontra poco nella letteratura italiana, salvo nell’ ”Alcyone”, e nel libro terzo delle “Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi” del D’Annunzio.
La Transumanza: Storia
La transumanza è un sistema di allevamento antico diffuso in molte aree del bacino del Mediterraneo che prevede in estate lo sfruttamento dei pascoli dislocati a quote più elevate sui territori montani e d’inverno il trasferimento delle greggi in pianura anche a distanza di centinaia di Km . Nel caso dell’Abruzzo la transumanza orizzontale veniva praticata già in epoca italica dai Sanniti che si scontrarono con i Dauni della Puglia proprio per il controllo dei pascoli invernali. Durante il periodo romano la transumanza ebbe un forte incremento grazie ad una efficiente organizzazione dello stato. Alcune importanti città romane sorsero proprio sui tratturi per controllare lo spostamento delle greggi tra esse Peltuinum e Juvanum in Abruzzo e Sepino in Molise.
La seconda rivoluzione economica nel campo della pastorizia si ebbe alla metà del XV secolo per opera di Alfonso d’Aragona re di Napoli che prese a modello il sistema in uso da tempo nella penisola iberica dei pastori spagnoli chiamata mesta.Riorganizzò le vecchie “calles” romane che presero il nome di tratturi. Era tutto un mondo che si muoveva, tutta un’economia che si sviluppava intorno a queste vie che organizzata con precise leggi fiscali, è servita a sostenere per secoli le finanze del Regno di Napoli e delle Due Sicilie.
Alfonso I d’Aragona, con la Prammatica del 1 agosto 1447, istituì la Dogana per la “Mena delle pecore” in Puglia. Le terre di pascolo, dette locazioni, erano del Demanio Regio e si potevano utilizzare solo pagando la “fida”, un canone annuo, fissato in rapporto al numero delle pecore , ogni 100 pecore davano diritto ai pastori, detti locati, di utilizzare 24 ettari di terre non arate, chiamate poste.
Un sistema fiscale, duro per i piccoli pastori, che ha fruttato enormi entrate, fino al maggio 1806, quando Giuseppe Bonaparte, re di Napoli abolì le servitù sul Tavoliere di Puglia.
Con l’unità d’Italia alcuni dei tratturi principali furono assimilati alle strade nazionali e protetti, altri furono riassorbiti dall’agricoltura. Questo sistema di percorsi naturali, storicamente sedimentato, era incardinato su pochi valichi che limitavano e canalizzavano i collegamenti con il resto della penisola.
Una società gerarchica
Le greggi transumanti appartenevano a grandi proprietari detti armentari , ricchi possidenti che investivano i loro capitali nell’allevamento e nella produzione della lana. Ma anche gli ordini e le congregazioni religiose e i feudatari locali e gli esponenti dell’alta borghesia possedevano numerose greggi. I piccoli proprietari locali che per necessità si recavano nei pascoli invernali si riunivano in società per ridurre le spese dell’attività. Tra i pastori vigeva una ferrea organizzazione gerarchica .
A capo stava il padrone che si serviva del “massaro di pecore” che organizzava tutte le attività connesse al pascolo. Il “casaro” era addetto alla lavorazione e trasformazione del latte , il buttero sovrintendeva agli animali da soma e agli spostamenti logistici durante il periodo della transumanza. I “ pastori” erano addetti
alla custodia delle greggi . Ad ognuno veniva affidata una “ morra” di pecore composta da circa 200 animali , infine venivano i più giovani detti “ pastoricchi” a cui erano affidati i compiti minuti e umili .
Una vita dura
La vita dei pastori era fatta di sacrifici e rinunce. I pastori transumanti a settembre riprendevano mestamente la via delle Puglie dove rimanevano fino a maggio quando, dopo la fiera di Foggia, iniziava il viaggio di ritorno verso la montagna natia e le famiglie lasciate per molti mesi. Quando tornavano portavano nelle loro bisacce i doni per i loro bambini e le loro spose .
Drammatiche ed epiche insieme, le partenze a fine settembre separavano i nuclei familiari, affidati alle madri coraggio delle montagne abruzzesi, che si riunivano per poche settimane da maggio a giugno in un’atmosfera di ritrovati sentimenti e passioni e poi di nuovo in montagna nella solitudine dei pascoli in attesa di ridiscendere in paese . La vita del pastore non era facile
caratterizzata da privazioni e stenti. D’estate, quando seguiva le greggi sui pascoli della montagna era costretto a vivere all’interno delle grotte adibite sia a stazzo , ricovero degli animali durante la notte, sia a rifugio del pastore , e quando non vi erano ripari naturali costruivano rifugi in terra o in pietra o anche capanne a tholos dalla copertura a cupola a base circolare o quadrata. Il cibo scarseggiava ed era costituito essenzialmente da ricotta siero e pancotto una
semplice minestra fatta con il pane secco e condita con poco olio. Si mangiava carne solo quando qualche pecora moriva , per cause accidentali o divorata dai lupi. La giornata era lunga e scandita dagli astri. All’alba si alzavano quando in cielo splendeva il pianeta Venere a sera riposavano quando compariva la “ stella del pecoraio”.
Nel silenzio delle lunghe ore passate a guardia del gregge i pastori
impiegavano il tempo intagliando il legno, leggendo i racconti cavallereschi e le gesta dei Paladini di Francia o scrivendo i loro pensieri e le loro riflessioni ma anche risentimenti e rancori incidendoli sulla roccia . Esiste infatti una letteratura di tipo pastorale scritta sulle pietre della Maiella che va dal 1600 ai nostri giorni. Molti di umili origini avevano imparato a leggere e a scrivere proprio intorno al fuoco dello stazzo. Un’altra occupazione dei pastori era
suonare le zampogne o le ciaramelle strumenti musicali tradizionali che portavano sempre con loro durante il lungo periodo della transumanza.
La cultura della Transumanza: testimonianze, usi,rituali
Lungo le antiche vie i pastori transumanti portavano con sé diversi strumenti a dorso di muli ed asini. Per le loro necessità utilizzavano bisacce, tascapane, ciotole, posate di legno, corni di bue, inoltre sgabelli a tre piedi, secchi di legno, attrezzi per la tosatura, collari antilupo. Alcuni di questi oggetti venivano anche realizzati artigianalmente dagli stessi pastori. Durante gli spostamenti e le soste, i pastori raccoglievano verdure e radici commestibili che cucinavano a sera. Erano soggetti a continui pericoli come furti di
bestiame, assalti di lupi, morsi di serpenti perciò nella tradizione orale i pastori vengono rappresentati mentre dormono “con un occhio solo”. Per questa loro condizione di vita , quindi, l’invocazione della protezione divina dava la forza necessaria per affrontare i rischi del viaggio ed i sacrifici del mestiere, infatti, lungo i tratturi e nei territori attigui ,sono sorte durante i secoli molte chiese caratterizzate da un’arte strettamente legata al mondo pastorale esse erano molto importanti non solo dal punto di vista spirituale che ma anche commerciale. E’ in prossimità di queste strutture, infatti, si svolgevano anche delle fiere per la commercializzazione di prodotti artigianali e gastronomici.
Diversi furono i protettori dei pastori transumanti. Tra questi, San Michele al Gargano, San Nicola di Bari e la Madonna Incoronata di Foggia. L’anno religioso per i pastori si scandiva due volte l’anno, quello estivo e quello invernale e questi due cicli coincidevano con i festeggiamenti dei santi protettori della transumanza.
Lungo il tracciato tratturale, nel corso dei secoli sono sorte anche taverne, fontane, riposi. Le taverne, che erano delle osterie attrezzate con servizi ricettivi per i pastori e grosse stalle per gli animali, erano tante e frequentate sia da pastori che da viandanti occasionali. Gli abbeveratoi sono disseminati lungo tutti i percorsi , ma, per la necessità di acqua sorgiva, sono concentrati nelle zone medie e alte dei tracciati. Molte di queste architetture sono arrivate fino a noi e vengono ancora oggi utilizzate dai pastori stanziali. Questo patrimonio archeologico, seppur quasi del tutto sconosciuto, presenta notevoli caratteri di qualità ed originalità.
La rete tratturale
La rete tratturale che arriva ad uno sviluppo massimo di circa 3000 km, eracaratterizzata da connessioni e nodi. Così i tratturi, fiumi d’erba larghi fino a 111 metri, secondo le rigide regole che ne stabilirono la larghezza massima per evitare conflitti con i contadini, non erano solo corridoi di scorrimento, ma strutture dotate di servizi e attrezzature per uomini e animali. Lungo il percorso i pastori e gli armenti potevano trovare ricoveri dove trascorrere le notti più fredde, recinti, abbeveratoi e isolate chiese rupestri di cui sono rimasti stupendi esemplari . Tali punti di sosta rappresentavano momenti in cui la socializzazione dava luogo a scambi culturali tra persone provenienti da realtà geografiche diverse ancor più considerando la ridotta mobilità dei tempi.
I principali tratturi erano:
L’ Aquila – Foggia, detto Tratturo Magno. Si sceglieva tra due piste parallele:
Manoppello Guardiagrele Montenegro o
Bucchianico , Chieti , Lanciano
Celano – Foggia. Aggirava Pratola Peligna e
Sulmona, sosta ai riposi di Cesale e Taverna
del Piano, presso Rivisondoli. Costeggiava
Roccaraso, Lucito e Lucera.
Pescasseroli – Candela. Raggiungeva Castel
di Sangro, poi seguiva due tracciati: i monti
del Matese o il percorso sannitico
Pescolanciano – Campobasso
La Via dei Tratturi
“ E vanno pel tratturo antico al piano quasi per un erbal fiume silente su le vestigia degli antichi padri…” Così D’Annunzio descrive la discesa dei pastori verso il mare nella sua poesia “I pastori”.
Dopo la via Francigena e ll Cammino di Santiago il percorso dei “tratturi” le lunghe vie d’erba che collegavano la l’Abruzzo montano con il Tavoliere di Puglia, è tra le esperienze più suggestive. Consente infatti di ripercorrere gli stessi tracciati usati dai Sanniti, dai Romani, e dal 1200 in poi, da centinaia di pastori , milioni di pecore e carovane di muli carichi di masserizie che camminavano silenziosamente in mezzo a quelle ampie distese d’erba. E’ come fare un viaggio nel passato, nelle tradizioni nella cultura e nella religiosità delle genti d’Abruzzo che da sempre hanno legato la loro vita alla pastorizia transumante.
Partendo dai pascoli estivi del Tavoliere di Puglia si risale gradatamente tutto il Molise interno fino ad arrivare nei pascoli estivi delle montagne abruzzesi abitate ancora dal Lupo Appenninico, dall’Orso Bruno Marsicano antagonisti di sempre delle greggi e dei pastori.
Oggi di quelle antiche vie erbose rimane ben poco, come rimane ben poco di quella civiltà pastorale che le aveva generate , l’ ultimo
spostamento a piedi di pastori e pecore pare sia avvenuto nel 1972
Eppure una sensibilità nuova verso il passato sta coinvolgendo persone sensibili associazioni e istituzioni affinché queste testimonianze, o ciò che rimane di esse, non precipitino nell’oblio, insieme all’immenso patrimonio di storia e cultura che portano con sé.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email :
mancinellielisabetta@gmail.com – l0347@hotmail.com
I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato , da “ Transumanza e società” di Raffaele Colapietra e da “ Pastori, lanaioli e contadini” di Aurelio Manzi e Giuseppe Manzi.
Arch. MAURIZIO PETTINARI -Centrale idroelettrica Farfa 1 (RI)-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Arch. MAURIZIO PETTINARI -Centrale idroelettrica Farfa 1 (RI)
Sergio Dotto 18/05/2014 Italia, Musei monumenti e parchi 2.
Ricerca storica dell’Architetto Maurizio Pettinari.Il 25 febbraio 1899 l’ingegner Edoardo Ugolini presentò domanda alla Prefettura di Perugia per derivare 1,20 m3/sec di acqua dal fiume Farfa, presso le le fornaci di Santa Maria a Valle Basetti utilizzando un salto di 86,50 m, al fine di alimentare la ferrovia elettrica Rieti-Corese e ottenne la concessione con i decreti emanati l’11 luglio e il 6 novembre 1900. Il 28 marzo 1901 fu costituita la Società Romana di Elettricità, che oltre ad acquistare la concessione Ugolini, entrò in possesso delle sorgenti di Càpore (Frasso Sabino), di proprietà del Principe Borghese e la neo costituita azienda affidò all’ingegner Ulisse Del Buono lo studio del progetto per utilizzare le sorgenti Càpore e altre acque del demanio in un’unica derivazione. Il progetto prevedeva la restituzione delle acque presso il fosso Roccabaldesca sotto Mompeo, il salto utilizzato era di 122 m mentre il canale misurava 7 km di lunghezza. La Prefettura di Perugia, il 29 gennaio 1903, esaminò il decreto della nuova concessione, che divenne definitivo il 10 aprile dello stesso anno, tuttavia solo il 23 novembre 1906 fu emanato il decreto che approvò e rese esecutivo il progetto. Nel frattempo l’ingegner Angelo Filonardi, uno dei i fondatori della Società Italiana per le Condotte d’Acqua e successore di Del Buono nello studio del progetto, concepì una soluzione alternativa per l’impianto, mediante un canale derivatore fino a Torre Baccelli, nel comune di Fara in Sabina, con uno sviluppo complessivo di 11,700 km allo scopo per poter sfruttare un salto geodetico di 162,50 metri e di conseguenza poter produrre una maggior quantità di energia, a fronte di una spesa maggiore per realizzare le opere idrauliche necessarie. Il nuovo progetto, presentato il 21 maggio 1907 dagli ingegneri Filonardi e Waldis, ottenne il decreto l’8 luglio 1909. Il lungo iter si concluse con il progetto definitivo, opera dell’ingegner Enrico Anagni, subentrato al Filonardi dopo la scomparsa di quest’ultimo che fu presentato il 1 marzo 1910 e approvato il 9 giugno 1910. Finalmente nell’agosto 1911 iniziarono i lavori sotto la direzione di Enrico Anagni, che si avvalse della collaborazione degli ingegneri Gino Coari e Stefano Bellini. Tuttavia tra il 1912 al 1914 fu costruita poco meno della metà del canale derivatore, mentre con opportune modifiche progettuali la lunghezza della derivazione fu ridotto a 10,5 km, con una portata massima derivabile di 8 m3/sec. In seguito allo scoppio della Prima Guerra Mondiale la costruzione proseguì molto lentamente, ma sotto la direzione dell’ingegner Giordano i lavori ripresero con vigore alla fine del 1918, mentre per la parte elettrica l’incarico fu affidato all’ingegner Oscar Sismondo, capo servizio della Società Anglo Romana. Nonostante le difficoltà tecniche e finanziarie nel febbraio 1923 l’impianto idroelettrico entrò in funzione con due gruppi turbina Riva e alternatore Westinghouse da 5.000 kW ciascuno, alimentati da due condotte forzate realizzate dalla ditta Antonio Bosco di Terni. Per innalzare il valore della tensione, inizialmente furono istallati quattro trasformatori monofase Westinghouse da 4500 kVA ciascuno, che elevavano la tensione prodotta dagli alternatori da 6.000 Volt a 60.000 Volt della linea elettrica, in seguito sostituiti da un unico trasformatore trifase. Contestualmente furono realizzate anche le abitazioni per il direttore della centrale e le famiglie degli operai. Una linea elettrica a 60.000 Volt, lunga circa 3 km, collegava la centrale alla sottostazione elettrica di Colonnetta “La Memoria” situata nel comune di Montopoli di Sabina, dove, unitamente agli elettrodotti ad alta tensione provenienti dalla cabina “Roma” dell’elettrochimico di Papigno (TR), alimentava le utenze romane. Nel 1933, per fare fronte a una crescente domanda di energia elettrica, la Società Romana di Elettricità realizzò, nei pressi di Torre Baccelli, un bacino di carico con una capacità di circa 140.000 m3, che consenti l’installazione di una terza condotta forzata e di un altro gruppo turbo-alternatore Riva-Tecnomasio Italiano identico ai precedenti, destinato alla funzione di riserva. Le acque del Farfa, restituite al suo corso naturale dal canale di di scarico della centrale, furono ulteriormente utilizzate tramite un canale di derivazione dalla centrale idroelettrica Farfa 2, situata non lontano dalla stazione ferroviaria di Poggio Mirteto, inaugurata nel 1936. Nel 1944, durante in secondo conflitto mondiale, la centrale Farfa 1, la sottostazione di Colonnetta La Memoria e la centrale Farfa 2 furono minate e gravemente danneggiate dalle truppe tedesche in ritirata, ma appena possibile la Società Romana di Elettricità ripristinò gli impianti restituendoli alla loro piena efficienza. Nel 1963, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la centrale divenne proprietà dell’ENEL, poi nel 1985 fu automatizzata per essere gestita da posto di teleconduzione di Montorio al Vomano (TE). Negli anni recenti grazie a Enel Green Power, società multinazionale italiana operante nel settore di mercato delle energie rinnovabili e Michele Antonilli, docente presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Aldo Moro” di Passo Corese, l’impianto idroelettrico è stato teatro di numerosi eventi didattici e culturali nell’ambito della manifestazione “Centrali Aperte”, divenendo uno dei rari esempi di officina idroelettrica ancora dotata di macchinario originale, in quanto la corsa frenetica all’acquisizione dei certificati verdi ha determinato la perdita irreparabile di una molte impressionante di gruppi, organi di comando e componenti elettromeccanici storici. Visitando Farfa 1 colpisce positivamente la presenza di due targhe apposte nel 2007, che ricordano vari ingegneri che contribuirono alla realizzazione dell’opera, tra cui Aldo Netti, nato a Stifone, che portò l’energia elettrica a centotrenta comuni del Lazio e dell’Umbria e operò anche nelle Marche. E’ incredibile che sia Narni sia Terni si siano dimenticate di lui, membro tra l’altro del consiglio di amministrazione delle Acciaierie ternane, al punto che non si è meritato neanche l’intitolazione di una via o di una piazza nella autoproclamata “capitale dell’archeologia industriale”.
Fonte: M. Antonilli, M. Pietrangeli, “Storia dei vari sistemi di trasporto intorno a Roma, a Rieti, alla Sabina e la centrale ENEL di Farfa”, 2011.